Raccontare e testimoniare: il Garante e le persone private della libertà personale di Valentina Calderone treccani.it, 27 gennaio 2025 “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”, molte parole per descrivere un ruolo estremamente complesso, ma anche scarsamente conosciuto. Il primo garante in Italia è stato istituito a Roma nel 2003, grazie a un processo partito dal basso che ha coinvolto e visto come promotori associazioni e movimenti che si occupavano di detenzione e di diritti delle persone detenute. A quella prima delibera votata dall’assemblea capitolina si è aggiunta pochi mesi dopo l’istituzione del Garante nella Regione Lazio e, in questi vent’anni, tutte le regioni, alcune province e molti comuni si sono dotati di questa figura. Solo nel 2016 è stato eletto il primo collegio del Garante Nazionale, a seguito dell’approvazione della legge istitutiva della figura nel 2013. I primi garanti avevano scarsi poteri, non essendo disciplinato in alcun modo il loro ingresso negli istituti penitenziari e solo nel 2009 una modifica normativa ha aggiunto all’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario la figura dei garanti tra quelle con potere di accesso alle strutture senza autorizzazione e, successivamente, questa facoltà è stata estesa alle camere di sicurezza e ai centri di trattenimento ed espulsione per persone straniere prive di permesso di soggiorno. Un’accezione molto estesa - L’ambito di competenza dei garanti, infatti, non si riduce solo a chi è recluso in carcere, la definizione di persone private della libertà è molto estesa, e ha a che fare con tutti quei luoghi in cui le persone possono trovarsi ristrette. Caserme e centri di permanenza per il rimpatrio appunto, ma anche hotspot per persone straniere e servizi psichiatrici di diagnosi e cura dove sono ricoverati i pazienti in trattamento sanitario obbligatorio. Qualsiasi luogo da cui una persona non può allontanarsi volontariamente - a seguito di un provvedimento giudiziario, amministrativo o per motivi di cura - diventa luogo di interesse per l’attività dei garanti. Non si tratta però solo di ispezionare gli spazi, monitorare le condizioni di vita, effettuare colloqui con le persone che ne fanno richiesta: essere garanti significa anche avere a che fare con la propria amministrazione di competenza, coinvolgere dipartimenti e assessorati, attrarre risorse e aiutare a costruire un pensiero di governo territoriale in cui i luoghi di privazione della libertà siano considerati parte integrante del tessuto sociale. I diritti di chi ha commesso reati - Sempre più spesso si sente invocare severità nelle sanzioni, pene esemplari, aumento delle fattispecie penali. Un’interpretazione punitivista del concetto di sicurezza, che viene distorto e si presta a manipolazioni dall’alto. Il populismo penale è estremamente efficace, perché permette, sotto la spinta della singola notizia sensazionalistica su un grave fatto di cronaca - ovviamente eccezionale e niente affatto strutturale - di mettere in campo politiche emergenziali, dichiarate unica e definitiva soluzione. Veloce, a costo zero, di sicuro impatto emotivo: la sensazione è che sia stato tutto risolto, la nostra paura è placata. Ma la ricetta è discutibile, e per creare davvero sicurezza servirebbe ben altro: servizi sociali, equa possibilità di accesso alle opportunità, redistribuzione delle risorse. In assenza di questo, la funzione principale del carcere è ben diversa da quella dichiarata. Reprime le fasce più deboli della popolazione, rinchiude le persone povere, isola ulteriormente chi già viveva una vita ai margini. Ed ecco allora che nei nostri istituti penitenziari troviamo persone straniere che non hanno nessuna possibilità di avere un permesso di soggiorno a causa delle nostre restrittive leggi sull’immigrazione; persone dipendenti da sostanze espulse dalle comunità di appartenenza; persone povere o con problemi di salute mentale di cui non sappiamo prenderci cura, e che con la loro presenza disturbano il nostro sguardo. Lungi dal non interessarci, tutto questo ci coinvolge e ci chiama a una presa di responsabilità. Questi indesiderabili torneranno prima o poi tra di noi, li incontreremo sull’autobus, per strada, entreranno nello stesso negozio in cui stiamo facendo la spesa. La possibilità che una persona che ha scontato tutta la pena in carcere torni a delinquere è vicina al 70%, la recidiva di chi invece accede in tutto o in parte a misure alternative alla detenzione si avvicina al 20%. Dati incontrovertibili, che in un sistema razionale dovrebbero essere utilizzati per attuare politiche deflattive della popolazione penitenziaria e per ridimensionare l’ambito carcerario ai soli casi di vera pericolosità sociale. Così non è, e per questo il monitoraggio del sistema detentivo da parte dei garanti assume in questo panorama un ruolo ancor più fondamentale. Occuparsi dei diritti delle persone detenute significa in ultima istanza occuparci dei nostri, di diritti, perché l’osservazione di quel sistema, un microcosmo chiuso che è il condensato delle diseguaglianze presenti nel mondo libero, ci aiuta a manifestare l’esigenza dell’allargamento delle tutele, della richiesta di equità e di espansione delle possibilità per tutte e tutti. Vedere/essere visti - Una delle funzioni principali dei garanti delle persone private delle libertà personale è proprio quella vedere con i propri occhi per poter raccontare e testimoniare quanto normalmente è nascosto al nostro sguardo. Qualunque istituzione chiusa rischia di essere difficilmente penetrabile e la percepiamo talmente lontana, proprio perché non ci raggiunge, da rischiare di dimenticarla. Avere il privilegio di vedere significa anche però dare l’opportunità a chi si trovi recluso di essere visto, spesso per la prima volta, di uscire dall’invisibilità in cui leggi e istituzioni ti hanno relegato. Promuovere la cultura dei diritti significa anche questo: accorgersi delle persone, vedere e ascoltare per provare a tradurre, proporre idee e soluzioni, fare da tramite e da ponte, permettere alle voci di chi è detenuto di uscire fuori, travalicare quelle mura e raggiungerci, farci riflettere e attraversarci. È possibile provare a ragionare collettivamente su un senso diverso della punizione, potremmo rimanere stupiti da quanto questo può rendere liberi noi che crediamo di esserlo già. In dialogo con Don Nicolò Ceccolini, cappellano dell’Ipm di Casal Del Marmo di Margherita Sermonti treccani.it, 27 gennaio 2025 Don Nicolò Ceccolini è nato a Cattolica (Rimini) nel 1987. È stato ordinato sacerdote nel 2013. Dal 2017 è cappellano dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, a Roma. Parliamo con lui della sua esperienza con i giovani ristretti, tra parole e silenzi. Mi è stato raccontato da un volontario in carcere che un ragazzo detenuto gli domandò: “Perché vieni proprio qui a passare il tuo tempo libero? Io farei qualsiasi cosa per stare lontano da questo posto”. Lei perché ha scelto di operare in carcere e, in special modo, in un carcere minorile? Nei numerosi incontri con le scuole dico sempre che in carcere ci si finisce per due motivi: o perché ti arrestano, oppure perché qualcuno ti manda lì. Così è successo a me. Nel 2011, quando per la prima volta iniziai a frequentare il carcere di Casal del Marmo ero un seminarista a cui i superiori decisero di proporre questa esperienza di caritativa settimanale. Ricordo ancora la prima volta: era il 23 marzo. All’epoca avevo più o meno la stessa età dei ragazzi giovani adulti detenuti. Non avevo alcuna idea di che cosa avrei trovato, di chi avrei incontrato, con quale ambiente avrei dovuto confrontarmi… Certamente l’inizio è stato una grande sfida, era un mondo per me molto lontano da quello che avevo frequentato fino ad allora. Eppure, mi sono trovato bene nel tempo, mi sono sentito accolto prima di tutto dai ragazzi e ora, dopo 14 anni, Casal del Marmo è diventato per me un luogo speciale. Sono diventato sacerdote nel 2013 nella Fraternità San Carlo, una fraternità sacerdotale di missionari sparsi nel mondo intero. Da quando sono diventato prete, in realtà non mi sono mai mosso da Roma. Qualche confratello, di rientro dai luoghi di missione, ogni tanto mi chiede se non abbia voglia anch’io di partire e lasciare l’Italia. Confesso che non l’ho mai chiesto e ora non ne sento il bisogno. C’è chi ha il “mal d’Africa” e chi il “mal di carcere”. Ho capito però una cosa preziosa. La missione e il compito a cui Dio ci chiama non è partire e raggiungere località esotiche, ma la missione è già qui, tra le strade di Primavalle e quelle dei Parioli. Perché anche Roma è terra di missione. Ho scoperto in verità che il viaggio missionario più interessante che si possa intraprendere è quello nel cuore di ogni persona, in particolare di un giovane. Quando incontro un ragazzo all’interno della sua cella, incontro il suo mondo, fatto di foto della mamma, del babbo, della fidanzata, a volte anche di figli, lettere ricevute o pezzi di carta pronti a partire per nuovi destini. È chiaro che per incontrare veramente un ragazzo o una ragazza detenuti devo essere io disponibile a mettermi in viaggio verso l’altro. È il viaggio più bello che si possa fare: quello che fa incontrare la nostra umanità. Ci sono due immagini che a mio parere descrivono nel modo più plastico la realtà del carcere. La prima immagine è quella della lente d’ingrandimento. Essa è una lente che ingrandisce aspetti e dimensioni della nostra vita di tutti i giorni e della società in generale. Le dinamiche che si vivono all’interno di un carcere sono portate alle estreme conseguenze e fanno capire meglio quello di cui abbiamo bisogno per vivere. La seconda immagine è quella di una palestra di umanità. Ho trovato un luogo ricco di una grande umanità ferita e dolente. Ma enormemente arricchente. Ho compreso che per incontrare l’umanità dell’altro devi allenare la tua ad allargarsi. Uno dei motivi per cui ho deciso di rimanere all’interno del carcere e svolgere il mio servizio è l’incontro con tutta questa umanità, che mi sta rendendo nel tempo un uomo migliore. A me piace pensare al carcere minorile come a un luogo dove ancora c’è margine alla speranza, perché abbiamo a che fare con giovani in crescita. Per questo rimango, per aiutare lo spazio di questa speranza. Quali parole usare con giovani spesso soli e senza speranza? Quotidianamente all’interno di un carcere minorile ci si confronta con la solitudine e a volte con la perdita di speranza, o meglio, con la rassegnazione. Mi sono però reso conto anche di questa esperienza: i ragazzi del carcere minorile, prima di arrivarvi fisicamente all’interno, il carcere lo avevano già incontrato prima. C’è un carcere invisibile che ognuno di noi si porta dentro, una prigione da cui vorremmo essere liberati. Sono ragazzi innanzitutto prigionieri di sé stessi. C’è un’altra immagine che forse ci fa comprendere la complessità della realtà di cui stiamo parlando: è quella dell’iceberg. Il reato, che porta un ragazzo o una ragazza in carcere, è solo la punta dell’iceberg che emerge dal mare. C’è in realtà tanto di sommerso che ha preparato e portato a quel reato. Ci sono sbarre invisibili che precedono e accompagnano la vita dei nostri ragazzi. Vorrei elencarne tre che, mi sembrano, quelle più ricorrenti nelle loro storie. La prima è proprio la solitudine. Durante il periodo della pandemia di qualche anno fa, portai ai ragazzi un articolo di giornale che affrontava il tema della paura della morte e di come avremmo dovuto affrontarla. Ad un certo momento, uno dei ragazzi mi fermò e mi disse che la più grande paura per loro non era quella della morte - tant’è che la morte loro la sfidano, facendo serata, sballando, noleggiando automobili di grossa cilindrata, correndo sulle strade -, e questo dava loro lo stimolo per continuare a vivere per andare avanti. La più grande paura è verso la vita, di rimanere soli ancora una volta nella vita. Questo episodio mi aiutò a comprendere il mio ruolo: non sono chiamato a risolvere chissà quali situazioni, ma ad accompagnarmi a questi ragazzi, per fare un pezzetto di strada insieme, fare spazio alle loro domande, offrire loro quello che sono, e trovare insieme qualche risposta. Madre Teresa ci ha insegnato che il più povero dei poveri non è chi non ha da mangiare o da bere, ma è chi sa che la propria vita non è amata, non è voluta, non è stimata da qualcuno. Questa è la seconda prigione dei nostri ragazzi, quasi una convinzione sempre più radicata: la mia vita non è degna della stima di nessuno. È una vita sbagliata. E tante volte la rabbia trova nella violenza la strada per esprimersi. La terza prigione invisibile è quella della mancanza di speranza: sono ragazzi totalmente appiattiti sul presente, senza alcuna capacità di progettare il proprio futuro. E questo riguarda anche ragazzi di buone famiglie e non solo di chi ha alle spalle situazioni difficili. Questo giudizio di stima, di credito, di positività sulla propria vita riguarda ognuno di noi. E questo penso sia il lavoro educativo più urgente che gli adulti hanno: portare questa luce buona sull’esistenza. E allora quando si incontrano ragazzi così, soli, poveri e disperati, è importante saperli accogliere, incontrarli, incoraggiarli e sostenerli verso una possibilità di vita nuova e un positivo che ognuno di loro si porta già dentro. In carcere, ci sono molti stranieri e non tutti parlano l’italiano. Ha trovato difficoltà per comunicare con loro? E se sì, quali strategie adotta per arrivare a tutti? È vero, in carcere ci sono tantissimi stranieri, anche nelle carceri per minori. Roma non fa eccezione. Il 70% circa dei 60 presenti attualmente è minore straniero non accompagnato, arrivato in Italia, tante volte all’età di 11-12 anni, solo, con il barcone. A volte, la comunicazione con loro non è sempre semplice. Tanti dei nostri ragazzi giungono dalla Stazione Termini, dove hanno vissuto di furti, rapine, estorsioni, spaccio… e l’italiano che conoscono è quello della strada. In questi anni, la strada migliore di incontro anche con loro è stata quella di farsi comunque presente alla loro vita, cercando di essere attenti alle diverse situazioni personali, per quel che si può. E poi la via del bisogno. Sono ragazzi, specialmente gli stranieri, che non hanno nulla. E cercare di rispondere a un loro bisogno materiale del momento può diventare la strada per un rapporto più profondo, anche se, in qualche modo, occorre mettere in preventivo di “essere usati”. Lei è un sacerdote cattolico, come riesce a parlare e, soprattutto a comunicare, con chi non ha fede oppure non è cristiano? Ai miei occhi di prete cattolico, i ragazzi sono tutti uguali e ognuno di loro merita grande attenzione. È chiaro che con alcuni può nascere una relazione di stima e di fiducia più stretta, ma il mio compito, ricevuto dalla Chiesa che mi manda, è che sono lì per tutti. L’importante è rivestirsi di grande rispetto verso la storia, la cultura, la religione dell’altro e trovare quei punti di umanità comuni su cui possiamo costruire qualcosa insieme. Il Signore lo ha detto esplicitamente nel 25° capitolo del Vangelo di Matteo, dove si elencano i gesti d’amore sui quali saremo giudicati (dar da mangiare all’affamato, dar da bere all’assetato, visitare chi è in carcere…), gesti e attenzioni che tutti possono realizzare. Perché tutti siamo capaci di atti d’amore. Il mio desiderio è che ogni ragazzo che incontro possa scoprirsi importante per qualcuno, che la sua vita mi interessa, che sono contento di poterlo incontrare, ma soprattutto di poterlo sognare fuori da quelle mura il prima possibile, senza farci mai più ritorno. Dialogare, scambiarsi idee e opinioni, non ultimo stabilire rapporti di fiducia: conviene con me che la parola (detta, ascoltata, letta o scritta) può essere uno strumento fondamentale per scalfire la sofferenza della detenzione e, in molti casi, della solitudine? Non pensa che un’afflizione aggiuntiva per chi si trova ristretto sia proprio quella di non avere nessuno cui affidare sentimenti, preoccupazioni, paure e speranze? Se ci pensiamo bene, i nostri ragazzi in carcere sono ancora gli unici che scrivono e ricevono lettere cartacee. Incredibile! Abituati a correre e a distrarsi con tutto quando sono fuori, una parola ricevuta scritta o orale ha un peso enormemente differente. Ho un esempio emblematico. Qualche anno fa, successe un gravissimo fatto di cronaca che vide coinvolti due ragazzi, allora minorenni. Il fatto mi colpì profondamente e, pur non conoscendoli di persona, decisi di scrivere loro due lettere, con qualche parola di vicinanza. Non so ancora oggi bene perché lo feci. Trascorse un anno senza ricevere risposta. Dopodiché mi arrivò la lettera di uno dei due, dicendomi che aveva custodito il foglio di uno sconosciuto perché in poche parole aveva compreso che c’era qualcosa di vero, ma di aver avuto bisogno di tempo perché le cose successe sedimentassero dentro di lui e si facesse chiarezza. Iniziammo un rapporto epistolare, fino a che non ebbi modo di incontrarlo in carcere per la prima volta. E quello fu l’inizio di visite periodiche. Soprattutto però questo ragazzo mi insegnò la cosa più importante. C’è una parola da tutti comprensibile: quella dell’amore gratuito. Mi disse che ha dovuto rispondere a quella mia prima lettera perché io lo avevo pensato, gli avevo scritto e avevo “sprecato” tempo per lui. Lo spreco o la gratuità, l’amore che non misura troppo i risultati immediati, è la misura dell’amore vero. Non sappiamo quanto una parola vera detta con il cuore possa toccare un altro cuore. C’è una foto molto bella nel sito della Fraternità sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo, che la ritrae con un giovane nell’atto dell’ascolto. Mi fa pensare che in alcuni casi ascoltare in silenzio sia importante tanto quanto parlare… Certamente, l’ascolto e il silenzio sono a volte la parola più significativa che possiamo dire. Innanzitutto perché i nostri ragazzi ti mettono costantemente alla prova e se non comunichi parole che sono innanzitutto vere per te e sono vita, se ne accorgono subito. Poi, in secondo luogo, davanti a storie, drammi, sofferenze, non ci sono altre parole se non: “Sto qui accanto a te”. Infine, all’interno del carcere minorile di Casal del Marmo ho avuto la fortuna di incontrare un grande uomo: Padre Gaetano Greco, cappellano per 36 anni. Abbiamo vissuto un “affiancamento” di 8 anni. Mi ha voluto bene come un figlio. Mi ha insegnato che il carcere non è innanzitutto il luogo del fare, ma dell’essere. Imparare innanzitutto noi a essere persone vere, credibili, autentiche. Che persona sei? Da lui ho imparato che non sono tanto i discorsi vuoti o le belle parole a costruire, ma la presenza, una quotidianità vissuta accanto ai ragazzi e una parola testata e resa viva dall’esperienza. Secondo lei, che cosa ci vuole dire papa Francesco, in occasione del Giubileo, con l’apertura della “quinta” porta santa nel carcere romano di Rebibbia? Sicuramente è un ulteriore gesto del Papa verso una realtà, quella del carcere, molto sofferente e troppo spesso abbandonata a sé stessa, in balìa degli eventi. Il carcere è sempre un luogo di dolore, anche quello minorile. Il segno del Papa è quello di non limitarsi ad aprire porte sante, ma aprire innanzitutto i cuori verso l’incontro con l’altro, verso un nuovo impegno coraggioso a favore dei ragazzi, a costruire luoghi che possano diventare vere famiglie, vere case per tutti coloro che ne cercano una. Come mi scrisse tempo fa un ragazzo, in procinto di terminare la sua pena detentiva: “Mi sentivo abbandonato a me stesso, ma piano piano ho capito che non era così. Se sei con persone che ti vogliono bene e si interessano di te qualunque posto può diventare casa tua”. Anche un carcere. “Il carcere è un mondo di carta”, di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi di Margherita Sermonti treccani.it, 27 gennaio 2025 Intervista alle autrici. Se ognuno di noi si interrogasse su che cosa conosce veramente del carcere, delle persone ristrette (come si dice di chi nel carcere è detenuto), della loro vita quotidiana, della loro identità, delle loro speranze, o si ponesse altri interrogativi, anche meno banali, troverebbe risposte certe? E dove? Spesso, molte delle informazioni sugli istituti penitenziari e su chi dimora in quei luoghi le apprendiamo dalla cronaca quotidiana, quando sono gli eventi “straordinari” come l’allarmante crescita dei suicidi o le rivolte a portare alla ribalta questo universo perlopiù ignoto. Poi le luci si spengono e si tende a dimenticare, per paura o indifferenza, questa parte della nostra società. Recentemente è uscito un libro edito da Momo edizioni, Il carcere è un mondo di carta. Un abbecedario sul carcere”, un volume rivolto prevalentemente a preadolescenti e adolescenti, quindi a tutti noi. Le autrici, Valentina Calderone e Marica Fantauzzi (con le illustrazioni di Ginevra Vacalebre, la prefazione di Giusi Palomba e la postfazione di Luigi Manconi), hanno scelto delle parole per raccontare una storia “una delle tante possibili”, con un preciso intento: “soprattutto quello di lasciarvi un po’ di curiosità e di farvi sbirciare dentro un luogo sconosciuto, che noi vorremmo avesse le mura trasparenti”. Valentina Calderone, dopo essere stata per anni direttrice dell’associazione A Buon Diritto, dove opera anche Marica Fantauzzi, nel 2023 è stata eletta Garante per i diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale dall’Assemblea capitolina. Parliamo con le autrici del loro libro. Innanzitutto, perché il carcere è un “mondo di carta”? Con questo titolo volevamo provare a spiegare con un’immagine il complesso mondo che vive dentro e intorno agli istituti penitenziari. Un mondo in cui tutto ciò che avviene all’interno passa per una richiesta su un modulo, più comunemente conosciuto come “domandina”: parlare con il proprio avvocato, comprare un libro, fare la spesa, vedere l’educatrice, partecipare a un’attività. Provate a pensare a una qualunque cosa che abbiate voglia di fare nel corso della vostra giornata, per farla in carcere dovete fare richiesta, aspettare che questa venga firmata, autorizzata, e che torni da voi accolta o rifiutata. Questa carta si somma ai faldoni con i propri atti giudiziari, ai fogli delle cartelle cliniche, ai documenti dei familiari per fare telefonate e colloqui. La carta però si perde, fa tragitti spesso tortuosi nei vari uffici dei penitenziari e non è detto che torni sempre indietro con una risposta. Ecco che quindi la carta rappresenta questa serie infinita di passaggi, e di tutta la burocrazia che a questi gira intorno, per ottenere qualsiasi cosa. Ma d’altra parte, la carta è anche estremamente fragile, malleabile e modificabile, può essere accartocciata, distrutta, trasformata. Per questa ragione abbiamo deciso, insieme all’illustratrice del libro Ginevra Vacalebre, di ipotizzare una copertina che raffigurasse questa complessità: un aeroplanino di carta, come quelli con cui giocano le bambine e i bambini, che parte da qualcosa di apparentemente semplice (un foglio) ma che si trasforma in uno strumento immaginifico che può andare verso una destinazione ancora non identificata ma non per questo inesistente. In altri termini, volevamo trovare il modo per rendere visivamente un concetto che per noi è fondamentale, e che speriamo di avere trasmesso con il nostro abbecedario: il carcere non è sempre esistito e non esisterà per sempre, possiamo trovare altri modi per sanzionare comportamenti illegali, o non conformi, e renderci conto che forse, dopo secoli in cui utilizziamo la privazione della libertà come strumento privilegiato di punizione, potremmo prendere seriamente in considerazione strade alternative. Questo è in parte l’intento del libro, ragionare insieme alle nuove generazioni su ipotesi diverse, più rispettose dei diritti ed estremamente più efficaci. Ci vuole uno sforzo di immaginazione, noi abbiamo provato a dare in questo modo il nostro piccolo contributo. Senza giri di parole e, allo stesso tempo, con grande delicatezza vi rivolgete ai più giovani, affrontando situazioni e temi molto concreti e difficili. Dalla A alla Z, anzi, meglio detto, dalla A alla A (come si vedrà sfogliando il libro), con due V (di vittima e di vendetta): un cerchio di parole che si chiude con Alternativa, per raccontare il carcere agli adulti del futuro. Da dove nasce questa idea? La volontà di dialogare con i più giovani è nata in questi anni grazie ai numerosi laboratori che abbiamo portato avanti soprattutto nelle scuole e, da questo scambio, ci è sorto un dubbio, in parte linguistico: come riuscire a veicolare la quotidianità della vita in carcere, i suoi limiti e le sue barriere, utilizzando un vocabolario diverso? Eravamo, siamo tuttora, abituate a parlare di questi temi con un pubblico adulto, addetto ai lavori e in qualche modo partecipe di un linguaggio che riproduce quegli stessi limiti. L’accesso all’alternativa, in un certo senso, passa anche dal modo in cui si pensa e si esprime quell’alternativa. Ecco allora che l’abbecedario ci è venuto in soccorso, con la sua semplicità e incisività ci ha obbligate a focalizzarci su alcuni temi, rendendoli accessibili e allo stesso tempo attraversabili da altri sguardi. È chiaro che la selezione di alcune parole ha impedito di restituire pienamente le molte sfaccettature presenti all’interno dei penitenziari, ma l’idea era proprio quella di creare un primo percorso che, toccando vari temi, aiutasse a entrare almeno un po’ in un mondo poco conosciuto o comunque poco aperto a essere reinterpretato. Credo che una delle chiavi di lettura del libro si possa rintracciare nel capitolo dedicato alla U come Umanità: “Quando non abbiamo esperienza di qualcosa, perché non la conosciamo o la sentiamo troppo lontana da noi, ci capita di averne paura. Spesso però, se accorciamo le distanze e ci avviciniamo un po’, ci rendiamo conto che quella situazione, o quella persona, non è così spaventosa come ci era sembrata”. Consapevolezza e conoscenza sono un antidoto contro la paura? Sempre più di frequente, nelle democrazie occidentali, conta molto più la percezione della sicurezza che non gli effettivi dati sui reati nella costruzione delle politiche pubbliche su questi temi. Con questo vogliamo dire che buona parte dei provvedimenti adottati e delle modifiche legislative avvengono cavalcando l’onda dell’emotività pubblica, spesso dopo fatti di cronaca particolarmente feroci ma che niente hanno a che vedere con la realtà concreta delle nostre vite. Episodi molto gravi certamente, ma che vengono presi come pretesto per inasprire le pene e introdurre nuove fattispecie di reato, mentre tutti i dati sulla criminalità ci dicono in maniera incontrovertibile che gli omicidi continuano a calare, come buona parte dei reati più violenti. Essere consapevoli che in carcere ci finiscono le persone povere, le persone con problemi di salute e di salute mentale, le persone straniere con reati di bassissima pericolosità sociale solo perché non hanno un permesso di soggiorno, ci aiuterebbe a rivolgere la nostra indignazione verso un sistema che strutturalmente riproduce diseguaglianze: tramite la malagestione della spesa pubblica, i tagli ai servizi sociali, alla sanità, all’istruzione, estromettendo in questo modo intere fasce della popolazione dalla possibilità di accesso a una vita degna e ricca di possibilità. Conoscere il carcere, conoscere chi ci è finito momentaneamente e chi ci lavora quotidianamente permette anche di considerare quell’istituzione totale come parte integrante delle nostre città. Una parte che potrebbe non esistere, ma che finché esiste ha diritto ad avere relazioni, rapporti e contaminazioni con il resto della società. E in questo senso sì, ci sentiamo di dire che la conoscenza dell’altro, di quanto sta oltre quel muro di cinta, permettendo un reciproco riconoscimento può ridimensionare quelle paure che - anche comprensibilmente - i cittadini provano accostandosi a questa realtà. N come notte: in questo capitolo la sensazione del buio che attanaglia è molto forte. Possiamo pensare alla mancanza di luce come a una metafora del carcere? Sicuramente è difficile associare in prima battuta il carcere alla luce, anche intesa come luminosità non solo visiva, ma nel senso di ricchezza e opportunità offerte e create. Inoltre, contribuisce a rafforzare la sensazione di mancanza di luce la scarsa trasparenza dell’istituzione, intesa proprio come accessibilità e permeabilità: il fatto che quanto accade all’interno di quelle mura sia precluso alla maggior parte della popolazione non aiuta a, appunto, “illuminarla”. Come ogni esperienza umana, però, è riduttivo rinchiudere il carcere in un’unica immagine monodimensionale, le sfumature presenti al suo interno possono essere sorprendentemente ricche e sono fatte di solidarietà tra le persone, competenza e dedizione in chi ci lavora, mondo esterno che cerca di scalfire quell’impenetrabilità portando dentro ascolto e progetti. Quando abbiamo scritto la parola Notte i suicidi in carcere non avevano ancora raggiunto quella cifra record a cui abbiamo assistito nel 2024 (90), ma sicuramente è stato il concetto tramite cui abbiamo provato a includere la parte di dolore più indicibile che risiede tra le persone recluse. È quando le luci si spengono, quando le attività si fermano e le persone fuori non entrano che l’angoscia può crescere sino a farsi insostenibile. È probabilmente stata tra le parole più difficili da restituire a delle ragazze e a dei ragazzi, ma non era possibile tacere quell’aspetto, anche in virtù della fiducia che riponiamo nella loro capacità di riflettere e comprendere. Se dovessimo accettare la metafora del carcere come assenza di luce, sarebbe una forma di accettazione momentanea, destinata a mutare come quando entri in una stanza buia e a poco a poco distingui la finestra, le persiane, la luce che ostinatamente si fa spazio tra i fori. In questo caso, però, la conoscenza del buio vorremmo che implicasse non ambientamento o sterile accettazione, quanto piuttosto movimento, spinta, trasformazione. L’idea di far continuare l’abbecedario alle lettrici e ai lettori attraverso un indirizzo email che avete aggiunto alla fine del libro (carceredicarta@gmail.com), invitandoli a scrivere e disegnare nuove parole, restituisce qualcosa di vivo, in crescita. Racconterete altre storie? Avete mai pensato di scrivere un abbecedario con le persone ristrette? Sì, l’idea di dedicare un indirizzo email a lettori e lettrici che abbiano voglia di mandarci contributi va proprio nel senso di considerare questo nostro libro come lo spunto da cui partire per un lavoro in cui crediamo molto e che intendiamo continuare a fare. Il potere immaginativo che può scaturire dal mettersi insieme e provare a ragionare con altri strumenti, in altre modalità, non va sottovalutato, soprattutto se l’orizzonte in cui ci si muove è quello della costruzione di percorsi abolizionisti. Ci piacerebbe quindi scrivere altre storie, magari partendo dai contributi che in questi mesi ci sono arrivati. Per quanto riguarda pensare di scrivere un abbecedario con le persone ristrette, per ora sappiamo che il libro è circolato in alcuni istituti, ci hanno scritto e abbiamo ricevuto lettere di apprezzamento e ringraziamento. Essere visti è la cosa che spesso manca a chi si trova in privazione delle libertà. Speriamo con questo libro di avere dato un piccolo contributo a diminuire la sensazione di invisibilità che colpisce molte di queste persone. Il confronto continuo che il libro ci ha permesso di avere, sia con chi è ristretto sia con chi non ha mai avuto esperienza del carcere, ci porta a credere che le storie da raccontare siano ancora molte e in larga parte inesplorate. Quali sono le due parole (e il loro significato) di questo abbecedario che vorreste che nessuno dimenticasse mai? Una delle parole che non vorremmo venissero dimenticate è sicuramente famiglia. Durante le presentazioni fatte in giro per l’Italia negli scorsi mesi, spesso abbiamo proposto un gioco alle persone del pubblico chiedendo loro di dirci le parole che associano al carcere, prima di rivelare le nostre. Famiglia è una di quelle che viene detta meno spesso, e invece noi crediamo sia fondamentale renderci conto che la detenzione di una persona non influisce solo sulla sua vita, ma anche sulla sua rete di relazioni e affetti. A volte in alcuni nuclei, in alcuni contesti sociali o territoriali, i comportamenti criminali, e quindi la detenzione, si tramandano di generazione in generazione come fossero parte del patrimonio genetico. Sapere questo ci aiuta a guardare a quei contesti in modo diverso e a capire che solo intervenendo nella redistribuzione delle risorse, nella costruzione di reti di supporto e nella fortificazione delle comunità possiamo contribuire alla sicurezza collettiva. Una sicurezza che possa davvero includere tutte e tutti, e che non sia solo una parola vuota, pronunciata ossessivamente, per convincerci che la repressione sia l’unica strada percorribile. Un’altra parola è povertà. Non c’entra propriamente con il carcere, eppure c’entra sempre di più. Racchiude una condizione a volte momentanea, altre volte costante, tanto nella vita delle persone libere, quanto di quelle recluse. È un abito nel quale si sta stretti, che spesso è stato cucito per noi prima che potessimo anche solo imparare a vestirci. È tra i termini più utilizzati per descrivere chi non ha le stesse possibilità degli altri, chi potrebbe arrivare ovunque ma non può mai, chi sembra destinato a inciampare continuamente quando vorrebbe solo proseguire il cammino. E se nella società libera questa parola sembra una maledizione che a fatica ci si scrolla di dosso, è in carcere che assume il peso di una condanna che appare definitiva, dove chi ha meno sconta di più e in condizioni peggiori, dove la povertà materiale si intreccia a quella immateriale e le giornate sembrano identiche e quindi immobili. Ruth Wilson Gilmore, geografa abolizionista afroamericana, spiega bene perché la povertà, intesa come diseguaglianza, è un elemento dal quale iniziare a ragionare per l’alternativa alla reclusione. In un’intervista, rispondendo a coloro i quali sostengono che le riforme carcerarie, sommate alla costruzione di nuove strutture, garantirebbero migliori condizioni per l’intera società statunitense scrive: “gli abolizionisti sanno che va affrontata l’ineguaglianza strutturale delle città che porta molte persone a finire nelle carceri e nei penitenziari, ovvero sanno che va affrontato “l’abbandono organizzato” delle comunità vulnerabili”. Ruth Wilson Gilmore conclude dicendo: “Il carcere non è solo una risposta a una “cosa libera chiamata crimine”, ma è una risposta a una popolazione “in eccesso”. Il che significa che le carceri sono progettate per assorbire le persone che sono state abbandonate dallo Stato”. Anche da queste riflessioni, al di qua dell’oceano, sarebbe importante ripartire. Giustizia, il day after di Nordio, “elettrizzato” dalle critiche: “Sono ancora più determinato” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 27 gennaio 2025 Il ministro: “Nessuna amarezza”. E sul libico scarcerato: “Spiegherà Piantedosi”. “Ripensamenti? Nessuno. Resto orgoglioso della riforma. Non ho alcuna amarezza. Anzi, sono ancora più determinato”. La protesta, le critiche, le accuse e gli schiaffi morali dei magistrati, che sabato hanno animato di protesta l’inaugurazione dell’anno giudiziario, non hanno sortito alcun effetto sul ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Se non quello di rendere ancora più “elettrizzante”, dice lui stesso, la partita con i suoi ex colleghi magistrati. A chi lo ha sentito, Nordio ha spiegato che le critiche rivolte alla sua riforma della separazione delle carriere - con doppio Csm per sorteggio e Alta corte disciplinare - non hanno scalfito la sua convinzione ad “andare avanti senza esitazioni”. Di attacchi ce ne sono stati molti. Lo sa. Ma, ha confidato a un collega, “chi ha letto i miei libri e i miei articoli, sa che dal 1995 erano tutti previsti e confutati. Niente di nuovo”. Né lo infastidisce il nuovo attacco dell’Anm che lo accusa di “inerzia” nel caso Almasri. “Il ministro Piantedosi nell’informativa al Senato spiegherà tutti i passaggi”, si limita a dire. Certo, il Guardasigilli ha apprezzato chi “seppure dissenziente si è comportato in modo impeccabile”. Non altrettanto alcune proteste più plateali. Prima fra tutte l’iniziativa del segretario di Areadg, Giovanni Zaccaro, che ha avvicinato il viceministro Francesco Paolo Sisto, dicendo: “Visto che vi affidate al sorteggio, ho comprato un regalo per il ministro: così giochiamo ai dadi la giustizia italiana. Niente più studio per avvocati e magistrati, niente più motivazione, giochiamocela ai dadi. Lo aveva già pensato Rabelais”. Il viceministro della giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha risposto con una battuta che “i dadi stanno meglio nel brodo”, ma anche per questo ieri ha detto che le manifestazioni durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario sono state “un atto di belligeranza”. Il Guardasigilli, però, non ha intenzione di farsi distrarre dal suo obiettivo nemmeno dallo sciopero già indetto per il 27 febbraio. Il “sì” della Camera alla riforma è già arrivato, ora il passaggio è al Senato. Blindato come alla Camera o si potrà discutere? La premier Giorgia Meloni ha aperto alla possibilità: “Quando ci si confronta, poi i punti di contatto si trovano”. E anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha auspicato il confronto: “Le posizioni possono anche essere diverse e divergenti ma devono trovare una sintesi in un confronto serio”. E ha offerto “spazi” di discussione. E il ministro Nordio? “Lo spero anch’io. Se c’è la voglia, possiamo discutere. Ma certo con il silenzio non può esserci alcun confronto. Il muro contro muro, però, è pericoloso per tutti. E siccome alla fine ci sarà il referendum, i magistrati, che già hanno sondaggi di popolarità molto bassi, rischiano di uscirne con le ossa rotte”. Ma se una trattativa può esserci il momento è ora. Perché in questa partita il tempo è un fattore cruciale. Il governo, infatti, procede a tappe forzate perché è intenzionato a portare a casa la riforma prima che il Consiglio superiore della magistratura, che scadrà a settembre 2026, venga rieletto con la legge attuale. E, temono a Palazzo Chigi, “con le vecchie regole e trattative sottobanco tra correnti, secondo le quali sono già decisi i nomi di chi dovrà sedere a Palazzo dei Marescialli. Per questo il gioco è tirare la riforma per le lunghe”. La Costituzione prevede infatti tempi tecnici per le leggi di revisione della Carta. L’art.138 stabilisce che ciascuna Camera approvi due volte il testo. E che tra l’una e l’altra approvazione passino non meno di tre mesi. Poi il testo deve essere approvato a maggioranza assoluta e, qualora non si raggiungano i due terzi, sottoposto a referendum. Che il ministro ha già annunciato di voler richiedere comunque. Va richiesto dopo la pubblicazione della legge e ci sono tempi tecnici da rispettare anche per espletarlo. In settimana la capigruppo del Senato assegnerà la riforma alla commissione. Non è chiaro se solo a quella Affari costituzionali come alla Camera, o anche alla commissione Giustizia, cosa che allungherebbe un po’ i tempi. Ecco perché la sfida si annuncia tutta in accelerazione. Sisto: “L’Anm rifletta, rifiutando il dialogo segnano un autogol sulla loro stessa autonomia” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 gennaio 2025 Il Viceministro della Giustizia prevede tempi rapidi per il via libera alla separazione delle carriere e al nuovo Csm. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha inaugurato ieri l’Anno giudiziario presso la Corte di Cassazione alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando di “Riforma doverosa verso gli elettori”. Il Viceministro Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, conferma le stesse parole al Riformista. La maggioranza sulla riforma della giustizia andrà fino in fondo? “Dobbiamo fare sul serio perché i cittadini vogliono che facciamo sul serio. La riforma costituzionale della separazione delle carriere era nel programma con cui abbiamo vinto le elezioni. Siamo stati eletti, è nostro dovere realizzare il programma”. Dunque dialogo sì, ma su separazione carriere e nuovo Csm non ci saranno passi indietro. “Vorrei ricordare che noi siamo i rappresentanti degli italiani, in Parlamento. Nella democrazia rappresentativa funziona così. Da tanto deriva che questa protesta dell’Anm contro una legge già votata da un ramo del Parlamento - con un percorso legislativo avviato - è anomala: non protestano contro un Ministro, contro il governo, bensì contro il Parlamento e quindi protestano contro gli italiani che lo hanno votato. Questo a me sembra un passaggio, pur paradossale, non secondario”. Il dissenso, viene detto, è sempre legittimo… “Il dissenso è legittimo ma trova qui dei modi di esternazione assolutamente inopportuni. È una protesta anomala, del potere giudiziario contro il legislativo”. Anomala ma nient’affatto irrituale. L’Anm negli ultimi trent’anni ci ha abituati a protestare contro ogni ipotesi di riforma... “Qui il fattore aggiuntivo è che se l’ANM se la prende con un provvedimento già votato. Il dato particolarmente dissonante rispetto alla ritmica dei ruoli costituzionali - che l’articolo 101 scandisce mirabilmente - riguarda la suddivisione dei poteri. Il Parlamento scrive le leggi, la magistratura le applica. La Costituzione è perentoria e chiarissima nel definire le regole di funzionamento della democrazia”. Mentre adesso cosa succede? “Una di queste componenti si rivolta verso l’altra, correndo altresì il rischio,con queste modalità esasperate, di fare autogol, minando proprio quell’autonomia e indipendenza che intende difendere. E poi difendere da chi? La riforma non tocca minimamente questi due fondamentali pilastri, autonomia e indipendenza devono essere preservate e con rigore”. Quasi un conflitto istituzionale... “È un conflitto tra poteri dello Stato, inutile e dannoso: non credo alle guerre di religione, ne fanno le spese i cittadini. È necessario, come suggerito saggiamente ieri dalla Presidente Cassano e dal Procuratore Salvato, abbassare i toni, da parte di tutti e convintamente”. In cosa consisterà la protesta delle toghe? “Spero che non si allontanino, così da evitare, anche simbolicamente, il non dialogo”. Cosa penseranno i cittadini, a suo avviso? “Nessuno può essere entusiasta di questa mala effervescenza, perché il sistema-giustizia, se ha frizioni di questo livello, pregiudica tutto e tutti”. Il centrodestra ha i numeri per portare a termine le riforme, ma la prescrizione rimane al palo, vige ancora la Bonafede. E la riforma su questo punto è ferma in Senato da più di un anno… “C’è un ritardo eccessivo nel portare nell’aula del Senato quello che è stato già, e da tempo, approvato alla Camera. Ci saranno sicuramente motivazioni di carattere procedimentale e tecnico, ma mi sembra sia davvero giunta l’ora di portare la nuova prescrizione a compimento. Arriverà a destinazione, come il provvedimento sugli smartphone, come la norma sulla motivazione rafforzata per la proroga delle intercettazioni”. E la separazione delle carriere... “Con la ragionevole speditezza che deriva dalla natura articolata della procedura, approveremo anche quella. La stiamo realizzando nel rispetto dell’art.138 della Costituzione, senza patologie: il Pm sotto l’esecutivo non c’è, l’obbligatorietà dell’azione penale non viene intaccata. Tutti i fantasmi immaginari di cui parlano le opposizioni non esistono. Li agitano in maniera pretestuosa, usano, per utilizzare una espressione plastica, ologrammi patologici. Faremo il nostro dovere, fino a dare la parola finale agli italiani, con il referendum”. Giustizia sotto organico del 20-30%. Ma Nordio fa la guerra ai magistrati di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2025 Altro che separazione. Mancanza di personale e dotazione informatica scarsa. Soltanto a Roma 41mila fascicoli arretrati. “Ferme le competenze del Consiglio superiore della Magistratura, spettano al Ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. È l’articolo 110 della Costituzione. Ed è l’unico che cita il ruolo di un ministero, e quindi la responsabilità del suo responsabile, in modo inequivocabile. Il funzionamento della giustizia è quindi, per volontà costituzionale, il primo dei compiti affidati al ministro Carlo Nordio. Eppure, se solo pensiamo alla digitalizzazione della giustizia, è chiaro che il “funzionamento dei servizi” sta andando malissimo. All’inizio di gennaio i tribunali alle prese con l’applicazione per la gestione del processo penale telematico, denominata App, sono andati immediatamente in tilt. È in meno di 24 ore, dinanzi all’obbligo disposto dal ministero, di rendere telematico un gran numero di depositi nei processi, hanno dovuto alzare bandiera bianca e avviare un “doppio binario”: mantenere anche il deposito analogico. Al di là del pessimo funzionamento di App, peraltro, non è stata implementata una rete adeguata di nuovi computer, risorse umane e informatiche. Qualcosa si sta finalmente muovendo per risolvere la scopertura di organico dei magistrati, ma i dati emersi durante le cerimonie dell’Anno Giudiziario, restano drammatici. Qualche esempio: a Napoli manca il 33,7% di cancellieri, il 21,1% di assistenti, il 71,3 % di ausiliari. “Più di un ufficio” si legge nella relazione “si trova nella drammatica condizione di non disporre neanche di un’unità di ausiliari”. A Roma si conta la mancanza di un terzo del personale amministrativo, del 20% di quello togato e quest’anno si è “festeggiato” il risultato di essere finalmente scesi sotto quota 50mila fascicoli arretrati (41.778). A Milano la scopertura media dei magistrati è del 18%. Un punto percentuale piu alta della media nazionale. “Disastrosa - si legge nella relazione del Presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei - la situazione degli organici della magistratura onoraria”. A Milano, su un organico di 120 G.O.P. (Giudici onorari cli pace) ne sono presenti solo 70 e su un organico di 180 giudici di Pace ne sono presenti solo 42. Se passiamo al personale amministrativo del distretto della corte d’appello di Milano si conta il 35% di scopertura. Il capitolo Magistrati onorari resta uno dei più importanti considerata la funzione che svolgono nel comparto giustizia. In totale sono circa 4.500 tra requirenti, giudicanti e giudici di pace. Pochi lo sanno, ma reggono, nella funzione requirente, il 90% dei processi monocratici penali e il 40% nel ruolo giudicante. E poi circa il 40% nel monocratico civile. E gran parte di loro è in difficoltà per un ulteriore motivo: il governo ha deciso che, per chi non esercita questa professione in modo esclusivo, la retribuzione deve essere decurtata del 25%. Va registrato che anche nei Tribunali per i minorenni le pendenze sono aumentate del 12,7%. Sono invece in miglioramento le pendenze negli altri settori. Una nota a parte merita la situazione carceraria: nel 2024 si sono contati 83 suicidi e a gennaio 2025 siamo già a 8. Tutto ciò, in base alla Costituzione, dovrebbe essere la priorità per il ministro Nordio che però pare avere molte altre cose per la testa. Per esempio il trattenimento dei migranti: competenza trasferita dalle sezioni specializzate dei tribunali alle Corti d’appello civili. Parliamo di strutture in affanno cronico: da un lato l’enorme numero di fascicoli e dall’altro la carenza di giudici e personale amministrativo. E tutto è avvenuto perché le sezioni dei tribunali, nel legittimo esercizio delle loro prerogative, non hanno convalidato i trattenimenti disapplicando i decreti ‘Cutro’ e ‘Paesi sicuri’. Altro pallino del ministro: l’interrogatorio preventivo che obbliga i magistrati ad avvisare chi ha una richiesta di custodia cautelare, in modo da poter essere ascoltato dal gip prima che questi accolga la richiesta di arresto avanzata dal pm. Un assist a favore di chi vuole preparare versioni di comodo e a chi potrebbe fuggire o minacciare chi lo ha denunciato. È già successo. Ora Nordio ha un’ennesima emergenza: sta studiando lo “scudo penale” per le forze dell’ordine e il modo di non farli iscrivere nel registro degli indagati nelle inchieste aperte come atto dovuto. Un’altra bizzarra priorità del nostro sistema giustizia. Giustizia, il ministro Nordio confessa: “Non ci sono soldi per le vittime di reati” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2025 Interrogazione della Lega su condanne per delitti violenti: “Il fondo per i parenti è basso, ma dovete rivolgervi al Viminale”. Giorgia Meloni vuole dare una svolta securitaria al suo governo. Da una parte accelerare sull’approvazione del disegno di legge Sicurezza e dall’altra Fratelli d’Italia ha lanciato - insieme alla Lega che ieri ha annunciato 50 mila firme raccolte - una petizione in favore delle forze dell’ordine dopo alcuni fatti di cronaca che hanno coinvolto gli agenti. Eppure, è il suo stesso governo ad ammettere, con un atto parlamentare, che ci siano pochi fondi a disposizione per risarcire le vittime di reati, soprattutto quelli violenti. A farlo è il ministro della Giustizia Carlo Nordio che lunedì scorso ha risposto per scritto a un’interrogazione dei senatori della Lega Erika Stefani e Manfredi Potenti che risaliva al 6 dicembre 2024. Una mossa anche politica visto che Lega e Fratelli d’Italia si stanno sfidando a chi si intesta il dossier della Sicurezza. Questi ultimi partivano da un fatto di cronaca ormai noto - il femminicidio della giovane studentessa di 22 anni, Giulia Cecchettin - per chiedere al governo di fare di più per il risarcimento nei confronti delle vittime e dei loro parenti. In particolare, si leggeva nell’interrogazione del Carroccio, alla condanna all’ergastolo nei confronti dell’ex fidanzato Filippo Turetta si era aggiunto anche il pagamento di 760 mila euro “tra provvisionali e risarcimento”. Soldi che, spiegano i due senatori del Carroccio, Turetta non potrà dare perché al momento della condanna “risultava studente universitario, senza beni né stipendio” ma queste somme, continuano, “costituiscono un importante titolo giudiziale per i parenti delle vittime”. Se il soggetto condannato non può pagare, la legge del 2016 prevede che le vittime si possano rivalere sullo Stato per richiedere almeno una parte dei danni subiti. Ma qui sorge il problema: il fondo per gli indennizzi “in favore delle vittime di reato” secondo i senatori della Lega non è “adeguato rispetto ai danni subiti” e quindi “non sembra esserci un’adeguata tutela risarcitoria in favore dei parenti delle vittime”. Stefani e Potenti quindi chiedono a Nordio cosa intenda fare per garantire i risarcimenti, a partire dalla richiesta di implementare il fondo, cioè di metterci più soldi. Nella sua risposta scritta il ministro della Giustizia ammette che le preoccupazioni dei parlamentari della Lega siano fondate: i soldi sono pochi e spesso i risarcimenti richiesti sono molto superiori a quelli previsti dalla legge. Nordio ricorda l’obiettivo della normativa che ha istituito il fondo ma dà ragione alla Lega spiegando che “l’ammontare di tale indennizzo sia sovente inadeguato considerato che il decreto ministeriale adottato in attuazione di tale normativa primaria ha indicato degli importi fissi a seconda del tipo di reato che viene in rilievo, subordinandone poi l’erogazione alle disponibilità del fondo stesso”. Secondo le tabelle, infatti, per le lesioni gravissime al massimo si può ottenere un indennizzo di 25 mila euro, 50 mila per l’omicidio, 60 mila per i crimini domestici in favore dei figli. Per tutti gli altri reati le spese mediche arrivano a 15 mila euro. Ad ogni modo, come spiega il Guardasigilli, l’entità del risarcimento è “subordinata” rispetto ai fondi disponibili, che si aggirano intorno ai 3 milioni l’anno. Non bastano, insomma, dice Nordio. Che infatti aggiunge: “Pertanto, attesa la frequente sproporzione tra l’entità del risarcimento spettante alle vittime e la misura di tale indennizzo per come stabilita dalla normativa, non si può che condividere l’esigenza rappresentata nell’interrogazione”. Che fare dunque? Il ministro della Giustizia però non propone una soluzione ma passa la palla a un altro ministero, cioè quello dell’Interno che dispone e gestisce il fondo per le vittime di reati violenti: di questo problema, conclude Nordio, “non può farsi direttamente carico questa amministrazione posto che il fondo è gestito dal Ministero dell’interno”. Insomma, citofonare Matteo Piantedosi. Da “benefici” a “diritti”: ecco il Quarto Stato delle vittime di mafia di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2025 Ma come si fa a trovarsi nei punti (grandi o piccoli) di svolta della storia? E a poterli raccontare, magari per primi? Risposta più sensata: dipende dal caso. Nessun fotografo, nessun giornalista, avrebbe potuto immaginare quel giorno del 1955 che su un autobus dell’Alabama sarebbe avvenuto il grande rifiuto di Rosa Parks di cedere il posto a un bianco. Altre volte però le cose si possono immaginare. Ricordo ad esempio le mani di Agnese Moro stringere con tenerezza quelle di Franco Bonisoli, uomo delle Brigate rosse, uno dei sequestratori di suo padre, scoppiato a piangere in pubblico a Genova al ricordo di quel sangue innocente. Un istante unico, indimenticabile. Ma di cui non esiste una foto. Eppure il calendario del festival in cui ciò avvenne era e pubblico. Mancava però la sensibilità in chi doveva leggerlo. Dov’è la notizia? si saranno chiesti allora nelle redazioni. Ebbene, dov’era la “notizia” - a metà della settimana scorsa - nell’annuncio di un altro incontro, promosso da Libera e don Ciotti al Senato per parlare dei familiari delle vittime innocenti di mafia? Intendiamoci, la storia di questi familiari può anche essere considerata una vicenda minuscola, dipende solo da quanto peso si assegni alla presenza della mafia nella nostra storia istituzionale e culturale, o al movimento antimafia nell’attuale scenario dei movimenti. Fatto sta che l’altro pomeriggio è cambiato qualcosa di profondo: quelli che erano chiamati volgarmente i “benefici” dei familiari delle vittime diventeranno d’ora in poi “diritti”, rafforzati da un collettivo “diritto alla memoria”. Le vittime a cui è stato riservato un piccolissimo posto nel nostro ordinamento giuridico, scritto fondamentalmente pensando agli imputati, fanno così un passo avanti. E lo fanno proprio in una fase storica che sembra detestare il diritto, specialmente quello dei più deboli. Una contraddizione grandiosa, sospinta non solo da don Ciotti o dalla senatrice Enza Rando (già vicepresidente di Libera) ma anche da Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare antimafia e messa ripetutamente sotto accusa per le sue amicizie nel mondo della destra estrema. Don Ciotti, che ha una sua “ideologia” (vangelo più costituzione) ma non vive di ideologie, ringrazia la presidente. Al Senato succede anche questo, e sotto quali occhi. Vedo quel piccolo popolo di familiari, venuto a Palazzo Giustiniani in rappresentanza di un popolo intero, e vi riscopro quel che per me è storia grande. Di un dolore collettivo e “di sistema”, di una rivolta dei sentimenti e della ragione. Vedo Nino, il nipote di nonno Vincenzo Agostino che affidava alla sua barba bianca la propria domanda di verità: un tempo era un bimbo in braccio ai nonni, ora è un giovane con cenni di barba sul volto. Vedo Annamaria, figlia del sindaco di Pagani Marcello Torre, schiantato dalla camorra del terremoto irpino. Anche sua madre non c’è più. Vorrei poterla dipingere questa storia, di un bellissimo e dolente e orgoglioso Quarto Stato, ma non lo so fare. E allora cerco di raccontare i fatti a chi non li ha saputi. Potrebbe essere questo il titolo: “Vittime di mafia. Quel giorno in cui i benefici divennero diritti”. Che bel momento di svolta. Pensate solo a quando Leoluca Orlando sindaco di Palermo per costituirsi parte civile al maxiprocesso dovette quantificare i danni “economici” che lo autorizzavano a quel passo rivoluzionario: i muri delle vie ? devastati dai kalashnikov, poiché non bastava la vita civile sfregiata ogni giorno. Ecco, i diritti in generale arretrano nel mondo, purtroppo; ma questi diritti “speciali” avanzano e tengono la porta aperta per tutti gli altri. E i familiari, un tempo dignitosi solo se silenti, ora sono definiti “costruttori di verità”. La storia ha le sue nemesi. E le sue svolte. Che ogni volta andrebbero intuite, viste. Perché la nostra vita sia un po’ anche “presenza”. Processo penale: l’azzardo informatico tra caos normativo e trappole per il diritto di difesa di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 gennaio 2025 La tentazione telematica assedia da tempo il processo penale, che con le sue ataviche lentezze, farraginosità ed inadeguatezze strutturali alimenta facilmente la illusione che la sua “digitalizzazione” possa rappresentare la panacea di tutti i mali. Il processo penale poggia le sue basi su di una struttura burocratica ed amministrativa clamorosamente inadeguata ed insufficiente per numeri, disponibilità finanziarie e formazione professionale del personale: ma da sempre si preferisce coltivare l’illusione di scorciatoie digitali, per di più muovendo dal presupposto che quelle insopportabili lentezze siano dovute soprattutto a presunti eccessi di garanzie difensive. Una vulgata pericolosamente manipolativa e sostanzialmente illiberale, che da sempre sceglie la leva della inefficienza del sistema per giustificare ambizioni riformatrici di segno fortemente penalizzante per i diritti del cittadino indagato o imputato. Il tema della digitalizzazione del processo penale reca in sé quelle stimmate, candidando la semplificazione tecnologica come veicolo di quella agognata svolta illiberale del processo. Il tentativo - Il Procuratore Gratteri, non a caso, da anni invoca il drastico ricorso alla soluzione tecnologica delle regole del processo penale. E non a caso l’avvocatura penale ha dovuto ingaggiare un durissimo scontro, per fortuna portato a termine con successo, contro il tentativo di realizzare quella svolta illiberale in occasione della pandemia, e dunque con il pretesto della emergenza sanitaria. In nome del Covid, siamo andati ad un pelo dai processi celebrati su WhatsApp, e c’è poco da scherzare perché la cronaca di quei mesi drammatici sta lì a raccontarcelo. Ora, non è che noi difensori dell’idea liberale del processo penale invochiamo il ritorno alle penne stilografiche o ai faldoni pieni di carte. La smaterializzazione degli atti processuali e del loro deposito, insomma la piena digitalizzazione del fascicolo processuale, è una conquista irrinunziabile di civiltà e di efficienza. Ma è l’informatica che deve porsi al servizio del processo penale e delle sue regole, non il contrario! Il caso - Una recente, incredibile sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile un ricorso in quanto inoltrato dal difensore ad un certo indirizzo pec piuttosto che ad un altro del medesimo ufficio giudiziario, e tanto basta a farci comprendere di cosa stiamo cercando di parlarVi. Da un lato la salvezza del diritto costituzionale di impugnazione delle sentenze, dall’altro una insensata idolatria della procedura informatica. Se prevale la seconda sul primo, vuol dire che sono a rischio diritti fondamentali del cittadino, e non c’è progresso tecnologico che possa giustificare una simile assurdità. Un tempo la stessa giurisprudenza della Suprema Corte affermava senza riserve il principio della salvezza del diritto di impugnazione (c.d. “favor impugnationis”), oggi falcidia i ricorsi discettando di indirizzi pec giusti o sbagliati. Un sistema segnato da lacune - Ed è questa la partita che si sta giocando, nel caos mortificante nel quale il sistema è precipitato dopo il varo del portale, che il numero di PQM del Riformista prova a raccontarvi. Si è varato un sistema segnato da lacune, aporie tecniche ed insensatezze davvero gravi, senza per di più aver previamente garantito adeguata formazione professionale del personale amministrativo; e lo si è fatto imponendo in particolare agli avvocati difensori (e dunque ai cittadini che assistiamo) strettoie e regole capestro ottusamente lontane dalla realtà e francamente inaccettabili. La questione, tanto per cambiare, è grave ma non è seria. Veneto. La piaga dei processi lenti: lo Stato ha risarcito ai veneti oltre due milioni di euro di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 27 gennaio 2025 L’allarme carceri per il sovraffollamento e i troppi suicidi: “In un anno 8 morti, di cui 5 a Verona, 139 tentativi e 687 atti di autolesionismo”. È vero che il ministero negli ultimi mesi ha imposto uno sprint, che avrà forse ancora più effetto nell’anno appena iniziato. Ma fa impressione leggere, tra i dati dell’anno giudiziario, che nel 2024 la Corte d’appello di Venezia ha accolto 335 istanze nei procedimenti per la cosiddetta “legge Pinto”, che punisce il ministero in caso di “violazione del termine ragionevole del processo”: lo Stato ha dovuto pagare, alla fine, oltre due milioni di euro per la “giustizia lumaca”. La Corte ha accolto 137 istanze depositate nel corso di quest’anno, mentre le altre 198 riguardavano gli anni precedenti, con tre addirittura relative al 2016, incagliate nei meandri della burocrazia. Altri 360 mila euro sono invece stati liquidati a 13 persone (su 25, rigettate le altre 12 istanze) per ingiusta detenzione: in un caso un ex carcerato, che era finito dietro le sbarre per un errore giudiziario, ha ricevuto 90 mila euro. I numeri delle carceri - Nel corso della cerimonia di sabato si è parlato molto anche del problema annoso delle carceri e del loro sovraffollamento. “Al 30 giugno scorso c’erano 2675 detenuti a fronte di 1947 posti, 728 in più della capienza regolamentare - ha spiegato il presidente della Corte d’appello Carlo Citterio - In un anno ci sono stati 8 suicidi, di cui 5 a Verona, poi 139 tentativi e 687 atti di autolesionismo. E spesso questo episodi tragici accadono negli istituti più sovraffollati, perché la pena espiata in queste condizioni ha un tasso di sofferenza eccessivo”. “Stiamo facendo degli investimenti importanti - ha promesso il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari - proprio ieri (venerdì, ndr) abbiamo inaugurato una nuova ala al Due Palazzi di Padova, che dà più dignità ai detenuti. È in via di conclusione il nuovo istituto per minori a Rovigo. Inoltre stiamo rinforzando anche il personale, dalla polizia penitenziaria a educatori e psicologi. Serve formazione e lavoro e abbiamo avviato un piano di prevenzione dei suicidi”. Citterio aveva aperto citando la famosa frase dell’altro sottosegretario Andrea Delmastro sugli arrestati che non dovevano “respirare”, ringraziando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver detto invece che “i detenuti devono potere “respirare” un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità”. Anche l’avvocato Tommaso Bortoluzzi ha insistito su questo punto (ricordando che ben 69 suicidi in cella sono avvenuti proprio per soffocamento o impiccamento), ma poi ha anche riferito di un altro episodio finito nel tritacarne mediatico: il famoso colloquio in carcere tra Filippo Turetta, il killer dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, e i suoi genitori. “Quale interesse processuale o informativo aveva, tanto più che è avvenuto in un momento in cui il ragazzo era ritenuto a rischio suicidio? Nessuno - ha accusato - Non spetta a me, ma le chiedo scusa, signor Turetta”. Sovraffollato è anche il carcere di Treviso che ospita (o meglio dovrebbe, visto che in realtà ci sono anche maggiorenni) i minorenni: rispetto ai 12 posti previsti l’anno scorso si sono toccati picchi di 22 presenze. Le mafie e la corruzione - Il procuratore generale Federico Prato ha rilanciato l’allarme sul tema della mafia, a cui il governatore Luca Zaia ha subito risposto. “È fondamentale non abbassare la guardia - ha detto Zaia - Questi fenomeni non sono da sottovalutare; noi non siamo addetti ai lavori ma siamo a disposizione di procure e forze dell’ordine”. Un po’ di imbarazzo c’è stato quando Prato ha letto un passaggio, recependo le segnalazioni relative alle varie attività della procura, sull’inchiesta per tangenti sul Comune di Venezia. In prima fila c’era infatti il sindaco Luigi Brugnaro, che è indagato per corruzione, così come il suo braccio destro Morris Ceron, che era qualche sedia dietro. “Negli ultimi tre anni, nel settore civile la Corte ha ridotto la pendenza del 30,3 per cento e più o meno tutti i tribunali, tranne Venezia che soffre per la questione dei ricorsi per la cittadinanza dei brasiliani - ha detto Citterio - Nel penale sono significative le percentuali di riduzione delle pendenze: in Corte del 31,6, a Padova del 44, Rovigo del 32”. Anche in questo caso Venezia invece aumenta del 39 per cento: “colpa” soprattutto dei maxi-processi di criminalità organizzata. Lazio. “Le carceri sono al limite, servono soluzioni immediate e condivise” bignotizie.it, 27 gennaio 2025 “I recenti fatti accaduti nell’Istituto Penitenziario di contrada Aurelia portano nuovamente sotto i riflettori una situazione di grave difficoltà che riguarda non solo Civitavecchia, ma l’intero sistema carcerario regionale. Il sovraffollamento, con numeri ben oltre le capacità regolamentari, e le difficoltà gestionali legate a carenze organiche in ogni ruolo, rendono le carceri delle vere e proprie polveriere, come dimostrano i tragici numeri dei suicidi registrati già nei primi giorni di quest’anno. La situazione di esasperazione generale che caratterizza i luoghi di detenzione genera pericolosi rischi sia per i detenuti che per gli operatori, rendendo necessario un intervento immediato per evitare il ripetersi di episodi drammatici. Alleanza Verdi Sinistra sottolinea con convinzione l’urgenza di un cambio di paradigma nel sistema penitenziario, sostenendo con forza che l’inasprimento delle pene, ingiusto e inefficace, da parte dell’attuale governo, piuttosto che la depenalizzazione dei reati minori e percorsi di reinserimento concreti per i detenuti, contribuisca ad aggravare il sovraffollamento e a rendere le condizioni di detenzione insostenibili. L’attuale Amministrazione comunale ha nominato un esponente di Avs-Demos, Corrado Lancia, come Delegato per gli Istituti Penitenziari e i percorsi inclusivi, con l’obiettivo di avviare un dialogo con le organizzazioni del terzo settore, potenziare i servizi e le attività all’interno delle carceri, favorire il reinserimento sociale dei detenuti, supportare le loro famiglie e collaborare con le istituzioni locali. Tali iniziative verranno presentate in una conferenza stampa il 29 gennaio ore 11.00 presso l’aula Cutuli dal gruppo Avs-Demos di Civitavecchia e dall’Amministrazione comunale con l’obiettivo di sensibilizzare e coinvolgere la cittadinanza su un tema che riguarda tutti. Crediamo fermamente che un sistema carcerario più umano ed efficace sia possibile, ma occorre agire subito”, lo dichiara Alleanza Verdi Sinistra Demos - Circolo di Civitavecchia. Vercelli. Billiemme, sei agenti in più ma il carcere è in sofferenza di Andrea Zanello La Stampa, 27 gennaio 2025 Sei nuovi agenti sono stati assegnati alla Casa circondariale di Vercelli. I nuovi agenti che entreranno in servizio presso gli istituti penitenziari italiani, dopo aver concluso il 184° Corso Allievi della Polizia Penitenziaria, sono 1.327 in totale. “Queste nuove assegnazioni sono una preziosa boccata d’ossigeno per gli uomini e le donne in divisa che lavorano negli istituti penitenziari e dimostrano l’attenzione del governo Meloni per le esigenze del nostro territorio - ha detto Davide Gilardino, presidente della Provincia di Vercelli e commissario di fratelli d’Italia -. Ringraziamo il sottosegretario Delmastro per il suo impegno verso la polizia penitenziaria, continueremo a lavorare al suo fianco per il bene del territorio”. “Il loro arrivo migliorerà le condizioni lavorative di chi vive il carcere, alleviando le carenze di organico causate dalla grave noncuranza dei governi precedenti - ha commentato Delmastro - Queste nuove assunzioni si innestano nel percorso intrapreso dal governo negli ultimi 28 mesi e finalizzato a potenziare gli organici delle forze dell’ordine, e in particolare la polizia penitenziaria. Presto ci saranno altre assegnazioni: 2568 agenti inizieranno il 185° corso a maggio mentre, con la firma del nuovo bando del 15 gennaio scorso, è iniziato il reclutamento di ulteriori 3246 unità”. Alla conclusione del 183° corso allievi, lo scorso luglio al Biliemme erano arrivati altri 15 nuovi agenti. Numeri che sono una boccata di ossigeno anche se la situazione resta in costante emergenza. Il procuratore generale di Torino Lucia Musti ieri, durante l’apertura dell’anno giudiziario alla Corte d’appello, ha ricordato come il “carcere di Vercelli sia in Piemonte quello con il maggior numero di detenuti rispetto alla capacità ricettiva con un indice di sovraffollamento pari al 161,7%”. All’11 dicembre 2024 i detenuti erano 304, quando i posti regolamentari sono 230. Gli stranieri erano 165: 55 dal Marocco, 15 dall’Albania, 9 dalla Tunisia, 10 dalla Nigeria, 16 dalla Romania. Anche la pianta organica presenta delle criticità: sui 199 agenti regolamentari ne sono presenti 114. Mancano i tre dirigenti previsti, mentre il nucleo traduzioni, che dovrebbe avere 16 operatori, conta un effettivo di 4. Dei 28 ispettori previsti ce ne sono 6, mentre mancano anche diversi sovrintendenti. Confermata la seria criticità evidenziata nel 2023 (in via di peggioramento per richieste di trasferimento già avanzate) riguardante il personale amministrativo e della contabilità. Dei 19 operatori previsti nei ruoli amministrativi solamente circa un terzo sono gli effettivi. La penuria più sensibile riguarda i ragionieri contabili in carico agli uffici di contabilità ed economato. I dati erano stati diffusi nel nono dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, in cui per la prima volta il carcere di Biliemme era però stato preso d’esempio anche per questioni di merito, nonostante restino criticità strutturali, come alcuni dei lavori di ristrutturazione partiti al suo interno. Altro dato positivo il fatto che non si siano registrati suicidi di detenuti. Firenze. Si impennano i reati minorili ma la magistratura chiamata a contrastarli perde i pezzi di Erika Pontini La Nazione, 27 gennaio 2025 La scopertura dei giudici è pari al 50% dei posti a fronte di numeri di reati commessi dai ragazzini - molti minori non accompagnati o italiani figli di immigrati - che galoppano. Nelle stesse condizioni l’Ufficio di Sorveglianza (scopertura al 38%) che si occupa degli ultimi degli ultimi: i detenuti di Sollicciano senza libertà né umanità. E giù tutti - dal presidente della Corte d’appello al procuratore generale - a picchiare forte su un tasto dolente che sembra però restare tale, se non peggio, esplodendo pubblicamente ad ogni appuntamento istituzionale che si rispetti. Ma il giorno dopo le reprimende i lavori di ristrutturazione restano fermi, i detenuti aumentano (per fortuna anche gli agenti), mancano i bagni, l’inverno si continua a gelare e l’estate a morire di caldo mentre cimici e topi albergano ancora nelle celle. Infine gli immigrati con richieste di asilo e di protezione internazionale assorbono qualcosa come il 15% dell’intero arretrato dell’Ufficio e le loro pratiche non si riescono a smaltire perché crescono con la cadenza degli sbarchi. A fronte di questo vulnus aumenta del 170% il reato di immigrazione clandestina. Quasi 800 beccati solo nel 2024 mentre nel 2018 erano poco più di 200. Sintomo che qualcosa in città è cambiato, anzi molto è cambiato e decisamente in peggio. Verrebbe da dire che la giustizia non è per tutti, ma la verità è che fa acqua da tutte le parti, secondo la fotografia scattata dai vertici della magistratura toscana in una cerimonia d’avvio dell’anno giudiziario che anche a Firenze è stata scandita da proteste e tensioni. Le toghe silenziose hanno protestato contro l’operato del governo su separazione delle carriere e sdoppiamento del Csm uscendo dall’aula con la Costituzione sotto braccio quando ha preso la parola il rappresentante del ministro. A loro è andata la solidarietà del procuratore generale Ettore Squillace Greco (che probabilmente non si è accodato solo per dovere istituzionale). Con loro il procuratore di Prato Luca Tescaroli in prima fila, mentre il procuratore di Firenze, Filippo Spiezia non c’era (giustificato da questioni familiari). Ma la sua assenza si è notata, come si era notata l’inusuale presenza in Consiglio comunale a difendersi - in quell’Assise - dall’accusa che il suo Ufficio sia allo sbando. Oltre alle toghe protestano i giornalisti, stritolati in un’interpretazione a dir poco restrittiva della Cartabia che impedisce ai cittadini di sapere cosa accade in città mentre ad esempio a Milano il registro è differente, eppure leggi e regole dovrebbero essere le medesime. E infine a mobilitarsi anche i lavoratori con la Cgil in testa che chiede assunzioni e stabilizzazioni. Questioni di potere o di bottega? In realtà tutti i mali della giustizia si riversano sui cittadini, vittime e “presunti” autori di reato. Perché un aspetto la Cartabia lo spiega bene - e i solerti trascrittori riportano fedelmente -: bisogna sempre tenere presente la presunzione di innocenza. Verissimo. Peccato che sia diventato un lavoro a tempo indeterminato il presunto innocente, a fronte di una macchina della giustizia che ti lascia sulla graticola per anni a dispetto delle parole utilizzate. Dire a un colpevole che lo è colpevole ma a un innocente che è innocente è la più alta forma di garantismo. C’è un numerino in una delle relazioni, 1300: ovvero i procedimenti che ancora non hanno una data di udienza. Una massa enorme perché il sistema Giada, destinato a formare le udienze-filtro, non solo non opera per priorità (di reato o di rischio di prescrizione) ma ha chiuso per esaurimento l’agenda 2025. E quindi quei fascicoli con almeno 2-3-4 mila cittadini nel limbo sono costretti ad attendere. Lì in mezzo ci sono le storie nere che ogni giorno i fiorentini vivono sulla propria pelle con l’aumento di tutti i reati da strada: spaccio, rapine, furti con destrezza, danneggiamenti ma anche lesioni, violenze di genere, maltrattamenti e stalking. E chissà quando saranno affrontati. Ancor più sofferente la situazione alla procura per i minori: due soli magistrati, poco personale di cancelleria e reati esplosi. Qualcosa forse, almeno in questo caso, la società civile e la politica possono fare. I giudici denunciano che mentre il carcere minorile scoppia, molti ragazzini soffrono di disagi psichici perché si portano addosso i traumi della fuga e del viaggio o dell’abuso vertiginoso di droghe. Ma in Toscana “mancano le strutture terapeutiche adeguate per curarli”. Discorso analogo per i minori non accompagnati. Secondo i magistrati l’attuale modello di accoglienza è fallito, il sistema si è rivelato impreparato: i ragazzini diventano fantasmi o, nella peggiore delle ipotesi, vanno a ingrossare le file della criminalità. Insomma la giustizia che avrebbe più che mai bisogno di una radicale cura ricostituente. Reggio Emilia. L’Ufficio di Sorveglianza rischia il collasso di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 27 gennaio 2025 È competente per le tre province di Reggio, Parma e Piacenza e si deve occupare delle richieste di 1.415 detenuti in aumento nelle carceri. Tempi troppo lunghi per arrivare al verdetto, eccessivo ricorso alla prescrizione (con il 12% delle sentenze siamo primi in Regione) e soprattutto un Tribunale di Sorveglianza a rischio collasso. È il quadro che emerge dal report dell’anno giudiziario sulla salute della giustizia a Reggio Emilia. Nell’area emiliana e in particolare Reggio, si sa, “è marcata la presenza di una criminalità collegata alla ‘ndrangheta di provenienza cutrese, ma anche di stampo camorristico (in particolare il clan dei Casalesi)”. Ed è significativo che la nostra provincia venga citata per processi passati in giudicato istruiti dalla Dda di Bologna che vede in prima fila il pm di Aemilia Beatrice Ronchi: Grimilde, Perseverance, i delitti del 1992. Fra i processi di rilievo, anche quello per l’omicidio di Saman Abbas, che il prossimo 27 febbraio inizierà a carico della madre estradata dal Pakistan. Venendo ai dati statistici nel periodo dall’1 luglio 2023 al 30 giugno 2024 il Tribunale di Reggio Emilia ha contato 183 procedimenti collegiali, 2.845 procedimenti davanti al giudice monocratico che la fa sempre più da padrone, 8 impugnazioni davanti al giudice di pace e 2.236 procedimenti di indagini preliminari. Meno di Modena, che è al secondo posto in Regione per volumi, ma più di Parma, per avere come punto di riferimento un territorio delle stesse proporzioni. La Procura di Reggio ha “macinato” fascicoli a ritmo elevato: sono stati 7.615 i procedimenti totali pendenti per notizie di reato contro noti, il che ci fa posizionare al terzo posto dopo Modena e Bologna, e 3.383 i casi nel registro delle attività dei pm. L’altra faccia della medaglia sono i 6.222 procedimenti contro ignoti - aumentati un po’ ovunque, occorre sottolinearlo - che ci fa guadagnare un poco lusinghiero primo posto seguiti da Modena e Parma. Siamo primi anche per il maggior numero di pendenze (1.907). L’Ufficio gip/gup, il primo ad essere direttamente in contatto con quello del pubblico ministero, denota una certa sofferenza: se la media dei rinvii a giudizio è del 6,3%, la forbice è ampia e va dal 10,5% di Modena ad appena il 3,6% di Reggio, dove invece si fa ampio ricorso ai decreti di giudizio immediato (l’11,4% da noi contro una media del 5,9%). Il peso delle ordinanze di restituzione atti al pm è elevata: 9,6% a Reggio su una media del 5,1%. La durata media di un procedimento davanti al gip/gup è pari a 239 giorni (8 mesi): ma anche qui Reggio “sfora” a 349 giorni, pari a 11 mesi (peggio di noi solo Ravenna con un anno). Alta anche la durata delle sentenze di giudizio abbreviato: se la media è di 423 giorni, a Reggio si arriva fino ai 701 giorni. Se si aggiungono i tempi lunghi per le sentenze di patteggiamento (489 giorni contro una media di 225), dei decreti penali di condanna (538 giorni contro una media di 160) e delle ordinanze di restituzione atti al pm (402 giorni, la media è 248), si capisce perché “la sede più rapida è stata Forlì mentre la sede più critica è Reggio Emilia”, dove peraltro i fascicoli ultratriennali (cioè aperti dal 2021) costituiscono il 24% del totale a Reggio su una media del 9%. La maglia nera sono le sentenze di prescrizione per non luogo a procedere: a Reggio sono addirittura il 40%, a Ferrara il 5%. Siamo sul podio per incidenza di prescrizioni sulle sentenze (12%). Per quanto riguarda l’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, comprensivo dei circondari di Reggio, Parma e Piacenza, a fronte di una pendenza inizio periodo di 5.998 fascicoli ne sono arrivati altri 11.264, di cui definiti 12.569 e pendenti 4.517. Solo su Reggio, l’Ufficio di Sorveglianza ha definito 117 atti su 257: la metà. L’Ufficio dovrebbe - il condizionale è d’obbligo - occuparsi di “una popolazione carceraria in crescita rispetto all’anno precedente”: 1.415 detenuti totali, ai quali occorre aggiungere gli internati nelle Rems, con la struttura di via Montessori che è full (30 internati) e che nel periodo interessato ha assorbito anche quelli di Bologna. Il paradosso è che le leggi “finalizzate a lenire il sovraffollamento carcerario” hanno comportato “un impegno nettamente superiore rispetto al passato, anche sotto il profilo dello studio e dell’istruzione del fascicolo, tanto da richiedere interventi urgenti per reperire nuove risorse materiali e umane”. Roma. Rebibbia, droga e benefici ai detenuti del carcere romano di Marta Giusti Il Messaggero, 27 gennaio 2025 Maxi indagine dei carabinieri, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, sul carcere romano di Rebibbia. Sono 32 le persone colpite da misura cautelare. Scoperto un sistema illecito, all’interno del Servizio per le Dipendenze (Ser.D.) dell’ASL Roma 2 che opera nel carcere di Rebibbia, per far ottenere ai detenuti, attraverso certificazioni false, misure alternative ai detenuti. A promuoverlo uno psicologo. Per questo filone dell’indagine i carabinieri assieme alla polizia penitenziaria stanno eseguendo quattro misure cautelari. Altre 28 persone sono state colpite da misure cautelari per detenzione e associazione finalizzata al traffico di droga. Nello specifico, spiega una nota, gli investigatori della Polizia Penitenziaria hanno raccolto gravi elementi indiziari circa l’esistenza - all’interno del Servizio per le Dipendenze (Ser.D.) dell’Asl Roma 2 operante presso la Casa Circondariale di Rebibbia - di un sistema illecito, promosso in particolare da uno psicologo (destinatario di misura cautelare agli arresti domiciliari), finalizzato all’ammissione dei detenuti a misure alternative alla detenzione, basate sulla redazione di mendaci certificazioni attestanti un abuso di stupefacenti/stato di tossicodipendenza o comunque precarie condizioni psicologiche. L’altra indagine, che ha portato all’emissione di un’ordinanza nei confronti di 28 persone, gravemente indiziate, a vario titolo, dei reati di detenzione illecita ed associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, è scaturita proprio dal monitoraggio - all’interno del carcere di Roma-Rebibbia - di un detenuto, personaggio di spicco del narcotraffico romano che, si ipotizza, intrattenesse contatti con lo psicologo del Ser.D.. Dalle indagini è emerso che il narcotrafficante, pur chiuso in carcere, grazie al determinante contributo di due avvocati, solo uno dei due arrestato, incaricati di trasmettere messaggi e direttive da/per l’esterno e che si ipotizza abbiano anche introdotto nel carcere telefoni cellulari e sostanze stupefacenti, ha continuato a promuovere un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti operante in particolare nel quadrante sud-est della Capitale, quartieri di Roma Tor Bella Monaca e Cinecittà-Tuscolano, Valle Martella di Zagarolo. Manganellate, chiacchiere e distintivo di Enrico Bellavia L’Espresso, 27 gennaio 2025 Dalle proteste di piazza alla Caporetto ferroviaria, la maggioranza rilancia l’ipotesi del complotto. Agita ombre, evoca fantasmi, danza intorno al loro passato irrisolto. E ai nostri incubi: le bombe, i lutti, il terrore che confidiamo di esserci lasciati alle spalle. Più che sulla Costituzione i leader di governo sembra che abbiano scommesso sulla cospirazione. Evocata a giorni alterni, sempre a sproposito. Scherzano con il fuoco, nel Paese degli attentati neofascisti ai treni, delle Brigate Rosse, degli anni di piombo, della macelleria messicana del G8 e di Stefano Cucchi. Dopo le manganellate, regolarizzano una stretta dispotica a colpi di decreti. Come il contestatissimo ddl Sicurezza, ora al Senato, su cui gravano l’ipoteca del Colle e le obiezioni di Osce, Consiglio d’Europa e Nazioni Unite. Incuranti delle ragioni di chi è in piazza adesso, si insinuano tra le pieghe delle contraddizioni sociali, nei fatti ignorandole, se il modello, alla fine, è quello unicamente securitario di Caivano. Ampliano il divario tra cittadini e forze di polizia. Lasciano i primi ancora più distanti dal Palazzo a guardarsi l’ombelico del proprio disagio. Fingendo di tutelarle, espongono le seconde, anche nella tragedia di Ramy Elgaml (morto durante un inseguimento dei carabinieri a Milano il 24 novembre 2024) a un moto crescente di insofferenza. Una deriva pericolosa questa sì, dopo lustri spesi dalle divise a riguadagnare fiducia tra la gente. Una radicalizzazione delle questioni che obbedisce al calcolo del consenso a buon mercato. Che liscia il pelo alla parte più retriva dei corpi militari e civili. Finita nel tempo in minoranza, quella frangia nostalgica che era stata marginalizzata dall’interno delle stesse forze di polizia, grazie agli immani sforzi compiuti per convertire alla democrazia strutture rinate dalle ceneri di apparati compromessi, è ora vogliosa di riguadagnare spazio. Legittimata a farlo. Anche da uscite come quel “non lasciamoli respirare”, riferito ai detenuti, pronunciato dal sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove nel pieno di un’emergenza carceri che si vorrebbe solo silenziare. Le congiure presunte, come i trench, si portano su tutto. Si esibiscono nel cortile di una battaglia politica che fa di una fantomatica centrale unica della sinistra la madre di tutti i guasti del Paese, in asse con la galassia antagonista - che invece e da sempre, vede i partiti, tutti, come fumo negli occhi. Loro, i leader della maggioranza di governo, lì a rappresentarsi come baluardo a difesa della Patria, contro un pericolo terrorista che l’intelligence almeno da quel lato non avvista. E che le indagini su quel fronte non confermano. Tra ipotesi insinuanti, domande sospese, provocazioni a senso unico, le teorie complottiste prendono corpo nel bailamme dei talk e nei soliloqui spacciati per interviste. Con le bufale. Come quella dell’attacco dei manifestanti alla sinagoga di Bologna dell’11 gennaio scorso, mai avvenuto. L’amplificatore unico della propaganda annichilisce le deboli voci su inefficienze e incapacità e quelle, isolate, su violenze, dissenso criminalizzato, diritti calpestati. A cominciare dalle flessioni inflitte alle militanti di Ultima generazione, Extinction rebellion e Palestina libera, fermate in questura a Brescia per sette ore durante una manifestazione pacifista, davanti alla sede dell’ex Breda, oggi Leonardo, il 13 gennaio. Tanto per la persistente débâcle ferroviaria quanto per la teoria di reazioni scomposte delle forze dell’ordine con le manganellate ai cortei, gli abusi denunciati nelle caserme, la maggioranza diffonde l’orecchiabile ritornello “Tutta colpa della sinistra”. Spicca nell’esecuzione, il timbro di Matteo Salvini. Perché riesce sempre a prendere la nota, sempre la stessa, che poi gli alleati inseguono, provando anche a sovrastarlo, ma senza successo. Con il podio ai Trasporti, un piede, il cuore e la testa all’Interno, non c’è baraonda che tenga. Dell’ensemble è baritono e kapellmeister, maestro di cappella, insieme. Del resto, ha dalla sua il talento del ponte, l’unico di cui si può star certi. Messina non c’entra, è quello che unisce un presente e un passato che vorrebbe tornasse in fretta, magari scalzando dal Viminale il fido Matteo Piantedosi, che poi si incarica di scendere sempre di mezzo tono. Nell’infuriare del caos, anche duettando o battibeccando, ma sempre a distanza, con Giorgia Meloni, cui tocca studiare l’impegnativo repertorio da statista, la voce del Capitano finisce per imporsi in populismo. Disegna nell’aria quel filo di fumo che si fa cortina insurrezionalista. E autorizza, in un rincorrersi di divaganti suggestioni, ipotesi in libertà, stranianti dichiarazioni e mezze fandonie, la narrazione di un Paese assediato ora da orde di migranti, ora da un manipolo di guastatori, politicamente orientati ed eterodiretti, pronti a “devastare” trasporti, città, l’intero Paese. Contro i quali serve una risposta carceraria a suon di norme sulla sicurezza, diventata un comodo sinonimo di ordine pubblico, a sua volta un rassicurante ombrello sotto al quale ricomprendere la sistematica compressione al diritto di esprimersi liberamente per strada. Di dire la propria e dissentire. Per Gaza, per il clima, contro le mega opere, gli scempi ambientali, nelle prigioni carnaio, ridotte a discarica civile, diventate da luogo di espiazione e rieducazione, confino obbligato di ogni vera emergenza sociale. La risposta sono articoli di legge, ritocchi continui al codice penale con 20 nuovi reati, branditi come unica leva, fuori dal circuito della ragionevolezza, della proporzionalità della pena, della sua applicabilità e del perimetro costituzionale. Contro gli stessi sindacati degli agenti si tira fuori dal cilindro un’improbabile impunità per decreto. Salvo poi smentirla (incarico toccato al capogruppo di Fdi Galeazzo Bignami) e attestarsi su fiumi di parole e inchiostro per disegnare tra gli uffici del ministro Carlo Nordio e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano una corsia preferenziale: archiviazioni lampo a carico di uomini in divisa finiti indagati per atti legati alla loro attività e forse mai più iscritti nel registro dei destinatari di avvisi di garanzia. Uno scudo penale che si frappone alla disastrata macchina giudiziaria. Una maionese impazzita che forse, come sostengono in tanti, serve a distogliere da altro. In alto e in basso: la riforma della magistratura, con la separazione delle carriere per condurre i pm al guinzaglio dell’esecutivo, ad esempio. O gli straordinari falcidiati agli investigatori antimafia e le trasferte passate da un setaccio sfibrante dai dirigenti chiamati a guardare più conti che verbali di indagini. Una slavina repressiva, perseguita con ostinata caparbietà, sprezzante degli altolà del Capo dello Stato, costretto a intervenire con una durissima reprimenda sull’abuso di manganelli a febbraio 2024 sugli inermi studenti di Pisa. Ignorata, due mesi dopo quando toccò ai ragazzi de La Sapienza di Roma saggiare in cosa consista il monopolio della violenza statale. E che in un crescendo si è moltiplicata, come testimonia l’essenziale cronologia di queste pagine, fino a pochi giorni fa. Nel rincorrersi delle sollevazioni contro l’orrore in Palestina dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre 2023, nei primi mesi dell’anno scorso, è stato un continuo di scontri ai cortei, di manifestanti picchiati. E, certo, anche, di poliziotti feriti, come i 9 a San Lorenzo a Roma (59 identificati per la violenta manifestazione per Ramy dell’11 gennaio) mandati a fronteggiare le piazze delle proteste e del disagio, dove l’impegno degli attivisti incontra anche la rabbia antagonista, mai comunque soverchiante. Grandi e piccoli segnali di un clima che si fa pesante. Tollerata l’occupazione abusiva del quartier generale romano di CasaPound, si autorizza, sempre nella Capitale, non una manifestazione in ricordo delle vittime di Acca Larenzia, ma una cerimonia neofascista che ancora il 7 gennaio scorso trasforma una piazzetta del Tuscolano in una succursale di Predappio. Mentre la Digos, il 7 gennaio scorso, corre a identificare il giovane che passando grida “Viva la Resistenza”. Normale prassi. “Pienamente regolare”, come Matteo Piantedosi sostiene sia anche la degradante perquisizione personale di Brescia. “Pura formalità”, come, all’inizio dell’anno scorso, liquidò con noncuranza, l’identificazione di 12 persone ree di aver portato un fiore per Aleksej Navalny sotto alla lapide che a Milano ricorda l’assassinio di regime putiniano di Anna Politkovskaya. Pur nella mitezza del prefetto tecnico prestato, con personale soddisfazione, alla politica, del resto, il programma d’esordio del titolare del Viminale, il 31 ottobre 2022, fu proprio un decreto di cui si è persa memoria. Pene fino a 6 anni di carcere per invasione di terreni, contro i rave party, un fenomeno che per qualche ora diventò la vera emergenza nazionale. Incipit rivelatore, come quel “carico che residua”, ovvero i migranti lasciati a bordo della nave della Ong Mediterranea Saving Humans, nell’ottobre 2022. A sostegno della congerie di norme piace sempre guardare al resto d’Europa che sulle proteste di piazza, come testimonia Amnesty International, ha ormai virato pericolosamente verso il pugno di ferro. Si diventa miopi però se c’è da affrontare la questione dell’anonimato garantito alle divise nei servizi ai cortei. In venti Paesi l’hanno risolta con un numero o una sigla identificativa a garanzia di tutti. In Italia le proposte sono finite nel dimenticatoio e le bodycam sono diventate uno strumento praticamente discrezionale, distribuito a piccole dosi, in una nebbia normativa sull’utilizzo. Archiviata la pietosa mezza balla del chiodo per la Caporetto ferroviaria del 2 ottobre 2024, di fronte all’infittirsi di cancellazioni e attese sfibranti alle stazioni e sui vagoni, anche su questo versante è partita una sarabanda su complotti e boicottaggi. Opera, al pari di proteste e cortei, di frange insurrezionaliste, centri sociali, zecche comuniste. E di anarchici. Che tanto, a metterli in mezzo come un unicum indistinto non si sbaglia mai. L’esposto di Ferrovie alla magistratura diventa allo stesso tempo la presunta notitia criminis sulla “destabilizzazione a livello governativo” e il suo fondamento. È bastato far sapere della denuncia dell’ad Stefano Donnarumma per lasciare in bianco per un giorno l’agenda dei guasti. Visto? Nella vaghezza degli argomenti, sarà certo pura coincidenza: lo stesso 16 gennaio scorso, un incendiario pratese “aderente all’area antagonista radicale fiorentina vicina a circuiti anarchici”, annotano prontamente i carabinieri del Ros, è stato arrestato per aver appiccato il fuoco alla caserma di Borgo San Lorenzo nella notte tra il 12 e il 13 gennaio. Era ai domiciliari con braccialetto elettronico in attesa di giudizio per aver sabotato una cabina dell’Alta Velocità, ma due anni fa, l’8 agosto del 2023. E ha già avuto inflitti due anni per altri sei raid analoghi compiuti nella seconda metà del 2022, a cavallo tra il governo di Mario Draghi e quello di Giorgia Meloni. Precedenti, certo, che immediatamente hanno autorizzato collegamenti forse un po’ frettolosi con l’attualità, tanto che la forzista Erica Mazzetti ha tagliato corto: “Le linee ferroviarie sono bersaglio degli anarchici, con esplicite finalità eversive”. “Al netto dei cronici problemi infrastrutturali”, ha dovuto però ammettere. Finora, due unici riscontri. Un cavo antifurto da bicicletta trovato appeso alla linea elettrica vicino alla stazione di Montagnana, Padova. Che fa dire alla leghista Mara Bizzotto che “i dubbi palesati da Fs trovano riscontro”. E quello che potrebbe anche essere un tentato furto alla cabina ferroviaria della stazione Aurelia a Roma. Eppure, a parlare di anarchici (vi dicono qualcosa Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda?), bombaroli e attentati ai treni, la memoria suggerirebbe cautela. E i cori sarebbe meglio lasciarli ai teatri lirici. Magari alla Scala dove sono ammessi i buu e dovrebbe essere lecito gridare anche “viva l’Italia antifascista”, senza essere identificati come pericolosi sovversivi. Giorno della memoria, perché il nuovo tempo non può dimenticare di Giovanni De Luna La Stampa, 27 gennaio 2025 Il senso del 27 gennaio si usura a causa delle guerre in atto e della scomparsa progressiva dei testimoni della Shoah. L’evento che si ricorda (l’arrivo ad Auschwitz, nel 1945, dei soldati dell’Armata rossa e la libertà per i detenuti nel lager) è infatti inscritto a lettere cubitali nel patto fondato su quel “mai più” che ispirò allora tutte le istituzioni sovranazionali (l’Onu e, successivamente, la stessa Unione Europea) nate dopo la tragedia della seconda guerra mondiale e unì tutti gli Stati (vincitori e vinti) che si erano resi protagonisti dei suoi massacri. Ma, come tutti gli anniversari, anche quello dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz obbliga a misurarsi sia con il passato in cui quell’evento si svolse, sia con il presente in cui lo si ricorda. In questo senso è come se non fosse rimasto più niente dello spirito di quel 1945: non c’è più l’Urss; l’Onu assiste impotente al dilagare di conflitti sanguinosi e la guerra è diventata una delle coordinate della nostra quotidianità; la stessa Unione europea vive una crisi che investe i suoi valori fondativi, e, soprattutto, quel “mai più” sembra essere definitivamente archiviato. Alla fine della Seconda guerra mondiale gli americani che occuparono parte del territorio tedesco, prima che la Guerra fredda imponesse le sue dure esigenze, diedero vita a una sorta di “pedagogia democratica” obbligando gli sconfitti, uomini e donne, a veri e propri pellegrinaggi dell’orrore nei vari lager, partendo dal presupposto che il popolo tedesco “non poteva non sapere”. Ed era proprio così: i “volenterosi carnefici” di Hitler avevano continuato a occuparsi delle loro faccende, fingendo di ignorare i massacri che si svolgevano nei campi allestiti a poche centinaia di metri dalle loro abitazioni: il “mai più” si nutrì di quei corpi scheletrici, di quei forni crematori, di quelle camere a gas, radicandosi nelle profondità dell’identità tedesca almeno fino agli anni 90 del 900 e al dibattito sul “passato che non deve passare”, che coinvolse l’intera opinione pubblica attraverso un duro scontro generazionale. Ora gli effetti di quella lontana esperienza pedagogica sembrano però allentarsi, quasi svanire del tutto: in Germania torna a fiorire la mala pianta dell’antisemitismo con un partito di estrema destra, l’AfD, sì proprio quello sponsorizzato da Elon Musk, che, soprattutto nei territori dell’ex Germania comunista, sta ottenendo risultati elettorali sempre più vistosi (primo in Turingia e secondo in Sassonia). E, a sinistra, l’antisemitismo sembra riaffiorare anche in contesti ideologici in passato del tutto immuni a questa deriva. Tra le cause del fenomeno c’è anzitutto il progressivo scomparire degli ultimi testimoni viventi della Shoah. Nella battaglia di memoria che ha accompagnato la seconda metà del 900, il loro ruolo è stato determinante, al punto che, dopo il processo contro Eichmann (1961), gli storici cominciarono a parlare di una “era del testimone”, proprio per sottolineare l’importanza di quelle voci in un racconto in grado non solo di restituire l’orrore del loro vissuto ma di trasformarlo in una sorta di “pedagogia permanente” per tenere in vita proprio il patto di memoria fondato sul “mai più”. Ora quelle voci si fanno sempre più rare e diventano sempre più fioche. Ma anche il mondo è cambiato visto che Israele, proprio lo Stato che nacque in quel dopoguerra per alleviare il senso di colpa di chi aveva partorito la Shoah o ne aveva colpevolmente ignorato le proporzioni, è oggi accusato di “genocidio” davanti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia e il capo del suo governo, Benjamin Netanyahu, è gravato da un mandato di cattura per “crimini di guerra” emanato dalla Corte penale internazionale: istituzioni entrambe nate sull’onda emotiva di quel lontano “mai più”. Alle immagini che nutrirono l’esperimento pedagogico degli Alleati si sono così sostituite quelle dei bambini morti di freddo a Gaza; quelle dei corpi scheletrici degli ebrei sopravvissuti alle sopraffazioni dei loro carnefici stanno per essere cancellate dalle foto dei militari israeliani vittoriosi, armati fino ai denti e consapevoli della loro potenza bellica: nessuno smarrimento, nessuna rassegnazione nei loro occhi, ma solo la luce del potere di vita e di morte sugli avversari. In questa loro forza c’è oggi certamente qualcosa di messianico, soprattutto tra le nuove leve che arrivano con un retroterra molto segnato dalla fede religiosa, ma l’idea di un proselitismo confessionale resta comunque del tutto estranea alla formazione culturale dei militari dell’esercito israeliano, fondata invece su una lotta per la sopravvivenza che gli ebrei sono abituati a combattere da millenni. Questo è il segreto (oltre agli aiuti economici dei Paesi occidentali) del loro strapotere nei confronti dei Paesi arabi confinanti, del fatto che dal 1948 abbiano vinto tutte le guerre in cui sono stati impegnati, della leggendaria efficienza del Mossad. La loro convinzione è che o Israele combatte e vince o è destinato ad essere spazzato via dalla geografia del Medio Oriente. Quella della sopravvivenza è la vera posta in gioco delle guerre arabo-israeliane ed è proprio la sopravvivenza che ha preso il posto del “mai più” come paradigma di riferimento della nostra società, anche di quella italiana, europea, americana. La necessità di sopravvivere è il nodo da sciogliere se si vuole abitare oggi questo mondo ed è un problema che coinvolge tutti, anche quelli come noi che finora hanno semplicemente guardato i disastri degli altri e che, dopo la pandemia, si sono ritrovati improvvisamente più fragili, alle prese con un ordine mondiale sempre più contestato e con la natura di un pianeta infuriato. “Sopravvivere” è però opposto al “mai più”, ne tradisce le speranze, rinuncia a ogni sfida sul futuro per concentrarsi sul presente: se il 27 gennaio ci aiuterà a maturare questa consapevolezza sarà una “giornata della memoria” utile e non solamente celebrativa. Il 27 gennaio si ricorda la Shoah, ma non si sfugge alle domande dell’oggi di Anna Foa L’Espresso, 27 gennaio 2025 La guerra a Gaza suscita crescenti contestazioni verso Israele, talora dai toni antisemiti. Per questo bisogna rispondere a critiche e dubbi dei giovani. Anche quest’anno celebreremo il Giorno della Memoria, ricordando la Shoah attraverso la data simbolica della liberazione di Auschwitz, avvenuta ottant’anni fa, il 27 gennaio 1945. La celebrazione si presenta particolarmente difficile in una situazione come questa, caratterizzata dall’aumento di episodi e slogan antisemiti, in gran parte causato dalla reazione al massacro dei palestinesi nella Striscia di Gaza, una reazione divenuta in molti casi negazione dell’esistenza stessa di Israele, se non addirittura rifiuto degli ebrei. Si percepiscono ansie nelle scuole, timori che gli studenti stessi la contestino e si facciano portatori di posizioni non solo critiche nei confronti del governo israeliano, ma anche specificamente antisemite. Nessuno ha finora detto che si tratta di una data divisiva, da mettere in sordina, ma il clima è pesante. E, invece, oggi più che mai la celebrazione del 27 gennaio va fatta a voce alta. Ma per farla anche con la schiena dritta, la memoria della Shoah deve essere collegata alle domande dell’oggi, su quello che è stato il conflitto israelo-palestinese, sulla carneficina del 7 ottobre 2023, su motivazioni e modalità di una guerra che ha fatto decine di migliaia di vittime civili. Chi va a parlare a ragazzi e ragazze non può tacere se gli vengono poste domande spinose, e nemmeno se si è messi sotto accusa con parole che possono suonare come antisemite. Se qualcuno pronuncerà davanti a noi il termine tanto contestato di “genocidio”, lo accuseremo di antisemitismo o discuteremo con lui sulla possibilità o meno che di genocidio si tratti? Lo sterminio di civili, sia che avvenga a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine o a Gaza, ha elementi comuni, che non possiamo rifiutare di discutere e analizzare. Anche se abbiamo dovuto con dolore ascoltare voci che lo negano, la vita di un bambino ebreo e quella di un bambino palestinese hanno lo stesso peso. La memoria della Shoah, quella che abbiamo non senza fatica costruito in questi anni, troppo spesso è stata interpretata, sia dagli ebrei sia dai non ebrei, come una questione degli ebrei e solo loro, come se non avesse riguardato, oltre alle vittime, anche i carnefici e il vasto universo degli indifferenti. Tutti, insomma. Da una parte, essa è stata vista come volta a riconoscere lo sterminio del popolo ebraico; dall’altra, a rappresentare un monito per tutta l’umanità affinché fatti del genere non succedano più a nessuno, non soltanto agli ebrei. Da una parte, quindi, questa memoria ci appare come una cassaforte dove è stata rinserrata l’identità ebraica per preservarla dopo uno sterminio mai visto prima, dall’altra, come un’apertura verso il mondo contro ogni sterminio: l’eterno conflitto tipico del mondo ebraico, e non solo suo, fra particolarismo e universalismo. Questo il duplice aspetto della memoria. Ma la giornata che a essa è stata dedicata, il 27 gennaio, non è rivolta ai soli ebrei, tutt’altro. Essa vuole essere un monito per tutti, aiutare a riconoscere i genocidi, tutti i genocidi. Unica ricorrenza civile comune a tutti i Paesi dell’Ue, essa ha rappresentato per l’Europa una sorta di baluardo contro ogni razzismo, contro l’antisemitismo, contro odi e violenze. Intorno a noi, però, il mondo è ora rapidamente cambiato. Nazionalismi, sovranismi, razzismi lo stanno mutando, anche in quell’Europa nata per fermarli. Come possiamo evitare che le parole di ieri, il ricordo delle leggi razziste, dei ghetti nazisti, dei campi di sterminio si svuotino di significato in queste condizioni? Come evitare che in qualche scuola uno o più studenti ci rimproverino di parlare solo degli ebrei, di non curarci dei palestinesi, delle macerie di Gaza, degli ospedali distrutti, del diritto internazionale calpestato? Non certo, credo, negando o passando sotto silenzio quanto accaduto. La tregua raggiunta da pochi giorni, una tregua che gli osservatori definiscono molto fragile, non cancella tutto questo, come il ritorno degli ostaggi non offusca la violenza del 7 ottobre. Se vogliamo evitare che questa terribile vicenda degli ultimi mesi cancelli in noi la memoria stessa della Shoah - fino a farla diventare poco più di un rigo nei libri di storia, come ha detto già prima di quanto è accaduto la senatrice Liliana Segre - non possiamo sottrarla alle domande del presente. Perché essa è nata per farsi interrogare dal presente. La guerra ha finora toccato molta parte di Israele e dei suoi cittadini: le vittime del 7 ottobre, gli ostaggi, gli sfollati dal Nord a causa dei missili degli Hezbollah, le famiglie dei soldati. Il governo israeliano ha continuamente agitato, per giustificare la distruzione di Gaza, la minaccia che incombe, o meglio incomberebbe, sul Paese. Nulla vieta, anche se non credo che questo possa essere ora il caso, che in futuro Israele possa davvero - e sarebbe un disastro inimmaginabile - essere a rischio di scomparire. Ma, in questi mesi, a essere in via di sparizione è stata Gaza, con i suoi due milioni di abitanti. Sono i suoi civili privi di medicine e cibo, sono i suoi bambini in cui i coloni israeliani vedono “futuri terroristi”. Di questo bisogna parlare, alle domande su tutto ciò bisogna rispondere, mentre un filo di speranza si è finalmente affacciato. A quel che è successo dobbiamo anche fare riferimento il 27 gennaio, se non vogliamo essere indifferenti, di quell’indifferenza a cui si richiama, proprio all’entrata, il Memoriale della Shoah a Milano. E che tocca tutti, non solo gli ebrei. Segre: “L’antisemitismo c’è da sempre”. Tensioni nel giorno che ricorda la Shoah di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 27 gennaio 2025 È pessimista sul futuro della Memoria, amareggiata dal riesplodere dell’antisemitismo, che “oggi è manifesto, ma c’è sempre stato”. Liliana Segre però non si ferma, con la forza di chi sa che deve parlare anche a nome “di quelli che non sono tornati”, ancora protetta dallo “scudo di amore” che ricevette da bambina dal padre e dai nonni uccisi ad Auschwitz. “Non ho paura”, dice, nonostante la nuova ondata di odio che l’ha colpita per la proiezione del documentario di Ruggero Gabbai, Liliana, in occasione del Giorno della Memoria. Una data preceduta quest’anno da molte tensioni non ancora sciolte. Lunedì 27 gennaio la Comunità ebraica di Milano non partecipa all’evento organizzato a Palazzo Marino per non dimenticare, in polemica con l’Anpi per le posizioni sulla guerra a Gaza, l’uso della parola “genocidio” e i paragoni con la Shoah. Ieri, poi, il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, oltre a denunciare un “pericoloso clima di odio, in cui si sono rotti tabù e freni inibitori”, ha parlato di “alcuni interventi sbagliati” da parte di papa Francesco e di una “sottovalutazione della crescita dell’antigiudaismo” da parte della Chiesa. Liliana Segre riparte dalla testimonianza. Domenica la senatrice è stata ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa sul Nove e martedì sarà al Quirinale. Tra gli impegni di lunedì, sarà alla Consulta. E già prima, alle 11, parlerà in un video con Marco Vigevani realizzato dal Memoriale della Shoah di Milano e trasmesso sui social del Memoriale stesso e sul sito del Corriere della Sera. Nel filmato Segre riflette sull’antisemitismo. Uno dei motivi per cui iniziò a testimoniare, spiega, fu che “il mondo stava cambiando, ma l’antisemitismo rimaneva uguale”. Perciò “non sono così stupita dal quello attuale. Ora è manifesto ma c’è sempre stato, solo non si poteva parlarne nei termini vergognosi di oggi”. Dopo la guerra, nota da Fazio, “erano successe così tante cose che tutti erano, o si fingevano, amici degli ebrei. Ma ho sempre sentito l’antisemitismo”. In televisione non si dice stupita neppure dagli attacchi social, ricordando che già da sei anni ha la scorta. E proprio sugli insulti a Segre ieri è intervenuto il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, chiedendo “condanne più dure”. “Ha paura?”, chiede Fazio alla senatrice: “No, e la ragione è l’amore grande che ho ricevuto da bambina. Quando uno è stato amato, ha uno scudo davanti a sé, una corazza di amore che vince sull’odio”. Come ricorda in tv, quando i russi entrarono ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, Segre era già stata costretta a mettersi in fila per una delle “marce della morte” con cui i nazisti in fuga trasferivano i prigionieri verso altri lager all’interno della Germania. “Anche in quel momento - dice con Vigevani - nessuno si affacciò per buttarci una crosta di pane o una sciarpa”. I prigionieri camminavano “nell’indifferenza del mondo. Degli ebrei non interessava niente a nessuno”. Nel video la senatrice affronta le cause dell’attuale antisemitismo. Tra queste, la mancanza di rielaborazione storica. Cosa fare? Segre ricorda la sua Commissione contro l’istigazione all’odio: “Ho pensato che così avrei potuto lasciare un ricordo etico, storico, umano” ma, si chiede: “Ci sarà qualcun altro che la raccoglierà come una piccola eredità morale o finirà con me?”. E da Fazio dice: “Il mio pessimismo sulla Memoria aumenta in un tempo come il nostro, quando nessuno studia storia e geografia, quando nessuno si toglie da quel telefonino per pensare”. Una volta scomparsi i sopravvissuti, ribadisce “non resterà che una riga in un libro di storia e poi neanche quella”. La memoria, oggi, è il dovere di affermare un altro “mai più” di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 gennaio 2025 Nel Giorno della memoria, oggi più che mai, la grande sfida è continuare a educare sugli orrori della Shoah ricordando che la sua rimozione porta a chiudere gli occhi sul presente, a scambiare le vittime per i carnefici. Ricordate quella bandiera appesa su una finestra milanese esattamente un anno fa? La Giornata della memoria, lo sapete, è una ricorrenza internazionale che ogni anno si celebra il 27 gennaio per commemorare, ricordare e non dimenticare le vittime dell’Olocausto. In tempi ordinari, utilizzare la Giornata della memoria per parlare d’altro, per parlare del presente, costituisce un errore, perché non c’è nulla di più pericoloso, per custodire la memoria, che concentrarsi su ciò che abbiamo di fronte a noi, mettendo da parte il focus importante, ovvero l’orrore di ciò che è stato. I tempi ordinari, però, non sono quelli che viviamo in questa fase storica, una fase drammaticamente straordinaria, e dal 7 ottobre del 2023 al “mai più” del passato è stato per forza di cose aggiunto un “mai più” del presente. E a quel “mai più” deve essere necessariamente aggiunto un “mai più” ulteriore che è quello che riguarda un fatto storico che collega il passato con il presente. E la questione è semplice e disarmante: che cosa vuol dire chiedere con tutta la forza possibile “mai più” 7 ottobre? Dire “mai più” 7 ottobre significa non fare confusione tra aggredito e aggressore, per esempio. Significa non fare confusione tra democrazie e terrorismi. Significa non fare confusione tra paesi che difendono la vita dei propri cittadini e terroristi che usano la vita dei propri cittadini per difendere sé stessi. Significa capire che l’intifada regionale è diventata un’intifada globale. Significa capire che essere ebreo è diventato in tutto il mondo un peccato mortale. Significa capire che i pogrom contro gli ebrei in giro per l’Europa sono stati derubricati a scontri fra tifosi. Significa capire che gli ebrei che vivono nei paesi democratici sono diventati in modo disinvolto dei bersagli pubblici dei fanatici. Significa capire che i terroristi desiderosi di distruggere lo stato di Israele cancellandolo dalla mappa geografica sono stati trasformati in questi mesi dall’opinione pubblica internazionale, e da molte università in giro per il mondo non a caso celebrate dagli ayatollah iraniani che il terrorismo lo finanziano, in eroi della resistenza da celebrare per combattere il famigerato fascismo israeliano. Significa capire, infine, che l’unico modo per regalare pace, prosperità e un futuro non dominato dal terrorismo è mettere al centro dell’attenzione della comunità internazionale una necessità che al momento sembra essere lontano dall’internazionale umanitarista: sradicare Hamas, limitare il potere dell’Iran, spegnere le centrali del terrore che infiammano il mondo. I massacri di Hamas compiuti il 7 ottobre, massacri compiuti da un’organizzazione terroristica i cui obiettivi genocidi erano sotto gli occhi di tutto il mondo da ben prima del 7 ottobre, sono stati come un promemoria della profondità del male che è stato inflitto agli ebrei d’Europa ogni singolo giorno dal 1939 al 1945 e i fatti del 7 ottobre non sono paragonabili all’Olocausto ma sono una finestra su una barbarie nata seguendo la stessa linea del terrore: colpire gli ebrei in quanto ebrei. La minaccia di ieri è la minaccia di oggi, su una scala diversa naturalmente, e non può stupire il fatto che, come è emerso pochi giorni fa da un sondaggio della Claims Conference pubblicato in vista dell’ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, circa il 76 per cento degli ebrei negli Stati Uniti ha affermato di pensare che potrebbe verificarsi un altro Olocausto, così come circa il 69 per cento degli ebrei del Regno Unito, il 63 per cento degli ebrei della Francia, il 62 per cento degli ebrei dell’Austria, il 61 per cento degli ebrei della Germania, il 54 per cento degli ebrei della Polonia, il 54 per cento degli ebrei dell’Ungheria. Le ragioni sono duplici e sono evidenti. Da un lato vi è una drammatica perdita della memoria degli orrori compiuti fino a ottant’anni fa. Dall’altro lato vi è una drammatica perdita di coscienza del fatto che il motore di quegli orrori compiuti fino a ottant’anni fa è tornato a essere presente nella nostra contemporaneità. In tempi ordinari, mischiare la difesa di Israele con la memoria dell’Olocausto potrebbe essere una forzatura. Ma il fatto che in giro per il mondo vi sia un disinteresse di fondo rispetto a tutto quello che è successo negli ultimi sedici mesi, l’esplosione globale dell’antisemitismo, la trasformazione degli ebrei da vittime a carnefici, l’offuscamento della memoria, la riscrittura della storia ci ricorda perché nel Giorno della memoria, oggi più che mai, la grande sfida da affrontare è continuare a educare sugli orrori della Shoah ricordando che la rimozione della Shoah porta a chiudere gli occhi sul presente, a confondere gli aggrediti con gli aggressori, a scambiare le vittime per i carnefici e a considerare i terroristi come dei partigiani della libertà. Nel corso della guerra combattuta negli ultimi mesi, c’era un modo veloce e drammaticamente efficace per far sì che la guerra in medio oriente potesse finire e quel modo era non essere smemorati, rispetto alle lezioni del passato, e chiedere a Hamas di arrendersi. La comunità internazionale ha scelto di seguire un’altra strada, ha fatto pressioni per chiedere a Israele di arrendersi, ma arrivati al punto in cui siamo arrivati il tema ritorna, in modo ancora più rotondo: per far sì che la guerra in medio oriente non riprenda più, e sradicare le fonti del terrore che alimentano l’antisemitismo in giro per il mondo, un modo c’è e quel modo è fare di tutto per combattere Hamas con tutte le forze a disposizione, cercando di riservare ai fascismi del presente le stesse attenzioni dedicate al famoso braccio teso di Elon Musk. Free Gaza from Hamas, come recitava quell’eroico manifesto appeso a Milano il 27 gennaio di un anno fa. Buon giorno della memoria a tutti. “Almasri, uccisi 34 detenuti nella sua prigione”: le carte della Corte penale dell’Aia di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 27 gennaio 2025 Le accuse contro il generale libico: “Anche 22 violentati, tra cui un bambino”. Le vittime incarcerate perché cristiani, atei o omosessuali. L’Anm: “Libero a causa dell’inerzia del ministro Nordio”. Nel carcere di Mittiga (Tripoli), diretto da Osama Njeem Almasri, dal febbraio 2015 sono stati uccisi almeno 34 detenuti e 22 persone, compreso un bimbo di 5 anni, hanno subito violenze sessuali dalle guardie. È quanto si legge nel dispositivo della pre-trial Chamber della Corte penale internazionale che lo scorso 18 gennaio ha notificato - a maggioranza - il mandato di arresto per il generale libico bloccato in Italia il 19 e poi scarcerato. Njeem, secondo i giudici dell’Aja, “ha picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente e ucciso personalmente detenuti, nonché ha ordinato alle guardie di picchiarli e torturarli”. Il mandato di cattura della Corte contro il generale (il cui nome completo è Osama Njeem Almasri dice testualmente: “La Camera ha ritenuto che i crimini...sono stati commessi personalmente dal signor Njeem, su suo ordine o con la sua assistenza da membri delle Forze di deterrenza speciali. I crimini hanno avuto luogo contro persone incarcerate per motivi religiosi (come essere cristiani o atei); per le loro presunte violazioni dell’ideologia religiosa (ad esempio, sospettate di “comportamento immorale” e omosessualità); per il loro presunto sostegno o affiliazione ad altri gruppi armati; a scopo di coercizione; o una combinazione di questi”. Il documento precisa che il mandato di cattura è stato emesso il 18 gennaio scorso e “comunicato a sei stati parte tra cui la Repubblica italiana. La richiesta della Corte è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno Stato ed è stata preceduta da una consultazione preventiva e da un coordinamento con ciascuno Stato per garantire l’adeguata ricezione e l’ulteriore attuazione della richiesta della Corte. La Corte ha inoltre trasmesso informazioni in tempo reale indicanti la possibile ubicazione e i possibili spostamenti del sospettato”. A Mittiga almeno 5.140 persone sono state incarcerate tra febbraio 2015 e marzo 2024, rileva la Corte. Gli agenti del carcere-lager hanno sottoposto i detenuti a “interrogazioni brutali e torture”. La violenza è stata esercitata a colpi di bastoni, pugni, colpi d’arma da fuoco, elettrocuzione, confino in cubi di metallo. Secondo il materiale a disposizione della Camera, almeno quattro detenuti sono morti a causa di colpi di arma da fuoco; almeno 12 a causa di comportamenti equiparabili a tortura; circa 16 a seguito della mancanza di cure mediche adeguate. La maggioranza dei giudici “trova ragionevoli motivi per ritenere che il signor Njeem ha compiuto, come autore diretto o avendo incaricato altri di farlo, i seguenti atti nei confronti dei detenuti della prigione di Mitiga: percosse e ordine ai detenuti di picchiare altre persone detenute; tortura; sparatoria; aggressione sessuale”. I giudici della Cpi non nascondono il loro disappunto per l’esito della vicenda: “Il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione con la Corte, il signor Osama Njeem sarebbe stato rilasciato dalla custodia e riportato in Libia. La Corte sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sui passi presumibilmente intrapresi. La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati Parti di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei suoi procedimenti penali in materia di reati. Proprio la vicenda di Almasri continua ad alimentare lo scontro tra giustizia e politica. “Il generale libico è stato liberato per inerzia del ministro della Giustizia Nordio che avrebbe potuto - perché notiziato dalla polizia giudiziaria il 19 gennaio e dalla Corte d’appello di Roma il 20 gennaio - e dovuto, per rispetto degli obblighi internazionali, chiederne la custodia cautelare” dice l’Anm in una nota. Parole in contrasto con le affermazioni di Giorgia Meloni, secondo la quale il ricercato era stato liberato per decisione della magistratura. Tutti gli altri casi Almasri che spaventano Dabaiba e Haftar (e l’Italia) di Luca Gambardella Il Foglio, 27 gennaio 2025 Secondo quanto risulta al Foglio, sono ben 86 gli altri mandati di arresto coperti dal segreto e appena spiccati dalla Corte penale internazionale nei confronti di altrettante personalità di primo piano del panorama libico. L’imbarazzo diplomatico causato dall’arresto e dalla rocambolesca liberazione del leader libico Almasri da parte delle autorità italiane rischia di non restare un caso isolato. Secondo quanto risulta al Foglio, sono ben 86 gli altri mandati di arresto coperti dal segreto e appena spiccati dalla Corte penale internazionale nei confronti di altrettante personalità di primo piano del panorama libico. I nomi di quattro di questi - a cui questo giornale è riuscito a risalire - sono molto vicini ai due leader della Libia, rispettivamente il premier di Tripoli Abdulhamid Dabaiba e il generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Così come è successo nel caso di Almasri, la mole di informazioni che questi personaggi potrebbero rivelare in caso di arresto spaventa sia la Libia sia quei paesi stranieri, Italia inclusa, che in un modo o nell’altro hanno giocato, e giocano tutt’ora, un ruolo nella politica libica. Non si conoscono i reati contestati dai giudici dell’Aia ai ricercati ma i quattro di cui il Foglio è venuto a conoscenza appartengono a milizie che in questi anni sono state destinatarie di accuse molto pesanti formulate sia da organizzazioni internazionali sia da organizzazioni non governative. Fra queste si parla di violazioni dei diritti umani, detenzioni arbitrarie, torture e sparizioni forzate. Si tratta di capi di milizie che hanno finito per assumere responsabilità di rilievo all’interno di organi di sicurezza governativi collegati sia al governo di Dabaiba sia a quello di Haftar. Alcuni di questi ricoprono compiti di polizia sulla libertà religiosa e dei costumi nel paese. Così come Almasri è fra i comandanti di una milizia salafita, la Rada, allo stesso modo alcuni dei nuovi destinatari dei mandati di arresto della Corte penale internazionale appartengono a formazioni islamiste. Negli ultimi anni, alcune delle loro milizie si sono rese protagoniste anche di azioni di repressione contro individui sospettati di omosessualità o di proselitismo da parte di fedeli cristiani. Jalel Harchaoui, esperto di Libia del Royal United Services Intitute di Londra, ritiene che il caso Almasri abbia creato un precedente che spaventa molto i capi delle milizie: “Molti di loro hanno paura perché non sanno se sono o meno sulla lista dei mandati di arresto della Corte penale internazionale - dice al Foglio - Ma allo stesso tempo, per alcuni non è semplice evitare di viaggiare all’estero, in Europa come in Tunisia o in Turchia, in paesi dove hanno famigliari o investimenti”. Nel caso di Almasri, l’Interpol ha adottato un metodo nuovo, più confidenziale nella gestione delle informazioni a disposizione. Lo scopo, secondo Harchaoui, è stato quello di evitare fughe di notizie che avrebbero potuto mettere in allerta i ricercati. Con Almasri, questa riservatezza ha funzionato - almeno fino al momento dell’arresto - e tanto basta a preoccupare i libici, da est a ovest. “Nelle prime ore successive all’arresto del capo della polizia penitenziaria libica, le autorità di Tripoli avevano minacciato di arrestare un cittadino italiano come ritorsione”, rivela al Foglio una fonte diplomatica. Il pronto rilascio di Almasri ha scongiurato questo rischio, ma la situazione resta comunque complicata. “Difficile credere che il caso Almasri non abbia ripercussioni di qui in avanti - continua il funzionario diplomatico - Senza dubbio le autorità libiche risponderanno in qualche modo all’arresto”. Sotto l’attenzione del governo italiano ci sono l’operatività del gasdotto Greenstream operato da Eni e che unisce la Libia alla Sicilia, ma anche il futuro della Miasit (la Missione militare bilaterale di assistenza e supporto), e la concessione dei visti agli imprenditori italiani, che proprio nell’ultimo anno avevano ricominciato a rimettere piede in Libia con una certa continuità. In attesa dell’informativa che il governo dovrà rendere al Parlamento nel corso di questa settimana, una cosa è certa: gli strascichi del caso Almasri potrebbero lasciare il segno nelle relazioni fra l’Italia e la Libia. Parla Paolo Ciani: “Meloni fornisca spiegazioni, lo deve alle vittime di Almasri” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 27 gennaio 2025 “Non sono nuovi gli accordi con la Libia che acconsentono il ripetersi di violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti. È grazie a persone come Almasri e ai suoi centri di detenzione che il governo può rivendicare il calo dei flussi”. Paolo Ciani, segretario nazionale di Democrazia Solidale, Vicepresidente del gruppo Pd-Idp alla Camera dei deputati. Cosa racconta il “caso Almasri”? Quanto è accaduto nelle prime ore di domenica 19 gennaio 2025 a Torino è molto inquietante. Da diverso tempo la Corte Penale internazionale dell’Aja attenzionava Almasri, già capo della polizia penitenziaria in Libia e saputo che si trovava in Europa e si stava recando in Italia ha diramato un mandato di arresto internazionale. Giustamente le nostre forze dell’ordine, una volta intercettato su territorio italiano, hanno proceduto con l’arresto. Oltre ad essere il responsabile di alcuni centri di detenzione libici già noti e accusati dalle Nazioni Unite da diverse Ong di essere luoghi dove avvengono torture e violenze, ha avuto un ruolo cruciale nel traffico illegale di centinaia di persone migranti ed è accusato di aver reclutato minori nelle forze di polizia del carcere della Rada. È quindi di difficile comprensione il motivo del suo successivo rilascio e rapido ritorno in Libia, per giunta tramite volo di Stato comodamente organizzato e che si è risolto in un viaggio trionfale verso Tripoli, dove è stato accolto dai festeggiamenti dei suoi sostenitori. Il che aggiorna il “dossier libico” e l’azione italiana... In questi anni le vicende dei rapporti con la Libia sono state particolarmente oscure, ma i risultati di quelle vicende, purtroppo, sono davanti agli occhi di tutti da troppo tempo. Personalmente ricordo bene quando Papa Francesco ha definito i centri di detenzione in Libia: “i lager del nostro secolo”. Si sono moltiplicate testimonianze, immagini, video di quanto accade quotidianamente da anni in quei luoghi. Ecco, quei lager sono gestiti da persone, da esseri umani e sembra che Almasri sia uno dei responsabili di tante delle violenze e dei crimini avvenuti all’interno di questi luoghi. Il suo rilascio è stato giustificato dal Ministro Nordio con un ‘vizio proceduralè, ragion per cui non è stato convalidato l’arresto, ignorando completamente le prove messe a disposizione dalla Corte penale internazionale. Mentre uomini e donne, ragazzi e ragazze, subivano torture e violenze atroci nei lager libici, Almasri prima era allo stadio a vedere la partita, poi aspettava il proprio ritorno a bordo di un Falcon, aereo di Stato, battente bandiera italiana per rientrare in Libia. E dinanzi ad una persona accusata di violazioni dei diritti umani sulla pelle di donne e uomini e bambini in questi luoghi atroci, il Ministro Nordio annunciava la propria ‘complessa valutazione del caso’ quando l’epilogo della vicenda era già stato deciso: dal Ministero della Giustizia non è infatti pervenuta comunicazione alcuna alla Corte di Appello di Roma affinché venisse convalidato l’arresto, perché il Ministro Nordio stava ancora “valutando l’azione di intraprendere”. In Parlamento si è presentato il ministro dell’Interno. Con quali risultati? Altrettanto paradossali sono le ricostruzioni giunte dal ministro Piantedosi nell’aula del Parlamento. Ha affermato che hanno rimpatriato un ricercato dalla Corte penale internazionale con un aereo di Stato per un problema di sicurezza. Purtroppo, sembrerebbe più corretto dire che hanno organizzato la fuga dalla Corte Penale di un criminale e torturatore che fa affari con i trafficanti di esseri umani. Siamo di fronte a ricostruzioni improbabili che gridano vendetta. La verità sulla vicenda ancora nessuno l’ha detta realmente. È impossibile che questi avvenimenti siano accaduti senza l’avallo - o la direzione - di Palazzo Chigi, ed è per questo che chiediamo che sia la presidente del Consiglio Meloni a fare chiarezza in Parlamento su quanto è realmente accaduto. Ad oggi abbiamo due ministri, Nordio e Piantedosi, che - purtroppo per loro e per noi - hanno fornito ricostruzioni contrastanti e lacunose, incapaci di spiegare cosa sia successo davvero. È indiscutibile che questa vicenda abbia avuto un avallo politico e non si può spiegare in termini “tecnici”. Cosa indica questo modus pensandi oltre che operandi? Una esplicita manifestazione dell’idea dell’attuale Governo: che il potere politico possa essere al di sopra della legge e degli organi giuridici competenti, che si permette di contrastare le disposizioni della Corte penale internazionale e della nostra stessa Costituzione. Una tendenza che sta diventando abitudine, già a partire dal decreto ‘Paesi sicuri’ approvato esclusivamente per aggirare la normativa europea in merito e poter rendere praticabili i trattenimenti in Albania, in quel nuovo ed inutile monumento al furore ideologico della destra costato oltre 800 milioni di euro. Che mi dicono peraltro che a breve potrebbe riaprire le porte ad un nuovo arrivo di migranti ‘selezionati’ in alto mare, noncuranti dell’antico adagio: errare è umano, perseverare è diabolico… In questa vicenda grigia e triste per il nostro Paese, non si può fare a meno di pensare a tutte le persone che hanno subito e continuano a subire violenze atroci (alcuni sono stati uccisi, molti hanno subito violenze sessuali e psicologiche) in quei luoghi, ed è in loro nome e per dar loro giustizia che chiediamo cosa sia accaduto e perché il Governo abbia deciso di liberare tanto rapidamente Almasri e farlo tornare accompagnato e trionfalmente in Libia in quell’aeroporto di Mitiga costruito con i lavori forzati dei migranti-schiavi. Una domanda che attende risposta da Palazzo Chigi... Ma forse la risposta a questa domanda è più semplice di quanto si pensi: non sono nuovi gli accordi che da tempo l’Italia intrattiene con la Libia, spesso oggetto di scontro e pareri politici opposti. Accordi, questi ultimi, che silenziosamente acconsentono il ripetersi di trattamenti inumani e degradanti nei confronti di persone migranti e degli stessi cittadini libici. Quegli accordi di esternalizzazione delle frontiere che l’Italia e l’Europa hanno operato chiudendo gli occhi dinanzi alla quotidiana violazione dei diritti umani. Del resto, è “grazie” a persone come Almasri e ai centri di detenzione come quelli di Mitiga che il Governo può continuare a sostenere che i flussi migratori siano contenuti e diminuiti. E dagli analoghi accordi stipulati con la Tunisia o la Turchia. Senza ammettere e dichiarare che è comunque da quelle coste che continuano a partire i migranti che continuano a morire nelle acque del Mediterraneo o che solo ieri hanno fatto raggiungere gli oltre 600 posti all’hotspot di Lampedusa, duecento oltre la sua capienza massima e lo scorso ottobre sono state registrate oltre il migliaio di persone sbarcate sulle coste dell’Isola. Che Governo è quello che agisce in questo modo? Lo stesso Governo, la cui Presidente del Consiglio Giorgia Meloni definì prioritaria la ricerca, “per tutto il globo terracqueo”, di scafisti e responsabili del traffico illegale di esseri umani, ha deciso di liberare e rimandare in Patria, impunemente, uno degli autori principali delle torture nei lager libici e dei rapporti con i trafficanti di esseri umani. La responsabilità penale individuale di un uomo, per il nostro diritto, per la nostra civiltà, è molto importante e decidere di liberare una persona sulla quale pendono mandati di cattura internazionali per crimini contro l’umanità è una scelta politica importante e significativa della quale il Governo deve dare conto. Guardando ad un futuro che si fa presente, cosa determinerà il rientro trionfale a Tripoli di un personaggio del genere? La liberazione di Almasri contribuirà a favorire le continue violazioni dei diritti umani in Libia a scapito di persone innocenti: noi aspettiamo e in nome dei tanti torturati, in nome di chi è morto, in nome di chi non ce l’ha fatta ma anche in nome del diritto - penso a chi quotidianamente si batte per i diritti umani, per i diritti delle persone, di coloro che hanno subito uno schiaffo grave da quello che è accaduto - vogliamo aver conto dal Governo di come questa violazione sia stata possibile. Gli accordi con i libici non possono prevalere sul rispetto dei diritti umani e dei Tribunali internazionali. Ma forse si ritiene che l’esecutivo possa ritenersi sciolto dagli obblighi internazionali che derivano da Convenzioni e Trattati internazionali che garantiscono i diritti fondamentali della persona e vietano la tortura e altri trattamenti disumani o degradanti. Come se l’articolo 117 della Costituzione fosse ormai un mero richiamo formale privo di effettiva applicazione. Al di là delle spinte provenienti dall’Unione europea per un rafforzamento dei rapporti di collaborazione con le autorità libiche, senza farsi alcuna illusione sui rapporti di forza che vedono prevalere su scala globale la esternalizzazione dei controlli di frontiera e l’abbattimento del diritto di asilo, occorre continuare la battaglia quotidiana per ostacolare queste politiche di morte e tentare di salvare il maggior numero di persone, promuovendo ogni possibile intervento solidale, dove gli Stati sacrificano vite umane nel tentativo di “difendere i confini nazionali”. Non solo Afghanistan: l’apartheid di genere “merita” di diventare un crimine di Antonella Mariani Avvenire, 27 gennaio 2025 Segregate, private dei diritti di istruzione, del lavoro e della libertà di movimento: a che punto è il percorso per introdurre il nuovo reato nel diritto internazionale e che problemi sta incontrando. Le ragazze e le donne afghane sono segregate, imprigionate nei burqa. A loro è vietato studiare, lavorare fuori casa, muoversi da sole, perfino parlare a voce alta e cantare. Che cos’è, se non apartheid? Anzi, più precisamente, apartheid di genere. Sfortunatamente, questa fattispecie non esiste nell’ampio repertorio dei crimini contro l’umanità che si è sviluppato negli ultimi decenni. Tra i giuristi internazionali è sempre più diffusa la convinzione che sia arrivato il momento di codificarlo, nominarlo e dunque farlo esistere, non solo per prendere atto di una realtà inedita e sconvolgente che avviene in alcune parti del mondo e in particolar modo in un Paese, l’Afghanistan, pressoché uscito dai radar dell’attenzione mediatica, ma anche per fornire ai gruppi della resistenza all’estero, ai Tribunali e alle istituzioni internazionali uno strumento supplementare per combattere questa massiccia violazione dei diritti umani. Tra i principi base del diritto internazionale c’è l’uguaglianza di genere, garantita da diversi corpi normativi (la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, quella sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1970, i patti internazionali sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del 1966, la Convenzione sulla parità di retribuzione nel 1951). Solo nel 1973, per entrare in vigore due anni e mezzo più tardi, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione internazionale sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid, poi recepita e ampliata dallo Statuto di Roma del 1998, che ha regolato l’attività della Corte penale internazionale dell’Aja. Ma ovviamente, poiché la definizione è stata plasmata sulla drammatica esperienza del segregazionismo in Sudafrica, la fattispecie in realtà si concentra sulla discriminazione basata sulla razza. Quello che sta avvenendo in Afghanistan, e, in modo diverso, in Iran e in aree specifiche di Paesi come il Sudan o la Siria, ha caratteristiche diverse: si tratta della negazione di decine di diritti essenziali in base alla semplice constatazione di essere nate donne. La codificazione del crimine di apartheid di genere, di cui peraltro le attiviste afghane parlano da decenni, fin dal primo governo dei taleban degli anni Novanta, servirebbe a mettere in evidenza la sistematicità e la gravità della discriminazione che colpisce le ragazze e le donne in alcuni Paesi del mondo. “ Non solo - interviene l’esperta Laura Guercio -: questo rafforzerebbe il quadro giuridico internazionale, consentendo indagini e azioni penali più efficaci. E ne gioverebbe la lotta per sradicare i regimi istituzionalizzati di oppressione”. Laura Guercio è un’avvocata, docente universitaria, già segretaria generale della Commissione interministeriale per i diritti umani alla Farnesina. Ora ha prestato la sua competenza al Cisda, lo “storico” Coordinamento che dal 1999 sostiene le donne afghane e che il 10 dicembre scorso ha lanciato una petizione per il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Gli elementi chiave della definizione proposta dal Cisda sono “la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione”. Così come l’apartheid razziale, quello basato sul genere viene attuato con politiche che “escludono sistematicamente gli individui in base al genere dalla piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica, rafforzando le strutture di dominio”. La petizione del Cisda è stata accolta anche dal Parlamento italiano, grazie a una decisiva opera di sensibilizzazione di Laura Boldrini, deputata Pd e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo. Il 27 novembre scorso la Commissione esteri della Camera ha approvato all’unanimità una risoluzione, a prima firma Boldrini e sostenuta da tutto il gruppo del Pd, che impegna il governo ad appoggiare l’introduzione del reato di “segregazione di genere” nella convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu. “Con l’approvazione della nostra risoluzione - spiega Laura Boldrini -, l’Italia prende una posizione chiara e inequivocabile: la segregazione delle donne, la loro esclusione da qualsiasi forma di vita sociale, il divieto perfino di cantare, parlare e pregare in pubblico, diventi “crimine contro l’umanità” riconosciuto dall’Onu”. A livello internazionale riscuote molto seguito la petizione internazionale End Gender Apartheid, elaborata da decine di attiviste afghane e iraniane, da premi Nobel, giuriste di tutto il mondo, scrittrici, intellettuali. Oltre all’unicum mondiale del divieto all’istruzione imposto dai taleban alle ragazze in Afghanistan, nella petizione si ricordano altre leggi liberticide in vigore anche in Iran: alle donne è vietato vestirsi come preferiscono, praticare numerose discipline sportive, ottenere un passaporto, viaggiare senza il permesso del marito, oltre al fatto che in tribunale la vita delle donne e la loro testimonianza valgono la metà di quelle di un uomo. Ma, realisticamente, quali sono i tempi perché si possa codificare l’apartheid di genere come nuovo e specifico reato internazionale? Il processo può essere in effetti piuttosto lungo e accidentato. Il Sesto Comitato dell’Onu (quello giuridico) da tempo sta elaborando una revisione dei Trattati sui crimini contro l’umanità. È questo il luogo in cui si gioca la partita. Ed è qui che emergono anche alcune resistenze. Pensiamo ai Paesi arabi in cui il diritto di famiglia è sfavorevole alle donne, o in cui esse non hanno accesso a alcune professioni o sport, o in cui sono soggette alla potestà del marito. Nessuno di questi Paesi, alcuni dei quali molto influenti, voterebbe mai un articolo di legge che includa l’apartheid di genere tra i crimini contro l’umanità, sottoponendosi automaticamente al rischio concreto di essere tra i primi a salire sul banco degli imputati. Questo ragionamento, dettato dal pragmatismo, non vuole togliere nulla alla legittimità e all’importanza delle pressioni internazionali per arrivare alla definizione del nuovo crimine, tanto più se esse sono finalizzate a “liberare” le ragazze e le donne afghane dall’inferno in terra che è l’Emirato islamico. Nell’attesa che maturino le condizioni, una strada per l’incriminazione del regime talebano c’è, e i mandati di arresto di due capi supremi dei taleban, spiccati proprio ieri (vedi alla pagina di Esteri) c’è. La descrive per Avvenire il professor Paolo De Stefani, docente di Diritto internazionale dei diritti umani all’Università di Padova. La via percorribile è quella che parte dall’esistente, e cioè proprio dallo Statuto della Corte penale internazionale dell’Aja, a cui peraltro l’Afghanistan ha aderito nel ventennio del governo filo-occidentale. L’articolo 7, nell’elenco dei crimini contro l’umanità, cita anche la persecuzione di genere (per inciso: la prima versione in cui si spiegava che con “genere” si intendeva femminile e maschile, è stata chiosata due anni fa all’Ufficio del procuratore includendo anche gruppi Lgbt). “Questa fattispecie è stata già usata dalla Corte penale - spiega il professor Paolo De Stefani - per processare il jihadista Al Hassan Ag Abdoul Aziz, che tra il 2012 e il 2013, durante l’occupazione della capitale del Mali, Timbuctù, era il capo della polizia islamica e perseguitava la popolazione, in particolare le donne”. La Cpi ha nel mirino l’Afghanistan da tempo, ma fino ai clamorosi mandati d’arresto di ieri nei confronti del leader supremo Haibatullah Akhundzaza e al giudice capo Abdul Hakim Haqqani, ha tentennato a causa di una domanda fatale: l’indagine dovrebbe riguardare “solo” i crimini del taleban (prima e dopo l’invasione occidentale) o anche quelli eventualmente commessi dalle truppe americane e alleate nel ventennio dell’occupazione? L’indagine, iniziata nel 2020 e partita ad esaminare fatti di vent’anni prima, era stata messa sotto traccia anche per questo aspetto spinoso, fino a che lo scorso novembre i governi di Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno deferito l’Afghanistan alla Cpi, sollecitando la Corte “a dare priorità ai crimini contro donne e ragazze afghane”, considerando il peggioramento delle loro condizioni e la gravità della situazione. Da qui, dalla persecuzione di genere, si è iniziato, per portare finalmente alla sbarra gli emiri responsabili delle leggi liberticide.