Questo carcere è fuori dalla Costituzione, la lezione di fine anno di Mattarella di Davide Vari Il Dubbio, 2 gennaio 2025 Il Capo dello Stato, con il suo solito garbo istituzionale, ha rotto il silenzio sulle condizioni delle nostre carceri. Sergio Mattarella, con il suo solito garbo istituzionale, grazie al quale sa affondare il colpo senza mai alzare i toni, ha rotto il silenzio sulle condizioni delle nostre carceri. Ha detto quello che da anni fingiamo di non sapere, ovvero che le nostre carceri sono fuori dalla Costituzione. “Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”, ha spiegato il capo dello Stato. “I detenuti - ha poi detto - devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti”. Ma sia chiaro, le parole capo dello Stato non possono essere lette solo come una denuncia contro la politica di questo governo, che sul carcere gioca a fare il duro; no, le sue parole sono rivolte anche alle opposizioni che di fronte all’ondata di suicidi si limita a sussurrare parole di circostanza. Mattarella ha detto chiaramente che “i detenuti devono poter respirare un’aria diversa”. E dunque chi pensa che la reclusione sia una forma di vendetta istituzionale, un modo per togliere respiro ai colpevoli, è fuori dalla Costituzione. Punto. Perché, lo ricordiamo, quella stessa Costituzione parla di pene orientate alla rieducazione, all’inserimento nella società, non alla tortura psicologica e alla morte lenta. Nel 2024, 89 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre. Ottantanove. E ora, come ogni gennaio, la conta riparte da zero, come se quelle vite non fossero mai esistite. E se le condizioni delle nostre prigioni non cambiano, questo numero non sarà diverso a fine 2025. È una tragedia ciclica, che si ripete perché non abbiamo il coraggio di guardarla in faccia. Il problema non è solo nei numeri, ma nella concezione stessa del carcere che ha questa classe politica, da destra a sinistra. Da una parte si soffia sulla fiamma della paura, con proclami securitari e promesse di pugno duro. Dall’altra, un’opposizione che ogni tanto si affaccia timidamente, ma non ha mai davvero spinto per un cambiamento strutturale. Mattarella ha parlato di “operatori generosi”, ovvero di coloro che lavorano nelle carceri nonostante condizioni indegne anche per loro. Ma non possiamo lasciarli soli. Non possiamo accettare che le carceri continuino a essere il buco nero del nostro Stato, il luogo dove si accumulano vite spezzate senza che nessuno si preoccupi di come ripararle. La sicurezza non viene dal far marcire le persone dietro le sbarre. La sicurezza viene dal rieducare, dal reinserire, dal dare una possibilità a chi ha sbagliato di tornare a essere parte della società. Questo non è buonismo, è civiltà, è razionalità, è ciò che la nostra Costituzione prevede. Il 2025 dovrebbe ripartire dalle parole di Mattarella, che ha indicato la strada con una fermezza che non lascia spazio a interpretazioni. È il momento di accendere i fari su queste zolle d’ombra, su queste “discariche umane” che nessuno vuole vedere. Il nostro compito, come cittadini e come Paese, è quello di trasformare il carcere da luogo di morte a strumento di rinascita. L’allarme di Mattarella: “Tanti suicidi in carcere, condizioni inammissibili” di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2025 Antigone: “Non respirano le persone detenute, oltre 62.000 (per 47.000 posti disponibili), numeri che non si registravano più dal 2013, cioè dai tempi della condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati registrati nelle carceri italiane”. Crescono le presenze in carcere, crescono i suicidi e si aggravano molti dei problemi cronici del sistema penitenziario italiano. Un mondo troppo spesso invisibile. Tanto che uno dei passaggi del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è concentrato su questa questione, a partire dal suo volto più drammatico e inaccettabile. “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili - ha sottolineato il Capo dello Stato nell’intervento a reti unificate -. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Mattarella ha posto l’accento sul “rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere”. L’apertura della Porta santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia da parte di Papa Francesco ha riacceso il dibattito sul problema. È stato un gesto simbolico voluto fortemente del Pontefice per coinvolgere tutta la popolazione carceraria del mondo nel Giubileo della speranza. “Secondo Ristretti Orizzonti, dall’inizio del 2024 si sono tolte la vita 88 persone detenute - hanno sottolineato i volontari di Antigone. Mai si era registrato un numero così alto, superando addirittura il tragico primato del 2022 che, con 84 casi, era stato fino ad ora l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Oltre ai suicidi, il 2024 è stato in generale l’anno con il maggior numero di decessi. Se ne contano 243 da inizio gennaio”. “In carcere non si respira - ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Non respirano le persone detenute, oltre 62.000 (per 47.000 posti disponibili), numeri che non si registravano più dal 2013, cioè dai tempi della condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati registrati nelle carceri italiane”. Al drammatico bilancio, spiega Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, “bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita”. Il tasso dei suicidi - Oltre al numero in termini assoluti, un indicatore dell’ampiezza del fenomeno è il cosiddetto “tasso di suicidi”, ossia la relazione tra il numero dei decessi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Nel 2023 con 70 suicidi questo tasso è pari a 12 casi ogni 10.000 persone, registrando - dopo il 2022 - il valore più alto dell’ultimo ventennio. Nell’attesa che vengano definiti i dati di tutto il 2024, considerato il numero di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno, il valore - osserva Antigone - sembrerebbe destinato a crescere rispetto a quello del 2023. Disaggregando per genere il tasso di suicidi del 2023, vediamo come il tasso relativo alle donne (con 4 suicidi per una popolazione detenuta media di 2.493 persone) sia sensibilmente superiore a quello relativo agli uomini. Il primo si attesta a 16 casi ogni 10.000 persone, il secondo a 11,8. Disaggregando invece il tasso per nazionalità, vediamo come l’incidenza dei suicidi sia maggiore tra le persone di origine straniera (28 suicidi per una popolazione detenuta media di 18.185), con un tasso pari a 15 casi ogni 10.000 persone, rispetto a un tasso pari 10,5 tra gli italiani. “Da Mattarella monito ai partiti sulle carceri. Serve un atto di clemenza”. Parla Fiandaca di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 gennaio 2025 “Nel discorso di fine anno il capo dello Stato è stato chiaro: occorre riportare il carcere nell’ambito dell’umanità”, dice Giovanni Fiandaca, tra i massimi giuristi italiani. Il 2024 è stato l’anno record dei suicidi tra i detenuti. “Bisogna intervenire con un provvedimento di amnistia o indulto”. “Le parole espresse sul carcere dal presidente Mattarella nel discorso di fine anno sono scolpite nel marmo costituzionale. Ricordare che la Costituzione contiene norme sulla detenzione il cui rispetto è imprescindibile non significa fare un richiamo di parte, bensì rivolgere un ammonimento a tutto l’orizzonte politico: occorre riportare il carcere nell’ambito dell’umanità”. Lo dice al Foglio Giovanni Fiandaca, tra i massimi giuristi italiani. Ma come intervenire? “Innanzitutto con un provvedimento di amnistia o indulto”. “Le condizioni attuali delle carceri sono invivibili e inammissibili”, afferma Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo e già garante dei detenuti della Regione Sicilia. A confermarlo sono i numeri impietosi dei suicidi dietro le sbarre. Il 2024 sarà ricordato come l’anno del record di suicidi tra i detenuti in carcere: 89. “Il dato è impressionante e costituisce la riprova del fatto che il carcere, così come attualmente funziona, finisce con l’essere un sistema patogeno, non solo per i detenuti ma anche per i poliziotti penitenziari”, aggiunge Fiandaca. Per il giurista, il senso del monito espresso dal capo dello stato nel discorso di fine anno è molto chiaro: “Ci sono alcuni princìpi fondamentali che dovrebbero costituire oggetto di un consenso generalizzato perché fanno parte della base fondamentale comune di una democrazia costituzionale degna di questo nome. Tutte le forze politiche dovrebbero tendere a realizzare un accettabile equilibrio tra una pena volta a reprimere, ma soprattutto a prevenire la commissione dei reati, e una pena al tempo stesso rispettosa dei diritti fondamentali e che possa ambire all’obiettivo rieducativo previsto dalla Costituzione”, spiega. Molto difficile farlo quando gli istituti di pena esplodono di detenuti: oltre 62 mila presenze, a fronte di circa 47 mila posti. “Ridurre la popolazione carceraria è un obiettivo ineludibile. Questo è stato sottolineato di recente in una nota congiunta anche dall’Associazione italiana dei professori di Diritto penale e da quella degli studiosi del processo penale, che hanno evidenziato come il cronico sovraffollamento carcerario sia incompatibile con i nostri princìpi costituzionali, ma anche con le carte sovranazionali”. Dunque, come intervenire? “Occorre realizzare nel più breve tempo possibile un provvedimento di clemenza, di amnistia o indulto, limitato ai reati minori e a pene residue che non superino i due anni. Se si riuscisse a ridurre la popolazione carceraria di 15-20 mila unità, la situazione migliorerebbe fin da subito, perché si sgraverebbe il sistema da un eccesso di impegno che, con le risorse attuali, non risulta gestibile. Le condizioni di detenzione quindi diventerebbero più vivibili, con minori disagi psicologici per i reclusi”. “Allo stesso tempo - aggiunge Fiandaca - bisognerebbe incrementare le risorse destinate all’esecuzione delle pene fuori dal carcere, anche dal punto di vista della rete socio-assistenziale che dovrebbe fare da contorno all’esecuzione della pena esterna. Mi riferisco al ricovero in comunità degli autori dei reati, al ritrovamento di opportunità lavorative, al sostegno psicologico dei soggetti più fragili”. “Pensare di creare nuove carceri non è la ricetta, anche perché i tempi sarebbero tali che intanto la situazione peggiorerebbe ulteriormente”, prosegue. Proprio il ministro della Giustizia Carlo Nordio in una recente intervista si è detto contrario all’ipotesi di un’amnistia o di un indulto, sostenendo che sarebbe una “manifestazione di debolezza” e costituirebbe un invito “alla commissione di nuovi reati”. “Queste affermazioni non sono basate su alcuna certezza scientifica, sono semplici opinioni”, replica Fiandaca. “In ogni caso, anche se ci fosse questo effetto, tutto da dimostrare, in questo momento occorre realizzare un bilanciamento costituzionale tra princìpi ineludibili: l’esigenza immediata di porre rimedio all’attuale funzionamento del carcere come sistema criminogeno è un’esigenza costituzionalmente prioritaria rispetto a ogni altro tipo di preoccupazione. Questo è il senso del discorso del presidente della Repubblica”, sottolinea il giurista. “Ho il massimo rispetto per il ministro Nordio. Con queste dichiarazioni mostra però di soggiacere a preoccupazioni elettorali contingenti. E, da lui, non me lo aspetto”. “Ripensare la pena” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 2 gennaio 2025 L’allarme del presidente Mattarella sulle carceri italiane. Insicurezza e processo mediatico: sarà l’anno della giustizia? Sergio Mattarella non si è tirato indietro nel messaggio di Capodanno, neppure sul carcere. Dopo la parola forte, “indulto”, di Papa Francesco che ha aperto la Porta Santa a Rebibbia e dopo che il ministro Carlo Nordio ha lanciato il suo programma di umanizzazione della pena, è toccato al presidente della Repubblica prendere la parola. Tre voci autorevoli, fondamentali. La situazione è dunque eccellente e ricca di speranze per il prossimo futuro? Eh no, perché il 2024 si è chiuso con numeri cupi e tragici. Non solo perché 89 sono stati i suicidi tra i detenuti e 6 tra gli agenti di polizia penitenziaria, ma anche perché 243 persone in Italia sono morte da prigioniere. Morte naturale, si dice, ammesso che ci sia qualcosa di naturale nel lasciare la vita in una cella, chiusi tra mura invalicabili. Persone che tra quelle mura scontavano la pena. Tocca così al capo dello Stato spiegare al colto e all’inclito che non c’è certezza se la pena è disumana. E precisare, chiarire, puntualizzare che prima di tutto viene la Costituzione. La legge delle leggi che “indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Si attribuisce al sovraffollamento la responsabilità di vite che non sono vite, se si sta stipati in 10mila in più del dovuto e del previsto. Ma questi numeri, spiega ancora Mattarella, semplicemente contrastano con la Costituzione: “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”. Ed ecco che con questa parola, l’aria, il presidente ha dato una bella risposta a quel sottosegretario che invece aveva detto di voler togliere il respiro ai prigionieri (o forse solo a quelli mafiosi). Ma è proprio il concetto di pena, voluto dai padri costituenti con l’articolo 27, che torna in discussione con la presa di posizione di Papa Francesco e anche con la proposta di “indultino” del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, così come con le interviste del Guardasigilli e con l’intervento del presidente del Cnel Renato Brunetta. Il carcere come privazione della libertà, e nulla altro di aggiuntivo. Questo dovrebbe essere un programma di governo. E se non si è in grado di garantire una vita “normale” (per quanto possa esserlo il vivere in cattività) alle persone prigioniere, sia condannate che in attesa di giudizio (e quindi innocenti), allora si ha il dovere di provvedere subito e con tempi certi a sbloccare una situazione che, ce lo dice un presidente che è anche giurista, è contraria alla Costituzione. “Indulto” o “indultino” non sono parolacce. È quello che ha detto giorni fa per esempio il presidente del Senato, Ignazio la Russa. “Quando tu dai cinque anni di carcere devi sperare che in quei cinque anni il condannato migliori, ma contemporaneamente che paghi la sua colpa. Il problema è: riusciamo noi a dare alla detenzione queste due funzioni? Se riusciamo a darle non abbiamo bisogno né di amnistia né di indulto. Se non ci riusciamo, a volte è corretto rifugiarsi in amnistie o in piccoli indulti”. Ecco ben espresso il concetto di fallimento dello Stato. Non in particolare di questo governo o del precedente: stiamo parlando di un fallimento storico, in cui il termine “sovraffollamento” viene pronunciato con disinvoltura come fosse un dato ineluttabile. Il programma del ministro Nordio, che si dice contrario a qualunque forma di amnistia o di indulto perché sarebbero “segnali di impunità”, è ineccepibile: umanizzare la pena incrementando “attività culturali, lavorative o sportive dentro il carcere, o modalità diverse dai penitenziari per scontare il proprio debito con la giustizia”. Ma c’è urgenza e ci vogliono date certe. C’è qualcosa che si potrebbe fare anche subito, con provvedimenti amministrativi: mandare a casa in detenzione domiciliare (come fu fatto quando c’era la pandemia di Covid-19) le persone anziane e malate, così come coloro che devono scontare solo un residuo di pena di uno o due anni. Ma esiste una volontà politica? O il concetto di “certezza della pena” continua a prescindere da quella qualità, da quella modalità della pena che Mattarella ha definito come contraria alla Costituzione? Brunetta - già ministro ed esponente di Forza Italia - ha lanciato la campagna della “recidiva zero”, in sintonia con il programma del ministero della Giustizia, ma chiarendo anche che “nel frattempo” quantomeno l’indultino proposto da Pinelli sarebbe indispensabile e urgente. Ascolterà queste autorevoli voci la compagine di governo? A partire da quella FI che, sotto la guida di Silvio Berlusconi, nel 2006 votò a favore dell’indulto. Indulto, arriva anche l’appello della Cei ma la strada è in salita di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 2 gennaio 2025 I vescovi italiani plaudono alle parole del Capo dello Stato sulla dignità dei detenuti ma nei commenti della politica prevale il timore di essere impopolari. Negli ultimi giorni, gli appelli per un provvedimento che possa lenire la drammatica situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane si sono levati dalle maggiori autorità morali del Paese. Alla richiesta di Papa Francesco di un indulto, che si inserisce nel solco della tradizione che vuole associato al Giubileo la concessione di un’amnistia, si è aggiunta la denuncia della disumanità delle condizioni di detenzione in molti istituti da parte del Capo dello Stato nel suo discorso di fine anno e ieri, sulla quale ieri ha fatto leva la Conferenza episcopale italiana per sollecitare un atto concreto da parte della classe politica. “Esprimiamo profonda gratitudine al presidente della Repubblica Sergio Mattarella”, hanno scritto i vescovi, “per le parole che ha rivolto al Paese nel Messaggio di fine anno. Lo ringraziamo, in particolare, per aver ricordato le tante povertà che segnano il nostro tempo e le nostre comunità. Tra queste, la drammatica situazione delle carceri che impone un ripensamento radicale del sistema penitenziario”. “L’indice di sovraffollamento”, prosegue la Cei nella sua nota, “è pari a 130,44%, e i suicidi, sempre più numerosi, chiedono ascolto: la disperazione non può avere come risposta l’indifferenza. Serve uno sforzo collettivo per assicurare condizioni dignitose a quanti vengono privati della libertà e per offrire percorsi adeguati perché la detenzione sia un’occasione di rieducazione e redenzione. Per garantire sicurezza, c’è bisogno di giustizia, non di giustizialismo. Esistono misure alternative che, oltre a prevenire la reiterazione di un reato, salvaguardano l’umanità e favoriscono il reinserimento nella società: se ben proporzionate e gestite con saggezza, sono in grado di produrre un cambiamento e di guardare al futuro. A pochi giorni dall’apertura del Giubileo e della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, a Roma, ripetiamo l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella bolla di indizione Spes non confundit” per “forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Quella per un indulto, anche parziale, è dunque una campagna su cui i vescovi italiani stanno insistendo, e questo dato è confermato anche dal fatto che il loro quotidiano di riferimento ha ospitato giorni fa l’intervista in cui il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli si è detto favorevole a un provvedimento di questo tipo. A Pinelli ha fornito il proprio appoggio anche il presidente del Cnel Renato Brunetta, che in collaborazione col suo conterraneo Guardasigilli Carlo Nordio sta portando avanti una serie di iniziative volte ad abbattere la recidiva per i detenuti e favorire il loro reinserimento nel tessuto sociale. Sull’indulto, però, Nordio non ha espresso favore, palesando il vero punto critico della questione, e cioè la mancanza di una reale volontà politica. In questo momento, infatti, vi sono tre partiti chiaramente schierati contro ogni tipo di indulto: Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle. Fornirebbero il proprio voto favorevole il Pd, Avs, Più Europa e verosimilmente Azione e Italia Viva. Cruciale sarebbe la posizione di Forza Italia, che fino a questo momento si è prodotta in dichiarazioni dal sapore ambiguo, nella quale l’attenzione per la condizione dei detenuti si accompagna alla reiterata citazione del principio della “certezza della pena”. Anche ieri, nei commenti degli esponenti della maggioranza alla parte del discorso di Mattarella che ha riguardato la condizione dei detenuti ha prevalso la volontà di glissare sul tema dell’indulto e in alcuni casi - come in quello del leader leghista Matteo Salvini - è stato il pretesto per declassare le esigenze dei reclusi rispetto a quelle degli agenti di polizia penitenziaria. I quali, invece, attraverso il sindacato Uilpa hanno accolto con favore le parole del Quirinale sollecitando provvedimenti per contrastare il sovraffollamento. Se si tiene conto che agli appelli di Papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000 per un provvedimento di clemenza sostanzialmente non vi fu alcun seguito da parte della politica, e che il Pontefice ripeté l’appello due anni dopo quando parlò davanti ai parlamentari a Montecitorio, e che anche in quell’occasione non accadde nulla fino al timido indulto del 2006, lo spazio per l’ottimismo è piuttosto ristretto. Eppure, quando nel nostro Paese la situazione di conflitto sociale e di incidenza della criminalità era ben più alta di quella odierna, i provvedimenti di amnistia e di indulto erano decisamente più frequenti, se si pensa che dall’istituzione della Repubblica fino al 1990 vi sono stati 27 tra amnistie e indulti. Poi, quasi il nulla. Zuppi: “Serve un ripensamento radicale del sistema penitenziario” di Pier Giuseppe Accornero bergamonews.it, 2 gennaio 2025 Il cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei: “la drammatica situazione delle carceri che impone un ripensamento radicale del sistema penitenziario”, al quale però non pensa minimamente il governo di destra, preoccupato solo di peggiorare le pene, di inventarne di nuove e di “buttare la chiave” come ama esprimersi Matteo Salvini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva appena finito il suo messaggio di buon anno agli italiani a reti unificate, che ha presidenza della Cei, con una rapidità encomiabile emetteva una “nota con la gratitudine per le parole del presidente sulla drammatica situazione delle carceri”. Si può ipotizzare che sul cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, abbiano agito due fattori: i “rapporti” sempre più allarmanti dei cappellani delle carceri che sono in costante rapporto con i detenuti; la vigorosa spinta di Papa Francesco che a Santo Stefano ha voluto scegliere il carcere di Rebibbia per aprile la seconda porta santa dopo quella di San Pietro il 24 dicembre. “Esprimiamo profonda gratitudine - scrive Zuppi - al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per le parole che ha rivolto al Paese nel messaggio di fine anno. È un’occasione per rinnovargli la nostra riconoscenza per il suo servizio di custode e garante della democrazia e dei valori della nostra Repubblica e dell’Europa. Lo ringraziamo, in particolare, per aver ricordato le tante povertà che segnano il nostro tempo e le nostre comunità. Tra queste, la drammatica situazione delle carceri che impone un ripensamento radicale del sistema penitenziario”, al quale però non pensa minimamente il governo di destra, preoccupato solo di peggiorare le pene, di inventarne di nuove e di “buttare la chiave” come ama esprimersi Matteo Salvini. Zuppi ricorda le parole del presidente Mattarella: “Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”. Un’”aria diversa”. È assolutamente impossibile nelle carceri italiane. Il sovraffollamento - dice la presidenza dell’episcopato - è dimostrato da queste cifre: “Attualmente i 189 Istituti italiani ospitano 61.246 persone su una capienza di 51.230 posti. L’indice di sovraffollamento, pari a 130,44%, e i suicidi, sempre più numerosi, chiedono ascolto: la disperazione non può avere come risposta l’indifferenza. Serve uno sforzo collettivo per assicurare condizioni dignitose a quanti vengono privati della libertà e per offrire percorsi adeguati perché la detenzione sia un’occasione di rieducazione e redenzione. Per garantire sicurezza, c’è bisogno di giustizia, non di giustizialismo. Esistono misure alternative che, oltre a prevenire la reiterazione di un reato, salvaguardano l’umanità e favoriscono il reinserimento nella società: se ben proporzionate e gestite con saggezza, sono in grado di produrre un cambiamento e di guardare al futuro”. Si noterà il tono molto duro di questo comunicato, che denuncia l’ennesimo fallimento del governo di destra: “Non si tratta di scorciatoie o concessioni buoniste, ma di un vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di un atto di amore. Occorrono però strumenti e finanziamenti mirati ed efficaci, lavoro, collaborazione degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Esperienze bellissime, diffuse sul territorio, dimostrano che un’altra realtà esiste, che il traguardo della “recidiva zero” è possibile. È una sfida da affrontare insieme: istituzioni, società civile, comunità ecclesiale, con il supporto del mondo del volontariato, fondamentale anche nel fare cultura fuori da pregiudizi e distorsioni”. Pochi giorni dopo l’apertura del Giubileo e della porta santa nel carcere di Rebibbia, Zuppi ripete l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella bolla di indizione “Spes non confundit”: “Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. È necessario - conclude il presidente della Cei - “dare dignità al grido degli ultimi: come Chiesa in Italia continuiamo a camminare con i fratelli che hanno sbagliato, con amore, perché questo ci fa riconoscere nell’altro la persona che è sempre degna della nostra compassione”. Carceri fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale: è la fotografia che lascia il 2024. “Lanciamo l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. Il governo ponga il carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte”. Lo denuncia Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Il 23 dicembre è morta l’ultima persona in carcere, la 244ª di questo drammatico 2024, di cui 88 suicidi. La morte - denuncia “Antigone” - “è avvenuta nel carcere di Sollicciano, uno di quegli istituti dove sovraffollamento, condizioni strutturali e di conseguenza igienico-sanitarie non si possono definire degne di uno Stato di diritto. Nonostante queste situazioni fissate da questi numeri, nonostante i richiami del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - non solo a san Silvestro - l’attenzione sul carcere è minima e le uniche politiche attive del governo “sono quelle - dice Antigone - che continuano a riempire spazi che ormai da tempo non ci sono più”. La “certezza della pena” per 90 volte è stata il suicidio di Francesco Petrelli* L’Unità, 2 gennaio 2025 Le nostre carceri traboccano di detenuti: in tanti si tolgono la vita perché costretti a vivere in condizioni degradanti e inumane. Ma per Nordio l’indulto sarebbe “segno di debolezza”. Mentre il ministro Nordio ribadiva l’ennesimo rifiuto ad ogni forma di provvedimento di clemenza, se ne andava il novantesimo detenuto, un giovane di 27 anni, che si è impiccato nel carcere di Piacenza. Si è portato via le sue ragioni disperate strette nel cuore, come gli altri 89 detenuti che in questo ultimo anno prima di lui hanno scelto di fare quell’ultimo terribile passo. Sovraffollamento e suicidi continuano infatti a crescere. Per chi abbia visitato i reparti di un carcere sovraffollato non è difficile comprendere l’urgenza e la necessità di restituire dignità e umanità alle persone detenute. Ma anche a chi non ha mai visitato un carcere, non è difficile comprendere come il sovraffollamento impedisca ogni contatto umano, renda impossibile intercettare il disagio dei più sofferenti che spesso conduce a quel gesto estremo. L’idea del senatore Ostellari evidentemente non funziona: il sovraffollamento non solo non impedisce materialmente i suicidi, ma rende impossibile ogni forma di prevenzione, per cui non solo non evita ma favorisce la drammatica escalation. Nessuno risponde alla domanda che più volte è stata formulata sulle condizioni di coloro che usciranno dal carcere a fine pena, dopo aver vissuto nel degrado umano ed ambientale che le attuali condizioni carcerarie riservano ai condannati. Quali aspettative di reinserimento possiamo immaginare per quei detenuti che finiscono di espiare le loro condanne (a pene spesso brevi e per reati non gravi), nell’attuale stato di abbandono, senza un minimo di trattamento che il sovraffollamento stesso impedisce di somministrare? Saranno meno inclini alla recidiva di coloro che potrebbero essere rimessi anticipatamente in libertà? Quale calcolo statistico o quale ragionevole valutazione di buon senso fa immaginare che per la sicurezza dei cittadini sia meglio una ottusa intransigenza? Simili questioni vengono accuratamente emarginate, negando l’emergenza e prospettando slogan e vuote formule di stile. Se si dovessero infatti mettere in fila gli argomenti spesi da governo e maggioranza per negare in radice la possibilità stessa di un qualche provvedimento di clemenza ne uscirebbe fuori un catalogo impressionante di affermazioni contraddittorie e di luoghi comuni. Non migliorano certo la situazione le ultime considerazioni sviluppate dal ministro Nordio, secondo il quale simili provvedimenti sarebbero “plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza”. Al centro del ragionamento non viene posta un’analisi concreta della realtà carceraria, ma soltanto la preoccupazione nei confronti della percezione che l’opinione pubblica avrebbe di un provvedimento clemenziale. C’è da chiedersi, al contrario, se possa mai apparire piuttosto “forte e magnanimo” uno Stato che consente il permanere di condizioni carcerarie sostanzialmente illegali, tanto degradate ed inumane da impedire ogni finalità costituzionale della pena. Si continuano, tuttavia, a prospettare le magnifiche sorti e progressive di piani carcere straordinari e di nuovi “condomini” per detenuti che, certo, come si ammette, “non sono cose che si improvvisano”, ma alle quali “si sta lavorando”. Si tratta infatti di progetti a lungo termine che, al di là della aderenza ad una idea di pena modernamente intesa, risultano dichiaratamente privi di un qualche possibile effetto immediato. Appare sufficiente rilevare come nessun serio programma di umanizzazione del contesto possa essere realizzato se non accompagnato da una seria e urgente manovra di decompressione. Nonostante gli appelli autorevoli del capo dello Stato e del Papa, e le voci discordanti che invitano alla riflessione, sorte di recente all’interno della stessa maggioranza, siamo fermi su quella ostinata ripetizione di un modulo che oscilla fra la negazione della terribilità del presente e l’illusione risolutiva di un futuro prossimo venturo. Mentre il rifiuto di ogni rimedio deflattivo viene costantemente ribadito nel nome altisonante e vuoto della “certezza della pena”, formula salvifica che ha sostituito quella del “più carcere più sicurezza”, smentita da ogni dato empirico. Nel ventaglio delle proposte da respingere con fermezza, il Ministro evoca oggi quella di un improbabile “indulto incondizionato”. Se è la mancanza di condizioni che ostacola il provvedimento di clemenza, basta ricordare che l’indulto è tipicamente, non solo corredato da esclusioni oggettive e soggettive, ma soprattutto condizionato alla eventuale recidiva. Se il detenuto ricade nel reato la pena rivive automaticamente. Sono molteplici le soluzioni di cui parlare capaci di risolvere il problema informando e rassicurando la collettività. Ma a forza di dire no ad ogni possibile soluzione ci si trova rinchiusi in un vicolo cieco a recitare il mantra della “pena certa”, mentre l’unica “certezza della pena” che dovrebbe essere promossa nell’interesse dei cittadini è quella che ogni pena venga scontata nel rispetto dell’umanità e della dignità del condannato e finalizzata concretamente al suo reinserimento sociale. *Presidente dell’Unione Camere Penali Lo stemma del GIO-Gruppo di intervento operativo di Arrigo Cavallina Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2025 La drammatica situazione delle carceri è nota: il sovraffollamento, l’arbitraria privazione delle relazioni affettive, la stretta limitazione delle comunicazioni, le condizioni igieniche, gli episodi di violenza sono tutti fattori di grave malessere resi ancora più evidenti dal mai così alto numero di suicidi. Ci sono buone ragioni per denunciare e protestare contro un regime di illegalità, spesso sanzionato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da più parti si chiede al Governo di intervenire con provvedimenti adeguati. E cosa fa il Governo? Eccolo il provvedimento: col DM 14 maggio 2024 istituisce il G.I.O., Gruppo di intervento operativo per stroncare con la forza le proteste. Chi ha stomaco può guardare i 44 minuti di video della presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=jnVVF4U7RLo Il Governo torna ad occuparsi di carcere nel disegno di legge sulla Sicurezza, approvato dalla Camera e attualmente al Senato. All’art. 15 prevede che possano essere incarcerate anche le donne incinte o con bambini di meno di un anno. All’art. 26 aumenta la pena, che già arriva a 5 anni, per chi istiga alla disobbedienza, se questo avviene dentro un carcere. Inoltre chi in carcere compie atti di resistenza, anche passiva, all’esecuzione di ordini è punito con la reclusione fino a 5 anni. Se poi è tra i promotori si arriva a otto anni. La nonviolenza è equiparata alla violenza in una norma chiamata “anti Gandhi”. Ma la ciliegina simbolo non solo della politica penitenziaria, ma direi dell’ispirazione e della direzione del Governo la troviamo in questo Provvedimento del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia (quindi governativo, risalendo la catena di comando) del 5 dicembre scorso, che stabilisce lo stemma del G.I.O. Non sappiamo se ne siano già stati reclutati i membri, ma sappiamo che questo è il loro stemma. Possiamo confrontarlo con la norma costituzionale sulla finalità rieducativa della pena. In una grafica molto riconoscibile, riconosciamo anche al centro il gladio, la spada romana. Quante evocazioni. Contro Cospito il sadismo di ministro e Dap di Frank Cimini L’Unità, 2 gennaio 2025 Evidentemente Carlo Nordio, il “liberale e garantista” ministro della Giustizia, non ha di meglio da fare in questi giorni. Insieme al Dap ha impugnato in Cassazione l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, ribaltando la decisione della direzione della prigione e del magistrato monocratico, aveva autorizzato Alfredo Cospito ad acquistare farina e lievito. Il Tribunale aveva sottolineato che il divieto di acquistare farina e lievito “cozza contro la linea di indirizzo posta dalla Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale, con specifico riferimento alla materia ‘alimentare’, aveva spiegato che anche chi si ritrova ristretto secondo le modalità dell’articolo 41 bis deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sia libertà individuale”. Insomma, per la Consulta il divieto relativo all’uso di farina e lievito va contro lo spirito e la lettera dell’articolo del regolamento penitenziario del carcere duro. In pratica siamo al di là del bene e del male. I giudici scrivevano anche: “Del resto non si ha notizia di detenuti che abbiano appiccato il fuoco alle suppellettili della camera utilizzando farina. Lo fanno invece purtroppo frequentemente, con gli accendini e i fornelli a gas di cui dispongono”. E ancora si legge nell’ordinanza poi impugnata: “I detenuti comuni e del reparto 41 bis possono acquistare olio di oliva e di semi, prodotti che sono notoriamente altamente infiammabili… Questo a riprova che il divieto relativo alla farina basato sulla sola possibilità che i detenuti possano realizzare congegni esplosivi o incendiari non ha serio fondamento ed è dunque irragionevole”. Secondo la direzione del carcere il Dap e il ministero della Giustizia non ci sarebbe stata lesione di alcun diritto e il ricorso del detenuto aveva a oggetto una mera lamentela su aspetti attinenti alla regolamentazione dettata dall’amministrazione. “È inspiegabile, infine, che il Tribunale metta in discussione che le ragioni poste a fondamento del diniego siano qualificabili come ragioni di sicurezza… Con la farina può essere prodotta colla utilizzabile per occultare oggetti non consentiti. Anche sostanze come il lievito possono diventare facilmente infiammabili o addirittura esplosive” si legge nel ricorso. La richiesta di Nordio alla Cassazione è quella di annullare l’ordinanza senza rinvio o in subordine di rimandare le carte al Tribunale per un nuovo esame. Si tratta dell’ultima in ordine di tempo carognata ai danni dell’anarchico Alfredo Cospito che sta pagando ancora sulla sua pelle il lunghissimo sciopero della fame contro la tortura del 41 bis che affligge circa 700 detenuti. Il digiuno di Cospito in realtà è stato considerato a scopo di terrorismo nell’infinita emergenza italiana sfociata in questi giorni nelle cosiddette “zone rosse Capodanno”. Massacrato a manganellate, ma nessun agente è colpevole di Paolo Di Falco Il Domani, 2 gennaio 2025 Paolo Scaroni è un tifoso del Brescia. Nel 2005 la “celere” gli ha sfondato il cranio in stazione a Verona. Dal coma al risveglio ma da invalido al 100 per cento. Amnesty: “Da allora chiediamo i numeri identificativi”. “Per lo Stato italiano sono un morto che cammina”. A parlare è Paolo Scaroni, ultras del Brescia la cui vita si è fermata alla trasferta veronese del 24 settembre del 2005 con la sua squadra del cuore. Quel giorno una serie di colpi di manganello, assestati violentemente dalla Polizia, gli hanno spaccato la testa rendendolo invalido al 100 per cento. Paolo, all’epoca dei fatti, era un giovane allevatore di tori di Castenedolo e faceva parte del gruppo di ultras “Brescia 1911”. Frequentatore assiduo degli spalti dello stadio Rigamonti, non tanto per l’undici di Rolando Maran ma per stare insieme ai suoi amici, nel settembre del 2005 insieme ad altri 800 tifosi decide di seguire in trasferta le Rondinelle che giocheranno contro l’Hellas. A fine partita il tabellone del Bentegodi segnerà un mero zero a zero ma è lì dentro che, dopo la partita, ci sarà qualche contatto tra le due tifoserie avversarie. I tifosi bresciani verranno scortati in una stazione vuota, la situazione è tranquilla e Paolo va al McDonald’s per prendersi un panino. Tornato sulla panchina viene travolto da una delle tre violente cariche della celere. Finisce a terra e lì parte la scarica di manganellate “che si ripetevano violentemente sulla mia testa tant’è che io addirittura riuscivo a distinguere i colpi che mi venivano inferti con il manganello dalla parte giusta e quelli con il manganello dalla parte sbagliata. Quelli dalla parte giusta si flettevano sul capo, quelli dalla parte sbagliata si affossavano nel capo”, ricorda con Domani quei momenti. Le cariche della Polizia provocheranno 32 feriti tra cui una ragazza con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma cranico e mani fratturate. Paolo tenta di rialzarsi e salire sul treno, lì vomita e poi viene portato dagli amici sulla banchina dove sviene. I soccorsi arriveranno con mezz’ora di ritardo. Alle 19:45 entra in coma e ci resterà per ben due mesi. I tifosi del “Brescia 1911” smettono di andare allo stadio e, tutte le domeniche, si danno appuntamento davanti all’ospedale veronese per fare il tifo per lui. Si risveglierà dal coma il 30 ottobre del 2005, durante un prelievo di sangue, con un corpo che non rispondeva più agli stimoli e all’interno di un reparto piantonato ventiquattr’ore al giorno dalla Polizia. Verrà poi trasferito per i successivi sei mesi all’ospedale riabilitativo di Negrar dove si ritroverà “a dover rimparare a fare tutto come fossi un bambino appena nato”. Pestaggio selvaggio - Ed è qui che la sua neurologa gli svelerà di essere stato pestato selvaggiamente dalla Polizia. Versione che, inizialmente, non coincide con la relazione ufficiale di un dirigente della questura di Verona. Per il funzionario la responsabilità degli scontri era dovuta agli ultras bresciani che “occuparono il primo binario bloccando la testa del treno” e che per far rilasciare due arrestati “assaltano i nostri reparti con cinghie, aste di ferro, calci, pugni e scagliando massi presi dai binari. La celere li carica solo per prevenire violenze sui viaggiatori”. Si fa riferimento a Paolo solamente nell’ultima pagina del rapporto come “un tifoso colto da malore a bordo del treno”. Chi lo ha ridotto così? Secondo una prima ricostruzione sarebbero stati degli “scontri con gli ultras veronesi”. Versione che crolla subito, la stazione di Verona era deserta. Arriva una seconda ricostruzione secondo cui a ferirlo sarebbe stato “uno dei massi lanciati dagli ultras”. La verità che emerge dalle indagini è completamente diversa. I macchinisti del treno dichiarano che i tifosi erano assolutamente tranquilli e non avevano occupato nessun binario. Alle loro parole si aggiungono quelle di quattro agenti della polizia ferroviaria secondo cui i disordini “sono cominciati solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro uno scompartimento dove c’erano tante donne e bambini piangenti”. Gli ultras, arrabbiati, iniziano a chiedere spiegazioni e in quel momento la celere carica l’intera tifoseria. Da lì trenta minuti di mattanza durante la quale, come confermano i referti medici, Paolo viene colpito “sempre e solo alla testa”. Depistaggi impuniti - Di quel pestaggio però non c’è traccia nei filmati consegnati dalla polizia ai magistrati. Nel 2013 otto agenti del reparto Mobile della Questura di Bologna vengono assolti in primo grado per insufficienza di prove, vista l’impossibilità di identificarli, ma viene appurato che Scaroni da parte della Polizia “subì un pestaggio gratuito e immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza”. Di più, viene confermata anche la manomissione delle riprese e come, quella sera, “le forze dell’ordine siano diventate esse stesse un fattore di disordine”. La Corte di Appello di Venezia conferma la sentenza di primo grado mentre, in sede civile, a Paolo viene riconosciuto, nel settembre del 2016, un risarcimento di un milione e quattrocentomila euro per il pestaggio subìto. Come dichiara Ilaria Marinara, responsabile ufficio campagne per Amnesty International Italia: “A settembre 2025 saranno trascorsi vent’anni da quella tragica violenza subita da Paolo Scaroni per mano delle forze di polizia alla stazione di Verona. Vent’anni in cui chi doveva pagare per l’invalidità causata a Paolo non ha pagato. Vent’anni di campagne della società civile e di Paolo stesso per chiedere l’introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico, ma su questo molta altra strada c’è da fare”. Oggi Paolo è invalido con totale inabilità lavorativa. Ha dovuto chiudere la sua attività e il dramma della sua vita è diventato quello di “colmare i vuoti delle mie giornate”. Chi lo ha massacrato e ridotto in queste condizioni, invece, non ha pagato alcunché. Liguria. Mai così tanti suicidi nelle carceri: sette casi nel 2024 di Aurora Bottino primocanale.it, 2 gennaio 2025 Un numero che va a decretare un anno nero per il sistema penitenziario, non solo a livello italiano dove il numero di suicidi è il più alto degli ultimi 20 anni, ma soprattutto nella regione. Sono sette i detenuti che si sono tolti la vita all’interno di una cella in Liguria. Un numero che va a decretare un anno nero per il sistema penitenziario, non solo a livello italiano dove il numero di suicidi è il più alto degli ultimi 20 anni, ma anche nella nostra regione dove problemi psichiatrici, sovraffollamento e carenza di personale sono ormai all’ordine del giorno nelle sei strutture che dalla Spezia a Imperia vengono detenute più di 1.300 persone. Il caso a Marassi che ha fatto il giro d’Italia - Si chiamava Amir Dhouiou, magrebino di soli 21 anni e ha messo fine alla sua giovanissima vita nel pomeriggio del tre dicembre, impiccandosi nella sua cella del carcere genovese di Marassi, al reparto Servizio assistenza intensificata, dove era stato spostato per pregressi tentativi di suicidio. Il suo caso ha fatto il giro d’Italia dopo che due agenti della polizia penitenziaria sono stati iscritti nel libro degli indagati. La pm Gabriella Dotto aveva infatti aperto un fascicolo e incaricato gli investigatori di acquisire le immagini di videosorveglianza per capire cosa fosse successo con esattezza. Il giovane, accusato di furto e resistenza, si era impiccato nel bagno della cella. Il boom di casi di autolesionismo, un segnale di allarme in cella - Prima di arrivare a quello che spesso viene definito ‘l’ultimo atto’, ci sono dei campanelli di allarme prima che spesso vengono ignorati. “Ci sono dei giovani molto arrabbiati in carcere” aveva denunciato Doriano Saracino, il garante dei detenuti della Liguria, “giovani che compiono atti di autolesionismo prima di arrivare all’aggressione verso la polizia penitenziaria o di arrivare a gesti estremi come il suicidio. Durante l’ultima visita in un carcere della nostra regione ho chiesto a una persona di spiegarmi perché si tagliasse - ha continuato -. La risposta è stata semplice, mi ha detto che era l’unico modo per far vedere quanto soffrisse, ‘quanto soffro dentro tu non lo puoi vedere ora, ma se mi taglio magari capisci quanto è grande e come sto all’interno’. Queste parole sono un grande urlo di dolore che va ascoltato. La cosa più importante al momento sia quello di potenziare le figure di ascolto all’interno delle carceri”. L’allarme dei sindacati: “Vita impossibile di detenuti e poliziotti penitenziari” - “La situazione complessiva nelle prigioni è da tempo fuori controllo e, ciò che è peggio, si aggrava giorno per giorno” aveva spiegato il segretario della Uilpa PP Fabio Pagani. “Sono ormai 16mila i detenuti oltre la capienza massima, mentre mancano oltre 18mila unità alla Polizia penitenziaria. Anche a Marassi, su 535 posti, sono ammassati 696 reclusi che vengono gestiti da appena 330 agenti”. “Tutto questo rende quasi impossibile la vita sia ai detenuti sia agli operatori, questi ultimi sottoposti a carichi di lavoro e a turnazioni massacranti, privati di elementari diritti, anche di rango costituzionale, stremati nel fisico e mortificati nel morale e nell’orgoglio anche per esser loro impedito d’adempiere efficacemente alle funzioni richieste dalla collettività - ha continuato Pagani -. Ribadiamo che necessitano interventi immediati per deflazionare la densità detentiva, adeguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria, assicurare l’assistenza sanitaria e riorganizzare, riformandolo, l’intero apparato. In assenza di provvedimenti seri, tangibili e immediati che deflazionino la densità detentiva, potenzino gli organici della Polizia penitenziaria, assicurino l’assistenza sanitaria e pongano le basi per una complessiva riorganizzazione dell’intero sistema, il 2025 potrebbe essere persino peggiore”. Boom di suicidi anche tra i poliziotti penitenziari - L’anno si chiude con altri sette suicidi, che sono quelli tra le fila dei poliziotti penitenziari. Una piaga - spiegano i sindacati - che non si placa: “L’appello è allo Stato. I detenuti hanno sbagliato, certo, ma qui a Genova ci sono anche quelli in attesa di giudizio, quindi non possiamo dire in modo definitivo che siano colpevoli” aveva denunciato dopo una visita al penitenziario di Marassi dell’associazione Ong Nessuno Tocchi Caino. “E poi ci sono gli agenti della polizia penitenziaria, loro cosa hanno fatto per finire in carcere? Perché anche loro sono finiti in carcere, innocenti, ma nello stesso stato dei detenuti per le condizioni di lavoro a cui sono costretti, per l’ambiente, per la salubrità dei luoghi, per la dignità, la qualità del lavoro. Sono vittime anche loro di una situazione strutturale che andrebbe ripensata totalmente”. Modena. Morto in cella a 37 anni, intossicato dal gas: un’altra tragedia in carcere di Daniele Montanari Gazzetta di Modena, 2 gennaio 2025 Il dramma al Sant’Anna poco prima di Capodanno: l’autopsia chiarirà se si è trattato di suicidio o incidente. Mentre stavano per iniziare i festeggiamenti per Capodanno, è morto in solitudine. Forse per un tentativo di “sballo” finito male, o forse per deliberata volontà di farla finita, sentendo tutto il peso del momento, in un luogo difficile come il carcere. È successo attorno alle 21.30 del 31 dicembre, quando è scattato l’allarme: il giovane, di origine macedone, è stato trovato esanime nella sua cella, morto per inalazione di gas. Quello delle bombolette con cui si cuociono i cibi in cella. Un attrezzo di servizio che negli ultimi tempi più volte è stato distorto nel suo utilizzo nelle carceri italiane, con esiti anche tragici. C’è chi inala il gas della bomboletta per il suo effetto stordente, e chi lo fa per togliersi la vita. Quale fosse l’intenzione di questo giovane, lo chiariranno gli esami in medicina legale. La salma è stata recuperata dalle onoranze di Gianni Gibellini e condotta su disposizione della Procura di Modena al Policlinico, dove potrebbe essere disposta l’autopsia. Avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Sono state diverse, negli ultimi tempi, le morti all’interno dei penitenziari italiani dovute a inalazione di gas: proprio a Modena, nel febbraio del 2023 a perdere la vita era stato un uomo di 40 anni, italiano, a seguito delle esalazioni provenienti sempre da un fornello da campeggio. Dai dati diffusi a ottobre - e quindi di bilancio parziale si tratta - dalla criminologa Giovanna Laura De Fazio, garante per il Comune di Modena dei diritti delle persone private della libertà personale, al Sant’Anna nel corso del 2024 sono stati 270 gli episodi di autolesionismo e 40 i tentativi di suicidio. In Italia, nel 2024 i morti nelle carceri sono stati 245, di cui 89 suicidi. “L’accaduto mostra una volta di più la necessità di interventi urgenti sulle carceri italiane - sottolinea Francesco Campobasso, segretario nazionale del Sappe, sindacato di polizia penitenziaria - il sistema di custodia è fallimentare, alla luce di un sovraffollamento allucinante e di una carenza di organico di vigilanza che non trova giustificazione alcuna. Nonostante sia sottodimensionata, la polizia penitenziaria in Italia ha salvato anche nel 2024 migliaia di persone in interventi critici”. Spoleto (Pg). Incendio in carcere. Intossicati poliziotti e detenuti di Ilaria Bosi Il Messaggero, 2 gennaio 2025 Chiuso un reparto. Caforio, garante dei detenuti: “Sfiorata la tragedia”. Attimi di terrore, la sera di San Silvestro, nel carcere di Maiano, dove nel corso di un tentativo di rivolta è divampato un incendio nel reparto di alta sicurezza. Diversi gli intossicati: sei agenti e due detenuti sono stati accompagnati al pronto soccorso, altri sono stati medicati nell’infermeria del carcere. Due poliziotti sono stati trattenuti in osservazione in ospedale. La dinamica dell’accaduto è in fase di ricostruzione, ma nel penitenziario spoletino - dove già nella serata di lunedì è stato richiamato il personale fuori servizio - il clima è di massima tensione. Il reparto interessato dall’incendio è stato chiuso e una ventina di detenuti sono ora in una situazione transitoria, in attesa di trovare altre sistemazioni. Il garante dei detenuti, avvocato Giuseppe Caforio: “Tragedia sfiorata solo per fortuna, occorrono interventi concreti perchè la situazione è incontrollabile”. Tutto è accaduto, secondo quanto si apprende, nel momento in cui si stavano chiudendo le celle, alle 19. Un detenuto si è ribellato e ha iniziato a lanciare diversi oggetti, tra cui una bomboletta del gas utilizzata per la cucina. Così è divampato l’incendio. Allertato anche il pronto soccorso per le procedure previste in caso di catastrofi. L’allarme è rientrato intorno alle 23. Palermo. L’anno nero delle carceri, striscione al Pagliarelli: “Amnistia subito” palermotoday.it, 2 gennaio 2025 L’iniziativa degli indipendentisti della rete Antudo che si sono dati appuntamento nel giorno di Capodanno davanti al Pagliarelli e altre carceri siciliane. Lo slogan è “Abolire il carcere, amnistia subito”. “Gli istituti penitenziari sono sovraffollati e la tensione è alle stelle. Nel frattempo il governo nazionale propone disegni di legge come il ddl 1660 (o ddl Sicurezza) per punire il dissenso, aumentare i reati punibili col carcere e abolire il reato di tortura. È necessario invertire la rotta. Bisogna fare luce sulla condizione carceraria a partire dalle continue proteste nelle carceri siciliane e dai casi di abusi da parte degli agenti penitenziari, come insegna purtroppo il recente caso di Trapani”. Con queste motivazioni la rete Antudo si è data appuntamento il giorno di Capodanno davanti al Pagliarelli e altre carceri siciliane. Lo slogan è “Abolire il carcere, amnistia subito”. Una scelta del giorno simbolica, quella di Antudo che passa in rassegna i numeri dell’anno trascorso: “Il 2024 è alle spalle ma non dimentichiamo i numeri da strage. Sono 243 le morti totali in carcere, numero da record; sono 88 invece i suicidi. Fare luce sulla condizione carceraria vuol dire accostare questo numero, seppur già alto, con un altro molto spesso dimenticato, vale a dire i 2.034 tentativi di suicidio avvenuti. Questo ci dice molto della vita che si conduce in carcere. Con il tasso di sovraffollamento ancora al 132,6%, in un istituto su tre ogni detenuto non ha diritto nemmeno a uno spazio di 3 metri quadrati. Sul fronte del trattamento diretto ai detenuti i numeri parlano chiaro: sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all’interno di procedimenti che riguardano episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Non stupiscono, quindi, le proteste: sono 14.142 gli episodi di protesta individuali e collettive.” Secondo la rete siciliana Antudo è indispensabile avviare dei percorsi di abolizione del carcere e prendere iniziative urgenti sul tema: “Gestire i conflitti della società attraverso uno strumento come il carcere che causa isolamento e violenza è un abbaglio. Il carcere è profondamente messo in discussione dai dibattiti più recenti in ambito internazionale, ma il governo italiano è rimasto indietro. Adesso è necessario guardare avanti e non rimanere ancorati ad un sistema irriformabile e superato. Parlare di abolizione dello strumento carcerario implica pensare un sistema che non si basa sulla punizione e la violenza, ma sulla dignità e sulla cura”. Cosa fare immediatamente? Antudo chiede amnistia: “I governi recenti hanno dimenticato quanto forme di amnistia e indulto abbiano ridato vita a migliaia di detenuti. Le azioni da intraprendere sono necessarie ed urgenti, ma non rimaniamo certo ad attendere le risposte delle istituzioni. In Sicilia abbiamo dato vita a forme di autorganizzazione dal basso”. In collaborazione con Yairahia Onlus, Antudo ha aperto sportelli di sostegno per i familiari dei detenuti in varie città siciliane e organizzato iniziative di solidarietà. Da Catania a Palermo rimangono attivi per 365 giorni l’anno indirizzi di corrispondenza per i reclusi e il sostegno alimentare per i parenti in difficoltà. Dove le istituzioni sono immobili e insistono ad ignorare la violenza della realtà del carcere, mettiamo in campo forme di solidarietà concreta”. Forlì. Marcia della Pace, 400 partono dal carcere. E gli islamici firmano un accordo col prefetto Il Resto del Carlino, 2 gennaio 2025 Il vescovo di Forlì-Bertinoro, mons. Livio Corazza, ha guidato la Marcia della Pace del 1° gennaio iniziata con il suggestivo raduno davanti alla Casa Circondariale. Il tradizionale appuntamento quest’anno si è così aperto in modo diverso e originale con l’avvio che è avvenuto in uno dei luoghi cittadini simbolo della sofferenza. Partendo, appunto, davanti alla Casa circondariale si è sottolineato ancor più il tema del messaggio di quest’anno di Papa Francesco per la giornata mondiale della Pace che, riecheggiando una frase della preghiera del ‘Padre Nostro’, recita: “Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace”. Si sono radunate lì circa 400 persone e hanno assistito all’inizio della cerimonia con il vescovo. Al suo fianco, fra gli altri, il cappellano del carcere don Enzo Zannoni, i dirigenti dell’istituto penitenziario, i rappresentanti di confessioni e fedi religiose e varie personalità cittadine. E vi hanno partecipato eccezionalmente anche alcuni detenuti in permesso. Favorita anche dalla bella giornata di sole, la processione si è quindi avviata fra le vie del centro, con la meditazione di alcuni brani del messaggio del Papa, con preghiere e canti, per giungere poi in duomo per la messa solenne. Prima, ci sono state due soste: davanti al municipio in piazza Saffi, per la consegna del messaggio di Francesco al sindaco Gian Luca Zattini, e al prefetto Rinaldo Argentieri presso la sede territoriale del Governo in piazza Ordelaffi. Il prefetto ha ricambiato consegnando la ‘Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione’, sottoscritta dal presidente della comunità islamica forlivese Mohammed Ballouck: il documento sarà tradotto anche in arabo. Mons. Corazza ha poi presieduto la liturgia nella festa di Maria Madre di Dio in una cattedrale piena di persone accorse per l’occasione, oltre a quelle provenienti dalla marcia della pace. “Maria è una guida per tutti, non solo per i credenti - ha sottolineato il vescovo nell’omelia -. La maternità di Maria non è solo un tema religioso ma umano. Dio si è incarnato proprio per abbattere il muro fra religioso e umano”. E ha sottolineato che “Maria accetta di vivere la sua libertà per amore. È libera di amare. Custodisce e dona Gesù come nostra salvezza e ci indica la chiave per aprire il nostro cuore alla pace”. Pensando “alla storia di massacri continui causati dalle guerre, alla distruzione di vite umane, allo spreco e alla rovina di risorse, case, ambiente naturale”, Corazza si è chiesto: “Perché non impariamo?”. Richiamando il pensiero di Papa Francesco e l’apertura del Giubileo come occasione di riconciliazione, mons. Corazza ha aggiunto che “la pace o nasce dal cuore dell’uomo oppure non nasce da nessuna parte e non ci sarà mai”. Il vescovo ha poi consegnato il testo del Papa ai vari rappresentanti delle aggregazioni laicali, associazioni e movimenti. Corazza aveva celebrato il 31 in cattedrale la messa con il Te Deum nel tradizionale appuntamento di ringraziamento per l’anno appena concluso, e fra le “cose belle” del 2024 aveva ricordato l’ordinazione sacerdotale di don Francesco Agatensi, le esperienze di comunione fra i consacrati, nei consigli pastorali, la nuova parrocchia di Meldola, l’inizio della visita pastorale, il cammino sinodale, i progetti condivisi di solidarietà, le iniziative per le famiglie colpite dall’alluvione, e l’inizio del Giubileo. Fra le “cose brutte” aveva citato le culle e il seminario vuoti, la frammentarietà e la disunione nella pastorale, l’indifferenza e l’allontanamento dalla partecipazione alla vita della Chiesa e della società con il fenomeno dell’astensionismo elettorale, la crescita del disagio giovanile, il perdurare delle guerre, la scarsa sensibilità verso i poveri e i profughi. Quando la Pop Art apre le porte al carcere. Ciccotti recensisce “Made in Jail” di Lorenzo Piccioli formiche.net, 2 gennaio 2025 “Made in Jail” (Matteo Morittu e Gianluca Calabria, 2024) è un documentario che ci racconta come lavorare, vivere e sperare preparandosi sin dalla prigione ad una “seconda vita”. Un inno alla speranza che, nell’anno del Giubileo, piacerebbe a Papa Francesco. Nel quartiere Tuscolano (presso la fermata “Numidio”), su via Tuscolana, a Roma, dal 1999, esiste un laboratorio di serigrafia che stampa magliette, felpe e gadget, prodotti regolarmente in vendita al pubblico. Esso è ospitato in un locale “sequestrato alla mafia e intitolato a Massimo Schietroma”, un artista di immagini su tessuto, come recita la targa dedicatoria. Matteo Morittu e Gianluca Calabria, due giovani autori romani, hanno dedicato un fine documentario che racconta la storia di “Made in Jail”, innovativo laboratorio di serigrafia, che nasce, nelle carceri romane come corso dedicato ai reclusi, ben trentacinque anni fa. Il documentario (83’), omaggiando il laboratorio di cui porta lo stesso nome, Made in Jail, è un’opera coraggiosa, considerando anche la produzione a basso costo, iniziata nel 2019, poi rallentatasi a causa della pandemia e, infine, terminata e presentata alcuni giorni fa a Roma. Un inedito percorso creativo tra detenzione, studio, arte, lavoro e rinascita alla vita sociale. Un viaggio, va detto subito, che parla serenamente allo spettatore del mondo del carcere raccontato con occhi diversi, grazie all’intuizione e alla volontà di uomini che credono in alcuni valori quali l’ascolto dell’altro, il sano lavoro, l’amore di cui parla San Paolo (anche lui carcerato), il reinserimento dopo la pena. Valori in grado di trasformare un luogo chiuso in un luogo aperto, appunto tramite un laboratorio in cui si possono creare gadget popolari, come una maglietta, una felpa, con un logo e un claim-messaggio. Ciò significa che un giorno, riacquisita la libertà, l’ex detenuto può anche avere la possibilità di lavorare nel settore creativo della moda. Insomma, aver imparato un mestiere, corrispondente a una dignitosa forma di pop art, che non sarebbe spiaciuta ad Andy Warhol. Toccanti, tra le tante, la testimonianza dell’educatore, il dottor Paolo Maddonni, che ci ricorda, tra l’altro, come nelle case circondariali il problema delle strutture “nuove che spesso soffrono per la manutenzione più di quelle vecchie” e che il numero dei reclusi in Italia è alto, “55.000 sono gli uomini e le donne, 2.500”, sottolineando il problema del super affollamento. Tema su cui papa Francesco è tornato il giorno 26 dicembre 2024 aprendo la porta santa, per l’anno giubilare, al carcere di Rebibbia, a Roma. Maddonni racconta anche l’istruttivo incontro con uno studente di una scolaresca in visita al laboratorio di serigrafia in carcere. Il giovane chiedendo come fosse la vita del detenuto sembrava piacevolmente sorpreso della possibilità del recluso di poter giocare a calcio nel campetto, di diplomarsi studiando, dei pasti assicurati, dell’uso della palestra. Quasi che in fondo “si potesse delinquere se poi si era trattati così”. Ma quando il ragazzo ha chiesto dell’uso del cellulare e di internet, sentendosi rispondere da Maddonni che al recluso sono vietati, e ha disposizione “una sola chiamata a settimana”, allora, improvvisamente il ragazzo si è fatto pensieroso e ha commentato, sbalordito, “ma allora è un carcere vero!”. “Quando delinqui - chiosa un detenuto del corso di serigrafia- non rifletti su quelle persone alle quali, quando eri libero, dedicavi poco tempo. Io ho perso la crescita dei miei figli, dalle elementari alle superiori. Questo è il danno che dopo realizzi di aver fatto a te e agli altri. Ora sto apprendendo la serigrafia e quando uscirò vorrò vivere secondo la legge”. Silvio Palermo, un ex detenuto per motivi politici, poi dissociatosi dalla lotta armata, agli inizi degli anni Ottanta, è colui che è stata l’anima della invenzione del laboratorio di serigrafia all’interno del carcere, una volta uscito, tornandoci come formatore. Con un suo amico artista, appunto Massimo Schietroma, con cui diede vita per l’appunto a “Made in Jail”, nel 1999. “Quando esci dal carcere -sottolinea Palermo- è difficile trovare lavoro, re-inserirsi nella società. Hai, come dicono tutti, La fedina penale “sporca”. Sei stato in un luogo che è il carcere. E il carcere è un orologio senza lancette. Per questo ho pensato, insieme a Massimo, di creare un laboratorio di serigrafia per aiutare chi è dentro a sperare in un futuro migliore”. “Purtroppo ci sono detenuti con pene lunghe che non sono interessati a un progetto di reinserimento, ma noi lavoriamo incoraggiando coloro che credono al recupero e sono tanti”, continua Maddoni. “Quando ho iniziato a lavorare come direttore, noi tutti giovani dirigenti responsabili, pensavamo a una riforma della detenzione, che si attendeva da anni, in direzione del reinserimento - spiega Giuseppe Makovec, ex direttore di Istituti penitenziari -. Poi si fermò tutto, a causa del terrorismo e delle leggi speciali… Il progetto di riforma è stato ripreso dopo… Con la semilibertà, il lavoro anche fuori dalle case di reclusione molto è cambiato in positivo… E il progetto di “Made in Jail” è stato un sogno divenuto realtà, grazie all’abnegazione di Silvio Palermo… L’altro mio grande sogno è una società con poche persone nelle carceri…fino a chiuderle tutte”. Made in Jail è un documentario che cattura l’attenzione, ti sospende il respiro, per le singolari testimonianze dei formatori, di detenuti e di ex detenuti: questi ultimi tornarti a vivere “una seconda vita”, come si dice in questi casi. La camera attenta di Calabria è ora sui primi piani dei detenuti, ora sui loghi e sugli “slogan” delle t-shirt, ora sulle macchine che lavorano per la serigrafia, adesso accarezza il dettaglio: i dettagli formano il tutto, pare ci dicano gli autori. La regia di Morittu alterna interni ma anche ariosi esterni: abbiamo Piazza Navona, con il gazebo per la vendita delle t-shirt per autofinanziarsi; e poi due stupende inquadrature sul mare di Civitavecchia (il mare simbolo della libertà in I quattrocento colpi di François Truffaut): esterni chiamati, simbolicamente, ad anticipare l’agognato ingresso nella seconda vita. Made in Jail di Morittu e Calabria è un respiro realistico alla Cartier-Bresson, una collana di storie di uomini che hanno sbagliato ma che umilmente domandano perdono a sé stessi, ai propri cari, agli amici. Sono uomini che hanno studiato, hanno lavorato, si sono specializzati. Ora chiedono alla società di non essere murati vivi quando usciranno: dallo stigma, dalla paura e dall’indifferenza verso l’ex carcerato. E tutto ciò arriva allo spettatore grazie a un racconto pervaso in ogni inquadratura dall’anelito alla speranza. Un film che, nell’anno del Giubileo dedicato alla speranza, piacerebbe a papa Francesco. Maurizio de Giovanni: “Arrestare tutti non risolve nulla. E il mio Ricciardi lo sa…” di Gianluca Iovine Il Dubbio, 2 gennaio 2025 Conversazione con l’autore italiano che frequenta forse più di ogni altro “l’ambiente giudiziario”: si parla non solo del suo ultimo romanzo, “Volver”, ma anche della “violenza morale” implicita nel processo mediatico. A lungo attesa, l’intervista telefonica a Maurizio de Giovanni risente delle sonorità jazz di sottofondo al caffè dove sono seduto. Sul tavolo un blocco a spirale, nel testardo, anacronistico tentativo di lanciare il racconto che mi appresto ad ascoltare oltre la barriera ingenerosa del presente. Pochi squilli. I saluti. L’inizio. Il lei è d’obbligo e prova a nascondere una lunga amicizia nata al Caffè Gambrinus nel 2005, dove tutto ebbe inizio. È il ventesimo anno da narratore per il drammaturgo napoletano. Gli chiediamo quale sia la prima immagine che gli viene in mente, guardando in prospettiva la lunga strada percorsa. “Io non posso non pensare al Teatro Acacia, alcune settimane fa. Vederlo gremito, in ogni ordine di posti per Volver, con centinaia di persone ad applaudire e amare chi non esiste, se non nel cuore di tanti, mi è sembrato il punto di arrivo di un tempo lungo, anche se meno di quanto si possa immaginare, e un momento di orgoglio paterno per i miei personaggi, non solo personale. Un attimo meraviglioso”. Le parole di de Giovanni fluiscono con vividezza pittorica, alternando chiarori e oscurità inediti, oltrepassando il confine angusto della tavolozza. Ogni frase tratteggia con precisione una scena o uno stato d’animo, come in una grande pala d’altare. I brevi silenzi alternati alle domande permettono alle risposte di decantare. Narrando anime infrante da crimini così efferati, come riesce a far prevalere il senso di giustizia? Il crimine è questo: non è enigmistica, non è un detective coi baffetti ben curati a caccia di indizi e persone da interrogare. Il crimine è uno squarcio, un’alterazione sociale. Che non ha soluzione, neppure dopo aver fatto giustizia. Perché con il carcere si hanno due vittime. Il crimine mette sotto esame la giustizia. Ma seguire la legge può anche voler dire infibulare una bimba, lapidare un’adultera, o obbligare le donne a tenere il capo coperto, senza che possano scegliere di ribellarsi… E se pensiamo che anche qui da noi fino agli anni Ottanta si poteva uccidere per onore, possiamo comprendere che talvolta la distanza tra legge e giustizia è abissale. Una riflessione di valore, da chi come lei per anni ha vissuto da molto vicino difficoltà e successi della professione forense… La mia è una famiglia di avvocati: mio nonno, mio padre, mia sorella, che ha scelto di essere matrimonialista, e testimoniare le difficoltà dei deboli, un mondo che è fonte di ispirazione per chi scrive. È una materia di grande interesse perché costituisce l’indicatore di quanto realmente succede oggi nelle nostre case, un ruolo fortemente inserito nell’attualità sociale. Volver è il romanzo che segna forse l’ultima volta del Commissario Ricciardi. Esiste la possibilità di rivederlo negli anni di guerra? I personaggi di un romanzo si sviluppano secondo loro personali traiettorie, non sono io a determinarne il destino. Non avrei voluto perdere per strada Rosa o Enrica. È pur vero che in un decennio accadono molte cose nella vita dei personaggi. Di sicuro so che non voglio raccontare Guerra o Dopoguerra. Non è proprio l’epoca in cui voglio vedere i miei personaggi. Non posso escludere di tornare un giorno a raccontarli, ma mai prima degli anni Cinquanta, e non prima dei prossimi due anni. L’immediato Dopoguerra è vivere nella disperazione, una giornata dopo l’altra. Invece il Paese negli anni Cinquanta rialza la testa, è tutto diverso. E allora si può tornare a raccontare. Le inquietudini di Ricciardi sono tutte nello sguardo. Che ricorda il suo. Cosa dicono quegli occhi? Ricciardi prova il dolore degli altri, lo condivide. Ci pensi: a Gaza migliaia di bambini muoiono senza colpa sotto le bombe in una crudeltà senza senso, e così dovunque ci sia una guerra, in Libano, in Ucraina… Anche quella bimba di dieci anni, sopravvissuta all’ennesimo naufragio nel Mediterraneo, sola in mare per giorni… è sempre un dolore che interroga. Eppure noi continuiamo a distinguere, e a rimuovere le morti in mare o sul lavoro come fossero morti di serie C. Si discute con più enfasi delle nuove multe per chi guida senza cintura. Ecco, Ricciardi invece è portatore dello sguardo degli altri. Volevo che il mio personaggio non si voltasse dall’altra parte come facciamo noi, e che fosse testimone del dolore altrui, perché costretto a vivere avendolo davanti agli occhi. La drammaturgia moderna richiede di saper saldare insieme più storie. Anche questo è il fascino del ciclo dei Bastardi di Pizzofalcone. Ha un segreto? Lo faccio non pensandoci, lasciando andare avanti la storia, guardando a tutti i personaggi con affetto. Se le loro vicende funzionano, sono felicissimo, se non ci riesco, pazienza. Non ho strategie: mi limito a guardare in tutte le finestre del condominio che ho in testa con pari coinvolgimento. Insomma, non voglio bene più a Pisanelli che a Lojacono. Mina Settembre rispecchia le contraddizioni di Napoli e del suo popolo... Mina si sente sempre fuori luogo. La sua sensibilità sociale e l’idiosincrasia a ogni oppressione la spingono a sentirsi fuori posto nell’alta borghesia napoletana che sembra ballare sul Titanic ma anche in contesti del tutto opposti. Amministra la sua autonomia, ma dipende comunque dagli altri. Si sente costantemente sbagliata eppure resta testardamente se stessa, anche riguardo al suo corpo. Io l’ho immaginata bellissima, che cerca di nascondersi per non sembrarlo, per non distrarre gli altri da quanto deve dire. Nei romanzi di Sara emergono i silenzi. Cosa racconta il buio a Sara? Per me Sara è il personaggio più affascinante. Mi piacerebbe andare a cena con lei. Ha il superpotere dell’ascolto. Oggi che i social incrementano il protagonismo nello sforzo di affermare se stessi, e ognuno trasforma un’opinione in verità assoluta, spicca chi resta in disparte, non rivela ma ascolta, prendendo dagli altri con il potere raro dell’ascolto. Per questo andava collocata in un particolare mondo, quello dei Servizi, che può essere raccontato solo in un silenzio denso di suoni. Ci dice un rimpianto o un rimorso letterario? Ho molte più storie di quelle che riesco a raccontare. Il rimpianto è lasciarle indietro. Un romanzo è un viaggio da A a Z, punteggiato di personaggi e ambienti che andrebbero approfonditi, seguiti. Non poterlo fare sempre è il mio rimpianto. Giorni da cancellare, rivivere, attendere... Nessuno da cancellare, neanche i più duri. Sono cicatrici belle da accarezzare. Vorrei rivivere tutti i giorni con mio padre e mia madre, ma con diverse consapevolezze, senza una continua ansia per il futuro. Spero di avere ancora giorni da attendere, con altre storie, che mi piacerebbe uscissero belle così come le ho in testa. La scrittura è come un imbuto: quello che resta è solo una parte di quanto c’era all’inizio. La sua opera abbraccia più mondi. Ha in progetto nuove drammaturgie teatrali o sceneggiature? Devo scrivere per il teatro, sì. Lo faccio in vacanza, quando posso staccarmi dai romanzi. Ci sarà Così si dice, il seguito di Mettici la mano con Maione e Bambinella. Poi c’è Povero papà per Tosca d’Aquino e Gea Martire, e un monologo su Billie Holiday per Mariangela d’Abbraccio. Con Mondadori uscirà L’antico amore, il mio primo romanzo esclusivamente sentimentale. In maggio sarà il turno di Sara. E a fine 2025, ci sarà una sorpresa per tutti i lettori. E la Trilogia dei Guardiani? Ho già in mente qualcosa, un progetto interessante, una graphic novel per Bonelli, ma al momento non ho spazi. E nella necessità dei lettori per ora vince Sara. Lei si batte contro la violenza di genere. Quale futuro immagina per le donne? Il femminicidio nasce da un patriarcato duro a morire o è un crimine che nasce da una reale incapacità di accettare ruolo e libertà sociale delle donne? È un problema culturale fortissimo, forse più vasto del patriarcato. C’entrano il senso del possesso e una malintesa identità maschile. Al diminuire della produttività sociale aumenta la violenza di genere, per la perversione culturale del sentirsi proprietari di qualcuno. Da qui credo nasca la violenza. Bisogna allargarne il perimetro, e insieme a lesioni fisiche e ferite psicologiche includere la diversità di salario a parità di mansioni, il demansionamento, le mancate assunzioni o i licenziamenti per quante hanno un figlio in attesa. Ma la violenza talvolta è meno visibile, se ragazzine di 14 anni accettano che un fidanzatino vieti le uscite con le amiche o decida come devono essere vestite. La violenza odierna è spesso molto vicina a noi, non solo nelle periferie degradate, ed è legata all’assenza della cultura e dello Stato. Crimine e degrado sono cose diverse e vanno combattute in modo diverso. Assimilarli ci fa perdere questa guerra. Perché cinquecento poliziotti che alle cinque di mattina presidiano un posto possono anche trovare droga e pallottole, ma poi vanno via e le cose tornano com’erano. Servono invece interventi sociali stabili: edilizia sociale e scolastica con scuole a tempo pieno, lavoro, dignità, decoro. Ecco, se facciamo questo possiamo puntare alla soluzione del problema. Mettere in carcere tutti non fa ottenere niente. Lei crede che la giustizia possa essere ancora un viaggio verso la verità, lontano dal processo mediatico dove vicende private entrano nel dibattito pubblico? Cosa non funziona della giustizia? Non sopporto la diversa rilevanza mediatica che esiste tra rinvio a giudizio e proscioglimento, trovo sia una terribile violenza morale. Non va che per l’opinione pubblica un avviso di garanzia costituisca colpevolezza, perché possono passare 15 anni tra avviso e sentenza in Cassazione. La custodia cautelare diviene un’arma inaccettabile, lesiva di ogni dignità. Le condizioni delle carceri italiane ed europee troppo spesso mancano alla loro funzione rieducativa e diventano università del crimine, dove un ragazzo, se esce dopo dieci anni di carcere, si trasforma in bomba sociale. Perché in quei dieci anni ha avuto contatti strettissimi con realtà criminali di alto livello. Quel ragazzo, una volta fuori, cosa farà? Dove e come trarrà risorse? Nessuno ci pensa mai, ma se non si rieduca, se non si propongono modelli, se si continua con i decreti sicurezza, ignorando le centinaia di suicidi tra detenuti e guardie carcerarie… Scende il silenzio, come in una pagina di Sara. Un silenzio che racconta tutto. Meloni “apprezza” il discorso di Mattarella, ma le ombre descritte su sanità e detenuti non fanno piacere di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 2 gennaio 2025 Con una nota divulgata a tempo di record, Giorgia Meloni ha messo nero su bianco parole come cordialità, apprezzamento, condivisione e gratitudine. E ha tenuto per sé ogni alzata di sopracciglio, ogni fischio che le parole di Sergio Mattarella hanno fatto risuonare nelle sue orecchie e in quelle degli esponenti dell’esecutivo. Meloni e Mattarella si erano sentiti nel pomeriggio per la nomina del nuovo commissario all’alluvione. A sera lei ha richiamato il Quirinale per rivolgere al presidente “i migliori auguri per il 2025 e per la prosecuzione del suo mandato”. Nel “cordiale” colloquio lampo, la premier ha espresso a Mattarella il suo “apprezzamento personale” e quello del governo e lo ha ringraziato per aver ricordato “l’importante momento della presidenza del G7” e “il forte impegno dell’Italia” negli scenari di crisi. Meloni fa sapere di aver gradito il richiamo “al valore fondante del patriottismo, come motore dell’azione quotidiana e sentimento vivo che muove l’impegno di quanti sono al servizio della cosa pubblica”. Eppure, a molti fedelissimi non è sfuggito come il concetto di patriottismo espresso da Mattarella sia molto diverso da quello che ispira la politica dei sovranisti, in particolare nel passaggio su migranti e integrazione e nel cenno alla cittadinanza. Ma Giovanni Donzelli invita a “non strumentalizzare le parole trasversali” di Mattarella. Fonti di governo fanno notare con soddisfazione come il capo dello Stato abbia “volato alto”, si sia tenuto alla larga dai conflitti dell’attualità politica e abbia risparmiato alla premier una nuova moral suasion sulle tensioni con i magistrati e sui giudici costituzionali ancora da eleggere. Con assai meno soddisfazione sono stati letti nella maggioranza i passaggi in cui il presidente disegna un’Italia “luci e ombre”, che a tratti stride con la narrazione ottimistica di un Paese che “torna a correre e a stupire”, come ama dire Meloni. A Palazzo Chigi non ha fatto piacere, vista la battaglia quotidiana del Pd di Elly Schlein sul fronte della sanità, che Mattarella abbia denunciato le “lunghe liste d’attesa”. Il richiamo di Mattarella “ai positivi segnali macroeconomici, in particolare sull’export e sull’occupazione” è invece “condivisibile” per Meloni, che si è impegnata a intensificare l’azione del governo “per ridurre le aree di precarietà e lavoro povero”. La premier ha apprezzato che Mattarella abbia lodato come “incoraggianti” i numeri dell’occupazione che lei ha più volte rivendicato con orgoglio, ma si è adombrata quando il capo dello Stato ha acceso i riflettori su precarietà, bassi salari e cassa integrazione. Un altro passaggio che a Palazzo Chigi è stato letto con disagio riguarda il Sud. Meloni si è tenuta la delega e pensa che il Mezzogiorno sia la “locomotiva d’Italia”, il presidente invece invita a “colmare le distanze” con il Nord e a non trascurare la “disuguale disponibilità di servizi”. Un monito destinato a pesare quando i partiti torneranno a litigare sull’Autonomia. Sul disagio giovanile, Meloni ha espresso “piena condivisione”. Mentre avrebbe condiviso assai meno lo sprone a prendere sul serio i cambiamenti climatici per prevenire le alluvioni. E non è certo un caso se nella nota della presidenza del Consiglio non ci sia un passaggio sulle carceri, visto che Mattarella ha richiamato al rispetto delle norme costituzionali sulla detenzione. I detenuti devono poter respirare “un’aria diversa” da quella che li ha portati al crimine, ha auspicato il capo dello Stato, con grande soddisfazione di chi, a sinistra, ci ha letto un richiamo alla frase choc del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro sui detenuti al 41bis (“Noi non lasciamo respirare chi è nel blindato”). L’applauso è bipartisan, ma ognuno tira la coperta quirinalizia dalla sua parte. Matteo Salvini condivide la speranza di pace espressa da Mattarella e ne approfitta per rilanciare la sua “grande fiducia” in Trump. Infine, chi a destra ha apprezzato la provocazione di Libero su “Mussolini uomo dell’anno”, non deve aver apprezzato il richiamo di Mattarella agli ottant’anni della Liberazione dal nazifascismo. 2025, avanti popolo di Andrea Colombo, 2 gennaio 2025 Il Manifesto Senza proclami, quasi sottovoce, Sergio Mattarella ha pronunciato nel messaggio di capodanno uno dei discorsi politicamente più forti da molti anni. Ha ricordato la Liberazione che abbiamo alle spalle, quella arrivata all’ottantesimo anniversario, con il suo frutto, la Costituzione. Ma ha soprattutto indicato quella che abbiamo invece di fronte, ancora in larga parte incompiuta: “Liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia”. Non è impresa che possa essere delegata ai politici, sui quali il giudizio del presidente, espresso nel precedente discorso ai vertici istituzionali, non suonava lusinghiero. Spetta alla società civile, sola destinataria del messaggio: “La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte”. In un momento che lui stesso definisce “difficile” e si tratta, stando allo spessore del Cahier des Doléances che snocciola, di un eufemismo, il presidente trova motivi di fiducia e di ottimismo. Di speranza, appunto. Li rintraccia in basso, non al vertice ma alla base della piramide sociale: nei medici che si sbattono in condizioni disperate, negli insegnanti che non se la vedono meglio, nel “coraggio di chi ha saputo trasformare il suo dolore in una missione per gli altri”, come Sammy Basso, nel “rumore delle ragazze e dei ragazzi” che si ribellano ai femminicidi, negli operatori che nel disastro delle carceri tentano di turare le falle con le dita, nel volontariato. Il presidente stavolta non ha risparmiato sferzate a chi governa. Al viceministro Andrea Delmastro, quello che se la gode quando i detenuti “non li lasciamo respirare”, le orecchie devono aver fischiato fino ad assordarlo ascoltando il primo cittadino sottolineare una visione della pena diametralmente opposta: “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”. La premier Giorgia Meloni può solo far finta di non capire che il patriottismo esaltato dal presidente non ha vincoli di parentela con il suo, essendo anche quello di chi “con origini in altri Paesi ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi”. Per ognuno dei successi magnificati dai governanti, Sergio Mattarella ha citato la sua controparte oscura, come i salari da fame e il precariato che accompagnano i dati soddisfacenti sull’occupazione. Ma il senso più profondo del messaggio augurale del presidente della repubblica agli italiani non va rintracciato nei pur acuminati colpi di stiletto. Il discorso di capodanno va letto a fianco di quello rivolto due settimane fa ai vertici istituzionali. Lì, parlando ai politici, il presidente aveva denunciato il circolo vizioso nel quale un intero ceto politico ha chiuso la democrazia, indebolendola sino a metterla a rischio. La deludente, distratta e disattenta reazione a quella sirena d’allarme non deve averlo reso più tranquillo. Qui, rivolto alla società civile, pur non nascondendosi la minaccia annidata nelle “contrapposizioni radicalizzate”, nelle “pubbliche opinioni lacerate”, nelle “faglie profonde che attraversano le nostre società” intravede anche un elemento di speranza e c’è da sospettare che lo consideri l’unico o almeno quello principale. Segnalando anche le due stelle polari che possono e devono orientare il percorso, il “rispetto per gli altri, per la vita, per la dignità della persona” e la capacità di operare per il bene comune, quello di Mattarella è stato a modo suo un appello. Una chiamata destinata ai soli che possono cambiare le cose e portare avanti la Liberazione rimasta a metà del guado: le persone, i cittadini. Il popolo. Mattarella sfida il Governo su migranti, spese militari e carceri di David Romoli L’Unità, 2 gennaio 2025 Lo schiaffo del presidente a Salvini-Meloni. Non ha fatto sconti di sorta. Ha confutato, senza averne l’aria, buona parte del trionfalismo del governo. Nel suo decimo messaggio di fine anno rivolto agli italiani Sergio Mattarella ha lavorato di fioretto. Attento a evitare ogni accento apertamente polemico ha però passato in rassegna, spesso quasi telegraficamente, tutto ciò che nella società italiana, e nel mondo, non sta funzionando. La situazione dell’occupazione è “incoraggiante”, senza dimenticare però “precarietà, salari bassi, lavoratori in cassa integrazione! Export e turismo registrano dati positivi” ma “con questo aspetto confortante stride il fenomeno dei giovani che vanno a lavorare all’estero perché non trovano alternative”. E i progressi della scienza medica si accompagnano alle “lunghe liste d’attesa per esami che se tempestivi possono salvare la vita” e al fatto che “numerose persone rinunciano alle cure e alle medicine perché prive di mezzi necessari”. Su un punto però la medaglia presenta una sola faccia, quella oscura, e sono le carceri. Non a caso si tratta di uno dei pochissimi guasti che il capo dello Stato non cita in modo telegrafico. “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”, ricorda. Ma non si ferma qui. Bersaglia indirettamente ma in modo molto chiaro il viceministro della Giustizia Delmastro, con la sua oscena “gioia” nel vedere che “non lasciamo respirare chi si trova sui furgoni della penitenziaria”. L’approccio del presidente è diametralmente opposto all’intera concezione della pena che la destra non manca mai di esaltare: “I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti”. Difficile credere che quella scelta di usare il verbo “respirare” sia casuale. Altrettanto impossibile è pensare che la premier Giorgia Meloni abbia equivocato sul serio le parole di Mattarella sul patriottismo. Ieri mattina ha telefonato al presidente per esprimere l’apprezzamento suo e del governo per l’intero discorso ma in particolare per i riferimenti al “valore fondamentale del patriottismo”. Mattarella il patriottismo lo aveva esaltato davvero ma assegnando al termine un significato molto diverso e a tratti opposto a quello che adotta la destra. Patriottismo è quello “dei medici che svolgono il loro servizio in condizioni difficili e talvolta rischiose”, degli insegnanti, “di chi si impegna nel volontariato”. E anche “quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”. Dunque “è fondamentale creare percorsi di integrazione e di reciproca comprensione perché anche da questo dipende il futuro delle nostre società”. Alla destra Mattarella riserva anche un terzo colpo, sempre indirettamente e con diplomazia consumata. Ricorda che quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della Liberazione e specifica: “È fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione, che hanno consentito all’Italia di riallacciare i fili della sua storia e della sua unità. Una ricorrenza importante. Reca con sé il richiamo alla liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia”. Una Liberazione, dunque, che deve ancora in larga parte verificarsi, nel solco di quella di 80 anni fa. Su un fronte, però, la visione del presidente e quella della premier coincidono però davvero e senza sbavature: quello della guerra in Ucraina. La guerra è il primo passaggio che il presidente affronta nel suo messaggio augurale, per esclamare che “mai come adesso la pace grida la sua urgenza”. In Ucraina come a Gaza e per gli ostaggi di Hamas. Stavolta, a differenza che nel precedente discorso ai vertici istituzionali, Mattarella non cita apertamente la necessità di far nascere lo Stato palestinese ma indica abbastanza evidentemente quella strada. Sull’Ucraina il discorso è molto più complesso perché pace “non significa sottomettersi alla prepotenza di chi aggredisce gli altri Paesi con le armi”. Deve essere “la pace del rispetto dei diritti umani, la pace del diritto di ogni popolo alla libertà e alla dignità. Perché è giusto. E - se questo motivo non fosse ritenuto sufficiente - perché è l’unica garanzia di una vera pace, evitando che vengano aggrediti altri Paesi d’Europa”. Dunque il sostegno armato all’Ucraina deve proseguire a ogni costo e Putin costituisce una minaccia che obbliga al riarmo. Certo è orribile che la spesa mondiale per gli armamenti sia “otto volte più di quanto stanziato dalla recente Cop 29 di Baku per contrastare il cambiamento climatico”. Ma questo obbrobrio, la crescita della spesa militare, è stata “innescata nel mondo dall’aggressione della Russia” e dunque bisogna adeguarsi. Su questo punto l’apprezzamento della premier è certamente sincero e anche sulla cautela mostrata da Mattarella sul caso di Cecilia Sala: “Le siamo vicini in attesa di rivederla al più presto in Italia”. Più prudente di così non avrebbe potuto essere. Ma su tutto il resto del discorso del presidente di “apprezzabile”, da parte del governo, c’era davvero ben poco. Rimpatri nei “Paesi sicuri”, chi decide? L’ultima parola spetta alla Corte Ue di Bartolo Conratter L’Unità, 2 gennaio 2025 Nessun colpo di scena: la Cassazione rinvia alla Cgue. La pronuncia è attesa per la fine di febbraio La designazione spetta al governo, ma il giudice ha il diritto di valutare il singolo caso e intervenire. Il 30 dicembre 2024 la Cassazione si è ulteriormente pronunciata sul concetto di paese “sicuro”, senza che tuttavia si registri alcun botto ermeneutico di fine anno. Il provvedimento è infatti soprassessorio: un’ordinanza “interlocutoria” (n. 34898) con cui si rinvia la causa “a nuovo ruolo”. Inutilmente, pertanto, si ricercherebbero nel testo le affermazioni che caratterizzano la maggior parte dei commenti espressi in proposito. La Corte Suprema (C. S.) non afferma nulla di nuovo in tema di spettanza della designazione di paese sicuro alla discrezionalità governativa, così come non disconosce un limitato intervento giudiziario, caso per caso, per la verifica della condizione oggettiva (del paese) e soggettiva (del migrante) in relazione all’effettiva sicurezza del rimpatrio, alla stregua del canone generale della ragionevolezza. Il trattenimento dello straniero - afferma la C.S. - attiene alla sfera della libertà personale, sicché i relativi provvedimenti non solo debbono avere una base legale, ma sono sottoposti anche a un controllo giurisdizionale, tenuto conto dell’importanza del diritto alla libertà personale e della restrizione che il trattenimento è suscettibile di determinare. Gli elementi da sottolineare sono allora altri. In primis, il rinvio a nuovo ruolo è giustificato con l’esigenza di attendere il verdetto della Corte di Giustizia (CGUE) a seguito dei numerosi rinvii pregiudiziali già intervenuti in materia. Qui la Corte Suprema riafferma il principio fondamentale dell’intrinseca correlazione fra i giudici dell’Unione europea sotto la funzione unificante della Corte del Lussemburgo. Sussiste - infatti - una competenza esclusiva della Corte di Giustizia nel fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione, da applicare in modo uniforme in tutti gli Stati membri. Siamo in presenza, dunque, di “un aspetto fondamentale del patrimonio costituzionale europeo”. L’attesa della pronuncia della CGUE (che si prevede per la fine di febbraio 2025) non è - nel pensiero della Cassazione - “abdicazione” del giudice di legittimità al ruolo nomofilattico, né al compito di decidere in tempi ragionevoli il ricorso. Testualmente: “La Corte di Cassazione italiana, recependo le conclusioni del pubblico ministero, rinvia la decisione della causa in vista dell’elaborazione di un prodotto della propria giurisprudenza più maturo ed affidabile”. È proprio nel dialogo fra Corti che si specializza l’altro elemento di spicco dell’ordinanza, ove la C. S. commenta la disciplina europea e la sentenza della CGUE del 4 ottobre 2024, fornendo quindi alla CGUE un suo contributo nomofilattico sul tema. La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 non pare - si legge nell’ordinanza - che abbia dettato un principio di incompatibilità della nozione di paese sicuro con la presenza di eccezioni personali. Un’annotazione finale e benaugurale. Forse alcuni si mostreranno infastiditi a tali complessità e interrelazioni, ritenute necessarie per addivenire a una regola che debba preservare potere amministrativo, controllo giudiziario sul caso concreto e - soprattutto - i diritti fondamentali e, in specie, la dignità dei richiedenti asilo. L’obiezione è tuttavia facilmente superabile. La resilienza dei diritti fondamentali, verificata sui migranti, interessa tutti noi. Più le regole sono complicate, più - evidentemente - il bilanciamento sugli interessi (singoli e collettivi) è garantistico per il cittadino. Per tutti, cittadini e non. Una verifica, seppur di segno contrario, si coglie in questi giorni di ansia per una nostra giovane e valente connazionale che - in un paese che semplifica le regole giuridiche con eccessiva disinvoltura - è trattenuta in carcere senza un’accusa dettagliata. In spregio al principio di precisione dell’accusa, all’habeas corpus, a Grozio, all’Illuminismo europeo, a Filangieri, a Beccaria. Iran. Cecilia Sala è detenuta in condizioni severe di Luca Sofri ilpost.it, 2 gennaio 2025 Nella cella di isolamento della prigione iraniana di Evin dorme sul pavimento, non ha contatti con nessuno e il pacco che secondo la Farnesina che le era stato consegnato non è mai arrivato. La giornalista italiana Cecilia Sala è sottoposta a un regime di carcere duro nella prigione iraniana di Evin. Dorme sul pavimento con due coperte, una per coprirsi e una sotto. Nella cella non c’è nulla, nemmeno una brandina, soltanto un faro sempre acceso. È in regime di isolamento completo da quattordici giorni e questo vuol dire che non ha contatti con nessuna persona e ha visto soltanto l’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, per trenta minuti. Sala non ha finora ricevuto il pacco consegnato sabato dall’ambasciata alle autorità del carcere iraniano, che conteneva alcuni beni per rendere meno dura la vita in cella: un necessaire con articoli per l’igiene, quattro libri, sigarette, un panettone e una mascherina per coprire gli occhi. Le regole sugli oggetti che possono entrare nella cella sono strettissime, non sono permessi nemmeno gli occhiali. Il ministero degli Esteri italiano aveva sostenuto due giorni fa che il pacco fosse stato consegnato in cella. Queste informazioni vengono da persone vicine ai genitori di Sala, che la mattina del 1° gennaio hanno ricevuto una telefonata dalla figlia e hanno detto di essere angosciati. Sala ha ripetuto: “bisogna fare in fretta”, per trovare una soluzione che le permetta di essere rimessa in libertà e di tornare in Italia. La cella d’isolamento è un modo di detenzione usato nelle carceri per punire i detenuti, perché non vedere nessuno per periodi di tempo prolungati genera sofferenza, ansia e una forte sensazione di disagio. L’isolamento è da sempre uno strumento per fare pressione psicologica sui prigionieri. In Italia la legge dice che l’isolamento punitivo non può durare più di quindici giorni. Le autorità iraniane avevano arrestato Cecilia Sala la mattina di giovedì 19 dicembre. Il 30 dicembre avevano detto che Sala è in carcere per avere violato le leggi della Repubblica islamica dell’Iran, senza specificare null’altro. Fonti del ministero degli Esteri italiano hanno spiegato al Post che tutto quello che riguarda le condizioni della giornalista italiana in Iran, quindi il regime carcerario duro, le telefonate concesse e la singola visita dell’ambasciatrice, sono da considerare come altrettanti messaggi al governo italiano. Nel governo a seguire con attenzione il caso sono quattro persone: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Mercoledì 1° gennaio l’Italia ha chiesto al governo dell’Iran “garanzie totali sulle condizioni di detenzione di Cecilia Sala” e la sua liberazione immediata. Nel messaggio si chiede anche la possibilità di inviare generi di conforto e la garanzia che siano consegnati davvero alla prigioniera italiana. Iran. Cecilia Sala, l’importanza dei diritti umani di Antonio Polito Corriere della Sera, 2 gennaio 2025 Si chiama “habeas corpus” (letteralmente: “abbi il tuo corpo”), ed è uno dei principi cardini della civiltà giuridica dell’Occidente: protegge l’inviolabilità personale dalla detenzione arbitraria. Alle nostre coscienze ripugna l’idea che una persona possa esser sbattuta in una cella senza conoscerne la motivazione, senza che le sia stato contestato un reato, e quindi senza alcuna possibilità di difendersi. Soprattutto se è una giovane donna di cui tutti, carcerieri compresi, conoscono la semplice e onesta missione professionale: raccontare il mondo a chi non può andare a vederlo di persona. Dobbiamo però chiederci da che cosa origini la nostra ripugnanza. Scopriremmo così che è frutto di una cultura, di un pensiero, di una storia che non tutti nel mondo, anzi davvero pochi in realtà, hanno la fortuna di condividere. Si chiama “habeas corpus” (letteralmente: “abbi il tuo corpo”), ed è uno dei principi cardini della civiltà giuridica dell’Occidente: protegge l’inviolabilità personale dalla detenzione arbitraria (disposta da un don Rodrigo, da un re, da un regime autocratico o teocratico), ed è perciò il più formidabile strumento di uguaglianza, perché mette la legge sopra tutto e tutti. Fu introdotto nella storia dell’Occidente cristiano dalla Magna Carta, ma ci sono voluti secoli di lotte e di ribellioni contro il potere per affermarlo dapprima nella Gloriosa Rivoluzione inglese, poi nelle rivoluzioni americana e francese. Ora è sancito in ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo, fino a quella Universale del 1948, e in tutte le Costituzioni occidentali a partire dalla nostra, che all’articolo 13 dichiara: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione, o perquisizione personale, né altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. C’è da esserne fieri. E invece spesso noi lo diamo per scontato, e anzi ci accapigliamo sul modo, più o meno garantista, in cui applichiamo questa norma primaria. Ma ci sono innumerevoli Paesi nei quali davvero il cittadino, e ancor di più lo straniero, è sempre un presunto colpevole, e lo Stato ha perciò il potere di farne ciò che vuole, se e quando gli serve. Per questo la detenzione di Cecilia Sala ai nostri occhi sa di vicenda kafkiana: arrestata con l’accusa di aver genericamente violato la legge, ma non si sa quale, ora si vedrà, qualcosa troveremo, ve lo faremo sapere. In realtà arrestata per un ricatto all’Italia, ed essere così scambiata con un cittadino iraniano accusato dalla giustizia americana di aver fornito materiale per attentati terroristici, catturato nel nostro Paese. Del resto, perché meravigliarsi? Gli aguzzini di Cecilia Sala sono quegli stessi Guardiani della rivoluzione islamica che hanno finanziato, sostenuto, in parte organizzato e comunque applaudito la più cruenta presa di ostaggi della storia recente, avvenuta il 7 ottobre in Israele: centinaia di giovani donne, bambini, anziani rapiti per farne merce di scambio e, se del caso, uccisi. In gran parte del mondo questa è la considerazione che si ha della vita e della dignità umana: merce di scambio, soggetta dunque a un interesse superiore, di volta in volta deciso dal potere. Oppure carne da macello, come quei poveri fantaccini coreani mandati a morire a migliaia nel Kursk, in una guerra lontana migliaia di chilometri da casa, e ai cui cadaveri i russi bruciano il viso perché non siano identificabili. Vere e proprie truppe coloniali, costrette a una servitù etnica, contro la quale chissà perché la nostra sempre vigile cultura “woke” stavolta non s’indigna. A chi da noi dimostra invece di disprezzare l’Occidente, pur ben protetto dalle libertà e dal benessere occidentale, viene da chiedere se davvero vorrebbe mai vivere in un posto dove ti arrestano quando vogliono e senza nemmeno spiegarti perché. Oddio, alcuni spregiatori nostrani dell’Occidente, spesso i più furbi e sofisticati, in realtà proprio questo modello hanno in mente: uno stato di polizia in cui gli incarcerati per definizione non possono essere innocenti, al massimo colpevoli che la fanno franca. Ma approfittano della credulità popolare tacendo il fatto che i paesi che oggi sfidano Europa e Stati Uniti per l’egemonia globale, il Quartetto del Caos composto da Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, sono retti da regimi che sistematicamente ignorano, negano e calpestano i diritti umani, conculcano la libertà di parola e di pensiero, sopprimono il dissenso, incarcerano gli oppositori, perseguitano gli omosessuali, dispongono come vogliono dei corpi dei loro sudditi, e se del caso li fanno sparire nelle galere o nelle fosse comuni. Può essere che a qualche cinico sostenitore delle ragioni delle tirannie tutto questo non importi (salvo protestare a casa nostra per ogni presunto sopruso, strillare al regime, invitare alla resistenza). Ma a noi importa, eccome. È anche per questo che dobbiamo tanto a Cecilia Sala (e alle testate per cui lavora, Il Foglio e Chora Media): perché ci sta impartendo con il suo supplizio in carcere un’ennesima lezione sul valore assoluto della libertà, condizione indispensabile di ogni possibile dignità umana. Speriamo solo che il suo sacrificio finisca presto, e sia restituita al mondo libero di cui è figlia.