Consulta, salta l’accordo sui giudici di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 gennaio 2025 Rinvio di almeno due settimane. Il ministro Ciriani: non c’è il clima bipartisan. Lo stallo sul nome di FI. Slitta ancora, “almeno di due settimane”, l’elezione dei quattro giudici mancanti alla Corte Costituzionale. Un effetto collaterale del caso Almasri che infiamma i rapporti tra maggioranza e opposizione. Ma non solo. “Il clima non mi pare che sia di quelli che consentono un voto bipartisan”, ha dichiarato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, che ne detiene il termometro, fornendo la motivazione ufficiale di un ennesimo rinvio certamente non auspicato dal Quirinale. Ma molti, a microfoni spenti, ieri dicevano che il motivo del rinvio è che non ci sono ancora i nomi sul tavolo. Quelli dei 4 giudici, infatti, devono essere scritti sulla stessa scheda ed eletti nella medesima votazione. Maggioranza e opposizione concordano nella logica di “pacchetto”: due dalla maggioranza, uno dall’opposizione e un quarto “tecnico”. Ma se FdI resta convinta di sostenere Francesco Saverio Marini e il Pd pensa di ottenere il consenso su Massimo Luciani, sugli altri due è buio. Manca il nome di Forza Italia. Dopo aver oscillato tra il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, e il senatore Pierantonio Zanettin, si annuncia di aver deciso ma di non voler dire il nome per non “bruciarlo”. Giungono echi di accese discussioni interne tra le due anime del partito. Sfumata l’ipotesi di una pace sul nome dell’avvocato Andrea Di Porto, che non entusiasmava Ronzulli e i suoi, il dossier è ora direttamente nelle mani di Antonio Tajani. Ma anche sul candidato “tecnico” si discute. Maggioranza e opposizioni si accusano reciprocamente di proporre candidati che in realtà sono connotati politicamente. Oltretutto il riserbo di FI sul candidato manda all’aria il già difficile sudoku, non consentendo di capire se sia stata tutelata o meno la componente femminile. Ove il giudice di area FI fosse un uomo si propenderebbe per una donna come candidato tecnico. Quindi se ne riparlerà tra “almeno due settimane” si sussurra in Transatlantico. Un po’ perché al Senato nella prossima settimana non sono previste sedute d’Aula, ma solo di commissione. E la presenza dei senatori è meno compatta. Un po’ perché il muro contro muro sulla richiesta delle opposizioni che siano la premier Meloni o i ministri Nordio e Piantedosi a riferire in Aula sul riaccompagnamento in Libia del torturatore Almasri inquina i rapporti. Un po’ perché la “quadra” non c’è. Con buona pace del massimo organo di legittimità costituzionale costretto a lavorare a ranghi ridotti. È undici il numero minimo di giudici richiesto. E sono esattamente undici quelli rimasti. C’è la concreta eventualità quindi che anche una sola assenza, magari per motivi di salute, o una incompatibilità, paralizzi le decisioni. Senato, avviato l’iter per la separazione delle carriere. Sisto: “Avanti spediti” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 gennaio 2025 Partito ieri mattina in commissione Affari costituzionali del Senato l’esame della riforma per la separazione delle carriere approvata dalla Camera nella prima delle quattro letture richieste. Il relatore, il presidente meloniano della stessa commissione, Alberto Balboni, ha fatto la relazione illustrativa sul ddl costituzionale. Si è deciso anche che entro mercoledì 5 febbraio alle 12 potranno essere presentate le richieste di audizioni: 25 da parte delle opposizioni e altrettante della maggioranza. Poi si deciderà il termine per la presentazione degli emendamenti. Ieri il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha ricordato come governo e maggioranza vadano avanti spediti verso l’obiettivo finale del referendum popolare: “Il percorso delle riforme non si ferma, con la decisione e la credenze di chi ha cuore puro e retta coscienza”. Come spiegare questa decisione di effettuare delle audizioni, previsione impossibile fino a qualche giorno fa perché il Governo e la maggioranza volevano chiudere subito in Senato? C’era sicuramente da registrare una certa irritazione da parte dei senatori del centrodestra che non vogliono passare come i semplici passacarte delle riforme approvate già alla Camera. Inoltre non si vuole alzare la palla alle opposizioni per dire che la maggioranza soffoca il dibattito. Come ci spiega proprio Balboni “la democrazia è fatta di dialogo propedeutico poi ad una decisione. Non si può rinunciare a nessuno dei due. Come presidente della Commissione ho sempre favorito il confronto. Essendo quella della separazione delle carriere una riforma costituzionale significativa è giusto accogliere i pareri degli esperti, anche perché c’è una attenzione da parte dell’opinione pubblica sul tema e noi vogliamo offrire tutti i punti di vista. Ma bisogna essere chiari su due punti. Il primo: la scelta di fare delle audizioni è per favorire il confronto, non per dare all’opposizione l’opportunità di impantanare la riforma. Secondo: l’opposizione non può pretendere di dettare legge alla maggioranza”. Abbiamo chiesto al presidente Balboni su quali aspetti della riforma si potrebbe aprire un dialogo. Pensiamo ad esempio al sorteggio, visto che una parte della magistratura potrebbe ingoiare quello temperato al posto di quello puro per i membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura. Ci ha risposto il senatore: “i primi segnali che ci arrivano dall’Anm non mi sembrano di apertura al confronto. Comunque vorrei ricordare che nell’antica Grecia, patria della democrazia, i magistrati venivano sorteggiati”. Replica il senatore dem Alfredo Bazoli: “è il minimo sindacale riaprire l’istruttoria al Senato e prevedere delle audizioni. Sarebbe curioso per non dire inaccettabile rifiutare un confronto e un approfondimento su una riforma costituzionale. Quando stamattina (ieri, ndr) abbiamo sentito dire al vice ministro Sisto che si sarebbero potute acquisire semplicemente le audizioni effettuate alla Camera siamo sobbalzati dalla sedia”. Sulle possibilità di cambiamenti del testo Bazoli non è fiducioso: “intanto facciano le audizioni e presentiamo gli emendamenti. Poi si vedrà. Ma dall’atteggiamento della maggioranza e soprattutto di Sisto non mi sembra ci siano spazi di aperture di modifica”. Proprio sul sorteggio ieri all’Agi ha parlato il giudice Andrea Reale, appena rieletto nel parlamentino dell’Anm nel gruppo dei CentoUno: “Per la legge elettorale del Csm la soluzione che potrebbe garantire ciò che già la Costituzione prevede è un sorteggio temperato dove si possa selezionare casualmente un numero multiplo dei membri previsti, per poi esercitare l’attuazione dell’elettorato attivo su quei nominativi. Il voto senza il sorteggio significherebbe il rischio di ricerca di consenso e il consenso si paga”. Ma il voto non è la massima espressione della democrazia? “Il Csm - ha risposto Reale - non è un organo politico, ma un organo tecnico di alta amministrazione. Un sistema “temperato” permetterebbe, anzi, favorirebbe il recupero della missione culturale delle correnti che invece costituiscono oggi dei centri di potere che spesso amministrano con pallottoliere e manuale Cencelli”. Atto dovuto o eccesso di zelo dei pm? Giuristi divisi sull’”avviso” al Governo di Simona Musco Il Dubbio, 30 gennaio 2025 Il procuratore di Roma era obbligato a inviare al Tribunale dei Ministri l’esposto contro Meloni e i suoi ministri, o aveva la libertà di “cestinarlo”? Azzariti: “Lo Voi ha rispettato la legge”. L’Ucpi: “Nessun automatismo”. Il procuratore di Roma Francesco Lo Voi era obbligato a inviare al Tribunale dei Ministri l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti contro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i suoi ministri? O aveva libertà d’azione e, dunque, anche quella di cestinare l’esposto, se ritenuto infondato, lasciando la questione al solo piano politico? “Il procuratore non poteva fare nulla se non quello che ha fatto, in conformità all’articolo 6 della Legge Costituzionale del 16/1/1989”, spiega al Dubbio Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza de “La Sapienza”. Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sono attualmente indagati per favoreggiamento e peculato per il contorto rimpatrio del comandante libico Osama Najim Almasri, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità e riportato a casa con un volo di Stato. La premier, in un video pubblicato sui social, ha anticipato le possibili fughe di notizie, annunciando personalmente di essere indagata. E parlando, impropriamente, di avviso di garanzia. Cosa che Lo Voi, stando alla legge, non avrebbe potuto notificare. Ed infatti non lo ha fatto: quella consegnata a Meloni e ai suoi a Palazzo Chigi è infatti una comunicazione, sulla base dell’articolo 96 della Costituzione, in base al quale il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro 15 giorni trasmette tutti gli atti al Tribunale dei Ministri e ne dà immediata comunicazione ai soggetti interessati affinché possano presentare memoria al Parlamento, che deciderà, poi, se incriminarli o meno. “Dopo la denuncia di Li Gotti, la procura non si è mossa, non ha indagato - spiega Azzariti -, facendo ciò che era previsto, ovvero comunicare ai soggetti interessati la notizia della denuncia”. L’unica verifica consentita a Lo Voi era quella relativa all’esistenza di un fatto configurabile, astrattamente, come reato. Il fatto - il silenzio di fronte alla richiesta della Cpi, la scarcerazione e il volo di Stato per il rimpatrio di Almasri - c’è. E i reati di favoreggiamento e peculato sono, dunque, astrattamente configurabili. Fatta quest’unica verifica, dunque, il procuratore ha spedito il tutto al Tribunale competente. Lo Voi avrebbe potuto applicare al caso la famosa circolare di Giuseppe Pignatone, con la quale, nel 2017, impose una certa cautela al suo ufficio, per evitare iscrizioni frettolose, in chiave garantista? Secondo quel documento, l’iscrizione è “atto dovuto” solo quando ci sono “indizi specifici”, emersi dalla necessaria “valutazione” del pm sul contenuto delle notizie di reato. Tale circolare, però, non solo è soccombente rispetto alla norma di rango costituzionale, ma non si applica al caso specifico, spiega Azzariti. “La circolare vuole evitare le iscrizioni frettolose e a tal fine è necessario accertare la sussistenza dei fatti prima di avviare l’indagine”, sottolinea. Nel caso in questione, dunque, Lo Voi si è mosso entro i confini di quella prima verifica, unico lavoro di accertamento concesso. “La procura doveva verificare la sussistenza del fatto e che lo stesso sia astrattamente codificabile come reato. Ma non si sta indagando, non si sta stabilendo la fondatezza della denuncia di Li Gotti - sottolinea -. Qui siamo di fronte ad una comunicazione a tutela dei soggetti interessati che in questa fase, certamente, non hanno nulla da temere. Ed è molto plausibile che tra 90 giorni tutto si fermi con il no del Parlamento a procedere”. Solo una volta superato il vaglio del Tribunale dei Ministri, infatti, inizierebbe l’indagine vera e propria. Ma il fatto giuridicamente, oltre che politicamente, più controverso, secondo il costituzionalista, è la scelta di non dare seguito ad una richiesta di arresto da parte della Cpi. “Il fatto che l’Italia, qualunque sia la ragione, non abbia risposto ad una esplicita richiesta della Corte penale internazionale è un fatto discutibile - sottolinea -. Credo che a questo il governo dovrà dare risposte, non a un giudice, ma a due soggetti: al Parlamento, in sede politica, e alla Corte penale internazionale. E a me, come giurista, questo secondo aspetto preoccupa più del primo: oggi il diritto internazionale si è infragilito e c’è insofferenza nei confronti della Cpi e del diritto internazionale stesso. La cosa è certamente preoccupante. E rilevo con stupore che a fronte delle richieste della Cpi il governo abbia reagito chiedendo chiarimenti sul perché ci abbia messo 12 giorni per emanare un mandato d’arresto. Pensare che la Corte penale internazionale complotti contro il governo italiano è una cosa che mi lascia incredulo - conclude - e soprattutto credo che sarebbe cosa buona e giusta salvaguardare la giurisdizione di un tribunale che è stato istituito a Roma”. Di parere totalmente contrario la Giunta dell’Unione delle Camere penali: “Come chiarito fin dal 2009 dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la famosa sentenza “Lattanzi” - si legge in una nota -, il pubblico ministero è onerato di verificare se le condotte descritte nell’eventuale esposto possano essere ritenute, anche solo astrattamente, penalmente rilevanti, e ove questo giudizio dia esito negativo, non deve procedere ad alcuna iscrizione. La legge costituzionale numero 1 del 1989 che prevede poi, per i reati che si ipotizza siano stati commessi dal presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, l’obbligo di avviso alle persone interessate e la trasmissione al Tribunale dei Ministri, deve ovviamente essere letta alla luce della regola generale. Ne discende che non esistono automatismi”. Non sarebbe dunque dovuta “l’iscrizione di una notizia che non abbia un minimo di fondamento e tale valutazione spetta, appunto, al pubblico ministero”. Il caso Almasri, secondo l’avvocato Nicola Canestrini, penalista esperto di diritto internazionale, “costituisce un grave precedente”, dal momento che il nostro Paese, come Stato parte della Cpi, “ha l’obbligo inderogabile di cooperare con la Corte ai sensi degli articoli 86-89 dello Statuto di Roma”. Il che potrebbe comportare una indagine della Cpi “per mancata cooperazione”, con ripercussioni politiche e giuridiche: “L’Ue e le Nazioni unite - spiega - potrebbero intervenire, data l’autorizzazione della missione della Cpi in Libia tramite la Risoluzione Onu 1970/2011”. Pareri opposti avvocati magistrati e giuristi giudicano il caso Almasri di Angela Stella L’Unità, 30 gennaio 2025 Il Procuratore di Roma era obbligato ad aprire l’indagine? Avrebbe potuto farlo anche senza la denuncia di Li Gotti? C’è stato peculato e favoreggiamento? C’è stata la violazione degli accordi con l’Aja? L’indagine che coinvolge la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il Sottosegretario Alfredo Mantovano, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per favoreggiamento e peculato in relazione al rimpatrio del comandante libico Osama Najim (Almasri) rappresenta un problema politico e giuridico, sul piano nazionale ed internazionale. Tra le diverse questioni che si stanno affrontando ce ne sono due che cerchiamo qui di affrontare: si poteva procedere contro i quattro, a prescindere dall’esposto dell’avvocato Li Gotti? E l’iscrizione nel registro degli indagati da parte di Voi è un atto dovuto? Abbiamo raccolto pareri di avvocati, magistrati, costituzionalisti ma il tema resta complesso. E i pareri non sono concordi. Per l’avvocato Oliviero Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la denuncia non poteva essere presentata a prescindere dall’esposto dell’avvocato Li Gotti: “non ravviso una notizia di reato. L’arresto di Almasri è stato illegittimamente eseguito dalla polizia di sua iniziativa, mentre spetta al Ministro della Giustizia tenere direttamente i rapporti con la Corte penale internazionale (art. 2 e 14 l. 237/2012). In materia di estradizione o di rapporti internazionali le decisioni finali sono politiche e sindacabili solo a livello politico, non certo penale”. Per quanto concerne l’iscrizione nel registro degli indagati, Mazza conclude: “La denuncia presentata riguardava una pseudo notizia di reato da iscrivere a modello 45 senza originare un procedimento penale. Non direi proprio che l’iscrizione fosse un atto dovuto”. Invece per l’avvocato Michele Passione, del Foro di Firenze e componente del Comitato scientifico de La Società della Ragione, “pur essendoci un delicato rapporto tra gli articoli 330 e 335 del codice di procedura penale e l’articolo 6 della legge 1 del 1989 che disciplina i procedimenti a carico dei membri del Governo, tuttavia credo che poiché la notizia che riguarda Meloni e gli altri membri del Governo non sia la rappresentazione di un fatto inverosimile ma determinato, ferma poi la valutazione che verrà data dal Tribunale dei Ministri, penso che la notizia di reato potesse essere acquisita in autonomia a prescindere dall’iniziativa dell’avvocato Li Gotti”. Secondo il pubblico ministero Rocco Maruotti, appena rieletto nel parlamentino dell’Anm in quota AreaDg, tra i papabili alla presidenza dell’Anm: “La trasmissione degli atti al Tribunale per i Ministri è stato un atto dovuto, come previsto dalla legge costituzionale n. 1/89, che impone anche di darne comunicazione ai ministri interessati ed al Presidente del Consiglio per consentire da subito la più ampia difesa. Chi afferma cose diverse da queste, chi ipotizza atti strumentali o persino ritorsivi della magistratura contro la politica, non dice la verità e intende sfruttare la vicenda per fini propagandistici, ma soprattutto non rende un buon servizio alle istituzioni, non aiuta a risolvere le tensioni già esistenti tra politica e magistratura e neppure consente ai cittadini di comprendere la reale portata della vicenda”. Rispetto alla possibilità di aprire una indagine appena il libico è stato rimpatriato Stefano Celli, pm di Magistratura Democratica, ci dice: “Non sono un esperto della materia, però il governo, nel suo complesso, compie atti politici. E bisogna capire se la richiesta di misura cautelare per Almasri, quale adempimento di un obbligo internazionale, sia caratterizzata da discrezionalità tecnica o politica. Se, come mi pare a prima vista, è la seconda (politica) mi pare difficile ipotizzare un rifiuto di atti di ufficio. Se procedere d’ufficio o a denuncia è un falso problema. Se c’è la ragion di stato che motiva la liberazione del soggetto, la ragion di stato può giustificare il trasporto in Libia. Il fatto è che nessuno del Governo dice: ‘abbiamo deciso che era meglio così, altrimenti sarebbero arrivati 10.000 disperati liberati dalle galere libiche in tre giorni’. Tuttavia questo è un fatto politico, da valutare politicamente, che dà luogo a responsabilità politica”. Secondo Salvatore Curreri, ordinario di Diritto costituzionale e pubblico comparato presso l’Università di Enna, “si poteva procedere a prescindere dalla denuncia, in base all’art. 330 Codice di procedura penale per cui ‘il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse’. Se il pubblico ministero fosse vincolato dalle notizie di reato pervenute dai semplici cittadini, potrebbe sussistere l’ipotesi che un reato non segnalato non sarebbe perseguibile. Il che sarebbe assurdo”. Discorso più ampio quello di Nicola Canestrini, avvocato abilitato a difendere dinanzi alla Corte Penale Internazionale: la questione pone in “effetti un problema per la giustizia. Ma non quella italiana, come ha falsamente affermato la Presidente via social, ma per la giustizia internazionale, creando un caso senza precedenti nel rapporto tra l’Italia e la Corte Penale Internazionale (CPI)”. Secondo Canestrini “il caso Almasri rappresenta un precedente gravissimo sotto il profilo del diritto internazionale e della cooperazione giudiziaria. L’Italia, in quanto Stato parte della CPI, ha l’obbligo giuridico di eseguire gli arresti e consegnare i soggetti ricercati dalla Corte. Il mancato rispetto di questo obbligo configura una violazione degli artt. 86-89 dello Statuto di Roma. Dopo la recente decisione del governo Meloni di limitare la cooperazione con la CPI sull’indagine relativa ai crimini di guerra a Gaza, questo nuovo caso rafforza la percezione di un atteggiamento ostile dell’Italia nei confronti della giustizia internazionale. Il comportamento del governo potrebbe compromettere i rapporti con l’UE e con altri Stati membri della CPI, che potrebbero riconsiderare la fiducia nella cooperazione giudiziaria con l’Italia. Il Procuratore della CPI potrebbe avviare un’indagine formale per accertare le responsabilità del governo italiano, con potenziali ripercussioni diplomatiche e giuridiche”. Il legale conclude: “La mancata azione del Ministro della Giustizia, seguita dall’espulsione immediata del ricercato per assicurarsi della sua impunità e per evitare il riesame del caso, solleva seri dubbi sulla volontà dell’Italia di rispettare gli obblighi derivanti dallo Statuto di Roma. Se l’Italia, Stato fondatore della CPI, sceglie di non rispettare i suoi obblighi, quale messaggio viene inviato agli altri Stati ed alla comunità internazionale?”. Atto voluto, non dovuto. La storia d’Italia spiegata attraverso le esondazioni dei pm di Gian Domenico Caiazza* Il Foglio, 30 gennaio 2025 Voglio essere molto chiaro: reputo la scelta politica del ministro Nordio e del governo Meloni di non dare esecuzione al mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di una persona accusata di crimini contro l’umanità e di nefandezze di ogni genere e specie, gravissima nel merito, e addirittura penosa nelle modalità della sua adozione. Lontana anni luce, per capirci, dalla drammatica e superba rivendicazione di sovranità politica di un Bettino Craxi a Sigonella. Qui siamo al “non lo so, non c’ero, e se c’ero dormivo”. Addirittura, la Presidente Meloni nel suo messaggio video lamenta che la Cpi non avrebbe avvertito il ministro Nordio, alludendo forse - provo a immaginare - al mancato invio di una letterina su carta intestata, o forse a una pec, chissà. Il quale Nordio, invece, è stato formalmente informato subito dalla Digos il 19 gennaio, e dalla Procura generale di Roma nuovamente il 20. Ma lui a quanto ci viene detto studiava le carte, mentre Piantedosi approntava l’aereo di Stato per mettere al sicuro il nostro Paese (!) dal pericoloso criminale, riportandolo bel bello a casetta sua. Saremmo alle comiche, se la vicenda non fosse tragica. Questo arresto ci sarebbe costato troppo politicamente, visti gli accordi con la Libia in tema di immigrazione? Beh, si abbia il coraggio e la dignità di dirlo e di rivendicarlo, allora. Ma veniamo al punto: a chi altri spetta di istruire, approfondire e giudicare una simile, tremenda scelta politica, se non al Parlamento, alla politica, ed infine al dibattito pubblico? Ed invece, puntualmente, arriva la magistratura. Immancabile, questo infaticabile guardiano della moralità pubblica e privata, e sempre più spesso anche della ortodossia politica, si intromette ed occupa la scena. E lo fa -tiene a precisarlo sistematicamente- a colpi di “atti dovuti”. Non per cattiveria, è che sono costretto. Tra obbligatorietà dell’azione penale, una cosa e l’altra, me ne devo occupare. Qui, per esempio, hai letto cosa ha scritto l’avvocato Li Gotti? Secondo lui si potrebbe configurare, in quella decisione politica, un favoreggiamento personale del torturatore libico. E già che ci siamo, un peculato, per quella storiaccia dell’aereo. Certo sono ipotesi un po’ forti, diciamo, un po’ avventurose, ma le fa quell’avvocato, mica il quisque de populo, quindi sai, come si fa? L’atto è dovuto, poche storie. E subito l’Anm, sussiegosa, ammonisce: leggetevi l’art. 6 comma 1 legge costituzionale n.1/89, la trasmissione al Tribunale dei ministri è atto dovuto. Si, mi permetto di aggiungere, ma sempre dopo una doverosa, ineludibile delibazione di almeno apparente plausibilità della notizia criminis, tant’è che il comma 2 prevede che la procura trasmetta al Tribunale dei ministri “con le sue richieste”. Insomma, mi sentirei di escludere che la procura di Roma sia tenuta da quella legge costituzionale a trasformarsi in una specie di postino dell’avvocato Li Gotti. Starei molto attento ad accreditare una simile idea perché, se le cose stanno così, gli oppositori più petulanti del governo potranno da oggi sbizzarrirsi, mitragliando esposti contro ministri e presidente del Consiglio per ottenerne l’automatico impegno investigativo del Tribunale dei Ministri, o altrimenti rendendosi pronti ad accusare la Procura di Roma di inammissibile faziosità politica: perché quello sì, e il mio esposto no? Questo tormentone dell’”atto dovuto” segna e scandisce la storia politico-giudiziaria del nostro paese da oltre trent’anni. Una norma di garanzia si è trasformata nella formidabile arma in mano alle procure italiane per segnare le sorti della politica. La sinergia con il feticcio dell’azione penale obbligatoria (che è invece di fatto discrezionale da decenni), coniugata con l’anticipazione ormai definitiva dello stigma sociale dalla sentenza di condanna alla mera incriminazione, hanno rappresentato e rappresentano la formula magica che ha alterato l’equilibrio costituzionale tra i poteri, conferendo alla Pubblica Accusa una specie di diritto di vita e di morte sulla politica. Per non dire della tempistica di questi “atti dovuti”. Lasciatelo dire a chi, come me, non ha mai votato in vita sua né Berlusconi né il centrodestra: sarà bene ricordare che il famoso avviso di garanzia a Silvio Berlusconi nel giorno solenne della riunione del G7 da lui presieduto nel 1994, fu rivendicato come “atto dovuto”. Era dovuto proprio quel giorno? Non il giorno dopo, o una settimana dopo, no: quel giorno lì. Questo solo per fare un esempio, uno dei più celebri, ma sono tali e tanti nella storia di questo trentennio che potremmo scriverne un bel libro, da intitolare proprio “atti dovuti”, per ricostruirne tempistica, impatto politico ed esito giudiziario finale, e ragionare su questa anomalia democratica che viviamo nel nostro Paese. Una delle cui conseguenze più rilevanti è che qui nessuno più si fida di nessuno, sicché l’attribuzione - anche strumentale e gratuita - di una volontà politica dietro questo o quel provvedimento giudiziario appare sempre e comunque plausibile, in questa condizione di gravissimo deterioramento dei rapporti tra poteri dello stato. Ed ecco che questo “atto dovuto” obiettivamente senza precedenti (un presidente del Consiglio, due ministri e un sottosegretario, tutti - agli occhi del mondo - tirati dentro a una inchiesta giudiziaria sulla base di mere valutazioni soggettive dell’autore dell’esposto sulla possibile rilevanza penale di fatti noti), verificatosi all’indomani della eclatante e scomposta protesta di magistrati sul piede di guerra contro una legittima riforma costituzionale quale quella della separazione delle carriere, scatena letture politiche di quel fatto, subito inteso come la (assai preconizzata e temuta) risposta ritorsiva della magistratura. Giuste o sbagliate, plausibili o arbitrarie che siano, quelle letture, per tutte le ragioni che ci siamo detti, sono per lo meno plausibili. La qual cosa dovrebbe bastare e avanzare per far comprendere a tutti noi che questa storia degli “atti dovuti” ha perso ogni residua credibilità, e che è giunta l’ora di affrontarla e di risolverla al meglio possibile. Più presto si fa, meglio è.? *Presidente Unione Camere Penali Il generale libico, Meloni, i magistrati. Un thriller che rischia di trasformarsi in sceneggiata di Luigi de Magistris* Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2025 Il generale libico, la presidente Meloni, il governo e la magistratura. Un thriller che rischia di trasformarsi in sceneggiata. Tutto inizia il 19 gennaio con l’arresto del generale Osama Njeem Almasri, comandante della prigione di Mittiga e delle forze speciali libiche, su cui pende un mandato di cattura internazionale della Corte penale dell’Aja per crimini di guerra, uccisioni, stupri, torture ed altri orribili delitti commessi ai danni di persone vittime di trafficanti di esseri umani. Il boia libico rimarrà poche ore in carcere perché verrà liberato, per motivi su cui bisogna fare doverosa chiarezza ma che appaiono ictu oculi risibili, e trasportato, su ordine dei vertici del governo italiano, a Tripoli con un Jet Falcon dei servizi segreti italiani. Il governo fa fuggire un latitante e lo riporta, con un volo di Stato, nel luogo in cui ha consumato i crimini contro l’umanità. Le opposizioni insorgono, nei media si apre un dibattito, si chiede chiarezza e ricostruzione dei fatti. Il ministro dell’interno Piantedosi, rispondendo al question time in Parlamento, ci consegna una delle sue perle di saggezza istituzionale: “abbiamo espulso il generale libico perché socialmente pericoloso”. È come se arrestato un terrorista o mafioso latitanti lo stato li manda all’estero e non li tiene nelle patrie galere perché pericolosi. Una pessima figura istituzionale nei confronti della Corte internazionale, dello stato di diritto interno ed internazionale ed un affronto alle vittime del macellaio di carne umana. Un cittadino, avvocato ed ex parlamentare, presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Roma. La magistratura compie gli atti che la legge prevede quando sono denunciati presidenti del Consiglio e/o ministri. In questo caso Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano. Il Procuratore della Repubblica invia, come per legge, una comunicazione agli indagati - l’iscrizione nel registro degli indagati è atto dovuto per legge quando vi è una denuncia specifica nei confronti di persone e reati individuabili - che il procedimento è stato inviato al tribunale dei ministri. Semmai si constata il privilegio di cui godono premier e ministri: un collegio speciale con corsia preferenziale ed addirittura nell’atto giudiziario notificato vi è un saluto vergato a penna di ossequio del Procuratore della Repubblica di Roma, cortesia non riservata ai comuni mortali. La premier riceve la lettera, che non è un avviso di garanzia, e trasforma il thriller, da ricostruire perché la vicenda è inquietante e gravissima, in sceneggiata. In primis, mostra la sua ignoranza, inescusabile per una premier, perché parla di avviso di garanzia quando invece è una sorta di comunicazione giudiziaria. Dice che non è ricattabile, excusatio non petita accusatio manifesta, perché dal momento che non credo si riferisca al procuratore della repubblica di Roma, che tutto è per la sua storia tranne che una toga rossa, di essere un ricattatore, si riferisce evidentemente, come disse immediatamente dopo la liberazione del latitante libico, alle stesse autorità libiche, dalle quali sembra invece temere e subire le ritorsioni di un aumento di flussi migratori come è avvenuto nei giorni di consumazione del thriller. Dopo aver poi bollato il Procuratore come quello della indagine farlocca nei confronti di Salvini, sferra un attacco violento all’avvocato Li Gotti che ha presentato l’esposto, etichettandolo come amico di Prodi e soprattutto, in maniera oscura e sinistra, come difensore di collaboratori di giustizia. Giorgia ha perso la calma. Se qualcuno aveva ancora dubbi su quello che pensano i vertici del governo sulla magistratura, ora la maschera è caduta definitivamente: non accettano il controllo di legalità, disprezzano la Costituzione, odiano la magistratura che indaga sul potere, accelerano sulla riforma della giustizia che ci condurrà fuori definitivamente dall’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Basterà una telefonata del ministro al procuratore ordinando di non indagare? Non si arriverà nemmeno a quello. Non ci sarà più un cittadino o una cittadina che denuncerà il potere e nessun pubblico ministero, comunque, nemmeno d’ufficio, potrà indagare nei confronti del potere. Perché il potere politico sarà legibus solutus, mentre le persone senza potere saranno sempre di più bollate come sovversivi se oseranno mettere in discussione l’ordine costituito. Meloni si è posta fuori dallo stato di diritto per proiettarsi con forza, con una sceneggiata che umilia le istruzioni, nel vicolo cieco dello stato autoritario. *Giurista e politico, già sindaco di Napoli Divieto di arresto in flagranza solo se la malattia mentale è manifesta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2025 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3760 depositata oggi, affermando che la patologia emersa successivamente non ha effetti sulla convalida dell’arresto da parte del Gip. Il divieto di arresto in flagranza della persona incapace di intendere e volere è previsto unicamente nei casi in cui tale condizione si manifesti chiaramente agli agenti operanti. Se invece emerge solo successivamente, grazie all’acquisizione di documentazione medica o altre informazioni, il Gip non può tenerne conto in sede di convalida. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3760 depositata oggi, con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo ristretto in carcere per maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate. Confermata dunque l’ordinanza di convalida del Gip di cui l’avvocato aveva chiesto l’annullamento per la mancata valutazione del “difetto di imputabilità derivante dalle gravi patologie psichiatriche” dell’imputato che è “palesemente incapace di intendere e volere”. Aggiungendo che il medesimo giudice, in un diverso procedimento penale aveva disposto nei sui confronti la misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di cura. Ed insistendo sul fatto che sia i Carabinieri, che il Commissariato di Polizia di Torre del Greco sarebbero stati a conoscenza della “grave compromissione psichiatrica che affligge il ricorrente”. Per la VI Sezione penale il motivo è infondato. “Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità - si legge nella decisione -, l’arresto in flagranza di un soggetto che versi in stato di incapacità di intendere e di volere è illegittimo, perché operato in violazione del divieto posto dall’art. 385, quando tale stato si manifesti chiaramente all’agente operante al momento dell’intervento e cioè sia immediatamente rilevabile da parte degli operanti sulla base di una ragionevole valutazione delle circostanze concrete; in carenza di tale condizione manifesta e, pertanto, ove la non imputabilità si palesi solo in sede di convalida dell’arresto, sulla base della documentazione sanitaria acquisita agli atti e/o dell’interrogatorio svolto, non è consentito al giudice della convalida inserire nello schema valutativo del controllo dell’attività di polizia giudiziaria, conoscenze acquisite aliunde o comunque diverse da quelle poste a base dell’arresto e del fermo” (n. 39894/2024). E dagli atti, prosegue la Corte, risulta che il “verbale di arresto non evidenzia problematiche manifestamente riconducibili a patologia di natura psichiatrica, bensì solo una forte e violenta reattività del ricorrente, oltre che l’uso di sostanze stupefacenti da parte di quest’ultimo”. Il dubbio circa possibili cause di incapacità è, dunque, emerso soltanto in sede di udienza di convalida. Correttamente dunque il giudice ha escluso l’applicabilità del divieto di arresto considerati gli “elementi conosciuti dagli operanti al momento dell’arresto”. Ed ha disposto una perizia per accertare la capacità di intendere e di volere del ricorrente al momento del fatto. Ai fini dell’applicazione degli articoli 88 e 89 cod. pen. sul vizio (totale o parziale) di mente, la Cassazione spiega che non hanno alcun rilievo eventuali precedenti perizie in quanto, l’infermità mentale “va accertata in relazione alla commissione di ciascun reato e, conseguentemente, non può essere ritenuta sulla sola base del precedente riconoscimento del vizio di mente in altro procedimento”. Come stabilito dalle Sezioni Unite (sentenza “Raso”) è necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo (n. 9163/2005). Per cui l’accertamento in un determinato procedimento, “non ha di per sé rilevanza cogente in altro procedimento a carico del medesimo imputato, sia pure per fatti commessi nel medesimo periodo temporale”. Sicilia. Il messaggio di speranza del giudice Livatino nelle carceri di Roberta Barbi vaticannews.va, 30 gennaio 2025 In occasione del Giubileo 2025, una iniziativa dell’associazione che riunisce estimatori e amici del magistrato martire mira a far conoscere la sua figura soprattutto tra i giovani detenuti. Il presidente, ex compagno di liceo del giudice beatificato nel 2021: “Amministrava la giustizia con il Codice in una mano e il Vangelo nell’altra”. I primi pacchi stanno partendo in direzione di tutti gli istituti di pena di quella Sicilia per cui il Beato Livatino ha combattuto ed è morto, ucciso in odium fidei il 21 settembre 1990, ma si spera che questa iniziativa possa presto essere estesa in tutta Italia, perché tutti i detenuti hanno bisogno della speranza cui è dedicato il Giubileo 2025. Dentro i pacchi ci sono le biografie “autorizzate” come quella di Rosario Mistretta. L’uomo, il giudice, il credente, o copie del docufilm di Salvatore Presti Luce verticale. Rosario Livatino, il martirio, ma anche le relazioni scritte di suo pugno e oggi pubblicate dall’editore Salvatore Sciacca e perfino alcuni calendari che riportano le memorie liturgiche di Santi e Beati siciliani: “Vogliamo ringraziare innanzitutto il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nda) per la collaborazione - spiega ai media vaticani Giuseppe Palilla, presidente dell’associazione “Amici del giudice Rosario Angelo Livatino” - in particolare sono importanti le relazioni del Beato, sia quella su fede e diritto che riporta il suo pensiero religioso e la sua conoscenza del diritto canonico, sia quella sul ruolo del giudice nella società che cambia, che sembra scritta oggi”. L’obiettivo di questa iniziativa promossa dall’associazione nata nel 1993 su iniziativa di un’ex insegnante del Beato Livatino, la prof.ssa Ida Abate e da un gruppo di ex compagni di liceo e amici, è naturalmente far conoscere la figura del magistrato martire in tutta l’isola, specie ai giovani. “Rosario aveva ben chiaro quale fosse il ruolo del giudice che doveva stare sempre al di sopra delle parti, ma non solo esserlo, sembrarlo anche - spiega Palilla - questo nella sua vita è chiaro sin dall’inizio, da quando nel 1978 passa alla Procura di Agrigento e poi nel 1989 al Tribunale come giudice a latere”. Il presidente ricorda come fosse chiamato “l’uomo dalle pendenze zero”, ma anche “l’uomo in camicia, giacca e cravatta”, inappuntabile anche nell’aspetto, tanto che è proprio la sua camicia insanguinata il giorno del martirio a essere venerata come reliquia e portata in un particolare tour tra le carceri italiane. Ma Giuseppe, prima ancora di essere il presidente dell’associazione è innanzitutto un amico del Beato Livatino, del quale ci offre il suo ricordo personale: “Di Rosario dicevano che era un secchione, ma non è vero, era un amico che rinunciava volentieri alla sua ricreazione per aiutare noi compagni di classe quando dovevamo essere interrogati - ricorda - poi quando dovevamo preparare l’esame di maturità ci vedevamo da mia nonna e studiavamo in terrazza. Anche le massaie, che facevano le faccende con la radio accesa tutto il giorno, la spegnevano per ascoltare Rosario che spiegava le lezioni…”. Anche dopo gli studi non si sono mai persi di vista: “Quando ci ritrovavamo a cena chiedeva sempre di tutti i compagni di scuola, anche quelli che non vedevamo più, era attento al prossimo e aveva una vera e propria cultura dell’uomo”. Una cultura dell’uomo che il giudice Beato ha perseguito soprattutto nel lavoro che viveva come una vera e propria missione, quella di amministrare la giustizia “con il Codice in una mano e il Vangelo nell’altra”: “Ci lascia un’eredità spirituale enorme - conclude Palilla - come dice San Matteo nel Vangelo delle Beatitudini, anche lui ha sofferto per causa della giustizia. Era un servitore dello Stato, ma con umanità: cercava sempre di capire chi aveva davanti nel giudicare e quando emetteva una sentenza cercava che fosse il più possibile giusta, credeva molto nel valore di riscatto e riabilitazione della pena”. Vigevano. Suicida in carcere, era detenuto per una rapina da 55 euro lacnews24.it, 30 gennaio 2025 L’avvocato: “La sua morte poteva essere evitata se il magistrato di sorveglianza avesse considerato che si trattava di un soggetto fragile, come avevamo documentato. Tra l’altro aveva restituito tutto”. Si chiamava Salvatore Rosano ed era di origini calabresi il detenuto che si è suicidato ieri pomeriggio impiccandosi nella sua cella del carcere di Vigevano. Rosano, 55enne da molti anni trasferitosi in Lombardia e dipendente dell’Atm, l’azienda di trasporti di Milano, era stato arrestato il 3 dicembre scorso per una rapina che aveva fruttato un bottino di appena 55 euro. Avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. L’uomo è stato soccorso dalla polizia penitenziaria, che ha allertato il 118: trasportato all’ospedale cittadino, è deceduto poco dopo. Secondo il suo legale, l’avvocato Rocco Domenico Ceravolo, del Foro di Palmi, “la morte di Rosano poteva essere evitata solo se il magistrato di sorveglianza avesse considerato con il dovuto buon senso quanto gli era stato rappresentato. E cioè che si trattava di soggetto fragile, com’era stato documentato attraverso la produzione di un’apposita certificazione, e che già quando era in stato di libertà aveva tentato di porre in essere atti della stessa natura. Rosano, tra l’altro, aveva non soltanto restituito il provento dalla rapina, ma aveva anche risarcito il danno alla parte offesa”. “Avevamo chiesto al magistrato, in attesa che il Tribunale di sorveglianza valutasse l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione - ha detto ancora l’avvocato Ceravolo - di scarcerare Rosano, affidandolo in via provvisoria ai servizi sociali. Ma il magistrato, senza approfondimento alcuno riguardo lo stato depressivo del detenuto, che, si ripete, era stato segnalato, si è limitato ad argomentare su inesistenti, quanto immaginari pericoli, in attesa della “relazione di sintesi” dal carcere. Attesa durante la quale l’uomo si è suicidato”. Il nono caso da inizio anno - A dare la notizia di quanto accaduto è una nota del sindacato Uilpa polizia penitenziaria, che sottolinea come sia il nono detenuto suicida nelle carceri italiane dal 1° gennaio. Lo scorso anno si raggiunse il numero record di 89, cui vanno aggiunti 7 agenti. “Il tanto sbandierato decreto carceri - dice il segretario generale Gennarino De Fazio - non ha prodotto alcun effetto tangibile e ora si scopre che pure la declamata possibilità di ampliare il ricorso alle misure alternative, se e quando andrà in esecuzione, potrà interessare al massimo 206 detenuti all’anno”. De Fazio osserva anche che, rispetto al reale fabbisogno, mancano più di 18mila agenti di polizia penitenziaria, anche perché i reclusi superano di 16mila unità i posti disponibili. Nel carcere di Vigevano l’ultimo suicidio risale al 7 ottobre scorso, quando un magrebino di 40 anni si era impiccato in cella. Doveva ancora scontare circa un anno. Perugia. Detenuto si dà fuoco nella propria cella, ricoverato con gravi ustioni su tutto il corpo umbriajournal.com, 30 gennaio 2025 Una serata di gravi disordini ha scosso il reparto circondariale della casa circondariale di Perugia N. C. “Capanne”. La notizia è stata diffusa da Angelo Romagnoli della segreteria regionale Uilpa. Un detenuto di circa 35 anni, di nazionalità magrebina, ha tentato di togliersi la vita cospargendosi il corpo di olio e dandosi fuoco nella propria cella. Il tempestivo intervento dei Poliziotti Penitenziari in servizio ha evitato una tragedia certa, prestando il primo soccorso al detenuto. A causa delle gravi ustioni di secondo grado su gran parte del corpo, l’uomo è stato trasportato al centro gravi ustioni di Roma. Questo evento critico riflette ancora una volta la difficile situazione che affrontano quotidianamente gli agenti della Polizia Penitenziaria di Perugia. Gli agenti devono fronteggiare eventi estremi messi in atto da detenuti con problemi psichiatrici, senza ricevere la formazione professionale adeguata. Inoltre, l’istituto perugino soffre di una cronica carenza di organico, costringendo i Poliziotti a turni massacranti di 16 ore consecutive senza la giusta remunerazione, a causa dei pochi fondi assegnati al provveditorato regionale. Questa Organizzazione Sindacale esprime gratitudine al personale operante per la professionalità e la tempestività con cui è stato gestito l’evento critico. Venezia. Giubileo nelle carceri, i cappellani del Triveneto: “La speranza illumini i detenuti” di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 30 gennaio 2025 Il referente padovano, don Mariano: “Il problema del fine pena è la difficoltà a trovare casa, facciamo una mappatura”. Poi l’arcivescovo di Gorizia ha acceso le lampade giubilari. C’è un momento che segna il ritorno alla vita fuori dalle sbarre, un passaggio che spesso si rivela più duro della detenzione stessa. Il fine pena, quel giorno che dovrebbe segnare l’inizio di una nuova libertà, diventa per molti il momento di una nuova condanna. La società si è costruita sulle sue regole, i suoi confini, la sua percezione del giusto e dell’ingiusto. Ma quando il carcere finisce e il detenuto si ritrova nel mondo “libero”, quanta libertà trova davvero? Perché, fuori dalle mura, non si è più detenuti, ma si è reclusi in una prigione invisibile: la difficoltà di reintegrarsi. Difficoltà che passa, innanzitutto, dal trovare una casa: chi mai affitterebbe la propria a un ex detenuto? Per questo, durante l’incontro a Roma dei referenti regionali dei cappellani delle carceri, è stato chiesto loro di fare una mappatura delle strutture che accolgono i detenuti una volta finito di scontare la pena. “Un tema scottante, solo con i numeri alla mano possiamo capire come fare per implementare queste abitazioni” ha detto don Mariano Dal Ponte, referente dei cappellani del Triveneto e sacerdote della Casa circondariale di Padova, durante un incontro nel carcere maschile di Venezia, dove questo mercoledì si sono riuniti i cappellani del Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. La sfida del carcere si gioca fuori, nelle realtà territoriali, nelle imprese e nelle aziende che avviano percorsi di inserimento lavorativo. Il direttore della Casa circondariale veneziana, Enrico Farina, si dice più che entusiasta delle sinergie strette con enti e associazioni che permettono ai detenuti di immaginarsi un futuro. “Attualmente abbiamo più offerte che detenuti nelle condizioni di poter essere inseriti” ha spiegato, “per questo credo che Venezia potrebbe diventare uno snodo nel Triveneto: vista la grande quantità di domande, i detenuti delle altre carceri potrebbero usufruire dei progetti di inserimento lavorativo”. Farina si è poi rivolto alle persone ristrette presenti all’incontro: “Non siete diversi da quelli che hanno già avviato un percorso con l’esterno, ciò che conta più dei provvedimenti disciplinari è l’atteggiamento. La libertà arriva quando sarete pronti, vi chiameremo quando sarà il momento, non ci siamo dimenticati di voi” li ha incoraggiati, invitandoli a non perdere la speranza. E’ stata proprio la speranza e la sua luce in grado di illuminare anche i momenti più bui, il cuore dell’omelia dell’arcivescovo di Gorizia, Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli. “La parabola del seminatore ci insegna che la parola di Dio viene offerta a tutti: siamo noi il terreno che deve accoglierla, un terreno che a volte può partire svantaggiato, ma ha le stesse possibilità degli altri. Al tempo stesso, siamo noi anche la parola di Dio” ha detto durante la celebrazione eucaristica nella cappella del carcere, “dobbiamo essere accoglienza e parola per l’altro. E ricordarci che il messaggio di Dio è sempre di speranza, ed è sia dono che responsabilità perché ci deve spronare ad agire” ha aggiunto. Al termine della messa sono state accese le lampade della speranza, consegnate dal Vaticano ai 17 istituti penitenziari del Triveneto in occasione del Giubileo. “Una lampada che illumini chi vive nelle tenebre” ha commentato l’arcivescovo, “che porti la speranza a chi è limitato della propria libertà personale e a tutta la nostra comunità, affinché sia libera dai giudizi e dalle condanne”. Gli istituti penitenziari scoppiano. Il sovraffollamento è alle stelle: nella Casa circondariale di Santa Maria Maggiore ci sono 261 detenuti al posto di 159, nel carcere minorile di Treviso si contano 23 ragazzi ma soli 12 posti letto, “tant’è che delle brandine sono state tolte dal Cpia, e alcuni dormono sui materassi per terra. Una situazione drammatica” ha commentato il cappellano don Otello Bisetto, “ci sono sempre più reati e poche misure alternative, non bastano le idee, se poi mancano risorse umane e finanziarie non si va da nessuna parte. Le comunità spesso rifiutano i casi di minori con problemi psichiatrici o droga e, di conseguenza, non ci sono alternative”. A Verona la situazione è ancora più allarmante e la Casa circondariale di Montorio conta 600 detenuti a fronte di 275 posti. “Avendo il reparto di osservazione psichiatrica, abbiamo tanti casi di detenuti con problemi di salute mentale, e questo spesso rende più complicata la gestione” fa presente fra’ Paolo Crivelli, cappellano della struttura. Venezia. Detenuti al lavoro nei cantieri: “Le imprese ne chiedono molti di più” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 30 gennaio 2025 Il direttore di Santa Maria Maggiore, Farina: “Molte richieste, pronti a coinvolgere altri istituti”. “La libertà può essere un pugno in faccia se non si è preparati ad affrontarla”. Parole di Enrico Farina, direttore del carcere maschile di Venezia, che ieri ha accolto i cappellani degli istituti penitenziari del Triveneto, giunti a Santa Maria Maggiore ognuno con una candela da accendere per portare un messaggio di luce nell’oscurità. A inizio gennaio Don Mariano Dal Ponte, cappellano del carcere di Padova, è andato a Roma dove sono state benedette dal cardinale Mauro Giambetti le lanterne della speranza, realizzate dai detenuti di Salerno, una per Regione. Da questa lanterna sono state accesi altrettanti lumini che nell’anno del Giubileo porteranno in ogni carcere una luce di speranza. In occasione della cerimonia, celebrata da monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e delegato dei Vescovi del Triveneto per la Pastorale dei Detenuti, Farina ha parlato dell’importanza del lavoro e del percorso personale che ogni detenuto deve affrontare per scoprire il proprio talento e arrivare a conquistarsi un nuovo posto nel mondo. “Il carcere non deve essere considerato solo un luogo di chiusura, ma anche un luogo dove si dimostra di aver acquisito quei valori necessari per poter tornare “fuori” - ha detto Farina - Ogni volta che questo avviene, per tutti noi è una conquista, ma in una società frenetica come questa, bisogna essere pronti, altrimenti quella libertà può travolgere”. Farina ha utilizzato la metafora della lampada per raccontare la trasformazione che sta avvenendo nel carcere di Venezia. Grazie al lavoro svolto negli ultimi mesi per creare dei ponti tra “dentro” e “fuori”, attualmente il carcere di Venezia non riesce a soddisfare le tante richieste di lavoro che stanno arrivando: “Le persone che riteniamo pronte per andare a lavorare devono aver svolto un percorso - ha aggiunto - Oggi da Venezia abbiamo così tante richieste che possiamo offrire a detenuti definitivi con buona condotta anche provenienti da altri istituti la possibilità di intraprendere dei percorsi avanzati”. Il lavoro è anche l’ultimo tema affrontato dal gruppo di detenuti di Venezia che ogni domenica, dopo la Messa, discute un tema diverso. “I detenuti non sono reati che camminano, ma persone - spiega il cappellano di Venezia don Massimo Cadamura Per questo, oltre a una sede che stiamo ristrutturando a Campalto, stiamo cercando di trovare alcuni appartamenti per farci da garanti come diocesi”. Sono loro, i cappellani e i loro aiutanti volontari, che sono a contatto ogni giorno con quell’oscurità che necessita speranza. “Il carcere minorile di Treviso dimostra come siano sempre più carenti le risorse nel territorio - spiega il cappellano don Otello Bisetto Attualmente ci sono 23 ragazzi su 12 posti letto e metà di loro dorme in materassi per terra. Come possiamo dare un futuro a questi giovani? Come possono riacquisire speranza e fiducia per poter ricominciare?”. Le carceri attualmente non hanno solo il problema del sovraffollamento, ma anche di come contenere persone con problemi psichiatrici e tossicodipendenti. In questa “oscurità” il lavoro è una luce che porta speranza. “Così come la luce santa accesa oggi a Santa Maria Maggiore verrà portata come segno di speranza in tutte le carceri del Triveneto, anche l’impegno quotidiano di volontari, educatori e polizia penitenziaria continua ad ampliare le opportunità di reinserimento - ha concluso Farina - La crescente richiesta di figure specializzate nei settori dell’edilizia, della nautica, della ristorazione, dell’archivistica digitale e dei servizi offre prospettive per tutto il Triveneto. È un segnale concreto di come il mondo del lavoro sia sempre più aperto a percorsi di inclusione, valorizzando competenze e professionalità che possono diventare un ponte verso una nuova vita.” Genova. Il lavoro che manca in carcere: su 1.300 detenuti solo 20 assunti da ditte esterne di Fabrizio Assandri rainews.it, 30 gennaio 2025 A Marassi il panificio chiuso da mesi, tanti i progetti ancora sulla carta. Le aziende: “Abbiamo bisogno di manodopera”. Solo una ventina i detenuti liguri, su una popolazione di oltre 1.300, lavorano tra le mura delle carceri assunti da aziende e cooperative esterne. Un’opportunità di impiego che spesso comporta sbocchi anche dopo la fine della pena. Un’altra cinquantina escono di giorno a lavorare, ad esempio perché in semi-libertà, e rientrano in carcere la sera. Sono i numeri emersi al convegno “Dalla cella al lavoro”, a Palazzo Ducale a Genova. Sebbene avere un’occupazione riduca ad appena il due per cento il tasso di recidiva e nonostante gli sgravi fiscali per le aziende che assumono carcerati, i numeri restano molto bassi. Inoltre, la Liguria è particolarmente indietro. Basti guardare proprio i dati delle detrazioni alle imprese: la Liguria si ferma a una media di 66 euro per detenuto, contro i 195 della media italiana, i 673 del Veneto e i 562 della Lombardia. Da qualche mese il panificio del carcere di Marassi è chiuso per le difficoltà di una ditta, è stato fatto un nuovo bando e dovrebbe ripartire a breve. Intanto, le aziende hanno carenze di personale, ma in Liguria manca anche una formazione professionale continuativa e organizzata per i carcerati. Civitavecchia (Rm). Il carcere oltre le sbarre: massimo impegno dell’amministrazione comunale di Daria Geggi civonline.it, 30 gennaio 2025 Attraverso il lavoro del delegato Corrado Lancia, delle associazioni del terzo settore e dei Servizi Sociali in campo iniziative di inclusione e di reinserimento per i detenuti. “Nessuno va lasciato indietro”. Lo ha ribadito il sindaco Marco Piendibene ricordando come questo sia un pilastro dell’amministrazione giallorossa, ed annunciando una serie di iniziative e progetti indirizzati alla popolazione carceraria dei due istituti penitenziari cittadini. “Già l’aver voluto un delegato alle carceri, individuato in Corrado Lancia - ha sottolineato Piendibene - è segno dell’attenzione che vogliamo garantire”. Ed è stato proprio Lancia a spiegare quelli che sono i percorsi inclusivi, le iniziative già avviate e quelle che verranno messe in campo nel breve periodo, grazie alla preziosa collaborazione con associazioni ed organizzazioni del terzo settore, creando una rete virtuosa che, insieme alle istituzioni, possa fornire ai detenuti gli strumenti necessari per ricostruire le proprie vite. E questo dovendo fare i conti con un sovraffollamento che di certo non aiuta. “Nel nuovo complesso di Borgata Aurelia - ha infatti ricordato - su una capienza regolamentare di 311 detenuti, ne sono ospitati (secondo i dati aggiornati a fine dicembre) 546, di cui 263 stranieri. Un +76% che non è semplice da gestire, nonostante il prezioso e duro lavoro svolto dalla Polizia penitenziaria, in organico sottodimensionato da anni”. L’obiettivo è “superare lo stigma nei confronti dei detenuti - ha aggiunto Lancia - il nostro impegno è rivolto a garantire delle alternative, che possono passare attraverso attività all’interno del carcere e collaborazioni esterne. E quindi, ad esempio, un laboratorio teatrale con la compagnia Anta e Go, l’organizzazione di un coro con Piergiuseppe Agozzino, un corso di yoga con Sergio Starace, un laboratorio di sartoria. E poi percorsi esterni che auspichiamo possano coinvolgere sempre più aziende del territorio, specialmente per i tanti detenuti civitavecchiesi”. Fondamentale, in questo caso, la collaborazione con gli assessorati al Lavoro e ai Servizi Sociali. “Bisogna evitare la recidiva - ha aggiunto l’assessore Antonella Maucioni - creando nuove possibilità ed alternative; opportunità che servono anche da azione protettiva nei confronti della società”. Caltanissetta. All’Ipm si conclude il percorso per imparare l’italiano dedicato ai detenuti stranieri seguonews.com, 30 gennaio 2025 Il Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Caltanissetta ed Enna coordinato dal dirigente scolastico, professore Giovanni Bevilacqua da sempre attivo nell’offrire opportunità educative nelle strutture carcerarie, ha recentemente portato a termine con successo il percorso di italiano L2 per gli ospiti stranieri dell’Istituto Penale Minorile (Ipm) di Caltanissetta. Il Cpia, attraverso i suoi percorsi di scuola media e biennio di scuola superiore, rappresenta un punto di riferimento fondamentale per l’istruzione all’interno del carcere. Grazie all’attiva collaborazione della direttrice dell’area educativa Viviana Savarino, della dott.ssa Silvia Cirami e al supporto imprescindibile della polizia penitenziaria e del comandante dirigente Corrado Pintaldi è stato possibile garantire un ambiente sicuro e favorevole all’apprendimento. “La sicurezza è stata gestita con grande attenzione dal personale penitenziario, mentre gli educatori hanno creato un contesto pedagogico inclusivo ed efficace,” ha sottolineato la docente del Cpia Eleonora Passamonte. Che ha altresì dichiarato: “Insegnare l’italiano a questi giovani non è solo trasmettere una lingua, ma offrire loro gli strumenti per integrarsi, comunicare e costruire una nuova vita. È un lavoro che richiede dedizione, ma i risultati sono straordinari”. Il percorso di italiano L2 rappresenta molto più di un’opportunità educativa: per i giovani stranieri detenuti, è una possibilità di riscatto. Imparare la lingua italiana e conseguire titoli riconosciuti apre le porte a un reinserimento concreto nel territorio e nella società. “L’istruzione è una chiave fondamentale per il cambiamento,”. Attraverso la scuola, diamo a questi ragazzi la possibilità di riscrivere il loro futuro, aiutandoli a lasciarsi alle spalle gli errori del passato”. Questo esempio virtuoso di sinergia tra istituzioni scolastiche, personale educativo e forze di sicurezza dimostra quanto sia cruciale investire nell’educazione come strumento di integrazione e cambiamento sociale. È la prova tangibile che, anche in contesti difficili come quelli carcerari, la scuola può trasformare vite e contribuire a costruire una società più inclusiva e solidale. Ferrara. Reinserimento detenuti, si parte tardi e con errori di Domenico Bedin* estense.com, 30 gennaio 2025 Si è svolta la prima riunione della Task Force sulla gestione del rischio, coordinata da Agea e che coinvolge il Ministero dell’Agricoltura, Caa, Consorzi di Difesa, Ismea e compagnie assicurative. Oggi è stata data la comunicazione mezzo stampa che il Comune di Ferrara ha creato “l’équipe esecuzione penale esterna di Ferrara” con due anni di ritardo. Gli altri comuni dell’Emilia Romagna lavorano su questi progetti dal 2023. Al Comune di Ferrara sono destinati 450.000 euro che non sono ancora stati spesi semplicemente perché non è stato organizzato il gruppo che deve destinarli. Tra l’altro nel gruppo è stata inserita Agire Sociale che è una associazione che non esiste più. Il titolo del programma si chiama “Territori per il reinserimento Emilia Romagna”. Questi soldi devono servire per migliorare la situazione carceraria e favorire per esempio l’accoglienza, il sostegno, l’inserimento in società (territori) e nel lavoro dei detenuti che si avviano al fine pena. Mentre sto scrivendo ho ricevuto l’avviso da parte della Casa Circondariale di Ferrara che fra pochi minuti arriverà nella comunità in cui vivo con altre otto persone con varie misure alternative un nuovo ospite anche lui dal carcere. Questa attività di accoglienza è totalmente gratuita e si fa fatica ad andare avanti. Sentire che i finanziamenti che vengono erogati non vengono spesi per ritardi incomprensibili mi fa molta tristezza. All’inizio di gennaio ha finito di scontare la pena Gianni. Dopo dodici anni che non usciva dalla prigione, ormai vecchio, non sapeva dove andare. Quando è arrivato da noi si è commosso per l’accoglienza che gli è stata riservata e da quel giorno abbiamo lavorato insieme per recuperare tutta la documentazione per accedere ai suoi diritti. È un lavoro lungo e costoso ma che permette un reinserimento vero della persona. Mi auguro che il denaro che si doveva impiegare nel 2024 sia ancora spendibile e che al tavolo di programmazione ci siano persone ed organismi che sanno come spenderli per le persone più che per sportelli vari. *Presidente di Viale K Castelvetrano (Tp). Concluso il progetto “Insieme verso il ben-essere” caritas.it, 30 gennaio 2025 Si è concluso con un momento di riflessione nell’aula conferenze del Centro diocesano “Operatori di pace” di Mazara del Vallo il progetto “Insieme verso il ben-essere”, realizzato dalla Caritas Diocesana di Mazara Del Vallo, Fondazione San Vito Onlus (braccio operativo) e finanziato da Caritas italiana e Intesa San Paolo. Il progetto ha coinvolto 14 detenuti della casa circondariale di Castelvetrano e cittadini in esecuzione penale esterna, per un totale di 120 persone. L’obiettivo è stato quello di sviluppare azioni concrete di inclusione sociale e cittadinanza attiva, offrendo percorsi formativi e educativi per promuovere l’autostima, la progettuale affettiva e personale, la crescita culturale e il cambiamento. Sei le linee di intervento: la costituzione dell’equipe multidisciplinare, il potenziamento del Centro di Ascolto Caritas, il percorso di supporto per i detenuti “sex offenders”, la realizzazione di attività ludico-ricreative, i percorsi di accoglienza esterna, sostegno e accompagnamento per le persone in misura alternativa di sconto pena e, infine, l’evento conclusivo, che si è svolto martedì 28 gennaio. Alcune delle persone coinvolte nel progetto hanno svolto attività di volontariato e supporto in alcune parrocchie della Diocesi, oltre che alle mense fraterne di Mazara del Vallo e Marsala. Angela Caradonna, consulente legale del progetto: “Abbiamo cercato di sostenere progetti di vita e dare l’occasione di nuovi percorsi a chi sconta una pena. C’è, però, la necessità di formare anche le nostre comunità, renderle più aperte all’accoglienza di chi ha scontato una pena, senza escluderli, ricucire rapporti, a vantaggio di tutti. La comunità deve acquisire la consapevolezza che l’imputato e/o il reo non è portatore solo di bisogni, di difficoltà, di mancanze, ma anche di risorse e di capacità”. Pisa. “Qui è altrove: buchi nella realtà”, di Gianfranco Pannone al Cineclub Arsenale pisatoday.it, 30 gennaio 2025 Il film documentario “Qui è altrove: Buchi nella realtà” scritto e diretto da Gianfranco Pannone continua il suo tour nelle sale italiane per raccontare come un altro carcere è possibile. Il film distribuito da Bartlebyfilm sarà in programma martedì 4 febbraio al Cinema Arsenale alle 20.30. A introdurre la serata Armando Punzo che, con La Compagnia della Fortezza da lui fondata, lavora da oltre 35 anni nel carcere di Volterra e il regista Gianfranco Pannone in collegamento video. Presenti alla proiezione anche Cinzia de Felice de La Compagnia della Fortezza, l’interprete Paul Cocian e Andrea Salvadori, musicista del docufilm. A moderare il dibattito Antonio Capellupo del Cinema Arsenale. A Volterra un altro carcere è possibile, dice il regista Gianfranco Pannone. A Volterra, infatti, sotto la guida di Armando Punzo è nata la Compagnia della Fortezza che ogni anno, nell’istituto di detenzione collocato all’interno della Fortezza Medicea, allestisce il suo spettacolo. Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e sostenuto da 12 Fondazioni di origine bancaria, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. Il film arriva al cinema dopo la prima mondiale alla 65a edizione del Festival dei Popoli e il passaggio al MedFilm Festival, al Parma Film Festival - invenzioni dal vero e a Corto Dorico Film Festival. Qui è altrove: Buchi nella realtà segue, fino al debutto, nel carcere di Volterra, le prove di Armando Punzo con i suoi attori nell’ambito del progetto teatrale Atlantis cap. 1 - La permanenza. Qui, con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza organizza la masterclass, riunendo tutte queste realtà nel segno di un’utopia possibile. “Qui è altrove - dice Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per le guardie carcerarie. L’esperienza di Volterra, che vede Armando Punzo animare da ben 35 anni la Compagnia della Fortezza, composta, insieme a dei professionisti del teatro, da detenuti-attori, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: ‘un altro carcere è possibile’. Possibile nella misura in cui i detenuti sono anzitutto persone che condividono con altre persone un’esperienza unica perché fortemente umana.” Dice Armando Punzo: “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili, raggiungere la luce. E la luce, le stelle, sono quelle di un’utopia concreta che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di Teatro in Carcere. Eppure, a distanza di sette anni, è evidente a tutti che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. Per Aspera ad Astra - continua Punzo - racchiude in sé il senso dell’utopia quando si realizza. Nel suo più celebre volume, “Il Principio Speranza”, Ernst Bloch ha parlato di utopia concreta, del sogno ad occhi aperti, di quel davanti a noi che intravediamo e a cui lavorare giorno dopo giorno per realizzarlo. Ha proposto una filosofia che si oppone a una visione distopica, a una fuga dalla realtà, per arrivare a celebrare e affermare con forza le potenzialità dell’essere umano. Ho riconosciuto in questa visione di speranza concreta la mia idea di teatro con la Compagnia della Fortezza e delle compagnie che fanno oggi parte di questo progetto. Trovo straordinario che il film di Gianfranco Pannone, “Qui è altrove”, provi a darne precisa e poetica testimonianza. Ringrazio Acri e le Fondazioni di origine bancaria che sostenendo con convinzione Per Aspera ad Astra si inseriscono con noi nel dibattito attuale sulla funzione dell’arte.” “Per Aspera ad Astra - dice Donatella Pieri, Presidente della Commissione Beni e Attività culturali di Acri - è un progetto di sistema delle Fondazioni di origine bancaria, che mette in rete una pluralità di soggetti di territori diversi, dalle compagnie teatrali agli istituti di pena, con l’obiettivo condiviso di contribuire a rigenerare il carcere attraverso la cultura, offrendo, al contempo, ai detenuti l’opportunità di seguire percorsi di formazione nei mestieri del teatro: il progetto, di valore artistico e partecipato, sfida i pregiudizi e restituisce il diritto alla bellezza anche a coloro che si trovano in condizioni di privazione della libertà.” Qui è altrove: Buchi nella realtà scritto e diretto da Gianfranco Pannone è prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film, in co-produzione con RSI - Radiotelevisione svizzera, con la collaborazione di Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa e Carte Blanche e con il patrocinio di Associazione Antigone. Il film ha aperto, come evento speciale, la 65a edizione del Festival Dei Popoli con un passaggio successivo alla 30a edizione del MedFilm Festival, al Parma Film Festival - Invenzioni dal vero e al Corto Dorico Film Fest di Ancona. Migranti. Il Decreto Cutro fa flop, piovono assoluzioni di Angela Nocioni L’Unità, 30 gennaio 2025 Alla Corte d’assise di Locri il primo processo che prevedeva le nuove imputazioni stabilite dal Governo, cioè pene smisurate. Risultato: 5 assoluzioni con formula piena e 2 condanne leggere. È finito con cinque assoluzioni perché il fatto non sussiste e due condanne senza le pene altissime e sproporzionate previste dal decreto Cutro il primo processo con un’imputazione per il 12 bis previsto da quel decreto Cutro ad andare con rito ordinario davanti alla Corte d’Assise. Ieri alla Corte di Assise di Locri c’è stata la sentenza di primo grado su un procedimento avviato subito dopo l’approvazione delle norme del decreto Cutro che ha inasprito violentemente le pene per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art 12 del testo unico sull’immigrazione) ponendo la minima a 20 anni fino a 30 anni nel caso di morte di due o più perone in conseguenza del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (inserendo l’art 12 bis). Gli imputati erano 7, due dei quali avevano dichiarato di aver condotto in stato di necessità l’imbarcazione con altri migranti come loro a bordo per non essere fermati dalle milizie libiche. I due, due egiziani, sono stati condannati a 5 anni e otto mesi. Il tribunale non ha applicato il 12 bis, non ha ritenuto la morte avvenuta conseguenza del reato del quale si erano dichiarati colpevoli. Gli altri cinque, due egiziani e tre siriani, sono stati assolti con formula piena perché il fatto non sussiste. Il 12 bis e l’intero decreto Cutro non reggono alla prova dell’applicazione concreta in aula di tribunale. Non reggono per la verità alla prova di più Corti, c’è già stata infatti una pronuncia del tribunale di Messina e c’è già stata una pronuncia del tribunale di Reggio calabria. Anche ieri è stata clamorosamente non riconosciuta la fattispecie molto dura del 12 bis, peraltro di dubbia legittimità costituzionale. Quel che appare chiaro è che finora i giudici concreti in carne ed ossa, nonostante non ci sia stata finora una pronuncia sulla legittimità costituzionale delle norme di dubbia legittimità costituzionale del decreto Cutro, stanno a livello giurisprudenziale sempre escludendo la fattispecie del 12 bis. Il difensore di uno degli assolti di ieri alla Corte di Assise di Locri, l’avvocato Giancarlo Liberati, riguardo alla conformità al dettato costituzionale del 12 bis nota: “La nuova ipotesi di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” ex art. 12 bis T.U. immigrazione, introduce un’ipotesi speciale di delitto colposo della figura di reato ex art. 586 c.p. L’elemento specializzante dell’art. 12 bis in esame, rispetto alla norma codicistica, risiede nello specifico delitto doloso da cui derivano eziologicamente la morte o le lesioni colpose, con una specifica ipotesi di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare, cioè l’ipotesi di cui all’art. 12 comma 3 lett. b) o c), che la norma in esame riproduce integralmente e tale costruzione normativa, determina una inderogabile esigenza di assicurare la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto attraverso la pena. La nuova fattispecie di reato aggravata dall’evento morte o lesioni personali, produce l’effetto di sostituire l’art. 586 c.p. della disciplina generale del concorso formale del delitto, con una cornice edittale delineata ad hoc dall’art. 12 bis T.U. immigrazione, da cui consegue che la nuova fattispecie di reato, in realtà non ha determinato alcun effetto espansivo dell’area del penalmente rilevante, perché, le ipotesi da essa disciplinate già risultano punite ai sensi della disciplina previgente, ma introduce un reato complesso, nel quale vengono fatte confluire l’ipotesi di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 co. 3 lett. b) e c), e gli omicidi o le lesioni colpose aggravate ex art. 586 c.p. Trattandosi quindi solo di una autonoma cornice edittale per ipotesi che altrimenti sarebbero state riconducibili alla disciplina del concorso formale di reati oltre a rilevare che nulla di penalmente rilevante è stato aggiunto e nel constatare l’estrema durezza delle pene previste dalla norma, è rilevante fare un raffronto con il trattamento sanzionatorio che sarebbe risultato applicabile secondo le norme generali sul concorso di reati, dal quale si ricava che è stato superato il limite della discrezionalità legislativa, arrivando all’estremo di invertire i rapporti di disvalore tra fattispecie che si ricavano dai principi generali e si manifestano nelle pene edittali minime. Il rigore sanzionatorio della nuova disposizione è eccezionale perché, 30 anni di reclusione per la causazione non volontaria della morte, è un quantum di pena che trova riscontro solo nelle ipotesi di sequestro di persona a scopo di estorsione o a scopo di terrorismo o di eversione e nelle ipotesi di tortura, che prevedono la pena della reclusione di 30 anni quando dal sequestro derivi come conseguenza non voluta la morte della persona offesa ex art. 630 comma 2 c.p., art. 289 bis comma 2 c.p. e 613-bis comma 5 c.p.. Confrontando l’art. 12 bis T. U. Immigrazione con la disciplina del disastro ambientale colposo ed in particolare con l’art. 452 ter c.p. che sanziona la morte o lesione come conseguenza di inquinamento ambientale, emerge come l’art. 12-bis T.U. Immigrazione rientra nella categoria dei cd. reati aggravati dall’evento (di danno) e, tra questi, in quella particolare specie, in cui l’evento aggravatore deve essere necessariamente non voluto. In questo caso, al verificarsi dell’evento (plurimo o singolo) non voluto, costituito dalla morte o dalle lesioni personali (gravi o gravissime), scatta la cornice edittale qui delineata ad hoc in luogo di quella che, in assenza della previsione in commento, risulterebbe applicabile in virtù della disciplina generale (concorso formale del delitto che ha cagionato le morti o le lesioni con l’art. 586 c.p.)”. Migranti. La ragnatela libica: perché negli ultimi giorni c’è stato un boom di partenze di Francesco Grignetti La Stampa, 30 gennaio 2025 Vertice a Palazzo Chigi sull’aumento dei flussi. Dietro i numeri il tempo clemente ma anche la faida tra due tribù costiere. Il boom di partenze dalla Libia negli ultimi quindici giorni non è un abbaglio. Quei 3354 migranti arrivati nel giro di due settimane sono vissuti come un’emergenza che costringe palazzo Chigi a convocare una riunione alla presenza di Giorgia Meloni, con i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, il ministro Matteo Piantedosi. C’è infatti da esaminare la novità del premier e dei ministri indagati, ma soprattutto capire cosa stia accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo (non in Tunisia, dove il governo autoritario di Kais Saied, pur con metodi brutali che nulla hanno da invidiare a quelli libici, è riuscito a cancellare i nuovi arrivi e le partenze verso l’Europa) e se ci sia un collegamento tra la vicenda del ras libico Almasri e il boom inatteso dei flussi. Già, perché, a dispetto della propaganda, il sospetto d’un uso strumentale delle partenze da parte libica c’è eccome. Non sarebbe poi così strano. Sono più di vent’anni, dall’epoca del dittatore Gheddafi, che di tanto in tanto i libici usano la leva dei migranti per far pressioni sui nostri governi. Al termine del meeting, però, a cui partecipa ovviamente anche l’intelligence, prevale la convinzione che non ci siano complotti, bensì il sovrapporsi del meteo favorevole a una particolare instabilità a Tripoli. Spiegano fonti bene informate: “Anche se non se ne parla sui media occidentali, da alcune settimane ci sono due tribù libiche che si sparano addosso. Questo ha generato una fase di grande destabilizzazione sulla costa e in alcuni porti. Almasri non c’entra nulla”. Agghiacciante prospettiva, comunque: le milizie si contendono il controllo dei porti perché il traffico di migranti è talmente lucroso da giustificare perfino una guerra intestina. A supporto di questa tesi parlano alcuni dati. Se è vero che il risveglio delle partenze data 20 gennaio, il giorno dopo l’arresto a Torino di Almasri, c’è da dire che le partenze sono proseguite per i restanti 7, 8 giorni quando il caso era ormai chiuso con particolare soddisfazione da parte del “generale” libico restituito alla sua formazione paramilitare, il gruppo armato Rada guidato dal salafita Abdul Rauf Kara. Analizzando poi le nazionalità di chi è sbarcato a gennaio in Italia, salta agli occhi che i gruppi di gran lunga più numerosi sono bengalesi (1189) e pakistani (721). Seguono distanziati siriani (426), egiziani, eritrei e etiopi. Quasi scomparsi gli africani. “Il ragionamento da fare - insiste la fonte - è che si sono drasticamente ridotti i flussi dall’Africa sub-sahariana verso il Mediterraneo, mentre sono saldi quelli dall’Asia o dal Corno d’Africa”. Ovvero quei flussi più strutturati, che possono contare su intermediari ben piazzati lungo le rotte, tutto o quasi alla luce del sole, che convergono sull’Egitto e da lì preparano il passaggio via terra per la Libia. Nessun complotto, allora? Il solito business? Concorda un analista indipendente come Matteo Villa, del centro studi Ispi, che su Twitter ha mostrato come i trend di partenze dalla Libia in realtà siano costanti da anni e semmai in ripresa da novembre scorso. Scrive, polemico con tutti quelli che hanno spiegato l’aumento degli sbarchi dalla Libia come una conseguenza dell’arresto di Almasri: “La politica italiana è incredibile, ma anche il giornalismo che gli va dietro”. Detto ciò, Villa trova risibile che si possa parlare di un effetto “deterrente” del Protocollo Albania quando vi sono stati trasferiti 49 migranti (di cui 5 subito rimpatriati) a fronte delle migliaia che arrivano nonostante tutto. Difficile dargli torto. Tutti questi bengalesi, pakistani, siriani, eritrei, etiopi sono partiti avendo pagato migliaia di euro in anticipo e a prescindere dalle contingenze italiane del momento. La spinta migratoria dal Bangladesh e dal Pakistan, in particolare, pare incontenibile. Fino a qualche mese fa potevano contare addirittura su un vettore aereo siriano, la controversa compagnia Cham Wings dietro cui si celavano i sodali del dittatore Assad, che faceva la spola dagli aeroporti pakistani e bengalesi con Damasco e da lì con l’aeroporto di Bengasi, nella Libia orientale. Era tutto molto facile. E quando poi i migranti erano atterrati, i trafficanti li nascondevano in appartamenti o capannoni dove aspettavano il primo barcone utile. Se il governo ritiene quindi che la vicenda di Almasri non incida sulle partenze, ciò non toglie che il trend in ascesa li preoccupi moltissimo, ma Meloni e Chigi possono fare ben poco. Devono solo sperare che ci sia una tregua tra i combattenti tribali, che le “autorità” locali riprendano il controllo dei porti e che rispettino l’impegno di frenare le partenze. Con quali metodi, si sa. Migranti. Italia-Libia: quel patto antico che genera torturatori di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 gennaio 2025 Nella vicenda del torturatore del carcere libico di Mitiga, Najem Osama Almasri, espulso dall’Italia il 21 gennaio scorso in quanto considerato “soggetto pericoloso”, si intrecciano questioni giuridiche, istituzionali, politiche e geopolitiche. A partire dal grumo di interessi reciproci riguardante Italia e Libia che non ha origini recenti. Un quadro frastagliato in cui ogni tassello deve essere ben saldato all’altro per evitare fraintendimenti e confusione. Tutto ciò non sta avvenendo, come evidenzia Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, già professore di Diritto d’asilo nell’Università di Palermo. Negli ultimi quattro anni, soprattutto con l’avvento della Turchia a sostegno del governo di unità nazionale libica di Abdul Hamdi Dbeibah, in Tripolitania, e anche per la concorrenza di altre nazioni interessate all’approvvigionamento di fonti energetiche, Gran Bretagna e Francia in prima fila, l’Italia ha visto ridimensionata l’autorevolezza su cui ha cercato di fare leva negli anni scorsi. “La differenza rispetto al passato - spiega Vassallo Paleologo - consiste nel succedersi degli avvenimenti che hanno segnato la perdurante divisione della Libia, prima e dopo la caduta di Gheddafi. Prodi nel 2007, poi Berlusconi nel 2008, Monti nel 2012, Gentiloni e Minniti nel 2017, Conte, Salvini e Di Maio nel 2018 e nel 2019, e poi persino la ex ministra dell’Interno Lamorgese, almeno fino al 2020, trattavano con i libici da posizioni di forza, che permettevano loro pratiche di mediazione con le tribù e le milizie, al riparo da scandali, che oggi possono deflagrare, come nel caso Almasri. Adesso, la situazione internazionale ha stravolto gli equilibri politici, militari, e criminali, da sempre interconnessi in Libia, accrescendo i poteri di ricatto delle milizie che supportano gli opposti governi di Dbeibah e di Haftar nei confronti dell’Italia, un Paese che è disposto a pagare anche bande criminali per difendere i propri confini, con la esternalizzazione delle frontiere e il supporto alla sedicente guardia costiera libica. Ma anche per salvaguardare investimenti e rifornimenti energetici nelle diverse regioni in cui la Libia rimane divisa, in una fase in cui la concorrenza degli attori internazionali è sempre più forte”. In questi giorni viene spesso ricordato il controverso Memorandum d’intesa sulla migrazione firmato nel febbraio 2017, accordo instaurato tra il governo italiano e quello libico per tenere fuori dall’Europa migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Il ministro dell’Interno dell’epoca, Marco Minniti, fu un convinto sostenitore dell’accordo. Tra il 2017 e la fine del 2022, quasi 100 mila persone sono state rintracciate nel Mediterraneo dai guardiacoste libici e riportati in un Paese, che, come dimostrano le accuse rivolte ad Almasri, non brilla certo per essere sicuro e attento ai diritti umani. I malcapitati venivano e vengono arrestati, sfruttati, e privati di ogni diritto, rinchiusi in veri e propri lager. La situazione di continua conflittualità che domina la Libia rende tutto complicato. “È un Paese - dice Fulvio Vassallo Paleologo - con una lunga serie di problemi ancora irrisolti. Prima di tutto, manca un esercito nazionale. Operano, inoltre, le milizie, gruppi militari che controllano il territorio e di fatto si sostituiscono tanto alle autorità giudiziarie quanto all’autorità politica. Non a caso, quindi, hanno potere nel gestire i centri di detenzione per i migranti”. In tale contesto si innesta l’iniziativa della Corte penale internazionale per assicurarsi il generale Almasri, accusato di crimini contro l’umanità, con le conseguenze politico- istituzionali delle ultime ore. “Piuttosto che rilanciare la crociata governativa contro le toghe, utile per spingere sulla riforma della giustizia, con la separazione delle carriere e la riforma del Consiglio superiore della magistratura, quasi un regolamento finale dei conti - commenta Vassallo Paleologo -, sarebbe forse meglio, per favorire la comprensione generale dei fatti, restare sui passaggi critici della vicenda Almasri, che si è conclusa senza che le autorità italiane, nel loro complesso, rispondessero positivamente alla richiesta di arresto pervenuta dalla Corte penale internazionale. Tanto che la Corte dell’Aia ha rivolto una circostanziata richiesta di chiarimenti al governo italiano, che potrebbe preludere ad un deferimento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per violazione dello Statuto istitutivo della Cpi, siglato a Roma nel 1998. Lo Statuto di Roma, nella sua Parte Nona, dedicata alla cooperazione giudiziaria e all’assistenza giudiziale degli Stati parte alla Corte, all’articolo 86 fissa un “Obbligo generale” per gli Stati parte di cooperare pienamente con la Corte per consentire di investigare e perseguire la commissione dei crimini nel contesto della giurisdizione della Corte. Il paragrafo 7 del successivo articolo 87 prevede, poi, espressamente che, nel caso in cui “uno Stato Parte non aderisca ad una richiesta di cooperazione della Corte, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri, la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati parti o il Consiglio di Sicurezza se è stata adita da quest’ultimo”“ . Se fosse stato scarcerato, Almasri avrebbe conservato in Italia lo status di persona non libera, continuando comunque ad essere considerato un ricercato dalla Corte penale internazionale. Dunque, secondo il professore di Diritto d’asilo dell’Università di Palermo, “non c’erano i presupposti per un’espulsione di Almasri in merito alla sua pericolosità”. Infine, altro tema rilevante è quello sollevato dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, martedì sera, nel video diffuso dopo le comunicazioni della Procura di Roma. La premier ha affermato di non essere “ricattabile”. “Certo - conclude il professor Vassallo Paleologo -, Meloni non è ricattabile, però in questa vicenda è l’Italia che ha dimostrato di essere ricattabile non dal governo di Tripoli ma da una delle più forti milizie che lo sostengono”. Migranti. Caso Elmasry, le accuse dei torturati: “L’Italia ci ha negato giustizia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 gennaio 2025 I racconti da brivido dei Refugees in Libya nella sala stampa della Camera. Le opposizioni: questa l’unica vera informativa. I ministri Nordio e Piantedosi disertano l’Aula: “Ora c’è il segreto istruttorio”. “Ho conosciuto Elmasry perché il 29 novembre 2019 sono stato intercettato dalle milizie libiche che si fanno chiamare “guardia costiera” e portato nel centro di Tarik-al-Sikka. Mi hanno venduto due volte fino all’arrivo a Mitiga, prigione gestita dall’uomo che il governo italiano ha liberato e riportato in Libia. Lì ho subito ogni forma di tortura”. “Sono uno dei migranti finiti nelle prigioni di Elmasry. Sono una delle sue vittime. Mi ha picchiato personalmente con un grosso bastone in un centro sotterraneo dove non si distingueva il giorno dalla notte”. A David Yambio e Lam Magok, sud-sudanesi, bastano poche parole per mostrare il risvolto della ragion di Stato sui corpi dei migranti, per mettere in ridicolo il vittimismo della presidente Giorgia Meloni. Nella sala stampa della Camera cala il silenzio. Yambio e Lam mostrano le foto, pubblicate in un libro, di quando erano schiavi nei centri realizzati in Tripolitania con il sostegno italiano ed europeo. Sono riusciti a fuggire, attraversare il mare, creare il collettivo Refugees in Libya, portare le loro denunce alla Corte penale internazionale e ora anche al parlamento italiano. Le pause nel discorso, le sfumature della voce, le espressioni sul volto mostrano tutta la loro sofferenza. “Mentre eravamo prigionieri ho detto a Lam: un giorno otterremo giustizia. In quel periodo per parlare con i giornalisti e far sapere al mondo quello che ci stava accadendo rischiavo la vita - dice Yambio - Ed ecco cosa abbiamo oggi: una grande delusione. Questo sarebbe dovuto essere un giorno di festa, il governo italiano ci avrebbe dovuto chiamare e dire: abbiamo arrestato il vostro torturatore, potete avere giustizia. Invece è di nuovo in Libia”. Il pensiero è soprattutto per le migliaia di “fratelli e sorelle” che si trovano ancora nei centri di tortura, “vittime di sparizioni forzate, violenze e schiavitù”, e per tutti quelli che subiranno nuove vessazioni da Elmasry. “Ho sentito che la presidente Meloni una volta ha detto: “Sono una madre, sono cristiana”… ma allora come è stato possibile rimandare indietro un criminale che uccide i bambini?”, aggiunge Magok. Che racconta un’altra storia terribile vissuta in un centro gestito dal libico: “Mi hanno costretto a rimuovere i cadaveri di soldati uccisi negli scontri e di migranti morti in detenzione. Senza guanti e senza mascherina. I miliziani si tenevano a distanza, quei corpi erano stati abbandonati per giorni. Non lo dimenticherò mai”. Entrambi raccontano che qui in Italia continuano gli incubi per quanto vissuto al di là del mare. Incubi che hanno la faccia di Elmasry. I rappresentanti di Refugees in Libya hanno scritto una lettera indirizzata a Meloni, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, al Guardasigilli Carlo Nordio e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. “Non si può affermare di combattere il traffico di esseri umani mentre si fanno accordi con chi ne trae profitto”, si legge prima delle quattro richieste rivolte al governo. Stop a tutti gli accordi tra Italia e Libia che consentono abusi nei confronti dei migranti; impegno per il rilascio di quelli imprigionati a Mitiga e negli altri centri; spiegazione del perché Elmasry è stato liberato; percorsi legali per far arrivare in Italia le persone incarcerate nel paese nord africano e riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli per l’ottenimento dei visti umanitari. Le lettere sono consegnate agli esponenti del centro-sinistra perché facciano da tramite. In sala ci sono tutti i partiti d’opposizione. “Oggi un’informativa sul caso Elmasry c’è stata. Ed è stata un bagno di verità, dura, come succede quando le storie di persone in carne e ossa irrompono sulla scena”, scrivono Pd, Avs, M5S, Az, Iv, +Eu in una nota congiunta che polemizza con la scelta dei ministri di non presentarsi in Aula. Poche ore prima Piantedosi e Nordio avevano comunicato ai presidenti di Camera e Senato che le informative previste erano sospese per rispettare il “segreto istruttorio” sulla vicenda, dopo l’arrivo degli avvisi di garanzia. In sala stampa c’è spazio per un’ultima riflessione: “Quelle di rifugiato o migrante sono etichette di cui non ci libereremo mai - dice Yambio - Ci perseguitano perché sono associate a cose negative. Ma siamo esseri umani. Non costituiamo alcun pericolo o minaccia per l’Italia e l’Europa. Siamo noi a vivere in pericolo ogni giorno”. Egitto. In appello confermata la condanna a 25 anni di carcere per Giacomo Passeri di Grazia Longo La Stampa, 30 gennaio 2025 Confermata la condanna a 25 anni di carcere in appello per Luigi Giacomo Passeri, il pescarese di 32 anni arrestato in Egitto nell’agosto del 2023 mentre era in vacanza per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Il giovane, che da tempo risiede a Londra, papà italiano e mamma della Sierra Leone, secondo la versione dei familiari, era in possesso di piccole dosi di stupefacenti. Lo riferiscono i media locali. Del caso si erano interessati, già nei mesi scorsi, il vicecapogruppo dei deputati di Alleanza Verdi Sinistra Marco Grimaldi e il segretario regionale di Sinistra Italiana Abruzzo Daniele Licheri. Fin da subito hanno dichiarano “preoccupazione, indignazione e sconcerto, per le sorti di Luigi Giacomo Passeri, il ragazzo pescarese detenuto in carcere da un anno in Egitto. Dopo aver appreso della sentenza choc dell’ergastolo con 25 anni da scontare. Una vicenda dai diritti umani negati. Abbiamo visto la vicenda Regeni, la vicenda Zaki, non ci fidavamo di chi diceva che in Egitto andava tutto bene. È stato detenuto senza traduttori, sottoposto a un interrogatorio senza avvocati”. Anche il Pd, lo scorso 13 luglio, era intervento sulla questione. I deputati dem in commissione Esteri avevano scritto: “L’uso di informazioni riservate per scopi politici è un fatto molto grave e inaccettabile. Il gruppo del Partito Democratico ha sempre difeso i diritti dei nostri connazionali all’estero coinvolti in casi giudiziari come Zaki, Salis, Chico Forti e, più recentemente, Passeri a prescindere dalle imputazioni a loro carico e al solo fine di garantire un equo processo e condizioni di detenzione dignitose. A riguardo, la deputata Laura Boldrini, a nome del gruppo del Pd della commissione Esteri della Camera e in accordo con altri gruppi parlamentari, a partire da Avs, sulla base di informazioni diffuse dalla stampa, ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Tajani per chiarire la situazione di un giovane detenuto in Egitto da circa un anno”. I dem inoltre, nella loro nota, criticavano la Farnesina che “non ha ancora fornito dettagli utili nelle sedi parlamentari”. Romania. Filippo Mosca dopo due anni di carcere trasferito in Italia. La gioia della mamma La Nazione, 30 gennaio 2025 “Per Filippo finiscono quasi due anni di sofferenze”. Una lunga angoscia durata quasi un anno e nove mesi. Oltre un anno di detenzione nel carcere di Porta Alba, a Costanza, in Romania, definito un lager, poi nel luglio scorso il trasferimento nel penitenziario di Bucarest. Da ieri, però, Filippo Mosca è rientrato in Italia e si trova nel carcere di Viterbo. Il giovane trentenne di Caltanissetta era stato condannato a 8 anni e 3 mesi per traffico internazionale di sostanze stupefacenti, assieme all’amico Luca Cammalleri, e ad un’altra ragazza italiana il cui nome resta ancora un mistero. Tutti avevano deciso di andare nell’aprile di due anni fa con amici al festival di musica Mamaia, che si svolge ogni anno a inizio maggio nel teatro estivo di Costanza. Un viaggio di piacere che si è trasformato in un calvario giudiziario e detentivo. La notizia del trasferimento in Italia di Mosca è arrivata con una telefonata dal carcere di Viterbo alla madre Ornella Matraxia, che dal 3 maggio 2023, data in cui il figlio è stato arrestato, si batte per la sua scarcerazione, più che convinta dell’innocenza del figlio che fin dal primo giorno ha sempre respinto le accuse mosse dai giudici romeni. Giudici che hanno sempre detto no, nel corso di questi mesi, anche alla richiesta della difesa di scontare la pena agli arresti domiciliari. L’amico Luca Cammalleri, condannato a 8 anni e 2 mesi, è stato trasferito nel carcere di Viterbo lo scorso dicembre. “È una bellissima notizia, Filippo da qualche ora è atterrato in Italia, finalmente ha lasciato la Romania dopo quasi due anni incredibili di sofferenza fisica, psicologica, con la sua anima che è stata lacerata e le cui ferite e cicatrici non guariranno mai più, perché sono certa che resteranno in eterno”, sono le prime parole dense di commozione di Matraxia. Per mesi la madre di Mosca ha denunciato “le condizioni sconvolgenti” delle carceri romene. “Adesso, siamo felici - aggiunge -, perché sicuramente a Viterbo le condizioni di detenzione saranno migliori e sarà tutto più facile, perché potrà comunicare nella sua lingua, anche le piccole cose saranno più semplici. L’unica nota stonata è che sarà possibile parlare al telefono con Filippo soltanto 10 minuti a settimana. Mentre in Romania ci si poteva sentire ogni giorno”. Etiopia. I bambini della guerra? “Sono i miei figli nel Villaggio degli invisibili” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 30 gennaio 2025 Francesco Romagnoli e i 20 anni d’impegno in Etiopia. L’associazione e le adozioni degli “ultimi”. La storia del volontario diventa un libro che sarà presentato a Firenze. Ha studiato Economia e commercio per andare a lavorare nello studio del padre commercialista. Per cinque anni ha lavorato dietro quella scrivania ma a un certo punto quella scrivania è diventata un muro di cemento armato che lo sperava dalla vita. Francesco Romagnoli si è guardato dentro e ha detto che no, la vita è soltanto una e non avrebbe dovuto sprecarla facendo qualcosa che non lo appassionava. “Una mattina mio padre, mosso a compassione, decise di liberarmi da quella prigione dorata. Mi chiamò e mi disse che quel lavoro non faceva per me”. Una di quelle notti, Francesco fu svegliato nel sonno dai pianti di alcuni bambini. “Mi alzai e uscii in terrazza. Forse venivano dal reparto di pediatria del vicino ospedale. Quei pianti potevo sentirli solo io. E forse erano il segno che stavo aspettando”. Poche sere dopo, mentre guardava la tv, si soffermò sull’intervista a una missionaria etiope che raccontava gli orfani, le loro sofferenze e i loro pianti. “Ecco di chi erano quei pianti”. Francesco ebbe una scintilla e decise di seguirla. Partì per l’Etiopia alla ricerca di quella missionaria. Rimase in Africa un mese, in cerca di ispirazione. Tornò in Italia afflitto da quel dolore, esausto di quella povertà. Poi ripartì, perché l’Africa gli mancava. Adottò una bambina di strada che si chiama Melat e le dette come cognome Francesco, il suo nome, secondo la prassi etiope. Da allora non se n’è più andato. Ha creato l’associazione “James non morirà” ed è rimasto quasi vent’anni in Etiopia, dove ha costruito quello che oggi è il Villaggio dei bambini, ad Adwa, nel nord del Paese, una struttura che ospita oltre cento bambini orfani. Tutti loro portano il suo cognome. Sono figli della guerra nel Tigray, bambini nati da stupri, bambini abbandonati dai genitori, bambini che hanno perso i loro familiari trucidati nel conflitto, spesso davanti ai loro occhi innocenti. Nel Villaggio lavorano sessanta persone, tutte locali. L’area si estende su un terreno di due ettari ed è costituita da sedici casette, in ognuna delle quali vivono nuclei familiari composti da 6/8 bambini affidati alle cure di una donna locale, selezionata e istruita dall’associazione di Francesco, che svolge le funzioni di “mamie”. Così i piccoli ritrovano una parvenza di famiglia, una vita normale. La struttura è dotata di una mensa interna che garantisce più di 300 pasti giornalieri per tutti gli abitanti del Villaggio, di aree comuni per giocare e studiare, di un orto che procura frutta e verdura fresca, di una stalla che fornisce latte igienicamente sicuro per i bambini. L’educazione scolastica dei bambini, con frequenza delle scuole pubbliche, viene integrata da insegnanti di sostegno per lo svolgimento dei compiti. Per i più piccoli c’è una scuola materna. Al compimento dei diciotto anni, i ragazzi continuano ad essere assistiti per studi universitari e corsi di formazione professionale. In Etiopia sono nati i due figli di Francesco, che oggi si sono trasferiti in Italia ma dentro di loro hanno il mal d’Africa, come del resto loro padre che oggi, guardandosi indietro, rivede la sua vita e pensa all’importanza di dare fiato ai sogni. “Qualcuno dice che sono pazzo, ma io ho soltanto colto la scintilla delle mie aspirazioni e l’ho trasformata in realtà, è qualcosa che tutti possono fare, servono sacrifici e tanta forza di volontà”. La storia di Francesco e del suo Villaggio è diventata un libro, Babaje. Il richiamo dei bambini invisibili (Gremese Editore) che sarà presentato mercoledì 29 gennaio alle 18.30 presso la libreria Giunti Odeon di Firenze alla presenza della sindaca Sara Funaro e del giornalista del Corriere della Sera Iacopo Gori.