Per la Cassazione i detenuti hanno diritto all’intimità: limiti al controllo visivo di Federica Pozzi Il Messaggero, 5 gennaio 2025 Annullata la decisione di un giudice che negava a un uomo incontri privati con la moglie nel penitenziario di Asti: “Le relazioni affettive sono tutelate dalla Costituzione”. Vietare colloqui intimi tra coniugi in carcere è incostituzionale. Lo dice la Cassazione e non solo. Già un anno fa la Corte Costituzionale aveva stabilito che, compatibilmente con le esigenze del singolo, avere incontri non sorvegliati è un diritto del detenuto. Lo scorso 11 dicembre gli Ermellini hanno ribadito con una sentenza questo principio, accogliendo il ricorso di A.S., 34enne di Formia, recluso nel carcere di Asti. La casa circondariale piemontese ha negato all’uomo un colloquio di intimità con la moglie, perché “la struttura non lo consente”. Un provvedimento impugnato dal detenuto dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Torino che però ha emesso, lo scorso 5 settembre, un’ordinanza con la quale ha dichiarato inammissibile la sua impugnazione. Secondo il giudice la richiesta del 34enne non configurerebbe “un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale”. Di qui il ricorso in Cassazione, con la pronuncia degli Ermellini in favore del detenuto: “La libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato” e i colloqui senza sorveglianza possono essere negati solo per “ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina, ovvero dalla pericolosità sociale del detenuto o da ragioni giudiziarie per l’imputato”. La legge è chiara, non lo è la sua applicazione. “Abbiamo da poco concluso un tavolo di lavoro con il Dap - ha spiegato Irma Conti, Garante nazionale delle persone private della libertà personale - Le nostre proposte anche in merito agli incontri saranno vagliate dagli organi competenti che decideranno quale sarà la migliore soluzione da adottare”. “Credo però che la concessione di permessi ad hoc, per poter effettuare questi tipi di colloquio al di fuori del carcere, sia la soluzione più pratica”, ha spiegato il Garante. Il ricorso presentato da A.S. si basa sulla sentenza della Corte Costituzionale del 26 gennaio 2024, che ha sancito il diritto del detenuto di svolgere colloqui intimi senza il controllo a vista del personale di custodia, “se non ostano ragioni di sicurezza”. Per questo la Cassazione ha accolto il ricorso del 34enne e ha disposto l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio, sempre alla Sorveglianza di Torino, per un nuovo giudizio. La valutazione del magistrato è stata giudicata “non corretta”, a partire proprio dalla sua motivazione. Il giudice, infatti, nell’ordinanza con cui respingeva l’impugnazione del detenuto aveva motivato la decisione con il fatto che la sua richiesta rappresentava una “mera aspettativa” e non un diritto, quindi secondo lui non avrebbe dovuto neanche ricorrere allo strumento del reclamo giurisdizionale. La sentenza della Corte Costituzionale - scrivono gli Ermellini nelle loro motivazioni - ha stabilito l’illegittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento penale, nella parte in cui “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Questo perché l’obbligo “assoluto e inderogabile” di essere controllati durante gli incontri, è stato giudicato come una “compressione sproporzionata e irragionevole della dignità del detenuto e della libertà della persona a questi legata da una stabile relazione affettiva”. Il controllo a vista obbligherebbe anche il (o la) partner per anni a coltivare una relazione “monca”, pur essendo estranea al reato e alla condanna. Quindi è una questione che riguarda non solo il detenuto, ma anche chi gli è legato affettivamente. Mancano però luoghi adatti all’interno delle carceri italiane per fare in modo che quello che è stato riconosciuto come un diritto del recluso venga rispettato. All’atto pratico, anche se la legge da un anno lo consente, questo tipo di incontri è ancora impraticabile. “Le carceri dovrebbero avere una sorta di stanza che assomigli il più possibile ad una casa, gli incontri non possono certo avvenire in una cella”, ha commentato Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. “Ma non si tratta soltanto di intimità con il partner - aggiunge Bernardini -, pensiamo a quanto sarebbe importante per un genitore detenuto incontrare il proprio figlio in un ambiente accogliente, così da non fargli vivere il trauma del carcere”. D’accordo su questo punto anche Irma Conti, Garante nazionale dei detenuti, meno sulle cosiddette “stanze dell’amore”: “Se pensiamo a carceri come Regina Coeli, dove ci sono più di mille persone, non basterebbe una stanza. Sarebbe più logico concedere dei permessi, dove le esigenze connesse alla pena lo consentano, per poter far incontrare i detenuti e i loro cari fuori dalla casa circondariale”. “I ministeri competenti - ha concluso Conti - stanno valutando quale sia la soluzione migliore, il mio augurio è che qualunque essa sia, venga applicata in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale”. I colloqui intimi sono un “diritto” e non una “mera aspettativa” di Riccardo Radi terzultimafermata.blog, 5 gennaio 2025 Il Magistrato di sorveglianza ritiene che la richiesta di un detenuto di avere un colloquio intimo con la compagna sia una mera aspettativa, interviene la Cassazione e ricorda che è un diritto. La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 8/2025 ha stabilito che non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Fatto - Con ordinanza emessa in data 05 settembre 2024 l’Ufficio di sorveglianza di Torino ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da A.S. contro il provvedimento con cui la casa di reclusione di Asti gli ha negato un colloquio in intimità con la propria moglie, con la motivazione che la struttura non lo consente. Secondo il giudice la richiesta del detenuto non configura un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale. Decisione - La Suprema Corte premette che non vi sono dubbi circa la proponibilità del ricorso in cassazione avverso il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza. L’impugnazione proposta dal detenuto deve essere qualificata come un reclamo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen., dal momento che egli ha impugnato il diniego opposto dall’istituto penitenziario alla sua richiesta di poter esercitare un diritto, correttamente rivolgendosi al magistrato di sorveglianza, stante la sua competenza stabilita dall’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. pen. Il giudice adito ha dichiarato il reclamo inammissibile, adottando la procedura consentita dall’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., e avverso il suo provvedimento la norma stessa stabilisce la ricorribilità in cassazione. La declaratoria di inammissibilità è stata motivata dal fatto che la richiesta del detenuto rappresenterebbe una mera “aspettativa” e non un diritto, per cui lo stesso strumento del reclamo giurisdizionale da lui adottato sarebbe errato. La valutazione del magistrato di sorveglianza, però, non è corretta. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 emessa il 26 gennaio 2024, ha stabilito l’illegittimità dell’art. 18 Ord. pen. “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa … a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. I giudici, infatti, hanno ritenuto, peraltro riprendendo valutazioni già esposte nella precedente sentenza n. 301/2012 di esito contrario, che la libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, diritto che lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare, con una previsione astratta e generalizzata, che non tenga conto delle condizioni individuali del detenuto e delle sue prospettive di risocializzazione, in quanto ciò si tradurrebbe in una lesione della dignità della persona. L’obbligo di controllo visivo del personale di custodia durante i colloqui del detenuto, previsto come assoluto e inderogabile, è stato ritenuto costituire una compressione sproporzionata e irragionevole della dignità del detenuto e della libertà della persona a questi legata da una stabile relazione affettiva, che risulta limitata, anche per anni, a coltivare detta relazione, pur essendo estranea al reato e alla condanna. La Consulta ha pertanto concluso che l’impossibilità, per il detenuto, di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus dei suoi rapporti familiari e in un pregiudizio nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, che, se non giustificato da ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina, ovvero dalla pericolosità sociale del detenuto o da ragioni giudiziarie per l’imputato, viola gli artt. 27 Cost. e 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU. Alla luce delle esplicite valutazioni contenute in questa pronuncia, non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Il reclamo proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma, essendo relativo all’esercizio di un diritto che il detenuto riteneva illegittimamente pregiudicato dal comportamento dell’istituto penitenziario di appartenenza, doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen. Il provvedimento impugnato, pertanto, deve essere annullato, con rinvio al magistrato di sorveglianza di Torino, perché provveda sul reclamo proposto. Ora Nordio impone il software farlocco anche per i processi di Vincenzo Bisbiglia e Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2025 Con una circolare del 31 dicembre 2024 il ministero porta App nelle aule penali. Ma il programma è lento e caotico: pm e giudici in rivolta. La data del decreto dice già molto, se non tutto: 27 dicembre 2024. Fra Natale e Capodanno il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio ha dato via a una riforma (sulla carta) epocale: l’estensione al telematico di quasi tutto il processo penale. Almeno questo è ciò che l’esecutivo italiano vorrebbe far credere all’Europa, per incassare i soldi del Pnrr. Peccato che una relazione del Csm, frutto del lavoro di sei mesi di una commissione tecnica, l’11 dicembre avesse avvertito il governo: App, il software che dovrebbe governare la transizione, è una patacca. La sperimentazione alle sole archiviazioni è già stata un fallimento: molte Procure, tra cui Napoli, sono state costrette a tornare al cartaceo, in attesa di tempi migliori. In alcuni uffici le archiviazioni sono addirittura “crollate fino al 96%”. Da mesi, procuratori, pm, cancellieri, dipendenti amministrativi denunciano malfunzionamenti di ogni tipo di App, l’applicativo che dovrebbe digitalizzare tutto ciò che fino a questo momento si faceva su carta: il programma si pianta, le procedure sono inutilmente farraginose, il personale non è formato adeguatamente, mancano i pc e quelli che ci sono spesso sono vetusti. Più in generale, le procedure sono diventate più complicate di prima e i tempi più lunghi. Nelle parole del Csm il software ministeriale è “inidoneo” e la sua estensione al resto dell’attività penale è “impensabile”. Senza un nuovo rinvio, si legge nella relazione già anticipata dal Fatto, si rischia di avere “gravissimi problemi nel funzionamento della giurisdizione”. Incurante del parere dell’organo di autogoverno della magistratura e di migliaia di giudici e pm che lavorano sul campo, Nordio è andato avanti come se nulla fosse. E ora ciò che si prospetta dal 7 gennaio, sempre secondo il Csm, è “la paralisi di settori cruciali”. Da martedì, infatti, dovranno transitare su App anche tutti gli altri atti penali, compresi quelli del dibattimento. Poche le eccezioni e tutte a tempo: il termine per il passaggio al telematico è stato esteso al 31 marzo per le iscrizioni degli indagati, i giudizi abbreviati, direttissimi e immediati, e a fine anno per le misure cautelari e le impugnazioni in materia di sequestro probatorio. L’allarme ieri è stato lanciato anche dall’Anm: “Malgrado le numerose criticità rilevate da pressoché tutti gli uffici chiamati alla sperimentazione del sistema, si è proceduto non prendendo in adeguata considerazione la scarsità di risorse e di infrastrutture tecnologiche dei tribunali. Si agisce come se gli uffici fossero stati, tutti e da tempo, dotati di postazioni pc con accesso ad App, nelle aule d’udienza e nelle camere di consiglio. Si opera come se il personale amministrativo e giudiziario fosse stato dotato di una idonea struttura di assistenza per la immediata gestione delle criticità. E tali rilievi sono soltanto alcuni di quelli formulati dal Csm, di cui il Ministero ha tenuto conto in minima parte”. L’Anm segnala anche come le prime due giornate di sperimentazione siano bastate a fare arrivare “numerosissime segnalazioni di errori di sistema”. Ma perché tutta questa fretta? Il processo civile, ormai da anni, è già tutto telematico. Ma l’abbandono della carta è stato un processo lento e graduale, durato circa otto anni, e basato sull’osservazione del lavoro effettivo degli uffici. Al contrario, la transizione digitale del processo penale avviene in un regime semi-emergenziale, perché è stata inserita dal governo italiano negli obiettivi legati ai fondi del Pnrr, che scadono nel 2026. Una riforma epocale, come detto, che rischia però di restare, almeno per ora, solo sulla carta (metaforicamente e non solo). Il decreto ministeriale mette al riparo preventivamente migliaia di processi dal rischio nullità: se gli atti non passeranno al digitale, non saranno invalidati. E agli uffici giudiziari resterà una facoltà: quella di restare al cartaceo, nel caso in cui il sistema non dovesse palesemente funzionare. Un escamotage previsto dalla legge, che è già stato usato nella prima fase di sperimentazione. L’avvocata che difende lo sfregiatore: “Mi insultano, ma faccio il mio dovere” di Cristina Pastore La Stampa, 5 gennaio 2025 Colpita da una raffica di insulti perché difende un uomo che ha tentato di sfregiare l’ex lanciandole addosso dell’acido muriatico. La sua “colpa”? Da avvocata, e soprattutto da donna, garantire l’assistenza legale a chi voleva sfigurare un’altra donna. Elisa Indriolo non l’aveva messo in conto questo fiume di veleno che ha preso a sgorgare dai social il giorno in cui si è scoperto che era lei, come avvocata d’ufficio, ad assistere l’operaio di 63 anni che a Verbania ha fatto irruzione nel negozio di parrucchiera della ex compagna con due bottiglie di acido muriatico ed è stato fermato solo dall’accorrere di alcune persone allarmate dalle urla di terrore della donna. Le hanno scritto di tutto: insulti, offese, parole denigratorie, cattivi auspici: spero tu finisca in carcere, che ti tocchi la stessa sorte di quella donna. “Ma io ho fatto solo il mio dovere”, spiega la quarantenne avvocata. Avvocata, perché ha accettato di difendere quell’uomo? “Perché non potevo fare altrimenti. Mi sono messa a disposizione per questa funzione e sabato 28 dicembre quando è stato arrestato, ero di turno. Si può rifiutare solo a fronte di situazioni di incompatibilità, ma non è questo il punto: nell’ordinamento repubblicano rispondiamo alla funzione sociale di garantire a ogni persona la possibilità di difendersi. Anche ai meno abbienti, o a chi un avvocato di fiducia non ce l’ha, come in questo caso”. Avesse potuto scegliere, avrebbe rifiutato? “Quando ho scelto questa professione, a cui si arriva dopo un lungo percorso, sapevo a cosa sarei andata incontro. Noi giuriamo su un dettato deontologico, equiparabile a quello dei medici. Così come loro devono garantire cure a qualsiasi persona, noi dobbiamo fare lo stesso con la difesa, con lealtà, correttezza, dignità e competenza. Sempre. Questo gli odiatori da tastiera non lo comprendono. Qui siamo di fronte a un arresto in flagranza, dove le circostanze nella sostanza sono abbastanza delineate, ma quante volte, senza il lavoro degli avvocati, degli innocenti sarebbero stati condannati ingiustamente?”. I suoi colleghi e le associazioni di categoria le hanno espresso pubblicamente sostegno. L’aiuta sentire questa vicinanza? “La loro presa di posizione è a tutela dell’intera categoria, non solo mia. Sarebbe potuto accadere a qualunque collega. Lo spirito dei tempi è segnato anche dalla delegittimazione del nostro ruolo. Si invocano pene esemplari, ma l’accertamento dei fatti in sede processuale da qualcuno viene considerato perdita di tempo. Una civiltà si misura anche dalla capacità di rispettare regole e diritti, un principio da applicare a qualunque cittadino. Comunque, certo, la solidarietà è importante: mi ha aiutato a superare un episodio molto spiacevole e la frustrazione che ne è seguita. Però...”. Però? “Resta purtroppo l’amarezza desolante nel constatare l’abbrutimento culturale e umano in cui stiamo scivolando. Io ho fatto solo il mio dovere e per questo sono stata assalita”. Il veleno su di lei è frutto di ignoranza o cosa? “Sicuramente confusione. Ci si dimentica, o non si sa, che svolgiamo un compito garantito dall’articolo 24 della Costituzione, quello che sancisce la difesa di qualsiasi cittadino. È diritto inviolabile in ogni grado del procedimento penale. Pur vedendo cosa succede nel mondo, in Paesi in cui si viene condannati, anche a pene molto dure se non capitali, con processi sommari, non da tutti, qui da noi, viene percepito il valore di questa garanzia. Noi non difendiamo il reato e per questo non dobbiamo essere assimilati al suo autore. Il nostro compito è metterlo nelle condizioni di avere un giusto processo. È una conquista di civiltà”. Gli insulti l’hanno ferita come avvocato o come donna? “Come persona. Il commento che più mi è rimasto impresso è che avrei dovuto finire “dentro” anch’io, sostenendo che ho svenduto la mia appartenenza di genere, la mia dimensione e sensibilità femminile, al pagamento di una parcella. Forse non sanno quanto gli avvocati d’ufficio ricevano di compenso, e in che tempi. E poi non è questione di uomo o donna: siamo professionisti chiamati a svolgere un mandato con diligenza, indipendenza e correttezza. Io sono in pace con me stessa: ho fatto e farò quello che devo, al meglio delle mie capacità”. Orfani di femminicidio, il Governo taglia i fondi di Fabrizio Geremicca Il Manifesto, 5 gennaio 2025 La legge di bilancio appena approvata non stanzia nulla per il contrasto alla povertà educativa minorile, così rischiano di sparire i progetti del Terzo settore che avevano trovato una copertura dal 2016. “È aberrante che l’orfano debba fare domanda per avere un sussidio e che questo non venga erogato immediatamente. Devono essere le istituzioni ad andare dagli orfani e non viceversa”. Giuseppe Delmonte, 45enne milanese, la cui madre fu assassinata nel 1997 dall’ex marito, aveva fatto questa denuncia nel corso di un convegno sugli orfani di femminicidio che si era svolto in Campania. Chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che il governo Meloni si apprestava a non rifinanziare il fondo dedicato al contrasto alla povertà educativa minorile, con il quale si sostengono anche i progetti per gli orfani di femminicidio. Il fondo fu alimentato con circa 360 milioni dalle Fondazioni bancarie nel triennio 2016 - 2018, a seguito di un protocollo d’intesa col governo e con il Terzo settore. La legge di Bilancio 2019 lo confermò per il triennio 2019 - 2021 e mise a disposizione 55 milioni annui di credito d’imposta a favore delle Fondazioni, che ne potevano fruire per il 65% degli importi versati e a carico delle quali si prevedeva un contributo annuo di circa 80 milioni. Prorogato più volte fino al 2024, il fondo ha un valore complessivo attuale di circa 800 milioni. Destinati però a esaurirsi. “Si interromperanno - protesta Fedele Salvatore, capofila con la cooperativa Irene 95 del progetto Respiro (Rete di Sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli Orfani speciali) - anche i percorsi di accompagnamento e sostegno a quelli che hanno perso un genitore per la violenza dell’altro. Noi ne seguiamo un centinaio nell’Italia meridionale, dove gli orfani di femminicidio sono circa 300”. Ha dunque scritto una lettera a Giorgia Meloni perché ripristini la dotazione e garantisca “misure stabili e coraggiose per contrastare la povertà educativa”. Il trauma di bambini e ragazzi che perdono un genitore perché assassinato dall’altro o magari da un nuovo compagno lo raccontano le testimonianze raccolte da Roberta Lippi nel suo podcast: “Respiro, storie di orfani di femminicidio”. Emergono vicende come quelle dei figli di Stefania, ammazzata dal convivente (morbosamente geloso) a Sant’Antimo, in provincia di Napoli, quando i due bambini avevano rispettivamente 19 mesi e 4 anni. Affidati alla nonna Adriana, che fu lasciata da sola a provare a raccontare al più grande dei due (il bambino chiedeva della mamma) una indicibile verità. Fu Adriana a dover chiedere aiuto agli assistenti sociali, perché nessuno si fece carico del problema. Le mandarono su sua insistenza uno psicologo per un paio di colloqui: “All’inizio - racconta nonna Adriana - lo Stato è stato assente. Solo le associazioni mi hanno aiutato, anche sotto il profilo economico”. “Con la dotazione del fondo - spiega Salvatore - abbiamo istituito equipe multidisciplinari specialistiche per affrontare il trauma post evento degli orfani, abbiamo attivato percorsi psicoterapeutici, scolastici e formativi. Sono state finanziate attività sportive e viaggi. Abbiamo inoltre reclutato specialisti per interloquire con le procure, i carabinieri, i tribunali per i minorenni. Svolgiamo attività di formazione nelle scuole e accompagniamo le famiglie affidatarie nelle pratiche per accedere ai contributi della legge 4 del 2018”. È quella che prevede una indennità di 300 euro al mese, istituisce borse di studio e un indennizzo di circa 50mila euro ai familiari della vittima. “Ben pochi la conoscono - conclude - tra i familiari delle vittime e tra gli assistenti sociali”. La morte di Enrico Lombardo: “Chi lo ha ucciso è ancora in servizio” di Paolo Di Falco Il Domani, 5 gennaio 2025 Il 42enne è morto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019 a Spadafora, frazione del Comune di Messina, nelle mani dello Stato. Era sotto casa della sua ex, che chiamò due volte i soccorsi. La ex moglie, però, oggi chiede ancora verità e giustizia. I dubbi sulle indagini archiviate. “Non mi interessa, non mi interessa”. Queste le ultime parole che, con un ginocchio di un carabiniere in borghese sulla schiena che preme la sua faccia sull’asfalto, pronuncerà Enrico prima di morire. È la notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019 e a Spadafora, frazione del comune di Messina, il 42enne Enrico Lombardo bussa insistentemente alla porta della sua ex compagna con cui non conviveva più da tre anni. Nonostante questo, i due erano comunque rimasti in buoni rapporti a beneficio dei figli. Lei, vedendolo nervoso, decide di chiamare i carabinieri che, arrivati sul posto, chiamano un’ambulanza. Dal verbale Enrico risulterà “vigile e collaborante” e dopo essersi tranquillizzato i carabinieri lo invitano ad andare a casa. A due ore di distanza, verso l’una di notte, torna sotto casa dell’ex che, spaventata, decide di chiedere nuovamente l’intervento dei carabinieri. Enrico, come accerterà anche l’autopsia, quella sera aveva assunto cocaina. Sostanza di cui, di recente, era diventano dipendente. Una pattuglia giunge sul posto. Due agenti riescono a immobilizzarlo anche attraverso dei colpi ripetuti di manganello. “Vedi che ti carico un colpo in testa” e “non avevo altra scelta” sono le due frasi, attribuite ad uno dei carabinieri presenti sul posto, che riecheggiano nelle diverse ricostruzioni di quella sera. Così la compagna, affacciandosi dal balcone che dà sulla strada, lo vedrà ammanettato ai polsi e sdraiato sul fianco sinistro con una gamba alzata mentre il sangue inizia a sgorgargli dal capo formando una vistosa chiazza sull’asfalto. Sul posto arriva una seconda volante e, come si vedrà dai video realizzati dalla stessa ex, Enrico continuerà a lamentarsi. I momenti successivi mostrano tre carabinieri che, nel tentativo di immobilizzargli anche le gambe, iniziano a sferrargli dei calci. L’uomo cerca di liberarsi ma uno degli agenti lo afferra da dietro. A lui si aggiungono anche gli altri due carabinieri che gli bloccano, rispettivamente, le spalle e le gambe. Enrico urlerà fino a quando la sua voce non diventerà sempre più flebile. Secondo le ricostruzioni resterà con la testa schiacciata sull’asfalto, dalla pressione che uno degli agenti continuerà ad esercitargli sulle spalle, per circa venti minuti. I movimenti di Enrico, con il passare del tempo, si fanno sempre più impercettibili e, ad un certo punto della registrazione, non riescono più a cogliersi. All’1.52 giunge la prima ambulanza senza medico a bordo. Uno dei due soccorritori gli tocca il polso “sentendo un battito debole”. Ne viene allora chiamata un’altra, dotata di medico, che arriva sul posto dopo un quarto d’ora. E lì, a colpire gli operatori, sarà “il volto già cianotico” di Enrico. Saranno loro a caricarlo sulla seconda ambulanza. Ad un tratto, davanti le porte spalancate del mezzo medico, uno degli agenti presenti si fa un segno della croce. Alle 2:47 si attesta il suo decesso per arresto cardiaco. La notizia verrà comunicata all’indomani da un vicino all’ex moglie, Alessandra Galeani, che si recherà subito sul luogo del delitto constatando diverse irregolarità: sarebbe stata innanzitutto gettata dell’acqua - mentre Enrico si trovava in ambulanza - per eliminare la vistosa macchia di sangue formatasi intorno al capo dell’ex marito. Evento a cui avrebbe assistito anche un testimone, mai sentito dal Gip. La Procura di Messina apre un’inchiesta dove ad essere indagati sono il carabiniere che ha immobilizzato Enrico e i tre sanitari del 118 intervenuti. La procura per due volte chiede l’archiviazione, poi nel giugno del 2023 la Cassazione accoglie il ricorso dei familiari e trasmette gli atti al tribunale di Messina per decidere sull’eventuale proseguimento delle indagini. Da Messina fanno sapere che non ci sono ulteriori elementi da valutare. In realtà, come sostiene Alessandra, sono diverse le contraddizioni che meriterebbero di essere approfondite. Dall’esame autoptico emerge che la morte di Enrico è avvenuta alle 2:00, ovvero quando il suo corpo si trovava ancora riverso sull’asfalto. A questo si aggiungono anche altre due considerazioni. Secondo la relazione tecnica medico-legale, l’emorragia innescata dalla ferita sulla fronte sarebbe stata tra le cause dell’arresto cardiaco. È fondamentale capire se a provocarla sia stato l’impatto di Enrico con una cabina Tim nelle vicinanze (evento confermato dalle dichiarazioni di alcuni carabinieri, ma non riscontrato da indagini di laboratorio) o quello con il manganello utilizzato dagli agenti sul quale sono state rilevate due tracce di sangue, di cui una non identificata. Allo stesso modo, stando a quanto scritto nella prima archiviazione del procedimento, “non ci sarebbe nessuna traccia di eventuale soffocamento della vittima”. Affermazione che viene in parte contraddetta da “quell’imponente cianosi” notata da una dei soccorritori e che potrebbe essere legata alla manovra applicata per immobilizzare Enrico. Potrebbe essere stata la compressione del ginocchio esercitata sulla schiena ad impedirgli di respirare. Manovra applicata contravvenendo alle linee guida dell’Arma dei Carabinieri relative agli interventi nei confronti di “soggetti in stato di agitazione psicofisica”. Come sostiene Laura Renzi, coordinatrice campagne per Amnesty International Italia: “La famiglia di Enrico Lombardo è ancora in attesa di conoscere la verità rispetto a ciò che è successo quella notte. Dopo due archiviazioni, il legale ha cercato di far riaprire le indagini ma anche questa possibilità gli è stata negata. Su questa vicenda restano tante ombre e tante domande che non hanno trovato risposta, Una tra tutte: come si possa morire mentre si è nelle mani dello Stato”. Nonostante le archiviazioni e i colpevoli silenzi di un paese dove i dettagli di quel violento pestaggio sono passati di bocca in bocca per poi essere prontamente negati dinnanzi al Gip, Alessandra dopo cinque anni si chiede se sia possibile che chi abbia ucciso Enrico continui regolarmente a indossare una divisa. A risponderle il corpo massacrato e martoriato di Enrico in attesa di giustizia. Stop agli avvocati-dipendenti degli studi legali di Roberto Miliacca Italia Oggi, 5 gennaio 2025 In Italia sono circa 15mila gli avvocati cosiddetti “monocommittenti” che prestano cioè la loro opera in regime di collaborazione esclusiva in favore di uno studio. Ma la Cassazione ha detto che l’avvocato resta comunque un libero professionista, e quindi non può essere considerato un dipendente. Liberi professionisti ma anche dipendenti. in Italia sono circa 15mila gli avvocati cosiddetti “monocommittenti” che prestano cioè la loro opera in regime di collaborazione esclusiva in favore di un altro avvocato, di un’associazione professionale, di una società tra avvocati o di una società tra professionisti. Rappresentano, secondo gli ultimi dati del Consiglio nazionale forense, il 5,7% della professione forense, e, nonostante l’esistenza di una norma che sancisce l’incompatibilità tra professione forense e lavoro parasubordinato, sono una realtà da anni in attesa di una regolamentazione specifica, visto che questi professionisti, per l’attività svolta, percepiscono un compenso in misura fissa o variabile, come fosse uno stipendio mensile, pur svolgendo un’attività che ha natura libero professionale. A sollevare, e a “risolvere” questo tema, è stata, poche settimane fa, la sezione lavoro della Corte di cassazione, che, su ricorso di un avvocato monocommittente, ha ribadito che, nonostante il rapporto di collaborazione con lo studio, il tipo di attività svolta è e resta di lavoro autonomo, e quindi che il rapporto con lo studio non è configurabile come di lavoro dipendente. Questo principio, abbondantemente argomentato dai giudici del Palazzaccio, è uno dei tanti che, nel corso del 2024, sono stati affermati dagli Ermellini nello svolgimento della loro funzione nomofilattica, finalizzata ad assicurare l’interpretazione uniforme della legge. Molti i campi nei quali i magistrati della cassazione sono dovuti intervenire per indicare la linea: dal diritto penale al fisco, dal diritto del lavoro a quello di famiglia. Firenze. Il suicidio a Sollicciano: l’estradizione negata e i “fantasmi” di Salem di Pietro Mecarozzi La Nazione, 5 gennaio 2025 Tra quattro giorni ci sarebbe stata l’udienza di appello. Nel 2023 il detenuto aveva chiesto di scontare la pena in Egitto. Disposta l’autopsia. Tra quattro giorni avrebbe dovuto presentarsi in aula davanti ai giudici della corte di Appello di Firenze. Lì, il suo legale Demetrio Laganà, avrebbe provato a ribaltare la condanna di primo grado a tre anni e tre mesi di reclusione, e ottenere almeno i domiciliari. In aula Salem Ibrahim Khaled, però, non è mai entrato. Perché giovedì pomeriggio, intorno alle 19, ha deciso di togliersi la vita nella sua cella di Sollicciano. Lo ha fatto impiccandosi con un laccio costruito artigianalmente. Ci aveva già provato, senza riuscirci. Dietro le sbarre non voleva rimanerci, Salem. In Italia non voleva rimanerci. “Prima della condanna - spiega l’avvocato Laganà - abbiamo chiesto l’estradizione in Egitto. Il ragazzo voleva tornare dai suoi genitori, a Firenze era solo, aveva qualche amico, ma non se la passava bene. Il giudice decise però per un’estradizione al termine di espiazione della pena”. Recluso per una tentata rapina con coltello (con il quale poi colpì la vittima), il fine pena era previsto per il 2027, anche se dopo un anno passato nel penitenziario fiorentino le speranze di poter trasformare la misura cautelare nei domiciliari erano molte. “Ci siamo incontrati in cercare poco prima di Natale - continua Laganà -, abbiamo parlato del processo, gli ho spiegato che c’erano buone probabilità di uscire dal carcere, era tranquillo, mi ha sorriso. Non riesco a spiegarmi quanto accaduto”. Il ragazzo era in contatto con la famiglia in Egitto: chiamava spesso i suoi genitori, raccontava le sue giornate tutte uguali, le sue crisi, le poche amicizie e i fantasmi di una vita che le stava scivolando via. “Non mi ha mai parlato delle condizioni di Sollicciano”, aggiunge il legale, “ma continuava a lamentarsi perché non andava d’accordo con gli altri detenuti”. Salem era recluso nel reparto di accoglienza e aveva compiuto in passato gesti autolesionistici, motivo per cui era tenuto in osservazione. La pm Linda Gambassi, intanto, ha disposto l’autopsia sul corpo del giovane prima di riconsegnarlo alla famiglia, che si è già mossa per il rimpatrio della salma. “Sono rimasto molto colpito stamani nel leggere di un ragazzo di 25 anni suicida - ha invece commentata il presidente della Toscana, Eugenio Giani -. Sono veramente troppi i suicidi nelle carceri italiane. Noi ci dobbiamo preoccupare delle nostre, in Toscana, chiederò un incontro al ministro della Giustizia perché si possa dare il senso di una svolta da un punto di vista delle condizioni carcerarie”. Nel 2024 sono stati 64 i tentati suicidi nel carcere fiorentino, e due i detenuti che si sono tolti la vita. “È un carcere del tutto inadeguato per le funzioni che deve svolgere - dice l’assessore al welfare del Comune di Firenze, Nicola Paulesu -. Inaccettabile per Firenze. La commissione politiche sociali e della salute, sanità e servizi sociali è al lavoro per approfondire e relazionare in consiglio comunale in merito all’attuale stato di Sollicciano”. E ancora: “Per l’amministrazione lo abbiamo detto molte volte, Sollicciano va completamente riformato - aggiunge -, non ha le condizioni minime di dignità per chi sta scontando una pena e per quelli che ci lavorano”. Per Sollicciano, con la direttrice Antonella Tuoni assente per malattia, Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha nominato due nuovi vicedirettori che dovrebbero entrare in servizio nei prossimi giorni. Si tratta di Valentina Angioletti e Valeria Vitrani. Firenze. Sollicciano, polemica dopo l’ultimo suicidio nel carcere: “Situazione inaccettabile” di Luca Serranò La Repubblica, 5 gennaio 2025 Il detenuto, trovato impiccato in cella, era inserito nel centro clinico. L’assessore Paulesu: “Nessuna dignità”. Il Sappe: “Siamo al collasso”. “Già in passato aveva posto in essere gesti autolesionistici, pertanto era stato inserito nel reparto Centro clinico. Purtroppo la situazione degli istituti penitenziari toscani è al collasso, soprattutto nell’Istituto fiorentino”. Monta la polemica sul dramma del detenuto egiziano di 25 anni che venerdì pomeriggio si è tolto la vita - come altri prima di lui - in una cella del carcere di Sollicciano. Una tragedia su cui sono ancora in corso gli accertamenti della procura, ma che torna a testimoniare le condizioni del sistema penitenziario, come denunciato, tra gli altri, dal segretario per la Toscana del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Francesco Oliviero: “Da tempo chiediamo interventi risolutivi all’amministrazione penitenziaria a livello locale e nazionale - aggiunge - incremento del personale, ma soprattutto progetti e percorsi rieducativi. Purtroppo, ad oggi dobbiamo constatare che le nostre richieste cadono nel vuoto”. Non sono solo i sindacati della penitenziaria a insorgere, e a chiedere un cambiamento radicale. Di carcere “del tutto inadeguato per le funzioni che deve svolgere. inaccettabile per Firenze”, parla l’assessore al welfare, Nicola Paulesu: “La commissione politiche sociali e della salute, sanità e servizi sociali è al lavoro per approfondire e relazionare in consiglio comunale in merito all’attuale stato di Sollicciano - commenta - Per l’amministrazione, Sollicciano va completamente riformato, non ha le condizioni minime di dignità per chi sta scontando una pena e per quelli che ci lavorano. Questa realtà riemerge prepotentemente in conseguenza di eventi tragici, ed ogni volta si conferma che Sollicciano non è conforme ai livelli minimi di dignità umana richiesti dalla Costituzione. Se non riusciremo a creare condizioni di vita accettabili ci saranno ancora morti e qualsiasi percorso di rieducazione non sarà possibile”. Dolore, ma anche sconcerto per l’ennesima vita spezzata mentre si trovava nelle mani dello Stato, viene espresso tra gli altri dal governatore della Toscana, Eugenio Giani: “Sono rimasto molto colpito, sono veramente troppi i suicidi nelle carceri italiane. Noi ci dobbiamo preoccupare delle nostre, in Toscana, chiederò un incontro al ministro della Giustizia perché si possa dare il senso di una svolta da un punto di vista delle condizioni carcerarie. Non possiamo essere passivi”. A riflettere sull’ennesima tragedia a Sollicciano, infine, anche Enzo Brogi, esponente Pd ed ex presidente del Corecom, che a lungo si è occupato dei diritti dei detenuti: “Carceri come l’inferno di Sollicciano non hanno alcuna valenza né di pena, né di riabilitazione, solo vendetta - dice Brogi - Celle anguste, sovraffollate, torride in estate, umide e fredde in inverno, muffa, scarafaggi, topi. La detenzione così non serve a niente se non a moltiplicare casi di disperazione, rabbia e disgrazie. Un carcere che non può che essere chiuso”. E conclude: “Per drammatico paradosso fa ancora bella mostra all’ingresso la targa “nuovo complesso penitenziario”. Firenze. Suicidi a Sollicciano, Giani chiede un incontro con Nordio: “Serve una vera svolta” di Francesco Benvenuti Corriere Fiorentino, 5 gennaio 2025 Nonostante la nomina di due nuovi vicedirettori per coprire l’assenza della direttrice penitenziaria Antonella Tuoni e il grido d’allarme dell’istituzioni territoriali ad intervenire sulle croniche criticità della struttura (sovraffollamento, degrado e violenza) il 2025 del carcere fiorentino di Sollicciano si apre tristemente così come si era concluso, con la prima vittima dell’anno in Toscana. Nella serata di venerdì infatti gli agenti penitenziari hanno trovato un detenuto egiziano di 25 anni, che già in passato aveva tentato gesti autolesionistici, impiccato dentro la sua cella. Un suicidio che, a pochi giorni dal monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scuote nuovamente (l’ultima vittima, un 28enne somalo, risale al 22 dicembre) la comunità penitenziaria e la politica locale, spingendo il governatore toscano, Eugenio Giani, a chiedere un incontro urgente al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, destinatario già in estate di una lettera-appello. L’istituto fiorentino, infatti, da anni è tra le carceri più in difficoltà a livello nazionale a causa del sovraffollamento (497 posti disponibili, 135 inagibili, a fronte di 535 detenuti) e delle gravi condizioni della struttura (infiltrazioni, luce ridotta, scarse condizioni igieniche) che insieme all’assenza di percorsi rieducativi provocano spesso atti di violenza e suicidi. “È un carcere del tutto inadeguato per le funzioni che deve svolgere, inaccettabile per Firenze. Per l’amministrazione, lo abbiamo detto molte volte, va completamente riformato, non ha le condizioni minime di dignità per chi sta scontando una pena e per quelli che ci lavorano: non è conforme ai livelli minimi di dignità umana richiesti dalla Costituzione”, sottolinea l’assessore al Welfare, Nicola Paulesu, in attesa della relazione sullo stato del penitenziario chiesta alla commissione Politiche sociali e della salute. “Sono veramente troppi i suicidi nelle carceri: chiederò un incontro al ministro della Giustizia perché si possa dare il senso di una svolta da un punto di vista delle condizioni carcerarie”, annuncia Giani ricordando che “non possiamo essere passivi rispetto alla situazione che vediamo, dobbiamo conoscerla meglio e concentrare risorse perché questo stato di disagio possa trovare un alleggerimento”. Preoccupazione anche da parte del segretario regionale del Sappe, Francesco Oliviero, secondo cui “la situazione degli istituti penitenziari toscani è al collasso, soprattutto a Firenze dove da anni non vi sono progetti rieducativi veri ed efficaci”. In questo scenario anche gli agenti penitenziari operano con grande difficoltà. “Da tempo chiediamo interventi risolutivi all’amministrazione penitenziaria ma dobbiamo constatare che le nostre richieste cadono nel vuoto”. Insomma, conclude il garante regionale dei diritti dei detenuti, Giuseppe Fanfani, “quanto accaduto purtroppo non mi meraviglia. Sono anni che dico che Sollicciano va chiuso perché è inumano e indecoroso”. Verona. Da Rebibbia alla Romania, si complica il caso del detenuto Nicu di Fabiana Marcolini L’Arena, 5 gennaio 2025 Prima portato da Montorio a Roma, adesso rischia l’estradizione in patria. Ma i legali vogliono chiarezza e fanno ricorso. Una vicenda intricata, per certi versi un arzigogolo, perché nemmeno l’unico dato oggettivo, ovvero il trasferimento di Nicolae Ion, detto Nicu, dal carcere di Verona a Rebibbia avvenuto il 2 dicembre, sarebbe giustificato da elementi legati alla estradizione in Romania per scontare gli anni residui di condanna (per lui il fine pena è nel 2027). Complicata la vicenda burocratica e quella umana perché subito dopo il suo arrivo a Roma Ion ha tentato di togliersi la vita, mantiene a tutt’oggi un atteggiamento autolesionistico. Per questo l’avvocato Irma Conti, componente del Collegio del Garante nazionale dei detenuti, è andata due volte a trovarlo. La rapina - Nicolae Ion era uno dei componenti del gruppo che tra il 27 e il 28 settembre 2016 aggredì, colpendolo a morte, Luciano Castellani, ristoratore di Valgatara. Dopo il fatto Ion era scappato ma venne rintracciato in Spagna e arrestato. Nel 2018 la condanna a 11 anni e 4 mesi (definitiva nel 2021) solo che nell’aprile 2022 gli è stata notificata la sentenza della Corte d’Appello di Costanza con la quale viene disposta l’esecuzione della pena in Romania. I suoi legali, Simone Bergamini e Francesco Spanò, nell’atto di opposizione alla consegna in Romania, sostengono che il detenuto non aveva mai avuto conoscenza dell’udienza né del nome del difensore e che non ha mai prestato il consenso al trasferimento. E hanno chiesto “l’immediata sospensione della consegna”. Davanti alla corte d’Appello di Costanza pende il procedimento e la decisione, dopo due rinvii, è attesa nei prossimi giorni. L’intreccio - A intricare ulteriormente lo scenario ha contribuito il provvedimento notificato il 13 dicembre con il quale la Procura di Verona (competente per decidere) dispone che Ion espii la pena in Romania (sulla base della decisione Quadro 2008/909 dell’Ue relativa all’applicazione del principio de reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive). Una decisione basata sulla circostanza che “in Romania Ion ha la residenza, lì vivono una delle figlie e i componenti della sua famiglia e che in Italia non ha alcun riferimento stabile”. Ragioni alle quali i legali si sono opposti attraverso il ricorso gerarchico al Ministero di Giustizia ribadendo che il detenuto ha divorziato dalla prima moglie e sta preparando i documenti per convolare a nozze con una signora italiana. E sottolineano che “in caso di trasferimento per scontare un residuo di poco più di due anni Ion avrebbe un nocumento, poiché in Romania non esiste l’istituto della liberazione anticipata e misure alternative delle quali ha già beneficiato”. Arzigogolo. Taranto. Figli in carcere con le mamme, Turco: “Reinserirli nella società è la battaglia da vincere” di Pierpaolo D’Auria cronachetarantine.it, 5 gennaio 2025 Uno dei problemi, certamente non secondario, è quello del “dopo” ovvero di ciò che un detenuto deve aspettarsi una volta scontata la pena e uscito dal carcere. Problema che le detenute della Casa circondariale di Taranto hanno prospettato al sen. Mario Turco nel corso della visita che questi ha compiuto nella mattinata del 4 gennaio all’interno dell’istituto di pena nello specifico nella sezione femminile della casa circondariale. Accompagnato dal coordinatore provinciale del M5S, Francesco Nevoli, e dal rappresentante del gruppo territoriale di Taranto, Gregorio Stano, oltre che dalla responsabile dell’ufficio comunicazione Annagrazia Angolano, il parlamentare e vicepresidente pentastellato è stato accolto dal direttore, Luciano Mellone, e dalla vicedirettrice, Nicoletta Siliberti, della casa circondariale oltre che dal Primo dirigente della Polizia penitenziaria Belisario Semeraro. Maggiore assistenza all’interno dell’istituto di pena per quello che concerne il reinserimento lavorativo: questa è stata, dunque, la prima istanza che le detenute hanno sottoposto all’attenzione del sen. Turco. Poi il problema, ormai cronico, della vita all’interno della struttura carceraria che deve fare i conti con il sovraffollamento e la ristrettezza degli spazi vitali all’interno delle celle aspetto, quest’ultimo, che si acuisce nel caso di donne detenute insieme ai rispettivi figli in tenera età. “Come forza politica è da tempo che chiediamo la soluzione al sovraffollamento delle carceri, qui a Taranto a fronte di una capienza di circa 500 persone ne sono detenute 950, quasi il doppio. Così come spingiamo per combattere la carenza del personale, sia amministrativo che sanitario, degli organici della stessa Polizia penitenziaria”, ha dichiarato il sen. Turco a margine della visita che è stata anche l’occasione per distribuire dei giocattoli ai figli delle detenute. “È vero - ha poi aggiunto il parlamentare tarantino - che deve esserci certezza della pena ma è anche vero che la pena deve essere scontata in maniera dignitosa” senza però tralasciare gli strumenti da mettere in campo a proposito del reinserimento nella società dei detenuti. E qui il ruolo dello Stato, ha fatto presente Turco, deve essere centrale soprattutto nel far sì che i figli dei detenuti non intraprendano le stesse strade sbagliate imboccate dai genitori. “Nella legge di bilancio - ha reso noto Turco - come Movimento 5 Stelle siamo riusciti a far approvare un emendamento che stanzia le risorse da destinare alle attività di reinserimento nel mondo del lavoro. Dobbiamo lavorare non solo per sostenere le attività ricreative e professionali all’interno delle strutture carcerarie. Personalmente sto portando avanti una proposta che tende a favorire il reinserimento lavorativo all’interno delle aziende private, all’interno delle quali vanno rafforzati il sostegno al reddito e al lavoro nonché le agevolazioni fiscali, ma consentire, anche, agli enti locali di ricevere delle risorse dedicate per favorire, attraverso lo strumento delle cooperative di lavoro, gli affidamenti pubblici per queste realtà che al loro interno abbiano detenute o detenuti”. Non solo, perché, nella veste di docente universitario il sen. Turco si farà portavoce “di un consolidamento dei rapporti tra il mondo universitario e quello delle carceri perché - ha poi concluso - è lo strumento della cultura la strada maestra da battere per recuperare queste persone e, soprattutto, i loro figli”. E che è fondamentale che ci sia uno stretto collegamento fra il carcere e il territorio lo ha ribadito anche il direttore della struttura tarantina, Luciano Mellone “perché - ha poi spiegato - si lavora tanto sul detenuto però quando questo esce dal carcere lo perdiamo di vista e non abbiamo contezza del lavoro da noi svolto. Per noi questo a volte è frustrante soprattutto quando vediamo rientrare in detenzione persone sulle quali avevamo puntato positivamente ma alle prese con situazioni difficili nel trovare un lavoro all’esterno”. Ma quello dei figli dei detenuti non può restare un argomento secondario. “Ci sono detenuti che hanno, in media, tre-quattro figli”, ha successivamente chiosato il sen. Turco. “Cosa ne è, poi, di loro? Avranno una vita segnata e noi dobbiamo cercare di recuperarli. Questa è la scommessa, la battaglia che la politica deve vincere”. Massa Carrara. Giovani oltre le sbarre, al villaggio Pungiglione trovano una seconda chance di Monica Leoncini La Nazione, 5 gennaio 2025 Dal 2007 al 2024 il Cec Rinascere ha ospitato in totale 154 detenuti. Gli ospiti seguono percorsi di recupero basati su attività produttive. “Per la prima volta, qui, mi sono sentito a casa”. Lo dice Wilson, originario del Brasile, adottato da una famiglia italiana. Gli fa eco Klaudio, che invece arriva dall’Albania e dopo una breve esperienza in carcere, vive da oltre un anno al Cec Rinascere, Comunità educante con i carcerati, progetto portato avanti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per la rieducazione dei detenuti. Siamo al Pungiglione, nel Comune di Mulazzo, il grande Villaggio dell’accoglienza che dà il nome a una cooperativa sociale, un luogo dove persone socialmente disagiate provenienti dal mondo del carcere, dalla strada, da storie di solitudine e abbandono, trovano una casa e una famiglia, impegnandosi in percorsi di recupero nelle attività produttive del Villaggio. E vistare il Villaggio, ogni volta, è una nuova ed emozionante scoperta. Le guide sono Wilson e Klaudio, che lo conoscono bene, e volentieri si prestano a raccontare il loro quotidiano. “Non ho avuto una vita semplice - racconta Wilson - e ho affrontato molti momenti bui, qui per la prima volta mi sono sentito in famiglia. Non è stato affatto semplice all’inizio, sarei voluto scappare, ma adesso insegno italiano agli stranieri del Villaggio e mi piace molto”. Al Cec al momento ci sono 7 ragazzi di varie nazionalità, andare d’accordo non è semplice, ma regole e orari aiutano a non perdersi di nuovo. “La mattina la colazione - aggiunge Klaudio - poi un momento di preghiera o riflessione, poi il lavoro. Pranzo e cena assieme e poi a dormire. Nel fine settimana possiamo uscire, accompagnati. Sono qui da poco più di un anno, dopo il carcere alla Spezia. Ho lavorato prima in cucina e da un mese in cereria, mi trovo bene. Il carcere è un’esperienza che non auguro a nessuno”. Responsabile del Cec è Marco Pellegrini. “Dal 2007 al 2024 - afferma - il Cec Rinascere ha ospitato 154 persone, mentre la cooperativa ne conta 189, che si sono alternate, tra dipendenti, tirocini, borse lavoro. Persone che hanno sbagliato, se accolte e accompagnate in un percorso di riflessione, hanno risorse da esprimere che emergono prepotentemente. Se la fragilità viene accolta e messa in condizione di fiorire si trasforma in risorsa”. Lì vicino c’è anche la casa migranti, seguita da Tomaso Tinarelli. “Sono 34 - dice - un numero fisso. Dal 2015 abbiamo ospitato oltre cinquecento persone per la prima accoglienza, di solito poi sanno dove andare. Ci sono ragazzi che arrivano dal Burkina Faso, Tunisia, Pakistan, Nigeria, per un periodo abbiamo ospitato anche donne e bambini. Ci sono regole sul prepari i pasti, sulle pulizie, di solito cucinano per etnie, è un modo importante per garantire una buona relazione e per conoscersi. Lavorano e studiano italiano, molto spesso alla fine del percorso non vogliono andare via”. “È un contesto educativo che cerca di offrire opportunità - aggiunge Marzio Gavioli, responsabile zona Toscana della Papa Giovanni XXIII - senza scopo di lucro. Obiettivo portare l’idea della società del gratuito, restando a livello concorrenziale rispetto al mondo con cui ci si confronta. In occasione del centenario della nascita di Don Oreste Benzi vogliamo celebrare il suo pensiero e le realtà delle case famiglia: le diverse realtà italiane vanno a conferma della sua intuizione”. Spoleto (Pg). Giubileo, aperta la Porta Santa nel carcere di massima sicurezza di Chiara Fabrizi Corriere dell’Umbria, 5 gennaio 2025 La porta è rivestita dai resti delle coperte termiche dei migranti che hanno attraversato il Mediterraneo. È stato l’arcivescovo Renato Boccardo ad aprire ieri (sabato 5 gennaio) la porta santa del carcere di Maiano di Spoleto costruita dai detenuti e rivestita in più punti dai resti delle coperte termiche dei migranti che hanno attraversato il Mediterraneo. Il presule ha poi presieduto la messa che ha segnato l’avvio dell’anno giubilare nella casa di reclusione davanti a tanti reclusi, alla direttrice Bernardina Di Mario e al comandante della polizia penitenziaria Luca Bontempi. Presenti anche i magistrati di sorveglianza Grazia Manganaro e Nicla Flavia Restivo, il parlamentare Walter Verini e il vicesindaco Danilo Chiodetti. “Questo Giubileo ci vuole tutti pellegrini di speranza” ha detto a margine della celebrazione monsignor Boccardo, evidenziando che la speranza “qui in carcere si sente particolarmente viva. È stato quindi un momento di condivisione, di solidarietà, con questo mondo segnato dalla sofferenza”. Poi l’apertura della porta: “È stato bello attraversare una porta che i detenuti hanno costruito con delle formelle con cui hanno riprodotto le stazioni della via crucis, rivestendola coi resti delle coperte termiche dei migranti che hanno attraversato il Mediterraneo per trovare libertà e giustizia e dignità”. Per monsignor Boccardo la porta santa realizzata dai detenuti rappresenta “una catena, un abbraccio tra tutti coloro che sperimentano la mancanza della speranza, ma sono abitati da un forte desiderio della stessa”, in cella come tra le onde del Mediterraneo. L’arcivescovo ha poi visitato la sezione del 41bis “dove - ha detto sempre a margine - si tocca con mano il vuoto, la coscienza degli sbagli compiuti, il desiderio di redenzione e di condivisione con la famiglia”. Il pomeriggio nel super carcere di Maiano è stato quindi definito “particolarmente significativo” dall’arcivescovo, secondo il quale così si “è dato un buon inizio a questo anno santo, nella speranza che sia un buon Giubileo per tutti, specie per chi ha bisogno di sentire la vicinanza, la solidarietà e l’amicizia di tutti coloro che in modi diversi vivono al di fuori di questo mondo, ma che non per questo devono esserne lontani e insensibili”. Il Giubileo a Spoleto è stato formalmente aperto domenica scorsa in Duomo, mentre quattro sono le chiese giubilari individuate nel territorio diocesano: il santuario della Madonna della Stella a Montefalco, la basilica di Santa Rita a Cascia e il santuario di San Francesco al Monteluco (Spoleto), oltre al Duomo di Spoleto. Fermo. “Una comunità in movimento”, l’Acli porta lo sport nel carcere manewsfermano.it, 5 gennaio 2025 Sono state ben 477 le ore di intervento realizzate nelle carceri marchigiane dall’U.S. Acli nell’ambito del progetto “Una comunità in movimento”. L’iniziativa, avviata nel 2017, ha come obiettivo quello di favorire la riabilitazione e l’integrazione dei detenuti, in considerazione dell’importanza che lo sport riveste quale strumento fondamentale anche per lo sviluppo delle relazioni sociali. Lo sport, il movimento e la ginnastica infatti sono di primaria importanza dentro un luogo chiuso e immobile come quello del carcere. Lo sport abbassa le tensioni, riduce le malattie e la spesa sanitaria, aiuta il detenuto a vivere meglio in un ambiente sovraffollato e privo di risorse di prima necessità. Va inoltre considerato che lo sport racchiude in sé, da sempre, fortissimi valori quali l’amicizia, la solidarietà, e soprattutto la disciplina. Lo sport rappresenta per il detenuto uno strumento di crescita culturale e, soprattutto, umana; un momento di confronto con persone di origini, culturale e nazionalità diverse. Il progetto, che proseguirà anche nel 2025 grazie contributo economico della Fondazione Nazionale delle Comunicazioni, rappresenta anche un utile strumento di contrasto alla sedentarietà che per i detenuti rappresenta anche un problema di salute. La sedentarietà, infatti, è strettamente connessa con l’insorgere di alcune patologie come ad esempio quelle di carattere cardiovascolare, il cancro e il diabete. L’iniziativa “Una comunità in movimento” è stata sostenuta dalla Regione Marche e dalla Fondazione Nazionale delle Comunicazioni, è stata realizzata presso le strutture carcerarie di Ascoli Piceno, Fossombrone e Fermo con interventi che hanno riguardato il calcio, il tennis tavolo, gli scacchi e la ginnastica, tenuti da istruttori qualificati e con ampia esperienza nel settore. L’U.S. Acli, nel 2024, ha inoltre realizzato altre attività nelle carceri marchigiane attraverso forme di partenariato in altre progettualità. Col sostegno dell’Ambito sociale XXII/Comune capofila Ascoli Piceno è stata realizzata l’iniziativa “Il valore sociale dello sport” con attività di tennis tavolo nel carcere di Ascoli Piceno. Stanno inoltre proseguendo le attività del progetto Lo sport ti rimette al mondo” che ha vinto il bando “Sport di tutti - Carceri”, iniziativa promossa dal Dipartimento per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute SpA. U.S. Acli è partner del progetto con una lunga serie di attività di carattere sportivo che si svilupperanno anche nel 2025 nel carcere di Ascoli Piceno. Asti. Storia di Gina, la cagnolina che vuole vivere in carcere di Selma Chiosso La Stampa, 5 gennaio 2025 Scappata due volte da casa. Ha percorso quaranta chilometri per tornare tra i detenuti dove era stata sfamata e coccolata. Si chiama Gina ed è una cagnolina speciale. Si è “consegnata” al carcere di Asti percorrendo chilometri e chilometri, almeno una quarantina, sfidando il freddo, patendo la fame, sfuggendo i pericoli delle auto. La sua storia inizia qualche mese fa quando il cane, un meticcio biondo grande poco più di un bassotto, scappa dalla sua abitazione. L’allarme sui social - Vaga per giorni lungo la statale e nelle campagne tra Asti e Alessandria. L’allarme si scatena sui social. In tanti segnalano la sua presenza e il grosso rischio che venga investita. All’inizio di dicembre, una notte, arriva a Quarto si infila tra le sbarre del cancello e nel carcere ad Alta sicurezza trova la “sua” sicurezza. Al mattino la direttrice Giuseppina Piscioneri la riconosce. “È il cane dei social” dice agli agenti della polizia penitenziaria e ai detenuti. Se ne innamorano tutti, volontari e cinofili compresi. Nel carcere di Asti infatti c’è il nucleo specializzato che fornisce cani (adottandoli dai canili e formandoli) antidroga alla polizia penitenziaria e ad altre forze dell’ordine di tutt’Italia. Gina viene nutrita, la sua ciotola riempita di cibo, il suo cuore di coccole. Dura lex sed lex: è necessario verificare che Gina, come viene battezzata, abbia o no il microchip. E soprattutto la cagnolina ha bisogno di una visita veterinaria. Riconsegnata alla padrona - Ed ecco la prima svolta. Quando gli amici di Gina rientrano in carcere il cane non è più in auto con loro. Aveva il microchip: quindi è stata contattata la proprietaria e sebbene a malincuore “restituita” dopo un’ultima carezza e fotografia alla sua legittima proprietaria. Per giorni in carcere ci sono “musi lunghi” e tanta tristezza. Gina manca. Manca a tutti. A chi dalla cella guardava e la vedeva scorrazzare, ai poliziotti, alla direttrice. Trascorrono i giorni e il cane ricompare sui social. È di nuovo scappata, ma questa volta ha oltrepassato il confine astigiano e trovato riparo nel cortile di una azienda alessandrina. Alcuni agenti, liberi dal servizio, si presentano nella fabbrica ma… Gina non c’è più. Il vuoto e il dispiacere - La speranza si affievolisce, il dispiacere è tangibile, Gina diventa un ricordo. Ne parlano i detenuti: “Ma te la ricordi come correva?” e allo spaccio: “Che bello che era quando c’era...” E i detenuti: “Che tristezza la sua ciotola vuota”. Poi il dono di Natale. Gina “supera il confine” e torna in quella che ha scelto come la sua casa: una casa speciale perché di reclusione. Il dono di Natale - Ha fatto tanta strada per arrivare. È di nuovo magrissima, le zampine ferite dai chilometri percorsi, la pancia vuota. Ha di nuovo oltrepassato le sbarre del cancello e si è accucciata nel cortile. Irrompe la sorpresa, scoppia la gioia, piovono carezze, “hurrà” pappa buona, affetto infinito. Gina è la luce, la speranza, il sentimento. Uno scricciolo di cane che cambia la vita. Giuseppina Piscioneri, la direttrice, commenta: “È stata il nostro dono di Natale. Una pet terapy “destrutturata” che fa bene a tutti, proprio a tutti. Una storia che sembra una fiaba e invece è realtà. La sua proprietaria ha rinunciato a lei. Adesso è tutta nostra”. Disimparare a dialogare: il paradosso della Rete di Matteo Bussola Corriere della Sera, 5 gennaio 2025 Salutati come strumenti di libertà e persino di liberazione degli individui e dei popoli, i social sembrano essersi trasformati in pericolosi sistemi di manipolazione di massa. Che cosa resta oggi, vent’anni dopo la creazione del gigante di Zuckerberg? Una “zona grigia” inquietante che alimenta solo spazzatura. I social ci hanno fatto disimparare a confrontarci. È un amaro paradosso, su piattaforme nate per condividere opinioni. Ma appare ormai lampante la polarizzazione immediata che, in rete, scatta davanti a qualunque tema. Si cede alla tentazione di ridurre ogni ragionamento a fazioni, ad adesioni tribali, in cui gli interlocutori vengono indicati come stimabili, o al contrario spregevoli, a seconda che appartengano o meno alla parte che noi riteniamo essere incontrovertibilmente giusta. Come è sempre più diffusa la ferocia nel sentirsi legittimati a pretendere che chi seguiamo, o leggiamo, debba assecondare le nostre aspettative, rispettare il tempismo previsto, confermare le nostre idee. Si assiste a passaggi in cui perfino il silenzio viene strumentalizzato, perché ciascuno viene chiamato implicitamente a schierarsi, pena l’essere considerato un ignavo o un vigliacco: e non hai scritto niente sul conflitto in corso, e non sei allineato sul caso della settimana, e non sei sul pezzo sull’indignazione del giorno. E però, a volte, la scelta più difficile è proprio quella di prendersi il tempo, di non voler contribuire al chiacchiericcio. In una comunicazione social fatta spesso di punti esclamativi, priva di aperture, scegliere invece l’esercizio del dubbio, lo spiraglio di un punto di domanda, oppure un rispettoso silenzio di fronte a tragedie che sono più grandi di noi, di sicuro più grandi dei nostri piccoli desideri di protagonismo o della necessità di ricevere conferme. I social ci hanno fatto perdere la capacità di gestire il disaccordo, ci spingono a contrapposizioni e semplificazioni manichee, a trattare chi oppone pensieri divergenti come un nemico, anziché come un avversario. La differenza è sostanziale: un avversario è qualcuno con cui devi misurarti, per il quale riesci però a mantenere non solo rispetto, ma quasi una forma di amore, perché ne riconosci comunque la storia, le difficoltà, i desideri e i bisogni cui ogni essere umano ha diritto. Puoi specchiarti in lui e vedervi un altro te. Un nemico è invece uno da sconfiggere, far scomparire, rimuovere. E di nemici, reali o immaginari, in giro oggi ce ne sono fin troppi. Allo stesso tempo, e non sembri una contraddizione, pure sui social ci sono momenti in cui può starci bene un vaffanculo onesto, senza sensi di colpa. Può succedere quando ti accorgi che ti stai sforzando di parlare con qualcuno che non ha a cuore un confronto costruttivo, ma vuole solo calpestarti, schiacciarti sotto le suole delle sue (presunte) ragioni. Il fatto è che le ragioni hanno senso se possono diventare ponti per unire, e non armi per dividere. Perché le armi hanno questo terribile effetto collaterale: quando le impugni, prima o poi, sparano. E quando sparano, in genere, lasciano sempre qualcuno a terra. Ecco, dialogare sui social in maniera concreta, salutare, proficua, dovrebbe avere un obiettivo prima degli altri: quello di accertarsi che, al termine di una discussione, anche accesa, a terra non resti mai nessuno. mine sono femmine, tertium non datur, come dicevano i latini. Ci sono le bevande e i cibi permessi, buoni e “nostri” - la carne grigliata, le birre, l’alcool - e poi ci sono quelli che mangiano i grilli e gli insetti e non mangiano il maiale. O mangiano solo verdure, poveracci. Non c’è il vecchio razzismo dei bianchi e dei neri, troppo riconoscibile, troppo attaccabile. È attorno alla naturalità di maschi e femmine che si gioca la partita. Il filone “nostalgia” mostra spesso “veri” maschi e femmine in minigonna e calze autoreggenti degli anni Ottanta contrapposti ai maschi effemminati con i capelli colorati di rosa “tipici” di oggi. Le analisi antropologiche, come l’interessante libro di Angela Biscaldi e Vincenzo Matera (“Antropologia dei social media”, Carocci, 2019), si sono concentrati per lo più sugli usi relazionali, espressivi, esplorativi dei social in relazione ai soggetti che li frequentano. Ma, in questa zona grigia, sono in ballo forze “esterne” che intervengono per alimentare una propaganda indiretta, velata, nascosta, ma politicamente alquanto efficace. Non è difficile infatti, per uno studioso di scienze sociali, scorgere una precisa “antropologia”, cioè una concezione dell’essere umano, che propone e difende l’idea di una Natura Umana. Siamo esseri naturalmente sessuati in maschili e femminili, naturalmente portati a realizzare i nostri desideri e voglie, naturalmente carnivori, naturalmente bianchi, italiani (o francesi o inglesi, dipende dalla lingua del post) e, se ci fosse possibile, ricchi. Chi alimenta continuamente di post questa “zona grigia”? Come trova tempo e risorse per spandere tutto questo spam nella rete, gettando esche rilanciate poi in continuazione da “avatar reali” che a volte hanno il volto dei nostri amici su Facebook? Difficile pensare ad atti spontanei. La “loro” antropologia ha una chiara matrice: accomuna tutti quelli, e sono tanti e tante di questi tempi, che pensano che l’essere umano sia dotato di una Natura che non si cambia. O si è bianchi o si è neri. O italiani o africani. O maschi o femmine. L’umanità non cambia, non si trasforma, non si educa: i criminali, come sostiene una certa propaganda politica, vanno puniti, devono “marcire” in carcere, buttando la chiave, perché la loro natura è criminale. I bambini di origine straniera rimangono tali, non possono “diventare” (facilmente) italiani. Uno spettro si aggira per l’Europa e per il mondo del web come in quello della politica: l’idea di una Natura Umana invariabile, a cui solo un mondo “al contrario” potrebbe cercare di opporsi. Siamo ben lontani dalle idee di trasformazione, di educazione, di progresso, di contaminazione, fluidità e meticciato che hanno caratterizzato la storia delle scienze sociali le quali, non a caso, sono sotto attacco di questi tempi. Forse in questo trash grigio di Facebook troviamo una chiave di lettura di quanto sta accadendo nel mondo molto reale della politica: è una frattura ormai netta quella che separa i sostenitori della Natura Umana da coloro che sostengono, piuttosto, l’idea di una “condizione umana”, storicamente e culturalmente variabile. Una volta, intervenendo a un convegno dell’Accademia delle Scienze di Torino, l’antropologo americano Marshall Sahlins, disse che “la natura umana è solo delle scimmie” (sulla rivista “Studi Culturali”, 3, 2011)! Con il suo linguaggio provocatorio, Sahlins voleva sottolineare che è proprio della condizione umana l’immaginazione, la variabilità, la trasformazione, la plasticità. Non siamo esseri naturalmente egoisti e calcolatori. Nel riflusso conservatore che caratterizza i nostri tempi, invece, torna ad affacciarsi una Natura Umana invariabile e un progetto politico che mira a fissare le tipologie ed è ossessionato da ogni forma di contaminazione. Temo che la “zona grigia” di Facebook sia alquanto efficace nel trasmette questo tipo di antropologia. Se la generazione di TikTok omaggia Cutolo, il capoclan sanguinario di Flavia Perina La Stampa, 5 gennaio 2025 Chissà come se lo immagina Denise Cutolo l’amore dei suoi genitori: a diciassette anni ha il diritto di figurarselo come le pare anche se speriamo (per lei) che le vada meglio. Conoscere e sposare appena maggiorenne un ergastolano al 41bis, condividere un solo bacio in vent’anni, farci una figlia con l’inseminazione artificiale, crescerla facendo avanti indietro da carceri di massima sicurezza, va bene per la leggenda ma forse meno per la vita reale. E tuttavia anche questa incredibile love story è un pezzo del mito Cutolo, che a quanto pare resiste nei decenni anche se un po’ sbiadito rispetto all’epoca in cui ‘O Professore tutto poteva, tutto sapeva, tutto controllava, pure se carcerato per gran parte della sua vita di adulto, facendo e disfacendo (talvolta a colpi di pistola) sindaci, affari, appalti e trasformando il racconto della camorra nella saga di nuovi Robin Hood dediti ad “aiutare i deboli quotidianamente calpestati dai potenti e dai ricchi”. Ora c’è indignazione per i commenti al video di Denise su TikTok che osannano la memoria del capoclan. E di sicuro ha ragione chi invoca la necessità di “una forte spinta culturale che aiuti le persone a liberarsi dalla mentalità criminale”, ma di sicuro non sarà l’introduzione del reato di apologia mafiosa a cancellare la leggenda del Cutolo onnipotente. È troppo antica, troppo articolata. Consolidata non solo dagli affiliati al clan ma anche dalla politica, che solo una generazione fa si inchinò al boss per la prima trattativa Stato-clan annoverata dalla nostra storia: chiedere (e ottenere) dalle Brigate Rosse la liberazione dell’assessore alla Ricostruzione Ciro Cirillo. Cutolo è il Don Raffaè di Fabrizio De André che a Poggioreale riceve l’omaggio del brigadiere incantato dalla sua prestanza e dal suo cappotto cammello. Cutolo è (si diceva) il “Dio c’è” segnalato da migliaia di graffiti su tutte le autostrade italiane negli anni 80 e 90. Cutolo è quello che santifica i suoi manovali facendoli giurare da “cavalieri della camorra, signori del bene, padroni della vita e della morte”. E le centinaia di omicidi che ha ordinato, compresi quelli compiuti personalmente e spesso per futili motivi, non sono stati abbastanza per farne un mostro nella considerazione collettiva. Prendersela con Denise o con i suoi ultimi fan sembra un facile esercizio. Magari sarebbe più importante capire perché certe star dell’anti-Stato, certi padrini, gente che aveva al soldo killer delle carceri come Pasquale Barra, capace di azzannare il fegato di Francis Turatello dopo averlo ammazzato a coltellate, restano circondati da un’aura leggendaria, e non solo nel Pantheon della malavita. Hanno umiliato, spadroneggiato, ucciso, sottomesso persone e istituzioni: c’è qualcosa di profondamente malato in pezzi di società che ne hanno fatto delle star e a tanto tempo di distanza ancora conservano quel tipo di mito. Senza dimora. Le città e quei dolori lasciati fuori dal cancello di Valeria Parrella Il Manifesto, 5 gennaio 2025 È che noi abbiamo visto a Roma, alla stazione Ostiense, le panche in marmo da cui affiorano cilindri di acciaio, così che non ci si possa stendere su. E ci ricordiamo il vicesindaco di Trieste che si vantava di aver gettato gli abiti dei senza fissa dimora. Addirittura ci ricordiamo di quando la Villa Comunale di Napoli era aperta, cioè con il suo impianto originario di passeggiata a mare, come ricordiamo quando nel 1999 fu commissionata all’atelier Mendini una cancellata, una “cancellata” con dei cancelli chiusi, cioè non a delimitarne l’area, ma proprio a chiuderla. Così le notizie che si richiamano dai due capi d’Italia all’inizio del nuovo anno, due notizie gemelle, di due città capitali un tempo e metropolitane ora, ci fanno riaffiorare i ricordi. Una viene da Torino, sorge da una protesta di cittadini e commercianti della circoscrizione 1, che denunciano l’incuria dei porticati dove dormono i senza fissa dimora - dentro degli scatoloni, dormono (attenzione, le chiamano “casette di cartone”: sono scatoloni, pacchi). L’azienda municipale prende provvedimenti. L’altra viene da Napoli: la Galleria Umberto verrà chiusa, durante la notte, con dei cancelli appositamente commissionati a un artista per novecentomila euro. Per motivi di opportunità, si legge, per garantire sicurezza e decoro ai cittadini, si intende quelli per bene, i residenti, quelli che hanno voce nel capitolo della città, che non hanno vergogna a denunciare l’altro, anche se l’altro è l’ultimo della terra, che si sentono più cittadini degli altri. Quelli a cui arriva la tessera elettorale. C’è una foto della nostra bella Galleria ancora aperta: si vede la prospettiva marmorea, l’occhio di vetro lì in alto, poi, sulla sinistra un monomarca di prodotti per l’estetica e a destra, in primo piano, appoggiato a una vetrina, un ragazzo seduto su delle coperte di lana, con un cappuccio sulla testa. Al centro della galleria: mandrie di turisti inebetiti. Chissà perché quel ragazzo sta seduto lì invece di star seduto a uno dei tavolini di cui è pieno l’altro braccio della galleria. Chissà perché i senza fissa dimora nella notte torinese fanno pipì sotto i portici in corso Vinzaglio e non nei gabinetti delle loro tiepide case. Ecco, questa avanzata trionfante del denaro, questo arretrare precipitoso della pietas mettono la politica difronte a un obbligo: devi avere un’idea di come vuoi che sia la tua città. Cosa farsene di un problema, come guardarlo, dove puntare il dito per iniziare a risolverlo e le risposte che ne nascono: in politica è tutto. Il Ministro Piantedosi del resto queste due parole, decoro e sicurezza, se le è rigirate spesso in bocca proprio a capodanno, le ha utilizzate come un grimaldello - e così i governatori locali - per allontanare i dolori dal centro delle città, per marginalizzare i marginali. Diceva bene De Vito da queste pagine: ci sveglieremo dalle zone rosse e vedremo i volti di chi è fuori dal recinto “le vittime della crescita diseguale delle città”. Che sconfitta chiudere le nostre città aperte. Migranti. “Paesi sicuri”, Governo bocciato anche dopo la Cassazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 gennaio 2025 Il tribunale di Catania libera un richiedente asilo egiziano: lo Stato di diritto lì non esiste. Prima disapplicazione della nuova legge. Tra una settimana la competenza passerà alle Corti d’appello, ma cambierà poco. Attraverso le schede del ministero degli Esteri e le fonti qualificate indicate dalla normativa europea il tribunale di Catania ha constatato che in Egitto persistono “gravi violazioni dei diritti umani che investono, in maniera generale e costante, non solo ampie categorie di persone, ma anche il nucleo stesso delle libertà fondamentali che connotano un ordinamento democratico”. La conseguenza, scrive il giudice Rosario Cupri, è questa: “In Egitto non è “configurabile uno Stato di diritto che si possa definire realmente sicuro per tutti”. Ci sono le doppie virgolette perché l’ultima frase cita l’ordinanza interlocutoria firmata dalla Cassazione giovedì scorso. Quella su cui gli esponenti della maggioranza erano intervenuti in batteria dicendo: “dà ragione all’esecutivo” (Sara Kelany, FdI), “conferma la linea del governo” (Nicola Molteni, Lega) o “boccia sinistre giudiziarie e politiche che ci boicottano” (Maurizio Gasparri, Fi). Meno di una settimana dopo, proprio basandosi su quella decisione, le toghe etnee hanno liberato un richiedente asilo egiziano di 30 anni che l’altro ieri era stato rinchiuso nel centro di Modica-Pozzallo. È la prima disapplicazione della legge varata due mesi e mezzo fa dal governo Meloni per rendere la lista dei “paesi sicuri” norma primaria. “Nel momento in cui l’elenco è inserito in una legge il giudice non può disapplicarla, se ritiene sia incostituzionale può fare ricorso alla Corte [costituzionale, ndr]”, aveva detto il 22 ottobre scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio annunciando la misura pensata per rispondere alle non convalide dei trattenimenti in Albania. A differenza di quanto sostenuto dal Guardasigilli, però, anche una norma primaria può essere disapplicata se contrasta con il diritto europeo. Così hanno fatto a Catania seguendo ciò che ha stabilito la Corte del Lussemburgo prima e la Cassazione poi: il giudice deve verificare che la designazione di un paese come sicuro, che spetta al governo, sia legittima. Ovvero rispetti i criteri della direttiva 32/2013. Per il massimo tribunale nazionale questa classificazione è corretta anche se le condizioni di sicurezza sono prevalenti e non assolute, cioè se esistono dei rischi per alcune categorie di persone. A patto che “la presenza di eccezioni soggettive tanto estese nel numero, accompagnata da persecuzioni e menomazioni generalizzate ed endemiche, non incida, complessivamente, sulla tenuta dello Stato di diritto”. In caso contrario sarebbe violata la direttiva e si pregiudicherebbe il valore costituzionale della dignità. Proprio quello che secondo il tribunale di Catania avviene in Egitto, dove si ritrovano: pena di morte, per impiccagione, con un numero di esecuzioni tra i più alti; detenzioni arbitrarie e arresti senza mandato; sparizioni forzate; violazioni verso avvocati, attivisti, giornalisti e oppositori; discriminazioni di minoranze religiose, donne, persone lgbt; uso sistematico di tortura e maltrattamenti. Lo dice la stessa scheda-paese redatta dai ministeri italiani per inserire, a maggio 2024, lo Stato nordafricano tra quelli sicuri: un’evidente finzione che è andata a sbattere contro l’esame dei giudici. Erano due mesi che i richiedenti asilo non venivano messi dietro le sbarre del centro di Modica-Pozzallo per sottoporli alle “procedure accelerate di frontiera” sulla loro domanda d’asilo. Nello stesso periodo era rimasta vuota anche l’analoga struttura di Porto Empedocle, dove cinque cittadini del Bangladesh sono stati rinchiusi martedì scorso, il giorno dopo l’ordinanza della Cassazione. I giudici di Palermo li hanno liberati in 48 ore, ma seguendo un’altra strada giuridica. La doppia mossa è stata un test per l’Albania, dove il governo vuole riprendere i trasferimenti. Da sabato prossimo, intanto, la competenza su queste convalide passerà dalle sezioni specializzate in immigrazione alle Corti d’appello. Lo ha stabilito la legge approvata il 4 dicembre scorso. L’esecutivo spera di ottenere risultati migliori, ma non si capisce in base a quali presupposti: anche per i tribunali di secondo grado valgono diritto Ue e pronunce di Cassazione e Corte del Lussemburgo. Tra l’altro a Roma sono stati arruolati dal presidente Giuseppe Meliadò, per esigenze tecniche, i giudici che si sono già espressi sull’Albania dal tribunale ordinario, dove erano stati aggiunti per far fronte all’aggravio di lavoro. A Catania la sezione della Corte cui spetteranno le convalide sarà presieduta da Massimo Escher: era a capo della locale sezione immigrazione del tribunale civile e prenderà servizio nei prossimi giorni. Il trasferimento è stato proposto all’unanimità dalla commissione del Consiglio superiore della magistratura (Csm) a fine settembre, quando lo spostamento di competenze non era neanche un’ipotesi, e deliberato dal plenum il 20 novembre, quando la modifica era solo una proposta. In ogni caso più che le toghe conta la legge: se la Cassazione ha sospeso il giudizio sul tema per attendere la decisiva sentenza della Corte Ue è difficile credere che le Corti d’appello possano dare il via libera ai trattenimenti. O non li convalideranno o rinvieranno tutto in Lussemburgo, liberando comunque i richiedenti asilo. La decisione dei giudici europei è attesa per la primavera. Prima di allora i centri di trattenimento in Albania, o quelli in Sicilia, non si riempiranno. Migranti. Morcone: “Il modello Albania è già fallito. Ma a sinistra troppa ideologia” di Daniela Preziosi Il Domani, 5 gennaio 2025 L’ex capo di gabinetto di Minniti, oggi assessore all’immigrazione in Campania: “Il piano Mattei ha un nome roboante, ma è la strada: trattare con quei paesi”. “Schlein rinnega la politica del Pd? Ma governare sbarchi è indispensabile e all’Ue dobbiamo dare garanzie”. Mario Morcone ha un curricum incredibile. Che non è un curriculum, è la sua storia: nato a Caserta, diventa il prefetto più giovane d’Italia, poi capo segreteria al Viminale con Mancino, in Kosovo per l’Onu, commissario di Roma, direttore dell’Agenzia per i beni confiscati alla criminalità, candidato sindaco a Napoli, capo del Dipartimento per l’Immigrazione al Viminale, capo di gabinetto del ministro Riccardi, e poi al Viminale con Marco Minniti. Lì, prima e dopo di lui c’erano Luciana Lamorgese e Matteo Piantedosi, diventati entrambi ministri degli Interni. Lui invece è diventato direttore del Consiglio per i Rifugiati. Oggi è assessore nella Campania di Vincenzo De Luca. Naturalmente con deleghe a immigrazione, sicurezza e legalità, “cose che in Campania danno un certo da fare”, dice con ironia. Filosofo pragmatico da sempre, dice che il dialogo con il governo Meloni tutto sommato non è malaccio: parla bene dei sottosegretari Wanda Ferro e Alfredo Mantovano. Spiega che in Campania lui fa “quello che devo fare, senza fare troppo rumore”. Perché “senza fare rumore”? L’immigrazione è un tema spinoso a sinistra? A sinistra ci sono due posizioni: una ideologica, forte nel Pd, come quella dell’Arci, lo dico senza cattiveria, che mantiene la purezza senza sporcarsi le mani. E un’altra che ha sempre tenuto conto della necessità di rassicurare le persone di un aspetto legalità e sicurezza. Guardi, io con il Pd parlo, sono amico di Pierfrancesco Majorino, conosco Schlein da quando si occupava di immigrazione. Ma bisogna dare delle risposte, ai cittadini e agli altri paesi dell’Ue. In attesa della sentenza della Corte di Giustizia europea, qual è il suo giudizio sulle politiche migratorie del governo Meloni? Pessimo. Si è costruito un cinico e tragico palcoscenico sugli sbarchi, tenendo dietro le quinte invece un tema fondamentale per la prospettiva futura del nostro paese, quello dell’accoglienza sul territorio delle persone immigrate. La destra ha negato quello che si era costruito nel passato, un’accoglienza fatta di piccoli centri, piccoli numeri, sostenibili nei comuni e utili alla coesione sociale grazie a un accordo con l’Anci, l’associazione dei sindaci. La destra da sempre vuole i grandi centri che costruiscono isolamento e frustrazione: il migrante non riesce a fare il corso di lingue, né formazione professionale, quindi finisce per essere sempre più frustrato, e dalla frustrazione ai comportamenti illegali il passo è breve. Così un ministro dell’istruzione può dire che gli immigrati sono la principale causa dei reati del nostro paese. Non è vero. La destra non capisce che l’Italia ha bisogno dei migranti? Sì, intanto l’integrazione e l’accoglienza sono valori costituzionali, ce lo ha ricordato il presidente Mattarella. Abbiamo bisogno di loro, purché siano regolari. Lo dicevamo dai tempi del governo Amato, lo dice la Banca d’Italia, il Sole 24Ore. Il “modello Albania” è utile? No, è pessimo. La destra insegue le sue ossessioni: il blocco navale, stupido e impossibile. Ora il modello Albania. Su cui raccontano storie incredibili: persino che tutti in Europa si congratulano con Meloni. Non è vero? Starmer, nel Regno Unito, ha stracciato l’accordo con il Ruanda. Scholz chiede che smettiamo di fare i furbi mandando in Germania la gente proveniente dagli sbarchi del nostro Sud, e rifiutandoci di riprenderla indietro, come prevede l’accordo di Dublino. La questione albanese è sotto gli occhi di tutti. Lasciamo perdere chi dichiara che un paese è sicuro o no, hanno ragione i magistrati: il magistrato è chiamato a verificare se vengono rispettati i diritti individuali. Scommetto mille euro che nessuno in Europa replicherà il modello Albania. Quale sarebbe un modello che può seguire l’Europa? Sono secoli che la gente emigra, una sola soluzione non c’è, ma ci sono politiche possibili che mitigano gli effetti delle migrazioni e le rendono sopportabili ai paesi d’approdo. Serve parlare con i paesi del Nord Africa. E qui c’è la mia differenza con quella sinistra che pensa che non dobbiamo parlare con la Libia, con l’Egitto, con la Tunisia. Invece dobbiamo costruire rapporti e lavorare sugli ingressi regolari per lavoro. Meloni ha cominciato a farlo: ma poi quando queste persone arrivano su territorio italiano, dobbiamo offrire servizi adeguati. Qui in Campania lo facciamo, ma sempre a bassa voce, senza clamore. Dunque va bene il piano Mattei? Il nome è roboante, ma la strada è quella: tessere dei rapporti con i paesi di provenienza. Costruire percorsi di legalità, chiedendo in cambio un atteggiamento più duro contro i trafficanti di esseri umani. Che non sono quelli che portano la barca nel canale di Sicilia. Le racconto una storia: ai tempi di Gheddafi, accompagnai il ministro Maroni in Libia a incontrare il responsabile della sicurezza interna, che non poteva uscire dal paese perché aveva un mandato di cattura internazionale. Eravamo in salotto sfarzosissimo, con un grande divano, le teste di leone. Disse al ministro: ti faccio un regalo. E gli consegnò un elenco di numeri telefonici italiani, i contatti con la Libia per il traffico di esseri umani. E non erano Ong... Ma no, erano delinquenti che si arricchivano sulla pelle di questi poveretti. Come la vicenda che Meloni ha denunciato sul decreto flussi: i migranti sono le vittime, i carnefici quelli che offrono contratti che non saranno mai firmati solo per farli entrare in Italia. Chiedere ai paesi di partenza di essere più duri con i trafficanti significa chiudere gli occhi sui lager? E non chiederlo significa agevolare l’attività dei trafficanti. Le garanzie le devi ottenere dal paese di partenza, in cambio di aiuti su progetti sanitari, sull’ambiente, sull’istruzione. Così puoi pretendere che le autorità vigilino perché non si creino situazioni di disprezzo dei diritti delle persone. Ma è possibile dove i diritti non ci sono, ci sono dittature e tagliagole? Il problema non è se è possibile o no, il problema è che lo devi fare. Dire di no è ideologico, e ridicolo. Questo è “il modello Minniti”, sconfessato da Schlein e dal nuovo Pd... Per una posizione puramente ideologica. Il governo degli sbarchi è indispensabile, e all’Europa dobbiamo dare garanzie. Ora Graziano Delrio dice di avere preparato un disegno di legge per quando andranno al governo, sostiene di legare l’arrivo al lavoro, condivido pienamente. Ma va fatto con garanzie per tutti: per il migrante e per gli italiani. La sinistra sostiene modelli agli antipodi di quello di Minniti: Pietro Bartolo, Mimmo Lucano... Li conosco entrambi bene, c’è differenza fra i due. Bartolo faceva il medico a Lampedusa. Di Lucano sono stato sinceramente amico, ma io sono un prefetto, le regole vanno rispettate, eventualmente cambiate, ma intanto rispettate. Crede nella strada dei rimpatri? Un’altra grande falsità. I rimpatri sono di due tipi: quelli forzati e quelli volontari assistiti. Quelli forzati, checché né dicano Salvini e Piantedosi, non li riesce a fare nessuno, neanche Francia e Germania: i paesi che devono riaccogliere non vogliono, servono soldi e poliziotti. Si possono fare i rimpatri volontari assistiti. Ma ci vuole coraggio a dirlo; a chi è venuto in Italia pensando di trovare l’America e non l’ha trovata, puoi offrire di tornare a casa: accompagnarlo, pagare il biglietto e incentivi per il reinsediamento, si può comprare anche un baracchino per vendere la verdura. E allora lì puoi fare numeri alti. Chi dice che ci vogliono troppi soldi mente: ci sono fondi europei destinati a questo. Le regioni cosa possono fare? Inclusione e integrazione. La Campania ha usato tutti i soldi che l’Europa ci dà e un po’ del bilancio regionale per il contrasto al caporalato. Quello che non possiamo fare è sostituirci alle competenze dello Stato. Possiamo fare i tavoli con la polizia per avere i permessi di soggiorno in un mese anziché in un anno, ma qui dovrebbe arrivare Piantedosi. Ci fosse una nuova giunta De Luca lei sarebbe ancora assessore? In ogni caso io non sarò assessore. Ho 72 anni, non ho più le energie di quando facevo il leone al Viminale, con i colleghi e con qualche ministro. E per essere rieletto De Luca ha bisogno di relazioni politiche. Che io non gli posso assicurare. Alla fine sono e rimango un tecnico, ho una sensibilità politica, ma rimango un prefetto. Iran. Nasrin Sotoudeh: “Vi racconto il carcere di Evin, dove finisce chi difende i diritti umani” di Simona Musco Il Dubbio, 5 gennaio 2025 Intervista all’avvocata iraniana paladina dei diritti umani che dal carcere di Evin, dove si trova la giornalista italiana de Il Foglio, ci è passata più volte. E ora lì si trova anche suo marito. “Sono profondamente triste per l’arresto di Cecilia Sala. Il suo grande amore per l’Iran e per il suo popolo è evidente nei suoi reportage. In un momento in cui molti cercano di demonizzare l’Iran e i suoi abitanti, i suoi articoli riflettono l’umanità del popolo iraniano e la ricchezza della nostra cultura. Mi unisco ai miei compatrioti nel chiedere l’immediato rilascio della signora Sala dalla prigione di Evin, affinché siano tutelati i diritti di tutti i giornalisti, così come quelli dei cittadini stranieri, in Iran. In un periodo in cui Sua Santità Papa Francesco celebra il Natale invitando persone di tutte le fedi ad abbracciare l’amore e la vita, la liberazione della signora Sala rappresenterebbe un gesto di speranza e gioia, spezzando i cicli di ostilità e odio che dividono le civiltà”. Non ha ancora una volta paura di parlare Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana paladina dei diritti umani che dal carcere di Evin, dove si trova la giornalista italiana de Il Foglio, ci è passata più volte. In quel buco nero dei diritti, ora, si trova anche suo marito Reza Khandan, anche lui attivista, “colpevole” di aver fabbricato delle spille contro il velo obbligatorio e contro tortura e repressione. Khandan, nei giorni scorsi, ha iniziato uno sciopero della fame, interrotto per via delle sue gravi condizioni di salute. E alla sua famiglia viene impedito di incontrarlo, un’altra forma di tortura pensata per portare allo stremo i prigionieri politici. Il caso Sala è l’esempio lampante di ciò che le autorità politiche iraniane pensano dei diritti umani. Che idea si è fatta di questa vicenda? Prima di tutto, credo che ci siano evidenti comportamenti illegali in questo caso. Sala è entrata in Iran in maniera completamente legale, con passaporto e previa comunicazione, come giornalista, e stava svolgendo i suoi doveri professionali. Nonostante ciò, è stata arrestata senza alcun motivo, solo in seguito alla detenzione di un cittadino iraniano in Italia. Non c’era alcun mandato di arresto nei suoi confronti. Questo tipo di atti illegali e vergognosi accade ormai da anni in Iran. Questi comportamenti compromettono gravemente l’immagine del Paese e fanno infuriare il popolo iraniano, perché a causa di questi atti è l’immagine di tutti noi che viene compromessa. L’ipotesi è appunto che si stia tentando di fare uno scambio con Mohammad Abedini Najafabani, arrestato tre giorni prima di Sala in Italia. Quanto la ritiene fondata? Ho sentito più volte dai miei colleghi che, in situazioni simili, le autorità hanno cercato di negoziare con le ambasciate per organizzare scambi con individui accusati di atti terroristici in Europa o altrove. Non posso negare che questo possa essere uno di quei casi. Lei è stata più volte ad Evin. Quali sono le condizioni di detenzione? Se i detenuti si trovano nel reparto 209 o nel blocco 2A, l’isolamento è la prima e più crudele forma di tortura. Il contatto con il mondo esterno viene completamente interrotto. I detenuti sono rinchiusi in celle con pareti bianche, spesso di un colore neutro come grigio o crema. Il pavimento è nudo e l’unico equipaggiamento fornito è una coperta militare usata come materasso, un’altra per coprirsi e una più piccola da usare come cuscino. Il cibo viene distribuito tre volte al giorno in contenitori monouso, e le telefonate sono vietate. Tutto dipende dalla discrezione dell’interrogatore, che può decidere se permettere un contatto con la famiglia dopo settimane o mesi. A cosa sono sottoposti i detenuti? Una delle pratiche peggiori è l’obbligo di indossare una benda sugli occhi ogni volta che escono dalla cella. Questo riduce ulteriormente il loro già scarso contatto con il mondo esterno. Non riescono nemmeno a vedere dove stanno andando e spesso urtano contro i muri. Inoltre, vengono costretti a stare in piedi di fronte a un muro con la benda sugli occhi, una forma di tortura psicologica che aggrava la loro sofferenza. Chi decide le condizioni di queste persone? Nel reparto 209 e nel blocco 2A, il controllo è totalmente nelle mani degli interrogatori. Sono loro a decidere se il prigioniero può avere carta e penna, strumenti generalmente vietati. Anche quando li concedono, lo fanno sotto stretta sorveglianza. Magari perché le negoziazioni con le ambasciate li obbligano diplomaticamente a fornire carta e penna ai prigionieri, specie se giornalisti e hanno bisogno di tali strumenti. Ma anche quando fanno questo tipo di concessione, dobbiamo tenere a mente che i carcerieri hanno un controllo totale su ciò che viene scritto. I testi possono essere sottratti loro in qualsiasi momento per essere esaminati e in questo modo capire cosa passa nella mente del prigioniero o utilizzare contro di loro ciò che viene scritto. Dico ciò per far capire come un prigioniero si trovi intrappolato da un ente di sicurezza, mentre in realtà è solo un semplice giornalista, un avvocato o un cittadino iraniano o straniero. Anche suo marito Reza Khandan si trova ad Evin. Qual è la sua situazione? Sta affrontando condizioni molto difficili nella sezione 8, dove le celle sono fredde, sporche e infestate da insetti. L’ambiente è insalubre e non idoneo alla detenzione umana. Ogni settimana, quando io e mia figlia andiamo a trovarlo, dobbiamo affrontare la sfida del velo. L’ultima volta ci è stato negato il permesso di incontrarlo. Mia figlia, esasperata, ha protestato con forza, gridando contro questa ingiustizia. Anche mio figlio si è unito alla protesta, ricordando come per anni siano stati privati del diritto di vedere i propri genitori a causa del velo obbligatorio. Cos’è accaduto precisamente? Mi hanno nuovamente chiesto di indossare l’hijab. Quando ho rifiutato, mi è stato detto che non avrei potuto fare la visita. Conoscevo l’illegalità di questa decisione, ma ero pronta a rinunciare alla visita per denunciare la questione. Tuttavia, quando a mia figlia Mehraveh è stato impedito di vedere il padre per lo stesso motivo, la situazione è diventata insopportabile per lei. Dopo anni di privazioni simili, ha rivendicato con forza il suo diritto a una visita senza tensioni. Insieme a mio figlio Nima, hanno chiesto che il responsabile della sala visite fosse chiamato a rispondere di anni di ingiustizie. La determinazione di Mehraveh ha portato a una riunione, durante la quale ha raccontato le sofferenze subite dalla nostra famiglia. Presenti alla riunione erano anche il vice direttore del carcere e il capo della sicurezza, ma alla fine siamo tornati a casa senza aver visto Reza. Impedire una visita per la mancata osservanza dell’hijab è un chiaro esempio di abuso di potere statale. Ed è un crimine.