La Costituzione violata: l’affettività in carcere è un diritto ma il Governo continua a negarla di Andrea Pugiotto L’Unità, 31 gennaio 2025 Un anno fa la sentenza numero 10 della Consulta sanciva che ai detenuti non può essere negata l’intimità. Ma ad oggi non è stata applicata in nessun penitenziario. Il “gruppo di studio” creato da Nordio è la foglia di fico che nasconde la volontà di disapplicare la delibrazione dei giudici. 1. Un anno fa, il 31 gennaio, veniva pubblicata in gazzetta ufficiale la sentenza costituzionale n. 10/2024. Una decisione scandalosa: non per il suo oggetto, il diritto all’intimità dietro le sbarre, semmai per il divieto di esercitarlo, quel diritto, in ragione del controllo a vista degli agenti di custodia durante i colloqui tra la persona detenuta e il partner. Sempre. Inderogabilmente. La sessualità estirpata dal corpo recluso è una sanzione priva di base legale. Eppure, rappresenta una pena accessoria regolarmente inflitta, senza eccezioni: presunti innocenti e rei condannati, detenuti e detenute, “quintali di [corpi] inutili, ammucchiati a irrancidire” (Maurizio Torchio, Cattivi, Einaudi 2015, 79). Alla reclusione si somma così una primitiva punizione corporale, causa di una “desertificazione affettiva”, d’ostacolo al finalismo rieducativo della pena, lesiva della dignità della persona, sproporzionatamente contraria al rispetto - imposto anche dalla Cedu - della vita privata e familiare. È per questi motivi che, dodici mesi fa, l’obbligo di quel perenne controllo visivo è stato rimosso dall’ordinamento penitenziario per decisione della Consulta. L’Italia si è allineata così alla larga maggioranza dei paesi europei che già prevede spazi per l’affettività in carcere. Il sesso in galera non è più una pretesa inaudita, un’imbarazzante esigenza, un desiderio da reprimere, addirittura un atto osceno da punire (art. 527 c.p., ora depenalizzato). Dopo la sent. n. 10/2024, è un diritto della persona detenuta. 2. Per quanto sia tutto vero, è tutto falso. Ad oggi, infatti, nessun detenuto in alcun istituto di pena lo ha mai potuto esercitare. La vita sessuale che, occasionalmente e clandestinamente, si consuma dietro le sbarre continua a replicare le modalità ruminanti del sesso immaginato e solitario. O le forme del rapporto omosessuale, spesso rassegnate, talvolta subite. Il giudicato costituzionale? Uno sbuffo di vapore. L’azione “combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, auspicata in sentenza per darvi attuazione? Non pervenuta. Lo sfregio al volto costituzionale della pena? Che sarà mai. Le legittime aspettative dei detenuti? Hanno già la tv in cella, s’accontentino. Va avanti così da un anno, nel disinteresse generale, in un immobile surplace delle autorità che dovrebbero agire altrimenti, ben sapendo che quando la Corte ne dichiara l’illegittimità costituzionale, la norma di legge “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136, 1° comma, Cost.). E invece? 3. Il Guardasigilli, il 28 marzo 2024, ha istituito un “Gruppo di studio” multidisciplinare, impegnato nella ricognizione di spazi per le visite intime in carcere e nell’elaborazione di una proposta complessiva tramite cui dare esecuzione alla sent. n. 10/2024. Un gruppo di studio è come il the delle cinque o l’ultima sigaretta del condannato a morte: non si nega a nessuno. È il minimo sindacale. Evoca la tattica di tergiversare davanti ai problemi più seri, guadagnando tempo: “Per ora rimando il suicidio/e faccio un gruppo di studio”, come ironizzava Giorgio Gaber (Far finta di essere sani). La sua pletorica composizione di venti membri include di tutto e di più, ma non esponenti del volontariato carcerario. Ignorando così il codice del Terzo settore che prevede la co-programmazione e la co-progettazione per attività di interesse generale, in “espressa attuazione” del principio di sussidiarietà orizzontale (sent. n. 131/2020). È un’assenza deliberata: la loro presenza, infatti, avrebbe agito da sprone per il lavoro di gruppo, monitorandone gli esiti. Dell’istruttoria fin qui svolta, poco si sa. Quel poco si apprende da una burocratica e interlocutoria risposta del Guardasigilli sollecitata da un’interrogazione parlamentare (n. 4-03685, on. Serracchiani). Risultanze concrete? Ad oggi, nessuna. Ma non importa, perché l’autentico scopo del gruppo ministeriale è un altro: quale? 4. È presto detto: deve semplicemente esistere, per fornire l’alibi necessario a bloccare sul nascere qualsiasi esperienza-pilota negli istituti di pena dove, già ora, sarebbe possibile ricavare spazi adeguati a colloqui riservati. Infatti, quando e dove se n’è ipotizzata una sperimentazione, lo stop ministeriale è stato immediato, negando le autorizzazioni necessarie, in attesa degli esiti del lavoro dell’equipe ministeriale. Ecco perché non è dato sapere qual è il tempo massimo a sua disposizione: più se ne prolunga l’esistenza, più resterà tutto come prima. Cioè com’è adesso. Eppure, quella della Consulta è una decisione “auto applicativa” (così il suo presidente Barbera), sia pure ad attuazione progressiva. Come un vademecum, contiene precise e vincolanti linee operative. Indica per nome e cognome i soggetti che - “nelle more dell’intervento del legislatore” - sono chiamati subito a implementarla: prima tra tutti “l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti” penitenziari. Il Guardasigilli teme un’attuazione a singhiozzo del giudicato costituzionale? Promuova allora una legge. Il Consiglio dei ministri deliberi un regolamento. Il capo del Dap emani una circolare. Su questi fronti, invece, lo zero è assoluto. 5. Ignorare un’incostituzionalità accertata equivale a perpetrarla. È un grave capo d’accusa che pesa anche sulle Camere. Da una decisione di accoglimento della Consulta, infatti, deriva per il legislatore un doppio divieto: non può conservare in vita la norma dichiarata incostituzionale, né può “perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione” (sent. n. 223/1983). La latitanza del Parlamento produce entrambe le conseguenze vietate. Si tratta, anche qui, di una scelta deliberata. Risale al 2002 il primo disegno di legge in materia di affettività in carcere (A.C. n. 3020, Boato e altri). Da allora, sono state insabbiate tutte le proposte legislative in tema, anche quando d’iniziativa regionale (Lazio e Toscana). Così come si è lasciata andare alla deriva la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (legge n. 103 del 2017), laddove prevedeva “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”. Nel frattempo, ciò che accadeva continua ad accadere. Come se dal monito dei giudici costituzionali, affinché il legislatore affronti con urgenza il problema dell’affettività in carcere (sent. n. 301/2012), non fossero trascorsi inutilmente tredici anni. Come se il giudicato costituzionale di un anno fa fosse un inutile svolazzo. Sterilizzarne le decisioni. Ignorarne i moniti. Ritardarne l’elezione dei giudici mancanti (ad oggi, ancora quattro). È così che il Parlamento si sottrae alla leale collaborazione con il Giudice delle leggi, trattato come un inciampo da scavalcare. Senza capire che l’ineffettività di un diritto costituzionalmente riconosciuto sottrae credibilità all’ordinamento e fiducia nelle sue garanzie. 6. Che fare, allora? Nuovi appelli accorati alle istituzioni mostrerebbero presto la propria insostenibile leggerezza. Meglio agire su un’altra leva, nella disponibilità di tutti i detenuti: provocare una valanga di reclami rivolta ai magistrati di sorveglianza, “cui spetta l’esercizio della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti” (come ricorda la sent. 10/2024). Tra questi, il diritto soggettivo all’intimità inframuraria (Cassazione, sez. I penale, 11 dicembre 2024-2 gennaio 2025, n. 8). I giudici di sorveglianza hanno il potere-dovere di ordinare all’amministrazione penitenziaria l’ottemperanza alla legittima pretesa del recluso: lo esercitino. Sarà il modo per introdurre la Costituzione dietro le sbarre, finalmente e non solo a parole. Che fine ha fatto l’esposto di Giachetti sui suicidi in carcere? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2025 Quello contro Meloni e i ministri risale al 23 gennaio, Nessuno Tocchi Caino e il deputato di IV lo hanno presentato 5 mesi fa: riguarda il guardasigilli Nordio e i sottosegretari Delmastro e Ostellari. “Era un atto dovuto”: così si è ripetuto, quasi come un mantra, per giustificare la decisione della Procura di Roma di iscrivere nel registro degli indagati la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano. Una scelta obbligata, secondo alcuni, dettata dalla necessità di trasmettere il caso al Collegio dei reati ministeriali, informando “immediatamente” gli interessati per permettere loro di presentare memorie o difese. Ma è davvero così? Il caso in questione riguarda la scarcerazione e il rimpatrio di Almasri, considerato uno dei capi dei torturatori nei lager libici. Secondo una certa narrazione, la Procura non avrebbe avuto alternative. Eppure, non è così scontato. Il procuratore Francesco Lo Voi ha ricevuto la denuncia per due reati ministeriali lo scorso 23 gennaio, ma l’idea che non avesse margine di discrezionalità è una bufala. Esistono, del resto, precedenti che dimostrano il contrario. Prendiamo, ad esempio, un esposto presentato cinque mesi fa dal direttivo di Nessuno Tocchi Caino - composto da Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti - e dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha conferito mandato difensivo all’avvocata Maria Brucale. Quel caso, molto più articolato e strutturato rispetto alla denuncia di poche righe presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti, è finito nel nulla. In questi giorni si fa spesso riferimento alla legge costituzionale n. 1 del 1989, che prevede che il procuratore, una volta ricevuta una denuncia, “ometta ogni indagine” e trasmetta gli atti al Tribunale dei ministri entro quindici giorni, dando “immediata comunicazione” agli interessati. Tuttavia, questa fase arriva solo dopo una valutazione preliminare: il pm deve infatti accertare se quanto denunciato sia del tutto privo di rilevanza penale o costituisca, invece, una notizia di reato. Come hanno sottolineato le Camere Penali in risposta al comunicato dell’Anm, già nel 2009 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la famosa sentenza “Lattanzi”, avevano chiarito che l’obbligo del Pubblico ministero di iscrivere una notizia di reato e il nome dell’indagato nel relativo registro sorge solo in presenza di una notizia “qualificata”, e non di qualunque esposto, denuncia o querela. Questo principio è stato poi recepito dal legislatore con la riforma “Cartabia” del 2022, che ha modificato l’articolo 335 del Codice di Procedura Penale. Ora, per procedere all’iscrizione della notizia di reato, è necessario che si tratti di un fatto “determinato e non inverosimile”, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice, e che “risultino” “indizi” a carico della persona alla quale il reato è attribuito. Tolta ogni ambiguità sull’”atto dovuto”, e separando la questione politica - legata al controverso Memorandum d’intesa sulla migrazione firmato nel febbraio 2017 tra Italia e Libia, con l’obiettivo di tenere migranti, rifugiati e richiedenti asilo lontani dall’Europa -, resta il fatto che la discrezionalità del pm ha portato a ignorare del tutto un altro esposto. In quel caso, si chiedeva di verificare eventuali profili di responsabilità penale, anche concorsuale, a carico del ministro della Giustizia Carlo Nordio, dei sottosegretari con delega alla giustizia e alle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari. L’esposto, un documento di 26 pagine, analizza in modo approfondito la situazione delle carceri italiane, denunciando non solo le responsabilità politiche e istituzionali dietro il sovraffollamento carcerario e le violazioni sistematiche dei diritti umani che ne derivano, ma chiede anche di valutare se sussistano responsabilità penali a carico del ministro della Giustizia e dei sottosegretari, in base all’articolo 40 del Codice Penale, che stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. In particolare, si chiede di indagare su eventuali omissioni che hanno portato a violazioni dei diritti umani, suicidi e morti evitabili. A differenza della denuncia di Li Gotti, che si limitava a riportare i due eventuali reati e allegando articoli di giornale, questo esposto ha offerto una visione d’insieme, supportata da dati, sentenze e riferimenti normativi, evidenziando come la crisi carceraria sia il risultato di anni di inazione politica e di scelte legislative che hanno aggravato, anziché risolvere, il problema. L’esposto ha descritto in modo dettagliato le condizioni di vita nei penitenziari: celle sovraffollate, servizi igienici inadeguati, mancanza di acqua calda, illuminazione insufficiente, strutture fatiscenti e promiscuità forzata. I detenuti vivono in ambienti malsani e degradanti, privati dei diritti più basilari, come l’accesso alle cure mediche, al cibo adeguato e ai contatti con i familiari. La Corte costituzionale italiana, in piena sintonia con la Cedu, ha più volte ribadito che il sovraffollamento può tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità, rendendo necessari rimedi estremi, come la fuoriuscita dei detenuti dal circuito carcerario. Tuttavia, queste indicazioni sono rimaste lettera morta. L’esposto ha puntato il dito contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, accusandoli di non aver adottato misure immediate per affrontare l’emergenza e soprattutto preservare la vita dei detenuti. Nonostante le continue promesse di soluzioni strutturali, il governo ha preferito ignorare il problema, aggravando ulteriormente la situazione con politiche punitive e repressive. In particolare, l’esposto denuncia il rifiuto di applicare misure deflattive, come l’aumento dei giorni di liberazione anticipata, che potrebbero alleviare il sovraffollamento. Una proposta in tal senso, avanzata da Roberto Giachetti, è stata sistematicamente ignorata, dimostrando una mancanza di volontà politica nel risolvere la crisi. Nonostante la sua completezza e il rigore con cui è stato redatto, a oggi l’esposto non risulta trasmesso al Tribunale dei ministri. A differenza della denuncia dell’avvocato Li Gotti, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano, questa denuncia sembra essere finita nel nulla. Tutto questo per ribadire, ancora una volta, che non si tratta di un semplice “atto dovuto”, ma di un doppio standard che privilegia alcuni casi rispetto ad altri. Come ha sottolineato Sergio D’Elia in conferenza stampa, la loro denuncia aveva principalmente un valore politico, pur basandosi su fatti penalmente rilevanti che, in base al principio di obbligatorietà dell’azione penale, avrebbero dovuto portare a un’indagine. “Non sono un amante del diritto penale”, ha dichiarato D’Elia, “tant’è che, per quanto mi riguarda, se la nostra denuncia dovesse arrivare davanti a un tribunale, non mi costituirò parte civile”. Questo è lo spirito radicale che ha sempre animato le loro battaglie: denunciare per garantire il rispetto dello Stato di Diritto e far emergere abusi sistematici, non per colpire un governo o alimentare conflitti politici. Questo caso è emblematico di un problema più ampio: alcune Procure, nonostante il principio di obbligatorietà dell’azione penale, esercitano un potere politico che va oltre il loro ruolo istituzionale. A seconda di chi le guida, possono trasformarsi in luoghi neutrali, spazi di compensazione e pacificazione dei conflitti, o addirittura in arsenali da cui partono “bombe” destinate a far crollare giunte, maggioranze o governi, locali e nazionali. Ovviamente, non stiamo parlando nello specifico della Procura di Roma, ma di una questione sistemica che riguarda l’intero Paese. Una cosa, però, è certa: il carcere rimane l’ultimo dei problemi per chiunque, un tema spesso dimenticato, nonostante rappresenti una delle più gravi emergenze sociali e umanitarie del nostro tempo. Gli anni giudiziari e i carcerati di Gioacchino Criaco iacchite.blog, 31 gennaio 2025 A stringere, come sempre, come in tutto, più che di Leggi che risolvano servono uomini che sappiano risolvere avendo in mano, insieme, codice e senso d’umanità. Nemmeno le Leggi migliori migliorano i peggiori, i migliori rimangono tali sotto l’egida di Leggi inidonee. Ci sono i giudici, i magistrati, spesso tutti si dimenticano dei carcerati che, innocenti o colpevoli, sono sempre uomini, anche in una nazione che appare via via dei senza perdono, cresiari compresi. In Occidente non esistono carceri più buie delle nostre, e non è che in Italia ci siano più crimini o criminali, tutt’altro, e non è che in Italia, però, ci sia la mafia: i detenuti per mafia sono una percentuale piccola della popolazione detenuta, ma sulla loro narrativa si è costruito un modello oppressivo che riguarda tutti. E tutto il male del carcere viene accettato, o discusso e criticato da pochi, perché su un racconto da bar del crimine si è consentito il superamento dei limiti della civiltà giuridica. E in fondo chi se ne frega di loro, pagano i loro sbagli, magari solo la loro sorte. Solo che è una sorte che a giro è toccata a milioni di persone fra incarcerati e familiari, i secondi sicuramente innocenti, ma anche fra i primi le percentuali statistiche sono alte, non fisiologiche dello zero virgola, ma a cifra doppia che ultimamente si assesta in una percentuale, fra tutte le fasi processuali, del 29%. Spaventa la cifra, ma uguale non inorridite, tanto tocca ad altri. Purtroppo a tanti fra quelli che lo hanno pensato poi è toccato un giro di giostra. Ma pure i colpevoli, pure gli orribili sarebbero per Costituzione intoccabili, recuperabili. Ma la Carta più bella del mondo, per gli ammanettati è un orpello. Fra quelli che ci sono passati senza colpe, che hanno avuto tutto distrutto, ho raccolto moltissime storie, sicuramente di fantasia, questa è una: “Era una giornata di gennaio, come questa, nei giorni prossimi alla Merla. I detenuti di un penitenziario del nord scesero all’aria, per la prima delle due sole ore d’aria che toccava loro ogni 24 ore. Quando l’ora finì e si aprirono i cancelli per il rientro, si riunirono al centro del cortile e si rifiutarono di rientrare: in sezione c’erano diversi detenuti malati, a parer loro non ricevevano cure adeguate. Volevano rassicurazioni, altrimenti si sarebbero sdraiati a terra. Resistenza passiva. Rimasero lì fino al pomeriggio. Nessuna interlocuzione. Alle sedici arrivò un magistrato di sorveglianza. Li rassicurò. Tutto si risolse. Sarebbero tornati in sezione. Il magistrato andò via. Aspettarono. Venne sera. La temperatura si abbassò. Improvvisi comparvero gli idranti: getti potenti. Lavarono bene i detenuti. Si spensero e si spensero le luci. E passarono ore e ore. L’acqua si ghiacciò tutta. I cancelli si aprirono in piena notte. Un detenuto alla volta venne fatto entrare, spogliato nudo e fatto passare fra due file di agenti con casco manganello e scudo: un corridoio infinito percorso lentamente fra rulli di manganelli sugli scudi. Nessuno prese botte. I detenuti che si erano fatti portavoce partirono in fretta, dispersi fra le carceri dello Stivale, gli altri passarono un paio di settimane a rimettere a posto quello che le perquisizioni sbattevano per terra . Non ci furono spargimenti di sangue, solo ammazzamenti di dignità”. Ma naturalmente i detenuti sono bugiardi, questa è una storia fasulla, però rammentatela mentre seguite il dibattito nobile di chi si prenderà cura di voi. Le priorità per la giustizia di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 31 gennaio 2025 Senza rinunciare al confronto, è necessario sottoscrivere un patto che preveda la risoluzione primaria degli aspetti pratici della vita delle persone, impegnandosi a far funzionare al meglio delle possibilità gli uffici giudiziari. Con una recente per quanto poco nota sentenza dello scorso novembre, la cassazione penale ha stabilito che non si può imporre l’utilizzo del telematico a tutti i costi poiché la tecnologia non sempre funziona. Detto in altre parole è legittimo il ritorno al passato e quindi l’utilizzo del cartaceo quando il sistema informatico va in tilt, poiché in primo luogo devono essere risolte le problematiche causate da disfunzioni funzionali che direttamente colpiscono i cittadini. L’ultimo eclatante esempio di malfunzionamento è quello del processo penale telematico che sarebbe dovuto entrare in vigore dal primo gennaio di quest’anno. Ciò premesso non si intende sottovalutare il rilievo giuridico, economico e sociale del conflitto tra magistratura e politica che in questi giorni appare particolarmente aspro al punto che è stato annunciato lo sciopero dei magistrati per il 27 febbraio prossimo. Una problematica che ha avuto inizio all’indomani dell’Unità d’Italia, in un periodo nel quale la magistratura era controllata dal potere esecutivo. Subalternità dalla quale si è gradualmente affrancata a partire dalla promulgazione della Costituzione del 1948 e la conseguente istituzione del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. Un momento storico che ha rappresentato anche l’inizio del sovvertimento gerarchico tra le parti, giunto ad un punto di massima espansione negli anni 90 con la disgregazione delle formazioni politiche all’epoca dominanti. D’altra parte non si può dubitare che la magistratura negli anni precedenti, con l’acquisizione di maggiore indipendenza conferitale per fronteggiare la criminalità ed il terrorismo, sia stata decisiva alla risoluzione di gravi problematiche nazionali, supplendo allo scarso impegno della politica. Ma è altresì certo che una parte, anche se esigua, di giudici ha utilizzato in maniera scorretta i mezzi giuridici a disposizione e la difesa ad oltranza non di rado acritica da parte dei rappresentanti della magistratura, è stata percepita come avallo di tale prassi, alimentando il dissapore dell’opinione pubblica. È quindi interesse delle parti in conflitto farsi carico di ripristinare il principio della separazione dei poteri sul presupposto ineludibile dell’autonomia e indipendenza di quello giudiziario, rinunciando al contempo ad assumere iniziative anche di comunicazione prive di effetti pratici e percepite come mero dissenso all’operato dell’altro. Senza rinunciare al confronto, sottoscrivere un patto che preveda la risoluzione primaria degli aspetti pratici della vita delle persone, impegnandosi a far funzionare al meglio delle loro possibilità gli uffici giudiziari che come mai in passato, possono contare su una elevata tecnologia che di gran lunga potrebbe semplificare almeno il sistema strutturale della giustizia. Le ragioni che hanno portato a perdita di credibilità dei magistrati spiegate da due magistrati doc di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 gennaio 2025 Luigi Salvato riconosce che gli ambiti di cui si deve occupare il potere giudiziario sono aumentati, come i margini di discrezionalità nella sua attività: deve però resistere all’idea che egli sia sopra ogni potere. Per Margherita Cassano la politica spesso sceglie di non scegliere e lascia spazio di interpretazione ai magistrati. Si può dare torto a Giorgia Meloni quando dice, lo ha detto ieri, che “ci sono alcuni giudici, fortunatamente pochi, che vogliono decidere la politica industriale, vogliono decidere la politica ambientale, vogliono decidere le politiche dell’immigrazione, vogliono decidere se e come si possa riformare la giustizia, vogliono decidere per cosa possiamo spendere e cosa no e che in pratica vogliono governare loro”. E si può dar torto a Meloni quando dice, lo ha detto ieri, che “in Italia ci sono magistrati che fanno di tutto per esondare, per uscire fuori dal proprio argine, arrivando ad aggredire il primato della politica”? Due giorni fa, Giuliano Ferrara ha scritto magnificamente sul Foglio che finché non sentiremo i magistrati riconoscere che ci sono guasti da riparare, che qualcosa bisogna fare, faremo bene a fidarci di più del potere legislativo, che almeno è sottoposto ogni tanto al controllo elettorale. Trovare magistrati desiderosi di mettere a nudo i propri vizi è un grande tabù di un sistema giudiziario che ha disgraziatamente trasformato la tutela dello status quo in un dogma assoluto, come se non fosse chiaro che il modo peggiore per difendere la credibilità della magistratura, la sua terzietà, la sua affidabilità sia proprio non fare nulla, non toccare nulla, non smuovere nulla, non uscire cioè dalla comfort zone dell’immobilismo che ha contribuito a rendere l’immagine della magistratura così simile a come si presenta oggi dinanzi agli occhi dei cittadini, ovvero poco affidabile, poco credibile, poco terza, poco rassicurante, come dimostra anche l’incredibile faccia tosta con cui i magistrati, attorno al caso Meloni, hanno voluto spacciare una scelta discrezionale (un atto voluto) in una scelta obbligata (atto dovuto). Eppure, se si infila l’occhio nel microscopio della giustizia, qualcosa si trova, qualcosa emerge, e qualcosa, anche se in sordina, è incredibilmente venuta fuori proprio nelle ultime settimane, pochi giorni prima che i magistrati di Roma esondassero aprendo un’indagine contro mezzo governo. E negli stessi istanti in cui i magistrati iscritti all’Anm protestavano contro la riforma della giustizia - per l’Anm protestare contro una qualsiasi riforma della giustizia è come per uno studente del liceo occupare la scuola in autunno, lo si fa, a prescindere dal contesto, in automatico - due pezzi da novanta della Corte di cassazione, venerdì scorso, hanno offerto alcuni elementi interessanti per ragionare attorno a un tema difficile da maneggiare, soprattutto per un magistrato: le inconfessabili ragioni che hanno portato a una progressiva perdita di credibilità di una intera corporazione. La confessione più interessante, se così si può dire, è quella uscita fuori dalla voce di Luigi Salvato, procuratore generale della Corte suprema di cassazione, venerdì scorso, a Roma, durante l’apertura dell’anno giudiziario. Ed è una confessione che possiamo dividere in sei parti, tanto è densa. Ammissione numero uno: “Vi sono segnali di una crisi di fiducia nella magistratura, preoccupante perché investe uno dei capisaldi dello stato costituzionale di diritto”. Ben detto! Ammissione numero due: “Il consenso è la fonte di legittimazione delle funzioni politiche, non del potere giudiziario, che si radica nella legalità, nell’autorevolezza nello stabilire la verità giudiziaria, attestata dalla motivazione dei provvedimenti che, all’esito di un giusto processo, danno applicazione alla legge”. Giusto! Ammissione numero tre: “Il potere giudiziario, come gli altri pubblici poteri, è fondato sulla sovranità popolare, di questa è espressione la legge ed il suo esercizio è quindi ad essa sottoposto”. Finalmente! Ammissione numero quattro: “La fiducia si recupera realizzando l’equilibrio fissato dalla Costituzione, che esige un forte impegno della magistratura. La centralità della giurisdizione è stata scambiata in qualche caso con l’avvento di una nuova etica pubblica e forse, purtroppo, qualche magistrato lo ha creduto, giungendo talora a forzare il principio di legalità, anche sulla scorta del consenso, con il rischio di una sorta di populismo giudiziario”. Bene, bravo, bis! Ammissione numero cinque: “La magistratura deve dimostrarsi consapevole dell’essenzialità del proprio ruolo con umiltà, senza improprie finalità di redenzione sociale”. Umiltà, ecco! Ammissione numero sei: “Il sapere giuridico è requisito indispensabile, ma non sufficiente per l’esercizio della giurisdizione. Occorre il rispetto delle massime deontologiche che si impongono a chi esercita un potere terribile, il rigore dei comportamenti, più severo che per qualunque altro titolare di pubbliche funzioni, l’etica del dubbio, la disponibilità all’ascolto, il dovere di ragionevole mantenimento della soluzione ragionevolmente conseguita”. E infine: “Lo stato siamo noi, chiediamoci cosa dare, non solo cosa ottenere”. Non ci vuole molto a riconoscere che un insieme di confessioni come queste, arrivate dalla bocca di un magistrato ancora in attività, rappresentano un unicum, che merita di essere valorizzato. Salvato, in altre parole, riconosce che gli ambiti di cui si deve occupare il potere giudiziario sono aumentati (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che i margini di discrezionalità nell’attività di un magistrato si sono moltiplicati (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che il magistrato non dovrebbe mai dimenticare che la sua credibilità è direttamente legata alla sua capacità di esercitare la sua professione con sobrietà (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che il rigore dei comportamenti è necessario per poter permettere alla magistratura di riappropriarsi della sua terzietà (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). E riconosce, infine, che il magistrato deve resistere alla tentazione dell’esondazione, all’idea cioè che il magistrato sia sopra ogni potere, ogni valutazione, ogni legge, e che possa dunque autoinvestirsi di un potere improprio, che non è più quello giurisdizionale della lotta contro l’illegalità ma è quello discrezionale della lotta per la redenzione della società. Non è poco riconoscerlo, anche se poi Salvato non fa quel passo in avanti che sarebbe necessario fare una volta messi a fuoco i problemi, cercando cioè soluzioni non solo culturali ma sistemiche, concrete, per ribaltare come un calzino un sistema che non funziona più - un sistema in cui la magistratura è in crisi non perché vi è qualcuno che la delegittima ma perché si delegittima da sola rincorrendo l’utopia tossica della difesa dello status quo. Non è poco, si diceva, avere un magistrato che individua qual è la cornice all’interno della quale la magistratura riesce a trovare lo spazio per muoversi in modo discrezionale, assumendo dunque in molti casi una funzione politica. E in questo senso, un tassello ulteriore per rendere ancora più chiaro il mosaico è quello che ha offerto nella stessa occasione, ancora all’apertura dell’anno giudiziario, un altro magistrato che i lettori di questo giornale conoscono e che risponde al nome di Margherita Cassano. Margherita Cassano, lo sapete, è la presidente della Corte di cassazione, è donna tosta, di potere, garantista, e nella sua relazione, venerdì scorso, ha offerto uno spunto di riflessione prezioso, che merita di essere valorizzato, e che in parte compensa i toni apocalittici consegnati qualche giorno fa al Corriere della Sera sul tema della separazione delle carriere, che Cassano considera profondamente sbagliata in quanto rischierebbe “di tradursi, per una eterogenesi dei fini, in una diminuzione delle garanzie del processo”. Nell’apertura dell’anno giudiziario, Cassano ha riconosciuto che, nella fase in cui viviamo, vi è “un rilievo inedito della dimensione interpretativa e la moltiplicazione degli spazi di intervento della magistratura”. Più un magistrato è autorizzato a interpretare in modo discrezionale le norme, naturalmente, più aumenterà la sua capacità di esondare. E più aumenterà la sua capacità di esondare e più il magistrato si sentirà legittimato - chiedere ai follower del dottor Lo Voi - a occuparsi sempre meno di legalità e sempre più di moralità, assumendo cioè “improprie finalità di redenzione sociale”. La questione, dice Cassano, deve essere analizzata mettendo a fuoco un tema “non ancora completamente esplorato, che è il delicato tema del rapporto tra diritto, potere e diritti fondamentali”. Il tema, dice la presidente, ha un rilievo centrale “ove si consideri che stiamo assistendo ad una vera e propria euforia dei diritti fondamentali accompagnata dal bisogno di proclamazione di altri ancora, persino quando resta dubbia la loro stessa effettiva natura di diritti fondamentali”. E ancora: “Nella prospettiva della revisione del catalogo dei diritti fondamentali troviamo anche le problematiche dell’inizio e della fine della vita, del testamento biologico, del trattamento terapeutico per malati terminali o incoscienti. In presenza di una linea di tendenza così complessa sussiste il pericolo che la dilatazione della categoria dei diritti fondamentali, senza la preventiva mediazione formale del legislatore, attribuisca impropriamente alla magistratura compiti di sintesi, bilanciamento, armonizzazione”. E infine: “Occorre che su questi temi i magistrati affinino una sensibile maturità e, consapevoli del loro ruolo nell’ordinamento costituzionale, non si ergano a interpreti della coscienza profonda del popolo, così appropriandosi acriticamente dei compiti spettanti ad altre Istituzioni dello Stato”. La politica, ammette Cassano, spesso sceglie di non decidere, e non decidendo lascia spazi di interpretazione per i magistrati, per prendere parte alla giostra “euforica” dei diritti per tutti. Compito di un magistrato però non è quello di mettere in campo la sua visione del mondo ma è far rispettare la legge. E per far rispettare la legge ed essere terzi ed essere credibili, il porsi sulla scena pubblica come magistrati desiderosi di sostituirsi alla politica è un rischio che una magistratura in crisi non può permettersi. È positivo naturalmente che vi siano magistrati in grado di riconoscere gli effetti deleteri che può produrre l’esondazione dei pubblici ministeri. È difficile però pensare a come si possano risolvere problemi di portata così ampia difendendo uno status quo che ha contribuito a screditare la magistratura. Chissà dunque che per una volta la direzione indicata dalla politica non sia quella opportuna per aiutare la magistratura a ritrovare quello che oggi sembra avere in larga parte perso: affidabilità, terzietà, credibilità. Viva i magistrati coraggiosi, capaci di sfidare il tabù della propria infallibilità. Meloni, l’affondo sulle toghe: “I giudici si candidino se vogliono governare” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 31 gennaio 2025 Il presidente del Consiglio: la sola cosa che non si può fare è loro che guidano il Paese e io che vado alle urne, l’indagine danno alla nazione. L’opposizione: “Venga in Aula”. Sorride molto, gesticola moltissimo e nel bel mezzo dell’intervista, una domanda sola per quindici minuti di risposta, Giorgia Meloni alza ancora i decibel contro i magistrati: “Ci sono alcuni giudici, fortunatamente pochi, che vogliono decidere la politica industriale e quella ambientale, la politica dell’immigrazione, vogliono decidere se e come riformare la giustizia, per cosa possiamo spendere e per cosa no”. E ancora, spalancando le braccia e innalzando i toni: “In pratica vogliono governare loro. Solo che c’è un problema. Se io sbaglio, gli italiani mi mandano a casa. Se sbagliano loro, nessuno può fare o dire niente. Nessun potere al mondo, in uno Stato democratico, funziona così. I contrappesi servono a questo”. La premier alla sfida finale con le toghe. La platea è quella amica dell’evento “La Ripartenza” di Nicola Porro. La leader della destra appare alle 17.30 in collegamento video, sfondo azzurro e bandierine tricolore, annuncia che farà solo un “saluto veloce da remoto”, scherza sulla rassegna stampa quotidiana del giornalista Mediaset, Zuppa di Porro, e confessa il sogno segreto di “fare una zuppa di meloni”. Poi, quando la prima e ultima domanda arriva, si scaglia contro le toghe. L’avviso che le ha fatto recapitare il procuratore Francesco Lo Voi era un atto dovuto o non dovuto? “L’atto era chiaramente voluto - risponde Meloni - Tutti sanno che le procure hanno la loro discrezionalità e lo dimostrano le numerosissime denunce fatte dai cittadini nel periodo del Covid”. La tesi insomma è questa: se in quegli anni tanti giudici decisero di non iscrivere l’allora capo del governo nel registro degli indagati, mentre oggi, sul caso Almasri, hanno inviato l’avviso a Meloni, Piantedosi, Nordio e Mantovano, è perché contro questo governo agiscono “magistrati politicizzati che cercano di colpire chi non è schierato con loro”. Dopo aver lamentato che a chiunque nei suoi panni “cadrebbero un po’ le braccia”, si lancia in una lunga giustificazione dei suoi tanti viaggi all’estero: “Nel mese di gennaio ho fatto 73 ore di volo, perché ogni viaggio sono porte che si aprono per le nostre imprese, investimenti, posti di lavoro”. Dalla gara pubblica tra azeri, indiani e cinesi per l’acquisto di Ilva, fino ai dieci miliardi di valore degli accordi in Arabia Saudita, passando per la fusione Ita-Lufthansa, la premier rivendica di aver battuto il globo terracqueo “dal ghiaccio dei fiordi fino alla sabbia del deserto”. Tra una missione e l’altra, continua la narrazione meloniana, l’export dell’Italia ha toccato il “valore record di 305 miliardi”, il comparto agricolo ha raggiunto il “primato storico” nella Ue, lo spread è sceso e via così. Finché, ecco il teorema, arriva a un magistrato e butta giù il castello: “In questo scenario mi ritrovo sulla prima pagina del Financial Times la notizia che sono indagata, e se in Italia i cittadini capiscono perfettamente cosa sta accadendo, all’estero non è la stessa cosa”. E qui Giorgia Meloni attinge alla mitologia e si paragona alla moglie di Ulisse: “Lei se la ricorda Penelope? Io in confronto avrei tessuto le tende dello stadio Olimpico. Tu puoi anche essere disposto a fare i sacrifici necessari a portare a casa dei risultati, ma se quegli stessi italiani che dovrebbero remare con te invece ti remano contro, smontano il lavoro che fai e questo obiettivamente ti manda ai matti”. Dove “questo”, per Meloni, è “un danno alla nazione, alle sue opportunità, alle sue speranze”. Perché la magistratura, concede la premier, è “una colonna portante della nostra Repubblica”. Ma poiché “nessun edificio si regge su una colonna sola, quando un potere dello Stato pensa di poter fare a meno degli altri il sistema crolla”. Segue provocazione, con risata sarcastica: “Se alcuni giudici vogliono governare si candidino alle elezioni... L’unica cosa che non si può fare è che loro governano e io vado alle elezioni. Non accetterebbe nessuno”. Accuse che cadono nelle stesse ore in cui FdI martella verbalmente il procuratore Lo Voi, con una vera e propria campagna mediatica. Una nota durissima del partito della premier ricorda che “colui che ha emesso l’avviso di garanzia” per i membri del governo “aveva in passato utilizzato il volo di Stato per ragioni di sicurezza per spostarsi da Roma a Palermo” e che il sottosegretario Alfredo Mantovano aveva stoppato quella possibilità. Per la vice capogruppo Augusta Montaruli “ci vuole una bella faccia tosta”, avendo lo stesso pm ipotizzato il peculato per il rimpatrio del capo della polizia giudiziaria libica”. FdI parla di “vicenda imbarazzante” e chiede chiarezza a Lo Voi, rimproverandogli di avere “una duplice faccia”. L’attacco arriva anche dal Csm. I consiglieri laici del centrodestra, Bertolini, Eccher, Bianchini, Aimi e Giuffré, chiedono che Lo Voi sia sanzionato per aver iscritto nel registro delle notizie di reato i quattro esponenti del governo. L’accusa, in sostanza, è che si sia mosso arbitrariamente e in contrasto con il Codice di procedura penale. Atto dovuto? No, quella di Lo Voi è stata una scelta di Oliviero Mazza Il Dubbio, 31 gennaio 2025 L’indagine su Meloni e i suoi ministri: perché una legittima scelta politica nemmeno sul piano astratto può integrare una fattispecie di reato. Il dibattito suscitato dall’indagine sui vertici del Governo italiano mi ha fatto tornare alla mente una celebre frase di Anatole France: il diritto è la più efficace scuola della fantasia. Mai poeta ha interpretato la natura così liberamente come un giurista la realtà. Abbiamo sentito voci autorevoli discettare di Corte penale internazionale, di estradizione, di notizie di reato, di atti più o meno dovuti da parte del Procuratore di Roma, della specificità delle indagini per i reati ministeriali, un fantasioso guazzabuglio in salsa giuridica che sembra prescindere dai dati normativi. Nel tentativo, forse vano, di fare chiarezza, bisogna ammettere che la ridda delle diverse interpretazioni si giustifica solo per il fatto di essere sostenuta da opposte valutazioni politiche. Conviene, quindi, tenere separati i piani del discorso: prima affrontare la questione giuridica e poi soffermarsi su quella politica. In materia di estradizione passiva, le decisioni dell’autorità giudiziaria sono sempre sottoposte alla valutazione finale che spetta al ministro della Giustizia, il quale deve tener conto non solo dei rapporti con lo Stato richiedente, della sovranità e della sicurezza nazionale, ma anche, se non soprattutto, di “altri interessi essenziali dello Stato” (art. 697 comma 1-bis c.p.p.), formula dotata di una voluta indeterminatezza tale da giustificare la completa rivalutazione anche dei profili già affrontati e risolti dai giudici. L’ultima parola spetta sempre al ministro, decidere se concedere o meno l’estradizione è un atto politico, l’unica eccezione a questa tradizionale impostazione è prevista per la cooperazione rafforzata interna all’Unione europea (vedi Mae), ambito in cui i rapporti vengono autonomamente gestiti dalle autorità giudiziarie procedenti. Nei rapporti internazionali extra Ue, tanto regolati da trattati bilaterali, ad esempio quello Italia-Usa sul quale torneremo affrontando gli aspetti politici, quanto multilaterali, come lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale, concedere o meno l’estradizione è una scelta politica discrezionale del ministro della Giustizia. Posta questa premessa, così decisiva da essere del tutto trascurata nell’attuale dibattito vagamente surreale, va ricordato che la vicenda specifica riguarda una richiesta di consegna proveniente dalla Corte penale internazionale e regolata non solo dallo Statuto di Roma e dalla l. 232/1999 di ratifica, ma anche dalla l. 237/2012 per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto. L’art. 2 l. 237/2021 ribadisce il principio generale per cui anche i rapporti con la Corte penale internazionale e le relative decisioni “sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia”. È vero che l’Italia si è obbligata a cooperare, ma pur sempre nell’ambito di un accordo internazionale che fa salve le regole nazionali (art. 89 comma 1 l. 232/1999), fra cui vi è la valutazione politica sugli interessi essenziali dello Stato. Nel caso Almasri, la polizia italiana ha operato, su richiesta dell’Interpol, un arresto palesemente illegittimo, come del resto stabilito dalla Corte d’appello di Roma, spettando solo al ministro il potere di dare avvio alla procedura di consegna e non certo alla Digos. Anche su questo punto ho letto diverse ricostruzioni, ma in uno stato di diritto gli art. 11 e 14 l. 237/2012 non ammettono deroghe al procedimento che prende avvio con la trasmissione della richiesta dal ministro al Procuratore generale di Roma. Dunque, Almasri, a prescindere dalla gravità delle accuse mosse nei suoi confronti e magari nel rispetto della presunzione d’innocenza, doveva essere scarcerato e il procedimento di cooperazione internazionale avrebbe potuto riprendere il suo corso legittimo solo su iniziativa del ministro della Giustizia. E qui c’è il cuore della questione. Se il decisore politico stabilisce che non si debba dar corso alla richiesta di consegna, tale determinazione rientra nella discrezionalità riconosciutagli dalla legge. Così come rientra nella discrezionalità del Governo espellere un soggetto “indesiderato” che, al tempo stesso, non si vuole consegnare alla Corte penale internazionale. Si potrà discutere sulle modalità del diniego, un imbarazzato silenzio-dissenso in luogo di una più chiara presa di posizione, ma la scelta, sul piano giuridico, rimane legittima. E veniamo alla denuncia presentata dall’avv. Li Gotti. Ho seri dubbi che quanto depositato alla Procura di Roma rappresenti una notizia di reato. Non mi sembra ipotizzabile, nemmeno sul piano astratto, che una legittima scelta politica discrezionale possa integrare una fattispecie di reato, addirittura il favoreggiamento personale e il peculato. Chi esercita una facoltà prevista dalla legge, come quella di non dar corso a una richiesta di estradizione, non può certamente commettere un reato, mi sembra un principio elementare del diritto penale, senza nemmeno scomodare la scriminante dell’art. 51 c.p. Del resto, neppure il “compianto” abuso d’ufficio incriminava scelte discrezionali dei pubblici ufficiali. Se ciò è vero, e ne sono ragionevolmente convinto, il Procuratore di Roma avrebbe dovuto iscrivere la denuncia dell’avv. Li Gotti a modello 45, ossia fra gli atti non costituenti notizia di reato. Questo era l’atto dovuto da parte del Procuratore Lo Voi. Non regge la ricostruzione per cui di fronte a qualunque denuncia nominativa, il Procuratore della Repubblica sarebbe comunque tenuto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato. A questa conclusione osta il tenore letterale dell’art. 335 c.p.p. per cui va iscritta ogni notizia rappresentante un fatto determinato, non inverosimile e, soprattutto, riconducibile a una fattispecie di reato. Come detto, un atto politico discrezionale, previsto dalla legge, non può nemmeno astrattamente essere riconducibile a una fattispecie di reato. Non serve evocare la “circolare Pignatone” o il novellato comma 1-bis dell’art. 335 c.p.p., per cui il nome dell’indagato va iscritto quando sorgano indizi a suo carico. Qui il problema è a monte, si tratta della notizia di un fatto non costituente reato. Per inciso, non andava nemmeno iscritto il denunciante per calunnia, essendo esclusa dall’ordinamento penale la calunnia giuridica ossia quella fondata su un errore di diritto, ma riferibile a circostanze di fatto vere. Ai sensi dell’art. 6 comma 2 L. cost. n. 1/1989, il Procuratore, nello specifico quello di Roma, omessa ogni indagine, deve trasmettere al Tribunale dei Ministri (di Roma) non solo gli atti, ma anche le sue richieste. Questo è un passaggio fondamentale sul quale in pochi si sono soffermati. Pur non potendo indagare, il Procuratore di Roma è chiamato a formulare una richiesta riferita all’alternativa fra l’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale, richiesta che presuppone un apprezzamento di merito sulla fondatezza della denuncia ricevuta, ponendosi così agli antipodi dell’atto dovuto. Mi sembra evidente che la scelta del Procuratore di Roma di iscrivere una pseudo notizia di reato e di valutarla nel merito, esprimendo le sue richieste al riguardo (purtroppo allo stato non note), sia un comportamento voluto, ben diverso dal cosiddetto atto dovuto, e che appare seriamente eccepibile dal punto di vista giuridico, secondo quanto detto in precedenza. Così ricostruita la vicenda nelle sue coordinate giuridiche, rimane il piano politico. Una prima domanda sorge spontanea, per quale ragione l’analoga decisione del ministro Nordio di non dare corso alla richiesta di estradizione avanzata dagli Usa nei confronti dell’ingegnere iraniano arrestato in Italia non ha originato esposti e procedimenti? A ben vedere si tratta di un caso del tutto sovrapponibile: un trattato internazionale bilaterale imponeva la cooperazione, ma il ministro ha opposto un diniego politico nell’ambito dell’evidente scambio di prigionieri con l’Iran che ha consentito la liberazione di Cecilia Sala. Non si può, inoltre, non cogliere la coincidenza temporale fra l’apertura di un’indagine che, per la prima volta nella storia della Repubblica, coinvolge tutti i vertici del Governo, e l’approvazione in prima lettura della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere osteggiata dalla magistratura al punto da proclamare una giornata di sciopero. Senza cadere nel vizio italico della dietrologia, vi sono troppe coincidenze sospette, ma soprattutto la vicenda Almasri non è diversa da tante altre in cui si è fatta prevalere la realpolitik senza l’intervenuto della magistratura. Un caso chiaramente e schiettamente politico trasformato in giudiziario con un atto voluto, più che dovuto. Non spetta alla magistratura chiedere conto al Governo della scelta di liberare un individuo accusato di crimini gravissimi, la responsabilità è tutta politica e le sedi naturali in cui rispondere non sono i Tribunali, ma il Parlamento e il dibattito pubblico. Molta incapacità e pochi reati. La vicenda Almasri è un guazzabuglio politico di Vitalba Azzollini* Il Domani, 31 gennaio 2025 Le accuse ipotizzate per Meloni, Nordio Piantedosi e Mantovano non appaiono sufficientemente fondate. A carico del ministro della Giustizia Nordio, però, potrebbe configurarsi l’omissione di atti d’ufficio. Mentre resta alto l’interesse per la vicenda Almasri, minore attenzione sembra esserci per i reati, favoreggiamento personale e peculato, ipotizzati a carico della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dei ministri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Eppure l’infondatezza, totale o parziale, di tali reati potrebbe far sì che la drammatizzazione di quello che Meloni, via social, ha definito impropriamente come “avviso di garanzia” si risolva nella classica tempesta in un bicchiere d’acqua. Almasri è accusato di crimini gravissimi, ed è per questo che nei suoi riguardi la Corte penale internazionale (Cpi) ha emesso un mandato d’arresto. Ai sensi di legge, è il ministro della Giustizia che deve dare seguito alle richieste di cooperazione della Corte, assicurando che “l’esecuzione avvenga in tempi rapidi”. La Digos di Torino ha arrestato Almasri il 19 gennaio. La Corte di appello di Roma ha ritenuto “irrituale” l’arresto, poiché non preceduto da una richiesta del Guardasigilli, e ha scarcerato il libico il 21 gennaio. Nordio era stato avvisato dell’arresto sin dal 19 gennaio, quindi avrebbe potuto far sì che in tempo utile si procedesse a un arresto “rituale”, ma non l’ha fatto. Dopo la scarcerazione, Almasri è stato espulso dal ministero dell’Interno e riportato in patria con un volo di stato, gestito dai servizi. I fatti consentono di comprendere il motivo per cui l’iscrizione nel registro degli indagati ha riguardato i quattro componenti del governo, che sarebbero coinvolti a vario titolo nella vicenda. Il favoreggiamento personale è il reato che commette chi “aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale”, nonché “a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti” (art. 378 c.p.). Il reato è ipotizzato perché aver liberato Almasri ha consentito a quest’ultimo di evitare il giudizio della Cpi. Poi, commette peculato “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio” che, disponendo per ragioni di ufficio o servizio “di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria” (art. 314 c.p.). Nel caso in questione, l’accusa riguarda l’utilizzo di un aereo di stato. Il primo dei due reati appare difficilmente configurabile. In base ad alcune dichiarazioni di esponenti della maggioranza, la scarcerazione di Almasri sembra essere stata finalizzata non a “favorire” il libico, quanto piuttosto a evitare un danno all’Italia, in termini di ritorsioni da parte della Libia, con un maggiore arrivo di migranti sulle coste nazionali. Dunque, mancherebbe lo scopo di aiutare il colpevole a sfuggire alle investigazioni, elemento che connota il reato. Ancora meno fondata appare l’ipotesi di peculato. Il volo di stato non è stato usato per fini personali, bensì per un’attività di pertinenza pubblica, cioè rimpatriare un individuo ritenuto pericoloso, per ragioni di sicurezza nazionale. Non è chiaro a quale titolo Meloni sarebbe coinvolta in questi reati. Se è vero che, in qualità di presidente del Consiglio, non poteva non essere stata informata di fatti rilevanti, la sua responsabilità appare politica, non giuridica. Quanto al ministro Piantedosi, l’espulsione del libico non ha esondato dai poteri del ministro. Il problema è stata piuttosto la scarcerazione, che però non era di competenza del Viminale. Né può ritenersi un’anomalia aver rimpatriato Almasri con un volo di stato: ciò si è verificato nel corso degli anni anche per altri stranieri reputati pericolosi. Di conseguenza, il fatto che il volo fosse gestito dall’Aise non rende imputabile Mantovano, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Insomma, una tempesta in un bicchiere d’acqua per tre dei quattro soggetti. Dubbi sussistono, invece, per la posizione di Nordio. Prima che scadessero le 48 ore per la convalida del fermo del libico, il ministro avrebbe potuto chiedere un arresto conforme a quanto previsto dalla legge per i ricercati dalla Cpi. A suo carico si potrebbe configurare un’ipotesi di omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), che si verifica quando l’inerzia del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio compromette l’adozione di un atto urgente, cioè un atto che “per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica”, tra le altre, doveva “essere compiuto senza ritardo”. Nordio non disponeva di alcun potere di valutazione discrezionale sull’arresto di Almasri, dovendo adempiere immediatamente al mandato della Cpi, quindi l’omissione degli atti cui era tenuto non appare giustificata. Chissà se la procura, al di là della denuncia dell’avvocato Li Gotti, ne terrà conto. *Giurista Csm, le laiche di destra contro Lo Voi: “Valutare eventuali profili disciplinari” di Simona Musco Il Dubbio, 31 gennaio 2025 Chiesta l’apertura di una pratica in relazione alle modalità e tempi dell’iscrizione: “Non è stata conforme alla legge”. Mentre Giorgia Meloni attacca i magistrati “politicizzati”, accusandoli di voler “governare”, dal Csm parte l’attacco al procuratore di Roma Francesco Lo Voi, con una pratica che punta, di fatto, a farlo finire sotto procedimento disciplinare. L’iniziativa è delle laiche di centrodestra Isabella Bertolini e Claudia Eccher, che utilizzando le argomentazioni messe nero su bianco mercoledì dall’Unione delle Camere penali, che ha contestato l’iscrizione sul registro degli indagati della presidente del Consiglio, del sottosegretario Alfredo Mantovano, del ministro della Giustizia Carlo Nordio e di quello dell’Interno Matteo Piantedosi dopo la denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti in merito all’affaire Almasri. Denuncia che Lo Voi, come noto, ha trasmesso al Tribunale dei Ministri, iscrivendo mezzo governo sul registro degli indagati e, pertanto, ritenendo il reato astrattamente configurabile. Dal punto di vista procedurale, affermano le due laiche, a seguito della riforma Cartabia, l’articolo 335 “prevede che l’iscrizione riguardi un “fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice” e che risultino “indizi a suo carico”. La norma, anche prima della riforma, affermano le due consigliere, non prevedeva un automatismo tra ricevimento della notizia e iscrizione nel registro degli indagati. “Pertanto, a fronte dell’assenza di criteri che indicassero quando dovesse ritenersi integrata una notizia di reato o sussistenti a carico di una persona elementi tali da imporne la sua iscrizione, nella prassi applicativa, formalizzata anche in passato in circolari adottate dai dirigenti degli uffici di Procura - il riferimento è alla circolare 3225/ 17 adottata dall’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, nda - si era consolidato l’orientamento secondo cui, anche in una logica di garanzia, nell’apprezzamento dei presupposti per procedere all’iscrizione, fosse ineliminabile una componente di discrezionalità valutativa del pubblico ministero”. Insomma: è inevitabile che il procuratore debba fare delle valutazioni e in questo caso, dunque, le ha fatte. In maniera contraria alla legge, secondo le sue laiche. Che infatti citano un passaggio particolare della circolare Pignatone, quello in cui veniva evidenziato il carattere a volte strumentale delle denunce e di come le iscrizioni vengano spesso sollecitate per ragioni “estranee alle fisiologiche dinamiche processuali”. No, quindi, agli automatismi: “Procedere ad iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute”, scriveva l’ex procuratore di Roma. Una logica fatta propria da Eccher e Bertolini, che nemmeno troppo velatamente sembrano far ricadere la denuncia di Li Gotti in questa categoria: quella delle azioni giudiziarie strumentali. Sicché, parlare di “atto dovuto” sarebbe sbagliato. Una “errata conclusione” frutto “di una interpretazione impropria dell’art. 335 c. p. p. (norma che impone l’immediata iscrizione di colui al quale il fatto è attribuito)” che “contrasta con le indicazioni della Corte di Cassazione e, ancor di più, con il sistema, in quanto finisce per attribuire impropriamente alla Polizia Giudiziaria - o, addirittura, al privato denunciante il potere di disporre in ordine alle iscrizioni a mod. 21, potere che, viceversa, non può che essere esclusivo del pubblico ministero ed al cui ponderato esercizio questo ufficio non intende sottrarsi”. Tale principio è stato confermato dalla delibera del Csm del 29 luglio 2021, che nel dare un parere sulla riforma Cartabia richiamava la circolare di Pignatone, ribadendo l’ineliminabilità di una componente di discrezionalità nell’apprezzamento dei presupposti per l’iscrizione. Per cui per individuare le persone da iscrivere, il pm dovrà “preliminarmente valutare un materiale investigativo ampio oppure apprezzare con oculatezza le complesse risultanze di fatto in modo da evitare iscrizioni precoci e indiscriminate”. Altro riferimento, la sentenza “Lettieri” (40538/ 2009) delle Sezioni Unite della Cassazione, in base alla quale “l’obbligo di iscrizione si genera in capo al pm quando, avuto riguardo alla componente “oggettiva” (i fatti di reato), gli elementi acquisiti, pur se non tali da costituire una base fattuale per elevare l’imputazione, integrano un po’ più di una indefinita “ipotesi” di reato; mentre, con riferimento alla componente “soggettiva” (l’iscrizione del nome dell’indagato), fosse superata la soglia del mero sospetto e l’attribuibilità del reato all’indagato assumesse una certa pregnanza”. Eccher e Bertolini, dunque, hanno sollecitato l’apertura di una pratica in Prima Commissione, “nonché presso le altre articolazioni consiliari competenti individuate da codesto Comitato di Presidenza anche al fine di eventuali profili disciplinari, in relazione alle modalità e tempi dell’iscrizione” di Meloni e dei suoi ministri, “in quanto non conforme alla formulazione dell’art. 335 c. p. p. vigente, nonché ai sensi della prassi dettata dalla stessa procura di Roma nel 2017, dell’interpretazione delle Sezioni Unite della Cassazione e dei pareri adottati dal Csm in materia”. Una risposta non solo a Lo Voi, ma anche all’iniziativa di tutti i togati di Palazzo Bachelet e del laico dem Roberto Romboli, che hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela della magistratura dopo le parole pronunciate da Nordio in Parlamento, questione ora all’attenzione della Prima Commissione. Cedu: l’Italia mette a rischio la vita degli abitanti della Terra dei Fuochi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2025 La Cedu ha stabilito che l’Italia deve introdurre misure generali in grado di affrontare in modo adeguato il fenomeno dell’inquinamento. Le autorità italiane mettono a rischio la vita degli abitanti della Terra dei Fuochi, l’area campana coinvolta nei decenni scorsi nell’interramento di rifiuti tossici. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia che, pur riconoscendo la situazione, non ha preso le dovute misure. La Cedu ha stabilito che l’Italia deve introdurre, senza indugio misure generali in grado di affrontare in modo adeguato il fenomeno dell’inquinamento in questione. La sentenza è definitiva. La Corte ha riconosciuto un rischio per la vita “sufficientemente grave, reale e accertabile”, che può essere qualificato come “imminente”. I giudici inoltre ritengono che “non ci siano prove sufficienti di una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi”. Evidenziano che i progressi nel valutare l’impatto dell’inquinamento sono stati lenti, quando invece occorreva celerità. Inoltre indicano che lo Stato non è stato in grado di dimostrare di aver preso tutte azioni penali necessarie per combattere lo smaltimento illegale di rifiuti nell’area della Terra dei Fuochi. “Data l’ampiezza, la complessità e la gravità della situazione, era necessaria una strategia di comunicazione completa e accessibile, per informare il pubblico in modo proattivo sui rischi potenziali o reali per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi. Questo non è stato fatto. Anzi, alcune informazioni sono state coperte per lunghi periodi dal segreto di Stato”, scrive la Cedu. La sentenza emessa oggi concerne i ricorsi di 41 individui e 5 associazioni. La Cedu ha deciso di accettare in parte le obiezioni del governo e ha rigettato i ricorsi delle associazioni e di numerosi individui. I giudici ritengono che le associazioni non sono “direttamente interessate” da presunte violazioni derivanti da un pericolo per la salute dovuto all’esposizione al fenomeno dell’inquinamento, e che mancano della legittimazione ad agire per conto dei loro membri. Per quanto attiene invece agli individui, per alcuni non ci sono prove sufficienti che loro i parenti vivessero in aree interessate dal fenomeno dell’inquinamento. Condanna sulla Terra dei fuochi: la lezione della Cedu all’Italia di Nello Trocchia Il Domani, 31 gennaio 2025 Il principio di precauzione ignorato, la frammentazione delle risposte e l’assenza di una normativa. La Corte europea dei diritti dell’uomo chiede interventi entro due anni per evitare i risarcimenti. Anno 1996, Roma, sezione Criminalpol. Un poliziotto scrive un’informativa che racconta di “camorristi, imprenditori “ecomafiosi”, usurai, banchieri, bancari e professionisti della finanza”, coinvolti con tempi e ruoli diversi nella “realizzazione di un un progetto unico dagli effetti letali per il sistema economico nazionale e per l’ambiente”. L’ambiente era la terra campana. Trent’anni dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con una sentenza storica, ha stabilito che lo stato italiano non ha tutelato i cittadini nonostante fosse a conoscenza della compromissione ambientale dei luoghi fin dalla fine degli anni ottanta. E lo fa valorizzando un principio dimenticato in questi anni: quello di precauzione. Sono passati tre decenni dall’informativa di Roberto Mancini, l’ispettore di polizia, morto di leucemia dopo aver scandagliato terreni compromessi e inseguito trafficanti di veleni, e adesso arriva un pronunciamento che cancella ambiguità e colpevoli silenzi. Quell’informativa è rimasta sepolta nei cassetti per anni, prima di finire nel processo all’inventore dell’ecomafia in Campania, Cipriano Chianese, poi condannato per l’inquinamento della discarica di sua proprietà. Trent’anni di ritardi, omissioni, imprenditori protagonisti degli scarichi diventati padroni di una terra, politici distratti, nella migliore delle ipotesi, e complici, nella peggiore. La Corte di Strasburgo boccia le condotte dello Stato italiano perché esisteva un dovere di protezione non annullato dalla mancanza di certezza scientifica “sugli effetti precisi che l’inquinamento potrebbe avere sulla salute di un richiedente”, si legge nella storica decisione. Altro punto cruciale è quello relativo alla frammentazione degli enti decisori, una pletora di soggetti istituzionali, province, comuni, autorità sanitarie, regione, ministeri che non hanno fatto altro che aumentare la confusione, tardare le risposte e costruire distanza tra comunità e stato. Questo ha impedito “una risposta sistematica, coordinata e globale da parte delle autorità” nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi, si sottolinea nel verdetto che ricostruisce anche i silenzi, i segreti di stato e l’impunità garantita a trafficanti e sodali grazie a una legislazione carente e alla beata prescrizione. Ma come si è arrivati a questa pronuncia? “Si respira aria di giustizia, noi siamo stati per anni derisi, umiliati, accusati di allarmismo. L’Europa stabilisce che c’è stata la violazione del diritto alla salute, noi non volevamo rovinare l’immagine della nostra terra, volevamo difenderla. Ora bonifiche, ma subito. Basta chiacchiere, non ne possiamo più”, dice Alessandro Cannavacciuolo tra i firmatari del ricorso alla Cedu. Cannavacciuolo è un combattente, uno che non si è arreso quando ha visto la tradizione familiare di pastori finire con l’abbattimento delle pecore. Tra quei capi di bestiame alcuni nascevano deformi, mostri, gli ovini erano pieni zeppi di diossina. Loro e anche chi viveva ad Acerra, paesone in provincia di Napoli, come lo zio di Alessandro, morto di tumore. E mica solo lui. Uomini come agnelli, abbattuti dai veleni e dall’indifferenza. Quante ne hanno sentite da queste parti, il dileggio più grande dalle istituzioni italiane è stato il silenzio. “Il mio pensiero va a tutti i colori che hanno lottato insieme a noi e non sono riusciti ad assaporare questo minimo di giustizia. Ma questa è una terra che ha bisogno anche di risposte, chi ha inquinato non può tornare in possesso di tutto per l’inerzia di un giudice”, conclude Alessandro. Si riferisce ai fratelli Pellini, tra loro anche un ex maresciallo dei carabinieri, condannati per disastro ambientale e al centro di una procedura di confisca incredibilmente arenatasi per il ritardo della corte d’appello nell’emissione del verdetto e la conseguente perdita di efficacia del decreto, nel silenzio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Ora il procedimento è ripartito da zero. Insieme ad Alessandro altri 40 cittadini, più cinque associazioni, hanno firmato il ricorso alla Corte europea, grazie al supporto di un pool di avvocati (Antonella Mascia, Ambrogio Vallo, Armando Corsini, Valentina Centonze). “Tecnicamente si chiama pronuncia di accertamento, la Cedu ha accertato la violazione dell’articolo 2, lo stato italiano non ha protetto i cittadini, le istituzioni dovevano prendere atto della situazione e intervenire. Ora l’Italia ha due anni per mettere in atto soluzioni e interventi (bonifiche, mappature, studi, piattaforme per correlare dati), tra queste anche un’informazione chiara sui territori specifici e i rischi collegati”, dice l’avvocata Centonze. Mentre elenca i nominativi dei ricorrenti dice: “Scriva anche Luciano Centonze, mio padre, c’è anche lui nel ricorso. Ora non c’è più, è morto di leucemia”. Ogni famiglia ha un dolore, un ricordo, una mancanza. Da queste parti, proprio ad Acerra, ha lavorato per anni Michele Liguori, il vigile, morto di tumore, che combatteva contro i trafficanti di morte. Il pentito di camorra lo disse chiaramente: “Ad Acerra c’è ampia copertura, l’eccezione è solo il vigile con la barba”. Quello con la barba era Michele Liguori, l’indomabile. “Ora bisogna vigilare perché non ci fidiamo più dello stato, questa sentenza apre una nuova stagione di lotta”, dice Enzo Tosti, storico attivista. La decisione di Strasburgo apre un varco e impone immediati interventi in terra campana, decorsi due anni la corte si riserva di decidere sui risarcimenti morali richiesti. Roberto Mancini, prima di morire, continuava a ripetere che forse, nel 1996, non erano maturi i tempi per affrontare complicità e il sistema criminale che aveva favorito il saccheggio. Oggi, tre decenni dopo, è già troppo tardi: serve la bonifica dei terreni e della verità, la commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti ha ancora tempo per mettere in fila le imprese che hanno avvelenato i terreni e che ora si occupano di green e rinnovabili. Sarebbe una risposta, insieme alle altre, per iniziare a ricostruire un rapporto di fiducia con un popolo avvelenato e ignorato. Ivrea (To). “La Fenice” spenta: censura e accuse. Il carcere zittisce la libertà di espressione di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 31 gennaio 2025 Critiche ai volontari, controlli inutili. Il progetto editoriale dei detenuti di Ivrea rischia di scomparire per sempre. La vicenda de La Fenice, il giornale online realizzato dai detenuti del carcere di Ivrea, continua a far discutere. Dopo l’improvvisa sospensione dell’attività emergono ora nuovi elementi che gettano ulteriori ombre sul futuro del progetto. Apprendiamo che, nei giorni scorsi, i computer utilizzati dai detenuti-giornalisti sono stati sottoposti a controlli approfonditi e che non sarebbe stato trovato nulla di compromettente. D’altro canto che cosa mai si sarebbe potuto trovare. Nonostante ciò, la direttrice del carcere, Alessia Aguglia, avrebbe rivolto critiche verso i due volontari esterni che da sei anni collaborano con i detenuti nella gestione del giornale. Stando alle voci che circolano, il vero nodo sembra essere il contenuto degli articoli: parlare di vita carceraria in modo aperto e spesso critico non sarebbe particolarmente gradito all’Amministrazione Penitenziaria, che teme possano emergere aspetti scomodi o controversi del “mondo dietro le sbarre”. Nel frattempo, la questione è approdata anche sui tavoli delle istituzioni locali. C’è stata una riunione a cui hanno preso parte il sindaco di Ivrea, Matteo Chiantore, e l’assessora con delega alle problematiche carcerarie, Gabriella Colosso. Durante l’incontro, si è discusso del futuro de La Fenice e della necessità di fornire risposte concrete, non solo ai detenuti ma anche alle associazioni che operano a favore del reinserimento. Pare che la questione verrà affrontata pubblicamente il prossimo 25 febbraio, quando è previsto un Consiglio comunale in carcere: un’occasione unica per portare il tema all’attenzione di tutta la comunità e, si spera, trovare una soluzione condivisa. Come già ricordato, La Fenice non era soltanto uno spazio per fare cronaca: era (e speriamo torni a essere) un ponte tra il dentro e il fuori, un luogo di espressione per chi, in quel momento, vive dietro le sbarre ma non ha perso il desiderio di dialogare con la società. Questo progetto editoriale rappresentava un raro spiraglio di libertà creativa in un contesto segnato da regole rigide e spazi limitati. Ogni articolo era un modo per ribadire che anche chi è recluso rimane una persona, con pensieri, emozioni, riflessioni. In un sistema carcerario spesso criticato per il rischio di “disumanizzazione”, ogni strumento che favorisca il confronto e l’ascolto diventa prezioso. Ora, dopo i nuovi controlli, le critiche e la sospensione in atto, il timore è che si possa tornare al silenzio. Eppure, c’è ancora una speranza: la stessa che La Fenice ha incarnato sin dalla sua nascita. È la speranza di poter di nuovo sentire la voce di chi, pur avendo commesso errori, continua a coltivare aspirazioni di riscatto. Se quel “grido di libertà” dovesse spegnersi per sempre, a perderci non sarebbero solo i detenuti, ma tutta la comunità: perderemmo uno strumento di conoscenza e, soprattutto, un esempio concreto di come la pena possa trasformarsi in occasione di crescita. Il Consiglio comunale in carcere del prossimo 25 febbraio sarà, con ogni probabilità, un crocevia fondamentale. Sarà interessante capire se, e in che modo, la direzione dell’istituto e l’Amministrazione Penitenziaria vorranno aprirsi a una mediazione con i volontari e con chi, da anni, porta avanti il progetto de La Fenice. Intanto, non possiamo che appellarci al sindaco Chiantore e all’assessora Colosso affinché difendano il valore di un’iniziativa che - al di là di eventuali regolamenti e burocrazie - ha saputo rispettare e dare dignità alla voce dei detenuti. E che, soprattutto, ha contribuito a far cadere un po’ di quel muro invisibile che separa il carcere dal resto della città. In attesa che questa situazione trovi una via d’uscita, resta la convinzione che, come La Fenice, anche un giornale possa risorgere dalle sue ceneri. Perché, nonostante le difficoltà, non possiamo permetterci di abbandonare il potenziale di una simile iniziativa. Dalle mura del carcere di Ivrea - e dalle parole che vi circolano - si può trarre insegnamento e umanità: un patrimonio che appartiene a tutti noi. Ivrea (To). A parole “positiva esperienza”, nei fatti si cerca di impedire la prosecuzione dell’attività del giornale dei detenuti rossetorri.it, 31 gennaio 2025 “Ribadendo l’importanza trattamentale dell’attività in oggetto (…) si chiede l’individuazione di altri operatori quali soggetti incaricati del progetto”. Si conclude così la lettera che il direttore della Casa Circondariale di Ivrea ha inviato nei giorni scorsi all’associazione Rosse Torri (editrice del giornale varieventuali) e al direttore responsabile del giornale. La “attività in oggetto” alla quale fa riferimento la lettera è la redazione dell’inserto La Fenice (attiva dal 2018) del giornale online varieventuali, che dal dicembre scorso non pubblica nuovi articoli provenienti dall’interno della Casa Circondariale di Ivrea. Perché? Cos’è successo? Semplicemente l’attività è stata sospesa a fine novembre per decisione della direzione, ufficialmente per effettuare accertamenti sui computer, peraltro da sempre periodicamente effettuati, senza alcuna ulteriore spiegazione o contestazione. Spiegazioni che non sono arrivate neanche in un incontro, svoltosi a metà dicembre, chiesto dai responsabili esterni della redazione della Fenice e di varieventuali. In quell’occasione la direzione segnalava una generica “immagine negativa” della vita in carcere che sarebbe emersa dagli articoli, la presenza all’interno dei pc di elementi non attinenti alla attività di redazione (file musicali e giochini) e la necessità di ridurre, per ragioni di personale disponibile, l’orario di apertura della stanzetta adibita a redazione interna al carcere. Passato un altro mese, ad attività sempre sospesa, il 20 gennaio la redazione esterna della Fenice e l’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” hanno chiesto congiuntamente un incontro alla Direzione della Casa Circondariale di Ivrea “per chiarire se il contributo (sempre oggetto di miglioramento e di ridefinizione delle modalità di collaborazione) di associazioni esterne alla struttura penitenziaria, ma radicate nella società locale, sia o meno benvoluto e incoraggiato”. Una richiesta nata dalla condivisa “convinzione che l’apporto della comunità locale e il rapporto con questa siano risorse per la funzione rieducativa svolta negli istituti penitenziari- ma, aggiungono - ci dispiace dover rilevare come, in questi ultimi mesi, tale apporto e rapporto ci appaiano considerati come problemi. In particolare - proseguono i richiedenti l’incontro - le incertezze sulle attività di redazione dello storico giornale “L’Alba” e della “Fenice” (inserto del giornale Varieventuali), si protraggono ormai da diverse settimane senza che ad oggi sia sopraggiunto alcun chiarimento”. Pochi giorni dopo, il 24 gennaio, arriva all’associazione Rosse Torri la lettera, che fa seguito all’incontro di metà dicembre, nella quale l’attività della redazione della Fenice viene valutata come “un’ottima occasione non solo per garantire il pieno diritto all’informazione (intesa in senso largo), ma anche per assicurare la tutela alla libertà di pensiero”, tuttavia “previa rivisitazione della Convenzione siglata in data 20.04.2023” [un protocollo che definiva le modalità di svolgimento dell’attività N.d.R.] e poiché “si ritiene venuto meno il rapporto di fiducia verso gli operatori incaricati del medesimo progetto” si chiede all’Associazione Rosse Torri “l’individuazione di altri (…)”. In sostanza: pareri positivi sull’attività svolta dalla Fenice, ma sfiducia nei due volontari che quell’attività l’hanno messa in piedi (peraltro attivandosi per procurare anche tutti i pc per la redazione interna) e svolta per oltre sei anni. Senza alcuna altra spiegazione e senza alcuna contestazione mai avanzata ad alcuno degli “operatori incaricati del progetto”. Francamente sembra un modo “elegante” per far cessare un’attività che, al di là delle belle parole probabilmente può aver talvolta dato fastidio, essendo facile a chiunque comprendere che i volontari non sono sostituibili in qualsiasi momento e per qualsiasi attività. Un’esperienza di lavoro redazionale di sei anni all’interno di una struttura complicata come quella di un carcere non si improvvisa. E poi, quand’anche faticosamente si trovassero altri volontari con competenze e capacità personali adeguate, non sarebbero sempre soggetti a una insindacabile “sfiducia”? In pratica si tratta della scelta di chiudere di fatto un’esperienza che riusciva in qualche modo a far arrivare la voce, le vite e i percorsi delle persone detenute al di fuori del carcere. Basta guardare nell’archivio della Fenice gli articoli scritti dai redattori detenuti (che negli anni sono quasi tutti cambiati per i frequenti trasferimenti in altre carceri o per termine pena) per verificare quanto siano affrontati vari argomenti: dai difficili rapporti con altre persone in ambienti ristretti alla voglia di mantenere vivi i rapporti famigliari, dagli errori commessi in gioventù alle speranze di una vita diversa una volta liberati, dai commenti alle proposte legislative in tema di carceri ai racconti di fortunosi arrivi sulle coste italiane. Certo non sono tutti ottimisti sul futuro né possono magnificare la vita nelle celle, però diverse volte hanno voluto esprimere l’apprezzamento per il lavoro degli agenti penitenziari quando sopperivano alle carenze della struttura o dell’organico. Nessun problema di sicurezza, questione che giustamente preoccupa molto il Dipartimento Penitenziario, perché ogni articolo è sempre stato vagliato prima della eventuale pubblicazione, e ovviamente nessuno ha mai riguardato i casi personali, arrivando a rispettare anche la misura richiesta a Ivrea di non firmare con il proprio nome (cosa che invece si verifica normalmente in altri giornali redatti in carceri italiane). Attività certamente migliorabile, che ha contribuito a ridare consapevolezza ai partecipanti nel sentirsi persone pensanti e non semplici numeri e a cercare un qualche collegamento con il mondo esterno dove dovranno reinserirsi. Ora l’inserto La Fenice resta aperto e pubblicherà quanto riguarda “l’universo carcerario”, mentre faremo il possibile perché questa esperienza non divenga parte, come spesso è accaduto, del “glorioso passato di Ivrea”, ma torni ad essere una espressione di un “quartiere della città” o “un villaggio del territorio”. Napoli. Nell’Ipm di Nisida, il mare fuori e dentro ragazzi sempre più piccoli di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2025 Nell’istituto penale minorile di Napoli record di presenze, quasi tutti italiani ma aumentano gli stranieri. Crescono i reati contro la persona e le pene si allungano. Il Ministero lavora all’apertura di altre quattro carceri. Dovevano esserci loro. Stesi per terra in un vicolo, con un lenzuolo bianco addosso. E ora che invece sono qui, davanti al mare di Nisida, vivi ma con pene talora lunghe da scontare, stanno imparando che “imbracciare un’arma - riflette il più timido - è sempre una scelta”. Con conseguenze irreversibili. Se lo fai, devi mettere in conto di poter morire da solo in qualche strada buia o - se ti va bene - di perdere la libertà dei tuoi 14-15 anni. Succede sempre più spesso. E con ragazzi sempre più piccoli. Adolescenti le vittime, adolescenti i killer. La costa flegrea luccica di bellezza mitologica la mattina che arriviamo nell’istituto penale minorile di Nisida, il più famoso d’Italia, dopo il successo della serie tv Mare fuori. Le notizie di cronaca nera raccontano dell’ultima vittima giovanissima di una sparatoria per mano di un coetaneo. E della miriade di coltelli nascosti sotto felpe oversize, tanto che una scuola alla periferia di Napoli è arrivata a introdurre controlli col metaldetector. I dati e le storie di questa quasi-isola, attaccata alla costa per un lembo, lo confermano: sono in crescita i reati contro la persona (omicidi, tentati omicidi, lesioni, violenze sessuali), rispetto a quelli contro il patrimonio - aggravati dalla violenza o dall’uso delle armi - che restano (per ora) prevalenti. Come è arrivato a una soglia record il numero delle presenze su questa collina, che dal 1934 ospita quello che un tempo si chiamava riformatorio giudiziario: i123 gennaio sono 75, quasi tutti italiani (62), la maggior parte al di sotto dei18 anni (41); in prevalenza hanno una “posizione mista”, come si chiama in gergo chi ha più vicende giudiziarie, già condannato per un reato e sotto processo per altri (nove quelli che stanno scontando una pena, nove gli imputati, sei gli indagati). Non si arrivò a questo pienone neppure nei mesi della cosiddetta paranza dei bambini nel 2015, quando i minori arruolati dalla camorra divennero emergenza nazionale e si raggiunse il picco delle 6o presenze. Questa nuova condizione è testimoniata dal refettorio muto all’ora di pranzo: troppi i ragazzi per mangiare insieme. A riempirsi invece sono i prati sotto le finestre, con stoviglie di plastica lanciate dalle celle quale segno di disagio. Il dibattito sulle cause del sovraffollamento, che riguarda tutti gli Ipm (tanto che il ministro della Giustizia Nordio lavora all’apertura di altri quattro), è in corso. Per l’associazione Antigone, è l’effetto della stretta del decreto Caivano del settembre 2023. Lo confermò in audizione il capo dipartimento per la Giustizia minorile, Antonio Sangermano: 835 ingressi nel 2021,1.142 nel 2023; 586 fino a giugno 2024. Da queste parti, in realtà, “più che gli ingressi sono aumentate le pene sempre più lunghe, segno - commenta il direttore Gianluca Guida- di condanne per reati gravi e sempre più spesso commessi in gruppo”. Una decina, però, gli over 18 trasferiti nell’ultimo anno da Nisida a strutture per adulti, uno degli aspetti toccati dalla norma. “Ora i ragazzi non hanno più rispetto nemmeno della loro vita”, sospira don Peppe, mentre finisce di preparare il gateau di patate. Dal 1978 ne ha visti passare a centinaia e sa “che non è mai colpa loro”. “Non abbiamo più le porte girevoli, giovani che entrano ed escono subito”, riflette il direttore con l’esperienza di chi ha speso una vita per fanciulli con gli sguardi più grandi della loro età. Coni protagonisti delle storiacce che arrivano dall’altra parte del golfo, l’omicidio di Emanuele Tufano a ottobre, quello di Giovanbattista Cutolo l’anno prima, il diciassettenne musicista ammazzato a piazza Municipio; o con i tantissimi pronti a colpire coni coltelli, i ragazzi di Nisida condividono il contesto, un certo sentire e fino a qualche tempo fa il look. D’altra parte, alcuni di loro come “Rosario, Venturino, Matteo, Brasile, Aniello, Nicola, Carmelo sono (stati) manovalanza impunita”, direbbe Diego De Silva. Anche loro stati Certi bambini e parlano come chi ha già troppa vita e troppi abbandoni alle spalle. “Se prima se coceva (se si fosse scottato prima), forse si salvava”, esordisce il più alto qui da sette anni. “Se scendi co’ fierro ‘ncuollo, o’ sai che po’ succedere”, esclama il più sincero. Se vai in giro con un’arma, sai che può succedere di usarla odi subirne i colpi. Oggi questi ragazzi lo sanno, di essere vivi anche perché arrestati prima. Perché ci sono contesti dove “ci si spara pe’ senza niente” (senza un’effettiva ragione). Là dove “vivi con l’idolo di chi fa più male odi chi ha le scarpe più griffate. Anche nel mio rione, siamo cresciuti con il mito di chi aveva le scarpe da 500 euro e la pistola. E allora per darti importanza, ti ritrovi in qualcosa di più grande dite”, racconta il veterano della sezione a custodia attenuata, che sta affrontando un percorso di consapevolezza. In periferie dove dispersione scolastica, disoccupazione e povertà toccano percentuali maggiori che altrove, può diventare troppo facilmente un’opzione chi ti mette in mano “nu’ mezzo, ‘na pistola e nu poco e’ rispetto” (uno scooter, una pistola e un po’ di rispetto), ammise un altro ragazzo alla mamma di un coetaneo accoltellato. Qui si può trovare l’origine del rancore di giovanissimi che vengono accompagnati nel sapersi mettere dall’altra parte, quella della vittima. Da dietro le grate di una finestra, una voce squillante chiede cosa significhi quell’espressione del magistrato: giustizia riparativi. “Quando provi ad aggiustare un po’quanto hai rotto col reato”, è la prima risposta che riceve da giù. Su questo promontorio - che fu lazzaretto durante la peste del Seicento, ergastolo con i Borbone - i ragazzi sono aiutati a riconoscere le emozioni. Una delle attività decisive affidate agli operatori degli istituti penali minorili. “Quando ero piccolo, avevo un sacco di rabbia. Rabbia perché provavo dolore. Oggi la so gestire”, racconta un diciottenne con la storia tatuata sul bicipite. Anche il cane Libero “quando l’abbiamo trovato - ricordano i ragazzi - era molto arrabbiato”. Ora che è stato adottato da tutti loro è docile, ubbidiente. Festoso. Libero si ferma prima dei cancelli, del muro di cinta e delle grate che conducono al carcere vero e proprio. C on palazzine ocra, il campo di calcetto, la cappella multireligiosa, i mosaici con il teatro di Eduardo e l’etimologia di Nisida, la “piccola isola” che diventa approdo per far cambiare vita a questi pescetielli o muschilli (piccoli pesci o moscerini), vecchia metafora del dialetto napoletano per indicare giovanissimi in branco allo sbando. Qui trovano punti di riferimento. “Mamma e papà ci hanno provato”, premettono, ad allontanare certe derive, ma fuori i genitori - quando non provengono da famiglie criminali - “sono soli”, riflette un operatore. Qui il lavoro di squadra consiste nel trovare il percorso giusto per ciascuno, attraverso la scuola innanzitutto (13 frequentano corsi di alfabetizzazione; n la scuola dell’obbligo; gli altri la secondaria di primo grado, il triennio alberghiero o percorsi per la ristorazione, secondo dati del dipartimento della Giustizia minorile e di comunità) e una formazione professionale, nel laboratorio di ceramica - coni San Gennaro, i Vesuvio e i corni richiesti soprattutto a Natale; l’edilizia, la pizzeria, il catering o la pasticceria, con i panettoni che hanno conquistato la nazionale di calcio. Laboratori visitati tre anni fa dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con l’allora Guardasigilli, Marta Cartabia. E nelle cucine del Quirinale due hanno effettuato uno stage. Con i numeri in crescita diventa sempre più difficile costruire il miglior percorso su misura, considerando che gli operatori sono sempre gli stessi (26 ufficialmente, sei le vacanze). L’aumento poi degli stranieri, soprattutto magrebini (al momento 12), impone “cambiamenti nei percorsi trattamentali, per tener conto della loro cultura e del loro vissuto”, riflette Guida. Molti di loro sono “ragazzi fantasma”, dice, minori che raccontano di aver attraversato più Paesi “senza lasciare traccia. E quindi - aggiunge - non ne conosciamo davvero la storia, condizione essenziale per costruire la fiducia”, leva dei percorsi verso più libertà. Dalla terrazza dell’Ipm da un lato si vedono i travagli di Bagnoli, con il suo acciaio arrugginito e gli annunci di riqualificazione, dall’altro il Parco letterario e naturale, curato col lavoro anche dei ragazzi di Nisida. Il vento porta le ultime notizie sull’ultimo ventenne accoltellato. Ma ora c’è la partita di pallavolo e “ce sta ‘o mare fore”. Novara. Più luci che ombre in carcere: “Presto avremo nuovi spazi” di Claudio Bressani La Stampa, 31 gennaio 2025 Ieri la commissione ad hoc di Palazzo Cabrino: sovraffollamento sotto controllo e corsi di formazione professionale. Un istituto piuttosto piccolo (170 detenuti a ieri), con qualche criticità strutturale ma anche un buon ventaglio di opportunità di formazione e lavoro. Le luci prevalgono sulle ombre nel ritratto fornito ieri in commissione da Nathalie Pisano, garante comunale dei detenuti, nominata dal Consiglio comunale 11 mesi fa. Da quando la figura è stata istituita nel 2017 per la prima volta il garante si presenta a riferire la situazione. La commissione è stata chiesta dalle minoranze dopo l’approvazione all’unanimità, il 30 ottobre, di una mozione per “attivare iniziative concrete volte a migliorare le condizioni della popolazione detenuta”. Una delegazione Pd il 21 gennaio ha anche visitato la struttura di via Sforzesca. Anzitutto i dati: la capienza regolamentare è 156, dunque il sovraffollamento è minore che altrove. I reclusi sottoposti al regime d’isolamento del 41-bis sono 71, per cui quelli ai quali si possono destinare le attività sono un centinaio, ma di fatto solo metà perché gli altri restano a Novara per periodi brevi. Gli stranieri sono il 50%. In pianta organica gli agenti sono 176, in servizio 160, più i 40 del Gom, dedicati alle sezioni 41-bis. Gli educatori sono due, un terzo posto è scoperto. In carcere, hanno elencato Pisano e l’assessore alle politiche sociali Teresa Armienti, sono attivi corsi di alfabetizzazione d’italiano e inglese, di formazione professionale gestiti da associazioni per addetti alle pulizie, giardinaggio, tecnico audio-luci, tecnico veterinario. Si tengono laboratori di teatro e scrittura creativa. Funziona una tipografia interna ed è stato finanziato dal Pnrr il progetto per realizzare un panificio. Nel 2024 si sono svolti laboratori di giustizia riparativa che hanno coinvolto qualche decina di detenuti. Cinque sono stati impiegati nei cantieri di lavoro esterni, mentre il protocollo con Assa e Atc è fermo perché gli agenti per la sorveglianza scarseggiano. Sul fronte del personale Pisano ha rilevato carenze di mediatori culturali e psicologi. Su quello strutturale ha riferito due importanti novità: “È stato approvato un progetto da un milione per recuperare la palazzina dell’ex sezione femminile, in disuso da 20 anni, in cui ricavare una nuova infermeria al posto dell’attuale, al primo piano senza ascensore; inoltre la Diocesi per il Giubileo finanzia una tensostruttura esterna da realizzare accanto al campo sportivo per attività educative e ricreative”. Dalla commissione è venuta la richiesta di istituire anche a Novara un “tavolo carcere” in cui tutti i soggetti istituzionali possano coordinarsi e fare rete. Oristano. Massama, in arrivo nuovi medici. L’Asl: “Sanità penitenziaria in sicurezza” asl5oristano.it, 31 gennaio 2025 Si rafforza la sanità penitenziaria nel carcere di Massama, che nei prossimi giorni potrà contare su sette camici bianchi per garantire ai detenuti un’assistenza costante e continuativa. Da sabato 1 febbraio entreranno in servizio nell’istituto di pena due nuovi medici, assunti con un contratto di medicina penitenziaria convenzionata di 24 ore settimanali ciascuno, per la durata di sei mesi, che andranno ad affiancare la dottoressa già al lavoro nel carcere da gennaio 2025. A questi si sommeranno quattro medici che saranno reclutati nei prossimi giorni dalla Asl 5 di Oristano con contratto libero professionale, sempre per sei mesi, con un monte orario che va dalle 24 alle 10 ore per ciascuno. Disponibilità, queste, che consentiranno di arrivare a coprire pressoché totalmente il fabbisogno della casa circondariale di Massama, che prevede una copertura di 24 ore su 24. Il risultato è frutto del progetto messo a punto dalla direzione strategica della Asl 5, in collaborazione con la medicina penitenziaria, la struttura per l’Integrazione ospedale-territorio e il distretto di Oristano che, a seguito dei numerosi bandi per l’arruolamento di medici andati deserti (otto in un solo anno), hanno proposto di ricorrere ai contratti libero-professionali per reclutare il personale necessario ad assicurare le attività sanitarie nel carcere: una formula che la Asl 5 di Oristano ha adottato per prima in Sardegna. “Grazie alla proposta della Asl 5, accolta con favore dall’assessorato regionale della Sanità, dal magistrato di sorveglianza e dal garante dei diritti dei detenuti, abbiamo messo in sicurezza la sanità penitenziaria nel carcere di Massama, passando da uno a tre medici strutturati in convenzione più quattro medici assunti con contratti libero professionali: una pattuglia di sette medici che ci permetterà di garantire, nell’immediato, la copertura delle ore necessarie - spiega il direttore generale dell’Azienda sanitaria oristanese Angelo Maria Serusi. Siamo riusciti così a chiudere un capitolo che nel 2023 aveva avuto delle ripercussioni anche sul servizio di continuità assistenziale di Oristano, i cui medici erano stati chiamati a tamponare le lacune della sanità penitenziaria. Oggi - prosegue Serusi - abbiamo riportato ben al di sopra della linea di galleggiamento sia l’uno che l’altro servizio: non solo abbiamo ricostituito una squadra di medici che assicurerà l’assistenza sanitaria all’interno del carcere di Massama, ma abbiamo coperto, già dallo scorso settembre, tutti i turni di guardia medica nel capoluogo, riuscendo peraltro a farlo con due medici che operano in compresenza, anziché con tre, come accadeva in precedenza”. Roma. Undici ex tossicodipendenti detenuti diventano stallieri ansa.it, 31 gennaio 2025 Con un corso a Villa Maraini-Cri per il reinserimento lavorativo. Da detenuti per reati legati alla tossicodipendenza ad una nuova prospettiva per il futuro: lavorare come stallieri. Undici persone in cura, con alcune restrizioni, a Villa Maraini-Cri a Roma, hanno partecipato al corso di un mese per “Tecnico benessere equidi”, voluto da Asi sport equestri e, svolto al “Centro Tecnico Asi Ippodromo delle Capannelle”, e si sono diplomati avendo ora il titolo per poter lavorare nel settore. I partecipanti al corso sono stati anche alla Convention annuale del settore sport equestri al salone d’onore del Coni per la consegna dei diplomi. “Ero appena arrivato a Villa Maraini-Cri ed ho pensato ‘che me ne frega di quello che propongono, l’importante è che sono uscito dal carcere e ora mi faranno uscire pure dalla comunità!’. Ora ho quasi sperato che mi bocciassero per poterlo fare di nuovo questo corso! - racconta Massimo, 30 anni, dall’età di 14 anni consumatore di cocaina - Mi godo il momento, vorrei lavorare nel campo dell’ippoterapia, per aiutare i bambini svantaggiati, sarebbe bello, potrei ridare un qualcosa alla società”. Carlo, 35 anni, anche lui ex cocainomane conferma: “Quando me l’hanno proposto a Villa Maraini-Cri, ho pensato che poteva essere un’occasione per uscire tutto qui, poi però il contatto con i cavalli e la gentilezza dei prof. mi hanno fatto appassionare” All’inizio Antonietta 30 anni, già da 19 consumatrice di cocaina e finita in carcere all’età di 24 anni, ha pensato che “fosse una cosa inutile, poi un cavallo in particolare chiamato ‘Zietto’, beh mi ha fatto innamorare, non vedevo l’ora di tornare al corso, nonostante il freddo, per chiamarlo e farlo uscire dalla stalla e lavorare con lui” Marco invece vorrebbe fare un corso più avanzato: “Mio padre da bambino mi aveva avvicinato al mondo dei cavalli ma mi sono perso”. Per Daniel, 34 anni, tossicodipendente dall’età 15 anni, finito in carcere a 27: “Sicuramente sarà meglio lavorare con i cavalli che fare l’operario al cantiere, anche per contenere lo stress ed evitare di ricadere” Durante le lezioni hanno imparato dai veterinari l’importanza di monitorare i cavalli, dai battiti al respiro, per individuare le carenze e lavorare per farlo recuperare. Poi c’è stata la parte pratica: dal posizionamento corretto degli ostacoli, per far fare agli animali il percorso ad ostacoli in base alla lunghezza del passo del singolo animale, fino alla sellatura e al controllo degli zoccoli. “Un progetto di reinserimento sociale e lavorativo importante - spiega Massimo Barra fondatore di Villa Maraini-Cri - per dare alternative a chi ha avuto problemi con la giustizia, in modo da recuperarlo non solo dal punto di vista medico, ma dando anche prospettive concrete di lavoro, per non ricadere e rendersi utile per la società. A Villa Maraini-Cri siamo stati tra i primi a credere alle alternative al carcere per chi abusava di sostanze e commetteva reati legati alla sua malattia”. “Anche se durante la cerimonia di distribuzione dei diplomi ci hanno presentati come carcerati - spiega Antonietta - stavolta sono andata a testa alta, non mi sono vergognata, perché ho studiato, ho passato l’esame, rispondendo prima alle domande multiple scritte e poi la prova pratica con il veterinario, mostrando come fare lo scarico degli zoccoli. Ora ho un diploma e voglio usarlo quando sarò libera”. Imperia. Convegno sul lavoro dei detenuti e reinserimento sociale lavocediimperia.it, 31 gennaio 2025 “Il carcere incontra la cittadinanza” e lo fa per parlare di lavoro e reinserimento sociale. Oggi alle 16 nella sala conferenze della biblioteca civica Lagorio si terrà la conferenza organizzata dalla casa circondariale di Imperia con il Cineforum e l’Amministrazione comunale. Dal 2009 il Cineforum svolge all’interno dell’istituto imperiese un progetto di volontariato: “Proponiamo una serie di proiezioni ai detenuti organizzate in collaborazione con gli educatori, gli psicologi e gli insegnanti”, racconta la presidente dell’associazione, Marinella Faedda. La scelta dei film è accurata, si evitano pellicole che potrebbero annoiare o che presentano scene esplicite di sesso o di violenza: “Portiamo film che raccontano di cadute e rinascite, del superamento di barriere sociali e soprattutto di crescita personale, con personaggi che entrano nel cuore. Sono film scelti per il loro contenuto sociale e interculturale che invitano al confronto e al dialogo”. Il lavoro è la base della funzione rieducativa affidata alle carceri, uno strumento che consente di diminuire la recidiva, garantendo agli ex detenuti non solo dignità ma anche tutele concrete che solamente un impiego può garantire. Tra gli scopi dell’incontro anche sensibilizzare le imprese locali, informandole dei vantaggi previsti dalla legge per l’assunzione dei detenuti. La conferenza sarà introdotta dalla direttrice della casa circondariale di Imperia Caterina Tancredi e interverranno docenti e volontari che operano nel carcere e detenuti che condivideranno la propria esperienza. A cornice dell’evento i dipinti realizzati durante il laboratorio di pittura e tecniche espressive “SiAmo” condotto dall’insegnante Annalisa Fontanin. Tra i relatori Luigi Romano dirigente scolastico CPIA della provincia di Imperia, Danilo Bonifazio docente del percorso di autodeterminazione, Francesca Rodi referente del programma GOL, Roberto Fresu del SEI CPT e Marco Podestà del Comitato San Giovanni. Messina. Oggi conferenza sul rapporto tra genitori detenuti e figli messinaindiretta.it, 31 gennaio 2025 Arcigay Messina Mawkan e l’associazione Cammino organizzano in data 7 febbraio, alle 9:30 presso l’aula 4 del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Messina, una conferenza dal tema: “Genitori e figli: anche in carcere?” dedicata al delicato rapporto tra genitori detenuti e figli. L’evento, che ha avuto il patrocinio dell’Università di Messina, del Comune di Messina, della città Metropolitana di Messina, dell’ordine degli Avvocati di Messina e di Napoli, della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale, dall’associazione Elsa Messina e da Radio Panorama, vedrà intervenire espert? provenienti da diversi settori del mondo legale e non. Il convegno sarà moderato: nella prima parte dalle 9,30 alle13,00 da Noemi David conduttrice Rai e nella seconda parte, dalle 15,00 alle 18,00, da Salvatore Nucera resp. giovani Arcigay Messina Makwan APS. Sarà un importante occasione per affrontare, in modo sinergico e plurale, le diverse declinazioni della tutela della persona detenuta, sia essa minore, genitore, fragile o soggetta a discriminazione per il proprio orientamento sensuale o identità di genere. Con questo evento, Arcigay Messina Makwan APS e Cammino vogliono rivendicare i diritti delle person? detenut?, la quale devono essere tutelate nel rispetto delle direttive Costituzionali e nell’osservanza delle direttive emanate dalla Corte per i diritti umani anche e soprattutto sul piano affettivo relazionale, in modo tale da favorirne nel più breve tempo il reinserimento civile e sociale. Siete tutt? invitat? a prendere parte all’iniziativa. Nell’intervallo tra la prima e la seconda parte del convegno le organizzazioni sono liete di condividere con tutt? un momento di cordialità attorno ad un buffet che sarà servito nella stessa sala del convegno offerto dalle organizzazioni promotrici dell’evento. Padova. Professione forense, futuro da scrivere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 31 gennaio 2025 Iniziano oggi a Padova i lavori del direttivo nazionale di Movimento forense. Nel pomeriggio, presso il Salone di rappresentanza del circolo unificato dell’Esercito, a partire dalle 15, ci sarà una tavola rotonda dedicata al futuro della professione. I lavori - che proseguiranno anche domani - saranno aperti da Antonio Zago (presidente Mf Padova), Francesco Rossi (presidente del Coa di Padova), Federica Santinon (consigliere Cnf) e Laura Massaro (delegata Ocf). È previsto un momento di confronto, moderato da Barbara Melinato (segretario del Coa padovano), con il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, al quale parteciperà Elisa Demma, che di Movimento forense è la presidente. Interverranno anche Leonardo Arnau (consigliere Cnf), Maria Annunziata (consigliere di amministrazione di Cassa forense), Antonino La Lumia (tesoriere dell’Organismo congressuale forense e presidente del Coa di Milano) e Andrea Ostellari (sottosegretario alla Giustizia). “L’anno appena trascorso - evidenzia la presidente di Movimento forense Elisa Demma - ha rappresentato un passaggio cruciale per la nostra categoria, costretta a confrontarsi con sfide complesse come l’entrata in vigore della riforma Cartabia e le difficoltà strutturali che affliggono gli uffici del Giudice di Pace. Tematiche che il Movimento forense ha seguito con attenzione intervenendo anche nelle sedi istituzionali con proposte concrete per migliorare l’efficienza del sistema giudiziario”. Il passato, grazie ad una serie di risultati raggiunti, rappresenta una base importante per costruire il futuro, da guardare con ottimismo. “Il 2025 - aggiunge l’avvocata Demma - ci vedrà impegnati su diversi fronti tra i quali rientra senz’altro il riconoscimento dell’accesso alla giustizia come diritto universale attraverso l’eliminazione delle barriere economiche imposte dal contributo unificato, ma anche il riconoscimento di un equo compenso agli avvocati che operano nel patrocinio a spese dello Stato per assicurare loro la dignità professionale anche nelle cause di maggiore rilevanza sociale. Continueremo a monitorare i problemi legati alla digitalizzazione del processo penale, che invece di rendere più efficiente la giustizia ha finito per causare gravi rallentamenti obbligando i Fori di tutta Italia a tornare all’uso del cartaceo, e manterremo alta l’attenzione sulle gravi carenze di giudici, personale e strumenti informatici negli Uffici del Giudice di Pace, che, come è emerso anche dai dati elaborati dal nostro Osservatorio nazionale appositamente istituito, da troppo tempo ormai sono sull’orlo del collasso”. Tra le sfide più importanti del 2025 rientra quella riguardante la nuova legge professionale. “Il progetto che è in itinere - spiega Leonardo Arnau - sotto la regia del Cnf, dell’Ocf e di Cassa forense è tanto ambizioso da avere come obiettivo non un semplice restyling dell’esistente, ma la configurazione dell’avvocato del futuro. Ma se non vogliamo sbagliare risposta, è necessario aprire una nuova fase di analisi sulla funzione e sui compiti dell’avvocato in una società sempre più sofisticata, come quella del presente. L’esercizio della professione forense nel settore civile, quello ampiamente maggioritario nell’avvocatura, attraversa, da tempo, una fase di ricerca di nuovi equilibri nel contesto presente che sembra assestare duri colpi al tradizionale prestigio ed alla funzione sociale del giurista pratico nel nostro Paese”. Quando si parla di futuro della professione forense e della giustizia, non si può dimenticare la presenza sul territorio degli uffici giudiziari che va sempre valutata con attenzione. In Veneto da diverso tempo si discute sul progetto di costituzione del cosiddetto “Tribunale della Pedemontana”. Dovrebbe avere sede a Bassano del Grappa con circondario di riferimento parte dei territori delle province di Padova, Vicenza e Treviso. “Si tratta - spiega il presidente dell’Ordine degli avvocati di Padova, Francesco Rossi - di un nuovo tribunale la cui istituzione dovrebbe essere oggetto di uno schema di disegno di legge di prossima approvazione da parte del Consiglio dei Ministri. Gli avvocati, ma anche i giudici e gli altri operatori della giustizia, sono fermamente contrari all’istituzione, evidenziando l’infondatezza delle ragioni di coloro che in questi mesi hanno invece propugnato l’istituzione del nuovo Tribunale”. Antonio Zago, presidente della sezione padovana del Movimento forense, sottolinea il valore della presenza del direttivo nella “città del Santo”: “Il nostro evento si terrà in un anno molto importante per l’avvocatura con riforme che troveranno il proprio avvio e proposte di riforma della giustizia che non vedono unanime condivisione. Siamo onorati e orgogliosi di essere riusciti ad unire al tavolo di confronto tutti gli attori della giustizia, con i rappresentati della politica e delle istituzioni, convinti che il confronto sia il migliore strumento per potare ad un risultato condiviso e significativo”. Analogo il parere di Antonino La Lumia (tesoriere Ocf e presidente del Coa di Milano). “Viviamo - afferma - un’epoca straordinariamente complessa e segnata da conflitti che generano squilibri: la giustizia fa parte di questa complessità, perché abbraccia i rapporti sociali. E allora fiducia deve diventare la vera parola chiave del nostro programma: essa trasmette il senso autentico di affidamento, custodendo una scintilla positiva nella connessione quotidiana dei cittadini con l’apparato pubblico. La giustizia non deve essere più la zavorra del Paese che genera assuefazione, non può rappresentare solo un parametro economico di inefficienza. La giustizia non è un fenomeno statistico, una somma di numeri che soffoca i diritti. La giustizia non deve considerarsi perduta: deve diventare un’opportunità di sviluppo, una locomotiva che traini la crescita nazionale, rendendola più efficace ed equa”. Bari. Il camp di Diego nelle carceri minorili di Cesare Monelli Avvenire, 31 gennaio 2025 Diego da anni entra nelle carceri minorili con il Dominguez Camp: “È stupendo, una settimana di full immersion, ben 7 ore al giorno, con i ragazzi detenuti. Imparano i valori dello sport che nel rugby sono anche accentuati, ascoltano parole forti e magiche come educazione, collaborazione, rispetto per l’avversario, sostegno per i propri compagni di squadra. È una scossa per loro, vedi subito chi fa di tutto per cambiare rotta, è un metodo di educazione e prevenzione. Con i dirigenti del carcere identifichiamo in quella settimana chi vuole fare un passo in più verso la meta della vita e così ottiene permessi per allenarsi con un club locale, perché coinvolgiamo tutto il territorio, e poi rientra. Lo aiutiamo anche a cercare un lavoro e così sa già cosa farà quando uscirà, non sarà solo. Avrà una squadra di rugby ad attenderlo, un lavoro, avrà imparato che la vita può essere bella e diversa”. L’esperienza dell’ex numero 10 presso gli Istituti penitenziari sta dando frutti concreti: “Gli anni scorsi un ragazzo era detenuto a Bari e ora che è diventato libero sta conducendo una vita finalmente normale. Un altro ha conseguito il diploma di parrucchiere e il patentino da allenatore. Quello che fa la differenza nei nostri incontri sono i gesti, le parole, gli sguardi”. Al camp si fanno tanti sport oltre al rugby, basket, biliardino, calcio, i ragazzi si divertono insieme a Diego imparando rispetto e correttezza”. Impegno, rispetto, disciplina e divertimento i concetti su cui Diego e il suo staff hanno insistito con i ragazzi, sempre pronti ad ascoltare e mettere in pratica. Sulla cittadinanza possiamo fare un altro miracolo di Franco Corleone L’Espresso, 31 gennaio 2025 Il 20 gennaio ho assistito alla Camera di Consiglio della Corte Costituzionale che ha discusso dell’ammissibilità del referendum sulla cittadinanza con un’inevitabile emozione: era in gioco una decisione che interessa milioni di persone che ora sono italiani dimezzati, privati del diritto fondamentale della cittadinanza e dei diritti politici nonostante contribuiscano alla vita del Paese, lavorando, pagando le tasse e rispettando le leggi. In due precedenti momenti ero stato presente nella sede della Consulta, vivendo una stessa intensità. La prima in occasione della decisione sull’incostituzionalità sostenuta da Giovanni Maria Flick nel 2014 riguardo la legge proibizionista sulle droghe, la famigerata Fini-Giovanardi (ma concepita dall’attuale potente sottosegretario Alfredo Mantovano); la seconda per la discussione sul mantenimento della legge istitutiva del Fondo per il risarcimento delle vittime delle stragi nazifasciste istituito dal Governo Draghi nel 2023. In questa terza occasione ho visto e condiviso la gioia delle giovani e dei giovani che, davanti a Montecitorio, hanno esultato per l’ammissione del referendum. Una felicità comprensibile, giacché si tratta di una vicenda caratterizzata da miracoli e da incredulità. A partire dalla raccolta di firme lanciata nel settembre dello scorso anno, dopo che le Olimpiadi avevano mostrato il volto di un’Italia a colori a dispetto dei razzisti che rimpiangono un paese identitario mai esistito. Pochi, infatti, avrebbero scommesso sulla possibilità di raccogliere le cinquecentomila firme necessarie: invece, ben 637.487 persone, perlopiù giovani e donne, hanno sottoscritto la proposta, attestando la presenza di un pezzo di società civile che non si rassegna. Il comitato promotore era sicuro della legittimità del quesito, rispondente anche ai criteri ampliati rispetto alla previsione dell’art. 75 della Costituzione che la Corte costituzionale si è negli anni attribuita. In un seminario convocato ad hoc il 10 dicembre, molti giuristi condividevano tale convinzione mettendo però in guardia da un’eccessiva sicurezza, esistendo la possibilità di un esito incerto pur di fronte a un quesito limpido. Alla vigilia, lo stato d’animo era dunque allo stesso tempo di speranza e di apprensione. Di fronte alla Corte presieduta dal Presidente Amoroso - che vede soli undici componenti, a causa dell’incapacità del parlamento a provvedere alla nomina dei quattro giudici vacanti - il relatore Patroni Griffi ha illustrato brevemente il contenuto del referendum, mentre il professor Grosso ha illustrato le ragioni del comitato. Il suo è stato un discorso efficace che ha demolito le obiezioni, ricordando che il referendum non stravolge la normativa, ma semmai restaura il termine di cinque anni per la possibilità di richiedere la cittadinanza che è stato in vigore per ben ottant’anni: dal 1912 al 1992. Senza retorica, Grosso ha poi valorizzato l’esito che estende a tutti i soggetti interessati una possibilità oggi limitata ad alcune categorie. Si recupera, cioè, un tratto universalistico, anche se la cittadinanza resta una concessione e non un diritto. Ora, però, occorre lavorare a un nuovo miracolo: raggiungere il quorum della partecipazione al voto della metà del corpo elettorale. È possibile, riaccendendo la passione per rispondere a una crisi della politica e della democrazia pericolosamente profonda. E per decidere, senza delega. Com’è difficile nella scuola educare a credere nella giustizia di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 31 gennaio 2025 Che fatica essere educatori credibili, insegnare, nonostante tutto, a credere nella giustizia, essere onesti e impegnarsi per diventare cittadini migliori. Ma c’è il rischio di essere in-credibili: se i ragazzi e le ragazze non credono più che la politica sia una cosa bella e sana, se “non ci credo nella giustizia italiana” o “io so che non sarà la scuola ad aiutarmi a realizzarmi”, questo è causa del discredito quotidiano da parte di chi la scuola, la giustizia, la politica, la Costituzione dovrebbe difenderle. Dovremmo smettere di leggere il quotidiano con gli studenti, di occuparci di ciò che accade e piuttosto fare la scuola come piace a molti: lezioni frontali che non parlano alle nostre vite? Si può insegnare Diritto, Educazione civica, Storia, senza fare riferimento allo scempio di questi giorni nel nostro paese fra Stato e magistratura? Si può fare letteratura, scienza, matematica e non mostrare i duecentomila esseri umani che, tornando a casa, dopo un’inutile strage, non trovano le loro case e parenti? C’entra questo con l’antifascismo e con la Carta dei Diritti universali dell’Uomo? Se la scuola evita, i futuri italiani continueranno a evitare di votare, di agire con giustizia ma soprattutto eviteranno l’indignazione per la mancanza di diritti. A scuola si dovrebbe recuperare il credibile, in un mondo e in un quotidiano che non lo sono più. Ho chiesto a Roberto Rossi, magistrato e procuratore della Repubblica, soprattutto cittadino da sempre impegnato nell’educare alla cittadinanza attiva, sulla credibilità educativa: “Un giudice della Corte suprema israeliana ricorda un detto talmudico sui giudici: “Tu pensi che io ti stia conferendo un potere? In realtà, è una schiavitù quella che io sto imponendo su di te”. È la premessa che mi accompagna in aula ogni giorno. Mentre partecipo al processo, io mi sottopongo a giudizio, e come anche i miei pari, vedo il mio ruolo di giudice come una missione: decidere non è solo un mestiere, è un modo di vivere. Ogni giudice risponde alla sua chiamata con integrità e umiltà intellettuali, uniti a un senso sociale e a una comprensione storica, cercando soluzioni, espressione del bilanciamento tra giustizia ed eguaglianza per tutti. Ciò è un modo diverso di esprimere quello che afferma la Costituzione italiana all’art. 101: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. I magistrati non sono migliori degli altri cittadini, hanno idee, opinioni, emozioni come tutti, ma imparano nell’esercizio del loro lavoro a guardare fuori da se stessi, a essere indipendenti da se stessi. Per essere così sottoposti a una regola che la comunità attraverso la legge ha creato. Non più Io che penso ma cosa pensiamo Noi. Comprendendo che esistono i diritti degli altri, pensieri e realtà diversi. Sospendendo così anche ogni giudizio morale, applicano solo una regola che salvaguarda il vivere ordinato civile. Non sempre la legge è giusta ma è espressione di un pensiero collettivo. Il giudice si fa interprete di questo pensiero collettivo, attento a cogliere i cambiamenti della società, adattando le regole ai cambiamenti. Facendo questo il giudice si ricorda sempre che la legge, proprio per i mutamenti delle maggioranze nella sua oggettività, tutela le minoranze del momento. Il giudice ne è il garante supremo”. La legge è chiara: le cure palliative sono un diritto di Lorenzo d’Avack Il Dubbio, 31 gennaio 2025 Ci sono malati che le considerano contrarie alla propria dignità e preferiscono intraprendere un percorso di fine vita, ma la scelta non può mai essere obbligata da uno stato di sofferenza. La Corte costituzionale con sentenza n. 242/2019, aiuto al suicidio medicalizzato, ricorda che fra le possibilità previste nei trattamenti sanitari a favore di un paziente vi debbano essere le cure palliative e fra queste la possibilità della sedazione profonda. Cure palliative finalizzate a migliorare la qualità della vita sia del paziente che della sua famiglia, considerati come unica entità di cura. Scrive la Corte che è necessario offrire sempre alla persona concrete possibilità di accedere a cure palliative, anche diverse dalla sedazione, di modo che siano “un prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”. Sebbene le cure palliative siano oggi previste nelle strutture sanitarie, può essere opportuno ricordare che già in passato si ricorreva a questi trattamenti sanitari soprattutto per consentire al paziente di non dover affrontare dolori insopportabili. Può essere opportuno ricordare “La carta europea dei diritti del malato” (15 novembre 2002), che al punto 11 afferma che ogni paziente ha il diritto di evitare quanta più sofferenza possibile in ogni fase della sua malattia, avvalendosi fra gli altri mezzi di cura delle cure palliative. In Italia acquisivano importanza l’accordo Stato-Regioni del 2001 con il Progetto “Ospedale senza dolore” e nel 2005 la Carta dei diritti sul dolore inutile dell’organizzazione Cittadinanza attiva si rifaceva alle cure palliative. Non manca inoltre diversa giurisprudenza che, richiamandosi in specie all’art. 32 della Carta costituzionale e altresì all’articolo 700 p.c., imponga la somministrazione di cure palliative. Siamo, comunque, ancora in una giurisprudenza oscillante e non univoca soprattutto per quanto poteva riguardare la responsabilità del medico che mostrasse negligenza o imperizia nell’ambito di situazione che il paziente viveva in balia di dolori e sofferenze. La legge 38/2010 ha dissipato ogni dubbio circa la sussistenza di un diritto soggettivo dei pazienti ad usufruire delle cure palliative nei confronti dei medici, sebbene non abbia previsto la “sedazione profonda” e non abbia introdotto nuove fattispecie di reato. La normativa verrà ripresa dal DPCM del 12gennaio 2017 (art. 23 Cure palliative domiciliari) nei livelli essenziali di assistenza. La successiva legge 219/2017 all’art. 2 (Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita) sulle cure palliative richiama come legittima la sedazione profonda e ha ritenuto opportuno tornare a precisare: “che il medico... deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore... con l’erogazione delle cure palliative...”. Con le leggi 38/2010 e 219/2017 e con la sentenza della Corte costituzionale 242/2019 le cure palliative e la terapia del dolore diventano, dunque, un diritto da assicurare ai malati e a questo diritto fanno da contraltare le responsabilità in capo ai sanitari e alle strutture sanitarie e la possibilità del risarcimento del danno nella duplice ottica della responsabilità contrattuale ed extra-contrattuale. Questo presuppone anche una formazione sempre più specifica per i professionisti sanitari e l’importanza della ricerca per lo sviluppo di pratiche innovative. Ancora va segnalato l’obbligo di riportare la rilevanza del dolore all’interno della cartella clinica e la sua evoluzione nel corso del ricovero. Un passaggio decisivo è stato anche l’abbandono dello stretto collegamento alla prossimità della morte e l’ampliamento dell’ambito delle cure palliative a tutte le malattie cronico-evolutive. Tuttavia il rapporto annuale rilasciato dal Ministero della salute al Parlamento continua a confermare l’insufficiente sviluppo delle cure palliative sul territorio nazionale, specie per quanto riguarda l’offerta assistenziale in regime residenziale, domiciliare. Nell’ambito del fine vita alcuni malati considerano le cure palliative e la sedazione profonda, soprattutto se prolungate, contrarie alla propria dignità, preferendo un percorso più rapido di morte. I valori, dunque, che il paziente attribuisce alla pratica palliativa sono diversi da quelli che vuole affermare richiedendo l’aiuto a morire e che consistono nella valorizzazione della propria dignità e autonomia. Tuttavia, il dramma personale dell’elaborazione della propria morte non dovrebbe escludere l’offerta di condizioni migliori per trascorrere con minor dolore e sofferenza il tempo rimanente dell’esistenza. Qualunque sia l’importanza che si attribuisce alla richiesta di assistenza a morire, questa non deve mai essere una scelta obbligata da uno stato di sofferenza, che oggettivamente sarebbe riducibile attraverso cure palliative adeguate. Migranti. La regola del disumano di Francesco Strazzari Il Manifesto, 31 gennaio 2025 Difficile trovare un Paese in cui a sparare sull’immigrazione non si guadagnino voti. La nostra “premier forte” lo è con i disperati, non con trafficanti e torturatori. “Io non sono ricattabile”, concluse la “premier forte”, mentre i corifei del governo, disseminati nei talk show, invocavano la ragion di stato a giustificare la scarcerazione e il comodo volo per Tripoli di chi a Tripoli ha conquistato la fama di torturatore-in-capo. La grande realpolitik degradata ad impunità per i seviziatori. A nessuno sfugge quanto gravi siano le accuse e le testimonianze, né l’ampiezza degli affari del capomilizia in questione. Evocato il sacrificio delle procedure sull’altare della sicurezza nazionale, ecco gli stessi commentatori invocare garantismo e presunzione di innocenza. La macchina della tortura in Libia continua macinare corpi, mentre Meloni che doveva dar la caccia ai trafficanti per tutto l’orbe terracqueo denuncia i giudici internazionali e quelli domestici. Rinchiudiamo i disperati incappati nelle reti e caliamo silenzi sui pesci grossi capitati a tiro. L’indugio del ministro Nordio trasmette un messaggio che va oltre il caso specifico, imponendo uno spazio di discrezionalità dell’esecutivo che non è previsto dalla stessa legge italiana che recepisce il Trattato di Roma. È un messaggio agli organi giudiziari che si occupano di diritti umani. Poi arriva il grottesco capolavoro del ministro Piantedosi, che espelle il capobanda in quanto pericoloso, rimettendolo al comando esatto del mondo di violenze e abusi che lo ha reso tale. Come se fosse pericoloso per la Nazione, per essersi recato allo stadio a vedere Juventus-Milan. Siamo talmente forti e prestigiosi che ci siamo tolti il cappello davanti a chi è accusato di ogni efferatezza su adulti e bambini. Del resto, il costo del calo degli sbarchi registrato lo scorso anno non è un mistero. Secondo il rapporto State trafficking (Tratta di stato) che Border forensics, No border e Asgi hanno presentato a Bruxelles, le bande libiche si riforniscono di migranti (l’oro nero) in Tunisia. Il prezzo si aggira sulla dozzina di euro a persona. I ricercatori gettano luce su “un’orribile catena logistica di abusi e sfruttamento, resa possibile dagli accordi tra l’Ue e la Tunisia”: polizie e soldati tunisini radunano i migranti nelle città costiere, per poi spedirli verso il confine libico su bus, talvolta ammanettati, talvolta abusati sessualmente. Il prezzo delle donne, potenziali schiave, sale fino a 120 euro. In Libia si passa ad ancor più squallidi centri di detenzione nel deserto, dove i rapitori abusano dei migranti e contattano le famiglie chiedendo un riscatto. Il rapporto cita la prigione di al Assah, controllata dalla Guardia di frontiera libica, e beneficiaria dell’assistenza Ue. Difficile trovare un paese in cui a sparare sull’immigrazione non si guadagnino voti. I meccanismi di respingimento immediato (evitare l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria), così come quelle di rimpatrio facile, si diffondono attraverso misure che sono solitamente adottate in via temporanea (o ristrette a circostanze particolari) ma che non vengono più smantellate. Ci parla di questo il voto che in Germania ha accomunato Cdu e Afd nell’imminenza delle elezioni. I primi confinamenti di massa furono in Australia. Da allora, una lunga genealogia, che passa per l’Ungheria, e arriva fino al confine fra Carelia finlandese e Carelia russa. Già sotto Biden abbiamo visto i bambini migranti nelle gabbie, strappati all’abbraccio dei genitori. Poi Elon Musk - il miliardario che attacca la magistratura italiana sui migranti in Albania - in posa da safari umano, sul confine del Texas. In questi giorni, la neo-ministra Usa Kristi Noam, munita di Rolex e giubbotto antiproiettile, si è fatta fotografare nel bel mezzo dei raid contro i “criminali immigrati”. Nelle stesse ore, rimbalzava sui media la notizia, poi smentita, dell’intenzione di Donald Trump di deportare palestinesi da Gaza all’Albania. Del resto, Trump ha parlato di ripulire (clean out) Gaza, e il genero Jared Kushner ha mire immobiliari in entrambi i territori. Infine, ecco l’annuncio dell’ampliamento nientemeno che di Guantanamo, da destinarsi agli aliens da deportare. La parola alieno, con la quale è designato lo straniero, già da sola allontana da una grammatica umana. Dovrebbe ricordarci quando il crimine organizzato in America veniva ridotto ad alien conspiracy: gli scuri immigrati italiani contro i civilissimi cittadini di ceppo anglo-germanico. Ma il senso della storia latita, e così meglio lasciarci rasserenare da Federico Rampini che spiega come sia opportuno tradurre “la più grande deportation della storia degli Usa” con il termine “rimpatrio”. Arrivano le immagini dei latinos rastrellati e rapidamente incolonnati verso gli aerei, con le catene a mani e piedi, ma non si usino parole che allarmano. Una parte significativa di opinione pubblica pare rassegnata davanti a quella che viene presentata come la nuda realtà (il realismo, la realpolitik, eccetera) e ormai rifiuta di informarsi. Parecchi si girano dall’altra parte. Come lasciò scritto alle figlie Luca Rastello, “quasi sempre quella che si presenta come la vita com’è, secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa”. Questo amore è sempre meno segreto, il disumano sembra pagare. La prima domanda che andrebbe posta alla premier, perché possa mostrarsi forte anche con gli strongmen è che cosa stiamo facendo perché si chiudano quei posti che il Papa chiama i lager libici. Migranti. Albania, asilo negato. Oggi le decisioni sui trattenimenti di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 gennaio 2025 Sono state tutte respinte, come nei round precedenti, le richieste d’asilo dei 43 migranti rinchiusi a Gjader. Unica eccezione quella di un uomo ritenuto vulnerabile mercoledì e trasferito in Italia. La Commissione territoriale per l’asilo, in modalità express, ha dichiarato le domande di protezione “manifestamente infondate”. “La Commissione opera chiaramente in continuità con la manifesta volontà dell’esecutivo di respingere i richiedenti asilo, in spregio al diritto internazionale, europeo e costituzionale”, attacca il Tavolo immigrazione e asilo (Tai), che monitora i centri d’oltre Adriatico. “Le persone non hanno potuto farsi assistere da un legale né sono state messe in grado di prepararsi per le audizioni con adeguata informazione legale”, afferma il Tai. In ogni caso si dovranno attendere le decisioni sui trattenimenti che prenderà oggi la Corte d’appello di Roma: se negative i richiedenti saranno liberati, in caso contrario il governo dovrà spiegare come intende procedere, ricorsi permettendo, ai rimpatri dall’Albania entro quattro settimane. A livello generale, comunque, pesa il nuovo clima politico internazionale con l’ondata di estremismo di destra che unisce le deportazioni trumpiane al crollo della diga antifascista in Germania. In questo clima il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha partecipato ieri in Polonia al consiglio informale Ue su Giustizia e affari interni. “Valutiamo la possibilità di effettuare i rimpatri dei migranti illegali in Stati terzi dove realizzare hub europei”, ha detto sottolineando il consenso anche sulle politiche dell’esecutivo italiano. Fuori dai meeting resta la realtà delle persone che provano ad attraversare il mare: è morta la bimba di sette anni rianimata mercoledì a bordo della nave Ocean Viking, dopo essere stata soccorsa in mare insieme ad altri 91 naufraghi. Io, architetto delle prigioni libiche vi dico: barriere e repressione non bastano a fermare i migranti di Domenico A. De Rossi Il Riformista, 31 gennaio 2025 Il caso dell’espulsione del generale Almasri dall’Italia offre l’occasione per riflettere in parte anche sulla crisi libica, determinata dall’aggressione bellica e dalla questione migratoria. La mia esperienza come architetto, richiesto nei primi anni Duemila dal Governo di Tripoli in un progetto ONU per la realizzazione di nuove carceri, mi ha permesso di approfondire le dinamiche del Paese. Nel 2003 dopo la riconversione politica di Gheddafi, le Nazioni Unite affidarono alla Libia la presidenza della Commissione per i Diritti Umani. Tra i primi atti del governo ci fu quello di creare un piano organico per le carceri a norma dei Diritti umani. La Libia ha caratteristiche territoriali particolari da rammentare: a nord ha una lunga costa che si affaccia sul Mediterraneo, mentre i suoi confini terrestri ad ovest, sud ed est sommano in totale oltre 3800 km, la distanza lineare tra Londra e Mosca. Un territorio difficile da controllare lungo tutte le frontiere che lo dividono dagli altri stati. Di fatto è un crocevia di migrazioni. Contrariamente a quanto si pensa, la Libia non è l’origine di flussi migratori, essa ne subisce l’impatto iniziale senza strumenti adeguati. Molti dei migranti che penetrano nel territorio non superano il Sahara che inghiotte vite senza lasciare traccia. Collaborando con l’Università di Tripoli e con gli uffici governativi, ho conosciuto da vicino le complessità aggravate dalla guerra di aggressione voluta dalle potenze occidentali e dall’imperialismo monetario francese. Dietro la scusa di eliminare la dittatura del Colonnello si mirava a fermare il progetto libico di una valuta africana indipendente che avrebbe messo fuori gioco la moneta francese. Oggi la Libia continua a chiedere sostegno come responsabilità storica dall’Europa e dall’Italia. Servirebbe pertanto una visione geopolitica condivisa e non egoistica. In quest’ottica, il Piano Mattei di Giorgia Meloni può rappresentare un passo importante per un riequilibro sistemico di quelle regioni: investire in Africa per offrire opportunità sul posto, riportando ad una economia circolare quelle popolazioni che fuggono dalla fame e dal disordine. La “restituzione” alla Libia di Almasri risponde a ragioni di Stato ufficialmente inconfessabili. Esse probabilmente riguardano una parte del lavoro “duro” praticato in quelle regioni. Violenze non dichiarabili agli occhi dell’Occidente e dell’opinione pubblica. Responsabilità di quei regimi il più delle volte finalizzati alla dissuasione prima e ai respingimenti violenti poi sullo stesso territorio africano. Operazioni volte ad alleggerire l’epocale flusso migratorio. Nella società di oggi, il modo in cui si descrivono i fenomeni ha un impatto enorme sulla percezione della realtà. Il modo stesso di come si osserva qualcosa ha la capacità di modificarla. Il modo in cui la descriviamo contribuisce a definirla. Questo vale a maggior ragione anche per gli atti politici. Le narrazioni dei mass media, tra visioni utopiche e scenari pessimistici, influenzano sia l’opinione pubblica che le stesse scelte politiche e non solo. I politici, sempre attenti al consenso, si basano su queste rappresentazioni per orientare le loro decisioni. In un periodo di crisi economica e sociale, il flusso dei migranti è diventato lo specchio di un disagio che la società non riesce a risolvere altrove. Il sistema politico a fronte dei Diritti universali della persona umana, si esprime sulla tenuta dei principi costituzionali. Può essere il luogo in cui si affermano diritti e dignità oppure quello in cui vengono segretamente negati per la ragion di Stato. È più che ovvio quindi che il “lavoro” di respingimento duro compiuto dalla polizia libica, anche prima del governo Meloni, da tempo torni comodo ai paesi europei e non solo all’Italia. Tanto comodo ma ufficialmente esecrabile, come la Corte penale internazionale dell’Aia è venuta a ricordare con la condanna. Barriere e repressione poliziesca non bastano. Solo cooperazione e responsabilità condivise possono affrontare questa sfida globale. Indipendentemente dalle toghe.