L’umiliazione extra dei detenuti e “l’effetto gregge” nelle carceri di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2025 “Butta la sigaretta, bussa e dì buongiorno”, ordina il poliziotto convinto che così svolge anche una funzione da educatore. E il detenuto, che magari aveva preso a raffiche di mitra varie persone, ubbidisce come un bambino. Scopo reale della pena è (ancora) quello di eliminare l’identità dei carcerati, che si lasciano pascolare come un gregge di pecore mansuete, disposti ad accettare quel “di più di umiliazione che è funzionale a una carcerazione tranquilla”. Ho ritrovato queste frasi in uno scritto datomi tempo fa da un amico, esperto di questioni penitenziarie. Sono parole di un’asprezza crudele. Che però appartengono tuttora al bagaglio culturale del legislatore, almeno quello del “pacchetto sicurezza” approvato dalla Camera e ora in discussione al Senato. Il nostro sistema carcerario, con ben 88 suicidi nello scorso anno, è allo sfascio. Il sovraffollamento cancella gli spazi necessari alla rieducazione del condannato. Siamo quindi ai limiti della Costituzione. E ora nel “pacchetto” troviamo l’incredibile previsione come reato della condotta di resistenza passiva - di fatto pacifica - agli ordini impartiti in carcere. E come se non bastasse, il nuovo reato è inserito nel catalogo di quelli ostativi ai benefici penitenziari, insieme ai delitti dei terroristi e mafiosi irriducibili. Dunque una norma che non ha nulla a che fare con il miglioramento della sicurezza delle carceri, anzi ne rende ancora più rabbioso e muscolare il clima. Come dare torto allora a chi critica duramente il “pacchetto” su un piano generale ma riferibile ancor meglio al settore delle carceri? Lo si definisce, ad esempio, come il più grande attacco alla libertà di protesta pacifica della storia repubblicana; o come un provvedimento diretto a infondere non sicurezza ma paura. In sostanza siam rimasti al “gregge”, quasi che i detenuti non fossero uomini, da rispettare anche nell’esecuzione della pena. “Non cada nel vuoto l’appello di Papa Francesco per un atto di clemenza” di Marina Lomunno Avvenire, 29 gennaio 2025 Come un’àncora di salvezza per un naufrago la seconda Porta Santa che papa Francesco ha voluto aprire nel carcere romano di Rebibbia per dare inizio al Giubileo della Speranza. Perché è di speranza che hanno bisogno le carceri italiane soffocate da sovraffollamento, strutture obsolete, carenza di personale, disperazione che nel 2024 ha spinto 89 detenuti a togliersi la vita. Il numero più alto da 30 anni, da quando il tragico conto entra nelle statistiche ministeriali, a cui bisogna aggiungere 7 agenti di polizia penitenziaria. Uno stillicidio che non si ferma: sono già 8 nel 2025 i reclusi che si sono ammazzati in cella. Della lista nera delle carceri italiane si è parlato a Torino la scorsa settimana nella sede del Consiglio regionale al convegno “Emergenza carcere a 50 anni dal nuovo ordinamento penitenziario” promosso da Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Piemonte in collaborazione con la Conferenza dei Garanti territoriali che ha ribadito, come la situazione detentiva in Italia dopo mezzo secolo dall’entrata in vigore della nuova normativa, sia drammatica. “La popolazione carceraria è molto cambiata negli ultimi anni e richiede risposte diverse affinché, oltre a che risolvere i problemi cronici legati al sovraffollamento (nei 189 penitenziari per adulti su 47mila posti sono recluse 62milapersone), il carcere possa assolvere alla sua funzione rieducativa come recita l’art. 27 della Costituzione. Tra le urgenze da affrontare la gestione degli spazi, l’offerta di formazione e istruzione, il lavoro dentro e fuori le mura, l’accompagnamento all’uscita per evitare la recidiva che sfiora il 70%, il mantenimento delle relazioni familiari e il diritto all’affettività”. In attesa che tutto ciò si realizzi Mellano ha ribadito che i garanti sono “compatti nel richiedere che non cada nel vuoto l’appello di Papa Francesco ad atti di clemenza”. In sintonia con Francesco che auspica carceri che non siano luoghi dove il tempo si consuma senza speranza, il Presidente Mattarella denuncia da tempo le condizioni “inammissibili” degli Istituti penitenziari della Penisola come ha ripetuto nel discorso di fine anno alla Nazione ricordando il dovere “di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Ma lo stato delle nostre patrie galere è in linea con il dettato Costituzionale? I relatori - tra cui Stefano Anastasia, garante regionale del Lazio, Giorgio Sobrino, docente di Diritto costituzionale dell’Università di Torino, Stefano Tizzani dell’Ordine degli avvocati di Torino e Roberto Capra presidente della Camera penale “Chiusano” sono stati concordi nell’affermare che siamo al limite dell’incostituzionalità se le nostre carceri sono “in emergenza”. Un’allerta, ha aggiunto Stefano Anastasia, che dal decreto Caivano in poi riguarda anche i 17 Istituti penali minorili dove sovraffollamento (al “Ferrante Aporti” di Torino 8 giovani ristretti dormono in giacigli di fortuna perché su 46 posti disponibili i reclusi sono 54) e carenza di comunità alternative alla reclusione è brace che cova sotto la cenere. Che fare allora? Non c’è nulla da inventare: seguire il dettato costituzionale (“la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”) e “diffondere speranza” come invita il Papa che tra l’altro - come ha concluso Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e garante della Campania - è il nuovo motto della Polizia penitenziaria (“Despondere spem munus nostrum”, garantire la speranza è il nostro compito) che, “se messo in pratica da tutti i soggetti che si occupano dei detenuti e delle loro condizioni di vita, potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza carcere”. Dalla benedizione del Papa alla morte, il dramma di Patricia in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2025 La donna, nigeriana di 54 anni, è trasferita senza motivo evidente l’8 gennaio da Rebibbia al carcere di Palermo, dove è deceduta dopo 4 giorni. C’è una foto che, a riguardarla ora, spezza il cuore. Risale allo scorso marzo, quando Papa Francesco celebrò la Messa in Coena Domini nel carcere femminile di Rebibbia. È un’immagine che racconta tutto senza bisogno di parole: Patricia Nike, nigeriana di 54 anni, piange disperata, sorretta da una agente penitenziaria. “Soffro troppo, non ce la faccio più”, ripete tra i singhiozzi. Il Papa le accarezza il volto, le poggia una mano sulla fronte e promette preghiere. Un gesto che oggi sembra l’ultimo conforto ricevuto da una donna che, pochi mesi dopo, avrebbe trovato la morte nel carcere Pagliarelli di Palermo, sola, dimenticata. A raccontare questa vicenda dolorosa è Claudio Bottan sulle pagine della rivista Voci di Dentro, fondata dal giornalista Francesco Piccolo, dove scrivono principalmente i detenuti delle carceri abruzzesi. Una storia di sofferenza fisica e mentale, una delle tante che si incontrano nei corridoi delle carceri italiane, se si ha la volontà di ascoltare. È, come scrive Bottan, l’ennesima vicenda di una persona che il carcere non poteva curare, ma che in carcere ha trovato la morte. Come si legge nel doloroso articolo apparso su Voci di Dentro, Patricia Nike è arrivata al Pagliarelli l’8 gennaio scorso, trasferita da Rebibbia in ambulanza. Era malata, debilitata, fragile. Non aveva familiari in Sicilia, e non vi era alcun motivo apparente per portarla in un carcere notoriamente sovraffollato e con gravi carenze sanitarie. La logica del trasferimento resta oscura. Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, si chiede perché una donna in condizioni così critiche sia stata costretta a questo spostamento. Patricia era sieropositiva, tossicodipendente in terapia con metadone, e affetta da altre patologie gravi. Qualche mese fa era stata richiesta la sospensione della pena per consentirle cure adeguate, ma la richiesta era stata rigettata: secondo il tribunale di Sorveglianza, il carcere di Rebibbia era in grado di garantire l’assistenza necessaria. Una decisione che oggi suona beffarda, considerata la sua morte improvvisa e il trasferimento a Palermo, che sembra parte di un’operazione di “sfollamento” legata a lavori di ristrutturazione in corso a Rebibbia. “La trasparenza non è una virtù dell’istituzione penitenziaria”, sottolinea Bottan, e questo caso ne è un esempio evidente. La morte di Patricia non sarebbe nemmeno comparsa tra gli “eventi critici” monitorati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, come se non fosse mai accaduta. Un grido che nessuno ha ascoltato - Al Pagliarelli Patricia era stata collocata in cella con altre tre detenute. Una di loro aveva il ruolo di “piantona”, una caregiver incaricata di assisterla nelle sue necessità quotidiane. Le condizioni di Patricia, però, erano critiche sin dal primo giorno: camminava con l’aiuto di un girello e faceva passi incerti. Il 12 gennaio, appena quattro giorni dopo il suo arrivo, il suo corpo ha ceduto. Non si conoscono ancora le cause esatte della morte, ma appare chiaro che la sua salute non era compatibile con il regime carcerario. Questa vicenda, come molte altre, solleva domande inquietanti: quali erano le condizioni reali di Patricia al momento del trasferimento? Si trattava di una scelta dettata da esigenze logistiche o, come temono alcuni, di un modo per “spostare il problema” lontano da Rebibbia? Patricia era una delle tante persone “incollocabili”, come vengono definite nel gergo carcerario: malate, tossicodipendenti, fragili. Persone che non dovrebbero trovarsi in carcere, ma in strutture sanitarie adeguate. “Chi se ne importa di una donna tossica, nera, straniera?”, si chiede amaramente Bottan. La sua è una storia che sarebbe rimasta sepolta nel silenzio se non fosse stata raccontata da Voci di Dentro. Ed è proprio questo silenzio a rendere tutto più crudele: una morte che non fa rumore, una vita che si spegne senza lasciare traccia. Come ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, il carcere italiano è pieno di invisibili: tossicodipendenti, senza fissa dimora, stranieri senza permesso di soggiorno. Persone che commettono reati perché non hanno alternative, e che vengono rinchiuse in un sistema che non le cura, ma le abbandona. Patricia Nike era una di loro. La senatrice Ilaria Cucchi, attraverso una formale richiesta di accesso agli atti, vuole far luce su questa vicenda. Ma il caso di Patricia non è un’eccezione: è parte di un sistema che spesso calpesta i diritti fondamentali delle persone detenute. Salute, dignità, umanità: valori che dovrebbero essere garantiti, ma che troppo spesso vengono sacrificati sull’altare della sicurezza e dell’efficienza. Oggi, la storia di Patricia ci interroga. Ci costringe a guardare negli occhi l’indifferenza di un sistema che non è riuscito a proteggerla, che l’ha strappata alla vita nel modo più ingiusto. Forse, come scrive Bottan, l’unico che ha visto Patricia come una persona, e non come un problema, è stato Papa Francesco. Ma il suo grido di aiuto, lanciato tra le lacrime quel giorno a Rebibbia, merita di essere ascoltato ancora oggi. Per la memoria di Patricia e per tutti i detenuti invisibili, abbandonati dalla società stessa, che stanno soffrendo. Altre storie di ordinaria ingiustizia - “È una strage silenziosa quella che si sta consumando nelle carceri italiane”. Aulla scia denunciata da Bottan, arriva l’allarme lanciato da Rita Bernardini, che denuncia una situazione ormai al collasso. Non sono solo i suicidi a preoccupare - già record nel 2024 - ma è l’intero sistema sanitario penitenziario a mostrare crepe sempre più profonde. La denuncia di Bernardini parte da due casi emblematici emersi nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Un detenuto anziano, malato di cancro, costretto a saltare ripetutamente le sedute di chemioterapia. Il motivo? La mancanza di scorte della Polizia penitenziaria per accompagnarlo in ospedale. Accanto a lui, la storia di un giovane con un tumore maligno alla vescica, le cui cure chemioterapiche si sono bruscamente interrotte al momento dell’ingresso in carcere, sei mesi fa. “Questi casi sono venuti alla luce grazie al laboratorio mensile “Spes contra Spem” che conduciamo a Rebibbia”, spiega Bernardini. “Siamo riusciti a intervenire solo grazie a una direzione carceraria attenta e disponibile all’ascolto. Ma quanti altri casi simili rimangono nell’ombra nelle carceri italiane?”. La risposta è agghiacciante: “Tantissimi”, afferma senza esitazione la presidente di Nessuno Tocchi Caino. Il problema è sistemico e affonda le sue radici in tre criticità principali: la cronica carenza di personale di polizia penitenziaria per le scorte, il sovraffollamento delle strutture, e quello che Bernardini definisce senza mezzi termini “la debacle della sanità penitenziaria”. “Chiamiamoli con il loro nome”, tuona Bernardini, “sono delitti di Stato”. Una definizione forte, che però trova riscontro nella realtà dei fatti. Nonostante le continue denunce presentate dalle associazioni, nessun procuratore ha finora voluto indagare a fondo per individuare i responsabili. “E i responsabili”, sottolinea Bernardini, “sono molto, molto in alto”. È un sistema che uccide per omissione, per negligenza, per mancanza di risorse. Un sistema che trasforma una pena detentiva in una potenziale condanna a morte per chi ha la sfortuna di ammalarsi dietro le sbarre. La negazione del diritto alla salute - costituzionalmente garantito - diventa così l’ennesima pena accessoria non scritta, ma tremendamente reale. Il caso di Patricia Nike, morta al Pagliarelli di Palermo, non è quindi un episodio isolato, ma la punta di un iceberg fatto di sofferenza e morte silenziosa. Un sistema che continua a mietere vittime nell’indifferenza generale, mentre chi dovrebbe vigilare volta lo sguardo dall’altra parte. Il dramma delle carceri, tra indifferenza della società e inerzia del Governo di Selena Frasson fanpage.it, 29 gennaio 2025 Quello delle carceri è un vero e proprio dramma che si sta consumando nell’indifferenza generale. Mentre dal governo Meloni non arriva che la promessa di nuovi posti detentivi. Barsom Youssef aveva 18 anni, era sbarcato a Lampedusa nel luglio del 2022 come minore straniero non accompagnato. Youssef soffriva di disturbo post traumatico da stress, i suoi problemi erano iniziati in Libia quando venne catturato dai trafficanti: detenuto, abusato, costretto a imbracciare le armi. Di quella esperienza non ha mai voluto parlare, eppure - riferisce il suo avvocato, la Dott.ssa Monica Bonessa - continuava a ripetere che qualcosa in lui si era rotto. Youssef doveva essere aiutato. Dalla perizia psichiatrica disposta dal Tribunale dei Minorenni di Milano emerge che la sua era una condizione “incompatibile con la detenzione carceraria”, ma i medici della Uonpia (Unita? operativa di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza) riescono a vederlo solo due volte in due anni, il resto del tempo lo passa tra il carcere e le comunita?. Al Beccaria viene picchiato, “quando l’ho visto - continua l’Avv. Bonessa - Youssef non riusciva ad alzarsi dalla sedia”; un pestaggio lungo che finisce con l’isolamento della vittima perche? “non c’e? abbastanza personale per gestire la situazione”. In comunità “lo stordiscono con i farmaci”. Youssef muore carbonizzato a Milano, in una cella del carcere di San Vittore. Lo trovano rannicchiato sotto un lavandino, stava cercando di proteggersi. Il nome di Youssef compare nel lungo elenco redatto da “Ristretti orizzonti”, il giornale del carcere di Padova e dell’istituto di pena femminile di Venezia che dal 1992 raccoglie i dati sul fenomeno dei suicidi in carcere. Accanto al suo ci sono quello di Jordan Tinti, 27 anni, morto per “asfissia meccanica violenta” nello stesso carcere in cui aveva denunciato di aver subito maltrattamenti; quello di Matteo Concetti, 23 anni, poche ore prima di togliersi la vita aveva detto alla madre “se mi mettono di nuovo in isolamento io mi impicco”; quello di Oumar Dia, 21 anni. La notte del 19 ottobre 2023, viene trovato appeso con una corda rudimentale alle sbarre della finestra della sua cella, nel carcere di Opera. Da quel momento in poi e? un susseguirsi di omissioni e contraddizioni: “inammissibile e incomprensibile - si legge nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, firmata dall’avvocato della famiglia Dia, Simone Bergamini - che il cappio utilizzato da Oumar non sia stato messo a disposizione della Procura e della difesa per le analisi del caso”. Dall’esito dell’autopsia emergerebbe l’incompatibilita? tra le lesioni riportate dalla vittima e le circostanze descritte dagli agenti che lo hanno trovato; dubbi che potrebbero essere chiariti solo con l’acquisizione di nuove prove, ma dopo tre mesi dal fatto la Procura ha disposto la chiusura delle indagini e di fronte alla richiesta di chiarimenti per l’assenza delle immagini di videosorveglianza il Ministero della Giustizia si e? limitato a rispondere che “tutte le immagini vengono cancellate dopo 24 ore”. Nuovi sviluppi sono attesi per il prossimo 15 febbraio, data dell’udienza in cui si discutera? della possibile riapertura del caso, per il momento si registra un fatto: Oumar era finito in carcere per la rapina di un cellulare e la sua rimane una delle tante “morti da accertare”. Sono tutte vittime del sistema, di alcune conosciamo la storia, di altre rimangono solo le iniziali, stampate su un foglio Excel. Nel 2024 sono stati registrati ufficialmente 90 suicidi in carcere, il numero piu? alto da quando, trent’anni fa, il dato ha iniziato a essere rilevato nelle statistiche ministeriali e nel 2025 prosegue quella che, ormai, non può più essere chiamata emergenza: è già salito a nove il numero delle persone detenute che si sono tolte la vita nel mese di gennaio. Far funzionare il sistema penitenziario, in Italia, costa 3 miliardi di euro all’anno. Sono 190 le strutture penitenziarie esistenti, per un totale di circa 62 mila detenuti, sebbene i posti effettivamente disponibili siano solo 51 mila. Questo significa che vi e? un indice di sovraffollamento pari al 132,6%. Solo nel 2013 la II Camera della Corte europea dei diritti umani (Cedu), con la sentenza Torreggiani condannava lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso riguardava i trattamenti inumani o degradanti subiti dai detenuti, costretti a vivere in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione a causa delle condizioni di sovraffollamento. Si parla della costruzione di nuove carceri ma intanto e? lo stesso ministero della Giustizia a pubblicare sul proprio sito i dati relativi alle celle non disponibili. In totale, alla data del 12 ottobre scorso, sono 120 su 189 i penitenziari italiani in cui almeno una stanza di detenzione non e? disponibile. Con l’approvazione della legge 8 agosto 2024, n. 112 il legislatore ha nominato Marco Doglio, il nuovo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Il decreto d’incarico e? stato firmato il 23 settembre 2024 dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, su proposta del Ministro della giustizia Carlo Nordio, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini. Il suo incarico scadra? ufficialmente il 31 dicembre 2025, termine entro cui dovra? provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nella Relazione sullo stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria del 2023 si legge che il MIT e il Ministero della Giustizia hanno provveduto ad impegnare 166 milioni di euro, per la realizzazione di 21 interventi di edilizia penitenziaria, al fine di aumentare la capacita? ricettiva del sistema penitenziario di circa 7mila posti. I fondi, dovrebbero provenire nell’ambito dello stanziamento dei finanziamenti inerenti la realizzazione di nuovi padiglioni detentivi, ma anche essere reperiti impiegando le risorse provenienti dal c.d. Pnrr. Nell’ambito del Piano Nazionale Complementare, infatti, sono stati decisi interventi straordinari con lo stanziamento di 30,6 miliardi. Il PNC (Piano Nazionale Complementare), inoltre, prevede 132,9 milioni di euro divisi in due sub-investimenti. Altri 48,9 milioni di euro saranno investiti nella Giustizia Minorile e di Comunita? (il Dgmc) con interventi in varie strutture e la costruzione di quattro nuovi Istituti penali per minorenni. Intervenuta sull’emergenza carceri durante la conferenza stampa di fine anno, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si e? limitata a ripetere le stesse parole pronunciate dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio in occasione della presentazione del decreto “Carcere sicuro”. “Quello che dobbiamo fare e? adeguare la capienza delle nostre carceri alle necessita?. Questo fa uno Stato serio”. Nessuna novità, dunque, solo la promessa di nuovi posti detentivi. Sovraffollamento, aggressioni e più detenuti giovani: nel 2025 sono già 8 i suicidi accertati di Francesca Moriero fanpage.it, 29 gennaio 2025 Sovraffollamento, suicidi e carenze strutturali segnano una crisi senza precedenti nelle carceri italiane. Dall’inizio del 2025 sono già otto i detenuti che si sono tolti la vita a cui si aggiunge il suicidio di un operatore penitenziario. Tra il record di 90 suicidi nel 2024 e condizioni degradanti, come la convivenza con cimici e l’assenza di percorsi rieducativi, cresce l’appello per un cambiamento urgente. “Non si può continuare così. Le bestie sono trattate meglio”, con queste parole, Roberta Zecchini, insegnante nel carcere di Verona, sintetizza una situazione che sta raggiungendo livelli drammatici. Il 2024 si è chiuso con un tragico record: 90 suicidi tra le persone detenute, il numero più alto mai registrato nella storia recente. E il 2025 non sembra promettere meglio: in Italia si contano già ben 8 suicidi. L’ultimo risale a pochi giorni fa, il 20 gennaio scorso nella cella della Casa Circondariale di Cagliari- Uta. Dal 1° gennaio, tra i detenuti, 3 suicidi a Modena, 2 a Cagliari, 1 a Paola, 1 a Regina Coeli, 1 a Sollicciano, 1 alla Rems di Avellino, oltre ad 1 operatore penitenziario sempre a Paola. Secondo il rapporto di Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere di Padova che dal 1992 raccoglie i dati proprio su questo fenomeno, nel 2024 il tasso di suicidi tra i detenuti è di 14,7 ogni 10mila persone, cioè venti volte superiore a quello della popolazione generale, che si ferma invece a 0,74 ogni 10mila abitanti. Questi dati allarmanti sollevano interrogativi sulla capacità del sistema penitenziario italiano di garantire condizioni di vita dignitose e, soprattutto, sulla sua funzione rieducativa. Verona tra le carceri con il maggior numero di suicidi nel 2024 - “Il carcere è un ambiente davvero pesante, sopra ogni altra immaginazione”, racconta Zecchini a Fanpage.it, sottolineando come Verona, insieme a Genova, Napoli e Prato, sia tra le carceri con il maggior numero di suicidi solo nel 2024. Secondo Zecchini, il carcere è una realtà difficile per tutti, non solo per i detenuti ma anche “per gli operatori, per chi come me si occupa della scuola, per la polizia penitenziaria che ci lavora”. La docente evidenzia poi anche il fatto che molti educatori o professori come lei, che lavorano in carcere, spesso si trovano ad affrontare un ambiente per il quale non sono assolutamente preparati: “non esiste una formazione specifica per chi insegna in carcere. Non vengono offerti percorsi mirati: per chi lavora nella scuola, si finisce a lavorare nelle carceri semplicemente perché si è in graduatoria. Certo, uno può rifiutare, ma se dici di no, vieni depennato. Così molti accettano per necessità, anche senza sapere a cosa andranno incontro. E lavorare in carcere può essere davvero molto duro”. La professoressa ricorda poi le iniziative passate, come le visite dei ragazzi delle scuole esterne: “Un’esperienza educativa per tutti. I giovani potevano incontrare i detenuti e capire che non sono certo alieni, ma ragazzi, proprio come loro. Questo li spingeva a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, su cosa significa davvero perdere la libertà. Come quando, per fare una cosa semplice come andare in bagno, devi chiedere il permesso”. Un altro aspetto molto critico è l’aumento dei giovani incarcerati, conseguenza del decreto Caivano. È di pochi giorni fa la pubblicazione del nuovo rapporto di A Buon Diritto, che fotografa una realtà preoccupante nelle carceri italiane, con particolare attenzione agli istituti penitenziari per minori: al 30 aprile 2024, si legge, sette dei 17 istituti minorili registravano un sovraffollamento, ospitando molti più giovani detenuti rispetto alla capacità prevista. “Mandare un ventenne in prigione è devastante. Come possiamo aspettarci che questi giovani escano migliori?”, ha dichiarato Zecchini, che ha poi terminato “Non è certo costruendo nuove carceri che si riducono i reati. Eppure questo è quello che si sente dire. Si parla solo di mettere le persone in piccole scatole, che siano giovanissimi o adulti, per poi dimenticarsene, non si investe su educatori, su strumenti per il reinserimento, sulla scuola, o sul lavoro. Li dimentichiamo lì e buttiamo via la chiave”. Il carcere di Modena conta già i primi suicidi nel 2025 - Ad aver sollevato forti preoccupazioni sulla situazione delle carceri italiane, è stata anche l’Onorevole Maria Cecilia Guerra (Pd) che, a seguito dell’ennesima notizia di suicidio nella casa circondariale Sant’Anna di Modena, ha deciso di visitarla insieme a Stefano Vaccari (Pd) ed Enza Rando (Pd). L’onorevole Guerra ha denunciato a Fanpage.it le gravi carenze e disfunzioni del sistema carcerario, con particolare riferimento alla casa circondariale di Modena, dove il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle risorse compromettono il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e degli operatori; condizioni disumane di estrema sofferenza psicologica e fisica che spesso portano i detenuti a minacciare o tentare il suicidio: “Il problema è che tutto quello che le normative prevedrebbero non viene rispettato, non per la volontà della gestione del carcere, ma perché c’è un carcere che dovrebbe essere una casa circondariale, e quindi una casa che ospita persone che non hanno ancora una condanna definitiva, che dovrebbe ospitare circa 320 persone e che ne accoglie invece 570. È una situazione insostenibile. Tutti i parametri saltano”. Guerra evidenzia come il sovraffollamento non solo violi le normative europee che prevedono tre metri quadrati di spazio minimo per detenuto, ma renda poi anche impossibile garantire le attività rieducative previste dalla Costituzione: “Non c’è personale sufficiente né spazi adeguati per interventi essenziali, come la disinfestazione. Molti detenuti convivono con cimici nei materassi”, aggiungendo che “per fare la disinfestazione tu devi poter liberare le celle, non tutte in un colpo ovviamente. Il problema è che manca lo spazio per farlo, non c’è posto. Quindi ci sono moltissime persone che devono convivere con le cimici nei materassi. Ma la pena non deve e non può essere tortura e disperazione ma, una volta scontata, deve condurre a una concreta possibilità di reinserimento sociale. Ciò che manca davvero sono le risorse, quelle necessarie per garantire un trattamento che non sia disumano”. Guerra spiega che queste condizioni non solo violano i diritti umani, ma si applicano anche a persone in attesa di giudizio, che rappresentano una parte significativa della popolazione carceraria e sottolinea poi che, a causa dell’eccessiva lentezza burocratica e della mancanza di risorse, anche richieste fondamentali, come la possibilità di essere accompagnati in ospedale o ricevere cure adeguate, subiscono ritardi di mesi, aggravando ulteriormente la sofferenza dei detenuti. I detenuti non riescono a comunicare con le famiglie - La situazione è particolarmente critica anche per quanto riguarda il diritto dei detenuti di mantenere contatti con l’esterno: a Modena, per esempio, molti detenuti stranieri, che rappresentano circa il 60% della popolazione carceraria, non riescono a comunicare con le loro famiglie a causa della mancanza di linee telefoniche sufficienti e dei lunghi ritardi nell’ottenere autorizzazioni per ampliarle: “togliere a queste persone i propri legami, che permettono di resistere a una condizione che è, per tutte le persone ovviamente, molto difficile da affrontare, chiaramente crea ancora più disperazione, rabbia e rischi”, ha raccontato Guerra, aggiungendo che “in tutto ciò la scarsità di personale è evidente, non solo tra le forze dell’ordine, ma anche in ambito sanitario ed educativo”. L’onorevole ha poi concluso chiedendo alle forze politiche, tutte, di prendere atto della gravità della situazione e di agire con urgenza, per garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti e agli operatori penitenziari, affinché la pena non diventi solo disperazione, ma un’opportunità di riscatto e reintegrazione nella società. I dati di Antigone - Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in un’intervista a Libero, risalente al 28 dicembre scorso, aveva dichiarato che il fenomeno dei suicidi non era strettamente correlato al sovraffollamento, ma piuttosto alla solitudine, al dolore, alla mancanza di prospettive. Tuttavia, secondo il Garante nazionale dei detenuti e secondo gli ultimi dati pubblicati dall’associazione Antigone, il sovraffollamento ha invece un peso ben significativo. I dati pubblicati pochi giorni prima delle dichiarazioni dello stesso Nordio, risalenti al 16 dicembre 2024, raccontavano un quadro catastrofico: i detenuti nelle carceri italiane erano 62mila, mentre i posti realmente disponibili si fermavano a circa 47mila, portando il tasso di sovraffollamento al 132,6%. In strutture come quella di San Vittore, a Milano, per esempio, il sovraffollamento superava il 225%. A Fanpage.it Antigone ha dichiarato che oltre al sovraffollamento a pesare c’è anche “la crescente chiusura del carcere, il passaggio quasi generalizzato dalle sezioni aperte alle sezioni chiuse, e anche la mancanza da parte della politica, nazionale e locale”. Nel suo ultimo report, l’associazione ha rilevato che solo nel 2024 ci sono stati oltre 20 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti, insieme a un aumento di aggressioni tra detenuti personale. Nel report di Antigone si legge poi che la tragedia colpisce soprattutto i giovani, con almeno 23 vittime tra i 19 e i 29 anni, e le persone straniere, che rappresentano almeno 40 dei casi registrati. Per Antigone “mancano i mediatori e gli educatori, i direttori non bastano, mancano i medici e il lavoro e la formazione professionale sono inadeguati. Va fatto un salto di qualità se si vuole sperare che il carcere possa davvero servire a qualcosa”. La pena, “deve avere un senso, per chi la sconta e per chi, fuori dal carcere, la finanzia con le proprie tasse” e, come ha dichiarato l’associazione “deve dare opportunità di cura, di formazione e di reinserimento. Bisogna che, chi ha scontato la propria pena, non torni a delinquere, a danno di tutti e tornando ad affollare il sistema in un circolo sempre più vizioso. E quando è più facile ottenere questi risultati con le pene alternative, anziché con il carcere, bisogna farlo con convinzione. Perché una società più giusta e più sicura è un vantaggio per tutti”. Nuovi concorsi e stop ai trasferimenti: ecco il piano del Governo sulla giustizia di Mauro Zola La Stampa, 29 gennaio 2025 L’anno scorso erano in servizio 9.529 giudici, più di 1.300 i posti vacanti, carenze denunciate dai magistrati. L’obiettivo dell’esecutivo è garantire la copertura dei posti mancanti entro i primi mesi del 2026. La riforma della giustizia, nelle intenzioni dell’attuale governo, passa anche attraverso il completamento della pianta organica dei magistrati, che dovrebbe avvenire in tempi brevi. La conferma arriva direttamente da una fonte del ministero: “Pur volendo restare entro ampi margini di sicurezza, possiamo garantire che entro i primi mesi del prossimo anno ci sarà una piena copertura dell’organico in tutto il Paese”. Un risultato che pare assicurato grazie a una strategia già adottata da tempo per arrivare alle 10.853 unità previste dalla legge e che ha visto l’attivazione di più concorsi, anche in contemporanea, in modo da nominare nel giro di qualche mese centinaia di nuovi magistrati. Che la linea da seguire sarebbe stata quella era già stato anticipato l’anno scorso all’apertura dell’anno giudiziario a Torino, dove il sottosegretario Andrea Delmastro, in rappresentanza del governo, aveva spiegato che “dopo 15 anni di gravi inefficienze, si vede la luce in fondo al tunnel”. Gran parte dell’investimento anche economico per raggiungere il risultato è già stato messo a terra: quattro concorsi per magistrati sono già stati banditi, il primo da 500 posti, che possono essere (e quindi saranno) aumentati del 20%, già nel 2021. A questo se ne sono aggiunti uno l’anno successivo, con un obiettivo sempre da 400 posti (e ancora la possibilità di aggiungerne un 20%) e due nel 2023: uno molto mirato, da dodici caselle per la sola provincia autonoma di Bolzano, e un quarto ancora da 400 posti. Questo vuol dire che entro luglio di quest’anno verranno nominati 1.531 nuovi magistrati ordinari. Uno sforzo economico che viene definito “non indifferente” ma comunque “necessario dopo che in passato era stato tralasciato da chi aveva la responsabilità dell’azione di governo”, spiega chi segue da vicino il dossier. Per ridurre al minimo i tempi tecnici del concorso sarebbe anche stato aumentato il numero dei componenti della commissione esaminatrice, da 29 a 35, di cui 24 magistrati. Per capire se i nuovi innesti sono in numero sufficiente per coprire le carenze lamentate solo pochi giorni fa in tutta Italia durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, bisogna addentrarsi in un calcolo piuttosto complicato e provare a tenere conto di eventuali imprevisti. Se infatti nel 2024 i magistrati in servizio erano 9.529, e i posti vacanti 1.324, bisogna considerare anche chi andrà in pensione: un centinaio nel 2025, un po’ meno dell’anno scorso. Il numero dei posti scoperti sarebbe a questo punto già ridotto a soli 22. A dicembre però è stato bandito un altro concorso da 350 posti che serviranno a coprire anche tutti i buchi lasciati dai circa 200 magistrati in uscita nel 2026 e il normale turnover legato a eventuali dimissioni o improvvisi decessi. Le selezioni partiranno entro l’anno così da chiudersi al massimo nel 2027. Tra gli effetti non secondari della copertura di tutti i posti disponibili, secondo chi ha lavorato al piano ci sarebbe anche lo stop ai frequenti trasferimenti, che riguardano soprattutto le sedi meno gradite: i piccoli tribunali e le mini procure, afflitti da una cronica carenza di organico che rende quasi impossibile effettuare le indagini e celebrare i processi. Un vantaggio collaterale che si traduce in un ragionamento di spietata semplicità: se tutte le sedi sono già impegnate, chi sarà destinato in una poco appetibile, di quelle periferiche in cui si arriva poco volentieri e si scappa non appena possibile, dovrà invece restarci, oppure rinunciare al suo incarico e aspettare il concorso successivo. Una serie di misure con cui l’esecutivo punta certamente a cambiare marcia. Ma che avrebbe anche l’effetto collaterale di mettere spalle al muro la magistratura, con cui il livello di tensione ha raggiunto picchi che non si vedevano da anni. Coprire gli organici, nell’ottica del governo, toglierebbe un formidabile argomento di protesta a una categoria in aperto conflitto con il ministro Nordio e la premier Meloni. E di fronte all’ipotesi che tra le toghe si sollevi un altro tema caldo - la carenza di personale amministrativo che rende vano il lavoro di pm e giudici - lanciato dal procuratore generale di Torino Lucia Musti qualche giorno fa, da chi sta lavorando al piano arriva una replica secca: “Se ci fossimo occupati degli impiegati avrebbero contestato che mancavano i magistrati”. Insomma, la tensione resta alta. L’ala dura anti-Nordio vince le elezioni dell’Anm. Ma la presidenza è in mano a Mi di Valentina Stella Il Dubbio, 29 gennaio 2025 Vince la linea dura anti-Nordio: così possiamo riassumere il risultato delle elezioni dei 36 nuovi componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Partiamo intanto dai numeri. Magistratura indipendente: 2065 voti, con 11 seggi (Tango 688, D’Amato 652, Salvatori 569, Vanini 524, Giuliano 427, Ammendola 379, Parodi 366, Armaleo 358, Caprarola 338, Ciriaco 275, Incutti 194). AreaDg: 1803 voti, con 9 seggi (Maruotti 514, Cervo 464, Conforti 399, Diella 380, Teresi 294, Valori 262, Manca 237, Vacca 232, Pellegrini 206). Unicost: 1560 voti, con 8 seggi (De Chiara 414, Mastrandrea 385, Bonifacio 379, Graziano 363, Cesaroni 314, Sturzo 294, Amato 285, Canosa 274). Magistratura democratica: 1081 voti, con 6 seggi (Rossetti 268, Celli 251, Patarnello 234, Monfredi 191, Lesti 184, Locati 160). Articolo Centonuno: 304 voti, con 2 seggi (Reale 160, Ceccarelli 74). Diverse le analisi e gli scenari che scaturiscono da questo voto. Primo: hanno votato 6855 toghe su un totale di 8404 registrati al voto, pari all’81,57%. Una affluenza maggiore al 2020, che si fermò al 65%. Il dato dunque ci restituisce una magistratura mobilitata che ha un obiettivo condiviso: fronteggiare la riforma costituzionale della separazione delle carriere. Secondo: mettendo insieme i voti di Md e Area si evince che il fronte più intransigente, oppositivo e meno dialogante nei confronti della maggioranza, del Governo e soprattutto del Guardasigilli è quello che ha ottenuto più consensi. Come già raccontato sul Dubbio, durante l’ultima riunione del parlamentino dell’Anm di due sabati fa fu proprio Md, con Stefano Celli e Silvia Albano, a chiedere di mettere ai voti la possibilità di indire lo sciopero contro la riforma della separazione delle carriere il prima possibile. A quel punto tutti i gruppi, in primis Area, dissero sì. I risultati dicono che quella mossa li ha premiati elettoralmente. Dunque le cosiddette “toghe rosse” sono coloro a cui si chiede di gestire la guida della futura Anm. Terzo: se è vero che MI, la corrente più conservatrice dell’Anm, accusata spesso di collateralismo col Governo, ha preso più voti rispetto agli altri singoli gruppi, quello che ha ottenuto più preferenze è il giovane Giuseppe Tango, presidente dell’Anm di Palermo. Una figura a cui non piace la collocazione partitica del gruppo, dialogante, gradita anche alle altre correnti e che quindi potrebbe dare una nuova linea al suo gruppo adesso comandato da Galoppi. Quarto: che scenario si apre? Mentre era in corso lo spoglio virtuale per il nuovo Cdc, la premier Meloni e i ministri Nordio e Piantedosi, insieme al sottosegretario Mantovano, hanno ricevuto una comunicazione di iscrizione nel registro delle notizie di reato dalla procura di Roma per favoreggiamento e peculato per il rimpatrio del comandante libico Almasri. Un atto che aprirà molto probabilmente un nuovo scontro con la magistratura. Un elemento non da poco da tenere in considerazione anche per la formazione del nuovo vertice del parlamentino dell’Anm. Comunque in queste ore le geometrie future sono variabili. Impossibile al momento ipotizzare chi diventerà il presidente che per statuto deve essere eletto a maggioranza dal Cdc. Il percorso che le correnti vorrebbero seguire è quello di formare prima una giunta unitaria. Il nome del presidente sarebbe solo il passo successivo. Ma l’unità su cosa dovrebbe reggere? Non solo sui temi ma anche sul linguaggio - dialogante o aggressivo - che si vorrà tenere soprattutto con l’avvicinarsi del referendum sulla separazione delle carriere. Se Unicost si unisse ad Area e Md insieme potrebbero scegliere il presidente, ma ciò significherebbe tagliare fuori Mi dalla giunta. Una mossa che vedrebbe una Anm non compatta e debole per affrontare il futuro. Allora meglio esserci tutti e casomai ipotizzare una rotazione ai vertici del ‘sindacato’ delle toghe. I nodi si scioglieranno molto probabilmente l’8 febbraio, quando si riunirà per la prima volta il nuovo Cdc: non è obbligato ma dovrebbe eleggere subito presidente, vice presidente e segretario perché occorre dare un volto allo sciopero del 27 febbraio contro la riforma Nordio. In attesa del nuovo organigramma abbiamo raccolto le dichiarazioni a caldo. Soddisfazione per Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica: “Abbiamo raddoppiato la nostra presenza in Cdc, in un contesto generale di ampliamento della rappresentanza della magistratura progressista. È stata un’elezione strana perché il disfacimento di A&I e la decrescita dei Centouno ha generato una distribuzione di voti su tutti i gruppi, insieme ad una crescita di votanti sintomo di grande vitalità dell’associazionismo. Ne nasce un Cdc equilibrato, variegato, colorato nel quale raccogliere l’entusiasmo e la creatività che è venuta dai magistrati più giovani, rilanciando l’azione e la visibilità della magistratura, in un momento in cui il suo volto costituzionale è messo in discussione”. Md è stata premiata anche perché ha fatto una apertura verso esterni al gruppo: l’indipendente Monfredi e l’ex A&I Lesti. Rieletto per Md Stefano Celli per il quale “la magistratura progressista è la prima forza del Cdc. Di questi dati bisognerà tenere conto per i prossimi passi dell’Anm”. “Siamo soddisfatti del risultato di Area - ha dichiarato il Segretario Giovanni Zaccaro - che ha avuto un enorme consenso, nonostante la separazione con Md. Ma quel che più entusiasma è la grande affluenza alle urne che dimostra la forza e la credibilità dell’Anm, nonostante gli attacchi subiti in questi giorni”. Il risultato è per Claudio Galoppi, Segretario di Mi, “un riconoscimento alla linea politica del gruppo: chiarezza di idee, apertura al dialogo e moderazione. Grande affermazione dei giovani”. Esprime “soddisfazione” anche Rossella Marro, Presidente di Unicost: “Il gruppo dopo una fase di profondo rinnovamento ha improntato la sua attività consiliare e associativa al rifiuto del collateralismo politico, alla tutela dell’indipendenza della magistratura, alla cura dell’unità associativa e al tentativo di un’autoriforma vera. La crescita dei consensi del gruppo (di quasi 350 voti) dimostra che la magistratura italiana rifiuta la polarizzazione tra destra e sinistra e rivendica l’importanza di riconoscersi nel modello di magistrato disegnato dalla Costituzione”. Infine, Andrea Reale dei Centouno dice al Dubbio: “Il risultato per noi non è stato lusinghiero. Ha giocato contro di noi l’inserimento del sorteggio secco per il CSM in un disegno legislativo di riforma della magistratura dal carattere punitivo, che ha consentito alle correnti tradizionali di polarizzare il voto verso quelle più forti, ritenute maggiormente in grado di fronteggiare il pericolo esterno, dimenticando i mali interni del correntismo. La questione della separazione delle carriere ha messo in ombra la critica al correntismo. Continueremo a ribadire la necessità di affrontare la questione morale e di debellare le degenerazioni delle correnti nelle Istituzioni”. Indagati Meloni e il cuore del Governo: riesplode la guerra coi pm di Errico Novi Il Dubbio, 29 gennaio 2025 La Procura di Roma accusa la premier, Mantovano, Nordio e Piantedosi di favoreggiamento e peculato nella gestione del caso Almasri. “Non mi farò intimidire”, dice la presidente del Consiglio. Doveva essere una riforma diversa. Una separazione delle carriere costruita per il futuro della magistratura. Al più per un riequilibrio fra potere giudiziario e politica. E invece no. Rischia di essere una battaglia come ai tempi di Silvio Berlusconi. Tra il governo di Giorgia Meloni e le toghe sembra esplodere uno scontro senza possibile rimedio. La riforma della giustizia pare destinata a smarrire il suo significato costituzionale e a essere travisata, dalla magistratura innanzitutto, in un regolamento di conti. Sono le conseguenze ovvie, banali, inesorabili dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma nei confronti della presidente del Consiglio e dell’asse portante dell’Esecutivo per il caso Almasri: oltre alla premier, sono accusati di favoreggiamento e peculato per il rimpatrio in Libia del capo della polizia giudiziaria di Tripoli anche l’uomo chiave di Palazzo Chigi, vale a dire il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, magistrato; il ministro della Giustizia, ex magistrato e autore del ddl sulla separazione delle carriere Carlo Nordio; il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il cuore del governo. Con un linguaggio che evocherebbe un passato troppo cupo e plumbeo per non stridere con i principi che comunque sorreggono qualsiasi indagine penale, si potrebbe parlare di colpo al cuore del governo. Le accuse sono, come detto, di favoreggiamento e peculato per il trasferimento di Osama Almasri in Libia a bordo di un aereo di Stato. Scaturigine dell’iscrizione a registro degli indagati scattata (con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri) per Meloni, Mantovano, Nordio e Piantedosi è la denuncia presentata da Luigi Li Gotti, ex senatore della dipietrista Italia dei valori, sottosegretario alla Giustizia con Romano Prodi, un passato da militante missino, tuttora avvocato penalista. Nel suo esposto, Li Gotti cita tra l’altro l’articolo del codice penale relativo al favoreggiamento, il 378, inclusa la parte in cui il delitto è individuato anche in relazione a persone, destinatarie del favoreggiamento, che siano sottoposte a “investigazione della Corte penale internazionale”. È il caso di Almasri, perseguito appunto dalla Corte dell’Aja per una serie terrificante di atrocità, puntualmente enumerate nella denuncia di Li Gotti (“tortura, assassinio, violenza sessuale, minaccia, lavori forzati, lesioni in danno di un numero imprecisato di vittime detenute in centri di detenzione libiche”), denuncia che ha innescato l’inchiesta dei pm capitolini. Difficile prescindere dalle dichiarazioni che la presidente del Consiglio diffonde sui social con un video: “Dunque la notizia di oggi è questa; il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, lo stesso del, diciamolo, fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona, mi ha appena inviato un avviso di garanzia (in realtà si tratta della comunicazione prevista dalla legge costituzionale, la numero 1 del 1989, che regola i procedimenti a carico dei componenti del governo, nda) per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino libico Almasri”. Segue l’elenco dei presunti correi. Meloni aggiunge che l’indagine dovrebbe essere originata, “presumo”, dalla denuncia “presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti, ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi, conosciuto per aver difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi. I fatti: la Cpi, dopo mesi di riflessione, emette”, ricorda ancora la premier, “un mandato di arresto internazionale nei confronti del capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Curiosamente, la Corte lo fa proprio quando questa persona stava per entrare sul territorio italiano, dopo che aveva serenamente soggiornato per circa 12 giorni in altri tre Stati europei. La richiesta di arresto non è stata trasmessa al ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla legge, e per questo la Corte d’appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente per ragioni di sicurezza, con un volo apposito, come accade in casi analoghi. Questa è la ragione per la quale la Procura di Roma indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri”. Fino alla conclusione: “Io penso che valga oggi quello che valeva ieri: non sono ricattabile, non mi faccio intimidire. È possibile che per questo sia, diciamo così, invisa a chi non vuole che l’Italia cambi e diventi migliore. Ma anche e soprattutto per questo intendo andare avanti per la mia strada a difesa degli italiani, a testa alta e senza paura”. Meloni non nomina la riforma della giustizia. Non parla di rappresaglia dei magistrati per il proprio imprimatur alla separazione delle carriere. Non descrive la comunicazione ricevuta dalla Procura di Franco Lo Voi come una propaggine della rivolta Anm, culminata nello “schiaffo” di sabato scorso, nell’alzata di tacchi dei magistrati alle inaugurazioni dell’anno giudiziario scattata non appena hanno preso la parola Nordio (a Napoli) e tutti gli altri rappresentanti dell’Esecutivo (nelle altre 25 Corti d’appello italiane). Meloni evita l’immediata sovrapposizione fra il caso Almasri e il conflitto fra governo e Anm anche per non schiacciarsi sul paradigma di Berlusconi. Ma provvedono i suoi due vice, a incorniciare il caso del “torturatore libico” nel contesto della guerra con le toghe. Prime è il ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia Antonio Tajani a pubblicare un post in cui afferma che l’iniziativa dei pm romani “assomiglia tanto a una ripicca per la riforma della giustizia”. Poi è Matteo Salvini a scrivere più o meno la stessa cosa, a scandire “vergogna, vergogna, vergogna”, a “rivendicare” che si tratta dello “stesso procuratore che mi accusò a Palermo” e che “ora ci riprova a Roma con il governo di centrodestra”. Fino alla formula liturgica ormai immancabile per il vicepremier del Carroccio: “Riforma della giustizia, subito!”. Si scatena un uragano di dichiarazioni. Su tutte, la cupa previsione di un altro big dell’Esecutivo, il ministro della Difesa Guido Crosetto, almeno lui risparmiato dall’inchiesta e però pronto a risfoderare la profezia di un paio d’anni fa: “Parlai di opposizione giudiziaria come maggior avversario politico di questo governo. L’assurdo avviso al presidente del Consiglio, al ministro dell’Interno, al ministro della Giustizia e al sottosegretario alla Presidenza, a due giorni dalla incomprensibile protesta dell’Anm, costituisce un ulteriore atto per cercare di avvelenare il clima politico, istituzionale e sociale”. Nella tempesta che infuria, è difficile stabilire il confine tra casualità e determinazione. Come quasi sempre per le scintille che fanno deflagrare i conflitti. Meloni indagata: una mossa obbligata, ma fino a un certo punto di Mario Di Vito Il Manifesto, 29 gennaio 2025 Il Governo era pronto a scaricare tutte le colpe sui giudici, ora però il caso andrà avanti. La denuncia è dell’avvocato Luigi Li Gotti, uno nato nel Msi, cresciuto in An, poi transitato nell’Italia dei Valori di Di Pietro e adesso tra i difensori dei naufraghi di Cutro. Il procuratore invece è Francesco Lo Voi, iscritto a Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. È da questo incontro che è nata la “comunicazione di nel registro delle notizie di reato” per la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi. I reati di cui si parla sono favoreggiamento personale e peculato, entrambi in concorso, per la scarcerazione e l’espulsione dall’Italia del capo della polizia giudiziaria libica Osama Elmasry, ricercato dalla Corte penale internazionale. Tecnicamente non si tratta di un avviso di garanzia: la procura non sta (ancora) chiedendo di effettuare accertamenti su mezzo governo, ma si attiene al secondo comma dell’articolo 6 della legge numero 1 del 1989, secondo il quale, “omessa ogni indagine”, il procuratore, entro 15 giorni dalla denuncia, trasmette tutto al tribunale dei ministri e ne dà comunicazione ai soggetti interessati perché possano presentare memorie o chiedere di essere ascoltati. Sulla questione di diritto è intervenuta anche l’Anm, che parla di “atto dovuto” sulla base dell’articolo 1 della stessa legge, che parla di “rapporti, referti e denunzie” sui reati commessi da premier e ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Tutto giusto, ma Lo Voi nel suo atto questo comma non lo cita, perché l’atto era dovuto solo fino a un certo punto: la procura avrebbe potuto archiviare la denuncia di Li Gotti in autonomia senza dover far partire alcuna procedura formale. Ci sarebbe a questo proposito la famosa circolare fatta nel 2017 dall’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone contro le “iscrizioni frettolose”, seguito della riforma penale dello stesso anno che attribuisce al pm “l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”, ponendo di fatto fine al “mito” dell’atto dovuto. La decisione di mettere in moto la macchina del tribunale dei ministri, dunque, denota una certa volontà di far sentire la voce della giurisdizione anche nell’affaire Elmasry. Come già in parte detto da Meloni in persona sabato pomeriggio - e come avrebbero detto Nordio e Piantedosi nell’informativa al Parlamento che non faranno questo pomeriggio - la linea del Governo è di addebitare tutto il caso all’esclusiva responsabilità della Corte d’appello di Roma, che in autonomia avrebbe deciso di scarcerare il boia libico a causa del suo “arresto irrituale”, cioè effettuato senza allertare preventivamente il ministero della Giustizia. Come dire: è tutta una storia di tribunali, l’esecutivo non c’entra niente e non ha risposto alle richieste fatte dal Procuratore generale della Corte d’appello in ossequio al principio della separazione dei poteri. Una scusa da azzeccagarbugli, in tutta evidenza, ma anche un buon modo per lavarsi le mani della questione senza complicarsi ulteriormente la vita. Adesso, con la mossa della procura, lasciar cadere il caso sarà impossibile o, se non altro, molto più complicato di quanto preventivato da Meloni. Difficile che la denuncia di Li Gotti avrà lunga vita in termini giudiziari, ma a questo punto la storia è destinata ad andare avanti per tutti i passaggi formali che arriveranno. Il tribunale dei ministri, infatti, ha adesso 90 giorni per effettuare le indagini e decidere se archiviare o procedere e inviare il fascicolo in procura. Le indagini su Giorgia Meloni e lo scontro Governo-magistratura: tutto come da copione di Pasquale Ferraro Il Riformista, 29 gennaio 2025 Con un video, e col consueto linguaggio diretto e immediato, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha informato gli italiani - e tutto il globo terraqueo - di essere destinataria di un avviso di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato dalla Procura di Roma, a firma del Procuratore Lo Voi, che Meloni bolla senza mezzi termini come “lo stesso del fallimentare processo per sequestro di persona contro Matteo Salvini”. Insieme alla premier sono stati destinatari dell’informazione di garanzia il guardasigilli Carlo Nordio, il ministro degli interni Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Per la presidente a monte dell’indagine ci sarebbe la denuncia dell’avvocato “Luigi Li Gotti, ex politico di sinistra, molto vicino a Romano Prodi conosciuto - aggiunge la premier - per aver difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi”. L’indagine ha per oggetto la ormai notissima vicenda - per cui oggi pomeriggio era prevista in Parlamento l’informativa dei titolari di Interno e Giustizia prima alla Camera e poi al Senato, e poi saltata - dell’espulsione di Najeem Osema Almasri Habish, comandante della polizia giudiziaria libica, sui cui pende un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale. Mandato che secondo la ricostruzione fornita dalla Meloni è stato emesso “dopo mesi di riflessione” da parte della stessa Corte, e “Curiosamente lo fa proprio quando questa persona stava per entrare in territorio italiano, dopo che aveva serenamente soggiornato per circa 12 giorni in altri 3 Stati europei”, tra cui la Germania. Prosegue sempre Meloni: “La richiesta non è stata trasmessa al ministero italiano della Giustizia, e per questo la Corte d’Appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, piuttosto che lasciarlo libero, noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente, per motivi di sicurezza, con un volo apposito come accade in altri casi analoghi. Questa è la ragione per cui la Procura indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri”. La presidente del Consiglio però non ci sta, e ribadisce che “vale oggi quello che valeva ieri: non sono ricattabile e non mi faccio intimidire”. Ci troviamo dinanzi all’ennesimo capitolo di uno scontro tra politica e magistratura che segnerà i prossimi mesi e forse gli anni a venire. E qualcuno storce già il naso nell’assistere alla notizia di avvenuta notifica dell’avviso di garanzia a poche ore dalla protesta messa in atto da una minoranza della magistratura contro il governo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso le Corti d’Appello, eppure in materia interviene la legge costituzionale varata nel 1989 e che disciplina sulle “presunte” responsabilità penali dei membri del governo. Il Procuratore della Repubblica, nel caso di specie dopo l’avvenuta denuncia dell’avv. Li Gotti, deve trasmettere gli atti al tribunale dei ministri e darne notizia agli indagati. Ricevuto il fascicolo il collegio competente avrà novanta giorni per valutare le carte e decidere se chiedere l’archiviazione, oppure inviare le stesse alle camere e chiedere dunque l’autorizzazione a procedere. Saranno novanta giorni di fuoco che acuiranno lo scontro tra il governo e la magistratura, aprendo le porte all’ennesima sferzante lesione al nostro sistema istituzionale. Alla base della denuncia è chiara la motivazione politica, così come le tempistiche del provvedimento pongono più di qualche dubbio - al di là delle norme procedurali - sulla fondatezza delle ipotesi di reato, in considerazione anche del fatto che, come ribadito dalla premier, si è seguita la consueta procedura di espulsione dei soggetti ritenuti pericolosi. Permane più di qualche dubbio sulle stesse tempistiche adottate dalla Corte Penale Internazionale, ma del resto tutto il mondo è paese. Ma non è una vendetta per le carriere separate di Marcello Sorgi La Stampa, 29 gennaio 2025 È un errore molto grave considerare la decisione del Procuratore di Roma Lo Voi di inviare comunicazioni giudiziarie a Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano come una vendetta, o peggio, l’inizio di una guerra delle Procure con il governo per punirlo della riforma della separazione delle carriere. E non perché, se non proprio in questa iniziativa, ma nelle prossime, prevedibili, che fioriranno su tutto il territorio nazionale verso una classe politica non proprio irreprensibile, non si potrà cogliere qualcosa del genere: la reazione dei pubblici ministeri che si sentono sottomessi a una riforma destinata, nella loro percezione, a ridimensionarne l’autonomia, e affidata a un ministro-magistrato che si sta rivelando al di sotto delle aspettative necessarie per gestire un processo così complesso. Ma mettere al centro di un ennesimo capitolo dello scontro tra politica e magistratura il testo che ha appena cominciato il suo iter parlamentare, non gioverà certamente alla serenità del resto del percorso. Piegato soprattutto ad esigenze di comunicazione - reagire ai titoli dei giornali di oggi e dei tg di ieri sera con la sua solita frase: “Non sono ricattabile” - il messaggio con cui la premier ha dato notizia dell’accaduto conferma che a Palazzo Chigi le comunicazioni giudiziarie del Procuratore Lo Voi sono state considerate come un atto di guerra, a cui rispondere conseguentemente. Non si è voluta approfondire la dubbia iniziativa, che ha dato fuoco alle polveri, dell’avvocato Li Gotti, un legale con un passato di destra finito sottosegretario per conto di Di Pietro in un governo Prodi, e non estraneo in passato ad altre mosse clamorose. Né si è considerato che Lo Voi possa aver spedito le comunicazioni come primo atto necessario di un’inchiesta, possibilmente destinata, fino a prima della reazione di Meloni, con un’archiviazione che adesso invece, dopo il coro di dichiarazioni della maggioranza di destra centro, suonerebbe come una resa. Su un punto, però, Meloni non ha torto: il procuratore si è mosso con lo stesso piglio duro, che viene dalla sua lunga esperienza antimafia, adoperato quando ancora guidava la Procura di Palermo contro Salvini, nel processo per sequestro di persona - gli immigrati lasciati fuori dai porti - dal quale il ministro è uscito assolto, in nome appunto della necessaria distinzione tra il piano politico e di governo e quello giudiziario. Lo Voi avrebbe dovuto valutare che la vicenda Almasri proprio oggi doveva approdare in Parlamento, con i due ministri interessati, Piantedosi e Nordio, chiamati a dare spiegazioni sul loro comportamento, a partire dal fatto che quelle comunicate finora sono state considerate insufficienti. Aspettare almeno questo passaggio, per verificare se i ministri siano in grado di fornire qualche dettaglio in più sul corto circuito verificatosi tra il 20 e il 21 gennaio - e tra Torino, Roma e Bruxelles, sede della Corte penale internazionale che aveva chiesto l’arresto del generale libico per le torture ordinate e praticate personalmente in Libia, nonché sullo sbocco finale della scarcerazione e dell’espulsione di Almasri - sarebbe sicuramente servito al procuratore a farsi un’idea più precisa dell’accaduto, prima di prendere le sue determinazioni. Diversamente Lo Voi ha agito subito e da solo. Individuando nel favoreggiamento del torturatore libico ricercato e nel peculato dovuto al sorprendente rimpatrio con un aereo di Stato di Almasri, accolto in patria come un eroe, i reati per i quali il governo deve rispondere. E pur essendo obbligato (“atto dovuto”, ricorda l’Associazione nazionale magistrati) a comunicare agli interessati l’invio al Tribunale dei ministri di atti che li riguardano, rinunciando ai quindici giorni di tempo che gli sono concessi per decidere. Ci sono poi altri aspetti, evidenziati nei giorni scorsi dalla stessa Meloni, e meritevoli di approfondimento. Il principale è che Almasri era in giro in Europa da alcuni giorni ed era stato fermato in Germania prima di entrare in Italia. La Corte però ha atteso che il generale arrivasse a Torino prima di emettere il mandato di cattura. Scaricando così sulla magistratura e sul governo italiani le contraddizioni di un caso in cui la “ragion di Stato” legata agli inconfessabili accordi per trattenere in Libia, a qualsiasi prezzo, gli immigrati che lì arrivano stremati dopo l’attraversamento del deserto nigeriano, era destinata a cozzare con il diritto penale internazionale. Prova ne sia che nelle poche ore trascorse da Almasri in carcere in Italia, gli arrivi dei richiedenti asilo a Lampedusa erano ripresi con numeri allarmanti. Infine, tra gli altri commenti, una delle figlie di Berlusconi, Barbara, ha dichiarato che quanto è accaduto ieri gli ricorda l’avviso di garanzia firmato nel ‘94 a Milano dai magistrati del pool di Mani pulite e consegnato a Napoli al padre mentre presiedeva un G7. Può darsi, anche se il contenuto dell’indagine e le modalità dell’accaduto sono diverse. Non si era mai verificato infatti, prima d’ora, che un premier, due ministri di prima fila e un sottosegretario alla Presidenza fossero indagati nello stesso giorno, tutti insieme. Caso Almasri: a rimetterci è la chiarezza di Danilo Paolini Avvenire, 29 gennaio 2025 Suscitano clamore ma non sono rarissime, giornate come quelle di ieri nella storia delle cosiddette seconda e terza Repubblica. Diciamo anzi che capitano con una certa regolarità, se non proprio in ogni legislatura. Giornate in cui non sembrano 33 gli anni che ci separano temporalmente da Tangentopoli. E in cui si capisce meglio il significato dell’obbligatorietà dell’azione penale che caratterizza il nostro ordinamento giudiziario: si presenta una denuncia in cui si attribuisce a qualcuno o a ignoti la commissione di uno o più presunti reati e, se non si tratta proprio di carta straccia destinata al cestino, la Procura della Repubblica aprirà un fascicolo d’indagine. È andata così anche stavolta, con il risultato che la denuncia presentata negli uffici giudiziari di Roma da un penalista esperto e di lunghissimo corso come Luigi Li Gotti (detto per inciso: con una storia personale non esattamente “di sinistra”, come invece affermato da Giorgia Meloni) sull’opaca gestione del caso Almasri ha prodotto l’iscrizione sul registro degli indagati della presidente del Consiglio, del sottosegretario a Palazzo Chigi e dei ministri dell’Interno e della Giustizia. Praticamente mezzo governo, non numericamente ma per importanza di ruoli e funzioni. La magistratura, nella sua autonomia e indipendenza, stabilirà se davvero sussistono gli ipotizzati reati di favoreggiamento (di un ricercato dalla Corte penale internazionale) e peculato (per averlo rimpatriato con un aereo di Stato). Ma è evidente il rischio, ora, di alimentare la confusione intorno a una vicenda sulla quale invece bisognerebbe pretendere, e fare, la massima chiarezza. Perché l’apertura di un’inchiesta così deflagrante, in primo luogo per i nomi coinvolti, arriva in uno dei momenti di più alta tensione (niente affatto rari, anche questi, dal 1992 a oggi) nei rapporti tra il potere esecutivo e l’ordine giudiziario. Perché proprio nello scorso fine settimana, in Cassazione e nelle Corti d’appello, l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è rivelata impregnata di quella tensione, fin nelle virgole degli interventi istituzionali e nella protesta delle toghe con il Tricolore al bavero e la Costituzione in mano. Perché la notizia è arrivata proprio alla vigilia delle informative “urgenti” alle Camere - le virgolette sono davvero d’obbligo - dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, entrambi indagati insieme a Meloni e ad Alfredo Mantovano, sulla strana storia del capo della polizia giudiziaria libico arrestato a Torino il 19 gennaio, rilasciato due giorni dopo e riaccompagnato a Tripoli a bordo di un Falcon 900 in uso ai nostri servizi di intelligence. Non a caso la premier ha reso noto lei, con un video, di aver ricevuto l’avviso di garanzia, sottolineando il passato di Li Gotti come legale di “mafiosi” (in realtà “pentiti”, uno su tutti Tommaso Buscetta) e i suoi trascorsi in Parlamento con il partito di Antonio Di Pietro, già pm simbolo di Mani Pulite, e ricordando che l’attuale procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi sostenne la pubblica accusa a Palermo a carico di Matteo Salvini nel processo Open Arms. Strategia comunicativa comprensibile, quella di Meloni, che ha preferito dare la sua versione prima e non dopo quella di chi l’accusa. Ora, inevitabilmente, a destra si grida all’ “attacco al Governo” da parte di una magistratura che reagirebbe così alla contestata riforma sulla separazione delle carriere. E a sinistra si taccia la presidente del Consiglio di “vittimismo” e di incapacità di mettere la faccia in questa complicata e mal gestita faccenda. Fatto sta che il livello dello scontro già in atto è salito così ancora di un grado e chissà se, quando e come si riuscirà a ricondurre i rapporti all’interno di dinamiche istituzionali meno intossicate di quelle descritte quotidianamente dalle cronache. Il fatto che si siano già viste, infatti, non è un buon motivo per non sperare di vederle archiviate una volta per tutte. Aiuterebbe, forse, se si evitasse finalmente di sovrapporre le responsabilità penali a quelle politiche. Con il rischio concreto, una volta esaurito lo scalpore del momento, di non riuscire a venire a capo né delle une né delle altre. Caso Almasri, conflitti pericolosi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 gennaio 2025 La scelta di annullare l’informativa di Piantedosi e Nordio in Parlamento è un’occasione persa per cercare di fare chiarezza. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio erano chiamati oggi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni sul caso di Najeem Osama Almasri, il capo delle guardie libiche arrestato a Torino e riportato due giorni dopo con un volo di Stato a Tripoli. La scelta di annullare l’informativa è un’occasione persa. Perché poteva trasformarsi nel momento per fare finalmente chiarezza su quanto avvenuto tra il 19 gennaio, giorno della cattura, e il 21, giorno del rilascio. E così provare a svelenire un clima che l’avviso inviato alla presidente del Consiglio Meloni, al sottosegretario Mantovano e agli stessi Piantedosi e Nordio ha ulteriormente infiammato. Di fronte a una denuncia, non manifestamente infondata, la Procura di Roma era obbligata a trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri senza svolgere alcun accertamento. Ma appare chiaro che questa indagine non approderà a nulla perché - anche ipotizzando che il collegio ritenga fondate le accuse - sembra impossibile che il Parlamento conceda l’autorizzazione a procedere. Ma anche perché il governo - di fronte al rischio di un processo - potrebbe invocare il segreto di Stato. Ci sono molti interrogativi aperti in questa storia. Il primo riguarda il lavoro della Corte dell’Aia che ha atteso tre mesi prima di ordinare l’arresto di Almasri e l’ha fatto poi in tutta fretta quando stava arrivando in Italia, sebbene da due settimane il capo delle guardie libiche fosse in giro in Europa, tra Gran Bretagna, Belgio e Germania. Si tratta di un torturatore, come mai si è aspettato tanto? Il secondo interrogativo riguarda invece il governo. Appena il libico è finito in manette è stata avviata la procedura per rispedirlo a Tripoli. Il Guardasigilli Nordio non ha risposto ai giudici di Roma e si è deciso di caricarlo su un aereo dei servizi segreti per riportarlo in patria dove è stato accolto in trionfo in favore di telecamera. Tanta fretta è spiegabile soltanto con la necessità di rispondere alle pressioni dei libici. Ma allora sarebbe stato meglio ammetterlo, informare il Parlamento che esisteva una ragione di Stato, proprio come accaduto nel caso del rilascio dell’iraniano Abedini. Sono passaggi semplici, verrebbe da dire scontati, in un Paese normale. E invece dobbiamo ancora una volta constatare che questa eterna guerra tra politica e magistratura distorce ogni fatto, rende tutto complicato, alimenta una fibrillazione che ha ormai raggiunto un livello inaccettabile. Sabato scorso, alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, il sottosegretario Mantovano ha rivolto un appello alle toghe invitandole a “sedersi ai tavoli del confronto, e lì a manifestare la loro opposizione, con toni anche aspri, ma anche a formulare proposte o modifiche, che talora vengono accolte”. Proprio ciò che l’Anm ha chiesto più volte, senza però trovare interlocutori che avessero voglia di ascoltare davvero, fino a decidere di abbandonare - in tutta Italia - le aule quando parlavano i rappresentanti del governo. Adesso bisogna dare seguito alle buone intenzioni del sottosegretario e delle toghe che dicono di essere sempre disposte al dialogo. Il conflitto non fa bene a nessuno e certamente disorienta i cittadini. Il momento in cui ognuno riprenda il proprio ruolo nel rispetto delle istituzioni, è arrivato. Bisogna confrontarsi e trovare soluzioni. Se questo non avverrà, le conseguenze potrebbero essere gravi e imprevedibili, proprio come già accaduto in passato. Caso Almasri. Quel carcerato troppo “scomodo” e il volo di Stato in attesa a Torino di Irene Famà La Stampa, 29 gennaio 2025 Il ruolo del generale Almasri, il carteggio fra le procure e i tempi record del rimpatrio. Ecco tutti i punti oscuri della vicenda che oppone le toghe al governo italiano. Ci sono due versioni che confliggono nel caso del generale libico Almasri. Ed entrambe inseguono la propria verità. I giudici della Corte dell’Aja, dopo tredici anni di accertamenti, hanno deciso di arrestare l’alto militare per crimini di guerra e contro l’umanità. Omicidi, torture, riduzione in schiavitù. A Palazzo Chigi, invece, sostengono altro. Che il profilo di Almasri sia differente. Che il generale non sia a capo dei lager della Libia, ma gestisca le prigioni in cui finiscono i criminali comuni. Che sì, abbia dei legami con la Rada, gruppo paramilitare che opera nella regione ad Est di Tripoli a supporto del Governo di unità nazionale, ma che in realtà non abbia un ruolo cardine nel complesso quadro nord africano dove c’è un delicato intreccio di pressioni e fazioni che aspirano a mantenere il potere e a conservare legami con l’altra sponda del Mediterraneo. Certo è che il generale Almasri può contare su importanti contatti, risalenti nel tempo, con i nostri apparati di sicurezza. Costruiti dopo il crollo del regime di Gheddafi. Quali sono i punti oscuri di questa storia? La svolta clamorosa la determina la procura di Roma, iscrivendo nel registro degli indagati la premier Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega ai servizi segreti, Alfredo Mantovano. Accusandoli, a seguito di un esposto, di favoreggiamento e peculato. Il primo nodo sono le tempistiche del rimpatrio. Il generale Almasri viene fermato a Torino il 18 gennaio, mentre, con alcuni amici, sta tornando dallo stadio dopo aver seguito la partita della sua squadra del cuore, la Juventus. Il suo nome è comparso nei database internazionali dei ricercati perché poche ore prima la Corte penale internazionale ha inserito nel circuito Interpol il mandato di cattura. Dell’arresto viene informata l’autorità giudiziaria. Il 21 gennaio, il generale viene lasciato libero dalla Corte d’appello di Roma, competente ad applicare la convenzione con i giudici internazionali, per un vizio di procedura. Che si può sintetizzare così: il ministro sarebbe stato informato in ritardo della questione. “Non è vero. L’Italia, sapeva tutto. E aveva anche chiesto di non commentare la cosa con clamore”, dicono in una nota dalla Corte dell’Aja. Inoltre, molte ora prima della scarcerazione disposta dal tribunale, un aereo dei servizi segreti ha raggiunto Torino con l’ordine di riportare in Libia quel “carcerato scomodo”. Perché quella decisione è stata presa in anticipo rispetto alla pronuncia dei giudici? C’è poi la questione della difesa del generale. Una girandola di avvocati. Cinque che si sono avvicendati in poche ore: dall’avvocato d’ufficio del foro di Torino, affidato a seguito dell’arresto, a quello di Milano - pare contattato dalla famiglia - a quello di Roma che ha detto di essere stato nominato dall’ambasciata libica. A presentare la richiesta di scarcerazione davanti ai giudici è infine un noto legale tributarista di Milano. Si chiama Asa Peronace, un passato nella Guardia di finanza e buoni legami ad alti livelli negli apparati dello Stato. Ora. La versione che lambisce le verità si intreccia anche con le procedure. Il ministro della Giustizia avrebbe potuto sanare, con un intervento tempestivo, i cavilli di diritto sollevati dai giudici di Roma a seguito della richiesta di cattura della Corte penale internazionale. La premier Meloni, nei giorni scorsi in Arabia Saudita, nel pieno della polemica sulla faccenda, punta il dito contro i giudici della Capitale: “Sono loro ad aver lasciato libero il generale”. Dall’Associazione nazionale magistrati ribattono tempestivi: “Non potevano fare altrimenti, senza indicazioni differenti da parte del ministro Nordio”. Querelle a parte, il generale, personaggio chiave nei rapporti con la Libia, è tornato a casa accolto come un eroe. Mentre per la Corte dell’Aja, si legge nel mandato di cattura, nella prigione di Mitiga poteva disporre di vita e di morte. “Tutto avviene sotto il suo controllo e con il suo consenso”. Compresi gli stupri. Comprese le esecuzioni. Padova. Carcere Due Palazzi, Maria Gabriella Lusi è la nuova direttrice di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 29 gennaio 2025 Arriva da Piacenza, sarà in servizio dal 12 febbraio. “È un incarico che mi rende orgogliosa, non vedo l’ora di iniziare a lavorare in una realtà così importante a livello nazionale come il Due Palazzi”. Si limita a questo “flash” il commento di Maria Gabriella Lusi, che si appresta a diventare la nuova direttrice della casa di reclusione della città del Santo succedendo a Claudio Mazzeo, rimasto in carica per sette anni. Il cambio della guardia è fissato per il prossimo 12 febbraio: Maria Gabriella Lusi, originaria di Capua (Caserta), lascerà dopo oltre cinque anni la guida del carcere Le Novate di Piacenza - città che l’ha adottata nel 1997 - e sarà chiamata a proseguire l’ottimo operato di Vincenzo Mazzeo prendendo le redini di una casa di reclusione che almeno in quanto a numeri è vicina a quella emiliana, che conta 520 detenuti contro i 555 “padovani”. Il suo curriculum riporta importanti esperienze: dopo aver iniziato quale vicedirettrice del carcere di Parma, Maria Gabriella Lusi ha girato soprattutto il Nord Italia partendo da Bergamo e Milano Bollate e passando per Brescia e Voghera prima di prendere le redini dell’istituto penitenziario di Cremona, che ha poi lasciato per trasferirsi proprio a Piacenza. C’è inoltre una curiosità che la riguarda: suo nonno era Giovanni Caso, senatore della Democrazia Cristiana ritenuto uno dei padri Costituenti. In un’intervista rilasciata a un quotidiano piacentino Maria Gabriella Lusi ha ribadito alcuni concetti chiave: “Il carcere è sempre stato per un luogo di vita e non di sofferenza, in cui esprimere, al di là degli obiettivi professionali, la mia capacità di essere persona. Chi è per me il detenuto? Una persona da gestire e su cui lavorare assicurando la sicurezza sociale, facendo in modo che esca con una rivista idea del sé e dei suoi obiettivi”. Claudio Mazzeo aveva approfittato lo scorso venerdì dell’inaugurazione di un nuovo reparto di detenzione all’interno del Due Palazzi per “anticipare” il suo addio, tracciano un bilancio del suo operato: “A brevissimo lascerò questa casa di reclusione per tornare in Sicilia, nella mia terra, dove dirigerò la scuola di formazione del personale amministrativo penitenziario. Sono stati sette anni belli e soddisfacenti, in cui abbiamo raggiunto ottimi obiettivi grazie alla collaborazione con il terzo settore. Abbiamo inoltre realizzato tanti protocolli ed investito molto sul lavoro all’esterno, con risultati entusiasmanti. Ci sono stati momenti difficili come il Covid, ma sono contento di quanto fatto in questi anni e chi mi sostituirà saprà continuare a percorrere al meglio la strada che abbiamo tracciato”. Mazzeo ha quindi ribadito: “Il nostro istituto penitenziario funziona bene: recentemente abbiamo anche puntato sull’inserimento lavorativo dei detenuti, formandoli a dovere per poi inserirli nelle aziende che non trovano figure adeguate. Mi mancherà il Due Palazzi”. Una delle prime sfide che Maria Gabriella Lusi sarà chiamata ad affrontare è quella relativa ai numerosi casi di aggressioni al personale di polizia penitenziaria segnalate negli ultimi mesi e in preoccupante aumento. Firenze. Tuoni dice addio a Sollicciano, arriva un altro direttore provvisorio di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 gennaio 2025 Sarebbe dovuta rientrata alla direzione di Sollicciano nei prossimi giorni dopo un periodo di malattia, e invece Antonella Tuoni potrebbe essere trasferita alla direzione del carcere di Arezzo su decisione del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E così il penitenziario fiorentino, considerato unanimemente uno dei peggiori d’Italia per le sue condizioni, e quindi per le condizioni di detenuti e lavoratori, resta senza una direzione stabile. Come raccontato dalla Nazione, la direzione provvisoria dell’istituto è stata tenuta finora da Giuseppe Renna, che però è anche il direttore delle carceri di Livorno e Gorgona, mentre la vicedirezione è stata affidata a Valentina Angioletti e Valeria Vitrani. È lo stesso Renna che non nasconde il problema: “Vengo a Sollicciano due volte a settimana, il problema è che devo dirigere anche gli istituti di Livorno e di Gorgona, la situazione è difficile, è ovvio che un carcere di primo livello come quello fiorentino necessita di una direzione stabile”. Adesso la direzione di Sollicciano, stando da quanto trapela, dovrebbe essere amministrata dal reggente Alessandro Monacelli, che è direttore del carcere di Arezzo. Lo scorso luglio, il Dap aveva sanzionato Tuoni per le condizioni degradate del carcere fiorentino, un provvedimento contro cui la direttrice ha fatto ricorso al Tar, che ancora si deve esprimere. “Nutro piena fiducia nelle valutazioni dei magistrati amministrativi” ha detto Tuoni, per poi aggiungere: “Quello che mi colpisce di più da cittadina e non da direttrice è che non si voglia risolvere il problema di Sollicciano, non solo di quello ma delle carceri, Sollicciano avrebbe bisogno di un investimento importante in termini di risorse finanziarie e umane, e il sistema penitenziario avrebbe bisogno della valutazione seria di provvedimenti come amnistia e indulto, oltre a politiche di welfare altrettanto serie”. Scettici sulla decisione del Dap i sindacati, tra cui la Uil Pa: “Sollicciano rimane allo sbando più totale - ha detto il segretario regionale Eleuterio Grieco - Non basta una direzione provvisoria per amministrare un carcere così complesso e con così tanti problemi, serve urgentemente un direttore che abbia un mandato preciso”. Ringraziamenti a Tuoni arrivano dall’assessore al welfare di Palazzo Vecchio Nicola Paulesu: “La situazione a Sollicciano è difficile e drammatica, è fondamentale e urgente individuare soluzioni concrete e durature, per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, come di chi ci lavora. L’auspicio è che sia presto individuata una figura di riferimento per avere un’interlocuzione costante”. “Il trasferimento di Tuoni è incomprensibile. A pensar male, quando uno non la pensa come il datore di lavoro si viene trasferiti” dice il garante dei detenuti Eros Cruccolini. Firenze. Sollicciano, l’ennesima toppa non basta di Stefano Fabbri Corriere Fiorentino, 29 gennaio 2025 Un carcere non è mai un posto tranquillo. Ma quello di Sollicciano sembra essere senza pace. Non solo per la complessità di una popolazione carceraria di centinaia di persone in un istituto le cui criticità si trascinano da anni e la situazione gestionale fatica a trovare stabilità. Da tempo è in malattia la direttrice Antonella Tuoni, al centro di un duro confronto con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia che le ha mosso contestazioni disciplinari e critiche alla sua gestione, durata tre anni sotto la pesante eredità di una situazione strutturale drammatica. Ora, secondo quanto riportato ieri da La Nazione, per lei c’è il mancato rinnovo dell’incarico che scadrà il 3 febbraio e ci sarebbe la direzione del carcere di Arezzo: circa 50 detenuti. Ma la novità di oggi sta nella nomina a “reggente” di Sollicciano di Alessandro Monacelli, attuale direttore dell’istituto aretino che però ancora deve completare il suo mandato. Monacelli, giovane ma già apprezzato dirigente, da oltre un mese era applicato al carcere fiorentino per tre giorni alla settimana, alleggerendo così il caleidoscopio di turnazione quasi giornaliera di direttori prestati alla guida di Sollicciano. Ora il suo mandato è stabile (relativamente) in attesa che le procedure consentano la nomina di un direttore titolare. Quantomeno chi busserà alla porta degli uffici di direzione di via Minervini sarà certo di trovare la stessa persona. Ma si tratta di una visibilissima toppa su un tessuto particolarmente e pericolosamente liso, il cui rischio di strappo irreparabile è all’ordine del giorno. È stata cucita col filo degli obblighi burocratici prescritti per l’amministrazione pubblica, poche volte come in questo caso capaci di dimostrare la lontananza dai tempi e dalle esigenze dei cittadini, compresi quelli reclusi e quelli che ci lavorano. Ma il nodo resta. E ogni giorno che passa tende a stringerlo e a renderlo più difficile da sciogliere, bagnato dalle infiltrazioni d’acqua che cola dai soffitti di una struttura entrata in funzione nei primi anni Ottanta, quasi ieri per l’età media degli istituti, e seccato dal caldo torrido che d’estate arroventa le celle. Sollicciano è, non da oggi, una delle carceri peggiori del Paese, dove tutti i giorni ci si ingegna per affrontare una nuova emergenza; il luogo in cui, entrandovi, sembra quasi impossibile si possa attuare quanto prescrive la Costituzione circa la finalità della pena che è il reinserimento del condannato, nonostante l’impegno di chi ci lavora. Per una situazione del genere non può essere sufficiente operare nel sentiero obbligato ma troppo stretto delle procedure ordinarie - i cui esiti possono essere peraltro potenzialmente impugnabili - ma serve uno sforzo progettuale straordinario che assicuri una guida stabile e duratura, soprattutto dotata di un mandato e di risorse capaci di tentare un’inversione di tendenza. Solo pochi mesi fa, scrivendo di Sollicciano, era riemerso l’antico invito a “fare presto”. E oggi quel presto è diventato subito. Siracusa. Apre Casa Zaccheo, che accoglierà detenuti in permesso premio con le famiglie agensir.it, 29 gennaio 2025 Un luogo destinato ad accogliere i detenuti in permesso premio con le loro famiglie. Nasce ad Augusta, nel Siracusano, Casa Zaccheo. Un’iniziativa dell’Ufficio diocesano di Pastorale penitenziaria di Siracusa e della Caritas cittadina di Augusta che sarà presentata oggi, mercoledì 29 gennaio, presso la parrocchia Sacro Cuore di Gesù. La cerimonia sarà presieduta dall’arcivescovo di Siracusa, mons. Francesco Lomanto, e vedrà la partecipazione di don Helenio Schettini, referente della Caritas cittadina di Augusta, e don Andrea Zappulla, direttore dell’Ufficio di Pastorale penitenziaria, del sindaco di Augusta Giuseppe Di Mare, del direttore del carcere di Augusta, Angela Lantieri, del comandante della polizia penitenziaria della casa di reclusione di Augusta Dario Maugeri, e dei rappresentanti di polizia e carabinieri. La Casa Zaccheo sarà gestita dai volontari che accoglieranno i detenuti in permesso premio (solitamente dai tre agli otto giorni) per buona condotta o per il percorso rieducativo intrapreso. Lecco. Sopralluogo al carcere, Zamperini: “Modello di eccellenza” primalecco.it, 29 gennaio 2025 Un dato positivo è costituito dal fatto che non si sono mai verificati episodi suicidari. La Commissione speciale Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale di Regione Lombardia, presieduta dalla consigliera regionale Alessia Villa, ha effettuato oggi, martedì 28 gennaio 2025, un sopralluogo nella casa circondariale di Lecco. Attualmente il carcere ospita 78 detenuti. Un dato positivo è costituito dal fatto che non si sono mai verificati episodi suicidari. Presenti al sopralluogo anche i componenti della Commissione e il consigliere regionale lecchese Giacomo Zamperini. “La casa circondariale di Lecco si conferma un modello di eccellenza nel panorama penitenziario lombardo e nazionale, capace di promuovere e sperimentare progettualità che migliorano la funzione rieducativa della detenzione, valorizzando al massimo le risorse umane e le competenze presenti - ha dichiarato il consigliere regionale Zamperini - Tra le novità, l’imminente inaugurazione di uno spazio polifunzionale che sarà dedicato sia agli incontri tra detenuti e famiglie sia allo sviluppo di nuove attività rieducative. Questi risultati si inseriscono nell’ampio impegno del Governo Meloni per rendere il sistema carcerario sempre più rieducativo e sicuro. Con la conclusione del 184° Corso Allievi della Polizia Penitenziaria, 1327 nuovi agenti sono stati assegnati agli istituti penitenziari italiani, inclusi 2 per la struttura di Lecco, che si aggiungono ai 40 agenti già operativi”. “Queste assegnazioni rappresentano un passo importante per migliorare le condizioni di lavoro del personale penitenziario e garantire un sistema più efficiente - ha aggiunto Zamperini - Saremo sempre al fianco di chi tutela ordine, legalità e sicurezza. Il Governo Meloni, grazie all’ottimo lavoro del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, proseguirà su questa strada, con nuove assunzioni già pianificate per il 2025, dimostrando grande attenzione verso il sistema penitenziario e i territori”. Come anticipato, nella struttura sono attualmente ospitati 78 detenuti. Un dato positivo è che non si è mai verificato un episodio suicidario. “Entro la fine di febbraio - prosegue Zamperini - grazie ad un progetto in collaborazione con la Fondazione Comunitaria del Lecchese, saranno allestite delle attrezzature per uso sportivo su ogni piano. Abbiamo potuto constatare come i detenuti si siano comunque già ingegnati, utilizzando bottiglie d’acqua e bilancieri improvvisati per svolgere attività fisica. Infine, Zamperini ha voluto ringraziare la direttrice Luisa Mattina per il costante impegno nella gestione della struttura e nella realizzazione di progetti innovativi: “Il carcere di Lecco si conferma un esempio di buona prassi e attenzione alla dignità umana, sia per i detenuti che per il personale”, conclude. Napoli. I paramenti sacri di Vaticano e Giubileo? Li fanno i detenuti di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 29 gennaio 2025 Lavori di sartoria nel carcere di Secondigliano con il progetto “Aprire una finestra sull’orizzonte”. L’omaggio a papa Francesco. Spazio anche a falegnameria, meccatronica, digitalizzazione. “Aprire una finestra sull’orizzonte”. È il lavoro di Giulia Russo, direttrice del Centro Penitenziario “Pasquale Mandato”, per tutti il carcere di Secondigliano. Una sfida per uno spazio invalicabile che occupa 40 ettari e ospita 1480 detenuti in 12 reparti. Dallo scorso maggio, poi, tra le stesse mura ci sono anche le detenute del carcere di Pozzuoli, evacuato per questioni di sicurezza. Imprevisti, problemi e responsabilità a non finire, ma la direttrice sa quale ritmo vuole dare al tempo del carcere, il battito di “occasioni perdute”. Da quando sette anni fa ha assunto la direzione, ha inaugurato quattro lavorazioni penitenziarie: falegnameria, meccatronica, digitalizzazione e sartoria. “Quest’ultima è una continua scommessa”. Tutto nasce da due bisogni effettivi: confezionare lenzuola e federe per i letti dei detenuti e smaltire le divise degli agenti, mai utilizzate o dalle taglie sbagliate, che occupavano un intero magazzino. Ripulite di bottoni, stemmi e simili, ai dodici uomini, scelti e formati con un corso specializzato in sartoria, venivano consegnate solo le stoffe. E loro sono riusciti a realizzare degli zaini. “Abbiamo visto che chi lavora, cambia. Lo sguardo accigliato diventa limpido, il ghigno una condivisione degli spazi”. Sono impiegati per circa sei ore al giorno e vengono retribuiti secondo il contratto collettivo nazionale. E creatività chiama creatività. Con il cappellano del carcere di Secondigliano, don Giovanni Russo, tre anni fa nasce un’idea: lavorare le casule per i sacerdoti e i paramenti sacri. “Abbiamo coinvolto una sarta che ci ha insegnato non solo come realizzarli, ma anche il loro significato, i diversi colori delle casule, ad esempio, e così ha preso il via un nuovo filone sartoriale”. Decine di parrocchie si rivolgono al carcere e in questi mesi ha fatto capolino un committente inaspettato, il Vaticano, con centinaia di lavorazioni per il Giubileo. Lo stemma viene ricamato sulla stoffa e una sua prima prova è stata consegnata nelle mani di papa Francesco qualche mese fa. Ma le dita dei detenuti scorrono da poco tempo su tessuti differenti, destinati a diventare le toghe che vestiranno magistrati, avvocati e professori universitari. “Nei tre progetti c’è una simbologia: l’importanza dei valori, come la legge, la sacralità e la legalità. Il carcere non solo rieduca, è riduttivo, ma può aiutare in una nuova autocoscienza. Questo significa aprire una finestra sull’orizzonte: considerare che la persona non è il suo errore e offrire strumenti per far entrare una novità”. Bari. Un laboratorio di scrittura e storytelling per i detenuti baritoday.it, 29 gennaio 2025 L’assessora Romano: “La popolazione carceraria in dialogo con gli studenti per colmare almeno in parte la distanza e il silenzio che troppo spesso avvolgono l’esistenza delle persone private della libertà personale”. Il carcere di Bari ospiterà un laboratorio che coinvolgerà i detenuti in un percorso di scrittura autobiografica, narrazione ad alta voce e storytelling digitale. Il laboratorio ‘Autori!’, realizzato grazie alla collaborazione tra il Comune di Bari - assessorato alle Culture e Puglia Culture, è curato da “Senza Piume” con Damiano Nirchio e in collaborazione con “Omero su Marte” e la consulenza scientifica della cooperativa sociale Crisi. (esperta in giustizia riparativa e mediazione penale). Il progetto ha una duplice finalità: favorire il processo di riflessione e responsabilizzazione dei detenuti attraverso la scrittura, e diffondere un messaggio educativo che possa arrivare anche alle nuove generazioni. Il laboratorio si concluderà con la pubblicazione di un podcast, in programma per la primavera del 2025. Il 17 febbraio, alle ore 11, nel liceo Salvemini, si terrà un incontro dedicato al progetto, dal titolo “Il racconto che ripara. Il racconto che è riparo”, al quale interverranno Paola Romano, assessora alle Culture del Comune di Bari, Valeria Pirè, direttrice della Casa Circondariale di Bari, Tina Gesmundo, dirigente scolastica del liceo scientifico Salvemini, Giulia Dellisanti, dirigente attività teatrali di Puglia Culture, Ilaria Devanna della cooperativa Crisi, Damiano Nirchio di “Senza Piume” e Vincenzo Ardito di “Sinapsi Produzioni”, autore del corto “Limbo” realizzato nella Casa Circondariale di Bari, che sarà proiettato per l’occasione. Il laboratorio si articolerà in due fasi principali: la prima, dedicata alla scrittura autobiografica e creativa, permetterà ai detenuti di raccontare la propria storia attraverso racconti-interviste che rielaborano e riflettono sui vissuti personali. La seconda fase prevede la registrazione degli elaborati in formato audio. Gli scritti finali, infatti, verranno trasformati in un podcast, curato da “Omero su Marte” di Lorenzo Scaraggi, che sarà pubblicato su piattaforme come Spotify, Apple Podcasts, YouTube Music e altre ancora. Il progetto avrà anche un aspetto di forte interazione sociale e educativa. Una delle puntate del podcast sarà registrata dal vivo, nel corso dell’evento conclusivo all’interno della Casa Circondariale, dove i detenuti dialogheranno con un gruppo selezionato di studenti del Liceo “G. Salvemini” di Bari, creando così un vero e proprio “dialogo riparativo”. Questo incontro permetterà agli studenti di ascoltare le storie dei detenuti e di interagire, aprendo uno spazio di confronto che va oltre la semplice riflessione teorica. Il laboratorio non si limita a coinvolgere i detenuti, ma si intreccia dunque con il mondo della scuola, creando un ponte tra il carcere e la società esterna. Gli studenti del Salvemini avranno infatti l’opportunità, attraverso un percorso guidato, di accedere in anteprima ai racconti dei detenuti e di partecipare attivamente al processo di trasformazione della storia individuale in testimonianza collettiva. Un’occasione per costruire una cultura della riparazione, in cui il danno diventa il punto di partenza per una riflessione costruttiva, capace di prevenire la devianza e di sensibilizzare la società sul valore del cambiamento. “Siamo orgogliosi dell’avvio di questo progetto rivolto ai detenuti del carcere di Bari che, se da un lato si pone in continuità con le esperienze di animazione sociale e culturale già realizzate, dall’altro alza l’asticella del coinvolgimento per dare voce e corpo alle storie di chi sta pagando il proprio conto con la giustizia - commenta Paola Romano, - mettendo la popolazione carceraria in dialogo con gli studenti per colmare almeno in parte la distanza e il silenzio che troppo spesso avvolgono l’esistenza delle persone private della libertà personale. Crediamo che il podcast che sarà realizzato a esito di questo percorso possa rappresentare uno strumento significativo per parlare della dimensione carceraria in maniera “sensibile”, partendo dal vissuto, dalle riflessioni e dalla percezione del futuro dei detenuti coinvolti”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuti a confronto con gli accademici della Vanvitelli casertanews.it, 29 gennaio 2025 Un ponte tra cultura, rieducazione e inclusione sociale. È questa la missione di “Pensieri di Libertà”, il ciclo di incontri organizzato presso il Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, in programma dal 17 febbraio al 4 luglio 2025. L’iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività di Terza Missione del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” ed è organizzata in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Campania. Il ciclo di seminari offre ai detenuti del penitenziario la possibilità di confrontarsi con illustri accademici e studenti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Unicampania su temi che spaziano dalla cultura alla scienza, dall’arte alla filosofia. Ogni appuntamento, dunque, rappresenta un’occasione unica per esplorare il potere della conoscenza come strumento di emancipazione sociale e riflessione civile. Sette incontri scandiranno i prossimi mesi, ciascuno con un tema specifico. Il 17 febbraio 2025, alle 10, il Prof. Giovanni Francesco Nicoletti, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli sarà il relatore del primo incontro nel quale parlerà delLa conoscenza come strumento di promozione sociale e civile. Oltre ai saluti di Giulia Russo, Direttrice del Centro Penitenziario, e di Lucia Castellano, Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, vi saranno i saluti di Raffaele Picaro, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Unicampania. L’evento sarà introdotto da Giuliano Balbi, Ordinario di Diritto penale dell’Unicampania nonché responsabile scientifico del ciclo di incontri. Pensieri di Libertà dimostra che il carcere può essere non solo luogo di pena, ma anche di ri-nascita e riflessione. Grazie al contributo di esperti e all’impegno congiunto delle istituzioni coinvolte, il ciclo di incontri getta le basi per una cultura della consapevolezza, della conoscenza e della speranza. Un esempio di come l’educazione possa farsi motore di libertà, anche dove questa sembra negata. L’organizzazione degli incontri è affidata alla Giulia Russo, Direttrice del Centro Penitenziario e a Mena Minafra, Ricercatrice di Diritto processuale penale, Unicampania. La propaganda cambia pelle di Massimiliano Panarari L’Espresso, 29 gennaio 2025 La manipolazione politica usa schemi consolidati. Oggi, però, i nuovi media ne espandono il raggio d’azione. Sul tema un esperto di comunicazione rilegge il pensiero di un grande sociologo. Guardando al tema della propaganda secondo una prospettiva anche temporale e storiografica, come invita a fare McQuail, si nota che tra i caratteri che contraddistinguono le fake news moderne va annoverata in primo luogo “la capacità di impattare sui soggetti e sui gruppi sociali con una velocità e un coinvolgimento mai visti prima nella storia della disinformazione”; nondimeno, per l’appunto, la loro facoltà di alterare e distorcere la realtà nella percezione individuale ha conosciuto passaggi di indiscutibile rilievo anche nelle epoche passate […]. La manipolazione politica mediante le piattaforme dei nuovi media è diventata un fenomeno pervasivo provocato dalla generalizzazione e ubiquità globale delle tecnologie comunicative di disinformazione; e in questo consiste, giustappunto, una delle specificità contemporanee più accentuate. Al contempo, la “guerra dell’informazione” - la quale “è anche controinfluenza e contropropaganda” - ha largamente travalicato le attività belliche. La disinformazione risulta operativa soprattutto in tempo di guerra (sotto la forma dell’information warfare e, dagli anni Novanta, dell’information cyberwarfare), ma la sua applicazione avviene, altresì, al di fuori degli scenari di conflitto, e il suo impiego con finalità ostili o di destabilizzazione si è incrementato proprio nell’età della post-truth. Anche sulla scorta delle riflessioni di McQuail, si possono compendiare i seguenti elementi chiave della propaganda come pratica comunicativa: la menzogna; la censura e la negazione delle informazioni oppure la sua selezione in un’ottica strategica; l’esagerazione; gli appelli affettivi e all’emozione (volti a suscitare desiderio oppure a instillare paura); il ricorso a una retorica linguistica o a una narrazione visuale che sollecitano direttamente o, comunque, privilegiano gli aspetti non razionali della comunicazione. Aspetti che presentano, dunque, svariati punti di contatto ed elementi in comune con alcuni principi di base del marketing: l’urgenza, l’amplificazione, l’impazienza, l’intensificazione, la decontestualizzazione. Gli uni e gli altri rappresentano pertanto delle forme di promotionalism che oltrepassano o stravolgono programmaticamente i criteri dell’argomentazione razionale, presentandosi come “armi emozionali”, nozione alla quale sono fondamentalmente ascrivibili anche le fake news. E ambedue operano sul confine tra la verità, gli assunti epistemici che la riguardano e il linguaggio che la nomina, definisce ed esprime. Su queste linee di demarcazione del marketing e della pubblicità, e le relative zone grigie o nere, si sviluppano, quindi, le convergenze reciproche e le sinergie con la propaganda, e anche con l’ideologia. A conferma, ancora una volta, della scivolosità e dell’ambiguità strutturale e costitutiva della categoria di propaganda e delle aree politico-culturali (e semantiche) limitrofe. Così, rispetto ai numerosi intrecci descritti, una proposta di distinzione concettuale utile è quella fra supporting e undermining propaganda, enucleata dal filosofo del linguaggio Jason Stanley. La prima rappresenta “un contributo al discorso pubblico che viene presentato come l’incarnazione di determinati ideali, di un genere che tende ad aumentare la realizzazione di quegli stessi ideali sia emotivamente che mediante e altri strumenti non razionali”, mentre la seconda consiste in “un contributo al discorso pubblico presentato come l’incarnazione di certi ideali, di un genere che tende a erodere quegli stessi ideali”. Le inedite forme assunte dalla propaganda si collocano, al pari della totalità degli atti comunicativi contemporanei, sullo sfondo della generale ed estesa condizione di disordine informativo che connota la post-sfera pubblica, la quale si trova, come evidenziano alcuni studi, alla confluenza tra le tendenze post-rappresentative e le occasionali formule alternative di rappresentanza generate dall’ecosistema digitale e, più in generale, da quello mediale ibrido, la categoria (ancorché largamente ambigua) di “postpolitica”, l’espansione costante del paradigma della postdemocrazia e l’affermazione della nozione di un’”era postprivata”, nella quale la tutela della privacy risulta abbandonata (sul piano individuale), e non prioritaria o eccessivamente difficoltosa (al livello dei poteri pubblici). La sfida neopopulista alla trasfigurata democrazia liberal-rappresentativa si pone precisamente all’interno di questo scenario. Una nutrita letteratura scientifica evidenzia il pronunciato impulso ulteriore che la disinformazione e le notizie prive di basi fattuali con finalità manipolative hanno ricevuto dall’estensione del clima politico alimentato dai neopopulismi […]. Le retoriche e, in particolare, il registro comunicativo del neopopulismo degli anni Duemila, con le sue ramificazioni su scala globale, hanno contribuito potentemente a una “politics of misinformation” anche mediante il ricorso alle dottrine e teorie complottistiche in senso proprio, oppure attraverso sinergie con quelle più generiche narrative cospirazioniste che si sono estese a tal punto da convertirsi in un diffuso stile cognitivo, oltre a venire giustappunto impiegate quali “armi” elettoralistiche a tutti gli effetti. E verrebbe così da pensare che dalla cornice criptopopulista del “tutto è comunicazione” degli anni Ottanta si sia passati al “tutto è (variamente) propaganda” degli odierni tempi neopopulisti. “I ragazzi stanno sempre peggio. E noi adulti non facciamo abbastanza” di Luciano Moia Avvenire, 29 gennaio 2025 Il bilancio di Carla Garlatti, che la scorsa settimana ha terminato il suo mandato come Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. “La politica ha le sue colpe, famiglie sempre più in crisi”. Come stanno i ragazzi italiani, presidente Garlatti? Scuote la testa, sorride con un velo di amarezza, cercando una risposta che, come sua abitudine, riesca a fotografare efficacemente la realtà senza toni troppi aspri. Bon ton istituzionale e un tratto di gentilezza che fa parte della sua personalità. Dalla scorsa settimana Carla Garlatti ha lasciato l’incarico di Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Quattro anni densi, tante iniziative avviate, prosecuzione quasi naturale delle questioni e dei temi di cui anche prima si era a lungo occupata, come presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste. Al suo posto arriverà la giornalista Marina Terragni. “Come stanno i ragazzi? La mia prima preoccupazione è sempre stata quella di capire, ascoltandoli. Sono arrivata nel 2021, in piena pandemia. Stavano male. Non è cambiato tanto. Credo che la mia risposta non possa essere molto positiva. In questi quattro anni, ho messo l’ascolto delle loro esigenze al centro del mio impegno. Ho incontrato soprattutto ragazzi che vivono in condizioni difficili, minori stranieri non accompagnati e giovanissimi detenuti, ma anche ragazzi immersi nelle contraddizioni ordinarie della nostra società. Ora li conosco meglio e posso dire, sulla base di un’esperienza diretta, che ci sono troppi ragazzi, troppi adolescenti che stanno male perché le risposte che stiamo dando loro non sono adeguate”. Non si tratta solo di impressioni. Tra le tante indagini realizzate in questo periodo dall’Autorità garante, Garlatti ricorda quella dello scorso anno che ha cercato di fotografare lo stato di salute mentale dei ragazzi. Solo l’8 per cento dei ragazzi ha raccontato di considerarsi felice, il 7 per cento preferisce contatti on line, c’è addirittura un 26 per cento che non desidera rapporti diretti con i coetanei. “È un dato preoccupante - riprende - il segnale di un malessere che si aggrava, considerano che stiamo parlando di ragazzi di 15-16 anni. Chiediamoci i motivi di questa situazione. C’è certamente la questione del digitale, ma c’è anche un diverso assetto della famiglia che ha ormai definitivamente abbandonato i modelli normativi per far prevalere quelli affettivi e amicali”. Passaggio forse inevitabile ma che, secondo l’ex Garante, soprattutto se gestito senza attenzione e senza consapevolezza, rischia di confondere piani e ruoli. Se il genitore pretende di “fare l’amico” perde il suo ruolo di guida e non ha più alcuna autorevolezza agli occhi dei figli. Anche in questo caso le osservazioni nascono sulla base dell’ascolto di migliaia e migliaia di ragazzi. Tra le tante iniziative realizzate da Carla Garlatti, quella di cui si dice più soddisfatta è infatti l’istituzione della Consulta dei ragazzi e delle ragazze che ha permesso l’attivazione di consultazione pubbliche dei minorenni. In questo ambito è stata affrontata anche la questione della salute mentale. “Tra le altre richieste, gli adolescenti hanno espresso il desiderio di poter avere l’aiuto di uno psicologo, ma senza informare i genitori. Una richiesta che fa riflettere. A mio parere i motivi sono almeno tre. Forse non vogliono far preoccupare mamma e papà, forse pensano che i genitori vivano a loro volta una situazione di fragilità tale da non poter accettare quella dei figli. Oppure, ed è l’ipotesi a mio parere più allarmante, ritengono che questa notizia finirebbe per deludere i genitori. Quando su un figlio si fanno investimenti esagerati e si pensa che debba essere sempre il numero uno a scuola e nello sport, scoprire che c’è la necessità di un aiuto psicologico può essere inteso come il segnale di un fallimento. E invece non è così”. Un quadro pesante per tutti, da Nord a Sud, ma che, in alcune zone risulta ancora più allarmante. Carla Garlatti ha più volte sottolineato le disparità che attraversano il Paese e che si ripercuotono sul livello dei servizi territoriali dedicati all’infanzia e all’adolescenza. Basti pensare alla presenza dei servizi sociali. Nelle Regioni meridionali un assistente sociale serve in media un bacino di 10mila abitanti, il doppio di quanto stabilito dai livelli essenziali stabiliti dall’ultimo focus dell’Ufficio parlamentare di Bilancio. “Ecco perché ho più volte sollecitato il governo a intervenire per risolvere queste disparità”. E come è andata? “Direi che in questi anni dalla politica ho avuto molte soddisfazione e anche qualche amarezza”. Tra queste ultime cita il decreto Caivano, positivo per quanto riguarda la riqualificazione del territorio e gli interventi educativi, ma pessimo - a suo parere - per l’inasprimento delle pene. “Il recupero di un ragazzo che ha violato la legge può avvenire solo sul piano educativo, il carcere è sempre l’ultima spiaggia. Inasprire le pene non è un deterrente perché il minorenne quasi mai ha la percezione della gravità del suo gesto”. E tra le soddisfazioni? “I centri di aggregazione giovanili realizzati su iniziativa della viceministra al Lavoro e alla Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci. Grazie ai fondi del Pnrr verranno realizzate sul territorio nazionale 60 comunità per adolescenti grazie a un’alleanza virtuosa con il Terzo Settore e le realtà socioeducative. Una bella notizia”. Finalmente il sorriso è spontaneo. Perché, quando parla di bambini e di adolescenti Carla Garlatti punta sempre a un profilo alto. Il suo riferimento è il preambolo della Convenzione di Ginevra sui diritti dell’infanzia dove si dice in modo esplicito che il bambino deve crescere “in un clima di felicità, di amore e di comprensione”. L’unico testo legislativo, fa notare, in cui si parla di felicità. “Cosa auspicare di meglio per un bambino?”. Uno studente su dieci vittima di cyberbullismo: “Serve più formazione a scuola” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 29 gennaio 2025 Secondo i dati della Fondazione Openpolis un giovane su due non ha competenze digitali almeno di base. Partiamo dalla definizione: “Forme di aggressione, molestia e discriminazione favorite dai nuovi strumenti di comunicazione, condivisione e scambio di informazioni via Internet, ovvero social network, chat, piattaforme di gioco…”. Stiamo palando di cyberbullismo, un fenomeno preoccupante con la progressiva crescita delle tecnologie. Un’emergenza che tocca tutti. Ma soprattutto i giovani, gli utilizzatori più sensibili e fragili di smarthphone, device e computer. Nello specifico i rischi maggiori sono in ambito scolastico. I dati confermano l’allarme. “Uno studente su 10 delle scuole secondarie, durante la pandemia, ha subìto episodi di bullismo o cyberbullismo”, spiega la Fondazione Openpolis Ets. E la quota “sale al 18,2% tra gli alunni stranieri”, viene spiegato sulla base di una ricerca presentata in occasione dell’11 febbraio, in cui si celebra il Safer internet day, giornata promossa a livello europeo per sensibilizzare a un uso consapevole di Internet. “In questo contesto - viene indicato da Openpolis - si inserisce poi la diffusione sempre maggiore degli strumenti di intelligenza artificiale che negli anni a venire saranno sempre più presenti nelle nostre vite. Per questo motivo, saper utilizzare Internet in modo sicuro e consapevole non è più un’opzione: è essenziale essere in grado di padroneggiare le nuove tecnologie. Da questo punto di vista la scuola può e deve rivestire un ruolo di primo piano, una questione sempre più dibattuta tra gli esperti di settore”. Ma qual è la situazione negli istituti italiani? Secondo la ricerca nel nostro Paese c’è ancora molta strada da fare, considerando come detto che la scuola gioca un ruolo molto importante. “È ancora troppo alta la quota di persone senza competenze digitali adeguate. Per sopperire a queste lacune, un primo passo fondamentale è ovviamente la disponibilità negli istituti di dotazioni informatiche e di aule dedicate. Spazi che troppo spesso ancora non sono presenti all’interno delle scuole”. Di nuovo i dati di Openpolis illustrano bene il quadro generale: soltanto un giovane su due (il 58,5%, bilancio 2023) tra i 16 e i 29 anni aveva “competenze digitali almeno di base: una percentuale molto al di sotto della media europea”. E ancora: “Solo nel 35,7% degli istituti scolastici italiani veniva dichiarata la presenza di aule informatiche durante l’anno scolastico 2022-2023”. Una fotografia, quest’ultima, che risente anche di un aspetto sociale: “La presenza di aule digitali è più scarsa nelle aree rurali e nelle zone con alta concentrazione di famiglie a rischio disagio”. Se da un lato quindi “le nuove tecnologie possono contribuire a un significativo miglioramento della qualità della vita (possibilità di studiare e lavorare a distanza, migliore conciliazione dei tempi vita-lavoro) - analizza Openpolis -, dall’altro non possono essere ignorati i rischi connessi a un uso sbagliato o inconsapevole della rete. Su tutti il fenomeno del cyberbullismo ma anche il furto e la diffusione di informazioni e contenuti personali. Rischi che tendono a colpire soprattutto ragazze e ragazzi meno inclusi, rafforzando le disuguaglianze sociali, economiche, territoriali e culturali esistenti”. Migranti. Le navi italiane vengono usate per deportare, non per soccorrere di Angela Nocioni L’Unità, 29 gennaio 2025 Il luogo del naufragio era a 52 miglia da Lampedusa: una motovedetta della Guardia costiera ci impiega un’ora e mezzo a coprire quella distanza. Ma i nostri pattugliatori vengono usati per caricare le persone da imprigionare in Albania. A 52 miglia nautiche a sud ovest di Lampedusa è stata fatta l’altra notte l’operazione di salvataggio raccontata dal comandante della Sea Punk 1, il marinaio italiano Arturo Centore con un passato nella Guardia costiera che soccorre naufraghi con la nave di una ong. Una motovedetta della Guardia costiera italiana salpando da Lampedusa ci mette un’ora e mezza a coprire 52 miglia. Ma nessuno l’altra notte ha ordinato a una motovedetta italiana di salpare. Il pattugliatore Cassiopea - il cui arrivo è previsto stamattina in Albania con 49 naufraghi da deportare nonostante la deportazione di esseri umani sia vietata dalla Costituzione italiana - ha preso quattro giorni fa il posto del pattugliatore Libra per galleggiare a sud di Lampedusa. Ma non lo mandano lì a salvare persone dall’affogamento, no. L’hanno mandato lì ad aspettare che motovedette italiane gli portino a bordo naufraghi raccolti più a sud per deportarli in Albania. Stavolta la scelta di chi tra i naufraghi sia abbastanza poco vulnerabile da essere deportato - fatta col metodo scientifico della valutazione a occhio - è stata compiuta a bordo del pattugliatore non si sa da chi e senza la presenza di nessun occhio esterno o presunto tale. L’agenzia Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni, non ha infatti ancora rinnovato il contratto con il governo italiano per prestarsi a questa scrematura di esseri umani che in gergo tecnico si chiama screening. Ciò nonostante Giorgia Meloni, che sull’Albania valuta sia questo il momento per lei conveniente di insistere, ha mandato Cassiopea a deportare naufraghi senza nemmeno la foglia di fico del personale Oim a bordo. Tra i 49 deportati ci sono maschi del Bangladesh, dell’Egitto e qualcuno della Costa d’Avorio e del Ghana. Arrivati in Albania, valutato rapidamente se fermarli per poi carcerarli e sbatterli indietro o no, gli eventuali fermi per la procedura accelerata di rimpatrio saranno valutati non più dai giudici della sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, come è avvenuto finora, ma (per decisione imposta dal governo Meloni con il decreto Flussi) dai giudici della Corte d’appello di Roma considerati, si suppone, più inclini a convalidare i fermi. Trattasi di sei giudici. Il tribunale decide in materia in composizione monocratica. Se entro le 48 ore non avviene la convalida la persona deve essere liberata. Sul protocollo Italia-Albania, e sulla questione di quali Paesi d’origine possano essere considerati sicuri per rimpatriarci a forza chi da lì è scappato, è ancora pendente il giudizio della Corte europea di giustizia. Il governo va facendo ripetere in giro che la Corte di Cassazione avrebbe già stabilito che la decisione di quali sono i Paesi considerabili sicuri spetta al governo e non ai giudici, omettendo di specificare che ai giudici spetta l’obbligo (non la possibilità, l’obbligo) di valutare se le decisioni prese rispettano o no la legge. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, l’ha ripetuto ieri: “Spetta ai giudici valutare la congruità delle scelte fatta dal governo con la normativa europea”. Il giudice deve (non “può”: “deve”) applicare le norme a garanzia della libertà personale. Deve tenere conto dell’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”. Deve tener contro dell’art 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. E l’articolo 101: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Dovere fondamentale che il governo fa di tutto per cancellare. Osserva il giurista Fulvio Vassallo Paleologo: “Nel caso delle procedure accelerate in frontiera caratterizzate da una estesa applicazione del trattenimento amministrativo prima ancora che la istanza di protezione venga formalizzata, non si riscontrano basi legali che impediscano al giudice una valutazione ex officio sul singolo caso al suo esame, con specifico riferimento alla individuazione come sicuro del paese di origine del richiedente asilo”. Quindi, ricorda Vassallo Paleologo “valutare in un procedimento giurisdizionale la sicurezza di un paese di origine designato come sicuro non significa interferire con politiche della sicurezza o addirittura con relazioni internazionali, in quanto la disapplicazione nel singolo caso della norma interna in contrasto con altra norma di rango superiore stabilita a livello europeo, e per riflesso costituzionale, in base all’117 della Costituzione, non implica alcuna conseguenza sulla validità della norma generale che contiene un elenco di paesi di origine sicuri, a meno che non intervenga la Corte di Giustizia dell’Unione europea o su un ricorso di legittimità, la Corte Costituzionale. In altri termini, il giudizio concreto sulla posizione del richiedente tale rimane, anche se è frutto dell’accertamento istruttorio del giudice e non si riferisce ad allegazioni specifiche, o ad una documentazione che non potrà certo essere fornita dal richiedente asilo nei tempi ristrettissimi della convalida del trattenimento, ammesso che possa essere comunque acquisita nei termini pure assai ridotti delle procedure accelerate in frontiera”. Albania, dietrofront per cinque migranti. In 44 dietro le sbarre di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 gennaio 2025 A Gjader rinchiusi solo egiziani e bangladeshi. Per la prima volta la loro sorte sarà in mano alla Corte di appello di Roma. “In questo nuovo round l’aspetto più problematico è la mancanza di terzietà del soggetto che valuta quali persone sono vulnerabili e quali no”, dice la dem Rachele Scarpa, in visita a Shengjin. Cinque dei 49 cittadini stranieri deportati ieri in Albania sono risultati non compatibili con il trattenimento. La nave militare Cassiopea li ha sbarcati a Brindisi. Durante gli accertamenti nell’hotspot di Shengjin quattro hanno detto di avere meno di 18 anni, un adulto è stato giudicato vulnerabile. Due sono del Gambia, due della Costa d’Avorio e uno del Bangladesh. Tutti gli altri migranti sono stati portati dietro le sbarre a Gjader: otto egiziani e 36 bangladeshi. Le stesse nazionalità per cui nei due round precedenti i giudici della sezione specializzata in immigrazione del tribunale civile di Roma avevano contestato la designazione di “paesi sicuri”, liberando i richiedenti asilo. Stavolta, come deciso di recente dal governo, le carte finiranno davanti alla Corte d’appello della capitale. In molti casi si tratterà degli stessi giudici spostati dall’organo giudiziario di primo a quello di secondo grado, dove scarseggiavano competenze approfondite nella materia. Persino gli uffici saranno gli stessi delle puntate precedenti, per ragioni di spazio. Comunque entro questa mattina il questore di Roma firmerà le richieste di convalida dei trattenimenti su cui i giudici devono esprimersi in massimo 48 ore. Giovedì o venerdì si saprà se il governo ha vinto o perso su quest’ennesima forzatura. Sull’onda dell’entusiasmo per le deportazioni trumpiane e per distogliere l’attenzione, con scarsi risultati, dal caso Elmasry, la Cassiopea era stata inviata nei giorni scorsi al largo di Lampedusa, per cercare migranti da portare in Albania. Palazzo Chigi e Viminale non hanno atteso né l’udienza alla Corte di giustizia Ue a tema “paesi sicuri”, sarà il 25 febbraio mentre la sentenza è attesa entro la primavera, né tantomeno il rinnovo del contratto con l’Oim. Ovvero il soggetto incaricato del pre-screening a bordo della “nave hub”, a metà tra la prima rapida selezione sulla motovedetta di soccorso e quella approfondita a Shengjin. “In questi nuovi trasferimenti l’aspetto più problematico è la mancanza di terzietà del soggetto che valuta chi è vulnerabile e chi no. Il compito è stato delegato a medici dipendenti dal ministero della salute, dalla marina militare o perfino dall’ente gestore”, afferma Rachele Scarpa, deputata Pd presente per la terza volta agli sbarchi d’oltre Adriatico. I dem hanno organizzato una staffetta: monitoreranno le procedure fino a venerdì. Con i parlamentari c’è il Tavolo asilo e immigrazione (Tai), composto dalle principali associazioni italiane che si occupano del fenomeno. “Abbiamo rilevato gravi violazioni sull’accertamento di minore età e vulnerabilità, che deve avvenire prima del trasferimento in Albania, non a Shengjin. Chiediamo di interrompere i trasferimenti”, afferma Francesco Ferri, che ha partecipato all’ispezione per il Tai. L’Asgi sottolinea anche un’altra criticità: la violazione dell’art. 13 della Costituzione. Quello che tutela l’inviolabilità della libertà personale e stabilisce che le autorità di polizia dopo un fermo hanno 48 ore per comunicarlo alla magistratura. “Per le persone trasferite in Albania questa scadenza sembra essere ignorata, poiché il trattenimento effettivo è iniziato già con la “selezione” dei migranti in alto mare”, scrive l’Asgi. In pratica l’associazione sostiene che la detenzione cominci già in mare, sulla nave. Non è escluso che su questo punto, come sull’effettività del diritto di difesa, emergano questioni di legittimità costituzionale. Nel frattempo, alla faccia dell’effetto dissuasivo che secondo il governo avrebbero i centri in Albania, gli arrivi sulle coste italiane continuano senza sosta. A ieri erano oltre 3.300 dall’inizio dell’anno, con i picchi registrati mentre la Cassiopea era in azione. Alarm Phone ha denunciato il mancato soccorso di un barcone alla deriva in zona Sar maltese: 25 persone a bordo, tra loro tre morti. 58 migranti sono stati soccorsi nel Mediterraneo centrale da una motovedetta svedese in servizio per Frontex mentre la nave ong Ocean Viking ha portato al sicuro 93 naufraghi. L’intervento è avvenuto tra lunedì e martedì. Durante le operazioni una bimba di sette anni è andata in arresto cardiaco, i soccorritori l’hanno rianimata. È stata evacuata a Malta con la madre, lotta tra la vita e le morte. Infine l’Unicef ha denunciato che solo lo scorso dicembre il Mediterraneo ha inghiottito 300 vite. Migranti. Roma, ufficio stranieri: un uomo muore sul marciapiede dopo la notte al gelo di Enrica Muraglie Il Manifesto, 29 gennaio 2025 Nelle principali città italiane file “disumane” per i documenti, le persone costrette ad accamparsi dal giorno prima con ogni tempo. Usb: “La questura scegliere poche persone ogni giorno, le altre vengono respinte”. “Non è chiaro se si trattasse di un richiedente asilo in attesa per il disbrigo di una pratica burocratica, e in effetti non importa: era una persona”. Così il coordinamento nazionale dell’Area democratica per la giustizia commenta il decesso di un uomo di origine rumena “in fila per la dignità”, davanti all’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, in via Patini, nella notte tra lunedì e martedì. Era un “cittadino comunitario a cui era stato notificato un ordine di allontanamento dal territorio nazionale”, scrive nel suo comunicato di cordoglio la Questura, per cui l’attesa dell’uomo al freddo non avrebbe giustificazioni. Nel momento in cui scriviamo non ne conosciamo ancora il nome, un anziano, secondo quanto riportato da alcuni testimoni, si era messo in fila dalle 22 di lunedì poiché “è prassi della Questura scegliere solo poche persone ogni giorno, tra quelle in fila, mentre tutte le altre vengono respinte”, denuncia l’Usb migranti. Una notte, quando va bene. Lunghe attese al freddo, al caldo, sotto la pioggia e il vento. “Abbiamo visto bambini alle 4 del mattino in fila insieme ai genitori, che ovviamente non sanno a chi affidarli”, ci racconta Andrea Costa di Baobab experience, associazione che da un decennio denuncia la “lotteria disumana che non è degna di nessun paese civile”. Alle persone che si accalcano nei dintorni di via Patini i volontari di Baobab, insieme ad altri, distribuiscono bevande e pasti caldi: “Com’è possibile che le istituzioni non si prendano in carico un’umanità intera che, quale che siano le condizioni meteorologiche, si mette in fila dalla notte per provare a rivendicare dei diritti?”. Si muore così non soltanto a Roma. La fila per i diritti “accomuna molti uffici delle Questure immigrazione: la carenza di personale e, a volte, la non adeguata preparazione di quello presente, rallentano notevolmente le procedure”, scrive Avs in un comunicato. Sono circolate foto di persone accampate in tende di fronte gli uffici della Questura di Torino, aperti solo due volte a settimana. Anche qui la Croce rossa distribuisce coperte e bevande. Lo stesso triste quadro a Milano, Firenze e nel resto del paese. Usb migranti ha convocato a Roma per oggi alle 16 un presidio a piazza s.s. Apostoli: “Non ci interessa la nazionalità o lo status dell’uomo deceduto: quanto successo è inaccettabile”.