Suicidi in carcere, Pinelli (Csm): “La politica rifletta, la detenzione sia un momento di riscatto” di Davide Vari Il Dubbio, 26 gennaio 2025 Il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, intervenuto per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha ribadito anche la necessità di portare fino in fondo la riforma sulla separazione delle carriere. L’inaugurazione dell’anno giudiziario a Venezia ha visto l’intervento del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Fabio Pinelli, che ha affrontato con profondità i principali nodi del sistema giustizia in Italia. Mentre i magistrati protestavano in tutto il Paese contro la separazione delle carriere proposta dal ministro Carlo Nordio, Pinelli ha ribadito la necessità di un dialogo istituzionale per riformare la giustizia senza compromettere l’autonomia della magistratura. L’impegno per l’efficienza e la trasparenza del CSM - Aprendo il suo intervento, Pinelli ha sottolineato il lavoro svolto dal CSM per migliorare l’efficienza e la trasparenza del sistema giudiziario. “Il Consiglio Superiore, sotto la guida del Presidente della Repubblica, ha inteso perseguire la via dell’efficienza e della trasparenza, intrapresa lo scorso anno. Si è continuato a percorrere la strada di una più intensa programmazione dei lavori delle Commissioni, per garantire agli uffici giudiziari tempi sensibilmente più contenuti”, ha affermato. Questo approccio, ha spiegato Pinelli, è stato essenziale per ridurre l’arretrato delle pratiche, dalle nomine di direttivi e semidirettivi alle valutazioni periodiche dei magistrati, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il dramma dei suicidi in carcere - Uno dei passaggi più toccanti del discorso ha riguardato l’emergenza carceraria, definita da Pinelli un dramma umano e istituzionale che richiede interventi urgenti. “Il numero di suicidi - non solo di detenuti, ma anche di appartenenti alle forze di polizia penitenziaria - rende ineludibile una riflessione della politica, in attesa dei tempi inevitabilmente lunghi dell’adeguamento dell’edilizia penitenziaria”, ha dichiarato. Nel 2024, i suicidi nelle carceri italiane hanno toccato livelli drammatici, sintomo di un sistema incapace di garantire condizioni di vita dignitose. “Non si tratta di rendere ineffettivo il principio di certezza della pena, ma di non ridurre la reazione dell’ordinamento a una sterile vendetta che, senza risarcire le vittime e la società, tradisce il senso che alla pena attribuisce la Costituzione come strumento di rieducazione e di recupero sociale del reo”, ha aggiunto. Pinelli ha richiamato l’attenzione sulla necessità di misure che coinvolgano detenuti responsabili di reati minori. “Occorre favorire l’adozione di provvedimenti urgenti, che coinvolgano in particolare i detenuti per reati meno gravi, cioè coloro che il carcere potrebbe cronicizzare come criminali recidivi”, ha sottolineato, avvertendo che la gestione inadeguata del sistema penitenziario rischia di trasformare il carcere in un luogo di disperazione anziché di riscatto. Ha inoltre evidenziato le difficoltà affrontate dal personale di polizia penitenziaria, spesso vittima di un carico emotivo insostenibile. “I suicidi tra gli agenti evidenziano una situazione di pressione intollerabile. È essenziale che la politica e l’intero sistema giudiziario intervengano per migliorare le condizioni lavorative e supportare chi è in prima linea”, ha dichiarato, lanciando un appello alla politica per una riforma strutturale e non solo emergenziale del sistema carcerario. Riforme costituzionali - Pinelli ha poi affrontato il tema della crescente sovraesposizione della magistratura, legata alla disapplicazione delle norme nazionali in conflitto con il diritto europeo. “La disapplicazione ha finito per trasformarsi in un larvato giudizio di illegittimità costituzionale da parte del giudice comune, anziché della Corte costituzionale. Questo rischia di mettere in crisi il principio di separazione dei poteri”, ha spiegato, auspicando un dialogo più solido tra le istituzioni nazionali ed europee per ridurre l’incertezza normativa. In merito alle riforme costituzionali, tra cui la separazione delle carriere, Pinelli ha ribadito l’importanza del dibattito pubblico e scientifico. “Si tratta di interventi di ampia portata, che devono essere accompagnati da un confronto approfondito per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, pilastri dello stato di diritto”, ha affermato. Un sistema penale per il cittadino - Pinelli ha concluso il suo discorso richiamando i principi fondamentali che devono guidare ogni riforma della giustizia. “Impegniamoci, ciascuno per la propria parte e nel rispetto delle prerogative, per un sistema penale “della Costituzione”, che prevede il rispetto della persona coinvolta nel processo, l’attenzione per i principi di ragionevolezza e la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche”, ha detto. Ha poi richiamato il ruolo della magistratura, della politica e dell’avvocatura, invitandole a collaborare per migliorare il sistema giustizia. “La giustizia non fa miracoli; può riequilibrare ma non risanare. Il risanamento spetta alla comunità, che deve ricostruire legami sociali basati su valori condivisi”, ha concluso. Mentre Pinelli affrontava i nodi critici della giustizia, il contesto rimaneva segnato dalla protesta dei magistrati contro la separazione delle carriere. Anche a Venezia, come in altre città italiane, i magistrati hanno manifestato il loro dissenso, indossando toghe e coccarde tricolori, e sottolineando i rischi che la riforma potrebbe comportare per l’indipendenza del sistema giudiziario. L’ex direttore di San Vittore Luigi Pagano: “Per i detenuti trattamento disumano” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 26 gennaio 2025 Dopo 40 anni passati a dirigere penitenziari, il dirigente rilancia la sua idea di giustizia: “Amnistia e indulto sono l’unico sistema, la politica deve avere il coraggio di dirlo”. “In carcere manca la speranza. È ormai diventato uno strumento di ordine pubblico, pur con tutti i costi sociali e umani che questo comporta. Sono d’accordo con chi dice che il trattamento dei detenuti è disumano. Provvedimenti come l’amnistia o l’indulto? Temo siano l’unico sistema: il potere politico deve avere il coraggio di dirlo”. Luigi Pagano, storico direttore - tra gli altri istituti - di San Vittore e Bollate, quarant’anni di vita dedicati a chi sta dentro, ragiona su un mondo che cerchiamo di non vedere. Ieri, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano, è stato citato un dato: 140%. Il tasso di sovraffollamento delle carceri lombarde... “Abituarsi al sovraffollamento non è la soluzione migliore. Non è giusto che sia così. Abbiamo avuto tanti anni per cambiare le carceri. E abbiamo avuto tante occasioni. Ma le abbiamo sprecate”. La presidente della Camera penale, Valentina Alberta, ha parlato di trattamenti “disumani” negli istituti. Condivide? “Sono d’accordo. Il termine “disumano” può sembrare eccessivo. Ma se guardiamo agli obiettivi di cui parla la Costituzione, a partire dalla dignità, ci rendiamo conto che quella dei detenuti non è una vita conforme a un concetto di trattamento umano”. È possibile immaginare il “reinserimento sociale” tante volte auspicato? “In questo contesto, le persone che escono non possono essere cambiate in meglio. E quindi il problema riguarda tutta la società”. Un detenuto su cinque è in attesa di giudizio: il 22% del totale... “Un numero alto. Ma abbiamo anche condannati a uno, due, tre anni. Con un paradosso: il carcere non dovrebbe essere più al centro del sistema penale, perché ci sono anche le misure alternative. Rimane dentro chi non ha la possibilità di ottenerle. Perché è senza una casa, un lavoro, una famiglia. I tossicodipendenti, gli stranieri, i poveri. È questo il sovraffollamento. Temo che il carcere sia diventato più uno strumento di ordine pubblico, pur costando tantissimo in termini economici e umani. Il concetto di pena aveva un orizzonte davanti a sé: un’idea, un traguardo. Ma così è fine a se stessa”. Gli avvocati dicono di volersi battere per l’amnistia e l’indulto. Cosa ne pensa? “Non c’è altro sistema. Se un sistema è ingiusto, è dovere dello Stato porvi rimedio. Non hai altri mezzi. Secondo me un potere politico deve avere il coraggio di dirlo. Aggiungo che l’amnistia dovrebbe essere un punto di partenza per un’idea di carcere diverso. Che però temo non ci sia. Oggi manca la speranza”. E la sua idea di carcere qual è? “La mia? È di superarlo. Se possibile. Ma fino a quando ci sarà, bisogna cambiarlo. Il carcere è rimasto per poche persone. Bisogna cambiare la qualità di vita per loro e per gli operatori che lavorano all’interno. Se lo aggiustiamo, questo carcere, magari facciamo anche più in fretta a lasciarcelo alle spalle. Se lo aggiusti, ti aiuta a farne a meno”. Costituzione, coccarde e dadi: la protesta dei giudici contro il Governo di Giulia Merlo Il Domani, 26 gennaio 2025 Le toghe fuori dalle aule con la Costituzione in mano: no alla riforma. Il ministro della Giustizia Nordio a Napoli: “Ero pm, non voglio umiliare la magistratura”. La sala dei Busti di Castel Capuano a Napoli è gremita col pubblico delle grandi occasioni, che però sin dalla vigilia si sa non essere benevolo. L’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte d’appello del capoluogo campano, infatti, è il più attenzionato: sul palco c’è il ministro della Giustizia Carlo Nordio e giudici e pm si sono radunati in gran numero ad aspettarlo, rispondendo alla chiamata alla mobilitazione dell’Associazione nazionale magistrati contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere. La protesta, infatti, ha previsto che tutti i magistrati si recassero all’inaugurazione in toga, con coccarda tricolore appuntata al petto e la Costituzione in mano da alzare, uscendo poi al momento dell’intervento del ministro o dei rappresentanti del Governo. La protesta a Napoli - A Napoli si sono radunati duecento magistrati del distretto, che hanno sventolato la Costituzione al momento dell’inno nazionale e, quando Nordio ha preso la parola, sono tutti platealmente usciti. I consiglieri della Corte d’appello, sul palco, hanno invece tenuto alta la Carta mentre il ministro parlava. Nordio, che all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione ha rivendicato la riforma, a Napoli non ha potuto che assistere alla mobilitazione contro di lui dei suoi ex colleghi. Quasi colto alla sprovvista e con voce più incerta rispetto al consueto tono, il ministro ha snocciolato i dati numerici dell’abbattimento dell’arrestato anche nel distretto di Napoli, mentre le toghe gli hanno dato le spalle e hanno lasciato l’aula. Poi, rispondendo indirettamente ai manifestanti: “Come ex magistrato, è ingiusto pensare che possa avere come obiettivo l’umiliazione della magistratura”, ha detto, applaudito da chi è rimasto in sala. Poi è tornato a difendere la riforma: “Nessun reato di lesa maestà né un vulnus all’autonomia della magistratura giudicante e requirente. Questo è un processo alle intenzioni, un artificio retorico un po’ fantasioso. Ho fatto il pm per essere libero e indipendente, come pensate che voglia farlo smettere di essere tale?”, ha detto, facendosi scudo ancora una volta della sua ex professione. Eppure, da Torino a Palermo passando per Roma e Firenze, la partecipazione alla mobilitazione dell’Anm è stata massiccia e trasversale, con adesioni sia dei giovani magistrati che il ritorno in aula dei pensionati illustri. A Napoli si sono visti l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e l’ex ministro della Giustizia Luigi Scotti. Ovunque i rappresentanti della magistratura hanno espresso critiche pesanti alla riforma e soprattutto al clima di sfiducia generato dal governo nei confronti delle toghe. Da Roma, la consigliera del Csm Bernadette Nicotra, di Magistratura indipendente, ha parlato di “una riforma che non dà alcuna centralità alle reali problematiche del mondo della giustizia”. A Milano è riecheggiato lo slogan di Francesco Saverio Borrelli “Resistere, resistere, resistere”, evocato dal togato del Csm, Dario Scaletta. A Torino, il presidente della Corte d’Appello Edoardo Barelli Innocenti ha ricordato che “se i giudici non devono fare politica, i politici non devono fare i giudici. Anche se, talvolta, verrebbe voglia di dire: venite voi a fare il nostro lavoro nelle condizioni in cui lasciate i nostri uffici”. Da Firenze, il procuratore generale Ettore Squillace Greco ha parlato di “clima di rancore indotto, di toni sempre accesi, di distorcenti rappresentazioni dei fatti” in cui “tutti i protagonisti del processo rischiano la delegittimazione”. La mobilitazione riuscita in tutte le corti è stato un buon segnale per la magistratura, in vista però della scadenza più importante: lo sciopero proclamato dall’Anm per il 27 febbraio, che però i più prudenti vorrebbero già ragionare di spostare più avanti. “Scegliere il momento giusto è un obbligo, perché avremo una sola possibilità di farci capire”, ragiona una toga moderata. Intanto, oggi si apriranno le urne per il rinnovo dell’Anm, i cui nuovi vertici avranno l’onere di organizzare la nuova mobilitazione. La risposta della politica - La politica e soprattutto il governo, tuttavia, non hanno subito in silenzio la protesta. Nel tardo pomeriggio una replica è arrivata direttamente dalla premier Giorgia Meloni. “Le proteste sono sempre legittime ma mi rammarica questo atteggiamento dell’Anm”, ha detto, aggiungendo che i cittadini hanno scelto il governo con il voto e la riforma è “perfettamente adeguata alla Costituzione”. Questo antagonismo “non giova neanche ai magistrati stessi perché quando ci si siede ad un tavolo dei punti d’incontro si trovano”. Molto più ruvido il vicepremier Matteo Salvini, che ha parlato di “pessimo gusto” e “mancanza di rispetto non riconoscere quello che il popolo porta avanti come riforma. I magistrati sono pagati per applicare le leggi, non per contestarle o sovvertirle”. A fare eco alla premier è intervenuto alla cerimonia di Roma il sottosegretario ed ex magistrato Alfredo Mantovano, che alla platea rimasta in sala ha strappato un applauso. Ha lasciato uscire le toghe e poi ha cominciato a parlare, sostenendo che “una chiusura così drastica non fa bene neanche a chi l’ha proposta, abbandonare il tavolo del dialogo non è una manifestazione di forza, semmai di debolezza” e “mi permetto di chiedere alla magistratura italiana di non rifiutare l’invito del governo al confronto, senza pregiudizi”. Identica scena anche a Bari, dove era presente il viceministro Francesco Paolo Sisto. Prima dell’inizio della cerimonia, il segretario generale di Area Giovanni Zaccaro, gli ha consegnato dei dadi in segno di protesta per il sorteggio dei membri del Csm. “Chi non c’è, secondo me, ha sempre torto. La collaborazione istituzionale va mantenuta”, ha detto Sisto nel suo intervento. Certo è che la riforma procede verso l’approvazione senza modifiche, dunque la vera prova del nove sia per il governo che per le toghe sarà il referendum costituzionale. Anticipato, però, da un clima che è già ora di aperto scontro istituzionale. La rivolta dei magistrati: “Il Governo ci sottomette” di Irene Famà e Elisa Sola La Stampa, 26 gennaio 2025 Via quando parla Nordio. All’anno giudiziario esplode la protesta delle toghe con Costituzione e tricolore: “Noi umiliati dal governo”. Il ministro: “Questa riforma non è punitiva”. Alta in mano una copia della Costituzione. Sul petto la coccarda tricolore. Poi l’Aventino. I magistrati lasciano l’aula. A Napoli, quando parla il ministro Carlo Nordio. A Roma, quando interviene il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. A Torino, Milano, Bari. E in tutte le ventisei Corti d’appello d’Italia in cui si celebra l’inaugurazione dell’anno giudiziario e interviene un rappresentante del Governo. Dopo mesi di accuse e accesi confronti, le cerimonie diventano palcoscenico dello scontro tra politica e magistratura sulla separazione delle carriere e le altre riforme sul tema giustizia. Napoli, i magistrati lasciano l’aula quando parla Nordio - Flash mob e proteste annunciate già negli scorsi giorni. Il Guardasigilli non si scompone. “Tutte le opinioni, tutte le manifestazioni di dissenso, sono benvenute”. E nella Sala dei Busti di Castel Capuano “ringrazia per una manifestazione estremamente composta. Il dissenso è il sale della democrazia”. Propone una riflessione, chi rimane in aula, in prevalenza avvocati, lo applaude per alcuni minuti. Il sottosegretario Mantovano, invece, dalla Capitale si prende una brevissima pausa. Ironizza: “Non vorrei disturbare l’uscita”. Poi domanda: “Domani, esaurita questa forma di protesta, cosa succede? Non vogliamo fare una riforma contro i magistrati: è una riforma per i cittadini”. A Napoli, oltre quattrocento toghe lasciano la sala. E il Guardasigilli si dice “addolorato che qualcuno possa pensare che questa riforma costituzionale sia punitiva per la magistratura”. Aggiunge: “Pensare che un ex magistrato come me, che ha servito lo Stato per oltre 30 anni, possa avere l’obiettivo di umiliare la magistratura è ingiusto”. E ancora: “Perché si deve leggere nella riforma quello che nella riforma non c’è?” . Afferma di non volere un pubblico ministero “sottoposto” all’esecutivo. “Non avverrà mai. Non avverrà “in my name”“. Aperture che non stemperano le proteste organizzate dall’Associazione nazionale magistrati. Nell’aula magna di Torino, Lucia Musti, procuratore generale, dice: “Non possiamo non rifiutare una riforma che ci conduce a diventare un corpo di burocrati, una magistratura requirente che ben si colloca temporalmente nell’Ancien regime al servizio del potere politico”. E un affondo contro l’ingerenza della politica arriva dal presidente della Corte d’Appello di Torino Edoardo Barelli Innocenti: “Non si può aggredire il singolo magistrato e additarlo al pubblico ludibrio solo perché non si condivide la decisione che ha preso: questa è barbarie”. Aggiunge: “Se i giudici non devono fare politica, i politici non devono fare i giudici, anche se, talvolta, in un momento di sconforto, verrebbe voglia di dire: venite voi a fare il nostro lavoro e nelle condizioni in cui lasciate i nostri uffici. Ma poi no, non è il caso”. Mario Bendoni, presidente dell’Anm del Piemonte e della Valle d’Aosta, parla di “clima preoccupante, condito da attività di profilazione e dossieraggio sulla vita privata dei magistrati”. Nella Capitale gli alti magistrati ai vertici della Corte d’appello sottolineano l’inutilità della riforma. “Non vogliamo credere che abbia una finalità punitiva nei confronti della categoria - sostiene il Procuratore generale Giuseppe Amato - Non riusciamo allora a capire come la riforma possa dare una risposta seria al problema vero della giustizia: quello dell’efficienza e dei tempi”. A Milano, per bocca del consigliere togato del Csm Dario Scaletta, spunta la celebre espressione di Francesco Savero Borrelli, procuratore capo al tempo di Mani Pulite, “resistere, resistere, resistere”, e le toghe si schierano davanti al Palagiustizia. Mentre a Genova le toghe urlano: “Viva la Costituzione”. Dall’Anm, il segretario generale Salvatore Casciaro commenta: “Dal Governo non c’è mai stata un’apertura al dialogo. Non c’è stato iter di una riforma costituzionale condivisa”. Magistrati ed ex magistrati insieme contro la riforma. E l’ex procuratore Antimafia Federico Cafiero de Raho spiega: “Così si riduce la tutela dei cittadini e si indebolisce la magistratura. Questa riforma giova alla politica, che soffre del controllo di legalità”. Era a Napoli, ma non ha lasciato l’aula durante l’intervento del ministro: “Sono rimasto per rispetto istituzionale”. Lo scontro poi si sposta sul versante della politica, con il presidente del Senato Ignazio La Russa, che dice: “Nessuno può arrogarsi il diritto di cancellare quelle che sono le decisioni che prende il Parlamento”. E il leader della Lega Salvini che attacca: “Si può contestare, ma i magistrati sono pagati per applicare le leggi, non per contestare o sovvertire le leggi”. Il ministro Antonio Tajani invece invita i magistrati “a leggere la Costituzione” e definisce la protesta “non rispettosa della Carta”. Noi fuori da quell’aula in difesa dei cittadini di Vittorio Barosio e Giancarlo Caselli La Stampa, 26 gennaio 2025 Non si era mai vista. Non si era mai vista una contestazione silenziosa, ma così precisa e dura, da parte della magistratura, nei confronti del potere politico e in particolare del Ministro della Giustizia. Ieri mattina, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, i magistrati del distretto giudiziario Piemonte e Valle d’Aosta sono usciti in silenzio dall’aula, numerosi e compatti, nel momento in cui ha iniziato a parlare la rappresentante del Ministero e sono rientrati soltanto quando lei ha terminato il suo discorso. Gran parte dei presenti, tra cui i sottoscritti, ha condiviso questa protesta in difesa della Costituzione. Il punto centrale della giornata è stato quello relativo alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Questa separazione è presentata dal Ministro Nordio, con una sostanziale manipolazione delle parole, come una riforma della giustizia e non, com’è realmente, come una riforma della magistratura diretta a delegittimare e a mortificare quest’ultima. Riforma che oltretutto non è, come viene sostenuto, a costo zero, ma ha invece costi molto elevati. Infatti la separazione comporterebbe non uno, ma due concorsi d’ingresso alla carriera; non uno, ma due Csm; e in più un’Alta Corte disciplinare. Inizierebbe così - checché ne dica il Ministro - un percorso dei pubblici ministeri che, in quanto sganciati dalla cultura della giurisdizione, diventerebbero inesorabilmente un corpo separato alle dipendenze, in un modo o nell’altro, del potere esecutivo. Verrebbero pesantemente indebolite la tutela e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge perché il potere esecutivo sarebbe legittimato ad impartire ai pubblici ministeri direttive su che cosa fare e su che cosa non fare. Il potere politico potrebbe cioè indirizzare i pubblici ministeri ad applicare la legge in modo distorto e diseguale. Ne deriverebbe così, ad esempio, l’impedimento a svolgere processi per corruzione o per collusione con la mafia nei casi implicanti soggetti politici o comunque legati al potere. E così magari, alla fine della storia, qualche buontempone, vista l’impossibilità di fare processi in questa materia, dirà che sono sparite la corruzione e la collusione con la mafia. Ma questo risultato fasullo non corrisponde evidentemente alle esigenze di uno Stato di diritto e all’impegno assunto dai magistrati che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Se è vero - come sembra - che questa riforma della magistratura rappresenta uno scambio di favori tra i partiti politici della maggioranza, ciascuno dei quali vuole mantenere fede al suo programma (che comprende il premierato e l’autonomia differenziata), si tratta di uno scambio contrario all’interesse dei cittadini e quantomeno assai discutibile. Salvato: “Questa riforma non serve e si rischia un pm più forte. La protesta? Meglio il dialogo” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 gennaio 2025 Il pg della Cassazione: “I problemi della giustizia sono altri”. “Credo che la questione vada affrontata senza evocare scenari apocalittici, dal momento che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non tocca i cardini e i principi fondamentali dell’ordinamento democratico, né quelli dell’Unione europea che non prevedono un modello unico di pm”. Allora perché lei è contrario? “Perché non esistono ragioni valide per andare oltre la totale separazione delle funzioni tra giudici e pm che già esiste. E le principali criticità addotte per giustificare la separazione delle carriere non verranno affatto risolte dalla sua introduzione. Anzi, si rischia di aggravarle”. Il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, che tra meno di due mesi andrà in pensione lasciando il ruolo di pubblico ministero più alto in grado d’Italia, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario ha invitato le forze politiche a evitare “indirette rivalse che sgretolino l’indipendenza della giurisdizione”, ricordando che “mai può giovare all’equilibrio tra poteri l’immagine di una magistratura inutilmente sfregiata agli occhi dei cittadini”. E ora spiega perché la riforma costituzionale fortemente voluta e propagandata dal governo non lo convince. Anzi, lo preoccupa. Una delle ragioni, sostenuta anche dal ministro della Giustizia, è il presunto strapotere dei pm che si avventurano in indagini fondate sul nulla, come dimostrerebbe l’alto numero di assoluzioni. “Sulle posizioni politiche espresse dal ministro preferisco non pronunciarmi. Ma in realtà proprio le assoluzioni frequenti sono la prova che non c’è alcun atteggiamento di acquiescenza del giudice nei confronti del pm. E se questo divario esiste già con un pm inserito in un unico ordine giudiziario, formato all’interno di una stessa cultura della giurisdizione, quando l’accusatore apparterrà a un corpo separato tenderà ad allargarsi”. Perché? “Perché la riforma non tocca l’indipendenza e l’autonomia del pm garantiti attualmente, e dunque ci troveremo di fronte a un pm che conserva struttura e status del giudice, ma separato, e quindi più forte. Realizzando una vera e propria eterogenesi dei fini”. Pensa anche lei, come l’Anm e la maggioranza dei magistrati contrari alla riforma, che questa sarà l’anticamera della sottoposizione del pm al potere esecutivo? “È una congettura che potrà rivelarsi vera o falsa, ma in quanto congettura non favorisce un dibattito serio. Il punto è che la riforma rafforzerà la figura del pubblico ministero, a scapito delle garanzie offerte attualmente al cittadino. Oggi il pm ha comunque il dovere di essere imparziale e di cercare prove anche a favore dell’indagato, ma domani si vedrà premiato solo sulla base delle condanne ottenute, e questo comporterà maggiori difficoltà per la difesa delle persone coinvolte”. I pm che cercano prove a favore degli indagati, già oggi, non sembrano così tanti… “E domani rischiano di essere ancora meno! Le riforme di sistema non si possono basare sulle patologie o sugli errori dei singoli: senza equilibrio, correttezza e coerenza morale di tutti i magistrati non ci sono separazioni che tengano, si possono erigere muri ma le distorsioni ci saranno sempre. Gli errori vanno corretti attraverso le regole processuali, e già la riforma Cartabia del 2022 ha introdotto, ad esempio, norme più stringenti per le richieste di rinvio a giudizio, che si possono fare solo di fronte a una ragionevole prognosi di condanna”. Ma l’idea del giudice equidistante da pm e difensore, come nel triangolo isoscele sempre illustrato dal viceministro della Giustizia Sisto, non la convince? “Lo stesso viceministro Sisto ha detto, come riportato dalla stampa, che l’obiettivo è quello di un “giudice gigante” e a me, da cittadino, un giudice gigante preoccupa. Come il pm gigante. L’equidistanza non si ottiene con la separazione delle carriere, ma realizzando pienamente il principio che la prova si forma in dibattimento, senza dare peso a tutte le acquisizioni del pm al di fuori della fase dibattimentale. E ancora una volta non vedo alcuna coessenzialità tra il rito accusatorio e la separazione delle carriere”. Che dovrebbe servire, dicono i suoi fautori, anche ad evitare la gogna dei processi mediatici. Non è così? “Temo proprio di no. Di nuovo la riforma Cartabia ha stabilito che la mera iscrizione sul registro degli indagati non può e non deve avere effetti per la persona coinvolta, proprio per disinnescare la gogna mediatica; un principio troppo spesso dimenticato da opinione pubblica e organi di informazione. E con un pm separato e più forte, il problema può aggravarsi anziché risolversi. I mali che affliggono la giustizia penale sono tanti, ma a nessuno di questi la separazione delle carriere pone rimedio; mettendo su due piatti della bilancia vantaggi e svantaggi, credo che gli svantaggi pesino molto di più”. Neanche la creazione di un’Alta corte disciplinare svincolata dal Consiglio superiore della magistratura la convince? “Su quella sono d’accordo, ma non si può fare solo per la magistratura ordinaria. Perché lasciare fuori quella amministrativa, tributaria, contabile e militare? Lì non ci sono criticità? Inoltre, a fronte di due Corti distinte è rimasto un unico organo d’accusa, cioè la Procura generale della Cassazione che attualmente dirigo, e questo mi pare illogico, tanto più con la separazione delle carriere: come può il pg esercitare l’azione disciplinare anche nei confronti dei magistrati giudicanti?”. Un’altra eterogenesi dei fini? “Certo, perché così si realizzerebbe davvero una forma di condizionamento del giudice da parte del pm. Meglio un organo requirente esterno e unico, che garantirebbe una giustizia disciplinare coerente per tutte le magistrature. Infine penso che andrebbe composta con il meccanismo previsto per la Corte costituzionale, anziché i togati per sorteggio e i laici eletti dal Parlamento”. E il sorteggio per la composizione dei due Csm, come lo giudica? “Contrario ai principi essenziali della democrazia. Perché allora non sorteggiare anche i consiglieri comunali? Vogliono rimuovere le degenerazioni del correntismo e le aggregazioni che si formano per finalità spartitorie, che esistono e sono una reale stortura, ma temo che inevitabilmente si riproporranno anche col nuovo sistema. Il sorteggiato avrà sempre amicizie, conoscenze e appartenenze che lo porteranno ad allearsi con uno piuttosto che con un altro”. Che cosa pensa della protesta dei magistrati alle cerimonie di ieri nelle corti d’appello? “Il pensiero, anche critico, va sempre esplicitato, ma in una logica costruttiva. Meglio il dialogo, sia pure aspro e serrato, che il rifiuto di ascoltare. La radicalizzazione del confronto, che porta inevitabilmente allo scontro, andrebbe evitata. Da parte di tutti”. Il procuratore Bellelli: “Vogliono la giustizia differenziata: un pm forte solo con i deboli” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2025 “Si va verso qualcosa che fa paura, il tramonto dell’uguaglianza dell’azione penale”. Il procuratore di Pescara Giuseppe Bellelli, già al suo insediamento, nel 2021, aveva parlato di “faro della costituzione”. Oggi che la maggioranza politica quella costituzione la vuole modificare pensa che sia “doveroso” per un magistrato far capire ai cittadini che non è una banale separazione delle carriere di pm e giudici ma bel altro. Procuratore lei pensa che già la definizione della riforma sia una mistificazione… Le parole sono importanti. Le carriere sono già separate di fatto, perché ogni anno c’è meno dello 0,5% dei magistrati che passa da una funzione all’altra. E con la riforma Cartabia ci può essere un solo cambio di funzioni in tutta la vita professionale. In realtà così come c’è l’autonomia differenziata adesso si vuole arrivare alla giustizia differenziata. Che vuol dire? Che avremo da un lato i giudici e dall’altro un pm fortissimo, un super poliziotto che dovrà inevitabilmente avere una forma di controllo da parte della maggioranza politica, del governo di turno. Quindi immagino un pm forte con i deboli e debole verso il potere. Cioè se la riforma sarà realtà avremo una giustizia per ceti? C’è anche questo rischio. Il segno dei tempi è questo, vedendo le novità legislative in atto, come l’inasprimento di pene e nuove figure di reato per colpire il dissenso. Si vuole perseguire chi fa resistenza passiva (il riferimento è al ddl sicurezza, ndr). Dall’altro lato abbiamo assistito alla legalizzazione dell’abuso di potere, perché così chiamo la cancellazione del reato di abuso d’ufficio. Ma il ministro Carlo Nordio dice che state protestando contro qualcosa che non c’è nella riforma che separa le carriere perché il pm resterà indipendente… L’argomento principale dei fautori della riforma è che va fatta perché il giudice è condizionato dal pm. È falso, di media oltre il 48% delle richieste dei pm vengono respinte dai giudici. E aggiungo: ma se si ha così a cuore la terzietà dei giudici allora bisogna separare la carriera dei giudici d’appello che devono giudicare il lavoro dei colleghi di primo grado e quella dei giudici di Cassazione da quelli d’appello. Ovviamente è un assurdo. La motivazione vera della riforma è che si vogliono pm che tenderanno ad assecondare il governo. Non ci sarà la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura dato che ci saranno due Consigli superiori, uno per pm e uno per giudici, con membri togati sorteggiati, che non saranno rappresentativi. Vogliono snaturare la Costituzione che è nata dalla Resistenza e ha stabilito un bilanciamento dei poteri. Si va verso qualcosa che fa paura, il tramonto dell’uguaglianza dell’azione penale. Vedere i magistrati in tutta Italia con la costituzione in mano e la coccarda tricolore appesa alla toga può sembrare una esagerazione, una protesta corporativa... Non possiamo restare in silenzio. Come magistrati abbiamo il dovere di testimoniare che questa riforma interessa tutti. Ribadisco, non è una separazione delle carriere ma è un vulnus al principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. Non ci sarà l’indipendenza pensata dai nostri padri costituenti. Secondo lei i cittadini vi capiscono? Se si continua a parlare di separazione delle carriere, che è fuorviante, per le ragioni esposte prima, non possono capirci. Nemmeno a me interessa la carriera, tra l’altro una brutta parola per i magistrati che finora si distinguono per funzione e non per grado. In gioco ci sono valori costituzionali che toccano tutti. È il motivo per cui, e io sono d’accordo, l’Anm ha deciso la protesta durante le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario e lo sciopero del 27 febbraio. Il nostro è un grido d’allarme e spero che si leveranno altre voci in difesa della costituzione nata dalla resistenza contro il fascismo, quando il pm era il procuratore del Re. Fuga dei dipendenti e tempi biblici, il grande ingorgo dei tribunali di Monica Serra La Stampa, 26 gennaio 2025 Personale carente e processo telematico che non decolla. E le regioni del Nord Italia soffrono di più. Le carenze “strutturali” di personale, le pendenze e i tempi biblici - ma in via di riduzione - dei procedimenti, il processo penale telematico che non decolla. Sono tanti i problemi della giustizia che anche ieri, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario nei 26 distretti delle Corti d’Appello italiane, i magistrati hanno denunciato, snocciolando dati di un ingorgo che le ultime riforme - Cartabia e Nordio - non hanno risolto. Se da una parte, come ha annunciato il ministro della Giustizia Carlo Nordio davanti al Senato, “entro il 2026 sarà colmato il numero di magistrati previsti nell’ordinamento, che è sempre stato carente del 20 per cento”, il vero problema resta, soprattutto nelle regioni del Nord, la mancanza del personale amministrativo e dei magistrati onorari e giudici di pace anche fronte di un aumento delle loro competenze voluto dalle riforme. Solo al Tribunale di Milano, “su un organico di 120 giudici onorari, ne sono presenti solo 70 (contro i 78 dell’anno scorso) - ha spiegato il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei - e su un organico di 180 giudici di pace ne sono presenti solo 42 (contro i 50 del 2024)”. Ma anche in molti altri Tribunali italiani, le scoperture si attestano sopra il 50 per cento. Oramai strutturale la mancanza del personale amministrativo che rallenta l’attività degli uffici giudiziari tra segreterie accorpate e magistrati costretti a svolgere anche il lavoro di cancelleria. “Gravi, se non gravissime le carenze di organico amministrativo” nelle 11 procure del distretto Piemonte e Valle d’Aosta, come ha sottolineato la procuratrice generale di Torino Lucia Musti: “La percentuale di scopertura del personale amministrativo degli uffici requirenti del distretto varia dal 30 al 50 per cento per ciascun ufficio e per alcune figure professionali supera anche il 50”. Emblematico e “senza speranza” il caso di Ivrea “con 34 amministrativi sui 62 previsti nell’organico”. Non è migliore la situazione in Lombardia, col -60% alla procura di Sondrio e oltre il -35 in quelle di Milano, Varese, Pavia e Como, con la procuratrice generale, Francesca Nanni, che sottolinea la “drammatica fuoriuscita di dipendenti migrati verso altre amministrazioni” che garantiscono “attrattive condizioni di lavoro e prospettive di miglioramento di carriera in altri Ministeri”. Per quanto riguarda invece gli obiettivi di riduzione dell’arretrato civile pendente al 2019, richiesti dal Pnrr “a fronte di un target atteso del -95 % da raggiungere entro il dicembre del 2024, al 31 ottobre 2024 presso le Corti di Appello è stata registrata una riduzione del -99,1% mentre presso i tribunali ordinari la riduzione si è attestata al -91,7%”, ha spiegato il Guardasigilli davanti al Senato. E, in base ai dati più recenti forniti dal ministero, che si fermano al primo semestre del 2024, anche i tempi di trattazione dei procedimenti si sarebbero ridotti: del -22,9% nel civile e del 32% nel penale. C’è poi il tema del sovraffollamento delle carceri, denunciato ieri in ogni distretto di Corte d’Appello, che secondo l’ultimo rapporto del Garante per i detenuti, ha raggiunto il 133,44%: al 25 novembre scorso, il numero dei reclusi risulta di 62.410 su una capienza di 51.165 ma 46.771 posti effettivi. I picchi tra il 170 e il 149% di sovraffollamento si registrano in Puglia, Basilicata, Lombardia, Veneto e Lazio. Per ultimo, c’è il mancato decollo del processo penale telematico con il Csm che quattro giorni fa ha denunciato “gravi, numerosi e significativi malfunzionamenti e difetti” della App (l’Applicativo del processo penale) che hanno indotto diversi tribunali - a partire da Roma, Napoli e Milano - a sospendere l’obbligo di caricare gli atti del processo sulla piattaforma del Ministero. Il Csm parla di “criticità non suscettibili di immediata risoluzione” in 87 Tribunali, aggiungendo che “l’obbligatorietà” è stata prevista “senza un’adeguata sperimentazione”, facendo ricadere “sugli uffici e sugli utenti la progressiva scoperta dei bug e dei malfunzionamenti” Criticità che, sostiene il ministro Nordio, “entro la fine dell’anno saranno superate” per riuscire a “rientrare nei vincoli del Pnrr”. Mancanza di senso critico verso la condanna: ostacolo alla semilibertà studiocataldi.it, 26 gennaio 2025 La mancanza di senso critico verso la condanna può costituire un ostacolo alla concessione della semilibertà. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2214 del 2025. Il ricorrente, detenuto per reati gravi, aveva richiesto la semilibertà, sostenendo di aver rispettato le regole carcerarie e partecipato a programmi di rieducazione. Tuttavia, durante l’iter processuale, è emerso che l’imputato non aveva sviluppato una riflessione critica sul reato commesso, mostrando una scarsa consapevolezza della gravità delle proprie azioni. La decisione della Corte - La Corte ha sottolineato che, ai fini della concessione della semilibertà, non è sufficiente la mera buona condotta carceraria o la partecipazione a programmi rieducativi. È fondamentale che il detenuto dimostri una presa di coscienza del disvalore del reato commesso e una reale volontà di reinserimento sociale. La mancanza di senso critico verso la propria condanna indica una persistenza di atteggiamenti incompatibili con le finalità rieducative della pena. Implicazioni della sentenza - Questa pronuncia evidenzia l’importanza del percorso interiore del detenuto nel processo di rieducazione. La semilibertà non può essere concessa in assenza di una profonda riflessione critica sul reato e di un concreto ravvedimento. Le autorità competenti devono valutare non solo il comportamento esteriore del detenuto, ma anche la sua evoluzione interiore e la capacità di comprendere l’impatto delle proprie azioni sulla società. La sentenza in esame ribadisce che la concessione della semilibertà richiede una valutazione approfondita della personalità del detenuto e del suo percorso di rieducazione. La mancanza di senso critico verso la condanna rappresenta un elemento ostativo, poiché indica una mancata interiorizzazione dei valori fondamentali per un positivo reinserimento sociale. Calabria. “Le condizioni di vita nelle carceri sono inaccettabili” di Luana Costa cosenzachannel.it, 26 gennaio 2025 La presidente della Corte d’appello Concettina Epifanio dedica un focus all’emergenza: “Vergogna nazionale, detenuti in situazioni inumane e degradanti”. I penitenziari di Castrovillari, Rossano, Paola e Crotone scoppiano. “Il sovraffollamento carcerario è una vera e propria vergogna nazionale. Il detenuto non è un numero, non è una matricola, non è il reato che ha commesso ma è una persona”. Così la presidente della Corte d’appello Concettina Epifanio affronta l’emergenza carceri citando la Costituzione, le parole del cardinale Matteo Maria Zuppi e Papa Francesco. “Auspico che in quest’anno giubilare il Governo prenda seriamente a cuore la questione del sovraffollamento e delle condizioni, spesso inumane e degradanti in cui sono costretti a vivere i detenuti” è l’appello di Epifanio. Secondo quanto si legge nella relazione dal 2022 al 2023 la situazione nei penitenziari calabresi è peggiorata. “Il sovraffollamento riguarda tutte le carceri ad eccezione della casa circondariale di Catanzaro. In sei istituti su sette si registra una situazione di sovraffollamento - annota la presidente della Corte d’appello - che in alcuni casi sfiora percentuali preoccupanti: 132,79% a Castrovillari, 24% a Cosenza, 122% a Rossano, 3% a Vibo Valentia, 126,22% a Paola, 140% a Crotone. A rendere più difficile la situazione vi è la non completa copertura degli organici sia con riferimento ai funzionari giuridico pedagogici sia con riferimento alla Polizia penitenziaria. A fronte di tale gravissima situazione di sovraffollamento e criticità che porta inevitabilmente a un mancato rispetto dei diritti basilari dei detenuti, come quello della salute, lo Stato non può più rimanere inerte: il prezzo che si sta pagando è alto e intollerabile, visto il numero dei suicidi consumatosi non solo tra i detenuti ma anche tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria”. Gravi crepe nei sistemi di sicurezza delle carceri - “Altro dato critico è rappresentato dalla circostanza che negli istituti penitenziari del distretto è ristretto un elevato numero di stranieri, spesso indigenti, ma anche detenuti italiani in condizioni di estrema povertà, cui si fa fronte, in presenza dell’inerzia delle istituzioni, essenzialmente tramite il contributo del volontariato, apprezzabile, ma non certo sufficiente” prosegue nella sua relazione la presidente della Corte d’appello. “Permangono poi gravi crepe anche nel sistema di sicurezza degli istituti penitenziari: il culmine si è sicuramente toccato a marzo del 2020 quando le rivolte all’interno delle carceri e le evasioni di massa hanno messo in luce drammaticamente quanto sia facile prendere, da parte dei detenuti, il controllo di un istituto penitenziario. Eppure dopo tali fatti gravi che hanno avuto ampia risonanza mediatica la sicurezza all’interno delle carceri non è stata sufficientemente ripensata e sempre più spesso accade che si riesca a far entrare sostanze stupefacenti, telefoni cellulari ed altri oggetti non consentiti; inoltre, sono in aumento le aggressioni alla polizia penitenziaria ed al personale medico presente negli istituti”. Firenze. Sollicciano a picco: “Situazione igienica peggiorata ancora” di Stefano Brogioni La Nazione, 26 gennaio 2025 Resta drammatica la situazione del carcere di Sollicciano. Non c’è niente di buono nella relazione del tribunale di Sorveglianza sulla situazione del penitenziario fiorentino. Afflitto, oltre che dal sovraffollamento, dagli ormai cronici problemi strutturali, che nell’ultimo anno si sono ulteriormente aggravati “a causa del peggioramento della situazione igienico-ambientale”, sottolinea il presidente della corte d’appello Alessandro Nencini. Caldo d’estate, gelo d’inverno, infiltrazioni, topi, cimici, umidità, sporcizia. Inoltre, ha denunciato ancora Nencini, “permane infine del tutto disattesa la volontà della legge laddove intende assicurare a tutti i detenuti bagni connessi alle camere detentive muniti di acqua calda corrente e doccia”. Condizioni che hanno indotto la magistratura di sorveglianza a prendere provvedimenti di accoglimento dei reclami dei detenuti, “finanche scarcerazioni anticipate”. Per il presidente della corte d’appello “si rende necessario operare interventi di risanamento radicali che, già avviati negli anni pregressi per rilevanti importi (circa 11 milioni di euro), tra cui anche il ripristino della videosorveglianza interna, strumento indispensabile per consentire la piena applicazione nel carcere di Sollicciano della nuova circolare sulla “media sicurezza, sono sostanzialmente fermi dal febbraio 2023. Tale condizione rende la detenzione nel carcere cittadino particolarmente gravosa se non, in casi sempre più frequenti, contraria ai principi di umanità della pena per i condannati e dell’esecuzione delle misure cautelari per gli imputati (particolarmente colpiti nel caso specifico)”. Il procuratore generale Ettore Squillace Greco la costruzione di un nuovo carcere “è una soluzione che non va esclusa a priori, se una corretta analisi costi benefici la prospetta come la migliore concretamente praticabile”. “Il sovraffollamento, le carenze ora esposte, non solo concretano un trattamento degradante, lesivo della dignità delle persone detenute, ma incidono gravemente anche sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari. L’art. 3 della nostra Costituzione stabilisce che la dignità delle persone non può essere degradata, neanche se hanno commesso un reato”. Torino. Anno giudiziario: “Giusta la battaglia sul diritto all’intimità del detenuto di Asti” di Massimiliano Peggio La Stampa, 26 gennaio 2025 La dignità in carcere tra i temi dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il procuratore generale di Torino cita la protesta approdata in Cassazione. La dignità in carcere e i progetti mai attuati. Il procuratore generale Lucia Musti, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario, dopo le proteste dei magistrati contro la riforma che prevede la separazione delle carriere delle toghe, ha dedicato un passaggio alla battaglia ingaggiata da un detenuto del carcere di Quarto per ottenere la realizzazione di una “stanza dell’amore”. Un luogo riservato per i colloqui in intimità con moglie e compagne, senza la sorveglianza degli agenti. La Corte Costituzionale - “A proposito di dignità - ha detto il procuratore generale - occorre dare attuazione al diritto riconosciuto recentemente dalla Corte costituzionale all’affettività dei detenuti. Segnalo la recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione che, in accoglimento di un ricorso di un detenuto di Asti, ha annullato l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Torino e rinviato per nuovo giudizio”. Nell’ordinanza impugnata dal detenuto, il giudice di sorveglianza aveva accolto le giustificazioni del carcere, sull’impossibilità di realizzare uno spazio per colloqui di intimità, e respinto la sua protesta. Di fatto il carcerato si era appellato al giudice per obbligare la direzione della casa di reclusione a fare il possibile per creare un locale adeguato agli incontri affettivi. Il giudice aveva ritenuto che il suo appello non fosse sorretto da un diritto ma costituisse solo un’aspettativa. “La Cassazione, richiamando il contenuto della suddetta sentenza della Corte costituzionale - aggiunge Lucia Musti - ha in buona sostanza ritenuto che la richiesta di intimità con la moglie non è una mera aspettativa, ma un vero e proprio diritto, tranne nel caso che sussistano ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine. La questione degli organici - Organici carenti e difficoltà di gestione degli uffici giudiziari sono stati i temi toccati dal presidente della Corte d’Appello di Torino, Edoardo Barelli Innocenti. Mancano cancellieri, addetti agli sportelli, magistrati. Per tamponare le emergenze si fa ricorso “agli aiuti infradistrettuali”, cioè personale che si sposta da un tribunale all’altro per garantire la funzionalità degli uffici in sofferenza. Asti non è maglia nera nel panorama piemontese ma come gli altri tribunali si trova a navigare a vista. “Il tribunale di Ivrea Asti Verbania Alessandria che hanno scoperture negli organici del personale di oltre il 50%”, sottolinea Edoardo Barelli Innocenti. E aggiunge: “Da un anno i tribunali di Cuneo Asti e Alessandria sono senza autisti, ma siamo in attesa dell’esito di un concorso la cui conclusione era stata promessa già due anni fa”. La burocrazia - Ma al di là degli autisti, la macchina dell’intero sistema giudiziario sembra in grave difficoltà, ingolfata dall’eccessiva burocrazia. “Gli spostamenti di personale anche nella stessa città tra ufficio e l’altro - spiega il presidente della Corte d’appello - sono divenuti minuti molto più complicati per non dire farraginosi mentre avremmo bisogno di molta più flessibilità e procedure più agili”. Il tribunale di Asti, come del resto Ivrea e Alessandria, può funzionare grazie all’apporto degli addetti all’ufficio per il processo. “In gran parte - ricorda Barelli Innocenti - giovani neolaureati che aiutano i giudici nel lavoro quotidiano e che però sono assunti a tempo determinato e non dovrebbero svolgere compiti di cancelleria se non in misura parziale. Purtroppo non è così”. Bologna. Sovraffollamento e poche attività, allarme Pratello di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 26 gennaio 2025 Il Garante dei detenuti visita il carcere minorile: “Sempre più simile a quello degli adulti”. “Bisogna constatare con preoccupazione la presenza di 51 ragazzi, a fronte di una capienza regolamentare di 40 (21 i maggiorenni e 29 i ragazzi stranieri, di cui una parte assai rilevante sono minori non accompagnati), numeri che fanno sì che risultino deteriorate, in maniera evidente, tanto le condizioni detentive dei ragazzi, quanto le condizioni lavorative dello staff”. Il garante dei detenuti del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, lancia l’allarme sulle gravi criticità presenti nel carcere minorile del Pratello, dopo aver effettuato un sopralluogo nell’istituto penitenziario dove confluiscono i reclusi minorenni da tutta l’Emilia-Romagna. “All’origine dell’esacerbazione delle criticità - spiega Ianniello - c’è l’apertura del secondo piano detentivo, visto che da quel momento c ‘è stato un drastico peggioramento della situazione, con un’acme negativa a partire da maggio, quando si è avuta una concreta e accentuata riduzione delle attività educativo-trattamentali per la grave carenza di organico della Polizia penitenziaria”. “Anche se dopo l’estate è stato stabilmente ripristinato il regolare svolgimento delle attività, nei fatti - denuncia - si può parlare di un’inaccettabile e progressiva assimilazione della detenzione minorile a quella degli adulti, con un aumento di tempo trascorso nelle celle”. “In questo contesto, nel quale sono aumentate le dinamiche di sopraffazione da parte di alcuni ragazzi, con le vittime che tendono a isolarsi, scegliendo di restare chiuse in cella, è urgente intervenire per offrire ai ragazzi un’esperienza detentiva di qualità, per quanto possibile” avverte. Sul versante del personale, “mancano, per varie ragioni, almeno dieci addetti alla sicurezza, mentre è confortante il dato relativo all’organico delle professionalità giuridico-pedagogiche, che ha visto con il nuovo anno un’integrazione di sei unità”. “Il dato sulle presenze negli istituti penali per i minorenni - sottolinea Iannello - indica un severo incremento anche in correlazione, secondo un’interpretazione assai verosimile, agli effetti del cosiddetto Decreto Caivano, che ha ampliato la possibilità di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti dei ragazzi”. Problema “risalente” anche quello del Tribunale dei minori: “C’è la grossa questione della tirchieria del Demanio, perché riuscire a fare a Bologna gli spostamenti necessari con quanto stanzia il Demanio è praticamente impossibile, però risolveremo anche questo, con un po’ di fatica. Adesso si va, poi vedremo”, dice il presidente dell’Ordine degli avvocati del capoluogo emiliano Flavio Peccenini. Venezia. Anno giudiziario: “Crescono suicidi in carcere, preoccupante il sovraffollamento” veneziatoday.it, 26 gennaio 2025 La cerimonia si è svolta sabato mattina alla Corte d’Appello di Venezia. Protesta dei magistrati contro la riforma della giustizia: hanno lasciato l’aula quando ha parlato il sottosegretario Ostellari. Una cinquantina di magistrati, sabato mattina, hanno abbandonato la sala della Corte d’Appello di Venezia prima dell’inizio del discorso del sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025. Una protesta ampiamente annunciata, contro la riforma della giustizia varata dal ministro Carlo Nordio, che prevede la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Al termine del discorso di Ostellari, i magistrati hanno fatto rientro in aula, per il discorso del procuratore generale, Federico Prato. Così come anticipato venerdì nel corso di una conferenza stampa con i giornalisti, Prato ha fatto il punto sulla giustizia in Veneto, evidenziando anche le criticità. A partire dal sovraffollamento delle carceri: a fronte di una capienza di 1.947 posti, negli istituti penitenziari del Veneto sono reclusi 2.675 detenuti, poco meno della metà dei quali (1.261) stranieri. Il dato delle presenze in carcere è “davvero preoccupante” e in costante aumento rispetto quello degli anni precedenti, ha rilevato il procuratore geneale: nel 2023 i detenuti erano 2.481, nel 2022 2.345 e nel 202, invece, 2.345. Tutti gli istituti penali “segnalano una presenza di detenuti superiore a quella regolamentare, con la sola eccezione della Casa di Reclusione femminile di Venezia - ha precisato Prato -. ln particolare significative sono le percentuali di sovraffollamento nelle case circondariali di Verona, Vicenza, Venezia e anche in quella di Padova dove da tempo sono assegnati anche detenuti definitivi con pena inferiore a cinque anni”. Cresce il numero dei suicidi (anche quelli tentati), ma “per la prima volta da anni - ha aggiunto Prato -, si registra un lieve calo degli atti di autolesionismo il cui numero è comunque ancora significativo. Drammatica è stata la situazione, in particolare, presso la casa circondariale di Verona, dove si sono registrati, nel periodo in esame, cinque degli otto suicidi”. A preoccupare è anche l’aumento dei reati in materia di libertà sessuale e stalking, per i quali si registra una impennata del 43%, con sei femminicidi. “Sempre più frequenti - ha precisato Prato - sono i casi di maltrattamento in danni di genitori anziani o comunque di familiari da parte di figli o compagni conviventi, affetti da problematiche di ludopatia e/o di dipendenza alcolica o da sostanze stupefacenti. In tali casi il ricorso allo strumento repressivo-cautelare appare di limitata efficacia e dimostra la scarsa presenza del sistema pubblico assistenziale”. Mantova. Si suicidò nell’Opg di Castiglione delle Stiviere, il caso finisce davanti alla Cedu giustiziari.it, 26 gennaio 2025 La storia è quella di G., un giovane reatino che nel 2008 si tolse la vita annodando le lenzuola alle sbarre della finestra di una cella dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove era stato trasferito da Rieti in quanto la sua condizione appariva incompatibile con il regime carcerario. Un suicidio annunciato, i cui i segnali premonitori erano stati evidenziati dagli allarmi lanciati dai diversi consulenti chiamati a occuparsi del caso, ma senza che venisse adottata alcuna misura per cercare di prevenire il gesto che, poi, il giovane mise in atto. Il ricorso - Questo caso è finito adesso davanti alla Corte Europea per i diritti dell’uomo per iniziativa di un avvocato reatino, che esercita da anni nel foro di Parigi, Federico Euforbio, il quale nel ricorso con cui chiede il giusto risarcimento per la famiglia di G., mette sotto accusa l’inerzia e le responsabilità dello Stato italiano che non è stato in grado di scongiurare il suicidio del giovane, nonostante gli allarmi e le relazioni dei medici psichiatri che non lasciavano spazio a interpretazioni diverse. L’avvocato Euforbio ha ricevuto il 20 gennaio da Strasburgo la comunicazione della cancelleria in cui viene fornita assicurazione che “il caso sarà esaminato prima possibile” e questo rappresenta un momento importante per il legale, che commenta: “E’ un passaggio particolarmente significativo anche rispetto ai dati statistici forniti dalla stessa Cedu per il 2023, secondo cui il 67 per cento dei ricorsi introdotti viene dichiarato inammissibile, e questo ci fa sperare che le nostre richieste troveranno giudici attenti a valutare in maniera più approfondita l’intera vicenda”. Le cause - Una vicenda, quella di G., figlia dell’uso della droga e della schiavitù che genera in chi non riesce a uscire dal tunnel della tossicodipendenza, che aveva generato comportamenti tipici dei soggetti in crisi di astinenza, sfociati in episodi di aggressioni, anche nei confronti di alcuni familiari. Così, dopo una denuncia, era stato arrestato per le violenze, ma poi le sue condizioni avevano imposto il trasferimento nell’ex ospedale psichiatrico in provincia di Mantova, poi chiuso dopo la creazione delle Rems. La perizia del professor Enrico Mei, esperto nominato dalla famiglia, aveva evidenziato il rischio concreto di suicidio da parte del giovane ed elencato una serie di aspetti allarmanti della sua personalità, non ultimo richiamando alcuni episodi di autolesionismo e frasi che lasciavano poco spazio a interpretazioni diverse. Ma nessuno, ad avviso della difesa, dispose una sorveglianza più attenta per quel giovane e nel 2008 G. si tolse la vita. Una morte annunciata, mai accettata dai familiari, che contro il ministero della Giustizia avviarono nel 2011 una causa civile chiedendo il risarcimento come danno provocato dal comportamento omissivo dello Stato. Tre gradi di giudizio, fino alla Cassazione, tutti terminati con il rigetto della richiesta nonostante un’altra perizia, questa volta ordinata dai giudici e affidata al professor Fabrizio Iecher, un esperto della psichiatria, fosse arrivata alle stesse conclusioni allarmanti di quella del professor Mei. Ma non ha fermato la battaglia della famiglia di G. ed è approdata davanti alla Corte europea, segnando un primo risultato a favore: il ricorso contro l’Italia ha superato il vaglio dell’ammissibilità e sarà esaminato dalla Corte giudicante. Lecce. “Mio figlio si è ammalato di scabbia in carcere ma non ha giuste cure” di Francesco Oliva La Repubblica, 26 gennaio 2025 Il 30enne, racconta la donna, è stato trasferito a Bari e dopo a Potenza. Sta scontando una pena di 2 anni e 2 mesi. In estate i primi sintomi, poi la diagnosi della malattia. “È giusto che sconti la pena, ma è disumano non aiutare chi ha un problema di salute”. “Mio figlio sta male. Ha contratto la scabbia in carcere ma non viene curato”. Il grido di aiuto è quello di Agnese, di Galatina (Lecce), madre di un detenuto 30enne, in carcere perché deve scontare una pena di due anni e due mesi per spaccio di droga. La donna non si dà pace da mesi. “È giusto che sconti la sua condanna”, precisa Agnese. Ma, aggiunge: “Mio figlio non dorme da mesi, soffre tanto. Non è giusto che una persona, anche se in carcere, debba stare così male. È disumano non aiutare chi ha un problema di salute”. Le condizioni di salute stanno peggiorando giorno dopo giorno. Dal 16 dicembre 2023 fino al 7 agosto 2024 il 30enne è stato recluso all’interno del carcere di Lecce “proprio nel penitenziario di borgo San Nicola - racconta Agnese - a inizio estate ha iniziato ad accusare i primi sintomi: prurito intenso, eruzioni cutanee che pian piano si sono diffuse su tutto il corpo”. Il 7 agosto, poi, il ragazzo è stato trasferito nel carcere di Bari. “Dopo pochi giorni la situazione è peggiorata notevolmente - ricostruisce Agnese - la diagnosi di scabbia è arrivata a fine dicembre quando è stato trasferito nell’istituto penitenziario di Potenza, ma in tutto questo lungo tempo non ha ricevuto alcuna cura”. Rabbia, dolore, frustrazione. “Nessuno sta prendendo provvedimenti, ho contattato tanti medici - dice - ma mi trovo con le mani legate perché mio figlio non sta seguendo una terapia precisa. Vorrei tanto far entrare in carcere un medico, per una visita accurata e sapere come sta veramente, non gli danno le medicine e le terapie adeguate”. Torino. Nasce un premio in memoria di don Ricca, per 40 anni cappellano del carcere minorile di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 26 gennaio 2025 “In ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto”. Sono parole di san Giovanni Bosco che ancora oggi rivolge ai suoi figli, i salesiani e alla famiglia che si ispira al suo carisma, presenti in 133 nazioni dei 5 continenti. Parole che, per chi ha avuto la fortuna di incrociare le sue strade, sintetizzano la vita di don Domenico Ricca - per tutti don Meco - salesiano e cappellano per 40 anni dell’Istituto penitenziario minorile di Torino “Ferrante Aporti”, ai tempi di don Bosco “La Generala”, il riformatorio dove il santo trascorreva molti pomeriggi con i ragazzi “discoli e pericolanti del tempo”. E fu proprio dietro quelle sbarre che don Bosco inventò il suo sistema preventivo e gli oratori: per questo da allora i cappellani del “Ferrante” sono salesiani. A don Ricca, scomparso il 2 febbraio scorso a 77 anni, il Forum del Terzo settore in Piemonte (di cui fu tra i fondatori) e i Salesiani del Piemonte e della Valle d’Aosta promuovono la prima edizione del Premio letterario “Meco” rivolto a giovani e adulti (19 anni e oltre) e adolescenti (14-18 anni). Una sezione speciale è riservata ai giovani ristretti all’Ipm “Ferrante Aporti” a cui don Meco ha dedicato la sua vita di sacerdote e cappellano, servizio che ora prosegue con passione e il suo confratello don Silvano Oni. Tema scelto per il concorso, sostenuto da numerosi enti e associazioni con cui don Ricca ha collaborato (la Voce e il Tempo è media partner), è “Dietro le Sbarre” inteso come detenzione “sia in senso fisico che psicologico e sociale”. I partecipanti sono invitati a condividere, attraverso la scrittura, riflessioni, esperienze reali o immaginate legate al tema, “mettendo in luce sia le difficoltà che il potenziale di rinascita”. Gli elaborati (saggio breve, poesia o racconto) vanno consegnati entro il 31 marzo e il 5 maggio verranno comunicati i finalisti. La premiazione si terrà al Salone del Libro di Torino (15-19 maggio) dove verrà presentata una pubblicazione con i migliori elaborati il cui ricavato della vendita sarà interamente devoluto alla Comunità Harambée di Casale Monferrato che accoglie e sostiene minori fragili. Fanno parte della giuria scrittori - tra cui Margherita Oggero e Younis Tawfik” il giudice minorile Ennio Tomaselli, Claudio Sarzotti, docente di sociologia e direttore della rivista Antigone, esperti di educazione e scienze sociali. Il bando si può scaricare su: www.terzosettorepiemonte.it/wp-content/uploads/2025/01/bando-regolamentopremio-meco-forum.pdf Padova. I rugbisti del CUS Padova entrano in carcere per un torneo con i detenuti cuspadova.it, 26 gennaio 2025 Sabato 25 gennaio, alla Casa Circondariale di via Due Palazzi, andrà in scena il primo torneo “Rugby in carcere” a coronamento del progetto che ha portato i tecnici del CUS a insegnare la disciplina a un gruppo di gruppo di utenti della sezione Icatt Custodia Attenuata. Una giornata storica per il CUS Padova, il carcere di Padova ma anche per il mondo del rugby. Sabato 25 gennaio, a coronamento del secondo anno del progetto “Rugby in carcere”, andrà in scena un torneo amichevole tra squadre composte da detenuti della casa circondariale e una selezione di rugbisti padovani. Per la prima volta, dopo un anno di pratica e allenamenti, gli atleti detenuti potranno confrontarsi con dei rugbisti agonisti, in una mattinata all’insegna di quei valori dello sport che educatori e tecnici hanno trasmesso nel corso dei vari incontri. Il progetto. Il progetto “Rugby in carcere”, finanziato dall’Amministrazione Penitenziaria di Padova, di cui capofila la UOC Tutela della Salute delle Persone con limitazione della libertà, ha come ente partner di realizzazione il CUS Padova. L’iniziativa è cominciata nel 2023 e si è rivolta a un gruppo di utenti della sezione ICATT Custodia Attenuata della Casa circondariale di Padova. Nella prima stagione i partecipanti SONO stati coinvolti, con cadenza bisettimanale, in venti incontri della durata di due ore ciascuno. Nella prima fase hanno approfondito le regole fondamentali e lo “spirito” del rugby, con particolare attenzione all’accettazione, al rispetto della regola e alla lealtà nella partecipazione. Quindi, sul campo, sono stati insegnati loro i fondamentali e le tecniche di “affrontamento” e “evitamento”, passo fondamentale per arrivare allo svolgimento delle partite. Nella seconda stagione, cominciata a settembre 2024, l’iniziativa si è allargata coinvolgendo anche la sezione “Euganeo” oltre alla sezione “Antenore”. Per questo, al tecnico del CUS Vanni Zago si è aggiunto anche un nuovo allenatore come Arturo Bergamasco. L’evento. Il primo torneo “Rugby in carcere” comincerà sabato 25 gennaio, dalle 9, al campo della Casa circondariale di Padova di Via Due Palazzi. Saranno formate quattro squadre miste di rugby a sette, composte da atleti detenuti e da una selezione di rugbisti del CUS Padova e della Polisportiva San Precario. Al termine delle sfide festeggeranno tutti assieme, rispettando la grande tradizione rugbistica del “terzo tempo”. Presenti all’evento anche alcuni ospiti speciali, su tutti l’ex campione della Nazionale Mauro Bergamasco e Giovanni Morandin, ex arbitro internazionale. “Siamo entusiasti di essere riusciti a realizzare uno degli obiettivi principali che ci eravamo preposti all’inizio del progetto”, la soddisfazione di Silvio Decina, referente del CUS Padova. “Permettere agli atleti detenuti di cimentarsi contro dei rugbisti veri è il coronamento di un anno intenso e appassionante. Non è stato semplice, per ovvie ragioni c’è stato un grande turnover di partecipanti, ma tutti hanno accolto con spirito propositivo gli incontri che abbiamo proposto loro, sia in aula che sul campo. Ringrazio di cuore tutte le persone che si sono messe a disposizione, dentro e fuori dal carcere, per dare una mano a questo progetto”. Plaude l’iniziativa anche il presidente del CUS Padova, Francesco Uguagliati: “Il CUS Padova conferma ancora una volta il proprio impegno nel voler diffondere i valori più puri e genuini dello sport. Non era scontato riuscire ad organizzare questo importantissimo evento, per questo ci tengo a complimentarmi vivamente con i promotori del progetto “Rugby in carcere”. Milano 1975: bande armate, sequestri, agguati. L’anno in cui la democrazia vacillò di Andrea Galli Sette - Corriere della Sera, 26 gennaio 2025 Gli assassini “politici” di Sergio Ramelli e Carlo Saronio, Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. E poi i rapimenti di Cristina Mazzotti, Giovanni Sticchi, Diego Bruga. Quando la violenza conquistò le piazze. La Milano del 1975, una città nera, cupa, una città rossa, tragica, quand’eravamo giovani e coraggiosi come Sergio Ramelli che da solo aveva sfidato una scuola intera, la sua, l’istituto tecnico Molinari, per le proprie idee, idee anche esasperate ma pur sempre idee d’un ragazzo che rifletteva osservava parlava, quand’eravamo giovani e inquieti come Carlo Saronio, ingegnere, forti e accese simpatie poi abiurate per il gruppo della sinistra estrema Potere operaio, fra le migliori nostre menti, uno sveglio e svelto, uno anche afflitto dai sensi di colpa per la ricchezza della famiglia resa manifesta da quella poderosa Rolls-Royce che fendeva la folla rombante e ammirata, figlio del chimico Piero che aveva guidato la Carlo Erba, il colosso farmaceutico, uno destinato, Saronio, come si dice in casi così, a un magnifico avvenire che non attendeva che lui. Uccisero il primo, militante della destra estrema, quelli della Sinistra extraparlamentare legati ad Autonomia operaia, e quelli del Fronte armato rivoluzionario operaio rapirono e parimenti ammazzarono il secondo, ricercatore dell’istituto Mario Negri, insegnante volontario, sempre per contrastare i sensi di colpa, nelle scuole serali della periferia dannata di Milano, le terre dell’emigrazione selvaggia e incarognita, della fame, del razzismo contro i terroni, delle rimonte sociali propagandate dai governanti e spesso non riuscite affatto, oppure se sì, riuscite per esclusivo merito individuale, indole innata, la tenacia acquisita sudando e ansimando di quelli che s’alzano all’alba già stanchi. Al solito dietro le sigle d’antitetiche e belligeranti posizioni politiche che si scontravano e massacravano, v’erano dei giovani. Cinquant’anni fa, sì, ormai sono trascorsi cinquant’anni, Sergio - rimasto in coma per 47 giorni al Policlinico, il cranio fracassato, immensi danni neurologici, si sarebbe dovuto diplomare come perito chimico, suo papà gestiva un bar - aveva 19 anni e Carlo 25. Ancor meno ne aveva Claudio Varalli, 17 anni, figlio di una coppia di operai, il cui delitto generò due giorni d’inusitato terrore, una sovente dimenticata storia di Milano che meriterebbe davvero una narrazione a sé, una cronaca minuziosa dell’incedere sfrenato, e che conteneva immagini pubbliche d’altre epoche, e d’altri continenti forse, quantomeno nella rappresentazione scenografica, per un panorama sudamericano: del 16 aprile la morte di Varalli, un altro studente, un dichiarato convinto antifascista, e da lì e per tutto il successivo 17 aprile si susseguirono tumulti, si manifestò l’incapacità profonda di gestire l’ordine pubblico da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti cittadini, trentamila persone in strada in corteo, arrabbiate, furibonde per l’eccidio stesso di Varalli, iscritto al quarto anno d’istituto tecnico, e le bombe molotov contro le sedi delle riviste di destra, l’assedio alle caserme e ai commissariati, un insegnante di educazione fisica - Giannino Zibecchi d’anni 28, anch’egli antifascista - travolto da una camionetta dei carabinieri, un episodio che ancor più fece imbestialire gli animi contro i medesimi carabinieri al grido di “assassini, assassini, assassini”, e bar e negozi assaltati, gli spari ad altezza uomo da parte delle forze dell’ordine - fra le immagini, fotografie tremende di carabinieri in posizione di tiro che miravano coi fucili dalle finestre delle caserme -, e un prete che avanzava in pace calmo e lento in mezzo alla bolgia per benedire e proteggere foss’anche per qualche secondo il cadavere di Zibecchi lasciato schiacciato sull’asfalto, dimenticato, e politici locali inseguiti e presi a sprangate, e proiettili volanti, bastonate alle spalle, fratture multiple per capitani, maggiori, marescialli e vicequestori vittime di imboscate, feriti e trasportati in ogni ospedale cittadino - l’allerta del resto era massima - da lettighieri ricoperti di sputi e invitati dal popolo a lasciarli crepare dissanguati, altro che badare al loro soccorso, e regolamenti di conti con spedizioni a domicilio contro gli avversari e duelli sui ballatoi delle case di ringhiera e porte sfondate per entrare a picchiare con bastoni e pugni anche dinanzi ai figli piccoli che assistevano tremando, e insomma, insomma la non letteraria e retorica vicinanza di Milano a un crinale pericolosissimo legato al mantenimento della democrazia. La resa dei conti - Esagerazioni? Per niente. Quel 1975 fu la sintesi di una sorta di resa dei conti, del definitivo ingaggio fra formazioni avversarie basato sulla violenza, fu la sintesi dello sconfinamento senza remore nel ricorso alle armi, dare la morte e vantarsi d’averla data. Non una perdita dell’innocenza ché quella già s’era smarrita da un pezzo a cominciare, ovvio, dalla strage di piazza Fontana del 1969, ma una velocità vorticosa nel precipitare, una furia perfino futurista in direzione della prepotenza, un’eccitazione collettiva verso il dramma. Un’altra data, strettamente vincolata a quanto stiamo raccontando fu il 20 aprile, giorno il cui ricordo, negli antichi sbirri che c’erano, ancora innesca angoscia, un’autentica angoscia viva e pulsante anche nelle mogli degli agenti e infatti quando ne conversiamo ai tavolini dei caffè di Porta Venezia le anziane debole mani dei coniugi s’intrecciano e fermano a darsi reciproca forza, ad ancorarsi, in quanto, quel giorno, in piazza del Duomo confluirono addirittura sei cortei in contemporanea, e immaginate - provateci, non è detto che vi riesca, anzi non vi riuscirà - quale fatica immane comportò il controllo di quelle manifestazioni, tutte quelle manifestazioni, affinché una non tracimasse nell’altra e si verificasse un effetto domino di scontri, affinché non venissero create trappole apposta per provocare e far deragliare ed esplodere, affinché eventuale sangue versato non chiamasse subito, immediato altro sangue. Non c’era un attimo vero per rifiatare, in aggiunta già il 1974 aveva registrato plurimi sequestri di persona, persone sparite e mai ritornate, padri, mariti, nonni, papà, il dilagare dei rapimenti della ‘ndrangheta senza che lo Stato trovasse delle valide forme di prevenzione/contrasto, insomma di resistenza, l’Aspromonte, il meraviglioso Aspromonte tana dei clan era inaccessibile, e nel 1975, a giugno, gli infami fecero scomparire una ragazza, Cristina Mazzotti, al penultimo anno del liceo Carducci, 18 anni, figlia di un mediatore di cerali all’epoca in Argentina per missioni lavorative; la famiglia aveva la residenza in piazza della Repubblica e una seconda casa in provincia di Como che abitava per l’intera estate, in località Eupilio, una dimora nascosta fra giardini e cedri del Libano, in un posto già dal nome rilassante, di calma, Eupilio, nella Brianza vera, quella ricca e verde e appartata, non quella dei capannoni e dell’aria lercia del traffico dei camion, fra piccoli laghi di passeggiate e genitori che insegna(va)no ai figli a pescare le carpe. Portati via - Ebbene le istituzioni predicarono e raccomandarono fiducia, ottimismo, speranza, Cristina, prelevata mentre tornava verso la villa in compagnia di due amici, reduci da una serata per locali a festeggiare la promozione scolastica, sarebbe stata trovata e salvata, ma come diavolo averne, di fiducia, ottimismo e speranza lo sapevano soltanto loro, sul serio, poiché le cosche avevano portato via l’industriale Giovanni Stucchi e non v’era più traccia alcuna, avevano portato via il geometra Diego Bruga e altrettanto, dove fosse chissà, se fosse vivo ancor meno, e avevano portato via Saronio, soffocato con un tampone imbevuto di cloroformio, parevano oppure erano invincibili, e vani sarebbero stati i quasi cinquecento milioni di riscatto pagati, si dovette attendere quattro anni prima che uno degli aguzzini, un balordo, un bandito e poi un pentito definito inattendibile dagli inquirenti, uno che si riempiva la bocca e basta, nel frattempo sparito con la sua parte di guadagno in Venezuela, sole splendente in spiaggia e vizi soddisfatti a basso prezzo, un gruppo di altri latitanti come compagnia di giro, banconote esibite, sventolate, ecco, si dovette attendere quattro anni prima che quello svelasse l’epilogo, e facesse rinvenire i resti. Milano, irriconoscibile, tremava e in verità non era più lei: era stato il militante di Avanguardia nazionale di nome Antonio Braggion, 22 anni, a finire a rivoltellate Varalli, nella centrale piazza Cavour, alle sette e mezza di sera, gli aveva sparato da dietro; costui aveva guadagnato la fuga correndo fra i passanti senza che nessuno cercasse di bloccarlo, o comunque di ostacolarne l’allontanamento in attesa dell’arrivo delle pattuglie, ammesso che qualcheduno le avesse chiamate con prontezza di riflessi e con determinazione, con la voglia d’impicciarsi dei fatti altrui: tutti si erano scansati innanzi a quel giovane killer che andava in dissolvenza. Ospitalità al killer - E tanti, la notte dopo, avevano offerto ospitalità, cure, protezione e segretezza allo stesso Braggion, milanesi noti e meno noti, conniventi, complici, figure di raccordo, insospettabili, politici e mezzi politici. Eppure nel confronto, maggiore, parecchio maggiore era stata la copertura della città a vantaggio della squadra di assassini di Ramelli, il quale prima del suo ritiro deciso dai genitori dall’istituto Molinari, era stato là vittima di due pestaggi e sottoposto a un pubblico processo istruito dagli stessi altri studenti, in un’apposita e partecipata assemblea convocata contro il ragazzo iscritto al Fronte della gioventù, poi assassinato a colpi di chiavi inglesi sotto la casa della famiglia, in via Amadeo, nel quartiere di Città Studi, il 13 marzo. Fu l’oggi presidente del Senato, l’avvocato Ignazio La Russa, a reggere la difesa della famiglia di Ramelli, nel solito infinito duraturo tempo italico per gli esiti della giustizia, fino alle sentenze definitive che colpirono studenti universitari di Medicina, compresa gente che dopo la galera per omicidio ha fatto una gran carriera nella sanità lombarda. Sergio raggiunse via Amadeo in motorino, al civico 15 aveva la residenza, parcheggiò il mezzo e s’incamminò, il commando, in numero spropositato e vigliacco, almeno dieci contro uno, gli saltò addosso. Nei piani, Ramelli, che era stato scelto a caso, o forse no dacché nel quartiere di Città Studi tanto si faceva notare con la sua attività da militante e aveva un seguito di odiatori, doveva rimanere soltanto ferito, così almeno ripeterono i suoi killer ai giudici. Nessuna scelta a caso per Saronio, tradito da amici e compagni, in primis il “professorino”, ovvero quel Carlo Fioroni laureato in Lettere e docente nelle scuole dell’hinterland nonché amico e confidente di Giangiacomo Feltrinelli, fabbricante di molotov, ideatore del sequestro del ricercatore, fuggiasco per evitare la galera nella Francia che proteggeva i terroristi e i killer, pentito - uno dei primissimi pentiti - così da chiudere la stagione, si capisce, e godere dei benefici di legge, odiato dai duri e puri del partito armato che avrebbero voluto punirlo - e tentarono di farlo - per il doppio gioco, per quello che a loro appariva un atto di infedeltà pura, un’azione da rinnegato, una scelta di campo da collaborazionista degli sbirri. A lungo, Fioroni era stato ospite della famiglia Saronio, nell’elitario appartamento al civico 30 di corso Venezia, proprio in virtù del consolidato legame con Carlo, ci andava per chiacchierare, ridere, discutere di libri, musica, teatro. “Scavate”. E tutto si ferma - Ramelli, Saronio: e nessuna scelta a caso anche per Cristina Mazzotti, abbandonata priva di vita dai carcerieri in una discarica in provincia di Novara; alla notizia della scoperta del corpo il nostro cronista Arnaldo Giuliani s’era accodato a Milano alle macchine dei poliziotti e dei carabinieri, li aveva seguiti nell’esplorazione e aveva dettato in redazione il resoconto: “Qualcuno cede, non resiste, si ritira. In fondo, agenti e carabinieri aspettano l’ordine. Si fa un improvviso freddo silenzio. C’è una folata di leggerissima nebbia. Gli unici rumori sono lo zampettare di topi in fuga. Poi una voce si decide perentoria: “Scavate” (…) Tutto si ferma. C’è, impercettibile, il sussurro di una preghiera” (…) Si riprende con le pale. Poi basta. Si prosegue con le mani, sotto la spinta di una pietà che cerca un ultimo rispetto: non colpire più quanto rimane di questo povero corpo”. Cristina è stata la prima donna rapita e uccisa dalle cosche. Il processo contro i killer si è riaperto a Como. Secondo gli inquirenti, a capo della banda c’era il boss pluripregiudicato Giuseppe Morabito u tiradrittu, antologia ‘ndranghetista per ferocia, reti criminali, potenza, una delle figure apicali delle cosche. La scuola primaria di Eupilio è intitolata a Cristina. Fra i programmi per i bimbi ci sono attività teatrali, musicali e artistiche, animazione alla lettura, educazione all’affettività. Il papà di Cristina, il signor Elios, si spense pochi mesi dopo, stroncato da un infarto, gli scoppiò il cuore per il dolore; la mamma, la signora Carla, raggiunse quasi il secolo di vita, in un’esistenza dedita alla promozione del ricordo della sua ragazza e alla pittura cui era stata avviata dal padre, adorato e venerato fino agli ultimi giorni, nel breve ricovero all’ospedale Fatebenefratelli. Cristina riposa nel piccolo cimitero di Eupilio, prossimo al lago del Segrino, acque ferme e intorno la strada dei corridori che salgono verso la scalata del Ghisallo, la brina di qui adorata da Fogazzaro, Segantini e Gadda; da quel cimitero, una via crucis s’arrampica al belvedere. Il Papa ai giornalisti: “La giusta comunicazione richiede mitezza e sincerità” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 26 gennaio 2025 Il Messaggio del Papa per la giornata delle Comunicazioni sociali e in apertura del Giubileo sulla comunicazione. “Servono atteggiamenti capaci di puntare sulla bellezza e sulla speranza”. Serve anzitutto un serio esame di coscienza per la nostra categoria, i giornalisti, e per ciascuno di noi. Il Messaggio del Papa per la giornata delle Comunicazioni sociali e in apertura del Giubileo sulla comunicazione ci richiama ad un approccio di “mitezza”, termine e stile che si oppone e stride con una informazione spesso aggressiva, urlata, poco rispettosa dell’altro di cui siamo spesso noi stessi protagonisti. Usare mitezza non significa esercitare uno sterile buonismo e neppure nascondere sotto il tappeto la brutalità inaccettabile di guerre, violenze, ingiustizie e crisi sociali. Ma anche in questo racconto ci sono un modo, un linguaggio, uno stile che possono contribuire a “suscitare atteggiamenti di amicizia; capaci di puntare sulla bellezza e sulla speranza anche nelle situazioni apparentemente più disperate; di generare impegno, empatia, interesse per gli altri”. Ci sono, basta volerle usare. Al fondo di tutto questo bisognerebbe allora chiederci se quando comunichiamo, con le persone a noi vicini o con lettori e ascoltatori, nel nostro privato e nella professione, abbiamo la capacità e il coraggio di mettere anche il cuore, superando autoreferenzialità, smanie di apparire ed eccesso di protagonismo. Chiediamoci se riconosciamo il valore di un dovere etico oggi troppo annebbiato. Forse questa potrebbe anche essere la strada per diventare più credibili e autorevoli, per tornare a parlare ai giovani, per recuperare passione in chi svolge questo mestiere con stanchezza e scarsa motivazione. Facciamo nostra la citazione di don Tonino Bello secondo cui tutti i conflitti “trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti”. E proviamo, ogni volta che siamo davanti alla tastiera del computer, a un microfono o a una telecamera, a pensare al volto delle persone di cui parliamo e a cui ci rivolgiamo. Mettiamoci sincerità, professionalità e mitezza. Mettiamoci (anche) il cuore. La scuola secondo Valditara, un’idea miope e provinciale di Marco Aime* Il Domani, 26 gennaio 2025 Porre l’accento sulla “nostra” storia e i “nostri” valori, non solo è un’operazione politica, ma conduce a una visione unilaterale degli eventi e rende miope lo sguardo. Solo studiando una storia globale possiamo capire il mondo di oggi e scoprire che è sempre stato interconnesso. “Le merci si mondializzano, gli individui si tribalizzano”, così ha scritto il filosofo francese Regis Debray, una frase che sembra fatta apposta per raccontare la scuola ipotizzata da Valditara e dal governo tutto. In una realtà sempre più globale e interconnessa, per la cui comprensione servirebbero strumenti moderni, approcci interdisciplinari, attraversamento di confini, cosa propone il nostro ministero? Una chiusura che sarebbe persino ironico definire “provinciale”, e che invece, è non solo politicamente orientata in un’ottica pseudonazionalista, ma è soprattutto dannosa. Pseudonazionalista perché non rivela neppure quel piglio aggressivo che solitamente segna queste istanze, ma ne fa semmai una parodia di serie C. Dannosa perché offre alle nuove generazioni una visione angusta, inutile e sbagliata della storia, per esempio. Porre l’accento sulla “nostra” storia, sui “nostri” valori, ovviamente per esaltarli, non solo è un’operazione politica, ma conduce a una visione unilaterale degli eventi, a un etnocentrismo forzato, che rende miope lo sguardo. In un momento in cui bisognerebbe combattere contro le storie nazionali, raccontate sempre da un unico punto di vista, si vuole al contrario rafforzare questa visione. Ricordo di avere avuto tra le mani tempo fa un libretto scritto dal fondatore del Museo di Storia Naturale di Torino, scritto nel Ventennio. C’era un capitolo dedicato alla “razza” italiana, di cui si leggeva che era rimasta pura “nonostante qualche invasione”. Quasi commovente, ma è quello che si rischia di sentire a breve nelle nostre aule. Le politiche identitarie, infatti, portano all’estremo la “tendenza a dividere il mondo in piccole isole sottratte alla reciproca influenza intellettuale. Per dipingere ogni cultura come “pura”, occorre dunque disancorarla dalla storia e proporla come un elemento isolato, rimasto avulso da ogni contatto. È il caso del punto 5 del Manifesto della razza, redatto da dieci scienziati italiani e pubblicato il 5 agosto 1938 sul primo numero della rivista La difesa della razza: “È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio”. La storia globale - Si nega la storia, si finge che gli abitanti della penisola siano rimasti immuni e refrattari a ogni tipo di scambio voluto o forzato con le genti che nei secoli hanno invaso l’Italia. Nazionalismo e razzismo si giustificano mediante un’appropriazione e un’alterazione sistematica della storia. Secondo questa pseudo-storia i popoli europei sono entità distinte, stabili e oggettivamente identificabili. Questi popoli sono diversi gli uni dagli altri per lingua, religione, costumi e carattere nazionale, tutti elementi che vengono presentati come realtà incontestabili e immutabili. Il tutto intriso di una retorica che si fonda su presunti elementi (lingua, origine, costumi) che vengono presentati come realtà incontestabili e immutabili, quando invece, come scrive Alessandro Barbero: “Le invasioni in Italia sono l’ossatura di manuali scolastici e spunto di riflessione storiografica”. Solo studiando una storia globale, possiamo capire il mondo di oggi e scoprire che è sempre stato interconnesso, che idee e merci sono sempre circolati, che ogni attuale comunità nazionale è debitrice e creditrice rispetto alle altre. Con la storia di Valditara gli studenti non saprebbero che la parola “algoritmo” deriva dal suo inventore al-Khw?rizm?, matematico persiano del IX secolo, che i numeri che usiamo vengono dall’India, che i filosofi greci che consideriamo alla base del nostro pensiero li conosciamo grazie alle traduzioni arabe, che nel 1320 a Timbuctu c’erano due università, che i cibi che mangiamo sono originari di angoli lontani di mondo, che il predominio dell’Occidente è in fondo una fase piuttosto breve della storia mondiale, rispetto a quello dell’Asia. E mentre nel mondo continuano gli scambi, noi iniziamo a tribalizzarci. *Antropologo Migranti. L’operazione Albania è ripartita: a bordo della Cassiopea ci sono 11 naufraghi di Marco Birolini Avvenire, 26 gennaio 2025 I naufraghi raccolti dal pattugliatore Cassiopea attorno a Lampedusa. C’è l’ordine di attendere e radunare altre persone soccorse. La terza “missione Albania” della Marina militare è in corso. Dopo quelle di ottobre e novembre, “bocciate” dai giudici - che ordinarono di sbarcare in Italia i migranti raccolti nel Mediterraneo e portati inizialmente nei centri costruiti oltre Adriatico - il governo ci riprova, forte del parere della Cassazione, che ha chiarito come spetti al ministero degli Esteri stilare la lista dei “Paesi sicuri”, dove in teoria i richiedenti asilo possono essere rimpatriati. Saranno le Corti d’appello ad avere l’ultima parola sui respingimenti, e non più i giudici della sezione immigrazione. La modifica dell’iter che non è tuttavia piaciuta alle toghe. “Ha destato sgomento - ha detto il presidente della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Meliadò. nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario - la scelta del legislatore di trasferire, con procedura d’urgenza, senza alcun aumento dell’organico e senza risorse aggiuntive, le procedure di convalida dei provvedimenti di trattenimento degli stranieri”. Tra venerdì e oggi il pattugliatore Cassiopea ha raccolto 11 naufraghi nelle acque attorno a Lampedusa, dove l’unità sta incrociando, almeno fino a stasera. Prima di fare rotta verso l’Albania, infatti, c’è l’ordine di attendere e radunare altre persone soccorse in mare, in modo da effettuare un trasferimento più cospicuo. Finora sono stati portati a bordo egiziani e bengalesi, selezionati sulla base dei criteri normativi: maschi, maggiorenni e non vulnerabili. Saranno sbarcati tutti nel porto di Shengjin. Da lì saranno trasferiti nel vicino hotspot allestito dall’Italia e presidiato da agenti italiani, in attesa di essere identificati e rimandati nei Paesi di provenienza. La Cassiopea potrebbe arrivare sulle coste albanesi già all’inizio della prossima settimana, tra domani e martedì. Negli ultimi giorni si è registrata un’impennata di partenze. Venerdì sono sbarcate a Lampedusa ben 469 persone con 10 approdi. Ieri ne sono arrivate altre 242 in 5 sbarchi. Un’unità della Guardia costiera e ed un’altra di Frontex hanno soccorso al largo dell’isola due imbarcazioni partite da Zuwara, in Libia. In serata ci sono stati altri tre approdi. Il caso Albania è tornato a sollevare le critiche delle ong. A margine della celebrazione dei 10 anni di Alarm Phone a Palermo, Luca Casarini, fondatore di Mediterranea, ha tracciato un parallelo tra quanto sta avvenendo nel Mediterraneo e la linea dura adottata da Donald Trump, che ha caricato alcuni migranti su aerei militari per deportarli nei Paesi d’origine. “Chi andrà in mare avrà anche il problema di capire come fare a interrompere il meccanismo della deportazione - ha detto l’attivista -. Come succede negli Stati Uniti bisogna cominciare a organizzarci per evitare le retate, ci saranno retate di persone che verranno prese e incarcerate nei Cpr. Non si può solo indignarsi”. Migranti. Caso Almasri, Meloni sfida la Corte dell’Aja di Ilario Lombardo La Stampa, 26 gennaio 2025 La premier da Gedda evoca il complotto dei giudici della Cpi sul generale libico. Nessuna difesa della ministra rinviata a giudizio: “Valuti lei l’impatto sul suo lavoro”. C’è il filo rosso della giustizia e degli scontri con la politica a unire le dichiarazioni con le quali Giorgia Meloni rompe un silenzio durato giorni, su diversi casi che la inseguono fino in Arabia Saudita. Il destino di Daniela Santanché incrocia la decisione senza precedenti di riportare in patria un comandante libico accusato di crimini contro l’umanità. Infine, le proteste dei magistrati contro la separazione delle carriere: “Non c’è scritto nella Costituzione che la giustizia non può essere riformata - risponde Meloni -. C’è scritto invece all’articolo 49 che sono i cittadini a decidere attraverso i programmi di chi vince le elezioni”. Sul caso di Mohamed Almasri la premier capovolge le responsabilità e le addossa alla Corte penale internazionale, e sembra quasi teorizzare una macchinazione dei giudici de L’Aja: “Perché ci ha messo mesi a spiccare un mandato di arresto, e questo è arrivato quando Almasri aveva attraversato due o tre nazioni europee, e aveva già lasciato la Germania per andare verso l’Italia? Chiederemo chiarimenti”. È, ancora una volta, l’evocazione di un complotto. Una cifra personale di Meloni in questi due anni e mezzo di governo. Di nuovo, sono i magistrati a finire al centro di un teorema che prende forma su interrogativi, sospetti e insinuazioni. La premier parla dal porto saudita di Gedda, prima di salire sulla nave italiana Amerigo Vespucci: non arriva fino al punto di accusare apertamente la Cpi ma porta in evidenza il fatto che il mandato di arresto de L’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità arrivi il 18 gennaio, quando Almasri attraversa il confine italiano per godersi la partita della Juventus, ha prenotati un hotel a Torino e la riconsegna a Fiumicino dell’automobile presa a noleggio in Germania. Il sospetto di Meloni è lo stesso confessato nei giorni scorsi a La Stampa da altre fonti di alto livello del governo. Si vuole credere che si sia aspettato il momento più adatto, qualcuno addirittura pensa che la Cpi abbia agito dopo che il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva detto che l’Italia non avrebbe dato seguito a un altro mandato di arresto, quello che pende sul premier israeliano Benjamin Netanyahu. E dunque, secondo Meloni, “noi manderemo i nostri chiarimenti alla Corte, ma li chiederemo a nostra volta”. Anche sul caso Santanché, rinviata a giudizio per falso in bilancio, Meloni non si limita a restare sulla difensiva, ma in parte contrattacca. Cerca una via conciliante per non scaricarla brutalmente. Non la difende, dice che la incontrerà - anche se ha fatto di tutto per non incrociarla qui a Gedda dove la ministra arriverà questa sera - ma lascia a lei la scelta se dimettersi subito o affrontare lo stillicidio quotidiano. “Bisogna valutare quanto tutto questo possa impattare sul suo lavoro di ministro, e questa è una valutazione che va fatta con Santanché e che forse deve fare prima di tutto lei su un caso su cui - ammette - io non ho le idee chiare”. Meloni prendere tempo. Le concede che “non per forza un rinvio a giudizio è motivo di dimissioni” e spiega di non voler “subire lezioni dalla sinistra”, da Giuseppe Conte “che ha un vicepresidente di partito (Chiara Appendino, ndr) condannata in via definitiva” e da Elly Schlein “che non chiede le dimissioni di un presidente di Provincia del Pd (Franco Alfieri, ndr) nonostante sia agli arresti domiciliari per corruzione”. In realtà Meloni sa a cosa non vuole andare incontro. La data cerchiata resta quella di mercoledì 29 gennaio. La deadline che si è data la premier. Quel giorno la Cassazione dovrà esprimersi sulla competenza tra Milano o Roma per un’altra inchiesta, in cui la ministra risponde di truffa aggravata ai danni dell’Inps. Nelle stesse ore la capigruppo della Camera deciderà su quando calendarizzare le mozioni di sfiducia del M5S. Fratelli d’Italia farà di tutto per rinviarle. Per quel giorno, però, Meloni dovrà avere le idee più chiare. Come sembra averle sulla scarcerazione di Almasri. Coincidenza vuole che proprio ieri, fonti della Commissione europea abbiano respinto la volontà del presidente americano Donald Trump di sanzionare la Cpi. Il clima è cambiato. Ne è certo l’ex premier italiano ed ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi: “L’Italia si adegua alla nuova dottrina che non ci debbano essere Tribunali internazionali. Trump sarà inflessibile su questa tema”. Che ci sia un fastidio del governo Meloni è innegabile. Tre giorni fa la Cpi aveva pubblicato una nota per inquadrare i passaggi che hanno portato alla scelta di rimettere in libertà Almasri, capo della polizia giudiziaria libica accusato di un lungo elenco di orrori nel carcere di Mitiga. I giudici non sono mai stati informati della decisione del governo italiano e attendono ancora una spiegazione sui motivi della scarcerazione. Non regge la teoria del vizio di procedura avanzata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio quando già l’aereo di Stato che lo avrebbe riportato in Libia era partito da Roma Ciampino per prelevarlo a Torino. Meloni però insiste, e prima di controbattere alla Corte, premette: “È stato liberato su disposizione della Corte d’Appello di Roma. Non è una scelta del governo”. Tecnicamente è così, ma, come raccontato da questo giornale, il cavillo serve all’esecutivo italiano per coprire una scelta che è rimasta totalmente in mano alla politica. Almasri è una figura importante nella triangolazione tra servizi segreti italiani, americani e le milizie libiche affiliate al governo di Tripoli. Non solo: nelle ore subito successive all’arresto, dal ministero dell’Interno italiano era stato segnalato un aumento significativo delle partenze dei migranti verso l’Italia e l’intelligence aveva avvertito sul pericolo di una ritorsione contro i cittadini italiani presenti in Libia. Motivi che hanno spinto Palazzo Chigi a mettere immediatamente Almasri su un volo di Stato. Per Meloni nulla di scandaloso: “È una prassi che non si è inventata questo governo. Lo abbiamo espulso come soggetto pericoloso, e come in moltissimi casi di detenuti da rimpatriare non si usano voli di linea per ragioni di sicurezza”. Migranti. Caso Almasri, oltre 13 anni di indagini per i crimini in Libia di Stefano Mauro Il Manifesto, 26 gennaio 2025 Il lavoro del procuratore Khan per “ottenere giustizia”. La richiesta di arresto è stata trasmessa a 6 paesi europei tra cui l’Italia. La Libia non è uno Stato parte dello Statuto di Roma. Tuttavia, il 26 febbraio 2011, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1970, ha deciso all’unanimità di deferire alla Corte penale internazionale (Cpi) la situazione in Libia. Una decisione che ha permesso alla Cpi di esercitare la sua giurisdizione sui crimini, ai sensi dello Statuto di Roma, commessi nel territorio della Libia o da suoi cittadini a partire dal 2011. L’inchiesta, aperta nel marzo 2011, ha portato a tre procedimenti, inizialmente avviati nei confronti di 11 sospettati, accusati in particolare dei seguenti reati: “Crimini contro l’umanità” compiuti nei centri di detenzione libici attraverso “l’omicidio, la persecuzione, la prigionia, la tortura e lo stupro” e “crimini di guerra” compiuti, durante il conflitto interno tra i due schieramenti, attraverso “gli omicidi, le torture e le esecuzioni sommarie”. Il caso più eclatante è Tarhuna - città simbolo delle atrocità della guerra civile - con “il ritrovamento di 29 fosse comuni e l’uccisione sistematica di almeno 330 civili inermi”,la maggior parte dei quali ammanettati, bendati e torturati. Con la concreta possibilità, secondo le conclusioni della Cpi e della missione delle Nazioni unite in Libia (Unmil), che potrebbero esserci “fino a 100 altri siti di questo tipo in tutto il paese”. A ottobre 2024, il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha emesso 6 mandati di arresto “per i presunti crimini commessi a Tarhuna” nei confronti di tutti i leader affiliati alla milizia Al Kaniyat che, insieme alla Forza Rada, ha commesso “brutali uccisioni” in quella città. La Cpi ha precisato di avere attualmente 11 mandati di arresto - 5 secretati per permettere ulteriori approfondimenti - e ha successivamente dichiarato di voler emettere “nuovi mandati di cattura nel 2025”, relativi ai crimini commessi nei centri di detenzione. Tra i mandati secretati c’era il nominativo di Elmasry, accusato di “crimini contro l’umanità e crimini di guerra” in quanto “referente istituzionale” delle violenze perpetrate “nei confronti di civili e migranti all’interno dei centri di detenzione”. Il 18 gennaio 2025, la Camera preliminare I della Corte penale internazionale ha di fatto reso pubblico il mandato di arresto per Elmasry, capo del sistema penitenziario di Tripoli, dove migliaia di persone sono state detenute, torturate e uccise nella prigione di Mitiga dal 2015. Secondo la Cpi, la richiesta di arresto è stata trasmessa attraverso i canali designati a 6 paesi europei (tra cui l’Italia) in cui Elmasry è transitato, preceduti da un coordinamento con ciascuno stato “per garantire la corretta ricezione della richiesta dell’Aja”. La Corte ha trasmesso informazioni in tempo reale sulla posizione dell’indagato nello spazio europeo Schengen e come previsto dallo Statuto, ha richiesto all’Interpol di emettere una “Red Notice” per il suo arresto, avvenuto a Torino domenica 19 gennaio. Allo stesso tempo, la Cpi ha preso contatto con le autorità italiane per garantire “l’effettiva esecuzione di tutte le misure previste dallo Statuto di Roma” ed ha precisato di aver fatto presente che, in caso di problematiche o possibili ostacoli relativi al suo mandato di arresto, il governo italiano “avrebbe dovuto consultare la Corte penale al fine di risolvere la questione”. A novembre, durante il suo ultimo audit davanti al Consiglio di Sicurezza, il procuratore Khan ha evidenziato la propria determinazione “nell’ottenere giustizia”. “La sensazione è che le cose stiano cambiando e che sia giunto il momento dell’azione e della giustizia con il rispetto del diritto internazionale, una sensazione che per tutte queste vittime è fonte di speranza e di conforto” aveva concluso Khan. Cosa che certamente non avverrà per Elmasry. Le deportazioni e il mondo che lasciamo ai nostri figli di Andrea Malaguti La Stampa, 26 gennaio 2025 Che mondo lasciamo ai nostri figli ottant’anni dopo la Shoah? Che peso hanno, alla luce del nuovo spirito del tempo, permeato dalla prepotenza trumpiana, parole come deportazione e, all’opposto, umanità? Quanto siamo assuefatti, o indifferenti, alla violenza, non solo verbale, che ha accompagnato il racconto di questa settimana, mettendoci di fronte alle immagini umilianti di un torturatore libico riportato delicatamente a Tripoli a bordo di un aereo di Stato? Le due bambine che si tengono per mano di fronte al dottor Josef Mengele hanno quattro e sei anni. Sono sorelle che, nonostante la differenza d’età, sembrano gemelle. Si chiamano Tatiana e Andra Bucci. E nel kinderblock del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau sono arrivate nel 1944. Sono abituate a giocare ignorando le pile di cadaveri e hanno superato i primi mesi di gelo e privazioni anche grazie all’imprevedibile benevolenza di una sorvegliante che ha preso Tatiana sotto la sua ala protettrice e le regala maglioncini di lana da dividere con la sorella. È stata lei ad avvisarle: “Il signore che radunerà i bambini del kinderblock, chiederà di fare un passo avanti a chi vuole rivedere la mamma. Voi restate ferme. Immobili. Solo così avrete salva la vita”. Mengele è un mostro. Un teorico dell’eugenetica che usa i più piccoli per le sue deliranti sevizie. Quando arriva la domanda prevista, Andra e Tatiana sono due statue di sale. Sergio, che ha otto anni ed è loro cugino, nonostante gli avvertimenti, fa istintivamente un passo avanti. “Io voglio la mia mamma”. Non lo rivedranno mai più. Diventerà una cavia della follia nazista. Tatiana e Andra sono due dei seicentocinquanta bambini, su duecentotrentamila, sopravvissuti a Birkenau. È a loro che abbiamo chiesto, oggi su domani, vigilia del Giorno della Memoria, di dirigere La Stampa. Di scegliere la gerarchia delle notizie. Di rimetterle in ordine. Di spingerci a ricordare - in questa terra che hegelianamente non ricorda più nulla - quanto è facile scivolare nell’abisso della disumanità. Mai, come in questo complicato 27 gennaio, abbiamo bisogno di loro. Della loro storia. Della loro sensibilità, sempre più lontana da quella collettiva, come dimostrano i continui e vergognosi insulti contro Liliana Segre, costretta a dire: “Della Shoah alla fine non si parlerà più”. Torno agli Stati Uniti, supposta stella polare delle democrazie post-belliche, e al discorso di un leader, Donald Trump, che rivendica, per la prima volta, in chiaro e senza pudori, un universo valoriale sideralmente lontano da quello in cui credevo che ci fossimo formati. Scienza, un pianeta più pulito e vivibile - verde, se la parola non suona ormai bestemmia - inclusione, equità, rispetto della diversità, difesa dei più fragili, compassione e persino pietà. Anticaglia polverosa da archiviare nello scantinato dei nostri svalutati buoni sentimenti. Non abbiamo più una casa comune. C’è un test facile per rendersene conto: la fotografia delle prime deportazioni diffusa, volontariamente, dalla Casa Bianca. Ha fatto il giro del pianeta. Nove esseri umani in catene entrano nella bocca di un aereo che sembra uno squalo. Chi la guarda e - istintivamente, di pancia, senza ragionamenti - pensa: “Era ora”, sta veleggiando nel mare sempre più vasto di una maggioritaria e straziante visione dei rapporti umani. Chi pensa di getto: “No, vi prego, fermatevi”, è parte di una minoranza ed è bene che lo sappia. Il piano di Trump, d’altra parte, è semplice, realizzabile solo in piccola parte, ma sconvolgente: deportare 14 milioni di persone senza documenti. Stanarli nelle case, nelle chiese e nelle scuole. Rispedirli nei loro Paesi. Ho letto, sgomento, un reportage da Newark di Paolo Mastrolilli di Repubblica. Il raid degli agenti della sicurezza che fanno irruzione al mercato del pesce. Chiunque abbia la faccia scura e non sia in possesso del passaporto (ma chi gira col passaporto in tasca?) viene portato via. Tra loro anche un veterano di guerra che esibisce, inutilmente, il suo tesserino militare. Sembra una profilazione razziale. Non lo è? Può darsi. Ma ogni giorno è un po’peggio. Tornano in mente Tatiana e Andra Bucci. Un documentario del museo alla Risiera di San Sabba dove furono rinchiuse. Si vede il Duce a Trieste. La folla osannante. La piazza stracolma di cori ed eccitazione. Mussolini scandisce stentoreo: “Occorre una chiara coscienza razziale che stabilisca delle superiorità nettissime”. Quello di oggi non è fascismo - penso, spero, mi illudo - ha però la stessa radice di quel modo di pensare. L’odio per il diverso. Che i cinici e gli aedi della volontà di potenza riducono a un infantile: “Se dite così è perché volete farli entrare tutti. Li prendereste a casa vostra?”. Deprimente. “Quegli uomini sono stati trattati come immondizia. Ma la verità è che non mi sorprende. E proprio questo è il problema”, mi ha detto al telefono Edith Bruck. “Un tempo l’immondizia eravamo noi nel lager, quando pulivamo per terra i cadaveri. Ma ogni vita è preziosa, in qualsiasi condizione. E lo capisci soltanto se anche tu sei stato trattato da immondizia”. Resta che nel passato recente un prigioniero in catene ci faceva pensare con disgusto alla Capanna dello Zio Tom di Hariet Beecher Stowe, oppure a Dodici anni schiavo di Steve McQueen, a Radici dell’americanissimo Alex Haley, insomma, al male assoluto. Adesso è diventato l’inevitabile normalità. Per noi, per i nostri padri, l’America era la terra delle opportunità. “I have a dream” di Martin Luther King, quello vero, non quello posticcio manipolato dalla Casa Bianca. Era la Route 66 e la Beat Generation. Un Paese libero e sbagliato che faceva guerre e si ribellava a sé stesso. Era la luna intesa come orizzonte immaginifico, non come spazio da conquistare dai profeti del transumanesimo che, pur negando il Climate Change, disprezzano un pianeta, il nostro, considerato spremuto e irrecuperabile a tal punto da volerlo abbandonare. Perciò, mentre Donald Trump brama un pezzo di Danimarca e il nuovo segretario di Stato, Mark Rubio, invita il mondo ad arrangiarsi, scaricando l’Ucraina, cos’è rimasto del sogno americano? Un ritorno al Far West, dove chi è più rapido con la pistola spara. E magari sapessero almeno raccontarla come Alessandro Baricco in Abel: “Sento una vibrazione, allora sparo. Che ne so, come una vibrazione. Estraggo e sparo”. Questi sparano e basta. Più che l’età dell’Oro è l’età della cattiveria. E si potrebbe andare avanti per ore a parlare della demonizzazione della cultura woke, dell’intelligenza artificiale destinata a moltiplicarsi ignorando - su spinta muskiana - il bisogno di indirizzarla su criteri etici destinati a proteggere i più deboli. Ma a chi interessa più? A che serve? Un giorno un algoritmo licenzierà, prima della lista, una mamma single con tre figli che dovrebbe essere l’ultima dei sacrificabili e noi ce la caveremo alzando le spalle. È il mondo dell’efficienza, bellezza. Ma, come direbbe Sartre, è attraverso lo sguardo che si annuncia l’Altro. La comunicazione digitale è povera di sguardo. Anche quando siamo vicini ci fa perdere di vista. Stiamo dando il peggio, certi che l’unica strada sia quella dell’omaggio al Potere di turno e alla Realpolitik. Riferimento non casuale al nostro incerto Paese. Un tempo i nostri padri - eternamente evocati, incessantemente dimenticati - i torturatori li processavano a Norimberga. Oggi preferiamo scendere a patti. Così il generale Almasri, ignobile violentatore di ragazzini, inumano reggente dei peggiori carceri libici, imbarazza la più potente leader del mondo occidentale, Giorgia Meloni, irridendo gli italiani che lo riconsegnano ossequiosi a domicilio. Abbiamo accettato di farci ricattare - forse per la legittima paura di mettere a rischio la vita dei nostri connazionali in Libia - dai gangster di una terra infelice alla quale consegniamo il compito di impedire le partenze dei disperati, costi quel che costi. Facciano loro il lavoro sporco. Lo diamo per scontato. Ha ragione Tolstoj, si precipita in fretta nel qualunquismo dei pensieri globalmente dominanti. “Non esiste nessuna situazione a cui l’uomo non possa adattarsi, specialmente se vede che tutti quelli che lo circondano vivono nello stesso modo”. Fa paura rassegnarsi all’idea che non siamo meglio di così. Stati Uniti. Tra legge e imposture, guida agli strapoteri di Trump di Stefano Cingolani Il Foglio, 26 gennaio 2025 Ha già firmato oltre cento ordini esecutivi. Grazia gli invasori di Capitol Hill e giura vendetta ai “traditori”. Ma è nei limiti della Costituzione? La “dittatura del primo giorno” e i rapporti con il Congresso. Ho seguito lunedì pomeriggio l’Inauguration day con Donald Trump che apriva “un nuovo aggressivo capitolo del movimento America First” (così ha scritto il Wall Street Journal). E la notte ho fatto un sogno. Il presidente francese Emmanuel Macron decide di sospendere il trattato di Schengen e chiude le frontiere con l’Italia. Tutte, da Ventimiglia al Monte Bianco. Dichiara in tv che la Francia (cioè egli stesso) è stanca della continua “invasione” di immigrati clandestini attraverso l’Italia, la quale fa di tutto per favorire il flusso e scaricare sugli altri (ovvero su Parigi) i problemi che non è in grado di risolvere. Apriti cielo. Gli strepiti arrivano dal colle più alto e i giornali scrivono che il presidente italiano Sergio Mattarella è furibondo, tanto che decide di convocare il Consiglio supremo della difesa, istituito nel 1950 durante la Guerra di Corea. Venendo meno alla sua proverbiale prudenza Mattarella decide che è arrivato il momento di riprendersi, con le buone o con le cattive, Nizza e la Savoia. Il Risorgimento è finito da tempo, quel patto del 1860 tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non può più essere rispettato dalla Repubblica italiana. Da destra si ode uno squillo: la sicurezza si basa sulla forza, lo abbiamo sempre detto. Da sinistra risponde uno squillo: solo la pace dà sicurezza. A questo punto il sogno (o l’incubo) s’interrompe. È del tutto campato in aria, però al mattino accendo la radio, spulcio i siti internet e leggo i giornali. Ci sono tante analisi e polemiche su Trump. Niente su Macron e Mattarella. Martedì notte ecco un altro sogno. Il presidente francese (sempre lui il nostro babau in chief) dà ordine alla Banca di Francia e alle principali banche private di liberarsi dei Btp. Mattarella va su tutte le furie, convoca il governatore della Banca d’Italia e gli chiede di emettere un bitcoin denominato Quirinale per proteggere il debito italiano. Solo il presidente e il governatore ne sarebbero garanti, previo via libera del governo. I migliori cervelli economici inorridiscono e paventano la fine dell’euro. I mercati invece reagiscono bene. Un successone, la nuova moneta virtuale guadagna il 10 mila per cento. È facile vedere nell’annunciata riconquista di Panama, nelle mire sulla Groenlandia e sul Canada, nella nuova geografia che cambia nome al Golfo del Messico, le matrici del primo sogno. Il secondo nasce dall’incredibile bitcoin chiamato $Trump. Emesso a 18 centesimi, ha superato i 29 dollari con un aumento del 354 per cento. Anche la first lady si è cimentata con il suo $Melania. Altro che conflitto d’interessi, leggi ad personam, decreto Mammì e tutto quello di cui è stato protagonista Silvio Berlusconi. Il Wall Street Journal in un suo editoriale è partito all’attacco: il presidente non solo non separa interessi privati e pubblici doveri, ma mostra “scarso giudizio”. Il quotidiano posseduto da Rupert Murdoch evoca seri problemi legali: “Dove sono gli avvocati?”, chiede, e ricorda che l’immunità non vale per atti compiuti dal presidente prima di entrare in carica. La chiave della mia metafora onirica, insomma, è non solo nei doveri, ma nei poteri del capo dello stato. Sono questi che sorprendono e per molti versi spaventano. Nessuno in Europa, nemmeno nella Francia presidenziale, possiede le stesse leve del presidente americano. Trump durante il primo mandato le ha già mosse in modo spavaldo, ma senza manometterle, adesso minaccia di andare oltre. Appena giurato sulla Bibbia sono partiti circa cento ordini esecutivi, i più vari. Gli è consentito dalla Costituzione, ma davvero può usare come vuole le sue prerogative? La prima cosa da ricordare è che l’inquilino della Casa Bianca, a partire da John Adams che prese il posto di George Washington, esercita il potere esecutivo, ma non fa le leggi, questo potere spetta al Congresso. Il presidente ha facoltà di imporre il veto che può essere respinto con una maggioranza di due terzi. Esecutivo e legislativo sono autonomi, tanto che si parla di “dualismo paritario”: il presidente non può sciogliere anticipatamente l’organo legislativo, mentre il Congresso non può rimuovere, se non con una complessa procedura di impeachment, il presidente il quale, allo stesso tempo capo dello stato e capo dell’esecutivo, non è super partes, ma entra nel gioco politico. La Casa Bianca è al vertice di una gigantesca e complessa burocrazia composta da decine di agenzie, “commissioni”, dipartimenti e quattro milioni di dipendenti, alla quale spesso si contrappongono i singoli stati; guida le forze armate con tanto di valigetta nucleare anche se non può dichiarare guerra; è al comando di una politica fiscale che influenza l’economia mondiale, ma il dollaro è in mano alla Banca centrale, formalmente indipendente (la Federal Reserve). La garanzia finale di equilibrio tra poteri centrali, così come tra governo federale e singoli stati, spetta alla Corte suprema i cui membri sono nominati a vita dal presidente, ma sottoposti al consenso del Senato. Durante il suo primo mandato Trump ha nominato tre giudici (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett) i quali insieme agli altri tre conservatori, hanno spostato radicalmente l’asse “politico”. Il dittatore del primo giorno - Ha colpito tutti la quantità e la natura delle prime mosse del Trump II, soprattutto il centinaio di ordini esecutivi. Di che si tratta? Sono in pratica le direttive che indirizzano l’intera Amministrazione. Hanno forza di legge quando gli ordini vengono emessi su delega del Senato (advice and consent, scrive la Costituzione). Tuttavia sono impugnabili per violazione della legge fondamentale della Repubblica. A quel punto comincia un complicato braccio di ferro con l’autorità giudiziaria. È già successo durante il primo mandato a partire dalla California a proposito dei limiti all’immigrazione; e delle 246 controversie aperte solo 54 sono state favorevoli all’Amministrazione. Un pensatoio conservatore come la Heritage Foundation ha criticato duramente il ricorso a questi diktat presidenziali, un modo occulto per creare norme giuridiche senza l’intervento del Congresso, oppure modificare norme già approvate esautorando le prerogative costituzionali del Parlamento. Biden ad esempio ha utilizzato il suo potere per l’obbligo della mascherina negli uffici federali durante la pandemia. Franklin D. Roosevelt emise un ordine esecutivo per mandare in campo di concentramento i giapponesi d’America, durante la Seconda guerra mondiale; Harry Truman per proibire discriminazioni razziali nelle forze armate. Trump si è spinto davvero molto, troppo in là. “Lei vuol diventare un dittatore?”: la domanda è uscita spontanea dalla bocca di Sean Hannity, giornalista dell’amica Fox News che lo intervistava il 6 dicembre scorso. “No, no, no, a parte il primo giorno - ha risposto Trump - Chiuderemo il confine e trivelleremo, trivelleremo, trivelleremo”. Così ha fatto. Durante il primo mandato aveva già provato ad appropriarsi del cosiddetto “libro dell’apocalisse degli Stati Uniti”, cioè i documenti di emergenza presidenziali (Pead) che contengono ordini esecutivi, proclami e messaggi al Congresso. Il contenuto non è disponibile né al pubblico e nemmeno al Parlamento, ma viene condiviso solo in base alla necessità. La rivista Time ha riferito che il personale della Sicurezza nazionale gli aveva impedito di conoscere “l’intera portata di queste interpretazioni dell’autorità presidenziale, temendo che ne avrebbe abusato”. Adesso ha la strada spianata. La dittatura del primo giorno ci porta al rapporto con la magistratura. Il labirinto giudiziario - La legge è uguale per tutti, ma poi il presidente decide. L’uso della grazia (pardon) può sconfinare nell’abuso. Gerald Ford graziò Richard Nixon, costretto alle dimissioni per lo scandalo Watergate. Adesso siamo arrivati alla grazia in famiglia. Joe Biden ha perdonato in extremis non solo il figlio Hunter, ma fratelli e cognati, poi ha sottratto alla vendetta trumpiana lo scienziato che ha gestito la pandemia, Anthony Fauci, e con lui una serie di funzionari pubblici dei quali il suo successore voleva gli scalpi. Trump a sua volta ha graziato i no vax trasformati in eroi della libertà e quasi tutti i 1.500 assaltatori del Campidoglio, anche quell’Enrique Tarrio, presidente dei Proud Boys, che era stato condannato a 22 anni di prigione, e Ross William Ulbricht, il fondatore di Silk Road, il sito considerato “il mercato nero del web”, condannato all’ergastolo negli Stati Uniti. Ulbricht è stato arrestato dall’Fbi nel 2013 e condannato per traffico di droga, pirateria informatica e riciclaggio di denaro sporco. Su Silk Road venivano venduti illegalmente farmaci, narcotici, armi e documenti falsi usando i bitcoin. Cosa penserà la famiglia di Brian Sicknick, l’agente ucciso il 6 gennaio 2021? E i 140 poliziotti feriti? Trump non si ferma perché vuol consumare la sua rivincita anche sul potere giudiziario o meglio su quella parte che si è schierata contro di lui, le “toghe azzurre” visto che il rosso è il colore dei repubblicani. Non gli basta di aver ottenuto dalla Corte suprema l’immunità, considera illegittima non solo la sua condanna per la violenza contro la pornostar Stormy Daniels, ma l’intero processo: “La Vera Giuria, il popolo americano, ha parlato rieleggendomi con un mandato travolgente”, un proclama ormai tipico dell’universo populista, ma rimette in discussione un pilastro della Costituzione americana che garantisce l’indipendenza della magistratura. Il presidente può nominare i giudici federali (incluse Corte suprema e Corte d’appello), è il Senato tuttavia che deve dare il via libera. È uno dei contrappesi previsti dai padri fondatori. I senatori possono anche arrivare al blocco di una nomina presidenziale in una corte distrettuale, basta l’opposizione di un senatore dello stato interessato. Il potere giudiziario come terzo braccio del sistema liberal democratico è un contributo teorico e pratico della costituzione americana che, però, è rimasta anche su questo abbastanza generica. Nel 1803 per la prima volta venne stabilito che la Corte suprema può dichiarare incostituzionali gli atti del Congresso e nel tempo la è diventata arbitro tra il potere esecutivo e quello legislativo, limitando di volta in volta l’uno o l’altro. Si è detto spesso che di fatto negli Stati Uniti “la Costituzione è quel che la Corte dice che sia”, e il pendolo della storia è oscillato a seconda che prevalessero i conservatori o i liberal. Ma raramente è stata messa in discussione la probità e l’autonomia dei giudici, nominati a vita non direttamente dal popolo, ma da presidente e Congresso. Dove arriverà Trump? La presidenza imperiale - I padri fondatori degli Stati Uniti erano appassionati cultori di storia romana, ammiravano la repubblica, si firmavano Cicerone, Catone, Bruto, eroi della battaglia contro Cesare pronto a farsi tiranno. I nuovi padroni americani, invece, sono appassionati dell’Impero. La Costituzione scritta nel 1787 per un paese rurale e semi spopolato, influenzata dai princìpi dell’illuminismo e da uno spirito missionario, è chiara, ma parca se non vaga sui poteri effettivi del presidente che hanno subìto profonde trasformazioni via via legittimate dalla Corte suprema. Si è passati dall’èra del Congressional Government, in cui era evidente l’assoluta centralità del Parlamento nel sistema di governo separato, all’èra del Presidential Government, in cui il baricentro istituzionale si è spostato nettamente creando una progressiva “presidenzializzazione” della forma di governo. Le cose cambiano già dopo la Guerra civile. La prima vera svolta si deve a Teddy Roosevelt, presidente dal 1901 al 1909, ma anche a Franklin Delano Roosevelt (erano lontani cugini), che soprattutto con il New Deal ha trasformato la Casa Bianca nel centro politico e istituzionale del potere. Si riapre così una questione che si erano posti i padri fondatori: il presidente è un re elettivo? La monarchia era la forma di governo che nessuno voleva, visto il cattivo esempio inglese. Ma c’era pur bisogno di un potere centrale, su questo si era battuto il federalista Alexander Hamilton contro l’autonomista Thomas Jefferson, così nel 1790 si arrivò a un compromesso tra centro e periferia, stati e istituzioni federali, Parlamento e governo. Oggi siamo a una vera e propria “rivincita di Hamilton” in politica interna e internazionale? Non è certo nuova l’aspirazione a fondare una “presidenza imperiale” come la definì in un suo famoso saggio Arthur Schlesinger Jr. Lo storico che era stato un ascoltato consigliere di John Fitzgerald Kennedy, prendeva spunto dalle forzature di Richard Nixon per trarre delle conclusioni generali soprattutto a partire dalle guerre. Il ruolo del Presidente è via via cambiato anche in politica interna. Accade spesso che egli rediga un disegno di legge per poi chiedere ad alcuni senatori o rappresentanti di promuovere quello stesso disegno all’esame del Congresso; ma anche in altre occasioni fa sentire il suo peso politico nel processo legislativo. Al discorso sullo stato dell’Unione viene allegato in genere un elenco di disegni di legge che determinano le scelte del Congresso. Una volta firmato un provvedimento il capo del governo può aggiungere una dichiarazione nella quale indica come applicare la legge. Lo hanno fatto sia George W. Bush sia Barack Obama suscitando un mare di polemiche. Vedremo presto come Trump vorrà appropriarsi di una parte del potere legislativo. “Noi abbiamo bisogno di una presidenza forte - ha scritto Schlesinger - Ma forte nell’ambito della Costituzione. La democrazia americana deve trovare una via di mezzo tra il presidente zar e il presidente fantoccio”. La guerra ai confini - È al Congresso il potere di guerra e di pace, eppure la Casa Bianca è diventata la vera War Room e il “comandante in capo” non si limita a dirigere e coordinare le forze armate. L’invasione di Panama venne decisa da Teddy Roosevelt nel 1903 senza dichiarazione, lo stesso accadde per l’invasione di Grenada (Reagan nel 1983 litigò con Margaret Thatcher) o il blitz a Panama per prendere Noriega (George H. Bush 1990). Il Patriot Act adottato da George W. Bush dopo l’11 settembre aveva ampliato i poteri di emergenza, ma allora si trattava della “guerra al terrore” e Bush aveva chiamato tutti gli alleati occidentali a partecipare. Oggi di alleati non si parla più e l’èra dei neocon, dell’esportazione della democrazia, è morta e sepolta. L’emergenza al confine meridionale non viola le prerogative del presidente, ma le interpreta a favore di una delle sue priorità: la lotta all’immigrazione e non solo quella clandestina perché nello stesso tempo ha deciso di abolire lo ius soli, tornando al diritto di sangue. Nel suo comiziante discorso d’investitura Trump non ha citato nessun paese alleato. America First di per sé è una definizione ambigua, può significare America da sola chiusa in se stessa, America leader di un universo unipolare, America che si spartisce il mondo in base a nuove sfere d’influenza. Le sue parole e i suoi primi atti fanno pensare alla prima interpretazione: la riconquista di Panama, il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità, lo stop ai finanziamenti esteri e così via. La vicenda di TikTok apre una finestra sulla terza interpretazione: il social media potrebbe diventare anch’esso una merce di scambio di un negoziato più ampio con Pechino, così sembra anche dopo la telefonata con Xi Jinping prima del giuramento. Lo storico Liam Neeson ha tracciato su Foreign Affairs un parallelo con Ronald Reagan. Ci sono senza dubbio delle similitudini, ma c’è una differenza fondamentale, non solo perché Ronnie era un liberal sul terreno dei diritti civili, ma perché la sua dottrina, la lotta all’Impero del male, metteva gli Stati Uniti alla guida di uno scontro dell’occidente contro i suoi nemici, a cominciare naturalmente dall’Unione sovietica, anche sul terreno dei valori e degli ideali. Per Trump l’occidente è un nonsense, considera il Canada e l’Unione europea avversari quasi personali, la Spagna fa parte dei Brics, l’Australia non esiste mentre prima era considerata la lancia occidentale in estremo oriente. L’America di Trump pensa ai propri specifici interessi trattando caso per caso per ottenere quel che più giova a se stessa anche se questo lede gli interessi degli (ex?) alleati. La logica amico-nemico di Carl Schmitt, il giurista guru dei nazi, esaltata da Peter Thiel, non si applica al conflitto tra democrazia e autocrazia, ma tra nazione e nazione con gli Usa come nazione dominante. L’imbroglio delle tariffe - Trump vuole punire Cina, Canada, Messico, l’Unione europea, intende raccogliere con le tariffe i soldi dei nemici e finanziare così il taglio delle tasse. Ecco la grande trovata. Per questo “tariffa è la parola più bella”. Peccato che non siano i cinesi o gli europei a pagare, ma gli americani. Dazi e tariffe non cadono su chi esporta, ma su chi importa il quale o scarica i costi sui prezzi finali e allora genera inflazione, oppure chiude bottega. The Donald ha annunciato un’agenzia dove versare i quattrini dall’estero e la chiama External revenue service per far da pendant con l’Internal revenue service per le tasse federali. Solo che anche quei dollari provengono dall’interno e se fanno aumentare i prezzi riducono lo stesso valore reale dell’imposizione su salari e profitti. Certo i paesi esportatori potrebbero veder ridurre le loro merci vendute negli Usa, ma non è detto. Possibile che i guru del trumpismo non l’abbiano capito? O ci stanno prendendo per i fondelli? Il dubbio è forte, tanto che per ora lo stesso Trump ha tuonato, ma la pioggia di tariffe non s’è vista: ha firmato una direttiva per come comportarsi al fine di favorire un commercio “equo” e punire i comportamenti scorretti. Non può essere tutto qui. Non ci resta che aspettare. È da capire anche come intende muoversi verso la Federal Reserve per influenzare la politica del dollaro. Con l’uso ad ampio raggio dei bitcoin, la valuta virtuale e incontrollata che occupa la zona oscura tra mezzo di scambio e riserva di valore, tra lecito e illecito, il presidente e il suo mago di Oz (alias Elon Musk) intendono creare un sistema parallelo che rimetta in discussione l’autonomia e la funzione della banca centrale. È a questo che pensa la “tecno-destra” mescolando gli interessi personali con l’ideologia dell’ala radicale sempre contraria al monopolio statale della valuta. Se tutto questo favorisce il ridimensionamento del dollaro negli scambi finanziari e mercantili non fa il gioco dello Yuan? I tecno-bonus - La corte di big boss della nuova industria tutti allineati per avere i soldi dei contribuenti è l’immagine forse più nuova e impressionante dell’Inauguration day. Erano partiti dai laboratori della Silicon Valley, si erano finanziati con i “capitalisti di ventura”, avevano applicato la teoria di Joseph Schumpeter, prima inventori, poi innovatori, poi imprenditori, infine oligopolisti, partendo dal mercato per dominare il mercato. E adesso? Diventano concessionari del governo, vogliono autostrade (anche se nell’etere non sulla terra), vogliono portare il business tra le stelle, vogliono far parlare i telefonini attraverso i satelliti, per tutto questo c’è lo zio Sam. La grande partita si gioca non sui sogni marziani, ma sull’intelligenza artificiale. I galli nel pollaio sono già troppi e hanno cominciato a beccarsi. Musk ha attaccato il progetto Stargate battezzato da Trump (un’alleanza tra OpenAI, la giapponese Softbank, Oracle e Mgx, il fondo di Abu Dhabi) che stanzia 500 miliardi di dollari: “Non hanno il capitale”, ha detto. Sam Altman lo ha accusato di mescolare la sua nuova funzione pubblica con l’interesse privato perché Elon si sta facendo la propria IA (i due si odiano e combattono da tempo). Non è il solo intreccio perverso. L’imprenditore sudafricano viene finanziato dalla Nasa per riportare l’uomo sulla Luna. Solo che finora i razzi di SpaceX scoppiano dopo la partenza, anche se lui non perde l’appalto; la missione viene spostata di anno in anno, il contribuente sogna e paga. Musk ha cominciato con un sistema di pagamento tutto privato (Paypal) poi s’è buttato sull’auto elettrica, la bolla Tesla si è gonfiata a dismisura ed è arrivata al massimo, adesso si ripara sotto l’ombrello di stato. Jeff Bezos ha rivoluzionato la distribuzione delle merci (partendo dai libri), ora anche lui si mette in coda alla Casa Bianca. La guerra in Ucraina e quella in medio oriente alimentano un nuovo complesso militar-industriale che ruota attorno al Pentagono, lo zio Sam stacca gli assegni, il Congresso è intrappolato nel gioco delle lobby al quale prende parte attiva lo stesso presidente. I padri fondatori non lo avrebbero mai immaginato. Il piatto della bilancia - I pesi e contrappesi funzionano ancora? Un banco di prova fondamentale è proprio la difficile composizione dell’interesse nazionale. Trump ha messo in piedi una strana alleanza tra plutocrazia immensamente ricca (anche se oggi meno autonoma e forse meno potente), ceti rurali, classi disagiate e periferiche, lavoratori della vecchia industria che si sentono minacciati proprio dal trionfo della nuova. Per capire come ci sia riuscito sono al lavoro le migliori menti della politologia, per vedere se reggerà bisogna aspettare che maturino quelle che possono essere definite le contraddizioni in seno al capitale, delle quali si vedono già i primi segni. In che modo reagiranno ai tagli dei finanziamenti pubblici le industrie elettriche che hanno puntato sulle rinnovabili? E gli stati dalla California all’Arizona che hanno costruito enormi centrali solari? “Drill baby drill”, ma il petrolio e il gas americani costano più di quelli arabi, perché dovremmo comprarli, solo per finanziare Trump? La pluralità degli interessi e dei poteri economici, sulla carta difficilmente componibili, può essere di per sé un contrappeso sia pur in negativo. Il presidente ha la maggioranza in Congresso, ma è la più ristretta dagli anni 30, basta un’ondata di influenza per invertire gli equilibri. Spetta al vicepresidente tenere a bada il Senato (è lui che lo presiede), però Vance non sembra attrezzato, ha già inciampato sulle nomine, e sulla riduzione delle tasse si svolgerà in tempi brevissimi una battaglia senza esclusione di colpi. È vero che anche il potere giudiziario si è spostato a destra, tuttavia seppur eletti politicamente i giudici normalmente tengono alla loro integrità. Non solo, come ha scritto l’Economist, “Washington è piena di gente che intende rimanere anche quando tra quattro anni Trump se ne sarà andato”. Ma se ne andrà davvero?