I Vescovi al Governo: le carceri italiane sono disumane di Pier Giuseppe Accornero vocetempo.it, 4 gennaio 2025 Non era mai successo. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva appena finito il suo messaggio di buon anno agli italiani a reti unificate, che ha presidenza della CEI, con una rapidità encomiabile, emetteva una “nota con la gratitudine per le parole del presidente sulla drammatica situazione delle carceri”. Si può ipotizzare che sul cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, abbiano agito due fattori: i “rapporti” sempre più allarmanti dei cappellani delle carceri che sono in costante rapporto con i detenuti; la vigorosa spinta di Papa Francesco che a Santo Stefano ha voluto scegliere il carcere di Rebibbia per aprire la seconda porta santa dopo quella di San Pietro il 24 dicembre. “Esprimiamo profonda gratitudine - scrive Zuppi - al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per le parole che ha rivolto al Paese nel messaggio di fine anno. È un’occasione per rinnovargli la nostra riconoscenza per il suo servizio di custode e garante della democrazia e dei valori della nostra Repubblica e dell’Europa. Lo ringraziamo, in particolare, per aver ricordato le tante povertà che segnano il nostro tempo e le nostre comunità. Tra queste, la drammatica situazione delle carceri che impone un ripensamento radicale del sistema penitenziario”, al quale però non pensa minimamente il governo di destra, preoccupato solo di incrudelire le pene, di inventarne di nuove, di “buttare la chiave” come ama esprimersi Matteo Salvini, o come si esprime il sottosegretario alla Giustizia Dalmastro che prova “un’intima gioia all’idea di far sapere che non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato” nelle nuove auto della Polizia penitenziaria. Zuppi ricorda le parole del presidente Mattarella: “Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”. Chiaro riferimento alle sciagurate parole del sottosegretario biellese. Un’”aria diversa”. È assolutamente impossibile nelle carceri italiane. Il sovraffollamento - si preoccupa di ricordare la presidenza dell’episcopato - è dimostrato da queste cifre: “Attualmente i 189 Istituti italiani ospitano 61.246 persone su una capienza di 51.230 posti. L’indice di sovraffollamento, pari a 130,44 per cento, e i suicidi, sempre più numerosi, chiedono ascolto: la disperazione non può avere come risposta l’indifferenza. Serve uno sforzo collettivo per assicurare condizioni dignitose a quanti vengono privati della libertà e per offrire percorsi adeguati perché la detenzione sia un’occasione di rieducazione e redenzione. Per garantire sicurezza, c’è bisogno di giustizia, non di giustizialismo. Esistono misure alternative che, oltre a prevenire la reiterazione di un reato, salvaguardano l’umanità e favoriscono il reinserimento nella società: se ben proporzionate e gestite con saggezza, sono in grado di produrre un cambiamento e di guardare al futuro”. Si noterà il tono molto duro di questo comunicato con il Governo Meloni: “Non si tratta di scorciatoie o concessioni buoniste, ma di un vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di un atto di amore. Occorrono però strumenti e finanziamenti mirati ed efficaci, lavoro, collaborazione degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Esperienze bellissime, diffuse sul territorio, dimostrano che un’altra realtà esiste, che il traguardo della “recidiva zero” è possibile. È una sfida da affrontare insieme: istituzioni, società civile, comunità ecclesiale, con il supporto del mondo del volontariato, fondamentale anche nel fare cultura fuori da pregiudizi e distorsioni”. Pochi giorni dopo l’apertura del Giubileo e della porta santa nel carcere di Rebibbia, Zuppi ripete l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella bolla di indizione “Spes non confundit”: “Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. È necessario - conclude il presidente della Cei - “dare dignità al grido degli ultimi: come Chiesa in Italia continuiamo a camminare con i fratelli che hanno sbagliato, con amore, perché questo ci fa riconoscere nell’altro la persona che è sempre degna della nostra compassione”. Carceri fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale: è la fotografia che lascia il 2024. “Lanciamo l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. Il governo ponga il carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte”. Lo denuncia Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Il 23 dicembre è morta l’ultima persona in carcere, la 244ª di questo drammatico 2024, di cui ben 88 suicidi, un tristissimo primato. La morte - denuncia “Antigone” - “è avvenuta nel carcere di Sollicciano, uno di quegli istituti dove sovraffollamento, condizioni strutturali e di conseguenza igienico-sanitarie non si possono definire degne di uno Stato di diritto. Nonostante queste situazioni fissate da questi numeri, nonostante i richiami del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - non solo a san Silvestro -, l’attenzione sul carcere è minima e le uniche politiche attive del governo “sono quelle - denuncia “Antigone” - che continuano a riempire spazi che ormai da tempo non ci sono più”. Lottiamo per libertà, diritti e vita di Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti* L’Unità, 4 gennaio 2025 Il nuovo anno per noi di Nessuno Tocchi Caino è iniziato così come si era concluso il precedente: impegnati nell’opera laica di “visitare i carcerati”. Come diceva Marco Pannella, non bisogna mai smettere di osservare e di raccontare il carcere, perchè quel luogo è un microcosmo in cui si riflette la nostra società, nel bene e nel male. Quello appena passato è stato un anno orribile: 89 detenuti e 8 “detenenti” si sono tolti la vita. Cifre mai registrate prima nel nostro Paese che dimostrano che ormai il carcere non è più solo luogo di privazione della libertà: qui non sono presenti né i diritti né la vita. L’anno 2024, per noi, si è concluso così come era iniziato, e il nuovo anno, il 2025, è iniziato così come il vecchio si è concluso: impegnati nell’opera laica di misericordia corporale del “visitare i carcerati”. “Mai distrarsi un attimo dal carcere!” aveva ammonito Marco Pannella prima di andarsene. Occorre continuare a osservare, a conoscere, a far sapere la realtà di un luogo, perché quel luogo è la parte per il tutto, di tutto quel che è la nostra società. In quel microcosmo si riflette, si vive il bene e il male del mondo intero, si misura il grado del nostro essere civili, umani, giusti. Mentre scriviamo, nell’ultimo giorno di un anno orribile per questo mondo dimenticato, sappiamo che 89 detenuti si sono tolti la vita, che si sono suicidati anche 8 “detenenti”, che altre 156 persone sono morte per altre cause, molte di “morte naturale”, semmai può essere certificato come naturale quel che avviene in un luogo di privazione della libertà. Queste cifre, mai registrate nella storia del carcere penale del nostro Paese, descrivono la realtà di un luogo che non è più, se mai è stato, solo di privazione della libertà. Perché la pena inflitta è corporale, la perdita è totale: in carcere, a mancare sono i sensi fondamentali e i più significativi contatti umani, a venire meno è la salute, il senno e financo la vita. La realtà del carcere è arrivata ormai a coincidere con il significato letterale della parola che dall’aramaico “carcar” - sotterrare, tumulare - trae origine. “Cimiteri dei vivi”, così, Filippo Turati definiva le carceri oltre un secolo fa! In questi “camposanti” sono ammucchiati 63mila esseri viventi, 16mila in più rispetto alle “tombe” legalmente disponibili. Mentre i “camposantieri” addetti alla dovuta sorveglianza dei luoghi e alla cura sacra dei corpi, sono 18mila in meno. Come Nessuno tocchi Caino, abbiamo visitato negli ultimi due anni oltre 220 istituti di pena. Lo abbiamo fatto spesso insieme agli avvocati delle Camere penali, dei Consigli dell’ordine, del Movimento forense, dei garanti dei detenuti; insieme anche a magistrati, parlamentari, sindaci e consiglieri comunali. In quest’opera siamo lieti di avere incontrato anche uno straordinario compagno di viaggio: Papa Francesco. Il Papa che nei giorni di Natale ha compiuto un atto non solo simbolico, ma anche politico. Con l’apertura della Porta santa in un luogo chiuso, dimenticato da Dio e dagli uomini, Francesco ha aperto le porte della vita, dell’amore, della speranza all’intera comunità penitenziaria, la comunità dei detenuti e dei “detenenti”. In tutto il suo messaggio a Rebibbia risuona il motto di Paolo di Tarso: Spes contra spem. È il motto che ha ispirato la visione e l’azione di Marco Pannella, il suo modo di pensare, di sentire e di agire nella vita e nella lotta politica. Con Papa Francesco condividiamo anche la via indicata al potere pubblico, al Parlamento, al governo. La via della amnistia e dell’indulto. Sono la riforma necessaria e urgente per ridurre il danno connaturato a un istituto strutturalmente volto a infliggere dolore e sofferenze gravi. Sono la soluzione politica, immediata, di per sé strutturale, per ridurre il carico di pena in un luogo dove sono sotterrati esseri viventi che lo abitano e ci lavorano, detenuti e detenenti, vittime gli uni e gli altri di condizioni inumane e degradanti. Sono la via maestra per condurre lo Stato al rispetto della sua stessa Costituzione. Perché “dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli”. Quanto appare vera oggi questa locuzione di Pannella che solo qualche anno fa appariva eccessiva anche ad alcuni radicali. Alla fine dell’anno appena passato, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Decima risoluzione per la Moratoria universale delle esecuzioni capitali, la battaglia storica di Nessuno tocchi Caino per superare la contraddizione di uno Stato che in nome di Abele diventa esso stesso Caino. Aiutaci nell’anno appena iniziato a superare altri regimi autoritari e illiberali vigenti in Italia e nel mondo, quelli penali e penitenziari, ma anche quelli detti “di prevenzione”, che spesso si rivelano essere più illiberali e punitivi di quelli processuali penali. “Spes contra spem è il vento dello spirito che muove il mondo”, aveva scritto Marco in una lettera struggente, la sua ultima prima di andarsene, proprio a Papa Francesco. “Spes contra spem” è il motto che, dal 2019, campeggia nel simbolo della nostra associazione affianco alla scritta “Nessuno tocchi Caino”. Per noi indica un modo d’essere, più che di fare politica. Vuol dire cercare di vivere nel modo e nel senso in cui vogliamo accadano le cose. Ti chiediamo di essere anche tu speranza, di dare corpo anche quest’anno - con la tua iscrizione a Nessuno tocchi Caino - a un altro anno di vita, di diritto, di libertà. *Direttivo dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino” Una richiesta di chiarezza sui tunisini morti nelle carceri italiane africarivista.it, 4 gennaio 2025 Mai si è verificato, come nel 2024, un numero così alto di suicidi tra persone detenute in Italia: su 244 morti in totale; 89 persone si sono tolte la vita e 10 di loro erano tunisini. Lo ha quantificato l’ex-parlamentare e attivista tunisino Majidi Karbai, che in un post sulla sua pagina Facebook il 30 dicembre informa sulla morte dell’ennesimo cittadino tunisino rifugiato in Italia e qui incarcerato, avvenuto il 27 dicembre nel carcere di Piacenza. Nel suo post Karbai parla di “silenzio e omertà” da parte della Tunisia, accusandone la diplomazia e il governo di “negligenza e silenzio sulle trasgressioni” a danno dei detenuti tunisini in Italia. A giugno Mustapha Laouini, un funzionario tunisino presso l’Istituto nazionale confederale di assistenza in Italia, ha detto che 3.000 migranti tunisini sono detenuti nelle carceri italiane. Il nome del cittadino tunisino suicidatosi il 27 dicembre non è stato reso noto e l’ex deputato insiste affinché le autorità tunisine e italiane chiedano chiarezza e rompessero il silenzio su queste morti: a novembre, una famiglia tunisina ha seppellito il corpo di Fadi Ben Sassi, 20 anni, morto anche lui in un carcere italiano per un “apparente suicidio”, sul quale i dubbi tuttavia sono molti. A marzo, anche altro cittadino tunisino di 29 anni è morto in circostanze sospette in detenzione, morti che cominciano sempre più a fare notizia anche in Tunisia, dopo che da anni molte associazioni tunisine e italiane denunciano i maltrattamenti che subiscono i migranti tunisini nei centri di detenzione amministrativa e nelle carceri italiane. Un’indagine condotta da Avvocati senza frontiere nel 2022 in seguito alla morte di due migranti tunisini ha rivelato che l’88% dei migranti tunisini di ritorno dall’Italia aveva subito abusi fisici e psicologici. Tossicodipendenti in carcere, per occuparsene servono più medici e operatori di Sert di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 gennaio 2025 L’attuale maggioranza, a parte qualche voce sporadica, è assolutamente contraria all’amnistia e all’indulto e non ha alcuna intenzione di accogliere gli appelli del Papa e del presidente della Repubblica affinché sia rispettata la dignità di chi si trova dietro le sbarre. Un’indifferenza che i suicidi non scalfiscono: ieri sera, nel carcere di Sollicciano, è stato un 26enne egiziano a togliersi la vita, il primo del 2025, dopo che nell’anno appena finito si era registrato il macabro record di 89 reclusi morti suicidi. L’unica risposta della politica è: “Occupiamoci dei detenuti tossicodipendenti”. Ma pensare di risolvere così il sovraffollamento è il segno che non sia abbia la minima idea di chi oggi è in carcere, di quali siano le criticità del sistema ma anche di quale sia il percorso riabilitativo dagli stupefacenti. Nelle carceri ci sono migliaia di detenuti che utilizzano sostanze ma non tutti sono “certificati” come assuntori. “Nel corso della visita del Partito Radicale per il Natale in carcere, a San Vittore abbiamo trovato almeno il 70 percento di detenuti tossicodipendenti. In gran parte si tratta di soggetti che assumono sostanze di ogni genere, anche psicofarmaci, spesso usati per creare “sballo” e alleviare le pene di una vita disagiata”, ha dichiarato l’avvocata radicale Simona Giannetti. “Queste sostanze - ha aggiunto - non sono però considerate come stupefacenti e dunque non permettono un percorso per la riabilitazione dall’abuso e neanche per l’attivazione di una cura per controllare la dipendenza” Il punto che la politica ignora è proprio questo: si può accedere alle misure alternative previste per la riabilitazione dalla tossicodipendenza, una volta ottenuto il certificato dal Sert interno al carcere, con un programma da eseguire fuori dalle mura, in detenzione domiciliare o in affidamento presso le comunità, che si occupano di questi pazienti. Ai detenuti che volessero aderire al percorso di riabilitazione servono dunque più educatori e più medici del Sert (che non ci sono), i quali possano procedere ai colloqui in carcere, necessari per un programma che la norma considera a pena di inammissibilità per ottenere “l’affidamento terapeutico”. Questo è “occuparsi dei tossicodipendenti”. La Comunità terapeutica come alternativa al carcere di Piero Innocenti 9colonne.it, 4 gennaio 2025 Alcuni giorni fa si è riacceso (ma solo per poco) il dibattito politico sul sovraffollamento nelle carceri elencando una serie di possibili interventi tra cui la limitazione alla carcerazione preventiva, l’incremento dei giudici di sorveglianza e di agenti della polizia penitenziaria, il riconoscimento della pena nelle comunità terapeutiche per i tossicodipendenti. Su quest’ultimo punto, in particolare, già la legge 532 del 1982 dava la facoltà ai giudici, in sede applicativa, di estendere ai tossicodipendenti, sottoposti a giudizio per qualche reato, la possibilità di poter scontare la pena presso le comunità terapeutiche, aprendo così un’importante strada per il perseguimento di due finalità, il recupero del tossicodipendente (ma sono stati davvero pochi quelli che hanno scelto la strada, non facile, delle comunità) e l’apertura di un canale di deflusso per l’annoso problema, mai risolto in realtà, del sovraffollamento carcerario. Un altro passo importante fu rappresentato dalla legge 398/1984 che, all’art.35, considerava per alcuni versi la comunità terapeutica, individuata con decreto del Ministero della Giustizia, come ente alternativo al carcere e non come luogo di privata dimora. Il legislatore, tuttavia, ebbe il merito, non prevedendo un obbligo per le comunità di accogliere il reo tossicodipendente, di lasciare a queste la piena libertà della valutazione dell’opportunità o meno del suo eventuale ingresso ai fini del recupero, in relazione alla situazione psichica del soggetto. Non va dimenticato che la prima valutazione della effettiva volontà del tossicodipendente di uscire dal “tunnel” della droga è uno dei cardini su cui fa leva l’opera ed il conseguente esito dell’attività di recupero della comunità; una forzatura normativa in questo senso sarebbe stata quanto mai deleteria, potendo verificarsi dei casi in cui la scelta comunitaria non produceva effetti per l’accertata assenza di volontà protesa all’uscita dal “tunnel”. Tutte le comunità sono animate dai cosiddetti gruppi terapeutici che costituiscono nuclei dinamici di aggregazione essenziali. Tali gruppi dispiegano la loro azione in più direzioni, occupandosi di argomenti e fatti relativi a ciascun ospite in fase di recupero: possono riferirsi ad un tipo d’insegnamento specifico, al trattamento dei problemi della famiglia, possono favorire i processi di auto rivelazione o sono di sostegno, di terapia educativa, di lavoro, di analisi e di trattamento psicologico. Essi attuano tutta una serie di strategie con lo scopo unico ed esclusivo di operare per la ricostruzione psichica del tossicodipendente, in modo tale che non si trovi “perso” a decidere da solo su questioni vitali per il suo futuro. Per il recupero occorre che egli acquisisca la piena consapevolezza di quello che realmente è e per raggiungere tale scopo esiste un gruppo molto particolare detto “d’incontro” che attua un tipo di dialogo “d’assalto” con il quale cerca di indurre la persona ad un esame introspettivo del suo comportamento e del suo modo di vivere. Anche se il drogato, una volta entrato in comunità, ammette di essere tale, egli tenta comunque di auto ingannarsi sulla propria reale dipendenza dalla sostanza; è compito del gruppo ricordargli continuamente la situazione reale, talvolta anche con un linguaggio molto duro. Il messaggio semplice ed essenziale che viene dalle comunità è un richiamo alla eterna e sempre valida filosofia del non tirarsi indietro di fronte a chi, palesemente, dimostra di avere bisogno di aiuto. “I care”: mi riguarda, è compito mio. Un imperativo categorico alla base di ogni possibile società civile. Il nostro Stato di diritto è una clessidra senza sabbia di Fabio Falbo* L’Unità, 4 gennaio 2025 Si è scoperto con sommo stupore come la legge non è uguale per tutti, forse neanche il rispetto della Costituzione, se si pensa che nessun organo o potere, ad eccezione del presidente della Repubblica - attraverso l’istituto della grazia o con l’istituto della revisione - può cancellare o sterilizzare gli effetti di una sentenza che, tra l’altro, riguarda reati di una gravità estrema come la tortura. Ebbene, nel nostro Stato italiano questo fenomeno si è verificato con un’evidenza che dovrebbe spaventare tutti e con una semplicità, ove si consideri la complessa burocratizzazione del nostro sistema che ci impone delle riflessioni allarmanti. Lo Stato italiano è stato condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo con l’emissione della sentenza “Torreggiani contro Italia”. Non solo il nostro Stato è rimasto impunito nei soggetti che sicuramente ne hanno determinato o concorso alla causa, ma tantomeno poteva porre rimedio al sovraffollamento concedendo la detrazione di pena pari a 1 giorno per ogni 10 giorni di carcere o anche disporre risarcimento del danno pari a 8 euro per ogni giornata trascorsa in condizioni di detenzione inumane e degradanti. Si evince come lo Stato italiano, a fronte di una condanna per reati gravi, anziché provvedere, come succede per ogni comune cittadino, all’individuazione dei responsabili a vario titolo, ha arbitrariamente deciso per un’amnistia irrituale, in spregio a ogni norma democratica e codicistica, decidendo, pur senza una causa di estinzione del reato, di rinunciare a perseguirlo. A questo punto, per coerenza, non avrebbe neanche dovuto predisporre alcun meccanismo risarcitorio. Nonostante la Cedu abbia accertato la lesione dei diritti soggettivi della persona detenuta, lo Stato italiano, infischiandosi della condanna subita, si è autoapplicato una forma di amnistia legalizzata, di certo non disposta con legge dello Stato o votata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Oltre ad aver fatto estinguere il reato, ha fatto capire che il reato non è stato commesso, tanto è vero che non vi sono stati colpevoli per quelle responsabilità collettive che non sono intervenute a impedire - il che equivale a cagionare per ogni comune cittadino - i suicidi, le morti o l’ingresso di quell’ammasso di materiale umano, anche ultraottantenne, nelle patrie galere italiane. La parola amnistia deriva dal greco e significa “dimenticanza”, e come spesso accade in queste situazioni, lo Stato italiano dimentica volutamente anche il termine “perentorio” contenuto nella sentenza Cedu sopra indicata. Questo termine “dimenticato” obbligava e obbliga lo Stato italiano a porre rimedio entro un termine previsto, in questo caso un anno a partire dal 2013. Siamo a fine 2024, ma il termine si è trasformato in “ordinatorio”. Non rispettare il termine perentorio significa non rispettare la dignità umana, oltre al non rispetto degli obblighi in questione. Con che criterio lo Stato italiano ha deciso l’impunità dei colpevoli e uno sconto del 10% o degli 8 euro al giorno per il risarcimento del danno? Con quale meccanismo lo Stato ha deciso la necessità di un risarcimento visto che ove tale condanna avesse coinvolto un cittadino comune, avrebbe sin da subito comportato un’indagine e un accertamento della responsabilità (che per tale reato prevede pene importanti con condanne ostative) e conseguentemente avrebbe previsto un congruo risarcimento del danno. L’inutile sconto del 10% viene quasi sempre rigettato dalla magistratura di sorveglianza competente, nonostante vi sono i dati ministeriali che indicano un sovraffollamento di tutte le strutture penitenziarie dal 150% al 200%, oltre a una situazione delle predette strutture carcerarie già di per sé stessa invivibile, a prescindere dal sovraffollamento medesimo, per non accennare ai risibili 8 euro giornalieri di risarcimento. La perenne emergenza fa parte di quel sistema penitenziario collassato che produce inciviltà. Queste sono poche righe e pochi dati ineludibili che fotografano, senza possibilità di confutazione alcuna da parte di nessuno, lo stato attuale di sospensione della democrazia e della presenza, viceversa, di una struttura più vicina a molti Stati in cui regna la dittatura o la tirannia e comunque ai limiti dell’eversione. Uno Stato che non risponde dei propri crimini accertati con sentenza è uno Stato eversivo nel vero senso etimologico della parola e allo stesso tempo illegale. Il nostro Stato di diritto è una clessidra senza sabbia, che attualmente è rimasto alla concezione del “sorvegliare e punire”. *Detenuto nel carcere di Rebibbia I permessi premio dei boss ergastolani fanno paura ai pentiti. “Noi andremo all’estero” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 gennaio 2025 Preoccupazione per i provvedimenti dei tribunali di sorveglianza che hanno rimesso in libertà alcuni mafiosi. La Cassazione prova a mettere un freno: “Per accedere alle misure alternative alla detenzione, è necessario che gli imputati abbiano pagato i risarcimenti ai familiari delle vittime”. “Chissà chi sarà il prossimo ad andare in permesso premio”, la voce al telefono è flebile, sembra arrivare dall’altra parte del mondo. “Forse uno dei fratelli Graviano, oppure uno dei Madonia. O Leoluca Bagarella. E a me non resterà che scappare all’estero”. L’uomo che parla è uno dei collaboratori di giustizia che più hanno contribuito a smantellare la mafia delle stragi: “Io e la mia famiglia abbiamo pagato un prezzo altissimo, lontano da Palermo - sussurra - ma non mi sono mai tirato indietro. Adesso, però, tutti questi permessi premio per i boss ergastolani mettono paura. Siamo di fronte a gente che non dimentica, altro che detenuti modello”. Fra boss in semilibertà, in permesso premio e scarcerati per fine pena c’è un gran movimento a Palermo. Da Brancaccio a Porta Nuova, da Passo di Rigano a San Lorenzo, sono tanti i nomi che fanno paura. Non solo ai collaboratori di giustizia. “I rischi sono due - dice la voce al telefono - quello di una possibile riorganizzazione dei clan e quello delle vendette che potrebbero scattare”. L’antimafia è già in allerta, la direzione distrettuale diretta dal procuratore Maurizio de Lucia e le forze dell’ordine sono attentissime a monitorare il ritorno dei boss sul territorio. Operazione non facile, perché le variabili in campo sono davvero tante: da una parte ci sono i vecchi, che puntano a una Cosa nostra degli affari, soprattutto nel sistema dell’economia legale; dall’altra, i giovani che scalpitano per concludere sempre più traffici di droga. In una prospettiva e nell’altra, a Palermo è tornata a circolare una gran quantità di denaro sporco, che è il vero motore della riorganizzazione mafiosa. Niente di nuovo sotto il cielo di Cosa nostra: qualcuno potrebbe aver già rilanciato il progetto di ricostituire la commissione provinciale, la Cupola, che costituisce una sorta di direzione strategica dell’organizzazione. Progetto già stroncato dai carabinieri e dalla procura alla fine del 2018: quella volta, le intercettazioni svelarono la pacificazione voluta dal “grande vecchio”, Settimo Mineo, ma anche dai rappresentanti delle cosche uscite perdenti dalla guerra di mafia del 1981, gli Inzerillo. Obiettivo comune, mettere da parte le vendette. “Ma stavolta è diverso - sussurra la voce al telefono - nessuno invocherà una pacificazione con i mafiosi diventati collaboratori di giustizia, da sempre al centro di un odio viscerale”. Intanto, i permessi premio dei boss ergastolani continuano a susseguirsi. Com’è noto, dal 2019 anche i mafiosi irriducibili possono essere ammessi ai benefici penitenziari, così ha stabilito la Corte Costituzionale, è sufficiente che vengano escluse due circostanze: “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale” e pure “il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. In semilibertà e in permesso premio è andato persino uno dei boss delle stragi, Giovanni Formoso, che sta scontando l’ergastolo per avere caricato l’autobomba della più misteriosa delle stragi del 1993, quella di via Palestro, a Milano. Strage, sospettano i magistrati di Firenze, che avrebbe visto la partecipazione anche di una donna, probabilmente legata ad ambienti deviati dei servizi segreti. Formoso si è sempre ben guardato dal dare anche solo un piccolo contributo alla ricerca della verità. Ma viene ritenuto lo stesso un detenuto modello. Ora, però, la Cassazione ribadisce un altro elemento di valutazione per le istanze dei boss che sollecitano permessi premio: il risarcimento delle vittime dei reati, così come stabilito dalle sentenze di condanna. La Suprema corte cita una sentenza del gennaio 2004, la 16321: “Il condannato per reati ostativi cosiddetti di prima fascia che, non avendo collaborato con la giustizia, voglia accedere alle misure alternative alla detenzione deve dimostrare l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, o l’assoluta impossibilità dello stesso, anche nel caso in cui la persona offesa non si sia attivata per ottenere il risarcimento del danno››. Questo ha scritto la prima sezione della Suprema Corte rigettando la richiesta di permesso premio avanzata da un boss di Porta Nuova. La questione del risarcimento del danno, che nessun boss ha pagato, potrebbe adesso bloccare il fiume di permessi premio. Giustizia riparativa, sì a istanza in sede di rinvio e il diniego è impugnabile insieme alla sentenza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2025 La Cassazione esclude profili di incostituzionalità rispetto ai casi di reati perseguibili a querela. La richiesta di accesso alla giustizia riparativa può essere avanzata in qualsiasi grado e fase del giudizio penale, compreso nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento di una decisione in sede di legittimità. Infatti, si tratta di decisione che ha piena rilevanza nell’ambito del giudizio di cognizione. Cognizione che risorge pienamente di fronte al giudice del rinvio, anche in relazione alla maturazione o meno dei presupposti (rectius, dell’utilità) nello specifico caso di dare accesso all’imputato alla nuova forma deflattiva della riparazione. Da tali considerazioni deriva anche l’impugnabilità dell’ordinanza con cui il giudice nega l’invio ai programmi di giustizia riparativa. Anche se - a differenza dei reati rimettibili a querela - l’istanza non sospende il processo e l’eventuale impugnazione del diniego del giudice all’invio al programma è ammessa solo unitamente all’impugnazione della sentenza che definisce il grado di giudizio. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 131/2025 - ha di fatto rigettato il ricorso che lamentava l’incostituzionalità delle nuove disposizioni della Riforma Cartabia in quanto non consentirebbero di ricorrere contro il diniego del giudice all’accesso allo strumento alternativo di definizione del processo se non nel caso di reati perseguibili a querela di parte dove tra l’altro l’istanza di accesso sospende il processo. La Cassazione nega la lamentata violazione dei diritti costituzionali di uguaglianza e a una ragionevole durata del processo in conseguenza del suddetto distinguo operato dalla Riforma tra reati procedibili d’ufficio e in base a querela. Lo esclude facendo rilevare in primis che di fatto con l’impugnazione della sentenza è “comunque impugnabile” anche l’ordinanza di diniego, e che la distinzione è giustificata dal fatto che nei reati rimettibili in base a querela l’esito positivo del programma riparativo estingue il reato. Per cui anche il tempo di sospensione “automatica” del procedimento nel caso dei reati perseguibili a querela è ricompensato in termini deflattivi della macchina della giustizia dall’esito positivo del programma che pone fine al processo. Emilia Romagna. Carceri: l’orrenda scia di morte non si interrompe di Vito Totire vocididentro.it, 4 gennaio 2025 Dopo mesi di “chiacchiere” non è cambiato nulla se non in peggio. Dopo un 2024 tragico (90 “suicidi”, 245 morti), il 2025 si apre con una ulteriore scia di morte: le notizie sono scarne; lavoreremo per approfondire: a differenza del Garante regionale, che sostiene di “non avere parole”, noi ne abbiamo molte a cominciare dalla proposta che i garanti siano eletti dalle persone private della libertà e non dai sindaci o dal ceto politico; non è la prima volta che facciamo questa proposta, fino ad ora, “vox clamantis in deserto”. Bologna, una delle carceri più martoriate da eventi mortali negli ultimi decenni: ora muore “un pakistano” accasciandosi al suolo; ci risulta che “un pakistano” immigrato in Italia abbia una speranza di vita inferiore a quello della popolazione autoctona; “un pakistano” privato della libertà è certamente in una condizione peggiore, Causa di morte? Solo ipotesi per ora, seguiremo l’inchiesta. Modena: una persona deceduta a seguito o in concomitanza di inalazione di gas; anche qui cronache scarne: uso cosiddetto voluttuario o a scopo “suicidario”? (ovviamente si tratta quasi sempre di omicidi reattivi al sistema carcerario). Su Modena e sulle bombolette di gas abbiamo molto da dire; da lungo tempo abbiamo denunciato come inammissibile che nelle carceri vi sia disponibilità di questo “mezzo” che si è rivelato spesso mortifero; i dati diffusi dal garante nazionale (gestione Mauro Palma) evidenziavano che la bomboletta di gas è il secondo, in ordine di frequenza, mezzo usato nelle condotte suicidarie, dopo l’impiccagione. All’epoca il rapporto del garante definiva le bombolette in questi termini “il cui uso è consentito” senza ulteriori commenti; diversa la nostra posizione: le bombolette nelle carceri non devono essere accessibili; a questo riguardo siamo ancora in attesa della decisione della procura di Modena su un tragico evento del febbraio 2023 che ha riguardato F.B.; all’opposizione alla proposta del Pm di archiviazione la magistratura non ha ancora risposto; forse questo ultimo evento accaduto nello stesso carcere indurrà qualche riflessione? Oppure potrebbe “aiutare” a riflettere quanto sostenuto da uno degli ultimi rapporti della Ausl di Bologna sulle bombolette il cui uso, sempre secondo la Ausl, dovrebbe essere evitato; la Ausl non cita esplicitamente il rischio suicidario, cita alcuni altri rischi seguiti da un sibillino “eccetera”; minus scripsit quam voluit? Noi non mettiamo né “eccetera” né punti interrogativi: le bombolette non devono entrare nelle carceri e in qualunque altro contesto connotato da rischi suicidati e pulsioni tossicofile. Come si spiega la “cecità” istituzionale su questo “problema”? Malafede, difficoltà cognitive, pigrizia mentale? L’ipotesi che noi facciamo è l’opportunismo di un’istituzione totale che non intende gestire correttamente l’igiene alimentare all’interno delle carceri e che adotta condotte ad alto rischio per le persone private della libertà: in sostanza omissione colposa di misure di prevenzione e omicidio colposo con previsione. Come cantò Fabrizio De André: anche se siete stati assolti siete lo stesso coinvolti. Ma ci chiediamo: il tribunale di sorveglianza, venuto a conoscenza, delle indicazioni, sia pure “timidamente” espresse dalla Ausl di Bologna, per quale motivo non le ha tradotte in disposizioni vincolanti? la domanda è retorica. E lo stesso dicasi per il signor sindaco di Bologna dedito peraltro ad organizzare un rogo inquinante in piazza Maggiore una volta all’anno: perché non ha tradotto il rapporto Ausl in una ordinanza prescrittiva? Sarebbe stato di esempio anche per Modena? Sugli altri eventi luttuosi: Piacenza (un decesso) e ancora Modena (una persona in coma da venti giorni): basta con le chiacchere e le lacrime del giorno dopo: il ministro di Giustizia e quello della Salute si dimettano! Tutto il governo attualmente in carica si deve dimettere: alla tragedia delle carceri si associa quella del tentativo di realizzare il Cpr in Albania (rigurgito neocoloniale compatibile con la formazione storica e politica del governo, di una sua parte significativa) nonché, a prescindere dalla sede territoriale, rimane l’abominevole pratica della privazione della libertà sconfinata spesso palesemente nella tortura comminata (persino) in assenza di reati! Se rimanessero dubbi sulla natura vacua delle dichiarazioni di buone intenzioni di alcuni esponenti del governo (le persone tossico dipendenti potranno andare in comunità: se ne parla da quasi 50 anni!) ci “aiuta” a capire i programmi del governo (sullo sfondo del mai criticato principio del buttare la chiave) il calendario militarista elogiato da un sottosegretario che ritrae il personale della polizia penitenziaria “armato fino ai denti”, l’esatto opposto della evoluzione che occorre: da “custodi” sovraccaricati di lavoro e di distress, a operatori della risocializzazione. Il sindaco di Bologna e il Tribunale di Sorveglianza si assumano le loro responsabilità. I garanti vengano nominati per elezione diretta dalle persone private della libertà e non dal ceto politico. In ogni città sede di carceri si convochi una istruttoria pubblica aperta a tutti i cittadini entro il 2025. Lombardia. Quello delle carceri è un collasso annunciato: 6.000 posti per 8.500 reclusi di Stefania Totaro Il Giorno, 4 gennaio 2025 Sovraffollamento e poca chiarezza sulla salute dei detenuti. Quattro istituti tra i primi dieci in Italia per limiti superati: a San Vittore si affiancano Canton Mombello e Bassone. “Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Sono le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno. Eppure nelle carceri lombarde, dove ci sarebbe posto per poco meno di 6mila detenuti, i reclusi sono quasi 8.500, più di 2.500 e il 40% in più. Nella top ten dei dieci istituti di pena più sovraffollati d’Italia, quattro si trovano proprio in Lombardia. Il primato spetta a San Vittore: i posti regolamentari dovrebbero essere 702, quelli realmente disponibili sono invece 470, ma le persone rinchiuse sono più di mille. Al secondo posto nazionale dei penitenziari più overbooking c’è la casa circondariale di Brescia Canton Mombello: i detenuti dovrebbero essere non più di 182, mentre in realtà sono 378. A Como, sesto istituto più “sotto stress” d’Italia, sono 445 invece che 225. Chiude la classifica delle 10 carceri più sovraffollate d’Italia la sezione femminile di San Vittore, con un’ottantina di detenute, quasi due volte tanto la quarantina che potrebbero e dovrebbero essere accolte. Difficile in simili condizioni che i detenuti possano “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”, come indicato sempre dal Capo dello Stato, poiché in celle in cui sono stipati in otto in un posto realizzato per quattro, l’aria manca proprio, una pena suppletiva non prevista al di fuori di ogni legge. sul tema pesano anche due pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Oltre che le celle sovraffollate, in molte strutture mancano spazi per la socialità e la formazione e ci sono pochi educatori, come spesso sono insufficienti gli agenti della Polizia penitenziaria: dovrebbero essere in 4mila, sono 3.700. Di fronte a un quadro del genere, dall’Associazione Luca Coscioni hanno inviato una lettera di diffida a tutti vertici delle Ats regionali per chiedere conto di salute fisica e mentale dei detenuti. “In meno della metà ci hanno risposto”, rivela Marco Perduca, che coordina l’iniziativa. C’è anche un sito dove è possibile condividere in modo sicuro e anonimo critiche relative al diritto alla salute in carcere: è FreedomLeaks.org. “La denuncia partecipativa anonima - spiega Andrea Andreoli che ha sviluppato il sito - si rivolge a chi entra negli istituti di pena, perché parente, volontario, assistente sociale, educatore, formatore o difensore, oppure dipendente delle Ats o dell’amministrazione penitenziaria”. Sardegna. Detenuti al lavoro, piccoli miracoli e seconde occasioni di Cristina Cossu L’Unione Sarda, 4 gennaio 2025 Colloqui tra imprenditori e carcerati: anche in Sardegna la Rete si allarga. Qualcosa si è mosso già l’estate scorsa e un ragazzo ha lavorato in una pizzeria di Alghero. Poi le cose sono pian piano cresciute, la rete si è estesa, l’impegno e la solidarietà hanno iniziato a far nascere frutti, e adesso saranno quattro, forse cinque, i detenuti in carceri sarde che avranno un contratto - non importa di che tipo - in aziende della ristorazione e della logistica. Funziona così: si mettono in contatto imprenditori illuminati e (grazie alla disponibilità degli operatori locali del ministero della Giustizia) persone che stanno scontando una pena, sono quasi al termine, dietro le sbarre si sono comportate bene, hanno voglia di reinserirsi nella società e ottengono dal giudice di sorveglianza il permesso di lavorare. Sembra lineare, in realtà è un percorso tortuosissimo. Dunque, anche un solo esito positivo di tanti colloqui e tentativi da parte dei “mediatori”, è un risultato meraviglioso. Da due anni - Si chiama “Seconda Chance” l’associazione non profit creata nel 2022 dalla giornalista del Tg La 7 Flavia Filippi, porta avanti un progetto di occupazione dentro e fuori dalle prigioni, ha una struttura nazionale con referenti regionali e collaboratori in molte città, ha un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e, “al di là delle quasi 400 offerte di lavoro conquistate con lacrime e sangue”, sui social ricorda numerose iniziative anche di sport e svago al fine “di migliorare la condizione della popolazione carceraria”. In pratica, “presentiamo agli imprenditori la possibilità di fare impresa (a condizioni super agevolate) direttamente all’interno dei penitenziari, dove si trovano capannoni o locali dismessi il cui uso è ceduto a titolo gratuito, diffondiamo la legge Smuraglia (193/2000) che offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume - anche part time o a tempo determinato - detenuti ammessi al lavoro esterno, e operiamo direttamente sul campo, cercando adesioni attraverso un attivo “porta a porta”, nella consapevolezza che solo una sistematica “azione artigianale” possa sconfiggere certi scetticismi”, spiega Filippi. L’animazione - In Sardegna “Seconda Chance” ha trovato un aiuto prezioso, Donatella Gallistru - volontaria di Socialismo Diritti Riforme di Maria Grazia Caligaris - che nei giorni scorsi ha accompagnato alcuni imprenditori a Bancali per parlare con una ventina di detenuti. “Da circa un mese e mezzo do una mano per questo progetto, e mi piace moltissimo”, racconta Gallistru, che faceva l’informatica alla Regione, e continua a farla, per una ditta cremonese, anche da pensionata. “Ho iniziato a frequentare tempo fa Uta, adesso anche Sassari, Massama e Is Arenas, e posso dire che in una realtà terribile come quella delle carceri, ascoltare, parlare, cercare di risolvere piccoli problemi che lì dentro diventano grandi come montagne da scalare - penso ad esempio alle difficoltà di vedere i familiari, alle attese per una visita specialistica o un intervento chirurgico, alla mancanza di cure dentali - insomma, in un’esistenza buia, dare una speranza e un obiettivo dà fiducia a tutti. Collaborando con Flavia Filippi ho conosciuto imprenditori dotati di umanità e sensibilità che offrono una possibilità di riscatto, i responsabili dell’area educativa delle carceri che ringrazio per la cortesia e l’impegno profuso, detenuti che si stanno mettendo in gioco e pensano a un futuro. Ora sono scaturite alcune proposte di assunzione, altre se ne aggiungeranno, ma anche soltanto un caso che va a buon fine è un risultato enorme e uno spiraglio di luce”. Firenze. Ancora un suicidio nel carcere di Sollicciano di Luca Serranò La Repubblica, 4 gennaio 2025 La vittima è un cittadino egiziano di 25 anni, che si trovava in osservazione per una serie di atti di autolesionismo. Si è impiccato mentre era solo in cella, come tanti prima di lui. L’ennesima tragedia nel carcere fiorentino di Sollicciano si è consumata nel pomeriggio di ieri, vittima un detenuto di 25 anni di origine egiziana. Ancora da ricostruire le sue ultime ore di vita, ma i primi accertamenti sembrano tutti convergere verso l’ipotesi del suicidio. Secondo quanto emerso, l’uomo era recluso nel reparto di accoglienza e aveva compiuto in passato gesti autolesionistici, motivo per cui era tenuto in osservazione. Ieri, mentre si trovava da solo nella cella, ha deciso di legarsi un cappio al collo e farla finita. E’ stato un agente della polizia penitenziaria a dare l’allarme e far scattare i soccorsi: i tentati di rianimazione, però, non hanno avuto successo e poco dopo è stato dichiarato il decesso. Un dramma che arriva a pochi giorni da quello di un altro detenuto originario della Somalia, Mohammed Wardi Ahmed, 28 anni, trovato senza vita nella sua cella la notte tra il 22 e il 23 dicembre, stroncato secondo le prime ricostruzioni - gli accertamenti sono ancora in corso- da un mix di farmaci e alcol. Il giovane, trasferito a Firenze lo scorso 11 ottobre dal Regina Coeli di Roma, si era rivolto alla magistratura ritenendo inaccettabile la vita dentro Sollicciano, firmando (insieme ad altri 100 detenuti) un ricorso per denunciare condizioni di detenzione inumane. “Quanto accaduto purtroppo non mi meraviglia. Sono anni che dico che va chiuso perché è inumano e indecoroso. È l’opposto di tutto quello che la Costituzione dice e impone alle coscienze sulla pena, che andrebbe eseguita con senso di umanità”, dice Giuseppe Fanfani, garante dei diritti dei detenuti per la Regione Toscana, in merito alla morte di un recluso 25enne di nazionalità egiziana. “Mi sento profondamente umiliato nel ruolo ogni volta che accadono queste cose. Più vado avanti - aggiunge - e più mi chiedo se il carcere come lo intendiamo noi sia qualcosa di utile, serva a qualcosa”. Nello specifico a Sollicciano “ci sono situazioni spaventose, piove nelle celle, ne ho vista una senza vetro alle finestre, c’è un umido spaventoso”. In questo quadro “la mancanza di un direttore è un elemento aggravante, ma dirigere Sollicciano penso sia una cosa impossibile”. “Egiziano, avrebbe compiuto 26 anni fra qualche giorno, fine pena provvisorio nell’aprile del 2027, ma questa sera verso le 19 ha deciso di farla finita impiccandosi nella sua cella della sezione accoglienza”, racconta Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “A nulla sembrano servite le parole del Papa, pronunciate in occasione dell’apertura della Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, ma neppure quelle del presidente della Repubblica, particolarmente toccanti, contenute nel suo messaggio di fine anno. Servono subito misure deflattive della densità detentiva, vanno potenziati gli organici della polizia penitenziaria, necessita garantire l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive. In assenza di tutto ciò, nostro malgrado, il 2025 rischierà di essere peggiore del 2024”. Venezia. Sostituito il Garante dei detenuti. Ticozzi (Pd): “Scelta politica, inaccettabile” di Leonardo Bison veneziatoday.it, 4 gennaio 2025 Lite sull’incarico non rinnovato all’avvocato Marco Foffano. Per il consigliere è stato vittima delle sue critiche all’assessore Venturini, che nega seccamente: “Polemica infondata, era la scadenza naturale”. Dal 24 dicembre Venezia ha una nuova garante dei detenuti: è Rita Bressani, sociologa, già consulente dell’ufficio regionale del Garante. Sostituisce l’avvocato Marco Foffano, nominato nel 2022. Ma l’avvicendamento sta facendo rumore: sia perché a comunicarlo non è stato il Comune di Venezia, ma un consigliere d’opposizione, sia perché l’incarico a Foffano poteva essere rinnovato fino alla fine del mandato del sindaco, come avvenuto con il garante precedente - in carica dal 2015 al 2020 - ma così non è stato. L’accusa del consigliere dem - “Non posso che congratularmi con la neo nominata Rita Bressani, ringraziarla per essersi messa a disposizione per questo ruolo di grande importanza che viene peraltro ricoperto a titolo gratuito e augurarle un buono svolgimento dell’incarico, che, visto il suo curriculum e la conoscenza della materia, penso proprio porterà avanti al meglio” ha scritto Paolo Ticozzi, consigliere comunale del Partito Democratico, in una nota. Ma, prosegue il consigliere, “non si può non notare però che la nuova nomina effettuata dal sindaco, pur essendo stata pubblicata all’albo pretorio, non sia stata divulgata dall’ufficio stampa del comune dandole la giusta visibilità: nemmeno un comunicato rivolto ai giornali. E per chi è un attimo addentro non ci vuole molto per indovinare il perché” è l’accusa di Ticozzi. Secondo l’esponente dem l’avvicendamento sarebbe dovuto al fatto che “l’avvocato Marco Foffano, si è permesso di esprimere il suo disaccordo verso alcune affermazioni dell’assessore al sociale Simone Venturini” e il sindaco quindi avrebbe “colto l’occasione per defenestrarlo dopo soli due anni di servizio”. Il riferimento è a una lite a mezzo stampa, nell’ottobre 2024, riguardo una proposta di Ticozzi sull’utilizzo di una quota di edilizia pubblica per consentire ad alcuni detenuti a fine pena di avere un alloggio in cui risiedere, proposta censurata da Venturini. “La contiguità temporale fra le critiche del Garante dei diritti dei detenuti rivolte all’assessore Venturini, e la sostituzione del primo da parte dell’assessore, è del tutto evidente. Si tratta di censura nei confronti dell’ex garante da parte di una amministrazione comunale che non tollera critiche e dissenso” rincara Samuele Vianello, segretario dei Radicali di Venezia. “Il garante era in scadenza”: per Ca’ Farsetti nessun caso - Accuse rimandate al mittente da Ca’ Farsetti e dall’assessore Simone Venturini stesso, che peraltro, sottolinea, non è responsabile del procedimento (spetta agli uffici del sindaco). “Con il garante abbiamo lavorato bene e a lui va la mia stima e il mio ringraziamento per il lavoro svolto. Ci siamo incontrati anche recentemente” spiega Venturini. La scadenza della nomina a fine 2024 era quella naturale, ribadisce l’assessore. E in effetti, la raccolta di candidature per un nuovo garante risale a giugno 2024, ben prima di quella lite, e l’incarico di Foffano, annuale e rinnovato nel 2023, scadeva a fine 2024. Va detto però che la durata dell’incarico prima dell’era di Luigi Brugnaro era pari alla durata del mandato del sindaco, ma ora è diventata annuale eventualmente rinnovabile, comunque “non oltre la durata del mandato del Sindaco”, come recitava la nomina di Foffano nel 2022, e anche la nomina della nuova Garante. Una condizione che non può che alimentare dubbi sui fatti intercorsi tra l’assessorato e il garante che, già certo che si stesse cercando un sostituto, ha sollevato critiche inedite verso l’assessore. Il commento dell’ex garante Marco Foffano Raggiunto telefonicamente, l’ormai ex garante Marco Foffano fa intendere che qualcosa sia andato storto, con pochi rapporti e incontri intercorsi con l’amministrazione nei due anni, ma sceglie di porre solo una domanda: “Onde garantire l’autonomia e l’indipendenza del ruolo, che senso ha riaprire di anno in anno il bando? L’indipendenza non va solo garantita nei fatti, va anche garantita anche la sua parvenza pubblica”. E poi aggiunge, come chiosa: “Io faccio di mestiere non il politico ma l’avvocato, se la coerenza è diventata una merce rara, sarò, non so, un cavaliere dell’utopia, che le devo dire”. Ma per la giunta, la polemica è del tutto infondata. Asti. L’anno nero del carcere: i problemi sono soprattutto strutturali e di organico di Selma Chiosso La Stampa, 4 gennaio 2025 Il dossier presentato in Regione dai Garanti dei detenuti evidenzia problemi strutturali e in alcuni punti piove dentro. Il carcere di Asti, compie 34 anni e dal 2016 ha cambiato qualifica diventando un istituto ad Alta sicurezza. È diretto da Giuseppina Piscioneri, il comandante della polizia penitenziaria è il commissario Leonardo Colangelo. Il numero dei detenuti varia di giorno in giorno, al momento è di 250. Gli anni corrono veloci ma alcuni problemi restano endemici. La fotografia emerge dal dossier presentato in questi giorni da Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti con i garanti comunali piemontesi. Ad Asti i problemi sono soprattutto strutturali e di organico. In alcune parti dell’istituto piove dentro, altre aree sono “colonizzate” dalla muffa. Bruno Mellano e Paola Ferlauto (Garante comunale) confermano: “Nelle aule della scuola e in infermeria sono evidenti i segni di infiltrazioni delle acque piovane. I locali doccia sono sovrautilizzati rispetto alle previsioni a causa del sovraffollamento, sono insalubri, con significative infiltrazioni d’acqua nei piani sottostanti. Appare urgente e necessario un programma di interventi di ristrutturazione”. La mancanza di personale - La mancanza di personale incide sull’inutilizzo di alcune stanze sopra l’infermeria. Continuano i garanti: “Lo abbiamo già segnalato nei due precedenti dossier. L’area nonostante l’indubbia esigenza di locali continua a non essere fruibile per carenza di personale. Un problema che potrebbe essere risolto con un sistema di videosorveglianza che libererebbe spazi preziosi”. Oltre che con la pioggia i conti si devono fare anche con il caldo. Nelle sezioni detentive mancano i condizionatori e soprattutto al terzo piano d’estate fa caldissimo. L’elevata temperatura è insopportabile il forte n disagio si ripercuote su tutti. Altre problematiche investono l’esterno: resta inutilizzata l’area giochi in origine destinata ai colloqui dei detenuti con bambini. Il carcere inoltre è difficile da raggiungere. Si trova a Quarto e mancano collegamenti pubblici. L’unico mezzo di trasporto per chi arriva in treno è il taxi. Un problema ciclico, se ne parla da anni ma nessuno ha mai trovato una soluzione. E mentre il cortile si presenta in ordine e accogliente, la zona vicino all’ingresso dove i visitatori attendono i loro turno per entrare è squallida. Aggiungono i garanti: “Nel balletto delle responsabilità e competenze, continua ad essere estremamente inadeguata e spesso francamente indecente l’area esterna all’ingresso in istituto: una sola panchina senza alcun servizio di accoglienza, per mesi coperta da erbacce e per un lungo periodo anche transennata per il pericolo di caduta dei rami. Rimane quindi tuttora aperta e sanguinante la ferita dei parenti in visita, costretti a bivaccare all’esterno in attesa del turno di ingresso prenotato, con il solleone o con il gelo, con la pioggia o con la neve”. Le proteste dei sindacati - Nel corso dell’anno sono state tante le proteste di tutte le sigle sindacali della polizia penitenziaria per quanto riguarda la carenza di organico. Nonostante qualche assunzione o personale in distacco resta cronica la mancanza di sottufficiali. Sguarniti anche alcuni uffici come la Ragioneria, situazione che ingolfa e rende difficoltoso il disbrigo delle pratiche burocratiche. Ogni atto in carcere deve essere autorizzato e la mole di lavoro è immensa. Non solo ombre: il dossier mette in luce anche alcuni aspetti positivi legati allo studio, alle attività, al lavoro. Luci e ombre, il carcere è un mondo a sè, dove l’abnegazione di tutti e la forza del volontariato ogni giorno fanno miracoli. Vercelli. Carcere, via alla ristrutturazione con la squadra interna dei detenuti di Andrea Zanello La Stampa, 4 gennaio 2025 Il dossier del garante regionale non segnala solo criticità per Vercelli ma anche interventi sugli edifici. Non una promozione piena per il carcere di Vercelli ma emergono sicuramente dei passi in avanti dal “Nono dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”. Il documento presentato da Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, pur ricordando le perenni criticità della casa circondariale vercellese a differenza delle passate edizioni trova anche dei punti a favore della struttura. “Dopo anni di precaria opera manutentiva, a seguito della nomina del nuovo direttore nel novembre 2023 - dice Mellano - sono stati finalmente avviati, e parzialmente completati nel 2024, alcuni importanti lavori di ristrutturazione che hanno riguardato, primariamente, le coperture di edifici e corpi di fabbrica, la sostituzione di infissi esterni”. Il rifacimento delle coperture dei torrini, che ospitano le scale dei passeggi, ha consentito di eliminare le abbondanti infiltrazioni di acqua piovana che si trasmettevano oltre che ai vani scala e ai pianerottoli di collegamento, anche a molte camere di detenzione, sale socialità e aule corsi. Dopo il periodo estivo, che ha consentito ai muri di asciugarsi dalla umidità, sono state risanate e restituite all’uso quotidiano due aule corsi ospitate nella cosiddetta rotonda Chiesa e un’intera semisezione al secondo piano. “Sono stati inoltre sostituiti gli infissi delle salette di socialità di tutte le sezioni e tutti gli infissi della sezione femminile che finalmente può essere riscaldata senza dispersione di calore”. L’intervento è stato oggetto di ripetute segnalazioni nei precedenti dossier e si configura “come una buona prassi da estendere a tutti gli istituti piemontesi che sono normalmente ancora dotati di finestre un ferro e risultano essere non coibentate e non sicure”. Per volontà del direttore, gran parte dell’opera di ristrutturazione è stata condotta dalla squadra interna di Manutenzione Ordinaria Fabbricati, composta da detenuti al lavoro e guidata da un sovrintendente della polizia penitenziaria. “Sempre per opera della squadra Mof nel mese di novembre 2024 sono stati avviati lavori di ristrutturazione della sezione transiti, che verrà destinata all’isolamento, e della seconda semisezione al secondo piano”. Un’ulteriore semisezione verrà ristrutturata nel 2025. È stato poi avviato il rifacimento di specifiche parti dell’impianto elettrico, allo scopo di mettere a norma, via via, per settori isolabili, l’intero impianto. La casa circondariale vercellese inoltre necessita di uno studio dei flussi degli spostamenti delle persone, interni quotidiani, allo scopo di rivedere e riprogettare la disposizione delle varie aree di attività. “A tale scopo si è avviata dal direttore una collaborazione con la facoltà di architettura del Politecnico di Torino che si dipanerà lungo il 2025 e che fornirà uno studio teorico eventualmente applicabile in una prossima riprogettazione degli spazi ausiliari”. Importanti interventi di manutenzione e di revisione della disposizione sono richiesti per tutta l’area amministrativa interna al muro di detenzione. “Necessaria e non prorogabile rimane inoltre una diversa collocazione dei detenuti in Articolo 21. Tali detenuti, che hanno la possibilità di uscita diurna dal carcere per studio e lavoro, sono limitati nel numero proprio per le ridotte dimensioni e le camere obsolete che li ospitano attualmente”. Lodi. Lezioni di giardinaggio per i detenuti: “Salviamo le piante del carcere” di Tiziano Troianello Il Giorno, 4 gennaio 2025 Grazie al progetto “Casomai” due operatrici specializzate nell’agricoltura sociale entrano nel penitenziario: “Cura della terra e contatto con la natura apportano benefici alle persone in condizioni di fragilità”. Lezioni di giardinaggio e di attività agricole per i detenuti del carcere di Lodi. Grazie al progetto “Casomai”, promosso da Regione Lombardia e Fondazione Comunitaria della provincia di Lodi e mirato a contrastare le fragilità di chi richiede protezione internazionale e di chi è colpito da provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, dal 17 dicembre scorso nel penitenziario di via Cagnola, sono partiti nuovi percorsi che hanno fatto seguito a laboratori motivazionali e tirocini organizzati nelle settimane precedenti per gli ospiti dei centri di accoglienza straordinaria del Lodigiano e per persone con pene alternative. L’iniziativa, sostenuta con un contributo di 100mila euro dal bando Terzo Settore di Regione Lombardia, vede come capofila la Fondazione Comunitaria della provincia di Lodi e ha tre partner: Fondazione Caritas Lodigiana E.T.S., Movimento Per La Lotta Contro La Fame Nel Mondo (MLFM) e Associazione Comunità Il Gabbiano Odv. Ad entrare in carcere sono adesso due operatrici specializzate nell’agricoltura sociale del Gabbiano che coinvolgeranno alcuni degli ospiti in laboratori motivazionali che si articolano in due macro attività, per un totale di 20 ore complessive, previste fino a marzo. La prima attività consiste nel recupero delle piante presenti all’interno della Casa circondariale, che si trovano nel magazzino. Si procederà al rinvaso in accordo alla specie di appartenenza e ad una loro copertura in vista di un abbassamento delle temperature nel periodo invernale. L’attività sarà integrata dall’insegnamento di nozioni sulle specie erbacee presenti e sulle modalità di accudimento: modalità di rinvaso, eventuale potatura, innaffio, copertura, giusta esposizione. Saranno poi predisposti grandi vasi con terriccio misto a compost da utilizzare per il trapianto di nuovi fiori ed essenze. La seconda attività si svolgerà invece nello spazio adiacente alla cucina. Ogni azione sarà accompagnata da momenti formativi con particolare riferimento all’agricoltura biodinamica. In questo spazio è presente un albero da frutta che necessita di accudimento, trovandosi in condizioni critiche. Gli ospiti aiuteranno a salvarlo, con potature e la posa di un preparato biodinamico di pasta per tronchi, importante nutrimento per favorire il benessere dell’albero nel pieno rispetto degli equilibri naturali. Alla base verrà somministrato un macerato di Equiseto che aiuterà la pianta a liberarsi dai funghi ad oggi presenti. Il terreno intorno verrà coperto con la paglia dopo aver incrementato il terreno con terriccio e humus. La terra verrà poi lasciata riposare. In primavera si potrà proseguire l’attività con la messa a dimora di piante di Lavanda e di Elicriso direttamente a terra e di altre aromatiche quali rosmarino, timo, salvia e origano in grandi vasi. La convinzione dei promotori è che “cura della terra e contatto con la natura apportano benefici alle persone in condizioni di fragilità”. Taranto. Detenuti sul palco: al “Magli” la musica che cambia le vite dietro le sbarre di Antonello Corigliano tarantotoday.it, 4 gennaio 2025 Nella Casa Circondariale di Taranto, detenuti e detenute hanno partecipato a uno spettacolo musicale, trasformando fragilità in forza grazie al laboratorio guidato da Miriam Serio. Un giorno diverso tra le mura della Casa Circondariale di Taranto, dove i detenuti hanno trovato una voce per esprimere emozioni e racconti personali attraverso lo spettacolo musicale “Voci dal silenzio oltre i muri”. L’evento, realizzato nell’ambito delle attività natalizie, ha visto detenuti e detenute salire per la prima volta su un palco per esibirsi, grazie al laboratorio musicale condotto dalla dottoressa Miriam Serio. Un’esperienza che non è stata solo un momento di svago, ma un passo importante verso la rieducazione e il reinserimento nella società. Tra ansia e timori, i partecipanti hanno trasformato le loro fragilità in forza, regalando al pubblico, tutti detenuti, un’intensa rappresentazione delle loro vite, fatta di dolori, amori e speranze. La musica, come sottolineato dalla stessa Serio, è stata una “valvola di sfogo”, capace di raggiungere le parti più intime dell’anima, oltre i limiti delle parole. Un clima di emozione e riscatto - Il clima tra i detenuti era carico di emozione: “Erano increduli e insicuri, ma alla fine sono usciti vincitori”, racconta Serio. Tra i brani presentati, alcuni sono stati scritti da loro stessi, trasformando i loro vissuti in testi e melodie che hanno commosso il pubblico presente. Lacrime e sorrisi hanno accompagnato una giornata che ha dato luce in un contesto spesso segnato dall’oscurità. Il direttore Luciano Mellone della Casa Circondariale “Carmelo Magli” ha definito l’iniziativa un successo sotto ogni aspetto: “La musica non è solo un’attività ricreativa, ma un potente strumento educativo e di risocializzazione”. Questo evento ha dimostrato come l’arte possa abbattere barriere, stimolare il cambiamento e offrire nuove prospettive di vita a chi sta scontando una pena. La voce di Miriam Serio - Miriam Serio, che da due anni guida il laboratorio musicale, ha vissuto questa esperienza con profonda passione. “Entrare in carcere è stato sempre un mio sogno: volevo essere una piccola luce in quel buio”, spiega. Il progetto, iniziato con i detenuti maschili, ha coinvolto per la prima volta anche la sezione femminile, che si è dimostrata più complessa da gestire, ma altrettanto gratificante. “Con le donne è stato più difficile, ma il loro coraggio mi ha dato una grande soddisfazione”. Serio guarda al futuro con ambizione: “Voglio trasformare questo progetto in qualcosa di più professionale, con lezioni tecniche e forse anche un percorso discografico. La musica può davvero cambiare la vita”. La rieducazione attraverso la musica - La giornata si inserisce in un programma più ampio di attività trattamentali promosse dal carcere. La musica si affianca a scuola, formazione professionale e lavoro, costituendo un pilastro del percorso di rieducazione. In occasione dello spettacolo, è stata anche organizzata una donazione di giocattoli per i bambini in visita ai loro parenti detenuti, a dimostrazione dell’importanza di mantenere vive le relazioni affettive anche in condizioni difficili. Il progetto musicale ha già portato risultati tangibili. “I detenuti hanno mostrato un cambiamento nel modo di relazionarsi e di affrontare la quotidianità”, afferma Serio. “È un cammino lungo, ma ogni piccolo passo vale”. Testimonianze e speranze - I detenuti protagonisti hanno raccontato di aver trovato nella musica uno strumento per riscoprire se stessi. Uno di loro, dopo lo spettacolo, ha dichiarato: “Non pensavo di poter salire su un palco e sentirmi libero, anche solo per pochi minuti”. Per molti, questa esperienza rappresenta un punto di svolta, una possibilità di riscatto. “Voci dal silenzio oltre i muri” non è stato solo uno spettacolo, ma un messaggio di speranza e rinascita. Per i detenuti, è stata l’occasione di sentirsi nuovamente parte di una comunità, di riscoprire il valore delle emozioni e di guardare al futuro con occhi nuovi. Il successo dell’iniziativa è il risultato dell’impegno di chi crede che anche dietro le sbarre sia possibile coltivare sogni e aspirazioni. Questo progetto, che unisce musica e solidarietà, dimostra come ogni individuo, indipendentemente dagli errori commessi, meriti una seconda possibilità. La musica si è rivelata una via privilegiata per costruire ponti, abbattere pregiudizi e creare un dialogo autentico tra chi è dentro e chi è fuori. Siena. La musica oltre il carcere: è il progetto InnocentEvasione Corriere di Siena, 4 gennaio 2025 I detenuti della Casa circondariale di Santo Spirito hanno creato il gruppo Cella Musica e hanno realizzato un disco. InnocentEvasione è il progetto innovativo che mira a portare la musica oltre le mura della casa circondariale Santo Spirito di Siena. Questa iniziativa ambiziosa è nata dall’impegno dei detenuti e dello staff del carcere, uniti dalla passione per la musica e dal desiderio di riscatto attraverso l’arte, con la collaborazione di LaLut Centro di Ricerca e Produzione Teatrale che ha offerto laboratori permanenti, creando un gruppo musicale eterogeneo, composto da detenuti, polizia penitenziaria, operatori e musicisti professionisti. Il risultato ottenuto permette di usufruire del contributo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, che, attraverso l’avviso Let’s Digital!, partecipa con una donazione di 1.000 euro rafforzando l’impatto dell’iniziativa. Questo straordinario risultato non solo permetterà di coprire tutte le spese previste per la registrazione e promozione del disco realizzato dal gruppo musicale del carcere Cella Musica, ma anche di espandere il progetto con nuove iniziative sociali. Grazie ai fondi raccolti oltre l’obiettivo iniziale, saranno stampate ulteriori copie del disco che verranno donate alle scuole della provincia di Siena. Questo gesto non è solo un ringraziamento simbolico, ma anche un modo per portare un messaggio di inclusione e speranza tra i giovani, stimolando un dialogo costruttivo sulla situazione carceraria e sulle potenzialità di riscatto offerte dall’arte e dalla musica. Soddisfatto Ugo Giulio Lurini, presidente di LaLut: “Quando abbiamo lanciato la campagna InnocentEvasione eravamo fiduciosi che avremmo raggiunto l’obiettivo perché contavamo sull’interesse che l’oggetto della campagna avrebbe suscitato, ma il risultato raggiunto è andato ben oltre le più rosee previsioni, tanto che con i fondi in più raccolti potremo consolidare il rapporto con le scuole superiori, donando loro copie del disco destinate all’ascolto degli studenti”. “Siamo lieti di avere contribuito alla realizzazione di questa iniziativa ricca di significato sociale - sostiene Carlo Rossi, presidente di Fondazione Mps. - Con l’avviso Let’s Digital! la Fondazione Mps ha voluto offrire nuove opportunità di supporto, formazione e sostegno economico alle realtà no profit del territorio che vogliono crescere e rafforzare la propria presenza e le proprie competenze digitali. InnocentEvasione è un risultato virtuoso che ci auguriamo possa essere replicato anche per altre campagne di crowdfunding avviate nell’ambito di Let’s Digital!”. Il successo di InnocentEvasione è stato possibile grazie all’impegno collettivo di tante persone, enti e associazioni che hanno creduto nel valore di questo progetto. InnocentEvasione non è solo un disco: è una testimonianza concreta di come l’arte possa abbattere barriere e creare ponti. La musica di Cella Musica potrà viaggiare oltre le mura del carcere, portando un messaggio di speranza e umanità. Rieti. Carcere, oggi iniziativa solidale della Comunità di Sant’Egidio laprovinciarieti.it, 4 gennaio 2025 Durante tutto l’anno la Comunità di Sant’Egidio è particolarmente attenta alla realtà delle carceri italiane e svolge al loro interno attività di volontariato in sostegno della popolazione carceraria che, come noto, quest’anno appena concluso ha sofferto in maniera particolarmente pesante a causa del sovraffollamento e delle carenze strutturali. Dopo il periodo di eccezionale isolamento, dovuto alla pandemia, il carcere stenta a trovare fili di collegamento con la realtà esterna che possano ridurre l’estraneità che troppo spesso caratterizza il vissuto dei detenuti, specialmente di quanti hanno le famiglie lontano o del tutto inesistenti. Nei giorni delle festività natalizie questo senso di isolamento e solitudine si acuisce, quando la tradizione invita a riunirsi con i propri cari e a scambiarsi visite e auguri con amici e parenti. I volontari di Sant’Egidio vogliono, con varie iniziative, colmare questo vuoto e dare a ciascun detenuto la possibilità di scambiare un augurio e uno sguardo di simpatia e amicizia con qualcuno che dal “mondo esterno” viene a dire che ci si ricorda di loro e si ha piacere a trascorrere alcune ore di festa insieme. È questo il senso e l’intento dell’iniziativa che sabato 4 gennaio avrà luogo nella Casa Circondariale di Rieti con il sostegno della Direzione e del Personale carcerario. Un gruppo di volontari di età e provenienza diversa trascorrerà la giornata fra le mura del carcere di via Maestri del Lavoro organizzando tombolate in ogni sezione, la distribuzione di un pacco dono personalizzato per ciascun detenuto e un pranzo con circa 100 detenuti con i piatti della tradizione natalizia italiana: lasagne, polpettone, lenticchie e dolci. In sintonia con quanto affermato dal Presidente Mattarella nel suo messaggio alla nazione di fine anno, il carcere può tornare ad essere un luogo nel quale riscoprire le potenzialità di ciascuno e preparare il proprio reinserimento nella società con una coscienza più matura e il desiderio di costruire un futuro migliore per sé, i propri cari e la società tutta intera. Per questo è importante creare occasioni di incontro, riflessione e anche festa che irrobustiscano dignità e speranza in ciascun detenuto. Manovra, la delusione del Terzo settore: “Colpiti i più deboli e chi li aiuta” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 4 gennaio 2025 Penalizzate le donazioni, nessun aumento al tetto del 5 per mille, più vincoli per gli investimenti del Terzo settore. È grande la delusione del Terzo settore per la legge di Bilancio appena approvata. “Quasi nessuna delle nostre proposte è stata accolta - è il commento di Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum nazionale - e a pagarne le conseguenze saranno i soggetti della solidarietà e i più fragili”. “Quasi nessuna delle nostre proposte per la Legge di Bilancio è stata accolta e a pagarne le conseguenze saranno non solo i soggetti della solidarietà, penalizzati anche dalla nuova norma che impone un tetto agli investimenti sociali, ma anche i più fragili, già colpiti dalle emergenze sociali”. È il commento di Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum nazionale Terzo settore, sulla Legge di Bilancio approvata negli ultimi giorni dell’anno. “In un momento così difficile e segnato dalla crescita di povertà e disuguaglianze - prosegue la portavoce - ci saremmo aspettati maggiore attenzione al welfare e vere politiche di sostegno per quelle realtà, quali sono gli Enti di terzo settore, che combattono il disagio, costruiscono coesione sociale, realizzano un’economia sana”. Invece, secondo il Forum che rappresenta cento organizzazioni con 121mila sedi territoriali, poco o niente di tutto questo è avvenuto: “Nonostante il nostro allarme sull’articolo che, nella sua versione originaria, prevedeva anche l’introduzione di rappresentanti di revisori del Mef negli organi di controllo degli enti che ricevono contributi pubblici, è rimasto un incomprensibile e inaccettabile vincolo sulle spese e sugli investimenti del Terzo settore: questo porterà a meno servizi, e di minore qualità, per le persone che ne hanno bisogno. Servizi che spesso nemmeno lo Stato è in grado di offrire. Ci auguriamo vivamente che si ponga rimedio in uno dei prossimi provvedimenti utili, dando seguito agli odg già approvati alla Camera”. E non basta. “Il Terzo settore - continua Vanessa Pallucchi - viene penalizzato anche per quanto riguarda le donazioni, che vengono incluse nella stretta sulle detrazioni fiscali. Non è stato inserito il necessario aumento del tetto al 5 per mille: in questo modo non viene rispettata la volontà dei contribuenti. Per la povertà educativa minorile, una delle grandi emergenze nazionali, non viene rifinanziato il Fondo nazionale”. Nessuna nota positiva? “Una tra le poche - riconosce la portavoce del Forum - è l’aumento dei fondi per il Servizio Civile Universale. Sono stati inoltre costituiti alcuni nuovi fondi per il sociale, come quello per la disabilità, per il contrasto al reclutamento illegale della manodopera straniera e per il sostegno alle attività educative formali e non formali. Si tratta però di iniziative frammentate che mancano di una visione e di un investimento di medio-lungo periodo sull’intero sistema di welfare. E un sospiro di sollievo - conclude - lo tiriamo sulla questione dell’Iva al Terzo settore: con la recente pubblicazione in Gazzetta del decreto Milleproroghe è ora ufficiale la tanto attesa proroga dell’attuale regime di esclusione. Confidiamo a questo punto di poter giungere a una soluzione definitiva e soddisfacente nei prossimi mesi”. Armi, uniformi, combattimenti: la propaganda militare si fa a scuola di Ilaria Beretta Avvenire, 4 gennaio 2025 L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole segnala un aumento di proposte didattiche e progetti di alternanza scuola-lavoro con il coinvolgimento delle forze armate. Un’intera scolaresca in caserma per una lezione di combattimento corpo a corpo. È uno degli ultimi casi, capitato a Brindisi a inizio dicembre, rilevato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e l’università che da due anni monitora tutte le volte che le forze armate entrano nelle classi in modo anomalo. Poche settimane dopo, appena prima del fermo natalizio - rileva l’ente - una dirigente scolastica della provincia di Siracusa ha firmato una convenzione per permettere agli studenti del proprio Istituto superiore di svolgere i Pcto, l’ex alternanza scuola-lavoro, presso l’arsenale militare marittimo di Augusta. E ancora: a Messina tre foto di militari in assetto da guerra, equipaggiati con divise mimetiche, caschi e armi sono state trovate persino tra le pagine della brochure di presentazione della scuola, forse a promuovere il corso di orientamento con le forze dell’ordine previsto dal piano dell’offerta formativa. “L’operazione di ingresso di militari nella scuola e degli studenti nelle caserme - spiega Michele Lucivero, insegnante a Bisceglie e responsabile dell’Osservatorio - è diffuso ed esiste da anni: coinvolge tutte le fasce, dalle primarie alle superiori fino all’università. Si va dagli alunni di una scuola elementare di Trani ai quali vengono fatte maneggiare armi, agli studenti più grandi che hanno la possibilità di svolgere i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) in aziende del comparto militare-industriale, nelle caserme o basi militari (succede, per esempio, nella ex base Nato a Sigonella). Lunga anche la lista delle classi in cui l’armamentario bellico fa capolino in aula sotto forma di computer, droni e robot dual use, a scuola adoperati per esperimenti e fuori programmati per sganciare bombe. A Palermo, recentemente, i vigili urbani hanno organizzato, alla presenza di una scuola della città, una simulazione dell’arresto di un criminale: si sono messi a sparare a salve e hanno spaventato i bambini”. L’Osservatorio accoglie le segnalazioni e spulcia attivamente i giornali locali per raccogliere e denunciare gli episodi dal territorio e poi, grazie alla rete di lavoratori nelle scuole e alla collaborazione con altre associazioni pacifiste, prova dall’interno a contrastare queste iniziative una per una. “Normalmente negli istituti - è l’esperienza di Lucivero - i progetti e le uscite didattiche seguono un iter di approvazione molto preciso: vengono portate in collegio docenti e poi votate in consiglio di classe. Ci siamo accorti, però, che questa procedura partecipativa e democratica viene spesso disattesa quando si tratta di iniziative legate ai militari. Un comandante di una caserma o un sindaco chiama il dirigente e annuncia una manifestazione istituzionale per la quale è necessaria una rappresentanza della scuola. Che a quel punto avviene, senza ulteriori passaggi. Ecco perché bisogna formare e sensibilizzare il personale per fermare queste iniziative”. Allo scopo l’Osservatorio ha prodotto anche un vademecum che indica gli strumenti giuridici utilizzabili per opporsi concretamente ad attività di stampo militare che violino la libertà d’insegnamento o norme contrattuali. “Con queste operazioni - conclude Lucivero - la cultura della guerra entra nella testa dei più giovani: diventa un metodo per legittimare e diffondere il consenso, tra le nuove generazioni, sulla presenza delle forze armate che intervengono in più contesti, sia all’estero nelle varie missioni internazionali, sia nei più disparati ambiti interni, compresi quelli non di stretta competenza militare”. Il patriottismo degli immigrati, la lezione scomoda di Mattarella di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 4 gennaio 2025 Il presidente ha proposto una versione del cosiddetto patriottismo costituzionale, che s’incarna nei cittadini che svolgono con dignità e onore funzioni civiche. Nell’impegno di ciascuno di noi. E ha colto l’unico senso plausibile dell’identità nazionale: un progetto politico comune, fondato su valori di libertà ed eguaglianza scritti nella Costituzione. Dovremmo tenerci stretta la sapienza politica del presidente Mattarella. Sapienza nel senso più alto del termine: capacità di guardare lontano, seguendo la logica e il senso profondo dei concetti politici. Il discorso di fine 2024 non è stato soltanto una contro-narrazione contrapposta con placida fermezza al discorso della destra. È stata una lezione illuminante sul senso di nozioni che la destra al governo brandisce senza capirle. Si è detto che Mattarella ha proposto una versione del cosiddetto patriottismo costituzionale, un’idea nata in Germania (per opera di autori come Dolf Sternberger e Jürgen Habermas), proprio per isolare il collante di una repubblica ben funzionante, la solidarietà dei concittadini, dal virus pericoloso del nazionalismo aggressivo. Come scriveva Sternberger nel 1990: “La patria è la repubblica che abbiamo creato. La patria è la costituzione che abbiamo costruito. La patria è la libertà di cui godiamo quando la promuoviamo, la usiamo, la difendiamo” (Verfassungspatriotismus, Insel Verlag, 1990, p. 12). Il patriottismo costituzionale s’incarna nei cittadini che svolgono con dignità e onore funzioni civiche - i medici del pronto soccorso, gli insegnanti, gli imprenditori responsabili, lavoratori e lavoratrici, studenti e studentesse, chi s’impegna nel volontariato e nei lavori di cura. Ma, in realtà, il patriottismo costituzionale esprime l’unica nozione plausibile di “nazione”. Identità fisse non esistono, men che meno in un paese ibrido come l’Italia: uno Stato giovane, con molti dialetti che sono lingue, con una storia secolare di divisioni, con una varietà geografica e culturale enorme. E in generale, in tutti i tempi e luoghi, le identità - personali, culturali, politiche - sono porose, sono costruzioni della mente, comunità immaginate (come Benedict Anderson ha stabilito una volta per tutte, parlando delle nazioni). L’identità nazionale, se non è semplicemente odio dell’altro, razzismo mascherato, non può che essere un progetto politico, un impegno comune, una visione del mondo. E questa visione del mondo, per gli italiani, è scritta nella Costituzione e consiste dei valori che essa contiene. E l’adesione a questi valori si esprime nella maniera più evidente, quasi palpabile, nei comportamenti virtuosi dei cittadini, nell’esercizio delle funzioni pubbliche di ognuno di noi - che sono varie, pervasive, e vanno appunto dallo svolgimento di professioni di alta utilità sociale alla coscienza che esercitiamo tutti i giorni come genitori, figli, membri di famiglie, associazioni, gruppi. Mattarella non ha isolato o depurato il nazionalismo aggressivo, etnico e infondato della destra. Ha mostrato, alla destra e alla sinistra, l’unico senso plausibile dell’identità nazionale: un progetto politico comune, fondato su valori di libertà ed eguaglianza, e sui diritti fondamentali degli esseri umani, delle generazioni future, dell’ambiente non umano. E la conseguenza di queste riflessioni che è più ostica, più inaccettabile, per la destra al governo riguarda i migranti, che possono essere patrioti, come dice chiaramente il presidente. Se l’identità nazionale è adesione a un progetto politico, non etnia, non storia, è perfettamente possibile che chi è nato altrove, chi viene da altre storie e culture aderisca ai valori della nostra Costituzione. E, d’altra parte, che senso potrebbe avere il comportamento di chi, affrontando pericoli enormi, vuole venire a vivere da noi e con noi? Veramente si può pensare che sia solo l’attrazione per possibili miglioramenti del tenore di vita? Chi rischia l’annegamento, chi subisce violenze di molti generi, chi investe risparmi di una vita forse aspira a qualcosa di più che a un lavoro, magari malpagato. Aspira alla dignità e al rispetto garantita dalle liberal-democrazie europee. I migranti sono già cittadini della nazione dove vogliono vivere, se essere cittadini di una nazione significa aderire ai valori fondanti del patto costituzionale di quella nazione. (E quelli di loro che violano tali valori, delinquendo, non lo fanno in quanto migranti. Lo fanno per varie ragioni - sociali soprattutto - ragioni che accomunano loro ai cittadini italiani e di altre nazioni). Respingere i migranti o confinarli in lager significa respingere concittadini della nazione ideale, della patria costituzionale. Significa distinguere cittadini di serie A e serie B. Significa una guerra civile. Questo è l’insegnamento scomodo di Mattarella, che la destra dovrebbe capire e la sinistra valorizzare. *Filosofo Migranti. Nel Mediterraneo è in corso una nuova strage degli innocenti di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 4 gennaio 2025 Secondo i dati Onu, in sei anni più di 1.500 minori hanno trovato la morte in mare cercando di raggiungere le coste europee. Per l’Unicef la situazione è in peggioramento. Maylan aveva sedici anni il giorno che si è imbarcata su un piccolo veliero monoalbero partito dalla Turchia verso le coste dell’Italia. Scappava dal Kurdistan iracheno, e su quel barchino carico all’inverosimile ci era salita assieme a sua madre e al fratellino. Maylan non è mai arrivata in Italia, vittima dell’ennesimo viaggio della speranza naufragato, nel giugno scorso, a un centinaio di miglia dalle coste calabresi. Solo 11 persone, delle oltre sessanta che si erano imbarcate su quel barchino maledetto dalla spiaggia di Bodrum, sono riuscite a raggiungere la costa, salvate da un diportista francese dopo giorni passati aggrappate alla barca semi affondata e in balia del mare. Yasmine invece di anni ne ha appena 11 quando, su un barcone in ferro partito dalle coste tunisine, tenta assieme al fratello la traversata del Mediterraneo centrale per raggiungere l’Europa. Da giorni era alla deriva a bordo di una zattera improvvisata. A recuperarla in mare appena un paio di settimane fa - stremata ma ancora viva - è stata una nave di una delle Ong che pattugliano il Mediterraneo centrale, unica sopravvissuta di un “carico” di più di quaranta persone sconfitto dal mare in tempesta. Sono sempre di più i ragazzini che, spesso da soli, intraprendono il lungo viaggio che dalle coste del nord Africa e da quelle della Turchia dovrebbe portarli in Europa. Secondo l’ufficio regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale, rappresentano addirittura il 20% del totale dei migranti in fuga da fame e guerra attraverso il Mare Nostrum. Un esercito di minori che sogna l’Europa e che, sempre più spesso, trova la morte durante la traversata. Dal 2018, fa i conti l’agenzia Onu per i diritti dei bambini, sono più di 1500 i minori morti durante il tentativo di traversata del mare. Solo nel 2023 i morti e gli scomparsi con meno di 18 anni erano stati 289. Un numero terribile che anche durante il 2024, si è drammaticamente aggiornato di “centinaia di bambine, bambini e adolescenti”. “Una persona ogni cinque che migra attraverso il Mediterraneo - spiega in una nota Regina De Dominicis dell’Unicef - è minorenne. La maggior parte di loro fugge da conflitti violenti e dalla povertà”. Un copione che si ripete uguale a se stesso da anni quello dei minori che tentano la traversata in mare per raggiungere amici e familiari già arrivati, spesso con altri viaggi della speranza, sul suolo europeo. Un copione che è addirittura peggiorato in seguito al naufragio di Steccato di Cutro in cui morirono oltre 90 migranti: il decreto seguito alla strage sulla spiaggia calabrese ha infatti ristretto i termini dell’accoglienza, riducendo la possibilità dei ricongiungimenti legali. “I Governi devono affrontare le cause profonde della migrazione e sostenere l’integrazione delle famiglie nelle comunità ospitanti, assicurando che i diritti dei bambini siano protetti in ogni fase del loro viaggio - dice ancora De Domicinic - l’Unicef chiede ai governi di utilizzare il Patto sulla migrazione e l’asilo per dare priorità alla salvaguardia di bambine e bambini. Ciò include la garanzia di percorsi sicuri e legali per la protezione e il ricongiungimento familiare, nonché operazioni coordinate di ricerca e salvataggio, sbarchi sicuri, accoglienza su base comunitaria e accesso ai servizi di asilo. Chiediamo inoltre maggiori investimenti nei servizi essenziali per i bambini e le famiglie che arrivano attraverso rotte migratorie pericolose, tra cui il sostegno psicosociale, l’assistenza legale, l’assistenza sanitaria e l’istruzione”. L’accesso ai percorsi sicuri però è sempre più difficile e spesso, la soluzione più accessibile ai migranti, arriva dalle organizzazioni criminali che si occupano del trasporto in mare verso le coste dell’Europa meridionale. Un affare diventato negli ultimi venti anni, un business milionario, con i “passaggi” a bordo delle carrette del mare che possono arrivare a costare fino a 8 mila euro a persona. Un traffico continuo di disperati che seguono principalmente due rotte: una, la più breve e maggiormente trafficata, che lungo il Mediterraneo centrale collega le coste del nord Africa alla Sicilia, l’altra, molto più lunga, che unisce, dopo un viaggio di circa cinque giorni attraverso l’Egeo, le coste della Turchia a quelle della Calabria. Rotte pericolose che, solo nell’anno appena trascorso, nonostante il calo del numero degli sbarchi, hanno provocato centinaia tra morti e dispersi: “Il bilancio delle vittime e il numero dei dispersi nel Mediterraneo nel 2024 - dice ancora la coordinatrice speciale per la risposta ai rifugiati e ai migranti in Europa, Regina De Dominicis - hanno superato i 2200, con quasi 1700 vite perse solo nel Mediterraneo centrale”. Una strage continua i cui numeri sono presi per difetto, visto che molti naufragi non lasciano sopravvissuti e, in diversi casi, non vengono neanche registrati, rendendo di fatto praticamente impossibile tenere il conto di quante vite si perdano ogni anno. Francia. Sovraffollamento drammatico nell’inferno delle carceri di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 4 gennaio 2025 Ci sono 81mila detenuti costretti a vivere in strutture progettate per ospitarne 62mila Parigi è terzultima nell’Ue dopo Cipro e Romania. E il governo ammette la débâcle. Il sovraffollamento delle carceri francesi sta raggiungendo livelli drammatici abbattendo ogni record. Un male endemico che negli ultimi anni aveva fatto registrare qualche timida battuta di arresto ma che ora ha ricominciato a mostrarsi in tutta la sua tragicità. I dati, in questo senso, parlano chiaro. La densità carceraria (con una media del 129,5%) ha toccato il 156,8% nei centri di custodia cautelare, dove in maggior misura vengono rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio, che si presume dunque siano innocenti fino a sentenza definitiva, insieme ai condannati a pene più brevi. Il primo novembre dello scorso anno è stata raggiunta e superata la soglia degli 80 mila prigionieri. Di tutti questi, 21.291 sono solamente rinviati a giudizio, detenuti in attesa di sentenza definitiva. E così al primo dicembre, erano ben 97.372 le persone in custodia cautelare. Non tutte sono però in prigione, infatti 16.580 sono sottoposte a monitoraggio elettronico (braccialetto) oppure collocate in strutture esterne al carcere. Secondo uno studio pubblicato a giugno dal Consiglio d’Europa, la Francia è tra i peggiori paesi dell’Unione in termini di sovraffollamento degli istituti penitenziari, si trova infatti subito dietro a Cipro e Romania. Per cercare di invertire questo trend negativo sono state messe in campo misure come l’eliminazione di pene detentive inferiori a un mese, il potenziamento del servizio alla comunità e una rimodulazione delle pene stesse a seconda dei reati commessi. Didier Migaud, precedente ministro della Giustizia, aveva comunque ammesso che che la realizzazione del piano per costruire 15 mila posti aggiuntivi entro il 2027 non sarebbe stato completato nei tempi previsti. Quello della costruzione di nuovi istituti penitenziari continua ad essere un tallone d’Achille del sistema carcerario francese. Una realtà che si era palesata con tutta la sua evidenza già nel 2023 quando Dominique Simonnot, l’allora garante francese delle persone private della libertà (CGLPL), aveva visitato la prigione di Bois- d’Arcy nell Ille de France, denunciando le condizioni di detenzione disumane e chiedendo addirittura di sospendere le carcerazioni all’interno della struttura. Le sue parole erano state un monito rimasto evidentemente inascoltato: “È qualcosa di indegno, non esiste igiene, non esiste il diritto all’integrità fisica, non c’è sicurezza né organizzazione”. Già allora era risultato come fosse necessario intervenire strutturalmente. Il tasso di sovraffollamente si attestava al 142%, uno dei più elevati dell’intera Unione europea. E se i carcerati avevano un metro quadro di spazio vitale, assediati dalle pulci, dai pidocchi, da ratti e scarafaggi, ora la situazione sembra peggiorata. Sta così tornando l’incubo del 2020 quando durante l’epidemia di coronavirus, proprio a causa del sovraffollamento, scoppiarono diverse rivolte. La prigione di Grasse ad esempio ospitava 673 detenuti a fronte di una disponibilità di 574 posti. Un irrigidimento come la sospensione dei colloqui o il divieto di trasferimento fece da detonatore. Le situazioni peggiori si verificano guarda caso nelle carceri per detenuti in custodia cautelare o che dovevano scontare brevi pene. Con il clima attuale dunque la violenza è sempre in agguato. Visto che la realizzazione di nuovi spazi si è rivelata illusoria, sembra necessario potenziare gli strumenti giuridici, istituendo un meccanismo che permetta ai detenuti che vanno verso il fine pena di beneficiare della libertà condizionata. Unica nota positiva introdotta tre anni fa e quella che permette ai presidenti degli ordini degli avvocati di visitare le prigioni assieme ai parlamentari. Iran. Silenzio stampa o inchino a Teheran? “Fare rumore per gli oppositori detenuti” di Mariano Giustino Il Riformista, 4 gennaio 2025 A 16 giorni dall’arresto di Cecilia Sala, si alzano le voci dei dissidenti iraniani. Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, riferendosi all’arresto di Sala, ha definito la presa in ostaggi di cittadini stranieri come una forma di ricatto di antica tradizione della Repubblica islamica. La dissidente Nasrin Sotoudeh chiede di non far cadere il silenzio sulla orribile politica repressiva e sulla condizione degli oppositori detenuti. Sotoudeh ha detto che nella prigione di Evin il tempo “non passa mai” perché una ingiustizia di tale gravità può distruggere il controllo della persona detenuta: “Le mie compagne di reclusione e io eravamo solite sfidare le regole della prigione resistendo anche nella violazione delle regole dell’hijab. Vorrei che sapesse quanto l’ammiro - ha detto Sotoudeh, riferendosi a Cecilia Sala - perché ha avuto il coraggio di venire qui e raccontare il mondo terribile in cui sono costretti a vivere gli uomini e le donne iraniane”. Anche Masih Alinejad, giornalista e attivista per i diritti umani che guida la rivoluzione “Donna, Vita, Libertà” per la cacciata della Repubblica islamica dall’esilio forzato negli Stati Uniti, perseguitata dagli ayatollah che hanno tentato più volte di ammazzarla, è intervenuta sul caso Sala: “Il giornalismo non è un crimine, eppure la Repubblica islamica prende di mira giornalisti, attivisti e visitatori, trasformandoli in pedine nel suo sinistro gioco della diplomazia degli ostaggi. Ogni visitatore innocente trattenuto diventa una merce di scambio, aiutando il regime a proiettare un falso senso di normalità al mondo. Non bisogna rimanere in silenzio: la Repubblica islamica prospera mettendo a tacere il dissenso e trasformando le vite in armi. Per sostenere veramente il popolo iraniano, è necessario amplificate le loro voci da lontano. Occorre stare al fianco di coloro che lottano per la libertà e la giustizia e non legittimare inavvertitamente un regime che commercia nella paura e nell’oppressione. L’Iran è una trappola per gli innocenti malcapitati”. Cecilia Sala è detenuta arbitrariamente in Iran, è stata presa in ostaggio e non è la prima volta che la Repubblica islamica arresta, per meglio dire rapisce, cittadini stranieri, soprattutto giornalisti stranieri o con doppio passaporto. Lo fa, come è ben noto, dal 1979, in una sorta di “diplomazia degli ostaggi” che sistematicamente mette in atto ogni qual volta voglia ottenere dei benefici diplomatici o materiali. Tre giorni prima dell’arresto di Cecilia, un membro iraniano del Corpo dei guardiani della rivoluzione, Mohammad Abedini Najafabadi, viene arrestato all’aeroporto di Malpensa su mandato internazionale spiccato dagli Usa perché accusato di “cospirazione” per aver esportato componenti elettronici sofisticati dagli Stati Uniti all’Iran e di “aver fornito supporto materiale a un’organizzazione terroristica straniera”. La storia ci insegna che non si tratta di una coincidenza. Solo negli ultimi due anni è successo a Olivier Vandecasteele, attivista umanitario belga, a Johan Floderus, diplomatico svedese e ora alla giornalista italiana Cecilia Sala. Tutti e tre, costoro, cittadini dell’Unione europea, arrestati per costringere i loro paesi a liberare pericolosi criminali pasdaran con le mani grondandi di sangue. È giunto il momento che l’Unione europea e tutte le democrazie occidentali inizino a prendere sul serio questa crescente minaccia geopolitica e a dotarsi di uno strumento legislativo per sanzionare pesantemente, a livello comunitario, questa orribile pratica della “diplomazia degli ostaggi”. Il ministro della Giustizia iraniano ha ammesso apertamente che la liberazione di Cecilia Sala può avvenire dopo la liberazione del cittadino iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, detenuto nel carcere di Opera. Negli ultimi due anni sono almeno venti i cittadini stranieri rapiti dai pasdaran e detenuti nelle prigioni iraniane, molti sono giornalisti famosi. Iran. La scelta che spetta al Governo: dare un dispiacere agli Usa di Andrea Colombo Il Manifesto, 4 gennaio 2025 Se la liberazione di Sala è indissolubilmente legata a quella di Abedeni, la via maestra per ottenerla è una decisione tempestiva del ministro della giustizia e della premier. La revoca delle misure cautelari per chi è sottoposto a una richiesta di estradizione “è sempre disposta se il ministro della Giustizia ne fa richiesta”. In ogni caso, la decisione finale sull’estradizione spetta solo al guardasigilli. Non è un’informazione segreta e sensibile, di quelle che a pubblicarle sui giornali si rischia di rovinare manovre diplomatiche e mettere a rischio la sorte di qualcuno. È il Codice di procedura penale: materiale pubblico, facilmente reperibile. È anche la risposta all’interrogativo che il governo si pone trafelato da oltre 15 giorni, prima con massima discrezione e sottovoce, poi con frenesia un po’ isterica, da ieri di nuovo zitti zitti perché altrimenti si fa danno: come chiudere presto e bene la drammatica vicenda di Cecilia Sala, riportando a casa la nostra collega. Se la liberazione di Cecilia Sala è indissolubilmente legata a quella di Mohammad Abedini, la via maestra per ottenerla, l’unica sicura, la sola accettabilmente rapida, è una decisione tempestiva e coraggiosa non del solo ministro della Giustizia ma del governo e dunque, in primo secondo e terzo luogo, di chi lo presiede. Nella politica sia nazionale che internazionale temporeggiare è spesso consigliabile. Qualche volta capita che sia invece necessaria la drasticità e in quei casi nessun leader politico è mai felice. Però capita. Affermare che la materia è competenza della magistratura non è una menzogna ma è una di quelle verità adoperate come scudo e usbergo. Certo la magistratura deciderà sull’estradizione ma con i suoi tempi e sono lunghi: istruttoria, appello, Cassazione. Se non sono anni sono mesi. Parecchi. L’Iran non ha fretta. Il diplomatico svedese Johan Floderus è rimasto in carcere due anni prima di essere scambiato con Hamid Nouri, condannato all’ergastolo per un massacro da migliaia di vittime. L’operatore umanitario belga Olivier Vadecasteele ha scontato un anno e passa prima di uscire in cambio della liberazione del diplomatico condannato per terrorismo Asadollah Assadi. Ma c’è anche chi ha aspettato in carcere 5 o 6 anni prima che venisse individuata la moneta di scambio. Almeno su questo, per la verità, il governo sembra avere le idee chiare: bisogna fare presto, anticipare l’insediamento di Donald Trump. Con lui alla Casa Bianca tutto diventerebbe più difficile. Non è che manchi molto: due settimane o poco più. Se il codice assegna al ministro ogni decisione finale in materia d’estradizione non è per capriccio. È perché la materia è sempre e comunque essenzialmente politica. Invocare la magistratura è un mettersi al riparo. Ma anche da quel punto di vista il guardasigilli, e la premier che di fatto ha la più sonora voce in capitolo, avrebbero argomenti solidi. Il traffico per cui Mohammed Abedini è finito in manette si è svolto alla luce del sole, non lungo i percorsi oscuri dei trafficanti d’armi. Pesa per la giustizia degli Usa la destinazione: i Guardiani della Rivoluzione, organizzazione terrorista su quella sponda dell’Atlantico ma non su questa, né per l’Italia né per l’Europa. Non è un giudizio di merito sui Guardiani o su Abedini. È anche questo un principio legale che regola l’estradizione, quello della “doppia incriminazione”. Richiede che “il fatto posto in essere dall’estradando sia penalmente illecito sia per l’uno che l’altro Stato”. Per chi chiede l’estradizione e per chi deve concederla. La controindicazione è chiara. Agli Usa una scelta del genere non farebbe piacere. È assolutamente normale, pienamente comprensibile, che a qualsiasi governo italiano, di destra sinistra o centro, spiaccia spiacere a Washington. Non ne fu lieto neppure Bettino Craxi ma al momento giusto, a Sigonella, seppe non esitare. Il leader socialista, decisionista e “patriottico” com’era, aveva grandi difetti ma anche qualche dote. Non ci sarebbe nulla di peggio di una leader con i suoi difetti ma senza le sue doti. Iran. Carcere di Evin, il buco nero dei diritti dove tenere a bada gli oppositori di Simona Musco Il Dubbio, 4 gennaio 2025 A Teheran le carceri sono luoghi senza regole e anche i ragazzini possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi principio di diritto. “Le carceri in Iran sono luoghi senza regole e anche gli adolescenti possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi convenzione internazionale. E nessun giornale può raccontare quello che accade: l’unica tv è quella di Stato, che spesso manda in onda, prima dei processi, le false confessioni estorte ai prigionieri con la tortura”. A raccontarlo al Dubbio, cinque anni fa, era Reza Khandan, attivista e marito di Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana per i diritti umani. Due nomi che in Iran significano lotta e che dal carcere di Evin, quel buco nero senza regole né diritti dove ora si trova sequestrata Cecilia Sala, ci sono passati diverse volte. Khandan, oggi, si trova di nuovo lì dentro, “colpevole”, per l’Iran, di aver fatto propaganda contro il velo. Con alcune spillette che gli sono costate una condanna a sei anni contraria ad ogni logica e ad ogni diritto. Ma è così che funziona l’Iran, dove le detenzioni arbitrarie, le torture e gli abusi sono parte integrante della storia. E di un luogo, Evin, che rappresenta il peggio del peggio. La struttura si estende su 43 ettari ai piedi delle montagne a nord di Teheran. Inaugurata nel 1972, sin dal principio luogo in cui far marcire gli oppositori politici. Il carcere è composto da due sezioni, il reparto generale della prigione e il reparto del centro di detenzione di sicurezza. “Il settore pubblico è un luogo dove i detenuti trascorrono le loro pene e hanno condizioni più normali, anche se la possibilità di accedere alla linea telefonica, per le donne politiche recluse a Evin, è molto, molto limitata - raccontava Khandan. Il settore della detenzione di sicurezza è, invece, indescrivibile: lì non esiste la legge. Non c’è alcuna supervisione su ciò che accade. Anche al capo della prigione non è permesso entrare nei centri di detenzione di sicurezza. I prigionieri sono spesso tenuti in isolamento e talvolta torturati. Sono sottoposti a estenuanti interrogatori per settimane e spesso anche a gravi violenze fisiche e psicologiche. È in questi centri di detenzione che i detenuti sono costretti a fare false confessioni a causa della tortura e la televisione di Stato, che è l’unica emittente televisiva del Paese, trasmette queste confessioni ancor prima che una persona sia processata e condannata. Quindi, sulla base di queste confessioni, il Tribunale rivoluzionario può condannare i detenuti a decine di anni di prigione o addirittura alla pena di morte”. Sala, nella sua telefonata ai familiari, ha descritto condizioni di detenzioni degradanti e inaccettabili: costretta a dormire a terra senza materasso, con una coperta da stendere sul pavimento e una per proteggersi dal freddo pungente della prigione. Il pacco spedito dall’ambasciata non è mai giunto a destinazione. Lì dentro, oltre a vestiti e cibo, c’era anche la mascherina per proteggersi dalla luce al neon accesa 24 ore su 24. E a Sala sono stati confiscati anche gli occhiali da vista. Insomma, un trattamento che la assimila ai prigionieri politici, che in Iran non mancano mai. Il periodo più duro in quel carcere risale al 1988, alla fine della guerra con l’Iraq, quando migliaia di detenuti furono giustiziati dopo processi sommari. Ma è l’intero sistema carcerario iraniano a rappresentare una violazione dei diritti. “Le carceri qui generalmente non dispongono di strutture di base per i prigionieri - aveva sottolineato l’attivista -. Insulti e intimidazioni sono all’ordine del giorno. La maggior parte delle carceri non separa i detenuti in base ai crimini. In molti casi, il trattamento dei prigionieri non è seguito e, in caso di ricovero al di fuori della prigione, nella maggior parte dei casi, il costo del trattamento è sostenuto dal detenuto, che deve acquistare forniture e persino cibo di cui ha bisogno con i propri soldi. Anche se la prigione è responsabile di provvedere ai bisogni dei detenuti, nella maggior parte delle carceri il livello di salute è molto basso e le persone recluse soffrono di varie malattie”. Le violazioni dei diritti umani in Iran sono diffuse e sistematiche ed avvengono per conto del governo. Le libertà sociali e politiche sono molto limitate. E non è un caso che il Paese sia al primo posto nel mondo per numero di esecuzioni rispetto alla popolazione. “La tortura (in particolare la fustigazione) viene applicata in forme legali, illegali e sistematiche - aveva sottolineato ancora Khandan -. La libertà dei media è generalmente limitata. Le elezioni nel Paese sono diventate un fenomeno senza senso. I diritti delle donne, delle minoranze etniche e religiose vengono ignorati e la discriminazione di genere dilaga. Le proteste pacifiche vengono generalmente represse. I cittadini possono essere condannati a cinque anni o più di carcere per aver usato internet. Un uomo di nome Ruhollah Zam, ex giornalista ed ex attivista, è stato condannato a morte per aver gestito un canale di Telegram antigovernativo. Mentre si trovava in Francia, dove era stato accolto come rifugiato, è stato ingannato, attirato in Iraq e una volta lì arrestato”. Insomma, basta poco per finire in una prigione iraniana. Perché il governo “non consente la minima critica. Chiunque si oppone viene soppresso con tutte le forze, inclusi avvocati, insegnanti, lavoratori, donne e tutte le minoranze”. E in questo panorama, “il sistema giudiziario iraniano non segue alcuna legge quando agisce contro l’opposizione. Agisce in conformità agli ordini impartiti dalle agenzie di sicurezza. I prigionieri politici sono tra i cittadini più indifesi dell’Iran e vengono trattati dalle forze di sicurezza utilizzando come loro strumenti i giudici delle corti rivoluzionarie”. Una repressione che non risparmia nemmeno i minorenni: “Le persone di età inferiore ai 18 anni vengono trattenute in luoghi chiamati centri correzionali. Quando raggiungono l’età di 18 anni, vengono trasferiti in prigione. Lo scenario peggiore è per gli adolescenti che commettono omicidi: il sistema giudiziario iraniano, al fine di aggirare questa convenzione internazionale che vieta l’esecuzione di coloro che hanno commesso crimini in età inferiore ai 18 anni, li detiene fino alla maggiore età e li giustizia dopo aver raggiunto l’età legale”. Myanmar. Un’amnistia per frenare il collasso, rilasciati quasi 6.000 detenuti ansa.it, 4 gennaio 2025 La giunta golpista che nel 2021 rovesciò il governo civile affronta la ribellione armata di gruppi etnici e politici. Nelle sue carceri anche la premio Nobel Aung San Suu Kyi. Il governo militare del Myanmar - l’ex Birmania - ha annunciato il rilascio di 5.864 prigionieri, tra i quali 180 stranieri. Si tratta di una amnistia decisa in occasione del giorno dell’Indipendenza: ma anche del tentativo di alleviare le pressioni interne e internazionali contro il governo golpista, che da tempo tenta a fatica di contenere la ribellione anche armata di numerose minoranze etniche e politiche. Il Myanmar è in subbuglio dall’inizio del 2021, quando i militari rovesciarono con un colpo di Stato il governo civile, regolarmente eletto, e repressero con la violenza le proteste pro-democrazia. La giunta ha promesso di tenere elezioni politiche quest’anno, ma il piano è stato ampiamente condannato dai gruppi di opposizione come una farsa. Tra coloro che sono ancora incarcerati c’è la premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, attivista democratica ed ex leader del Paese. La 79enne sta scontando una condanna a 27 anni legata a 14 accuse penali che vanno dalla frode elettorale alla corruzione. Secondo i suoi avvocati e le associazioni per i diritti umani si tratta di condanne strumentali. Secondo l’ONU, più di 3,5 milioni di persone in Myanmar sono sfollate - 1,5 milioni in più rispetto a un anno fa. I conflitti armati che ora coinvolgono la maggior parte delle regioni del Paese “ha costretto i residenti a fuggire dalle proprie case e abbandonare i mezzi di sussistenza in numero record”, commenta l’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari (Ocha): “Al 16 dicembre si stima che fossero sfollate più di 3,5 milioni di persone, oltre il 6% della popolazione di 57 milioni, per circa un terzo bambini”.