Carceri, perché investire sulla speranza di Glauco Giostra Avvenire, 3 gennaio 2025 Viene da chiedersi cosa altro debba succedere perché questo Paese e chi lo guida prendano atto che lo stato delle nostre carceri costituisce una colpa politica non meno grave di molte delle colpe individuali che vi si espiano. Dopo che, negli ultimi dieci anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte costituzionale, il Presidente Napolitano e l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso di insediamento e nuovamente nel recente messaggio di fine anno, hanno giudicato la nostra situazione carceraria, soprattutto a causa del sovraffollamento, giuridicamente e umanamente indegna di un Paese civile, per la prima volta nella storia il Papa ha voluto aprire una porta del Giubileo nella “basilica” penitenziaria per cercare di restituire a chi vi è ristretto “la parola che il dito di Dio scrisse sulla fronte di ogni uomo: speranza!” (Victor Hugo). Un gesto, il Suo, non solo di solenne, suggestivo cerimoniale, ma di autorevolissima sollecitazione ai Governi affinché “nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi” (Bolla di indizione del Giubileo). Difficile immaginare una maggiore sintonia tra il vangelo religioso e quello laico consacrato nella Costituzione (art. 27 comma 3: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato”). Sono insegnamenti accordati sul diapason dell’umanità, del rispetto della dignità della persona e del suo diritto alla speranza, come papa Francesco ha ribadito con forza dal suo altissimo scranno. Insegnamenti che però si arrestano al sordo orecchio della politica. Anzi, alcuni fra coloro che per ruolo e per intima fede sono portatori sia dell’insegnamento laico sia di quello evangelico auspicano che si gettino via le chiavi delle prigioni, lasciandovi marcire i reprobi che vi sono rinchiusi o si vantano di non volerli neppure incontrare, nonostante sia loro dovere istituzionale. Frutto di disumanità? Mi rifiuto di crederlo. La spiegazione dovrebbe presumibilmente risiedere nel fatto che il politico di oggi si percepisce come un imprenditore che misura il suo valore sulla capacità di produrre reddito elettorale. E di certo quello basato sull’insicurezza sociale, sul pericolo incombente, sull’intransigenza punitiva è da sempre un ottimo investimento. Gridare al lupo e poi digrignare i denti del cane da guardia ha sempre reso molto, anche perché è a costo zero: basta coniare nuovi reati, aumentare le pene, imporre un’inflessibile segregazione detentiva per i (ritenuti) colpevoli. Che poi sia rimedio dileggiato dalla realtà (gli Usa, ad esempio, con la maggiore popolazione penitenziaria del mondo registrano uno degli indici di criminalità più alti in assoluto) poco importa. L’importante è che l’espediente frutti consenso. E lo sappiamo: “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto bisogno di crederci” (C. Wolf, Medea) L’unica possibilità è riuscire a far capire agli elettori che il rispetto della dignità della persona carcerata e la stimolante speranza di poter realmente incidere sul proprio destino sono fattori di drastico decremento della recidiva del condannato quando torna libero. Ce lo testimoniano le esperienze di sistemi penitenziari a dimensione umana, quali ad esempio gli Apac brasiliani, la prigione di Bastoy in Norvegia, il nostro carcere di Bollate. Ce lo attestano le statistiche. Ce lo ricordano gli studiosi della psiche, per i quali concepire “il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge” (Vittorino Andreoli). Ce lo ricordano i grandi conoscitori dell’animo umano: “Senza un qualche scopo e senza l’aspirazione a raggiungerlo nessun uomo può vivere. Quando ha perduto lo scopo e la speranza, l’uomo, dall’angoscia, si trasforma non di rado in un mostro” (Dostoevskij). Solo quando la collettività, correttamente informata, riuscirà a realizzare che il cieco “punitivismo” rappresenta un fattore non già di tutela, ma di messa in pericolo della propria sicurezza, investire sulla sua paura non sarà più elettoralmente redditizio e allora si potrà voltare questa vergognosa pagina del nostro sistema punitivo. Ma incombe su una simile speranza l’ombra del monito che Sciascia lasciò “A futura memoria”: “I cretini, e ancor più i fanatici, son tanti(...): contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti (…). E continueranno a crederlo”. Monito di Mattarella sulle carceri, serve coraggio: è il momento dell’indulto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 gennaio 2025 Sergio Mattarella non si è tirato indietro nel messaggio di Capodanno, neppure sul carcere. Dopo la parola forte, “indulto”, di Papa Francesco che ha aperto la Porta Santa a Rebibbia e dopo che il ministro Carlo Nordio ha lanciato il suo programma di umanizzazione della pena, è toccato al presidente della Repubblica prendere la parola. Tre voci autorevoli, fondamentali. La situazione è dunque eccellente e ricca di speranze per il prossimo futuro? Eh no, perché il 2024 si è chiuso con numeri cupi e tragici. Non solo perché 89 sono stati i suicidi tra i detenuti e 6 tra gli agenti di polizia penitenziaria, ma anche perché 243 persone in Italia sono morte da prigioniere. Morte naturale, si dice, ammesso che ci sia qualcosa di naturale nel lasciare la vita in una cella, chiusi tra mura invalicabili. Persone che tra quelle mura scontavano la pena. Non c’è certezza se la pena è disumana - Tocca così al capo dello Stato spiegare al colto e all’inclito che non c’è certezza se la pena è disumana. E precisare, chiarire, puntualizzare che prima di tutto viene la Costituzione. La legge delle leggi che “indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Si attribuisce al sovraffollamento la responsabilità di vite che non sono vite, se si sta stipati in 10mila in più del dovuto e del previsto. Ma questi numeri, spiega ancora Mattarella, semplicemente contrastano con la Costituzione: “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”. Ed ecco che con questa parola, l’aria, il presidente ha dato una bella risposta a quel sottosegretario che invece aveva detto di voler togliere il respiro ai prigionieri (o forse solo a quelli mafiosi). Ma è proprio il concetto di pena, voluto dai padri costituenti con l’articolo 27, che torna in discussione con la presa di posizione di Papa Francesco e anche con la proposta di “indultino” del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, così come con le interviste del Guardasigilli e con l’intervento del presidente del Cnel Renato Brunetta. Il fallimento dello Stato - Il carcere come privazione della libertà, e nulla altro di aggiuntivo. Questo dovrebbe essere un programma di governo. E se non si è in grado di garantire una vita “normale” (per quanto possa esserlo il vivere in cattività) alle persone prigioniere, sia condannate che in attesa di giudizio (e quindi innocenti), allora si ha il dovere di provvedere subito e con tempi certi a sbloccare una situazione che, ce lo dice un presidente che è anche giurista, è contraria alla Costituzione. “Indulto” o “indultino” non sono parolacce. È quello che ha detto giorni fa per esempio il presidente del Senato, Ignazio la Russa. “Quando tu dai cinque anni di carcere devi sperare che in quei cinque anni il condannato migliori, ma contemporaneamente che paghi la sua colpa. Il problema è: riusciamo noi a dare alla detenzione queste due funzioni? Se riusciamo a darle non abbiamo bisogno né di amnistia né di indulto. Se non ci riusciamo, a volte è corretto rifugiarsi in amnistie o in piccoli indulti”. Ecco ben espresso il concetto di fallimento dello Stato. Non in particolare di questo governo o del precedente: stiamo parlando di un fallimento storico, in cui il termine “sovraffollamento” viene pronunciato con disinvoltura come fosse un dato ineluttabile. Le alternative - Il programma del ministro Nordio, che si dice contrario a qualunque forma di amnistia o di indulto perché sarebbero “segnali di impunità”, è ineccepibile: umanizzare la pena incrementando “attività culturali, lavorative o sportive dentro il carcere, o modalità diverse dai penitenziari per scontare il proprio debito con la giustizia”. Ma c’è urgenza e ci vogliono date certe. C’è qualcosa che si potrebbe fare anche subito, con provvedimenti amministrativi: mandare a casa in detenzione domiciliare (come fu fatto quando c’era la pandemia di Covid-19) le persone anziane e malate, così come coloro che devono scontare solo un residuo di pena di uno o due anni. Ma esiste una volontà politica? O il concetto di “certezza della pena” continua a prescindere da quella qualità, da quella modalità della pena che Mattarella ha definito come contraria alla Costituzione? Recidiva zero - Brunetta - già ministro ed esponente di Forza Italia - ha lanciato la campagna della “recidiva zero”, in sintonia con il programma del ministero della Giustizia, ma chiarendo anche che “nel frattempo” quantomeno l’indultino proposto da Pinelli sarebbe indispensabile e urgente. Ascolterà queste autorevoli voci la compagine di governo? A partire da quella FI che, sotto la guida di Silvio Berlusconi, nel 2006 votò a favore dell’indulto. Ma davvero le nostre non sono prigioni da regime? di Alessandro Barbano Il Dubbio, 3 gennaio 2025 Che cos’è, in concreto, che scatena il nostro sdegno e la nostra angoscia rispetto alla detenzione di Cecilia Sala? Di primo acchito direi l’arbitrarietà unita all’indecenza. Se trepidiamo immedesimandoci nel destino di questa nostra brava collega, è perché non concepiamo una privazione della libertà che non sia connessa a una responsabilità penale accertata da una condanna, e che comporti un trattamento inumano, cioè lesivo di quel rispetto della dignità altrui che va riconosciuto a qualunque persona, a prescindere dalla sua colpa. Arbitrarietà e indecenza sono i connotati della sanguinaria teocrazia iraniana, che si limita a giustificare l’arresto con la violazione della legge islamica, senza precisare quale sia il precetto in concreto violato, e che tiene Cecilia prigioniera in condizioni bestiali. Per questo dovremmo provare lo stesso moto di sdegno di fronte alle nostre carceri sovraffollate, anche a causa di un eccesso di detenzioni cautelari non giustificate A da condanna. Si dirà, sono situazioni e contesti diversi. Provate a immaginare gli ultimi attimi di vita di uno degli 89 detenuti suicidi di quest’anno, e vedrete quanto, da quell’angolo visuale, la potestà punitiva dello Stato vi sembrerà sconfinare nell’arbitrio e la democrazia confondersi con un regime. Studiare per dare senso alla vita in cella di Marta Occhipinti L’Espresso, 3 gennaio 2025 In Italia aumentano i detenuti iscritti a corsi di laurea. Anche in modalità mista, universitari e ristretti insieme. Tra mille difficoltà, resta la via maestra per rieducare e ridare speranza. Palermo, carcere Ucciardone. Alì, origini libiche, ha una condanna in via definitiva a trent’anni perché accusato di essere uno scafista. Eppure, nel suo Paese era un promettente studente di Ingegneria, oltre che un famoso calciatore. Alto, giovane, è entrato in carcere a 19 anni, ma il suo sogno di riscatto, spezzato da un processo sommario, ha resistito nei testi scolastici che ha studiato per ricominciare da capo. Prima la terza media, poi il diploma: Alì ha imparato l’italiano in carcere. E oggi è uno dei 22 studenti ristretti dell’Università di Palermo. Ha scelto di studiare Scienze politiche e delle relazioni internazionali: ma per lui non ci sono corsi curriculari dedicati. Sarà seguito da un tutor e poche settimane fa ha ricevuto il suo primo libro di Storia delle istituzioni politiche. Francesco, detenuto ultrasessantenne, sempre all’Ucciardone, ha una inedia del 30 al corso di laurea in Studi globali. Dopo quasi dieci anni di detenzione (e altrettanti ancora da scontare) ha ottenuto il suo primo permesso per poter raccontare in un’aula del rettorato la sua prima esperienza all’interno di una classe mista, di ristretti e studenti. “Sono tornato a scuola e mi sento un ragazzino - ha detto - questo seminario è proprio una figata, è stato il mio ritorno alla normalità”. Sono bastate ventisette ore, nell’ambito di un ciclo di incontri per le competenze trasversali sul tema della costruzione dell’identità, aperto per la prima volta da un ateneo siciliano a detenuti e universitari, per accendere in Francesco e nei volti di altri otto ristretti di media sicurezza un’espressione di timida speranza: che non sia davvero tutto finito. Il diritto allo studio in carcere, in Italia, è ancora un diritto a metà, a fronte di un aumento di 250 nuovi iscritti in un anno. Secondo l’ultimo monitoraggio della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari, a oggi sono 1.707 gli studenti ristretti, iscritti in 40 atenei italiani aderenti al Cnupp: 71 sono le donne, ovvero il 4,2 per cento, 177 gli stranieri, provenienti prevalentemente da Albania e Marocco. La fascia d’età principale è quella che va dai 36 anni agli over 60. Un’utenza fragile al centro del difficile dialogo burocratico tra dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e università: le principali problematiche sono la mancanza del riconoscimento delle ore di didattica ai docenti che decidono di dedicare parte del loro monte ore annuale all’insegnamento in carcere, assieme alla carenza di cablaggi negli istituti di pena per il collegamento a Internet necessario per le procedure di iscrizione e convalida degli esami. O più banalmente per seguire il corso di una materia. A oggi, un miraggio che avviene in pochissimi atenei da Roma in su e in Sardegna. Quanto al sistema di gestione dei circuiti di sicurezza, se circa il 37 per cento dei detenuti studenti è collocato nei tre livelli di alta sicurezza, è impossibile creare delle classi miste, per cui i docenti impegnano il triplo del tempo, dividendosi, quando è concesso, in più giorni alla settimana. “Amo studiare. Non è facile ricominciare da capo. Ma il tempo è a mio favore”. Abdelkrim, marocchino, 50 anni, una pena ultradecennale, nel libro-testimonianza pubblicato sui seminari seguiti a Palermo ha scritto: “È vero che i nostri livelli sono diversi - rivolgendosi agli studenti - ma c’è la grinta di tendervi la mano per saperne di più”. L’ateneo di Palermo - che quest’anno ha visto laurearsi il suo primo studente ristretto in Urbanistica - ha attivato, in via sperimentale nelle due carceri dell’Ucciardone e di Pagliarelli, il corso misto in presenza in carcere, rivolto a venti studenti, ristretti e no, con 12 docenti di diversi dipartimenti. Su otto ristretti al Pagliarelli solo due iscritti al polo universitario penitenziario hanno potuto partecipare al corso misto: gli altri, in massima sicurezza, non hanno potuto accedere a corsi con studenti esterni. Il modello Palermo guarda ad altri atenei: alla Statale di Milano, prima università italiana per numero di studenti ristretti (166 e 50 laureati in nove anni), dal 2016 si tengono oltre una decina di corsi e seminari l’anno, in presenza e online, per studenti e ristretti dei diversi regimi detentivi. A Bollate ci sono corsi solo per donne. Milano, a differenza di Palermo, ha ottenuto il riconoscimento delle ore di didattica in carcere: come Parma, Roma e Catanzaro, dove l’insegnamento ai detenuti non viene considerato volontariato. A Catanzaro, carcere di Siano, durante la pandemia venne persino inaugurato il primo corso misto a distanza per tredici studenti collegati da casa con ristretti, quasi tutti ergastolani. Tema: la sociologia della devianza. L’Università di Catanzaro è stata la prima ad avviare la figura dei tutor pari interni, ovvero figure di accompagnamento per studenti ristretti iscritti ai corsi di laurea anch’esse detenute. Due dei più bravi sono Salvatore Curatolo, 65 anni, capomafia di Caltanissetta, ergastolano, una laurea in Sociologia dopo dodici anni di 41bis, e Sergio Ferraro, ex dei casalesi, da 23 anni in carcere. “Le storie di successo sono il risultato di fortunate coincidenze - racconta Charlie Barnao, ex docente di Sociologia a Catanzaro - un direttore illuminato e la disponibilità di spazi, innanzitutto. Il carcere resta un sistema di punizione e tortura. Lo studio salva chi vuole salvarsi”. Come Catello Romano, originario di Castellammare di Stabia; nella sua tesi di laurea, una forma di autobiografia criminale, ha confessato tre omicidi: ora la tesi è stata acquisita dalla Procura di Napoli. Dopo questa vicenda, riportata a tutta pagina da “El Pais”, l’ateneo di Catanzaro ha ricevuto richieste di iscrizioni ai corsi di laurea e ai seminari da parte di istituti penitenziari della Pennsylvania. Ad attrarre gli americani, l’idea dello studio come metodo rieducativo e di riduzione della pena. Il sadismo istituzionale contro i detenuti. A Cospito tolgono pure la farina di Guido Vitiello Il Foglio, 3 gennaio 2025 Conosco una sola persona che sarebbe in grado di infornare una pizza e far esplodere un intero palazzo, e questa persona è mia moglie. E invece - lo apprendo dal sempre prezioso Frank Cimini, che ne ha scritto sull’Unità - il ministro Nordio e il Dap hanno impugnato in Cassazione l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Sassari aveva autorizzato l’anarchico Alfredo Cospito ad acquistare farina e lievito per cucinarsi qualcosa con il fornelletto della cella. Dicono che Cospito potrebbe produrre colla usando la farina e fabbricare esplosivi con il lievito. Eppure la Corte Costituzionale, proprio con riferimento all’alimentazione, aveva stabilito che anche chi è detenuto al 41 bis deve poter conservare quei “piccoli gesti di normalità quotidiana” che gli consentono, in buona sostanza, di non impazzire. Ebbene, io penso che dovremmo cominciare a chiamare le cose con il loro nome. Nei confronti dei detenuti italiani - vale per tutti i detenuti, ma con più accanimento per quelli che sono diventati, volenti o nolenti, simbolo di qualcosa - si sta scatenando una ripugnante ondata di sadismo istituzionale. Decenni di erosione del consenso costituzionale - da parte di politici, magistrati e organi d’informazione, in testa a tutti il noto gazzettino pornografico dei manettari che vanta innumerevoli tentativi di imitazione a destra - hanno fatto saltare ogni argine, fino all’immondo show di Salvini e Bonafede per l’arresto di Cesare Battisti e alle indecenze più recenti di Delmastro e compari. Dovrebbero guardarsi allo specchio. Il richiamo untuoso alle vittime e l’orgasmo del benpensante tutto fiero della sua fermezza non sono che tortuosi mascheramenti: dare gratuite afflizioni supplementari a chi è già afflitto è sadismo. Giustizia, un anno di riforme in attesa delle carriere separate di Valentina Stella Il Dubbio, 3 gennaio 2025 Dall’abuso d’ufficio al dl Flussi, il 2024 si chiude ipotecando la riforma costituzionale, nella speranza di un vero piano carceri. Come si è chiuso il 2024 della giustizia e quale sarà il filo conduttore della politica giudiziaria nel nuovo anno? La cornice entro cui ci si è mossi e si continuerà ad agire è quella di una coesistenza all’interno di maggioranza e governo di anime diverse. Le istanze garantiste di Forza Italia spesso devono infatti soccombere dinanzi alla spinta opposta di Fratelli d’Italia e Lega. Lo abbiamo visto, per esempio, con la proposta della liberazione anticipata speciale del deputato di Italia viva Roberto Giachetti: gli azzurri inizialmente si erano detti pronti ad appoggiarla, poi è arrivata la retromarcia per rispettare difficili equilibri in maggioranza. La stessa nomina del ministro Carlo Nordio era stata accolta con entusiasmo per il suo profilo attento al giusto processo, alla situazione delle carceri, e a forme serie di depenalizzazione. Solo che poi la sua cultura, espressa da editorialista e scrittore prima di arrivare a via Arenula, ha dovuto alzare bandiera bianca dinanzi alle esigenze securitarie e panpenaliste del Carroccio e del partito della premier Meloni. Nordio, ad esempio, ha dovuto sottoscrivere, insieme a Piantedosi e Crosetto, il ddl Sicurezza che aumenta reati e pene. Il carcere, da lui considerato come extrema ratio, oggi invece è pesantemente sovraffollato e teatro di insopportabili suicidi di persone nelle mani dello Stato. Sicuramente però l’ex magistrato può rivendicare il fatto che la sua riforma della separazione delle carriere è diventata la madre di tutte le riforme. Ciò gli ha assicurato il pieno appoggio dell’avvocatura e invece un anatema da parte dell’Associazione nazionale magistrati. Da febbraio, quando sarà ormai orfana del presidente uscente Giuseppe Santalucia, dovrà prepararsi ad una dura battaglia per poter vincere il referendum auspicato dal responsabile di via Arenula, convinto che i cittadini gli daranno ragione nel 2026. Intanto la riforma di modifica costituzionale dell’ordinamento giudiziario, targata appunto Nordio, è approdata nell’Aula della Camera il 9 dicembre con grande soddisfazione di tutta la maggioranza. Con l’autonomia differenziata bocciata in sette punti dalla Corte costituzionale, che presto dovrà decidere anche sulla legittimità del referendum e con il premierato congelato perché progetto complesso - resta ad esempio da sciogliere il nodo su come eleggere il premier - maggioranza e Governo puntano tutto sulla modifica dell’assetto dei rapporti tra magistratura requirente e magistratura giudicante. La riforma tornerà in discussione a Montecitorio l’8 gennaio: sarà prima votata la questione pregiudiziale di costituzionalità presentata dalle opposizioni e poi riprenderà l’esame generale. Nello stesso giorno il plenum del Csm voterà molto probabilmente il parere contrario alla riforma. Una casualità che regalerà però grandi scintille tra Camera e Palazzo Bachelet. L’obiettivo del Guardasigilli e soprattutto di Forza Italia è quello di approvare la riforma nell’anno che verrà per poi indire il referendum. Sicuramente per il ministro della Giustizia il risultato più importante del 2024 è l’approvazione definitiva avvenuta a luglio del cosiddetto ddl Nordio che comprende, tra l’altro, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, modifiche al traffico di influenze, stretta sulla pubblicazione di intercettazioni, introduzione di un organo collegiale per l’adozione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, inappellabilità di alcune sentenze da parte del pubblico ministero. Ad agosto è passato anche il ddl Carceri, tra aspre polemiche con le opposizioni, proprio nel giorno del 65esimo suicidio oltre le sbarre. Ci si aspettava un provvedimento che potesse in qualche modo dare respiro agli istituti di pena, ma invece è stata licenziata una norma blanda. Solo più assunzioni di agenti penitenziari, un aumento da 4 a 6 delle telefonate mensili, l’istituzione (teorica al momento) di strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità, ma che non sono in possesso di un domicilio idoneo. Ad inizio anno invece era stata approvata alla Camera la riforma della prescrizione, che ha cancellato l’improcedibilità voluta dall’ex ministra Marta Cartabia. Il provvedimento è fermo nella Commissione giustizia di Palazzo Madama. Ad aprile era arrivata al traguardo la riforma dell’ordinamento giudiziario, che tra le varie novità, ha previsto, ma solo dal 2026, test psicoattitudinali per entrare in magistratura e un esiguo taglio dei magistrati fuori ruolo. Approvato poi a dicembre lo schema di decreto legislativo che vieterà la pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Una riforma voluta fortemente dal deputato Enrico Costa per scongiurare quello da lui definito “marketing giudiziario”. Come non dimenticare l’aspra polemica tra Nordio e la maggioranza da un lato e le toghe dall’altro per aver previsto del dl Flussi lo spostamento dai tribunali alle Corti di Appello della materia sui trattenimenti dei migranti. Provvedimento in realtà caldeggiato maggiormente dal Viminale. Ma cosa resta in cantiere? Sicuramente, dopo l’approvazione in Senato, la Camera vorrà accelerare per approvare il disegno di legge “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione” a prima firma del capogruppo di Forza Italia in 2a al a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin, che introduce un limite massimo di durata complessiva delle intercettazioni pari a 45 giorni. Soprattutto i procuratori si sono già espressi in maniera sfavorevole durante le audizioni. Gli azzurri faranno anche pressioni affinché nella Commissione giustizia della Camera si inizi a discutere del disegno di legge “Modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi, sistemi informatici o telematici o memorie digitali”, già passato al Senato e che ha lo scopo di introdurre nel codice di procedura penale l’articolo 254-ter, per cui nel caso in cui nel dispositivo siano presenti scambi di comunicazioni, carteggi mail o conversazioni telematiche e di messaggistica, vada applicata la identica disciplina che riguarda le intercettazioni. Per le carceri si attende il progetto del neo commissario all’edilizia penitenziaria Marco Doglio. Aspettando Godot. Mafia. Sempre più minori “liberi di scegliere”. Il protocollo diventi legge di Stato di Davide Imeneo Avvenire, 3 gennaio 2025 Il procuratore del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Di Palma fa il punto sull’applicazione del piano della Cei che offre un futuro libero dal giogo dei clan: da 9 a 26 ricorsi nel 2024. “Ricordo quello che disse un collaboratore di giustizia sentito in udienza a Palmi anni fa: “Mio cognato, noto esponente di una famiglia di ‘ndrangheta di Gioia Tauro, si vantava che i maschi della sua famiglia non si erano mai dovuti rimboccare le maniche per lavorare”. Con questo ricordo dibattimentale, Roberto Di Palma, procuratore del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, commenta in esclusiva per Avvenire i dati dell’anno giudiziario dell’ufficio da lui diretto. La mafia vuole smontare lo Stato a partire dal suo fondamento primo: il lavoro. “Noi insegniamo ai ragazzi che esiste un mondo diverso” chiarisce Di Palma. “Cerchiamo di far capire che non si lavora sulle spalle degli altri, ma si lavora con le mani proprie”. Se la ‘ndrangheta “educa” i bambini a diventare i delinquenti del futuro, lo Stato, invece, si propone di far maturare i loro talenti e di metterli a servizio della comunità in un ambiente sano e scevro di condizionamenti criminali. Come? Attraverso il Protocollo “Liberi di Scegliere”, finanziato dalla Conferenza episcopale italiana coi fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica. “Durante il 2024 abbiamo assistito ad un incremento significativo della applicazione del protocollo - spiega ancora il procuratore -. Siamo passati dai 9 ricorsi avanzati al Tribunale nel 2023 ai 26 del 2024”. Il Protocollo prevede la sospensione della responsabilità genitoriale per i coniugi mafiosi e il consequenziale allontanamento dei minori che vengono affidati a strutture o famiglie lontane dal luogo di nascita e di residenza del nucleo di origine. L’incremento del 189% delle richieste di adesione fa ben sperare; tuttavia, il Protocollo è ancora in fase sperimentale ed è quindi una misura provvisoria: “Il nostro obiettivo - prosegue Di Palma - è che diventi una legge dello Stato. Questo ci permetterebbe di poter disporre di una copertura finanziaria e di strutture che vengano pagate regolarmente, due requisiti essenziali per poter avviare le procedure di “Liberi di scegliere” in maniera molto più sistematica”. Da quanto si evince dai dati del 2024, la Procura ha iscritto un numero più elevato di fascicoli rispetto al 2023, complessivamente l’aumento è stato del 30%. “Questo ci porta a due conclusioni - chiarisce il procuratore -. Da una parte c’è un maggior numero di persone che decide di denunciare e affidarsi alla magistratura, dall’altro è oggettivo che stiamo andando incontro a dei giovani che sono più propensi a commettere dei reati”. Rispetto alla tipologia di crimine commesso dai minori, si registra un preoccupante incremento dei reati sessuali: “Dare in mano un telefonino in età ancora preadolescenziale - commenta Di Palma - comporta che i minori usufruiscano di un mondo del tutto artefatto e alterato della sessualità, perché nei siti pornografici che i ragazzi sistematicamente frequentano, la sessualità è intesa in maniera completamente diversa rispetto a come dovrebbe essere intesa, c’è una fruizione totalmente sbagliata, anticipata nel tempo, falsata nei suoi contorni”. Il magistrato, poi, fa riferimento ad atti processuali: “Abbiamo letto alcune chat frequenti tra ragazzini al di sotto di 14 anni, in cui si fa riferimento ad approcci con ragazze basati tutti quanti su violenza, su brutalità, che sono dovute solamente a ciò che apprendono su Internet”. Anche in questo caso, quindi, il cattivo esercizio della responsabilità genitoriale porta ad esporre i propri figli a reati penalmente rilevanti. Dopo i permessi premio, la libertà condizionale. Ecco il piano dei padrini di Cosa nostra di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 gennaio 2025 Sempre più mafiosi in semilibertà: sono ufficialmente detenuti modello, ma continuano a conservare tanti segreti. Alcuni mafiosi ergastolani che negli ultimi tempi hanno ottenuto permessi premio e anche la semilibertà si sono già fatti avanti nei tribunali di sorveglianza, soprattutto quelli del Nord Italia: puntano alla liberazione condizionale. Il primo è stato il boss Paolo Alfano, il mafioso che i giudici Falcone e Borsellino definivano “uno dei killer più spietati di corso dei Mille a disposizione di Filippo Marchese”: nei drammatici anni Ottanta si muoveva insieme a Salvatore Rotolo, il killer del medico legale Paolo Giaccone pure lui in permesso premio nei giorni di Natale. Adesso, Alfano e Rotolo sostengono di essere detenuti modello, senza più contatti “attuali” con l’organizzazione mafiosa. E tanto basta per puntare ai benefici di legge, così ha stabilito la Corte Costituzionale nel 2019.Ma il ritorno in libertà di diversi ergastolani ha già creato non poche polemiche. Dopo gli articoli di “Repubblica”, che hanno svelato un permesso premio persino per Giovanni Formoso, uno degli attentatori della strage di Milano del 1993, è intervenuto anche il procuratore nazionale antimafia. Giovanni Melillo ha scritto al ministro della Giustizia Carlo Nordio per sollecitare la modifica di un articolo dell’ordinamento penitenziario, quello che consente ai giudici di sorveglianza di non chiedere il parere alle procure qualora i permessi siano ripetuti nel tempo. La Dna insiste perché i pareri vengano sempre chiesti, solo le direzioni distrettuali antimafia hanno infatti il quadro completo dei rapporti all’interno dell’organizzazione mafiosa, soprattutto nella dinamica molto particolare fra il carcere e l’esterno. In queste ultime settimane, l’inchiesta di “Repubblica” sui boss ergastolani in semilibertà ha messo in risalto anche un altro vistoso buco: non esiste un monitoraggio in tempo reale dei mafiosi in permesso premio. Così, è accaduto che la procura di Palermo non sia stata consultata in occasione della concessione di un permesso premio allo storico boss di Cosa nostra Ignazio Pullarà. E non è stata neanche informata del permesso. Insomma, un gran disordine. E, adesso, la direzione nazionale antimafia ha chiesto al Dap (la direzione dell’amministrazione penitenziaria) di predisporre una lista precisa dei boss ergastolani in semilibertà. Una lista urgente perché i boss in permesso premio tornano in una Palermo dove sono già presenti tanti scarcerati eccellenti, perché hanno finito di scontare il loro debito con la giustizia. Prendete il caso di Paolo Alfano, detenuto in buona condotta meritevole di un permesso premio: uno dei suoi figli ha sposato la figlia di Nino Sacco, mafioso fra i più pericolosi attualmente in circolazione a Palermo, Sacco è tornato in libertà dopo avere scontato il suo debito con la giustizia. Un altro figlio di Alfano, è finito invece al cospetto di un capomafia di primo piano di Palermo, Giulio Caporrimo. Nel 2011, gli chiese un posto di lavoro. “Mio padre mi dice “apriti una cosa”, diceva il giovane. “Un lavaggio, un negozietto”. Caporrimo era di un’altra idea: “Ma non ti conviene farti un po’ di esperienza in una ditta?”. Il boss scarcerato (e poi riarrestato perché era tornato al comando del clan) aveva un’idea ben precisa: “Devi entrare in una bella ditta, ce ne ho tante, ma per ora non stanno lavorando”. Insomma, una gran bella raccomandazione mafiosa. Caporrimo indirizzò il figlio di Paolo Alfano verso un’altra “ditta che fa lavori con… e gli fa pure i lavori a … gli dici che è cosa mia”. Solo un gesto di solidarietà tra famiglie di detenuti nello stesso carcere, o una nuova alleanza tra vecchi mafiosi? Gli intrecci della famiglia Alfano suggeriscono un’analisi più attenta delle relazioni intrattenute dai mafiosi. In una recente intervista a questo giornale, il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita ha bacchettato “le letture burocratiche del comportamento tenuto dai mafiosi dentro il carcere”. Il mafioso in cella è sempre un detenuto modello. E, allora, è necessario mettere in campo ulteriori elementi di valutazione. Prima che altri pericolosi capimafia ottengano nuovi permessi premio. Umbria. Verini (Pd): “Urge affrontare il dramma delle carceri” spoletooggi.it, 3 gennaio 2025 Sabato a Spoleto si inaugura la Porta Santa dei detenuti. Il senatore Walter Verini, in qualità di segretario della Commissione Giustizia e capogruppo del Partito Democratico in Antimafia, ha espresso un forte richiamo all’attenzione riguardo alle gravi problematiche che affliggono le carceri italiane, in particolare quelle di Spoleto e Terni. In seguito agli ultimi eventi allarmanti, Verini ha manifestato sdegno e preoccupazione, sottolineando l’urgenza di un intervento concreto. “Le parole non bastano più”, ha affermato, sostenendo la posizione del Garante delle Carceri e dei sindacati della Polizia Penitenziaria, che chiedono una risposta immediata ai crescenti problemi di sovraffollamento e condizioni di vita disumane all’interno delle strutture penitenziarie. “I detenuti, anche nelle carceri umbre, vivono situazioni estremamente difficili, spesso insostenibili”, ha aggiunto il senatore. Verini ha criticato l’atteggiamento del governo e del ministro della Giustizia, accusandoli di ignorare le gravi realtà che interessano il sistema carcerario, nonché di non prestare ascolto agli appelli del Papa e alle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “C’è una responsabilità morale che non può essere trascurata”, ha dichiarato, evidenziando la necessità di riunirsi per affrontare le sfide del settore. Sabato prossimo, il senatore Verini sarà presente a Spoleto per l’inaugurazione della Porta Santa, realizzata dai detenuti, un evento che rappresenta un segnale di speranza e umanità. Insieme all’Arcivescovo Boccardo, Verini sottolineerà come questo gesto, dopo quello simile avvenuto a Rebibbia con la presenza del Papa, debba suscitare un senso di responsabilità collettiva. “Non possiamo rimanere indifferenti”, ha affermato, avvertendo che un atteggiamento di indifferenza sarebbe inaccettabile. L’impegno di Verini e di molti altri, nei prossimi giorni, sarà quello di chiedere misure urgenti per affrontare il sovraffollamento carcerario e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. “È fondamentale garantire una pena che non solo sia certa, ma anche rieducativa”, ha concluso, sottolineando come tali interventi siano imprescindibili per garantire la sicurezza sociale. Il senatore ha ribadito la necessità di investire nel rispetto dei diritti umani all’interno delle carceri, considerandolo un passo fondamentale per una società più giusta e sicura. Bologna. Detenuto muore nel carcere della Dozza: è il terzo in Emilia Romagna in pochi giorni Il Resto del Carlino, 3 gennaio 2025 L’uomo, 40 anni, stava camminando in un corridoio quando si è accasciato: accertamenti sulle cause in corso. Il garante regionale: “Una vera crisi del sistema”. Ancora una vittima nelle carceri dell’Emilia Romagna: il terzo morto in pochi giorni è purtroppo da registrare alla struttura della Dozza. A perdere la vita è stato un detenuto di 40 anni, di origini pakistane che si trovava si trovava nella sezione giudiziaria del carcere, stava camminando in corridoio in direzione del cancello che delimita la sezione quando all’improvviso si è accasciato a terra ed è morto. Gli accertamenti sulle cause del decesso sono in corso e al momento non è ancora possibile chiarire se si tratti di morte naturale, legata all’assunzione di farmaci o droghe, oppure altro. Si tratta, appunto, del terzo detenuto deceduto in un carcere dell’Emilia-Romagna nel giro di pochi giorni. Ieri, infatti, un uomo di origine straniera è morto nel carcere di Modena per inalazione di gas (da stabilire se si sia trattato di un suicidio o di una pratica per stordirsi), mentre il 30 dicembre, nel carcere di Piacenza, ha perso la vita un tunisino di 27 anni e terminati gli accertamenti il caso è stato classificato come suicidio. Infine un tentativo di suicidio si è verificato una ventina di giorni fa nel carcere di Modena e il detenuto si trova ora in coma. “Non ci sono più parole, siamo di fronte ad una vera crisi, sia che si tratti di suicidi o di morti per altre ragioni non cambia niente”, ha detto il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. Milano. San Vittore e la nuova emergenza dei troppi “ragazzi in gabbia” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2025 Record di ventenni nell’istituto milanese. Presenti 1.076 detenuti per 746 posti. Il nodo delle dipendenze da farmaci. Attesa la ristrutturazione di uno dei raggi chiusi da anni. La rabbia dei “ragazzi in gabbia” la senti subito. Ti investe con l’odore di sudore e ormoni, misto al tanfo di candeggina all’ora delle pulizie. La vedi nella cella così piena di ritagli e foto da far filtrare solo ombre attraverso le grate. La rabbia dei ragazzi dentro è scritta nei report su danneggiamenti e aggressioni, si legge nei dati sull’autolesionismo (“un modo di comunicare soprattutto per alcuni gruppi”, spiegano gli operatori); la respiri salendo nei tre piani della sezione “giovani adulti”, ora piena come non mai. Carcere di San Vittore, primo raggio. Un citofono, cancelli, scale; poi ancora cancelli ed eccoli i ventenni reclusi, quasi tutti stranieri, con le loro storie per lo più di migrazioni e torture. Abbandoni e droghe. Poi strada, illegalità e invisibilità. Oppure, per quelli di seconda generazione, di bande e violenze contro una comunità di cui non si sentono parte. Questo dei giovani adulti (18/25 anni) è diventato uno dei reparti più complessi dell’intero istituto ottocentesco di Milano, un pezzo di città nel cuore della città. Un’emergenza nuova. Che si somma a quella cronica delle troppe presenze, con numeri da allarme rosso e talvolta da materassi a terra; si aggiunge alle ventennali traversie per la ristrutturazione di due raggi chiusi o al dilagante disagio psichico (200 i detenuti psichiatrici e a rischio suicidio) e alla tossicodipendenza (6o o quelli dichiarati). Tutto ancora da aggiungere alle quotidiane urgenze: ora il dramma del diciottenne morto dopo essersi dato fuoco; ora il freddo dell’inverno milanese in ambienti non riscaldati abbastanza; ora il black out delle telefonate poco prima di Natale. E nonostante tutto l’odore della pittura fresca al secondo piano della sezione, racconta - insieme alle tante attività - degli sforzi per “far respirare un’aria diversa da quella che li ha portati al crimine”, secondo il monito del Presidente Mattarella. Sulle pareti sono state appena dipinte le bandiere di Marocco, Tunisia, Egitto, i principali Paesi di provenienza dei giovani reclusi, insieme al grande Tricolore poco più in là del presepe. Anche questo aiuta in una pentola a pressione dove tutto può diventare una scintilla: la ricerca di una sigaretta, l’attesa per le docce, la mancanza di soldi per piccoli acquisti personali, le tensioni tra nazionalità. La noia. “Ieri quello della 203 se l’è presa con un assistente”, racconta Alessandro. 42 anni e due lustri di galera alle spalle, è uno degli adulti scelti per affiancare i giovani nel percorso di accettazione di regole e ruoli. L’obiettivo è favorire “con il linguaggio dei pari - spiega la neo direttrice Elisabetta Palù - il loro ingaggio nelle attività”. Dai rap ai podcast, dal disegno alla musica, forme di comunicazione di maggiore attrazione rispetto ai corsi classici, anche se “la scolarizzazione bassa - si legge in un focus del provveditorato della Lombardia - costituisce la prima forma di emarginazione e di ferita sociale”. Alessandro conosce bene la loro bramosia di soldi facili. La stessa che aveva portato lui a commettere reati e quindi entrare in carcere. Prima a Torino (“dove dovevo comprarmi anche la carta igienica”), poi alla fine Milano, dove dà una mano in cucina. Il più ambito dei lavori, soprattutto in questo raggio dove tutto è specifico e il venerdì si mangia pizza. Sono 282 i giovani adulti di San Vittore, su un totale di1.076 detenuti (e una capienza di 746 posti), nel giorno di metà dicembre in cui entriamo “nel gran serraglio” di via Filangieri, per dirla con le canzoni della ligera. Quattro i nuovi giunti da sistemare. E poi ci sono le 74 donne della sezione femminile, oltre alle quattro mamme dell’istituto a custodia attenuata, una delle quali incinta, con i figli neonati inseriti anche loro nella conta quotidiana dei presenti. “E cambiato il profilo del detenuto”, concordano Alessandro, la direttrice e gli educatori di comunità seduti nella biblioteca. Sulla lavagna, la coniugazione del verbo andare. “Per molti ragazzi il carcere è il primo incontro con l’istituzione o con un medico”. Il carcere che diventa un’occasione per i “tantissimi che non hanno nessuno fuori”. Sono gli stessi che si ritrovano senza vestiti adatti alle temperature rigide. Soprattutto a loro sono diretti gli abiti nuovi comprati con le donazioni (oltre 13 mila euro) raccolte in pochi giorni dall’Opera San Fedele. La risposta di “Milan col coeur in man” all’emergenza freddo. Milano che si cura del mondo dei reclusi e lo incontra nelle non poche occasioni di “ponte tra dentro e fuori”, conferma Palù, che ha raccolto una tradizione di progressive aperture. Così a San Vittore era stato inaugurato il primo call center; da qui uscirono gruppi di detenuti per spalare le strade innevate; così San Vittore è diventata una delle piazze della manifestazione book city e uno dei palcoscenici della Prima diffusa, la proiezione del concerto della Prima alla Scala (due anni fa partecipò anche il ministro Nordio; l’anno scorso fu interrotta per un suicidio). “Il contatto con il territorio fa la differenza; incentiviamo simili iniziative - annuisce la direttrice - nonostante le difficoltà e la carenza di personale”. Nel concreto significa che per consentire l’ultimo appuntamento di Sant’Ambrogio alcuni agenti sono stati in servizio dalle prime ore del 7 dicembre a sera, quando finita l’opera e mangiato il risotto, gli ospiti esterni hanno imboccato un percorso diverso rispetto ai detenuti. Seduta nella rotonda quella sera c’era anche Laura, 37 anni, alle spalle una famiglia borghese e un passato di tossicodipendenza e reati. Ora la sua priorità è trovare un indirizzo per andare in affidamento (“mia mamma si vergogna e si preoccupa per mio figlio che vive con lei”). Senza quella destinazione lei è costretta a restare dentro. E come lei molti altri, alla disperata ricerca di “un alloggio e di un impiego per non sentirci abbandonati fuori. E rischiare - sospira - di ricadere nel reato”. Anche nella sezione femminile, la prospettiva di uscire è avvertita da molte come un “salto nel buio senza rete”, che spaventa più dei muri umidi di celle dove solo nei mesi scorsi sono state rimosse le turche dai bagni (“una conquista di dignità”), rimaste invece nel primo e sesto raggio. Un salto pieno di incognite soprattutto se - come per Laura - il lavoro all’interno dello spaccio del carcere le assicura “un po’ di autonomia e autostima. Fuori chi mi dà un impiego?”, si chiede. “Fuori non c’è niente”, confessò un detenuto a studenti dell’Università Statale. Non a caso c’è chi si toglie la vita alla vigilia del ritorno in libertà. Ecco che allora la quotidianità di un carcere complesso come questo è anche la presa in carico di molte delle criticità di fuori, comprese quelle che “ufficialmente” non esistono. Ad esempio, i dipendenti da farmaci: “sono sempre di più ma il Servizio sanitario non li copre”, spiega la direttrice; o i tanti stranieri irregolari con problemi di dipendenze, non accettati da Sert e comunità, perché nessuno pagherebbe per loro. E allora restano dentro “in questo grande metrò dove ogni giorno la gente scende e sale”, secondo l’efficace immagine usata da Antonio, veterano di San Vittore. “Dopo esperienze in più istituti e celle di ogni genere - racconta - grazie al gruppo della Trasgressione e all’accesso all’art.21 (la possibilità di lavorar, ndr), sono cambiato”. Alle nostre spalle, un grande trompe l’oeil illude di affacciarsi, insieme ad un pavone, su un orizzonte azzurro. La realtà è l’eco dei grandi cancelli, il tintinnio delle chiavi e il buio dei due raggi chiusi da anni. Più volte si sono rincorsi progetti anche di archistar su San Vittore, insieme ad idee - poi accantonate - di una cittadella giudiziaria in periferia. Ora sembra avvicinarsi la ristrutturazione delle sezioni inagibili da tempo: per il 2025, almeno per il quarto braccio, è “in fase conclusiva la progettazione a cura delle Opere pubbliche ed è programmata la relativa gara d’appalto a cura del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per un importo di 10 milioni”, snocciola la Provveditrice Maria Milano, insieme alla programmazione di altri lavori come l’installazione di pompe di calore. I cantieri appena conclusi dovrebbero invece far recuperare 34 camere. Anche in questi casi, la collaborazione con gli enti locali e associazioni private fa la differenza. Anche nel messaggio trasmesso ai detenuti. Come l’autore di un murales con un tucano: “gioca nella vita - si legge nella didascalia - tra le possibilità negate, senza mai perdere la speranza di cieli più vasti”. Firenze. Stop alla girandola, a Sollicciano arrivano due vicedirettori di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 gennaio 2025 In questi giorni si avvicendano al vertice del carcere gli altri direttori toscani. Da settimane il penitenziario è senza una guida stabile. Tuoni ancora in malattia. Una buona notizia di inizio anno per il carcere di Sollicciano. Entro pochi giorni arriveranno nel penitenziario fiorentino due nuovi vicedirettori - c’è ancora riservatezza sui loro nomi - che sono stati nominati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria pochi giorni fa. Un passo importante, perché queste due figure erano mancanti da diversi anni. La speranza è che la presenza di due dirigenti di alto livello, con competenze specifiche, renda possibile affrontare le questioni più gravi e urgenti con più semplicità ed efficacia, dato che fino ad ora il carico di lavoro era tutto sulle spalle della direttrice Antonella Tuoni. Proprio Tuoni, a causa delle condizioni di degrado dell’istituto, era stata sanzionata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un provvedimento in seguito al quale era arrivata alla direttrice la solidarietà da parte delle istituzioni locali, tra cui la sindaca Sara Funaro, visto che le cause del degrado della struttura sono in realtà da ricercare in responsabilità storiche e molto più profonde. Proprio dopo il provvedimento del Dipartimento, era seguita la malattia della direttrice Tuoni, che per molti giorni si è quindi allontanata dal suo ufficio nel carcere di Sollicciano. La struttura ha vissuto così giorni in condizione anche più critica del solito, visto che, per sopperire alla direzione e in assenza di vicedirettori, ancora oggi a Sollicciano si stanno avvicendando un direttore diverso ogni settimana, a volte anche due ogni settimana. Ad alternarsi al vertice della struttura ci sono principalmente i direttori o le direttrici di altre carceri toscane, che però devono svolgere contemporaneamente il ruolo in due penitenziari diversi, rendendo quindi macchinoso il lavoro che dovrebbero svolgere con regolarità in un contesto già fragile. Ora, con la nomina di due vicedirettori - anche in caso di malattia della direttrice - ci saranno due dirigenti titolati a farne le veci, due persone che sono già interne al penitenziario fiorentino, e che ne conosceranno direttamente le tante problematiche. Problemi che sono vari a partire dal sovraffollamento, dall’inutilizzabilità di alcune celle, dagli atti di autolesionismo - Sollicciano è il carcere italiano con il più alto numero di episodi di autolesionismo tra i reclusi - e soprattutto dal già citato degrado della struttura, fredda d’inverno e calda d’estate, con numerose infiltrazioni che rendono durissime le condizioni di vita dei carcerati e quelle di lavoro per gli agenti penitenziari. Per quanto riguarda il ritorno della direttrice titolare, Antonella Tuoni, è ancora presto per capire se riuscirà a tornare subito dopo le vacanze natalizie, resta più probabile il suo rientro entro la fine del mese di gennaio. Bolzano. Ancora nessun Garante dei detenuti di Elena Mancini salto.bz, 3 gennaio 2025 La Provincia ha istituito la figura a luglio ma ad oggi non c’è la nomina. L’ong “Nessuno tocchi Caino” in visita al carcere per testimoniare le condizioni della struttura - tra sovraffollamento e mancanza di organico. Il 2024 è stato un anno orribile per le carceri italiane, e quello di Bolzano non fa eccezione. A testimoniarlo il 31 dicembre sono stati dirigenti e militanti della ong Nessuno tocchi Caino, che hanno visitato la casa circondariale di Bolzano nel loro “viaggio della speranza” all’interno di istituti penitenziari italiani. “L’anno 2024, per noi, si conclude così come è iniziato, e il nuovo anno, il 2025, inizia così come il vecchio si è concluso: impegnati nell’opera laica di misericordia corporale del Visitare i carcerati - hanno dichiarato la presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia e la tesoriera Elisabetta Zamparutti - Occorre continuare a osservare, a conoscere, a far sapere la realtà di un luogo, perché in quel microcosmo si riflette, si vive il bene e il male del mondo intero, si misura il grado del nostro essere civili, umani, giusti.” Ad accompagnarli la ex garante dei detenuti Elena Dondio, nominata dal sindaco Renzo Caramaschi e da lui stesso rimossa nel 2023 e, ad oggi, mai sostituita. La figura del Garante dei detenuti rappresenta un’autorità indipendente, istituita per tutelare e vigilare sui diritti delle persone private della libertà. Agendo come un ponte tra i detenuti e le istituzioni, offre loro una voce per segnalare difficoltà e problematiche legate alle strutture di detenzione, potendo visitare la struttura senza autorizzazione. A livello nazionale, questa figura è stata introdotta nel 2016, mentre in Trentino opera dal 2017. In Alto Adige, invece, la figura del garante è stata istituita solo nel luglio 2024 grazie ad un’integrazione della legge sul difensore civico, ma, a inizio 2025, non è ancora stata effettuata alcuna nomina. Il garante, istituito con una modifica alla legge provinciale tramite l’articolo 1-bis, è incaricato di vigilare sulle condizioni di restrizione della libertà in contesti come carceri, celle di polizia, strutture psichiatriche (Rems) e centri di permanenza per il rimpatrio (CPR); fattore di non poco rilievo viste le promesse ribadite dal Ministro degli interni Matteo Piantedosi in visita a Bolzano, di costruire un Cpr in Alto Adige entro il 2025. Il compito di questa figura è di garantire il rispetto dei diritti delle persone ristrette, in linea con i principi costituzionali e l’ordinamento penitenziario. Per raggiungere questo obiettivo, la legge provinciale stabilisce la possibilità per questa figura di promuovere interventi, segnalazioni e protocolli d’intesa tra la Provincia autonoma di Bolzano e le amministrazioni statali competenti, assicurando che i diritti vengano concretamente rispettati. Ogni anno, entro i primi cinque mesi, il Garante deve presentare una relazione al Consiglio provinciale, illustrando le attività svolte e le condizioni di vita dei reclusi, e pubblicarla sul proprio sito. Secondo la legge la nomina del Garante richiede almeno cinque anni di comprovata esperienza in ambiti come il diritto, le scienze sociali, i diritti umani o il sistema penitenziario, oltre a requisiti essenziali quali indipendenza, competenza, riservatezza e obiettività; ad oggi nessuna nomina è stata formulata. I problemi del carcere di Bolzano non sono finiti qui. Al momento i detenuti nella struttura penitenziaria sono 121, più di trenta sopra la capienza massima che è fissata a 88. Non solo, il carcere è anche sotto organico: su 77 agenti di polizia penitenziaria previsti ne risultato operativi 61. Dal 2013 si parla della costruzione del nuovo carcere per sostituire il fatiscente edificio di inizio ‘900 in via Dante, ma ad oggi non c’è ancora nessun accordo con il Ministero della Giustizia. Nel frattempo, proseguono i lavori di ristrutturazione del tetto e delle docce per cui sono stati stanziati un milione e 100 mila euro. Roma. Intervista al cappellano del carcere di Rebibbia di Gianluca Perricone L’Opinione, 3 gennaio 2025 Veronese, 71 anni, padre Lucio Boldrin è attualmente il cappellano del carcere romano di Rebibbia. È qui che, il giorno di Natale, Papa Francesco ha aperto la seconda Porta santa dopo quella di San Pietro. Padre Boldrin quanto è stato importante il gesto di Papa Francesco? È difficile esprimere la grandezza di questo gesto, unico nella storia per un’apertura della Porta santa. La prima venne aperta da Papa Martino V nella basilica romana di San Giovanni in Laterano nel 1425, seguendo un desiderio che era nel popolo per una riconciliazione con Dio e seguendo un passo del Vangelo di Giovanni dove Cristo si presenta come la Porta da attraversare per ottenere la salvezza: “Io sono la porta. Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo”. Quindi il primo segno è stato che la misericordia e il perdono da parte di tutti è per tutti. Nessuno escluso. Neppure per i detenuti segnati dai reati più gravi, che se chiederanno perdono e si convertiranno. È stato come dire a tutti i detenuti del mondo: ricordatevi che se per gli uomini siete gli ultimi, non lo siete nel cuore di Dio e per la Chiesa. Mi auguro che ciò venga compreso anche in quegli Stati dove vige ancora la pena di morte, la tortura, la mancanza del rispetto umano e dei diritti umani. Cosa ha significato quell’apertura per chi è rinchiuso a Rebibbia? Il significato è enorme: significa aprire alla speranza le menti e tanti cuori dei detenuti che vivono nel buio della tristezza e dove la speranza di avere un domani si è spenta sotto il peso di una condanna lunghissima, a chi vive nel buio del reato commesso e non sa perdonarsi, nelle persone innocenti che sono in carcere e i tanti che si trovano dentro ancora in attesa di giudizio o di una condanna definitiva. Al di là del fatto che uno, secondo la Costituzione, non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Quindi con la presunzione di innocenza ciò che prevede, in base alla gravità del reato, un’alternativa al carcere che potrebbero essere anche gli arresti domiciliari fino alla sentenza definitiva. Papa Francesco nell’aprire la porta si è voluto alzare in piedi per entrare. Lasciando la carrozzina per pochissimi passi, che non ha fatto neppure a San Pietro, dicendo a tutti: alzatevi! Non rimanete chiusi nel buio delle vostre vite e nel peso del passato. Rispetto per tutti, anche per le vittime. Basta odio, violenza e ingiustizie. Le condizioni del regime detentivo nazionale è da (troppi) anni al centro dell’attenzione politica ma senza poi grandi cambiamenti: celle invivibili e sovraffollate, molti istituti penitenziari ormai vecchi e sull’orlo del collasso. Il numero degli agenti penitenziari ben al di sotto delle necessità. Secondo lei, da dove bisogna partire per sistemare la quotidianità nelle carceri? I problemi sono giù indicati nella domanda. Oltre l’inadeguatezza di tante carceri obsolete e mancanti di quanto è richiesta per una detenzione rispettosa delle persone e sicure, la carenza cronica di agenti di polizia penitenziaria, il sovraffollamento, ricordiamo i numeri nelle carceri italiane: 89 suicidi, 1250 (salvati grazie all’intervento degli agenti) tentativi di suicidi, 10 suicidi tra la polizia penitenzia, 150 detenuti morti per malattia o mancanza di cure adeguate, 30 per cento di detenuti tossicodipendenti e circa un 25 per cento di malati psichiatrici, dove il carcere non serve nulla e queste persone dovrebbero essere ospitate in strutture adeguate. Il carcere li peggiora e usciranno peggio di come sono entrati. Senza dire dei clochard e della crescente presenza di stranieri e di tanti, troppi giovani. Sono dati che si riferiscono al 2024. Il cambiamento dovrebbe iniziare con l’applicazione della legge 103 del 2017 che prevede, in ogni caso, la sospensione dell’ordine di esecuzione per chi ha una condanna sotto i 4 anni. Nelle carceri italiane sono 10mila i detenuti che ne potrebbero beneficiare. Vi è anche la possibilità, per reati non gravi, sempre secondo la legge che non si vada in carcere sopra i 70 anni di età. Ma da quello che vedo, questo viene applicato solo per personaggi importanti, facoltosi o con degli ottimi avvocati. Ho visto portare in carcere persone anche sopra gli 80 anni e con una salute precaria. Per dirla con Papa Francesco: “Non perdete la speranza, qui solo pesci piccoli”. Le altre strade da percorre sono l’incentivare lo studio e la possibilità di lavoro e lo sport. Vincere l’ozio e lunga attesa nella quale molti detenuti vivono chiusi nelle loro celle, sdraiati nelle brande e avvolti solo da pensieri negativi e a fumarsi delle canne. Purtroppo un’altra piaga nelle carceri è la presenza dello spaccio, anche se con prezzi più elevati, rispetto all’esterno e crea danni sempre maggiori. Un ultimo elemento importante è incrementare, attraverso i colloqui o l’aumento di telefonate i rapporti affettivi con i propri familiari. Questi possono salvare una vita. Si parla, come spesso è accaduto nel passato, di concessione di amnistia e indulto. Che ne pensa? Con l’attuale Governo non penso che verranno concessi. Non so dare una risposta. Ritengo, come ho già detto, che basterebbe applicare le leggi già esistenti, anche se mi auguro che come segno di questo Anno santo venga concessa la liberazione a tutti quei detenuti che hanno una condanna o un residuo di pena sotto i 3 anni. Posso chiederle se nel corso della sua esperienza personale a Rebibbia c’è stato un momento o episodio del quale serba ancora un ricordo particolare? Gli episodi che serbo nel cuore sono molti. Dalle lacrime sincere di pentimento di chi si rende conto degli errori fatti o quando “i miei ragazzacci” (cosi preferisco chiamare i detenuti) più giovani mi chiamano per sbaglio “papà”, e compendo il perché, a dei ragazzacci accompagnati a casa come uomini liberi, che vengono riabbracciati dai loro familiari con le lacrime e dove rivedo i loro occhi riaccendersi con una luce nuova con la speranza di un nuovo domani e di essere stati lasciati soli. Como. L’appello di un ex detenuto: “Vorrei una chance, ma il reinserimento è molto difficile” di Martina Toppi La Provincia di Como, 3 gennaio 2025 L’uomo, 45 anni, ha partecipato a un progetto di inserimento lavorativo per detenuti ma una volta uscito dal carcere si è trovato di fronte un’amara verità: “Vorrei lavorare, ma non so a chi chiedere sostegno per iniziare”. Dopo sei mesi di formazione professionale in carcere, è pronto a mettersi in gioco anche fuori dal Bassone, ma varcata la soglia della casa circondariale, a dicembre, si è trovato senza prospettive future. “Ho partecipato a un progetto di formazione al Bassone durato sei mesi, (il progetto è stato promosso da Intesa San Paolo, su ispirazione di don Gino Rigoldi, storico cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore di Comunità Nuova, ndr) in collaborazione con l’azienda MekTech e la cooperativa Ozanam”, racconta l’ex detenuto, che è stato uno degli undici detenuti dell’istituto penitenziario comasco coinvolti nel percorso di formazione tecnica per cablatori elettricisti. “Ora sto cercando un lavoro per poter continuare quello che mi è stato insegnato durante i sei mesi di corso, ma fuori dal carcere non ho trovato molto sostegno”. Il 45enne, dopo aver scontato un anno e mezzo di pena detentiva, spiega di aver ottenuto dal magistrato che si occupa del suo caso il permesso di scontare il residuo di pena di sette mesi ai domiciliari. “Sarei potuto uscire prima dal carcere, ma ho preferito portare a termine il percorso di formazione perché avevo a cuore la promessa che ci è stata fatta a luglio di un migliore inserimento lavorativo una volta usciti, grazie a questo progetto” specifica, che ora si trova nella struttura di prima accoglienza per ex detenuti Casa amica Sant’Antonio, gestita a Como dai frati francescani, in attesa di capire come tornare a essere parte attiva e produttiva della società. Uscito dal carcere a inizio dicembre, tuttavia, l’uomo di 45 anni si è trovato subito in difficoltà: la promessa di prosecuzione di uno stage, promosso da Energheia impresa sociale e ospitato dalla cooperativa Ozanam fino a maggio 2025, è sfumata nel momento in cui l’uomo ha lasciato il carcere. “Quando sono uscito dal Bassone il contratto è diventato carta straccia, perché valeva solo se fossi rimasto in carcere a scontare la pena - spiega - Ma ero fiducioso che sarei riuscito a proseguire il mio inserimento nel lavoro anche fuori, quindi sono uscito”. L’uomo racconta di essersi rivolto sia alla cooperativa Ozanam che all’azienda MekTech per capire come mettersi in gioco e intraprendere un percorso lavorativo seguendo il tracciato della formazione iniziata al Bassone. “Ma l’azienda mi ha detto che se ne riparlerà intorno al 20 gennaio, perché devono capire se ci sono fondi a sufficienza per assumere dipendenti ex detenuti, come me, mentre la cooperativa, che si sta impegnando per costruire un laboratorio interno destinato agli ex detenuti, mi ha riferito che i tempi saranno lunghi”. Così spiega di essersi trovato con le mani in mano. “È una situazione complessa: noi detenuti mettiamo in gioco il nostro futuro e la possibilità di ricostruirci una vita in queste occasioni - conclude - Sono grato di aver avuto la possibilità di formazione in carcere, ora però chiedo di poter proseguire anche fuori un progetto in cui ho creduto fin dall’inizio. Sto cercando in tutti i modi di trovare aziende disponibili ad assumere ex detenuti: oltre alla formazione interna al carcere, ho anche fatto altre esperienze nel settore, in precedenza, e mi sono formato in ambito meccanico nella scuola dei Salesiani”. Il suo sogno, poi, è quello di poter coinvolgere in questo nuovo inizio anche gli altri detenuti che hanno partecipato al corso di formazione realizzando un laboratorio che permetta a tutti loro, una volta usciti dal carcere, di continuare a praticare il lavoro imparato lì dentro. “Ci credo ancora, chiedo solo aiuto per ricominciare a lavorare”. Giustizia trasformativa e femminismo anticarcerario di Federica Pennelli Il Domani, 3 gennaio 2025 Intervista a Giusi Palomba. Un modo nuovo di affrontare la violenza di genere. Per la scrittrice, traduttrice e facilitatrice, “la prevenzione è sempre il punto da cui partire”. Occorre “lavorare sull’educazione, a partire dalla pedagogia del consenso alla gestione dei conflitti” e attivare un percorso che affermi che la violenza maschile sulle donne riguarda tutti e non soltanto chi l’ha inferta o chi l’ha subita. Affrontare la violenza maschile contro le donne e di genere attraverso la denuncia e le aule di tribunale non è l’unica opzione per intraprendere un percorso riparativo per chi ha subito violenza. Partendo dall’assunto che il sistema penale non protegge tutte le persone nello stesso modo, e da una posizione abolizionista nei confronti del carcere, la scrittrice femminista e attivista dei movimenti Black statunitensi e della diaspora, adrienne maree brown (la scelta di soggettivarsi in minuscolo toglie l’enfasi all’io) ha provato, nel testo “Per una giustizia trasformativa, una critica alla Cancel Culture” (Meltemi editori, 2024), a delineare un prontuario di domande per avviare una critica sulle pratiche del call out, il richiamo pubblico davanti a comportamenti problematici e violenza di genere. La discussione sui temi della giustizia riparativa in una prospettiva anticarceraria, già aperta dai movimenti femministi anche in Italia, è continuata grazie al lavoro di Giusi Palomba: scrittrice, traduttrice e facilitatrice che da anni si occupa di organizzazione comunitaria. All’interno del libro “La trama alternativa” (Minimum Fax, 2023), Palomba affronta il tema della giustizia trasformativa: un approccio collettivo per la gestione, riparazione e trasformazione dei danni prodotti da episodi e dinamiche di violenza di genere, come spiega a Domani. La necessità di un agire nei confronti della violenza che non si limiti alla tutela delle forze dell’ordine risponde ai molti casi in cui polizia e istituzioni non sono state ritenute in grado di proteggere le donne dalle violenze subite. Una dimostrazione di questo è quanto accaduto il 19 novembre 2023 in Italia. A pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, la polizia di stato ha pubblicato un post su Instagram con un estratto della poesia “Se domani non torno” dell’architetta e attivista femminista peruviana Cristina Torres-Cáceres. In risposta, numerose donne hanno deciso di testimoniare e denunciare pubblicamente come non fossero state credute proprio dalla polizia, a seguito delle loro denunce per stalking e violenze. Questo tipo di denunce, da parte di chi ha vissuto episodi di violenza, non avviene solo sui social. Sono molte le testimonianze, raccontate alle operatrici dei centri antiviolenza e all’interno delle reti femministe, che mostrano come in Italia troppo spesso la violenza in ogni sua forma non venga presa in carico con rapidità dalle istituzioni, lasciando in solitudine chi ha chiesto aiuto. Un cortocircuito che continua a suscitare rabbia e dibattito sulle diverse pratiche di contrasto della violenza di genere. Come si coniugano le pratiche della giustizia trasformativa e del femminismo anticarcerario? Per dirla in breve, il femminismo anticarcerario prova a tenere insieme la lotta per la liberazione femminista e l’abolizione della polizia e delle prigioni. L’approccio parte principalmente dagli Stati Uniti, dove la critica all’incarcerazione di massa, alla brutalità o alle origini stesse della polizia hanno conquistato un enorme spazio nel dibattito pubblico degli ultimi anni, principalmente grazie ai movimenti Neri. Nella società odierna, l’unica risposta alla violenza di genere è basata sulla punizione. L’abolizionismo mette in crisi questa logica e propone percorsi alternativi, ad esempio quelli della giustizia trasformativa. Tutto ciò che cerca di ridurre il contatto con le solite strutture punitive, soprattutto carcere e polizia, si può definire giustizia trasformativa. Tutte le soluzioni che non prevedono marginalizzazione, reclusione o esclusione di un soggetto che inferto un danno, ma che piuttosto mettono in discussione l’intera cultura che permette la violenza e non soltanto il gesto del singolo. Anche se i percorsi a violenza avvenuta sono quelli che guadagnano più attenzione, la trasformazione parte da tutte le azioni, iniziative, pensieri e interventi sulle pratiche e sulla cultura che puntano alla prevenzione della violenza. Nel suo libro racconta come si possa attuare, nei movimenti, la giustizia trasformativa. In che contesto è nata questa scelta? Siamo nella Barcellona degli anni Dieci. Io vivo lì da qualche anno e un giorno il mio migliore amico viene accusato di violenza sessuale da una donna. Invece di procedere con una denuncia, la donna decide di attivare un percorso di responsabilizzazione all’interno della sua comunità di riferimento. Partono dei gruppi di lavoro, uno supporterà la donna e un altro l’uomo, e una serie di ponti e collegamenti con i circoli intimi a cui le due persone erano legate. Lo scopo del percorso è affermare che la violenza di genere riguarda tutti e non è soltanto chi l’ha inferta o chi l’ha subita. La prima parte del libro è la storia di questo percorso. Dico una storia e non un esempio per un motivo preciso. Sia nell’attivismo che nella facilitazione di gruppi (un lavoro iniziato dopo aver fatto parte di questo percorso collettivo) credo sia più importante parlare di possibilità e spazi di immaginazione, di dialogo e anche di conflitto piuttosto che di prescrizioni, modelli o linee da seguire. Crede che la pratica della giustizia trasformativa possa essere replicabile anche al di fuori delle realtà di movimento? E se sì, in che modo? Restituire il senso e lo spazio dell’alternativa penso sia stata la tensione principale che ha mosso la mia scrittura; dunque, più che occuparmi di questa replicabilità, mi interessa aprire una critica su cosa significhi giustizia per la nostra società, dato che l’abbiamo completamente dissolta nella punizione. Questo è possibile a vari livelli ed è una responsabilità che dovremmo condividere tutt*, non soltanto chi si trova già in prima linea contro le ormai innumerevoli forme di repressione e criminalizzazione che questo governo sta mettendo in essere. Gli spazi del dissenso si stanno restringendo in modo drammatico e penso sia estremamente necessario tornare a sognare mondi nuovi. Dalle esperienze raccolte, in nessun caso la polizia e le istituzioni hanno davvero fatto qualcosa per proteggere le donne dalle violenze subite. In Italia abbiamo letto le testimonianze di tantissime donne che, sotto al post su Instagram della Polizia che citava le parole di Cristina Torre Cáceres, manifestavano rabbia per non essere state credute proprio da quell’istituzione. Crede che questi episodi abbiano un fil rouge? “Me cuidan mis amigas, no la policía” (Mi proteggono le mie amiche, non la polizia) è uno slogan efficace per raccontare l’esperienza di molte persone: sappiamo tutte che è più sicuro rimanere in contatto con un’amica al ritorno a casa che affidarsi alle forze dell’ordine. Nonostante questo, le idee anticarcerarie non significano nulla senza il lavoro quotidiano per garantire la sicurezza di chi subisce violenza. Ciò significa anche non sminuire l’esperienza di chi ha ricercato protezione nel sistema penale, a prescindere se la abbia ricevuta o meno. La giustizia trasformativa prova a porsi un’altra domanda: quanto è precaria la sicurezza garantita da un arresto o da una reclusione? Di cosa è fatta invece la sicurezza di cui avremmo bisogno? Una domanda che rivolgo spesso durante i laboratori, poiché in questa necessità difensiva non abbiamo mai l’occasione di farcela. Quali possono essere le pratiche altre da mettere in campo per poter affrontare la violenza maschile contro le donne a partire dalla giustizia trasformativa e dal femminismo anticarcerario? Lavorare sull’educazione, a partire dalla pedagogia del consenso alla gestione dei conflitti, dai gruppi di autocoscienza per uomini cis (una persona la cui identità di genere coincide con il genere assegnato alla nascita) alla educazione sessuo-affettiva, dal lavoro per decostruire stereotipi nell’infanzia alla costruzione di reti di solidarietà e mutuo aiuto nei quartieri. La prevenzione è sempre il punto da cui partire. L’importante è mettere al centro i bisogni delle comunità e i soggetti più colpiti dalla violenza. Molte pratiche o idee di intervento che mettono in crisi il sistema punitivo spesso già esistono, ma sono o diventano insostenibili per mancanza di risorse materiali, emotive, spirituali, di spazio e di tempo, o perché non vengono riconosciuti i saperi in campo o l’importanza della questione. Ora la Consulta regge le sorti della democrazia di Franco Corleone L’Espresso, 3 gennaio 2025 Se la Corte bocciasse il referendum sulla cittadinanza, darebbe il colpo fatale alla partecipazione popolare. La Cassazione ha dato il via libera al referendum sulla cittadinanza e ha definito, consultando il comitato promotore, il quesito che sarà sottoposto al giudizio popolare: “Cittadinanza italiana. Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta della cittadinanza italiana”. Ora la parola passa alla Corte costituzionale per il giudizio di ammissibilità. Il presidente facente funzione Giovanni Amoroso ha fissato la camera di consiglio per il 13 gennaio e l’udienza pubblica è prevista per il 20: in quell’occasione il comitato promotore sarà rappresentato dal professor Enrico Grosso dell’Università di Torino. La decisione rappresenterà davvero una prova di democrazia e di responsabilità, tenendo conto che la Corte deciderà probabilmente con undici componenti; il Parlamento, per calcoli di potere, non ha ancora eletto quattro giudici, mettendo a rischio lo stesso funzionamento di un organo istituzionale responsabile di atti delicati. I poteri della Consulta, in tema di ammissibilità dei quesiti referendari, si sono enormemente dilatati nella pratica rispetto alla lettera dell’articolo 75 della Costituzione. Molti autorevoli giuristi hanno sottolineato il peso di una giurisprudenza accumulata nel tempo che si configura come percorso a ostacoli dall’esito incerto per i quesiti referendari; mettendo a rischio anche quei referendum che presentano un quesito semplice e limpido. È questo il caso di quello sulla cittadinanza: l’abrogazione di due norme della legge 91/1992 produce l’effetto di estendere a tutti gli stranieri maggiorenni di Stati non appartenenti all’Ue la possibilità di richiedere la concessione della cittadinanza dopo cinque anni di residenza legale e senza avere commesso infrazioni penali; tale possibilità già esiste, ma solo per alcune categorie di persone. Il quesito appare omogeneo, la norma risultante dall’abrogazione è immediatamente applicabile, dunque non varrebbe l’eventuale obiezione di quesito “manipolatorio”. Infine, non mette in discussione le scelte di fondo del legislatore del 1992, ma si limita a fissare condizioni di uguaglianza fra gli immigrati attraverso un periodo minimo di residenza uguale a quello adottato da molti Stati europei. Peraltro, il referendum ripristinerebbe il termine dei cinque anni vigente nella legislazione italiana dal 1912 al 1992. Purtroppo, resteranno confermati i lunghi tempi dell’esame della domanda di cittadinanza da parte del ministero dell’Interno (due/tre anni per la conclusione del procedimento amministrativo). Il quesito risponde ai criteri definiti dalla Consulta, dunque non dovrebbe esserci preoccupazione per la decisione. Nel merito, l’esito positivo del voto popolare sarebbe di grande rilievo perché, oltre a segnare un cambio di cultura, consentirebbe l’estensione dei diritti politici a un numero consistente di persone, che sarebbero in grado di trasmettere la cittadinanza ai minori conviventi. Eppure, proprio il peso del referendum potrebbe intimorire, indurre ad appigliarsi a inconsistenti vizi formali per allontanare una prospettiva politicamente “scomoda”. Se ciò accadesse, sarebbe un colpo alla democrazia già in crisi e una conferma alla sfiducia dei cittadini sia verso la democrazia rappresentativa limitata da leggi elettorali truffaldine sia verso il referendum, l’unico strumento che può dare spazio alla sovranità popolare. Il referendum è stato sottoscritto da 637.487 persone, perlopiù giovani e donne. La loro partecipazione entusiasta non va frustrata. Il senso dello Stato che manca al Paese di Serena Sileoni La Stampa, 3 gennaio 2025 In un bell’articolo di fine anno su questo giornale, Elsa Fornero ha proposto come obiettivo irrinunciabile per il 2025 quello di ricostruire un po’ più di “senso dello Stato” inteso come consapevolezza di un interesse collettivo superiore e convergente con gli interessi personali. Quel senso dello Stato diffuso negli anni del boom economico che sono oggetto di un recente libro di Nicola Rossi, “Un miracolo non fa il santo”, da cui muove l’articolo di Fornero. In effetti, il “miracolo” fu dovuto a una serie di condizioni finanziarie e giuridiche ma anche a una forza morale propria di chi aveva visto e vissuto l’abisso e da esso voleva riemergere. Secondo la professoressa, è il fatto che esso venne meno ad aver impedito il protrarsi di quella felice stagione di crescita e sviluppo. La ridotta finestra temporale di quel periodo in cui senso dello Stato, per dirla con Fornero, e crescita economica andarono di pari passo dovrebbe condurre a una domanda di fondo, che poi è la stessa che ha spinto Nicola Rossi alla sua recente pubblicazione e alla raccolta degli importanti dati che la corredano. La questione è se non occorra cambiare prospettiva e chiederci non tanto perché dagli anni Sessanta in poi è cominciato un lungo declino economico e con esso politico, quanto piuttosto perché siamo riusciti a crescere così tanto e bene nei quindici anni successivi alla seconda guerra mondiale. Insomma, dovremmo cominciare a domandarci non perché la capacità di migliorare le condizioni individuali e collettive si è fermata all’inizio dell’epoca repubblicana, ma quali sono le condizioni grazie alle quali, per un tempo molto circoscritto, essa è avvenuta. Ribaltare in questo modo la prospettiva ci aiuterebbe a cogliere meglio l’eccezionalità di quegli anni e la normalità di un contesto culturale - come scrive Rossi - avverso al rischio, all’iniziativa privata, alla concorrenza e, in maniera complementare, incline a un rapporto paternalistico e clientelare tra amministrazione, politica e impresa. La presenza di una burocrazia ingombrante e di una spesa pubblica che tradiscono profonde intenzioni assistenzialistiche e paternalistiche, l’incapacità di cavalcare, se non anticipare, i cambiamenti, la mancata fiducia nel mercato, la scomparsa di un partito liberale che fosse autenticamente erede degli insegnamenti di Einaudi possono essere non la causa, ma la conseguenza di un generale modo di essere e di rapportarci alle istituzioni politiche e economiche. D’altro canto, sarebbe ingeneroso pensare che prima e dopo il quindicennio postbellico non vi siano stati uomini delle istituzioni, da Sella a Minghetti a Giolitti, da Pertini a Moro, a cui mancasse il senso dello Stato. Ma la generale considerazione dei cittadini come incapaci di provvedere da sé e in maniera matura e responsabile ai propri bisogni - riflesso del modo stesso in cui essi si vedono e si comportano - fece del senso dello Stato una sorta di esercizio di potestà genitoriale. Rovesciare la narrazione sul declino successivo agli anni del boom consentirebbe di guardarci meglio allo specchio e capire dove siamo arrivati oggi, piuttosto che fermarci a guardare dove siamo riusciti ad essere ieri. Capiremmo ad esempio come sia potuto accadere col benestare di tutti i partiti e dell’opinione pubblica uno sfascio dei conti pubblici come quello del Superbonus, le cui spaventose proporzioni e conseguenze solo ora sono state ben documentate da un altro importante libro di Carlo Stagnaro e Luciano Capone (Superbonus: come fallisce una nazione, Rubbettino editore). Una simile presa d’atto darebbe probabilmente un significato ulteriore al senso dello Stato di cui parla la professoressa Fornero. Quello che manca alla nostra cultura, non da ora e non diversamente da altre, non è solo l’idea di far parte di una comunità il cui interesse generale è humus per lo sviluppo degli interessi individuali. Quello che ci manca in maniera specifica è il senso dello Stato inteso come consapevolezza di quello che esso può e deve fare, come capacità di dare un limite alla sua azione, di tratteggiare un adeguato confine di compiti e poteri tra privato e pubblico. Senso dello Stato, cioè, come coscienza del ruolo delle istituzioni e come dovere di buon andamento dell’amministrazione, nell’adempimento dei suoi più alti compiti e di quelli soltanto. Nella consapevolezza che diversi e non meno importanti compiti possano essere lasciati al dinamismo dell’iniziativa privata, proprio come avvenne negli anni del miracolo economico. In guardia da chi abusa del potere di Luigi Ciotti lavialibera.it, 3 gennaio 2025 Il tema è grave e valica i confini nazionali. L’equilibrio tra governo e magistratura saprà impedire alle democrazie populiste di trasformarsi in oligarchie autoritarie? Correva l’anno 1966. A Torino, insieme a un gruppo di amici, muovevo i primi passi nel mondo dell’impegno sociale e, sebbene non fossi particolarmente appassionato di musica, ricordo questo grande successo che passava su tutte le radio: Nessuno mi può giudicare. Lo cantava una giovane donna bionda dall’aria ribelle, e si può intuire quanto piacesse alle ragazze e ai ragazzi cosiddetti “sbandati” che incontravamo nelle periferie difficili della città. Oggi un’altra immagine si sovrappone a quei ricordi giovanili. C’è un’altra donna bionda che intona lo stesso ritornello, con ritmo incalzante ma senza l’ausilio della musica. E intorno a lei, al posto dei ragazzini, vedo adulti in giacca e cravatta che le fanno eco proprio su quella frase “nessuno mi può giudicare”. Scherzi dell’età… Chiedo scusa ai lettori de lavialibera, perché so bene che su queste cose non sarebbe il caso di scherzare! Qui non parliamo infatti di tormentoni radiofonici, ma della tenuta della nostra democrazia. Al posto di un dissapore fra fidanzati trasformato in canzonetta, c’è in gioco l’equilibrio fra i poteri dello Stato, chiave di volta dell’ordinamento costituzionale. Nessuno che eserciti uno di questi poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - può permettersi di dire agli altri che non vuole essere giudicato. Né in particolare può chiederlo alla magistratura, il cui compito è anche quello di verificare la conformità delle leggi con il dettato costituzionale e col diritto internazionale. Oggi, quando una norma viene messa in discussione nella sua legittimità, si cerca di farlo passare come un abuso da parte di giudici politicizzati, interessati a far valere la propria opinione “contro” la volontà popolare, di cui il governo si ritiene unico detentore. Invece si tratta precisamente di un atto nell’interesse di noi cittadini e cittadine! Il magistrato non vuole cambiare la legge a suo piacere, ma valutare se quel testo di diritto garantisce i diritti delle persone, o viceversa li mette in pericolo. L’attuale conflitto fra il governo italiano e i magistrati rispetto ad alcune norme sull’immigrazione è un esempio lampante di questo ruolo di garanzia. Da una parte c’è una visione politica che da anni cerca di imporsi, raccogliendo - inutile negarlo - ampi consensi nell’elettorato. Dall’altra, la necessità di tener fede ai principi di libertà e dignità umana a cui si ispirano la Costituzione italiana e l’Unione europea. I partiti che rappresentano la maggioranza in Italia e in molti altri paesi vedono nell’immigrazione una minaccia e nelle persone migranti dei nemici. Non riescono o non vogliono inquadrare il fenomeno in un’ottica storica, come qualcosa che ha sempre fatto parte delle società umane. Ancor meno sanno guardare oltre le cifre, i dati, i flussi, per riconoscere, dentro al “problema” i problemi o, per meglio dire, i drammi di quella dolente umanità in cammino. Centinaia di migliaia di storie simili eppure uniche e irripetibili, di persone in fuga da guerre, miseria, discriminazioni o disastri ambientali. Purtroppo molti elettori cadono in questa trappola ideologica, probabilmente spaventati anche dall’impoverimento crescente e dall’erosione dei diritti sociali. C’è tanta fatica a tirare avanti! Viviamo in una società che tende a emarginare i deboli, precarizzare il lavoro, lasciare i giovani senza fiducia nel futuro. Ma tutto questo non può indurci a scaricare la nostra frustrazione sulle persone di origine straniera, né a cedere alle letture semplicistiche, che trasformano la disumanità in legge. Quelle leggi, non potendo fermare le migrazioni, puntano a dirottarle altrove, spostandole dalla nostra vista, non importa se in modo inefficace e con grande sperpero di denaro pubblico. Come nel caso dei costosissimi “centri di accoglienza” in Albania! Altre leggi tendono a fare leva sugli egoismi e i localismi, come la controversa riforma sull’autonomia differenziata, che a sua volta è finita sotto la lente di controllo della magistratura. Da tempo certa parte della classe politica italiana, che pure invoca processi e pene severe contro le persone autrici di reato, tende a sottrarsi al giudizio sulle condotte private, invocando un’immunità legata al ruolo. Ma ancora più grave è pretendere un “via libera” incondizionato per le proprie decisioni pubbliche! Perché i decreti, le leggi, i regolamenti hanno un impatto forte e immediato sulla vita dei cittadini, a partire da quelli più fragili. Stiamo allora in guardia da chi cerca di “ribaltare la frittata”: non è la magistratura che abusa del proprio potere, ma un altro potere che, a scopo spesso propagandistico, si sente in diritto di compiere abusi sulla vita della povera gente. Sono partito da una canzonetta, eppure il tema come si vede è grave, complesso e oltrepassa i confini nazionali. Anzi, è probabilmente destinato, nei prossimi anni, a segnare uno spartiacque: l’equilibrio fra i poteri saprà essere l’argine che impedisce alle democrazie populiste di trasformarsi in oligarchie autoritarie o, come dicono alcuni, in “democrature”? Al posto del “casco d’oro” di quella cantante dei tempi andati c’è oggi la chioma platinata di un signore minaccioso, che al di là dell’oceano ripete il suo refrain: Nessuno mi può giudicare!. Mentre altri personaggi con più o meno capelli e senso delle istituzioni tengono in pugno i popoli, dall’Argentina, alla Russia, a tanti altri paesi semi-dittatoriali con cui pure l’Occidente stringe accordi per tenere lontani i migranti. In Italia e nel mondo, tocca anche a noi “far cambiare la musica”, dimostrando di sapere da che parte stare, e con quanta convinzione e impegno. L’avvocato degli ultimi: “Così abbiamo dato voce agli invisibili” di Vittoria Melchioni Corriere di Bologna, 3 gennaio 2025 La storia esemplare di Avvocato di strada, l’associazione che dà consulenza legale ai clochard, i figli, il ruolo della moglie, le prime esperienze, i progetti per il futuro. Così l’avvocato Antonio Mumolo ha provato a cambiare il mondo. “Non esistono cause perse”, questo è il motto di Antonio Mumolo, avvocato brindisino, ma bolognese di adozione, classe 1962, fondatore di “Avvocati di strada”, l’organizzazione di volontariato che mette a disposizione dei senzatetto assistenza legale gratuita. Inserito nella lista dei personaggi emiliano-romagnoli più influenti del 2024, ha da poco ottenuto una grande vittoria: l’approvazione da parte del Parlamento di una legge sull’assistenza sanitaria alle persone senza fissa dimora. Come mai tra le tante persone fragili ha scelto di dedicarsi proprio ai senza fissa dimora? “Agli inizi degli anni 90, con un gruppo di amici, decisi di fare volontariato in carcere. Con l’aiuto di un giornalista fondammo un giornale: “Le voci di dentro”. Fu un esperimento completo che diede molta soddisfazione a noi e ai carcerati. Alcuni dei detenuti/giornalisti uscirono dal carcere e si trovarono letteralmente in mezzo ad una strada, finendo nei dormitori. Così, nel 1993, per loro abbiamo fondato Amici di Piazza Grande, la storica associazione che si occupa dei senzatetto. Portammo avanti il progetto giornalistico, fondando la prima testata in tutta Europa redatta e distribuita da persone senza fissa dimora intitolandola, appunto, “Piazza Grande”. Fu anche il primo progetto di auto-aiuto che supportasse queste persone ad “uscire” dalla strada, dalla precarietà, dalla povertà. Non tendevano più la mano per chiede re l’elemosina, mala tendevano per vendere il loro giornale. Riacquistando dignità attraverso il lavoro, il loro lavoro”. Come si è arrivati allo sportello di assistenza legale gratuita? “Una sera alla settimana noi volontari uscivamo per conoscere meglio la realtà dei senzatetto, chiacchierando con loro, fumando una sigaretta insieme. Sebbene io uscissi sempre in jeans e felpa, non in giacca e cravatta come mi vesto al lavoro, mi venivano sempre rivolte domande di argomento legale perché si era sparsa la voce che ero un avvocato. Capii che anche in strada c’era voglia di legalità, di giustizia e così è nata l’idea di mettere a loro disposizione la nostra professionalità”. Quante persone avete assistito negli anni? “Solamente nel 2023, le persone assistite sono state 2.691. Gli avvocati e i volontari impegnati quotidianamente in 60 città sono 1.334. Un valore del lavoro legale messo gratuitamente a disposizione pari a 1.8 milioni di euro. Perlopiù per casi sulla residenza anagrafica, oltre a questioni di diritto di famiglia, fogli di via, tutela di persone vittime di violenze e aggressioni, multe paradossali e diritto dell’immigrazione. Siamo presenti nelle principali città italiane, abbiamo oltre 44.000 pratiche aperte e siamo diventati lo studio legale più grande d’Italia”. Com’è la situazione in strada ora? “I senza fissa dimora aumentano sempre di più. I dati ci dicono che la povertà ormai è raddoppiata: la crisi immobiliare, il Covid, la guerra, il progressivo impoverimento del ceto medio, scarse politiche di contrasto alla povertà (a volte addirittura politiche di lotta ai poveri, non a fianco dei poveri) sono le ragioni. C’è la necessità di aprire nuovi sportelli, purtroppo”. Che distinzione c’è tra i vostri assistiti? “È tutto riportato nel nostro bilancio annuale. Attualmente è disponibile quello relativo al 2023 che registrava il 77,6% di uomini e il 22,4% di donne con quest’ultimo dato in calo consistente rispetto al 2022, quando erano il 27,6%. Tale rapporto, tuttavia, cambia notevolmente a seconda delle aree geografiche di provenienza. All’interno del gruppo dei provenienti dall’ Unione Europea le donne sono il 49,35%, mentre trai provenienti dal Sud America, le donne risultano essere addirittura in maggioranza rispetto agli uomini, raggiungendo il 57,4%. Nel totale il 20,9% è composto da italiani, il 74,5% da extracomunitari e il 4,6% da cittadini comunitari”. Come sono cambiati i clochard nel tempo? “Scordiamoci l’iconografia dell’hippy anni 70 che faceva del vagabondaggio una scelta di vita poetica e dormiva sotto le stelle. All’inizio della nostra attività erano per lo più persone con dipendenze: tossici, alcolisti, individui con malattie mentali. Adesso è tutto completamente cambiato: in maggioranza la gente di strada non ha problemi di salute, casomai vengono loro proprio a causa della vita di strada. Sono padri separati, sono cinquantenni senza lavoro che non riescono a ritrovare una collocazione professionale a causa delle normative vigenti, pensionati al minimo, imprenditori falliti, piccoli artigiani. Tutte categorie che possono essere aiutate ad uscire dalla strada e che se, magari, fossero state aiutate prima, non ci sarebbero neanche finite in strada”. Come sono percepiti i senza tetto dalla società? “Siamo ancora schiavi di una mentalità calvinista, di una filosofia di vita improntata al lavoro, al dovere per la quale se una persona diventa povera, cosa che può accadere a tutti, è per colpa sua e per ogni colpa è prevista una punizione. Quest’idea produce conseguenze: la prima è l’emarginazione, l’invisibilità. I poveri devono stare lontani. Poi ci sono le punizioni corporali di cui spesso, purtroppo voi giornalisti date notizia. A Bologna la via fittizia per dare la residenza ai clochard prima si chiamava via Senzatetto, ora è via Mariano Tuccella dal nome di un nostro utente, un ex operaio metalmeccanico che dormiva in via Ugo Bassi, ridotto in fin di vita da un gruppo di balordi che morì al termine di un ricovero in terapia intensiva. Mi sono battuto molto affinché la strada fittizia avesse il suo nome. Poi c’è l’invisibilità a livello amministrativo e giuridico ed è qui che entriamo in campo noi”. Un caso che le è rimasto nel cuore? “Quello di un nostro utente che si ritrovò in strada da un giorno all’altro e dopo tre giorni di digiuno rubò un pezzo di formaggio alla Pam di via Marconi. Fu preso in flagrante, ma riuscimmo a convincere il giudice che, sebbene il furto fosse un reato punibile, l’intenzione che aveva mosso il “ladro” era perdonabile”. Una vostra grande vittoria recente è stata l’approvazione della legge per l’assistenza sanitaria per i senzatetto... “Dopo un vero e proprio calvario durato quindici anni, finalmente anche le persone di strada avranno diritto ad un medico di base e alle cure senza dover andare in pronto soccorso”. Lei ha due figli: Giovanna e Carlo. Cosa ha trasmesso loro riguardo alla sua attività di volontariato? “Giovanna è avvocato penalista e anche lei svolge volontariato nella nostra associazione. Carlo è uno sportivo, laureato in scienze motorie su una tesi sui mondiali antirazzisti. Penso di aver lasciato qualcosa anche in loro. Ma la persona a cui devo di più è mia moglie Paola, senza di lei, che è un avvocato molto più capace di me, non so se ce l’avrei fatta” La prossima battaglia? “Il tema della residenza. Il fulcro di tutto”. Migranti. Dietro i numeri ci sono volti e storie di Paolo Lambruschi Avvenire, 3 gennaio 2025 La tomba liquida dei bambini. Questa è diventata da anni la rotta migratoria del Mediterraneo centrale, tornata drammaticamente d’attualità a cavallo tra la fine del 2024 e primi giorni del nuovo anno. Negli almeno due naufragi accertati tra Lampedusa e la Tunisia si contano almeno quattro bambini dispersi in mare, i sommersi. Mentre i numeri e i volti dei 33 salvati dalla nave della società civile Resq-People Saving People confermano che una persona su quattro circa è un minore non accompagnato. Secondo l’Unicef, tra i 1.700 morti e dispersi nel 2024 solo sulla rotta del Mediterraneo centrale spiccano centinaia di bambine, bambini e adolescenti perché una persona ogni cinque di tutte quelle che migrano attraverso il Mare nostrum sono minorenni in fuga, da soli o con la famiglia, da conflitti violenti e povertà. Le cifre, lo sappiamo da anni, sono utili ormai alle coscienze impegnate e agli addetti ai lavori. E sono certamente preziose per costruire una narrazione corretta che contrasti le strumentalizzazioni e i discorsi di odio che ricoprono le notizie drammatiche con una cappa di oblio. Ma per bucarla, quella cappa, ci vuole altro. Forse occorrerebbe una Spoon river mediterranea che raccontasse le storie dei naufragi davanti alle coste italiane. O, forse, la potenza delle immagini di altri film come “Io Capitano” che raccontassero i viaggi della speranza su altre rotte africane dei più vulnerabili. Intanto possiamo cominciare con un’operazione basica di umanità per contrastare l’ignoranza alimentata dalla propaganda multimediale con la retorica dell’invasione (smentita dalle cifre) e con immagini perennemente emergenziali e messaggi allarmistici, allontanando dalle coscienze i drammi autentici. Che sono quelle delle famiglie spezzate, delle madri che vedono annegare i propri bambini in mezzo al mare dopo il naufragio delle carrette su cui viaggiavano verso l’Italia. Dei bambini morti mentre stavano viaggiando per raggiungere genitori o parenti in un luogo sicuro dove poter crescere e realizzare un sogno come laurearsi, fare il medico o lo sportivo o il cantante. O quelli dei genitori che lasciano i figli per poterli poi chiamare in sicurezza e legalità con i ricongiungimenti e invece spariscono per sempre tra le onde, condannandoli all’immobilità magari in un campo profughi. Perché i morti in mare non li va a cercare quasi nessuno per identificarli e un bambino che non è legalmente riconosciuto orfano senza la firma dei due genitori non si sposta. Dell’orrore, degli stupri, delle violenze e delle torture cui vengono sottoposti i migranti di ogni età e sesso dalle gang di trafficanti per estorcere riscatti alle famiglie abbiamo sempre scritto. Possiamo solo aggiungere che spesso anche i minorenni in viaggio da soli vengono costretti a lavorare in schiavitù dai sequestratori se le famiglie non possono pagare i riscatti. C’erano minori per inciso anche tra gli oltre 20mila che la cosiddetta guardia costiera libica ha riportato indietro nel 2024, sottoponendoli a nuove torture, detenzioni degradanti e inumane e schiavitù. Ultima cosa da fare per rispetto dell’umanità delle vittime in mare, non chiediamo più “chi glielo ha fatto fare” ai genitori. Perché dimostriamo solo di non aver mai provato un tale grado di disperazione, quella che ti porta a fuggire mettendo a rischio la vita tua e quella dei tuoi figli, e facciamo apparire la nostra miseria umana. Le alternative per prevenire le morti in mare almeno di mamme e bambini ci sarebbero. Secondo l’Unicef si potrebbe utilizzare il Patto Ue sulla migrazione e l’asilo per dare priorità alla salvaguardia di bambine e bambini con l’apertura di percorsi sicuri e legali per la protezione e il ricongiungimento familiare, nonché operazioni coordinate di ricerca e salvataggio e sbarchi sicuri. E poi intensificare i corridoi umanitari e lavorativi su scala europea per famiglie e le evacuazioni umanitarie di vulnerabili. Dietro i numeri ci sono sempre volti e storie che non si possono cancellare. C’è un Giubileo di speranza anche per il Mediterraneo centrale, e ci dice che è arrivato il tempo di dire basta a tutto questo carico di morte in mare. Migranti. Cassazione e Albania: le verità che la destra finge di non vedere di Vitalba Azzollini* Il Domani, 3 gennaio 2025 Secondo la maggioranza di governo, i giudici avrebbero dato ragione al governo sui paesi sicuri. Le decisioni della Corte dicono altro, riconoscendo ciò che l’esecutivo ha sempre negato, cioè che i giudici possano sindacare la legittimità dell’inserimento di un paese nella lista di quelli sicuri. Dopo che la Cassazione, il 19 dicembre scorso, pronunciandosi sulla questione pregiudiziale sollevata dal tribunale di Roma, aveva affermato che spetta al governo redigere la lista dei paesi sicuri, esponenti della maggioranza avevano esultato, sostenendo che la Corte avesse dato ragione al governo. E hanno proseguito il 30 dicembre scorso, dopo che l’ordinanza interlocutoria con cui la stessa Corte ha ribadito il medesimo principio, sospendendo il giudizio sui ricorsi presentati dal Viminale contro le prime mancate convalide del trattenimento di migranti in Albania, in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea su questioni pregiudiziali pendenti. Ma gli Ermellini hanno davvero dato ragione al governo? I giudici e i paesi sicuri - Secondo la Cassazione, è competenza dell’esecutivo stilare la lista dei paesi sicuri. Ma nessuno, e nessun tribunale, l’aveva mai messo in dubbio, anche perché tale competenza è prevista dalla direttiva Procedure (n. 2013/32). La Corte ha altresì detto che i giudici possono disapplicare il decreto contenente l’elenco dei paesi sicuri in relazione al caso sottoposto alla loro valutazione, e non “erga omnes”. E anche su questo non c’erano perplessità: i giudici decidono sempre e solo sul caso trattato. I politici di destra che vantano il successo in Cassazione omettono di riconoscere che quest’ultima ha smentito quanto essi sostengono sin dall’inizio, vale a dire che i tribunali dovrebbero attenersi alla lista dei paesi sicuri stilata dal governo, e basta. Invece, secondo quanto affermato dalla Corte il 19 dicembre, e ribadito il 30 dicembre, il giudice ordinario ha “il potere-dovere di esercitare il sindacato di legittimità” sul decreto sui paesi sicuri, “ove esso contrasti in modo manifesto con la normativa europea”. Se il giudice riconosce la generale non sicurezza del paese di provenienza del richiedente asilo, sulla base degli elementi e dei criteri previsti dalla disciplina Ue, disapplica il decreto per violazione di tale disciplina. Se, invece, reputa sussistenti specifiche circostanze individuali che rendono rischioso per il richiedente tornare nel proprio paese, il giudice non disapplica il decreto, ma la procedura di esame della richiesta di protezione non sarà più quella accelerata, prevista per chi arrivi da paesi sicuri, bensì quella standard. Dunque, la sentenza e l’ordinanza della Cassazione non mutano la situazione precedente, né modificano l’indirizzo espresso finora dai giudici sul trattenimento dei migranti in Albania. Il governo decide l’elenco dei paesi sicuri, i giudici sindacano la legittimità di tale decisione. Il principio della divisione dei poteri è rispettato. In attesa della Corte Ue - Ciò che potrebbe fare la differenza circa l’operazione albanese sarà la pronuncia della Corte di Giustizia Ue - l’udienza sarà il 25 febbraio, ma le motivazioni si conosceranno solo ad aprile - che chiarirà se un paese sicuro dev’essere tale non solo in ogni parte di territorio, ma anche per ogni categoria di persone. Questo dubbio resta, infatti, dopo la sentenza della stessa Corte Ue del 4 ottobre scorso, a seguito della quale il tribunale di Roma a ottobre non ha convalidato il fermo in Albania di 12 migranti, e a novembre ha sospeso la convalida per altri 9, provenienti da Paesi - Egitto e Bangladesh - dove i diritti di alcuni gruppi sociali sono a rischio. Secondo l’ordinanza del 30 dicembre, la sentenza della Corte Ue si riferisce esclusivamente “all’incompatibilità della previsione di paesi sicuri con eccezioni di parti del territorio”, e non anche di categorie di persone. Tuttavia, è la stessa Cassazione a non conformarsi a questo principio. Essa, infatti, riconosce che qualora le fonti qualificate previste dalla direttiva 2013/32 rendano evidente “la presenza di persecuzioni con carattere generalizzato, endemico e costante, il giudice potrà ritenere la designazione come sicuro del paese di origine illegittima perché in evidente contrasto con la normativa europea”. In caso contrario, risulterebbe “pregiudicato il valore fondamentale della dignità”, sul cui rispetto è fondata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, “alla quale, nel definire la nozione di paese di origine sicuro, si richiama più volte la direttiva 2013/32”. Dalle parti della maggioranza farebbero bene a leggere per intero le pronunce delle corti, evitando di estrapolare le affermazioni più gradite. Va anche detto che la Cassazione avrebbe potuto essere più cristallina, anziché dare l’impressione di non voler scontentare nessuna delle parti in causa. Ora la parola definitiva spetta alla Corte Ue. Sarebbe meglio che Meloni aspettasse la pronuncia di quest’ultima, prima di riprendere i trasferimenti in Albania. Si dubita che lo farà. *Giurista Iran. La forza dei diritti Luigi Manconi La Repubblica, 3 gennaio 2025 Sul caso di Cecilia Sala entra in gioco la sovranità italiana e la tutela dei cittadini. Per avere un’idea, la più autentica e concreta possibile, di cosa siano i diritti umani, la loro mancata applicazione e la loro sistematica violazione, si provi a pensare di trascorrere un giorno e una notte nella cella di quel carcere di Evin, in Iran, dove Cecilia Sala è reclusa dal 19 dicembre scorso. E si immagini di dormire, sempre che dormire sia possibile, sulla nuda terra; e di essere privati dei beni di prima necessità, come gli occhiali da vista. E ancora si immagini di precipitare in un incubo inquisitorio dominato dall’insensatezza. Nel linguaggio pubblico, e nei suoi abusi e nelle sue involuzioni, il termine kafkiano ha perso ormai ogni pregnanza, ridotto a sinonimo di qualcosa di irrazionale e di inspiegabile. Ma nell’opera del grande scrittore boemo l’indecifrabilità dei meccanismi del Processo - quale l’imputazione? Quali le prove? Quali le testimonianze? - rivela in controluce la micidiale razionalità dei dispositivi dell’ingiustizia. Nel caso di Cecilia Sala la teocrazia della Repubblica islamica dell’Iran non fornisce alcuna motivazione dell’arresto in quanto la sua natura totalitaria non prevede diritti umani fondamentali in capo all’individuo. E proprio perché l’individuo è sussunto in quel regime autoritario e non esiste alcuna autonomia che gli sia riconosciuta nel campo dei diritti, delle garanzie, delle libertà. Questo vale per decine di migliaia di donne e uomini iraniani, costretti in condizioni uguali, e assai spesso peggiori, di quelle della giornalista italiana; e si manifesta in modo limpidamente brutale nella questione dell’obbligo coatto del velo. Gli apparati statali che ne impongono l’uso esercitano il potere supremo: quello di manipolare il corpo del suddito e di interferire con i suoi movimenti, i suoi tratti, la sua immagine nella relazione con gli altri. Il regime rovescia il significato profondo dell’habeas corpus (abbi il tuo corpo), che dalla Petition of Rights del 1627 afferma il principio della inviolabilità della persona, esercitando il dominio religioso e maschile sul volto e sul corpo delle donne per arrivare attraverso questa procedura a disciplinare l’intera società: donne e uomini che trovano nella volontà di proteggere autonomia individuale e autodeterminazione il fondamento anche “corporale” (Paolo Volponi) di tutti i diritti. Risiede qui il cuore della “questione Sala”. Ed è per tale ragione che la testimonianza di questa giovane donna è così preziosa e la posta in gioco del conflitto politico-diplomatico in atto è tanto cruciale. Si dice: i diritti umani valgono per una sola parte, e minoritaria, del genere umano, costituendo l’ispirazione e la base etica e giuridica esclusivamente di quella stessa parte. È vero, ma la lotta pacifica e incruenta per la loro affermazione ed estensione è componente essenziale della tenuta e dello sviluppo dei sistemi democratici. Al punto che la crescita tendenzialmente universalistica di quegli stessi diritti è intimamente legata alla loro piena e incondizionata applicazione all’interno delle democrazie mature. In altri termini, quanto più i diritti umani di individui, gruppi e minoranze verranno rispettati nei sistemi liberaldemocratici, tanto più si potrà esigere la loro applicazione oltre i confini di quello che chiamiamo Occidente. Il ritardo con cui ciò avviene è uno dei motivi che in più di una circostanza hanno reso flebile la voce dell’Italia nei confronti dei regimi autocratici. La vicenda dell’assassinio di Giulio Regeni ne è una straziante conferma: come poteva il nostro paese pretendere verità e giustizia su un connazionale torturato a morte nel 2016 quando la legge italiana contro la tortura sarebbe entrata nell’ordinamento solo oltre un anno dopo? Più in generale, se è vero che l’iniziativa politico-diplomatica per la liberazione di Cecilia Sala deve avvalersi di quella “discrezione” invocata da alcuni esponenti del governo, è altrettanto vero che, nei confronti del regime iraniano, emergono, in nome della realpolitik, una reticenza e una prudenza che possono essere facilmente scambiate per opportunismo. A parte le sciocchezze della destra mediatica che si chiede “dove sono le femministe?”, quasi che, per converso, l’ambasciata iraniana a Roma fosse costantemente assediata dalle donne di Fratelli d’Italia e della Lega, il problema esiste. E sembra confermare una complessiva circospezione e una diffusa irresolutezza verso la teocrazia iraniana. Tanti gli episodi in proposito. Sette, otto anni fa mi interessai, insieme alla senatrice a vita Elena Cattaneo, della vicenda del ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali. Questi, esperto di medicina delle catastrofi e a lungo collaboratore dell’università del Piemonte orientale e di atenei belgi e svedesi, nel 2016, una volta rientrato in Iran, venne arrestato e incarcerato. Da allora non si è appreso più nulla di lui. Quando per sapere qualcosa della sua sorte interpellai i servizi segreti italiani ebbi una risposta sconcertante: la massima autorità di quel settore, guardandomi serenamente negli occhi, mi disse di non disporre di alcuna informativa, traccia documentale, nota scritta e “nemmeno un appunto” su Djalali. Ne dedussi che le relazioni tra gli apparati di sicurezza italiani e quelli iraniani fossero decisamente “cordiali”. Una simile “cordialità” è stata probabilmente assai utile al fine di risolvere in tempi non troppo lunghi la vicenda di Alessio Piperno, reclusa nella stessa prigione di Sala per 45 giorni nel 2022. Mi auguro che lo sia altrettanto per contribuire alla liberazione della giornalista italiana, ma al presente non sembrano ancora esserci le premesse indispensabili. La diplomazia, che qui ovviamente ha il primato, deve saper essere accorta, flessibile e sagace, ma non può rinunciare a una misura di rigore e di dignità. Si è detto per una settimana che le condizioni della reclusione di Sala fossero “buone”, per poi scoprire che non è affatto così. La convocazione da parte del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dell’ambasciatore iraniano a Roma è una prima e indispensabile mossa. Ma non può essere l’unica. Qualunque discorso sulla sovranità del nostro paese deve partire, per essere credibile, dalla tutela dell’incolumità dei suoi cittadini, in Italia come in Egitto e come in Iran. Iran. Così Nordio può ordinare la scarcerazione di Abedini e portare allo scambio di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 gennaio 2025 Si fa strada l’ipotesi di un intervento diretto del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul caso della prigionia di Cecilia Sala in Iran. Secondo le norme italiane, infatti, il Guardasigilli può ordinare in qualsiasi momento la revoca della misura cautelare di un detenuto in attesa di estradizione. Ci si riferisce ovviamente a Mohammad Abedini, il cittadino iraniano arrestato in Italia, tre giorni prima della cattura di Sala a Teheran, su richiesta degli Stati Uniti che ne chiedono l’estradizione. Ieri l’ambasciata d’iran a Roma ha confermato indirettamente che Sala è stata catturata per ritorsione per il fermo di Abedini, in un’ottica di scambio di prigionieri. Abedini, ingegnere di 38 anni, è accusato dagli Stati Uniti di aver fornito al regime iraniano componenti per i droni utilizzati per uccidere tre militari americani in Giordania all’inizio di quest’anno. Il procedimento di estradizione richiederà diverse settimane, ma di fronte alle ultime notizie sulle condizioni di detenzione di Sala il ministero della Giustizia sta valutando di intervenire subito. “La legge italiana non solo stabilisce che la decisione finale sull’estradizione spetta al ministro della Giustizia, dopo la pronuncia della Corte d’appello e quella eventuale della Corte di cassazione, ma attribuisce al Guardasigilli anche il potere di ordinare in qualsiasi momento la revoca della misura cautelare nei confronti dell’estradando”, spiega al Foglio l’avvocato Nicola Canestrini, esperto in cooperazione penale internazionale. “L’assenza fisica del soggetto porta all’archiviazione del procedimento di estradizione”, aggiunge Canestrini. In altre parole, nel procedimento di estradizione in Italia non esiste la separazione dei poteri: il ministro della Giustizia ha sempre l’ultima parola sull’estradizione e inoltre può ordinare all’autorità giudiziaria la scarcerazione del detenuto. Ovviamente prima di ordinare la revoca dell’arresto in carcere nei confronti di Abedini, sarebbe necessario per il ministro Nordio e il governo italiano condurre un’intensa attività diplomatica con Washington, che al momento appare intenzionata a non concedere nulla all’iran. Con una nota inviata nei giorni scorsi alla Corte d’appello di Milano, il Dipartimento di giustizia americano si è schierato contro la concessione degli arresti domiciliari ad Abedini, ribadendo che l’iraniano è “estremamente pericoloso” e il rischio che possa scappare è “molto elevato”. Ieri la procura generale di Milano ha formalizzato il suo parere negativo alla concessione dei domiciliari. L’ordine di scarcerazione da parte di Nordio non sarebbe senza precedenti. Nel 2015 l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dispose la scarcerazione di Erden Unal, medico turco (assistito proprio dall’avvocato Canestrini) residente in Austria in qualità di rifugiato politico, arrestato dalla polizia italiana a Venezia in esecuzione di un mandato di cattura internazionale richiesto dalla Turchia. La Corte d’appello di Venezia non poté fare altro che adeguarsi alla richiesta del ministro Orlando e rimettere in libertà Unal. Un altro caso simile è avvenuto nel marzo 2022. In quel caso fu l’allora Guardasigilli Marta Cartabia a ordinare la scarcerazione del regista ucraino Yeven Eugene Lavrenchuk, fondatore del Teatro Polacco a Mosca, di cui le autorità russe avevano chiesto l’estradizione all’italia. Era stato fermato a Napoli mentre si recava a Tel Aviv. La ministra Cartabia si rifiutò di consegnare Lavrenchuk alla Russia alla luce del rischio di persecuzione e discriminazione legate alle opinioni politiche e alle condizioni personali del regista ucraino. Anche nel caso di Abedini “il sospetto che egli subisca un processo non equo negli Stati Uniti è molto forte”, afferma Canestrini. “La giustizia penale americana non è affatto quell’eldorado che conosciamo dai film, in cui il bene trionfa sempre. Non sempre il diritto ad avere un giusto processo è rispettato, soprattutto quando di mezzo ci sono persone accusate di reati così gravi come il sostegno al terrorismo. Il nemico è spesso trattato da nemico, e non da imputato portatore di diritti. Per non parlare delle carceri in cui i detenuti spesso vivono in condizioni disumane e degradanti”. Nel caso in cui il ministro Nordio decidesse di ordinare la scarcerazione di Abedini, senza dar vita a una crisi diplomatica con gli Stati Uniti, bisognerebbe comunque tenere conto anche dello scenario che verrebbe a realizzarsi subito dopo: “La scarcerazione non provoca l’impossibilità di riarrestare il soggetto in Italia o altrove”, nota Canestrini. Di conseguenza, è facile immaginare che il regime iraniano chieda la garanzia che Abedini venga subito posto su un volo diretto Roma-Teheran. L’Italia ovviamente, con i suoi canali diplomatici, non potrebbe che chiedere altrettanto per riportare Cecilia Sala in Italia. Uno scambio di prigionieri estremamente delicato sul piano pratico, e simile a quello che avviene durante una guerra. Stati Uniti. La dignità di un prigioniero. Al Met di New York di Aldo Premoli huffingtonpost.it, 3 gennaio 2025 Si avvicina il giorno dell’insediamento ufficiale di Donald Trump alla Casa Bianca. Molte cose cambieranno. Altrettante no. È sempre stato così ovunque esista uno Stato democratico: annunci, minacce e promesse urlati durante campagne elettorali, ovunque ancora esista uno Stato democratico incontrano istituzioni che svolgono il ruolo di salvaguardia loro assegnato. Così accade che il Metropolitan Museum di New York tra le più importanti istituzioni culturali degli Stati Uniti dedichi una mostra al lavoro di un ex detenuto. Jesse Krimes bianco, povero, nato nel 1982, cresciuto senza padre è riuscito comunque a studiare arte alla Millersville University in Pennsylvania dove consegue il diploma nel 2008. Nel 2009 viene però incarcerato per possesso di cocaina: processato viene condannato a cinque anni di detenzione. Durante il primo anno trascorso in isolamento Krimes non abbandona la sua vocazione e realizza Purgatory che introduce appunto l’esposizione Jesse Krimes: Corrections ora in corso al Met. In carcere Krimes non possiede gli strumenti tradizionali per la realizzazione di un’opera d’arte e difatti Purgatory nasce dal riutilizzo di mazzi di carte da poker di piccola taglia con cui i detenuti giocano chiamando le mani dalle loro celle. Krimes forma allora piccoli blocchi incollando insieme 21 carte con il dentifricio fornito dal penitenziario. Utilizzando una tecnica di stampa manuale di sua invenzione, trasferisce le foto segnaletiche pubblicate da un giornale locale sui frammenti di sapone per l’igiene personale fornito dall’istituto carcerario. Inserisce quindi ogni ritratto nella “finestra” ritagliata un mazzo di carte alterato dove ha sconvolto sia i semi che le figure (re, regine e jack) che reimmagina in modi sorprendenti. Realizza così 292 piccole opere che spedisce per posta, due alla volta, a un amico. Arriverà ad includere anche ritratti di celebrità mettendo in discussione il modo in cui la società usa distorcere il ritratto fotografico per identificare la criminalità. Di fronte a Paradise la curatela del Met ha previsto l’esposizione di fotografie del diciannovesimo secolo legate alla pratica della polizia francese che sviluppa la prima tecnica moderna per identificare gli individui con precedenti. Un sistema biometrico che costituisce il primo apparato di controllo evolutosi nelle foto segnaletiche di oggi. Terminato l’isolamento durante la detenzione scontata in un penitenziario federale concepisce un’altra opera ora esposta al Met. Separato dal mondo, Krimes dipende dai giornali per comprendere cosa stia accadendo all’esterno. Se quel che accade nel mondo è mediato per tutti, per i detenuti è drasticamente filtrato e distorto. Così le scene rappresentate in Apokaluptein: 16389067 (il titolo è una combinazione tra il vocabolo apocalisse e il numero di identificazione assegnatogli in carcere) si intravedono qui fiocamente, come attraverso la luce che filtra in un nascondiglio. Utilizzando gel per capelli, Krimes trasferisce immagini di riviste su 39 lenzuola ricavandone un “arazzo” alto 4,6 metri e largo 12. L’opera è divisa orizzontalmente in sezioni che raffigurano l’inferno, la terra e il cielo azzurro del paradiso. Intravediamo annunci pubblicitari con signore vestite alla moda che popolano scene infernali costituite da disastri naturali e guerre. Ci sono poi piccole figure disegnate a posteriori a mano libera oltre a riproduzioni di dipinti famosi recuperate dagli annunci per le mostre museali sono incluse nel mix. Krimes nel suo lavoro schiera senza soluzione di continuità le strategie dell’arte concettuale e del pop. Attraverso la dimensione delle sue opere trasmette inoltre l’enormità del sistema penitenziario americano. Frontale e della medesima dimensione di Apokaluptein: 16389067 è disposta Naxos, la sua opera più recente. Per realizzarla Krimes ha chiesto ai detenuti di ogni parte del paese di raccogliere una “sassolino ideale” nel cortile della prigione e di inviarglielo. Ne ha quindi appesi circa 10.000 con fili inchiostrati per abbinarli alla sequenza di colori dell’arazzo fronteggiato. Nella mitologia greca, Naxos è l’isola in cui l’eroe Teseo abbandonò Arianna, che aveva tradito suo padre, il re Minosse, dando a Teseo un gomitolo di filo per trovare l’uscita dal labirinto in cui era stato imprigionato. Dopo il carcere nel 2014, Krimes è diventato un attivista per la riforma del sistema penale. Nel 2022, ha fondato un’organizzazione non-profit, il Center for Art & Advocacy per sostenere le attività artistiche degli ex detenuti. Questa complicità permea la sua arte. Krimes è convinto che l’arte possa offrire a chiunque un percorso per elevarsi al di sopra della degradazione della prigione. L’immenso sistema carcerario statunitense è giunto ad assorbire due milioni di persone all’anno con un aumento del 500 percento dal 1970. Ma si tratta di una dinamica di sofferenza in crescita ovunque. Sebbene la scala non sia comparabile nel nostro paese il sovraffollamento carcerario è una piaga aperta da tempo e questo 2024 ha segnato il record assoluto di suicidi tra i detenuti. Stati Uniti. San Francisco, finita l’era della tolleranza di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 3 gennaio 2025 La Breed ha capito troppo tardi che anche per i progressisti californiani c’è un limite alla tolleranza: esasperati dalla moltiplicazione delle tendopoli di homeless, dei furti, dalla vendita di droghe pesanti in veri mercati all’aperto, hanno scelto un non politico deciso a spazzare via mercati illegali e tendopoli. San Francisco, capitale dell’America progressista dove alle elezioni solitamente si sfidano candidati democratici di varie tendenze, data l’irrilevanza dei repubblicani, e dove fin qui ha regnato una mentalità permissiva, erede della controcultura hippy degli anni Sessanta, cambia rotta: tra quattro giorni London Breed, prima donna nera sindaco della metropoli della West Coast, lascerà l’incarico. Sostituita da Daniel Lurie che alle elezioni di novembre ha sconfitto la sindaca presentandosi come un outsider diversissimo dalla Breed, nata in povertà e crescita nelle case popolari: oltre che maschio, bianco ed ebreo, Lurie è anche ricchissimo. Erede della fortuna dei Levi Strauss, si è scelto come collaboratori grandi imprenditori tech come Sam Altman di OpenAI. Nonostante ciò, l’aristocratico bianco ha travolto l’afroamericana simbolo del melting pot delle etnie della Bay Area: battuta con uno scarto di 12 punti. La Breed ha capito troppo tardi che anche per i progressisti californiani c’è un limite alla tolleranza: esasperati dalla moltiplicazione delle tendopoli di homeless, dei furti, dalla vendita di droghe pesanti in veri mercati all’aperto, hanno scelto un non politico deciso a spazzare via mercati illegali e tendopoli. La sindaca in estate ha cominciato a smantellare gli accampamenti, ma non è bastato: attaccata da sinistra (“non si risolve così il problema dei senzatetto”) ma anche dalla grande maggioranza dei cittadini che vogliono molto di più: il 5 novembre la California super-progressista ha votato a valanga (oltre il 70%) un referendum (Proposition 36) che inasprisce le pene per i reati di droga anche dei senzatetto e per i piccoli furti. Capovolte le norme tolleranti di 10 anni fa che rendevano di fatto non punibili (salvo eccezioni) i furti fino a 950 dollari di valore e il possesso di droghe pesanti. Non è detto che funzioni: gli attivisti dei diritti civili temono il ritorno all’arresto di massa di giovani neri. Ma la gente, esasperata, ha votato per l’abbattimento delle tendopoli anche a Berkeley, la città universitaria più a sinistra d’America. Intanto qualche chilometro più in là, a Oakland, la città della Baia separata da San Francisco da un ponte, i cittadini hanno defenestrato dopo solo due anni il sindaco progressista e anche la procuratrice “permissiva” Pamela Price, sfiduciata dal 63% degli elettori.