Ministro Nordio, si è dimenticato il lavoro dei detenuti? di Ilaria Dioguardi vita.it, 25 gennaio 2025 In 44 minuti di “Relazione sull’amministrazione della Giustizia”, presentata alla Camera e al Senato, il Guardasigilli ha toccato tanti temi ma non quello del lavoro delle persone dietro le sbarre. Amnesia od omissione? Luciano Pantarotto (Federsolidarietà): “Il ministro poteva trovare il tempo da dedicare ad un tema così importante” e dice che “manca una coprogettazione delle attività lavorative tra il Dipartimento, con i provveditorati regionali, e le Regioni. In primis sarebbe importante coinvolgere i soggetti del Terzo settore, per rafforzare le proposte formative e lavorative negli istituti di pena, che sono carenti”. Una Relazione sull’amministrazione della Giustizia di quasi tre quarti d’ora, quella del Guardasigilli Carlo Nordio presentata alla Camera e al Senato, nella quale hanno trovato spazio tanti argomenti: dal Protocollo Italia-Albania all’intelligenza artificiale, dalla politica del personale al G7 dello scorso maggio a Venezia. Non una parola sul lavoro dei detenuti in carcere. “In 44 minuti di discorso si poteva trovare il tempo per un tema così importante”, dice Luciano Pantarotto, coordinatore del gruppo di lavoro Giustizia Federsolidarietà Confcooperative. L’85% alle dipendenze dell’amministrazione - “I detenuti occupati in attività lavorative rappresentano ad oggi circa il 33% dei presenti (circa 20.240 detenuti lavoratori al 30 giugno 2024) e all’incirca l’85% di essi lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria”, si legge nella Relazione del ministero sull’Amministrazione della giustizia, anno 2024. Ma, per i detenuti dipendenti dall’amministrazione, il lavoro si svolge per poche ore al giorno, per pochi giorni alla settimana o al mese. I detenuti, in carcere, sono impiegati prevalentemente in attività definite di tipo “domestico” relative alla gestione quotidiana dell’istituto (pulizie, facchinaggio, preparazione e distribuzione dei pasti, interventi di piccola manutenzione, assistenza ad altri detenuti), oppure in attività di tipo “industriale”, presso laboratori e opifici presenti all’interno degli istituti per la produzione di arredi ed effetti di casermaggio necessari agli istituti (falegnamerie, officine fabbri, sartorie, tessitorie, tipografie) o, ancora, in attività di tipo agricolo. Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap, al 30 giugno 2024, quando erano presenti nelle carceri italiane 61.480 detenuti, erano 17.096 le persone detenute lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, mentre 3.144 erano quelle lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. L’assenza di una coprogettazione - “Quello che manca è una coprogettazione delle attività lavorative tra il Dipartimento, con i provveditorati regionali, e le regioni. In primis sarebbe importante coinvolgere i soggetti del Terzo settore per rafforzare le proposte formative e lavorative che sono carenti”, continua Pantarotto. “C’è uno iato tra il compito che è stato affidato al Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, con tanta enfasi, e quello che fanno gli uffici deputati (Dap e la maggior parte elle sue emanazioni regionali) alla realizzazione di quanto il Cnel ha individuato. Nell’aprile 2024 è stato organizzato un grande evento, organizzato dall’ente con a capo Renato Brunetta e il ministero della Giustizia, dal titolo “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere”, nel solco di un accordo interistituzionale sottoscritto il 13 giugno 2023 tra Cnel e ministero della Giustizia in tema di formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”. “Quello del Cnel”, prosegue, “è sicuramente uno stimolo di un organismo importante. A nove mesi di distanza da quell’evento, noi vediamo le stesse criticità di prima per quanto riguarda l’offerta di lavoro ai detenuti. Che sono aumentate dalla carenza del personale di Polizia penitenziaria che sta accentuando la difficoltà di accesso all’interno degli istituti di attività sia formative sia lavorative. Ci domandiamo se quello che viene indicato come indirizzo dal Cnel sia nella piena attuazione da parte degli uffici del ministero”. Sette milioni di differenza, tra stanziamento e richieste di coop sociali e imprese - Lo stanziamento previsionale, per il 2025, per le agevolazioni fiscali richieste da cooperative sociali ed imprese per assumere i detenuti è di poco più di 19 milioni di euro, come si legge nel Provvedimento del ministero della Giustizia del 16 dicembre 2024. “Ma l’importo complessivo delle agevolazioni fiscali richieste da cooperative sociali ed imprese, risulta essere pari a poco più di 12 milioni di euro. Ciò vuol dire che, come accade ogni anno, lo stanziamento previsto non sarà utilizzato tutto, resteranno fuori circa sette milioni di euro”, continua Pantarotto. “L’anno scorso c’era stato uno scollamento di circa sei milioni e mezzo tra lo stanziamento per le agevolazioni fiscali richieste da coop sociali ed imprese per assumere i detenuti e l’importo richiesto da queste. C’è un trend in leggera crescita. Sono storicamente sempre le stesse le cooperative e le imprese che propongono progetti di lavoro per i detenuti, c’è una grande difficoltà a farne entrare di nuove”. Il Dap senza un capo - “L’ulteriore decadimento del sistema penitenziario sconta, ultimamente, anche la carenza del vertice del Dap”, afferma Pantarotto. Dopo le dimissioni di Giovanni Russo, lo scorso dicembre, al suo posto andrà l’attuale vice del Dap Lina Di Domenico. “Ma l’incarico, dopo più di un mese, non è ancora stato formalizzato. L’assenza, in questo momento, di una persona alla guida del Dap comporta il fatto che il tema del lavoro dei detenuti non venga affrontato, in ragione del sovraffollamento e della carenza di personale. Questa situazione blocca tutte le direzioni, per cautela o per opportunità”, continua Pantarotto. “C’è da dire anche che è in aumento il fenomeno delle dimissioni dei neoassunti agenti di Polizia penitenziaria, che lasciano gli incarichi dopo un breve periodo lavorativo all’interno degli istituti di pena”. L’appello di Cassano sul carcere: “Sgomento per il numero di suicidi” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 gennaio 2025 L’intervento della presidente della Cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “In uno Stato democratico il carcere non può essere un luogo di mortificazione della dignità umana”. “Deve risuonare nelle coscienze di ciascuno di noi il monito del Presidente della Repubblica a scongiurare che la persona ristretta in carcere viva in condizioni angosciose e disperanti, “indecorose per un Paese civile”, tali da costringerla a gesti estremi”: è un monito forte quello pronunciato dalla Prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario. In un momento in cui dal primo gennaio 2025 i suicidi negli istituti di pena sono già 9, la magistrata invita la politica a fare di più per fronteggiare quel sentimento che ha definito di “sgomento” nel constatare quante vite umane si sono tolte la vita mentre erano nella custodia dello Stato. Un altro capitolo della sua relazione è stato poi dedicato al carcere in generale. Nonostante “la natura di estrema ratio della detenzione in carcere, la valorizzazione delle misure alternative, l’estensione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, comma secondo, Cost.) anche alle norme sull’esecuzione della pena che hanno concreta incidenza sulla libertà personale del condannato, si assiste ad un progressivo aumento delle presenze in carcere”. Questo scenario - “sovraffollamento, insieme con il degrado materiale in cui versano taluni istituti penitenziari” per la prima magistrata d’Italia “rischia come osservato dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU - di sottoporre i detenuti ad una “prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione”, rende assai difficile l’accesso alle misure trattamentali previste dall’ordinamento penitenziario in funzione di recupero, vanifica il rispetto della dignità della persona, crea i presupposti di possibili ricadute nel reato. In uno Stato democratico il carcere non può essere un luogo di mortificazione della dignità umana”. Lancia poi un vero allarme, sottovalutato dal Parlamento inerme dinanzi al fenomeno e restio a mettere in atto serie ed urgenti misure deflattive della popolazione carceraria: “A fronte di una capienza regolamentare di 51.312 posti, al 30 dicembre 2024, risultavano presenti 61.861 detenuti (di cui 2.698 donne e 19.694 stranieri) rispetto ai 56.196 del 2022. Di essi 46.232 sono condannati definitivi, 9.475 in attesa del primo giudizio e 5.839 condannati non definitivi”. Si tratta per la Cassano “di una crescita preoccupante se si considera che non si è molto lontani dal numero di 66.000 persone ristrette in carcere che connotava la situazione carceraria all’epoca della sentenza della Cedu Torreggiani c/Italia dell’8 gennaio 2013 che ha condannato il nostro Paese per la violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti disumani e degradanti)”. Verso la fine è passata ad elencare i dati sull’arretrato: “L’obiettivo di riduzione del 95% dei procedimenti civili pendenti al 31 dicembre 2019, fissato dal PNRR, è stato conseguito e superato dalle Corti d’appello, che hanno abbattuto l’arretrato del 99,2%, mentre i Tribunali sono vicini al suo conseguimento, avendolo abbattuto del 92,4%”. Per quanto concerne il settore penale “il disposition time si attesta, nell’anno giudiziario 2023-2024, per i Tribunali in 303 giorni (-2,3% rispetto al precedente periodo) e per le Corti d’appello in 623 giorni (- 9,6% rispetto al precedente periodo)”. La Corte di cassazione, a sua volta, “ha ridotto ulteriormente le pendenze del 30,3%”. Da qui la stoccata a chi in questi mesi punta a delegittimare la magistratura, anche per giustificare la riforma della separazione delle carriere: “Questi dati restituiscono un’immagine della magistratura diversa da quella oggetto di abituale rappresentazione e posta a base di progetti riformatori. Una magistratura che, conscia delle sue responsabilità, cerca di assolvere al meglio i propri doveri con spirito di collaborazione, tensione ideale, impegno professionale, senso del limite e della misura, ascolto attento delle ragioni altrui nella convinzione che un confronto costruttivo costituisce un prezioso stimolo a migliorare”. No, caro Ministro: l’indulto non incentiva i casi di recidiva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2025 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in Parlamento ha dichiarato che l’amnistia e l’indulto sono “un incentivo alla recidiva”. Ma su quali basi trae questo convincimento? C’è un dato che confermi tale assunto? In realtà, no, e i motivi sono sostanzialmente due. Il primo è che l’ultima amnistia è stata concessa più di trent’anni fa e non esiste alcun dato in tal senso, mentre sull’indulto concesso nell’estate del 2006 un dato c’è, e dimostra il contrario. Il secondo è che i dati indicano come sia proprio la carcerazione, priva di una prospettiva che non sia un ulteriore imbarbarimento, a produrre alti tassi di recidiva. All’epoca, il Ministero della Giustizia commissionò uno studio all’Università di Torino, in particolare ai professori Giovanni Torrente, Claudio Sarzotti e Giovanni Jocteau. Tre anni dopo la concessione dell’indulto, i risultati del primo studio scientifico sui tassi di recidiva dei detenuti smontarono molte delle menzogne costruite attorno a un provvedimento di clemenza necessario, votato dalla stragrande maggioranza del Parlamento. Lo studio, presentato alla Camera da Luigi Manconi, Rita Bernardini (all’epoca deputata dei Radicali) e Patrizio Gonnella di Antigone, elaborò i dati del Ministero della Giustizia al 30 giugno 2009, analizzando tutti i detenuti che negli ultimi 35 mesi erano tornati in carcere. Ebbene, i tassi di recidiva dei detenuti indultati risultarono “sorprendentemente” più bassi di quelli ordinari. La recidiva consueta era del 68%, mentre quella degli indultati era del 28,45% (30,31% tra chi era uscito grazie allo sconto di pena e ancora più bassa, il 21,78%, tra chi era in misura alternativa). I beneficiari del provvedimento furono in totale 35.794. Di questi, tornarono dietro le sbarre 10.182, pari appunto al 28,45%. Il numero di reingressi si concentrò nei primi sei mesi, spiegando così, forse, l’allarme sociale amplificato dai media dopo l’approvazione del provvedimento. Non solo. Lo studio dell’Università di Torino analizzò anche il tasso di recidiva in base al numero di carcerazioni precedenti. Il percorso “deviante” non viene interrotto dalla galera, anzi. Dei 4.204 indultati che avevano già 5 carcerazioni alle spalle, ben 2.208 tornarono in carcere. Al contrario, per gli incensurati interrompere in modo mite la prima carcerazione fu un beneficio: degli 11.086 usciti, rientrarono in 2.038. Una recidiva bassissima (18,38%): l’indulto, dunque, funzionò per 8 persone su 10. Il trend è chiarissimo: più volte sei stato in galera, più tendi a tornarci una volta uscito. I dati scientifici dimostrano quindi che l’indulto non è affatto un incentivo alla recidiva. Al contrario. L’efficacia intimidatoria della pena è smentita dai fatti: il numero di condannati che nella loro vita hanno già subito una condanna penale mostra tassi di recidiva assai elevati. Contemporaneamente, i tassi di incarcerazione degli ultimi anni nel nostro Paese mostrano un veloce incremento della popolazione penitenziaria. Ciò porta a ipotizzare la sostanziale inefficacia deterrente della sanzione penale, anche laddove essa è applicata costantemente nella sua forma più rigida, con la carcerazione di soggetti autori prevalentemente di reati di non eccessiva gravità. Qualcuno potrebbe obiettare che alcune persone hanno comunque commesso reati usufruendo dell’indulto. È vero, ma si tratta di reati che non sono di eccessiva gravità e che spesso riflettono il disagio di cui soffrono queste persone. Si parla quindi di reati contro il patrimonio, spesso sintomo di problemi economici o di difficoltà nell’inserimento nel mercato del lavoro. In altre occasioni, tali recidivi hanno commesso reati strettamente collegati allo stato di tossicodipendenza. Appare evidente, dunque, che il nuovo reingresso in carcere di tali soggetti rappresenta l’ennesimo fallimento di un’esistenza segnata da un progressivo degrado. Allo stesso tempo, tali reingressi devono essere interpretati come la prova del fallimento del sistema sanzionatorio nella risocializzazione delle persone che entrano a far parte del circuito penitenziario. Quindi non è l’indulto a incentivare la recidiva, ma il sistema penitenziario stesso. Finalmente un atto di umanità verso Ernesto Fazzalari, detenuto al 41bis di Luigi Longo e Antonino Napoli L’Unità, 25 gennaio 2025 In carcere si è ammalato di una forma di tumore al pancreas aggressiva e dalla prognosi incerta. Le sue gravi condizioni di salute sono state alla fine riconosciute e dichiarate incompatibili con lo stato di detenzione. La vicenda processuale e umana di Ernesto Fazzalari ruota attorno all’eterno conflitto tra libertà e autorità. Nell’ambito di questo conflitto, la reclusione in carcere, che è espressione massima di autorità, non può risolversi in una totale e assoluta privazione di libertà; può comportarne una grave limitazione, ma non può certo determinarne la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, infatti, conserva la propria libertà per il tramite di quel valore supremo che è la dignità umana che, essendo intrinseca all’esistenza dell’uomo, non può essere conferita, graduata o revocata, e permane al di là di ogni circostanza e condizione: è, in altre parole, il fondamento della precedenza e preminenza che l’individuo vanta nei confronti dello Stato. Ernesto Fazzalari era stato condannato all’ergastolo nel processo Taurus, pena successivamente ridotta a 30 anni dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria su richiesta del suo difensore per effetto della sentenza della Cedu nel caso Scoppola v/s Italia, ed è stato arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza. Durante questo periodo era stato inserito al secondo posto, dietro il solo Matteo Messina Denaro, nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità, una lista redatta dal Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti più pericolosi (GIIRL) della Direzione centrale della polizia criminale nell’ambito del Programma speciale di ricerca. In seguito al suo arresto, avvenuto il 26 giugno 2016, a Trepitò, in provincia di Reggio Calabria, Fazzalari è stato sottoposto al regime del 41 bis. Durante la sua detenzione gli è stata diagnosticata una grave patologia che ha indotto la difesa a chiedere il differimento della pena o la detenzione domiciliare sul presupposto che da alcune recenti sentenze, emesse dai giudici del merito, emergeva che dell’operatività di Fazzalari, quale capo di una cosca di ndrangheta, non si aveva dimostrazione concreta nel periodo antecedente alla sua cattura. Si è accesa così una lunga e dura battaglia legale tra la difesa di Ernesto Fazzalari e la magistratura di sorveglianza di l’Aquila, prima, e Bologna, poi. La detenzione domiciliare Fazzalari è stata concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna dopo che la Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi della difesa, ha annullato ben tre ordinanze di rigetto del differimento della pena o della concessione della detenzione domiciliare, una emessa dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila e due ordinanze emesse del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, in seguito al suo trasferimento presso il centro diagnostico e terapeutico del carcere di Parma. Quest’ultimo tribunale, riunendo due giudizi di annullamento della Cassazione, ha dovuto finalmente accogliere la richiesta della difesa. In tutti i ricorsi presentati, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna concedendo la detenzione domiciliare a Ernesto Fazzalari ha - di fatto - applicato il principio di civiltà giuridica che sancisce la prevalenza del diritto alla salute come garanzia della dignità del detenuto e dell’umanità della pena. È dovere del giudice, nelle proprie decisioni, riuscire a trovare sempre un equilibrio tra compassione e rigore, umanità e severità, in modo che l’applicazione del diritto sia avvertita dai tutti i cittadini, innanzitutto i condannati, come legittima e giusta perché la decisione giudiziaria non è mai un atto di pura tecnica giuridica, ma un atto di coscienza: la coscienza del “giusto”. Il rispetto della dignità umana dev’essere sempre la “bilancia” su cui pesare le compressioni di libertà autoritativamente imposte alla persona detenuta perché lo Stato può anche punire, ma mai vendicarsi. Nordio difende la sua riforma, toghe in trincea nelle Corti d’appello di Giulia Merlo Il Domani, 25 gennaio 2025 La presidente Cassano contraddice il ministro: “Magistratura diversa da come viene descritta”. Pinelli (Csm): “Il potere giudiziario si è espanso moltissimo. Ora siamo in fase di riequilibro”. La cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte di cassazione procede senza intoppi, ma il clima è quello rarefatto della calma prima della tempesta. Oggi, infatti, sarà il giorno delle cerimonie nelle 26 corti d’appello e anche il momento in cui la magistratura associata manifesterà il suo dissenso alla riforma costituzionale della separazione delle carriere, votata in prima lettura alla Camera e su cui il governo intende procedere dritto e spedito. Eppure, anche tra le mura della Suprema corte, si sono scontrate almeno due diverse visioni della magistratura. Una, presentata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella cui direzione è andato anche il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli. L’altra, quella fotografata dalla prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano. Il guardasigilli - che interverrà anche in corte d’appello a Napoli dove le toghe lasceranno la sala al momento del suo discorso - ha difeso la sua riforma, descrivendola come “un dovere assunto verso gli elettori” e che “non può confliggere con la Costituzione”, ribadendo però “il postulato assoluto dell’indipendenza del pm rispetto al potere esecutivo. Il ruolo del giudice uscirà difeso e rafforzato, senza indebolire l’accusa, attuando in pieno il principio liberale secondo cui la giurisdizione si attua mediante il giusto processo, dove le parti sono in condizioni di parità davanti al giudice terzo e imparziale”. Parole decisamente più lievi rispetto a quelle utilizzate appena qualche giorno fa alle camere, nella relazione sullo stato della giustizia. Eppure, l’affondo è arrivato quando ha parlato di una magistratura che ha opposto “resistenze culturali, non giustificabili ma comprensibili e, in parte, inevitabili” all’introduzione dell’applicativo per il processo penale telematico. Infine, ha confidato in una collaborazione tra ministero e uffici giudiziari “scevra da pregiudizi culturali”. Anche il vicepresidente del Csm Pinelli, pur sottolineando che “la magistratura interviene legittimamente nel dibattito e porta il proprio contributo di competenza”, ha però aggiunto che “quello giudiziario è un potere che si è espanso moltissimo negli ultimi cinquant’anni. Oggi siamo in una fase di riequilibrio che ha spinto la politica a toccare anche aspetti dell’architettura costituzionale”. Pur sottolineando la necessità di impedire “divisioni radicali”, secondo Pinelli le riforme derivano dal ““bisogno di dare una risposta alle degenerazioni che, nel recente passato, avevano caratterizzato il fenomeno italiano del “correntismo” in magistratura”, aggiungendo che “è necessario che la magistratura torni a occuparsi delle grandi questioni in termini costruttivi. Le degenerazioni, infatti, si sono determinate, talvolta, per una carenza di tensione ideale e di confronto sui grandi quesiti fondamentali”. Le divergenze - Se quella rappresentata da Nordio è una magistratura diffidente rispetto alle opere riformatrici e resistente al cambiamento, la prima presidente di Cassazione ha delineato un profilo diverso. Lo “sforzo” dei magistrati necessita “di essere accompagnato da un contesto improntato al rispetto reciproco fra le varie istituzioni dello Stato, a razionalità, pacatezza, equilibrio”, ha detto, sottolineando che i dati “restituiscono un’immagine della magistratura diversa da quella oggetto di abituale rappresentazione e posta a base di progetti riformatori” che fanno riferimento a una magistratura correntizzata, con un pm superpoliziotto irresponsabile ma con troppi poteri. La prima presidente ha descritto una “magistratura che, conscia delle sue responsabilità, cerca di assolvere al meglio i propri doveri con spirito di collaborazione, tensione ideale, impegno professionale, senso del limite e della misura, ascolto attento delle ragioni altrui nella convinzione che un confronto costruttivo costituisce un prezioso stimolo a migliorare”. Insomma “una magistratura consapevole” che “in un dialogo sempre fecondo con l’avvocatura, è protesa a fornire tutela effettiva ai diritti fondamentali”. Eppure, anche Cassano ha lanciato una stilettata, con un riferimento pur indiretto alle contestazioni dell’esecutivo rispetto alle decisioni giudiziarie: “Oggi rendere giustizia si è fatto più difficile e richiede al giudice la ferma osservanza di alcuni principi basilari: la ricerca di soluzioni saldamente ancorate al diritto positivo in ossequio al principio costituzionale di soggezione esclusiva alla legge; il rispetto del riparto delle attribuzioni previsto dalla Carta fondamentale; la leale collaborazione con i vari poteri e organi dello Stato”. Un timore, questo, manifestato anche dal procuratore generale di Cassazione, Luigi Salvato, che si è detto preoccupato per “una crisi di fiducia nella magistratura, preoccupante perché investe uno dei capisaldi dello Stato costituzionale di diritto. La fiducia non va confusa con il consenso sul merito dei provvedimenti. Il consenso è la fonte di legittimazione delle funzioni politiche, non del potere giudiziario, che si radica nella legalità”. Sullo sfondo, inevitabilmente, sono rimaste le grandi questioni strutturali della giustizia: la carenza di organico a cui il ministero sta tentando di porre rimedio, il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr e le sfide dell’intelligenza artificiale, l’emergenza delle carceri con “il nono suicidio dall’inizio dell’anno 2025” ricordato dal presidente del Cnf, Francesco Greco, che ha manifestato la preoccupazione dell’avvocatura per le condizioni di vita dei detenuti. Per misurare il vero livello di tensione tra esecutivo e toghe, però, bisognerà aspettare di saggiare l’adesione alle manifestazioni - cartelli fuori dalle aule e magistrati fuori al momento dell’intervento dei rappresentanti del governo - e il tenore del dibattito che produrranno. La sferzata di Pinelli all’Anm: “Riforma necessaria a stroncare il correntismo” di Errico Novi Il Dubbio, 25 gennaio 2025 Alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario celebrata in Cassazione, il vicepresidente del Csm ha censurato senza esitazioni “l’autoisolamento” della magistratura associata. Che ha in programma la clamorosa protesta nelle Corti d’appello. Era uno snodo cruciale. L’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione avrebbe dovuto sancire le posizioni in campo, le munizioni e le armi di un conflitto, fra governo e magistratura, inevitabile. Ma la cerimonia di oggi a piazza Cavour, aperta dalla relazione della prima presidente Margherita Cassano, ha squadernato sul tavolo dello scontro che ruota attorno alla separazione delle carriere, uno scenario nuovo. Con due protagonisti rimasti finora in disparte: il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, arrivato ad affermare senza esitazioni che la “riforma” di Carlo Nordio, e il sorteggio dei togati Csm in particolare, sono una “risposta alle degenerazioni del correntismo in magistratura”; e il procuratore generale presso la Suprema Corte Luigi Salvato, altrettanto drastico nel ricordare che qualche suo collega “purtroppo” è arrivato a “forzare il principio di legalità, anche sulla scorta del consenso, con il rischio di una sorta di populismo giudiziario”. Interventi che hanno finito per ridurre a una benevola carezza l’arringa con cui il guardasigilli ha difeso il proprio ddl. E che peseranno inevitabilmente domani sulla protesta organizzata dall’Anm: il “sindacato” ha previsto l’uscita dei magistrati dalle aule in cui si terranno le inaugurazioni nelle 26 Corti d’appello italiane non appena prenderanno la parola il ministro (a Napoli) e i delegati del governo (negli altri distretti). Fino all’ultimo l’Anm insiste nel definire “pericolosa” la riforma di Nordio e a ribadire le ragioni dell’inedito “sfregio”. E il presidente del Cnf Francesco Greco, dopo il discorso pronunciato alla cerimonia di oggi, ha auspicato che “domani nelle Corti d’Appello l’apertura dell’anno giudiziario si svolga senza atteggiamenti divisivi e plateali da parte della magistratura, nel rispetto delle istituzioni repubblicane e delle loro articolazioni territoriali. Il confronto”, ha ricordato il vertice dell’istituzione forense, deve avvenire “in modo costruttivo e nel pieno rispetto delle istituzioni democratiche. Il Parlamento è l’organo deputato a decidere su queste materie, e i cittadini avranno modo di esprimersi attraverso gli strumenti previsti dalla Costituzione. Gli avvocati continueranno a difendere questi principi indipendentemente dalle decisioni che verranno adottate, perché fanno parte della nostra tradizione e del nostro ruolo di difensori dei diritti”, ha ribadito il presidente del Cnf. Nella cerimonia di oggi, si è partiti dall’appello di Cassano per un “vero e proprio patto per lo Stato di diritto” tra le istituzioni. A cui hanno fatto eco i rischi di compromettere il “giusto processo” evocati da Greco e l’impegno per la digitalizzazione della giustizia, assicurato proprio “insieme al Cnf”, al centro dell’intervento di Gabriella Palmieri Sandulli, avvocata generale dello Stato. Ma il punto di tensione più forte è arrivato, appunto, con le parole di Pinelli. Con l’avviso alla magistratura che non può ridursi a “parte del conflitto” e perdere così la propria “terzietà”. Il vicepresidente del Csm ha messo in fila un discorso pesantissimo sui limiti che le toghe dovrebbero darsi. Un “autolimite” compatibile, sì, con il “parere”, negativo, espresso dal Consiglio superiore “a maggioranza”, rimarca Pinelli, sulle “riforme costituzionali”: a condizione però che ogni altro “contributo” tenga conto delle “esigenze che la riforma intende perseguire”. E qui il vertice di Palazzo Bachelet punta all’aspetto forse più contestato, dall’Anm, della riforma Nordio: il sorteggio dei togati. Una scelta su cui, ricorda impietosamente Pinelli, “ha pesato e continua a pesare il bisogno di dare una risposta alle degenerazioni del correntismo”. Le correnti dovrebbero tornare a essere luoghi di espressione del pluralismo nell’ordine giudiziario, capaci di produrre riflessioni sui “grandi temi”, come il rischio che il “carcere” diventi “luogo di morte” e “scuola del crimine”. Dovrebbe far questo, la magistratura associata, secondo il vicepresidente del Csm, anziché arroccarsi in “un’ottica di autotutela”. Di fatto una liquidazione senza appello della battaglia condotta dall’Anm. Un richiamo sospeso tra auspicio e censura, in cui Pinelli dichiara apertamente che solo se le correnti tornassero alla loro originaria vocazione di “laboratori culturali”, la magistratura dimostrerebbe di “non aver bisogno del sorteggio”. Pinelli è un laico. È al Csm, cioè, come consigliere eletto dal Parlamento. È professore e avvocato. Ed è noto che sia stato indicato soprattutto da un partito, la Lega, certo non espressone dello spirito più moderato, nell’attuale maggioranza. Ma non si può trascurare un dettaglio: lo stesso Pinelli è anche il “vice”, al Csm, del Capo dello Stato. Il suo discorso apre una frattura profonda, nell’ordine giudiziario. Certamente se ne vedranno i riflessi all’interno del Consiglio superiore. Ma non si potrà ridurre tutto a un’insofferenza della maggioranza togata nei confronti del vertice di piazza Indipendenza. Anche perché oggi si sono aggiunte le analisi altrettanto severe, nei confronti della magistratura, del pg Salvato, e in particolare sulle seduzioni del “populismo giudiziario”, come detto. E ancora, a Pinelli si associa pure la rivendicazione di Nordio, che ha difeso la separazione delle carriere sia dalla pretesa incoerenza “con la Carta fondamentale”, sia dall’insinuazione che il ddl preluderebbe a esiti rovinosi “per l’autonomia della magistratura”. L’indipendenza del pm, ribadisce il ministro, “è un postulato assoluto”. Insomma: dall’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, la magistratura, l’Anm, escono con un campo di battaglia un po’ diverso. Con qualche avversario, o “controparte dialettica”, in più rispetto al previsto: Pinelli e Salvato certamente. Qualcuno noterà il paradosso per cui è stato il pg di Cassazione Salvato, culturalmente più in sintonia con le componenti progressiste, e non la presidente Cassano, considerata più vicina alla moderata Magistratura indipendente, a esprimere le valutazioni più severe nei confronti dei colleghi. Colpisce, soprattutto, quel passaggio del procuratore generale sulla “centralità della giurisdizione” che “in qualche caso è stata scambiata con l’avvento di una nuova etica pubblica”. Una censura che ha il tono di una critica storica radicale agli oltre trent’anni trascorsi a partire da Mani pulite. La prima presidente della Cassazione ha evocato invece la tensione fra politica e magistratura solo per sollecitarne il superamento. E anzi ha nettamente difeso un ordine giudiziario che “cerca di assolvere al meglio i propri doveri”, e di realizzare persino in anticipo gli obiettivi di smaltimento dell’arretrato imposti dal Pnrr, nonostante la “grave scopertura dell’organico” che solo nella Suprema corte è “pari al 19%”. Sono dati che, secondo Cassano, “restituiscono un’immagine della magistratura diversa da quella oggetto di abituale rappresentazione e posta a base di progetti riformatori”. Il punto ora è capire quanto potrà pesare, una giornata come quella di oggi, sulla protesta Anm in programma per domani. Dopo il discorso di Salvato, dopo la durissima censura delle degenerazioni correntizie arrivata da Pinelli, l’iniziativa anti Nordio assunta dal “sindacato” è inevitabilmente più debole. E non si può escludere che, come il pg di Cassazione, altri procuratori generali, nelle loro Corti d’appello, si dissocino dalla forma clamorosa scelta appunto dall’Associazione magistrati e dalle sue correnti. Dopo l’inaugurazione di oggi, la forza dell’associazionismo giudiziario nel proclamare il proprio no alla separazione delle carriere, come ha avvertito Pinelli, rischia di assomigliare, più che a un’orgogliosa difesa di valori costituzionali teoricamente messi in discussione, solo a una rabbiosa insistenza nell’autotutela e nell’autoisolamento. Dal matrimonio forzato allo stalking, aumentano i reati da codice rosso di Flavia Amabile La Stampa, 25 gennaio 2025 Sempre più chiamate al 1522, ma il 73% delle donne non denuncia: “Hanno paura”. Mancano però statistiche approfondite. Valente: “C’è una legge ma non i decreti”. Il Governo la prenderà come l’ennesima puntata dello scontro con la magistratura, ma nelle parole pronunciate ieri dalla prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano non ci sono giudizi, commenti, affermazioni scomposte. Soltanto le nude cifre. Nel 2024 - spiega la prima donna a guidare la Cassazione - gli omicidi volontari sono in calo dell’8% rispetto ai 340 dell’anno precedente e ai 328 del 2022. Crescono, però, gli omicidi compiuti all’interno delle famiglie. L’assassino ha le chiavi di casa, urlano le donne durante le manifestazioni contro la violenza. E i delitti maturati in ambito familiare o affettivo - ricorda la presidente della Cassazione - ammontano a 151 e in 96 casi hanno come vittima una donna. La presidente Cassano prosegue poi spiegando che “sono in progressivo, costante aumento nell’ultimo triennio i cosiddetti reati “spia” (tra cui violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, stalking), dei quali i femminicidi costituiscono spesso il tragico epilogo, nonché gli altri reati ricompresi nel cosiddetto “codice rosso” (violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa +18%; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti +1%; costrizione o induzione al matrimonio +21%; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti +3%)”. Queste cifre, invece, forse faranno piacere a un governo che sull’inasprimento del codice rosso ha fondato una delle poche misure concrete approvate in materia di contrasto alla violenza sulle donne. Resta un ultimo richiamo da parte della presidente della Corte di Cassazione sul silenzio e sulla paura che ancora circonda questi reati nonostante i toni trionfalistici usati intorno al 25 novembre da chi è al governo. “A loro volta le rilevazioni dell’Istat restituiscono un quadro composito in cui all’incremento delle chiamate al numero di aiuto nazionale antiviolenza e stalking (+37,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) non corrisponde un aumento percentuale delle denunce o delle querele che anzi, nel 73% dei casi, non risultano presentate per varie cause, tra le quali assume preminente rilievo il timore delle reazioni dell’autore degli atti violenti (37,5%)”, conclude la presidente Cassano. A rendere più grave l’allarme lanciato ieri è un’altra mancanza da parte del governo che crea un quadro confuso, spesso opaco, incompleto, suscettibile di interpretazioni strumentali. Sul fenomeno si fa riferimento ai dati Istat che pubblica rapporti periodici. L’ultimo risale al 20 novembre, include un focus sulle vittime donne di omicidio e le relazioni con il loro assassino. Altri rapporti affrontano temi specifici, come il ruolo dei centri antiviolenza o l’impatto dei social. L’ultima indagine ampia che analizza più in profondità il fenomeno, risale al 2014. Dieci anni fa. Ci sono poi dati del ministero dell’Interno, altre rilevazioni Istat con cifre raccolte seguendo metodi diversi e quindi non comparabili, banche dati che non dialogano tra di loro. Quella sulle statistiche è una battaglia combattuta e vinta nel 2022 quando il governo era guidato da Mario Draghi e fu approvata la legge 53 che, però, è ancora in attesa di applicazione. Valeria Valente, senatrice del Pd e componente della Commissione Bicamerale contro il femminicidio che quella legge l’ha voluta, spiega: “Insieme a una lettura finalmente corretta e giusta del fenomeno della violenza che fa la presidente Cassano, è prezioso e necessario avere numeri e dati oggettivi e puntuali per contrastare e prevenire il fenomeno della violenza, e non solo quelli che può registrare il sistema giudiziario come per esempio quelli dei centri antiviolenza o dei pronto soccorso. Per questo aspettiamo l’approvazione dei decreti attuativi della legge sulle statistiche”. Per Cecilia D’Elia, senatrice Pd e vicepresidente della commissione bicamerale sul femminicidio, la relazione della presidente Cassano “è una fotografia della nostra società che parla soprattutto alle istituzioni per dire che per cambiare la rotta c’è bisogno di investire sulla prevenzione e sulla formazione degli operatori e delle operatrici della giustizia. C’è ancora un grande lavoro da fare, ancora troppa vittimizzazione secondaria e sottovalutazione del rischio. Per conoscere questo fenomeno, che è strutturale, avremmo bisogno finalmente dei decreti attuativi della legge sulle statistiche”. Per Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio - nelle parole della presidente Cassano c’è “consapevolezza e corresponsabilità” e bisogna “concentrarsi su politiche propositive e interventi mirati affinché la donna - aggiunge la presidente - non sia più una vittima, ma sempre più protagonista di una cittadinanza attiva. Il linguaggio, nelle nostre famiglie, nella scuola, nella società civile, nella politica e nella magistratura è elemento fondamentale assieme a una rinnovata cultura del rispetto”. Semenzato ricorda che “i numeri del 2024 in tema di violenza di genere segnano un piccolo ma significativo segno meno e l’aumento delle denunce per i cosiddetti reati spia costituisce un segnale di rinnovata fiducia delle donne nelle istituzioni. L’imponente apparato normativo, messo in campo negli ultimi due anni, certamente perfettibile, sta producendo i suoi effetti”. Caso Pifferi, indagate avvocata e psicologhe. Il pm: istruita su come fingersi “fuori di testa” di Andrea Siravo La Stampa, 25 gennaio 2025 L’avviso di chiusura delle indagini è stato notificato all’avvocata, lo psichiatra e consulente di parte e quattro psicologhe. Il 29 si apre il processo d’appello. “La prima cosa che m’ha detto l’Alessia è stato “Tizi, però non possiamo più parlare di niente, devo fare la mongoloide perché ci sono cimici dappertutto”. Tiziana Morandi, nota come la mantide della Brianza, lo ha riferito al pm della Dda, Francesco De Tommasi, durante una testimonianza parlando della sua compagna di cella Alessia Pifferi, la donna condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio pluriaggravato della figlia Diana nel luglio 2022. La deposizione è stata raccolta nell’ambito dell’inchiesta parallela sul presunto favoreggiamento personale che avrebbero commesso in concorso l’avvocata di fiducia Alessia Pontenani e le psicologhe in servizio al carcere San Vittore. A tutti loro è stato notificato nel pomeriggio di venerdì 24 gennaio l’avviso di chiusura delle indagini preliminari, l’atto che prelude la richiesta di rinvio a giudizio. Che un’indagine condotta dalla Polizia penitenziaria fosse in corso sull’avvocata e alcune delle psicologhe che assistono i detenuti di San Vittore era cosa già nota. L’ipotesi inquirente è che a Pifferi le professioniste abbiano fornito un’assistenza psicologica “qualificabile come vera e propria attività di consulenza difensiva, non rientrante” nelle loro competenze. Dall’atto si scopre che a finire indagato è anche lo psichiatra Marco Garbarini, consulente di parte della 39enne, che in concorso con la legale Pontenani avrebbe eterodiretto Pifferi nel corso della perizia psichiatrica disposta dalla Corte di assise nel processo di primo grado. Un accertamento tecnico che aveva trovato la donna totalmente capace di intendere e di volere quando nel luglio 2022 aveva abbandonato a casa da solo e lasciato morire di stenti la figlia di quasi 18 mesi. “Oltrepassando i limiti di legge dei mandati loro conferiti - annota il pm nel capo d’incolpazione per favoreggiamento personale - aiutavano, in attuazione di un ‘piano’ precostituito” la 39enne “a eludere le investigazioni dell’Autorità Giudiziaria, istruendola, su quello che avrebbe dovuto dire” allo psichiatra Elvezio Pirfo, perito nominato dalla Corte d’Assise per valutare e verificare la sua imputabilità. Secondo il pm durante i colloqui in carcere con l’esperto, incaricato dai giudici, Pifferi “mentre parlava, rivolgeva” a Garbarini, che in qualità di consulente di parte poteva assistere ““ogni tanto” lo sguardo per ottenerne l’approvazione in merito al contenuto delle proprie risposte, approvazione che il Garbarini esternava annuendo con il capo”. Delle presunte indicazioni sull’apparire come “fuori di testa” che Pifferi avrebbe ricevuto dall’avvocata Pontenani ne ha parlato con il pm De Tommasi anche la compagna di cella, Tiziana Morandi, che condivideva con lei lo stesso Garbarini e per un periodo la stessa legale. Il prossimo 29 gennaio si aprirà il processo di secondo grado davanti alla Corte d’assise d’appello per Pifferi. Alla corte la difesa è intenzionata a chiedere di riaprire l’istruttoria dibattimentale con una nuova richiesta di perizia. “La data della notifica dell’avviso di chiusura dell’indagine non appare casuale, dato che tra cinque giorni comincia il processo d’appello per Alessia Pifferi. Spero che non sia l’ennesimo tentativo di intimorire la difesa”, ha commentato, interpellata dall’Ansa, l’avvocata Pontenani, che non ha nessuna intenzione di rinunciare al mandato. Tuttavia, è preoccupata che l’avviso di conclusione dell’indagine “con queste accuse possa pregiudicare la mia difesa in appello”. Inoltre il legale ha osservato: “Se il teste chiave è davvero la “mantide della Brianza”, è cosa quanto meno singolare conoscendo la signora e l’esito del suo processo. Ha affermato falsità riguardo, per esempio, a quanto io avrei detto ad Alessia Pifferi, se non altro perché mi attribuisce termini mai usati in vita mia”. No all’affidamento terapeutico di chi non è tossicodipendente al momento dell’istanza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2025 Al centro della misura alternativa c’è la necessità di cura del condannato connesso alla previsione positiva che il percorso è idoneo a prevenire la commissione di altri reati. No alla misura alternativa dell’affidamento in prova a fini terapeutici se le condizioni di salute del condannato - al momento della presentazione dell’istanza - escludono il permanere di una dipendenza da sostanze stupefacenti o alcoliche. Infatti, la cura di chi è in espiazione di una pena detentiva è elemento essenziale della finalità, di prevenzione dalla commissione di ulteriori reati, perseguita da questa tipologia di misura alternativa al carcere. Anche se l’assenza dello stato di tossicodipendenza è centrale nel giudizio di inidoneità della misura vi sono altri elementi essenziali indicativi di tale inadeguatezza. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 2922/2025 - ha rigettato le doglianze del ricorrente contro il diniego di concessione della misura alternativa da parte del giudice di sorveglianza. La finalità preminente dell’affidamento terapeutico, cioè la prevenzione di condotte devianti da parte del condannato, veniva ritenuta non perseguibile se - come nel caso concreto - il soggetto al momento dell’istanza è da considerarsi pericoloso in base all’osservazione e ai dati raccolti dal giudice. Infatti, il carattere proficuo del trattamento terapeutico riposa sulla concreta collaborazione del soggetto tossicodipendente, che è esclusa in radice dalla sua pericolosità. L’esame della personalità deve fondarsi su dati oggettivi provenienti dall’osservazione delle condotte precedenti e susseguenti il reato per cui vi è stata condanna al fine di valutare il processo di revisione critica indispensabile per affermare il reinserimento sociale del soggetto. Pericolosità o prognosi negativa rispetto all’obiettivo di prevenzione dei reati e del reinserimento sociale della persona sono quindi fattori che legittimano il rigetto dell’istanza di affidamento terapeutico per la persona asseritamente tossicodipendente, ma preminente è l’impossibilità di perseguire attraverso la permanenza in comunità terapeutica il recupero nosografico a fronte di condizioni di salute del condannato che depongono per l’assenza di uno stato di tossicodipendenza ancora in atto. Modena. “Mio figlio morto suicida in cella, i nostri appelli inascoltati” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 25 gennaio 2025 Parla Michele Romagnoli, autista del 118 a Ravenna, padre di Fabio: “Era fragile ma nessuno è intervenuto. Chiedo che non capiti ad altri”. “I detenuti ma anche i loro parenti vanno ascoltati. Non sono numeri ma persone. Cosa chiedo oggi? Che non capiti più a nessuno quello che è successo a mio figlio”. L’appello parte da Michele Romagnoli, residente a Ferrara, Portomaggiore e autista nella centrale operativa del 118 a Ravenna. Si tratta del papà di Fabio Romagnoli, il detenuto 40enne morto in carcere a Modena il 20 febbraio 2023 dopo aver inalato gas da un fornellino. Il pm Francesca Graziano, al termine delle indagini, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo per omicidio colposo, rimasto a carico di ignoti. Il legale della famiglia, l’avvocato Luca Sebastiani ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione poiché - ha spiegato la famiglia - il 40enne aveva tentato il suicidio altre volte. Fabio era finito in carcere per stalking ma mostrava segni di depressione da tempo? “Mio figlio era fragile. Aveva avuto una relazione con una ragazza modenese che, al termine del rapporto, lo aveva denunciato. Poi era andato a convivere con una ragazza a Ferrara e anche in questo caso era scattata una denuncia. Mio figlio lavorava come cuoco al mare, era bravissimo. Era però finito a seguito delle denunce ai domiciliari e una sera ha fatto l’errore gravissimo di bere. È uscito di casa e ha tamponato un’auto: dietro c’era una pattuglia della polizia ed è finito in carcere. Quattro mesi dopo, il 20 febbraio di due anni fa, si è suicidato. Non stava bene: era un ragazzo che giocava a calcio, che usciva con gli amici e in carcere da 70 chili era arrivano a pesarne 50. Ne parlai con l’avvocato che mandò una pec per spiegare la situazione ma nessuno ci fece caso”. Avete parlato di altri tentativi di suicidio… “Aveva già provato col gas; lui mentì dicendo che c’era stata una fuoriuscita e gli hanno ridato la bomboletta. L’ultimo giovedì in cui gli ho fatto visita mi ha detto di stare tranquillo: avevamo fatto tanti progetti; era un bravo lavoratore e da una pietra ti tirava fuori un lingotto. Faceva i capannoni prima e ancora prima realizzava insegne luminose, poi il meccanico e ha fatto anche il giardiniere; le irrigazioni. In carcere è crollato”. Avete fatto causa dopo il suo decesso… “È mancato il controllo di questo ragazzo. Non c’è stato. Noi ogni settimana eravamo da lui; non siamo mai mancati una volta. Avrebbe avuto il processo poco dopo, a inizio marzo. Lui manifestava già questa depressione, era in cura a causa di questa patologia e noi lo manifestavamo alle guardie ma se ne fregavano tutti. All’ultimo processo a Ferrara non si reggeva in piedi; non aveva più muscoli nelle gambe: ci hanno risposto che avevano bravi medici. Io lavoro al 118 e non lo metto in dubbio ma aveva bisogno di altro: avrei pagato io se era questo il problema. Ma non hanno mai fatto niente. Ha continuato ad andare giù fino a che non si è ucciso. Non gliela dovevano dare quella maledetta bomboletta del gas in mano. Ha sempre avuto quei problemi; a Portomaggiore ogni tanto andava dallo psicologo”. Cosa chiede oggi? “Che non capitino più queste cose. Devono essere più controllati questi ragazzi: non sono criminali: hanno bisogno di aiuto e la galera non è il loro posto e sicuramente non risolve il problema. Stalking? Per l’amor di Dio, ci sono tanti femminicidi ma le situazioni vanno messe sulla bilancia. Serve più riguardo e non arroganza: le persone, i parenti, i detenuti vanno ascoltati”. Modena. Sovraffollamento e suicidi, sopralluogo nel carcere con l’assessora regionale Conti di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 25 gennaio 2025 Alla visita, dopo i tre decessi nelle ultime settimane, hanno preso parte anche il sindaco Mezzetti, la vice Maletti e l’assessora alla Sicurezza Camporota. I garanti Cavalieri e De Fazio: “La sezione che accoglie detenuti a rischio suicidario accertato non è adeguatamente attrezzata dal punto di vista sanitario”. Sopralluogo nel carcere di Modena, questa mattina, dei due garanti Roberto Cavalieri (regionale) e Laura De Fazio (Comunale) insieme a rappresentanti della camera penale e delle istituzioni, a partire dal sindaco Massimo Mezzetti, la vicesindaca Maletti, l’assessora alla Sicurezza Camporota e l’assessora al Welfare regionale Isabella Conti. Si è parlato di progetti, in particolare dell’alternanza carcere-lavoro e di riabilitazione dei detenuti, oltre che dei noti problemi della struttura, a partire dal sovraffollamento. Tema centrale, l’allarme suicidi dopo i tre decessi nelle ultime settimane. “La sezione che accoglie detenuti a rischio suicidario accertato non è adeguatamente attrezzata dal punto di vista sanitario” dicono i garanti. In più, rimarcano, “in quest’area del carcere, per la carenza di personale, c’è poco controllo”. Nella sezione, proseguono, “sono presenti fornetti a gas e non a caso due delle morti recenti nel carcere sono avvenute per l’inalazione di questa sostanza”. Cavalieri e De Fazio, inoltre, rilevano “una scarsa pulizia nelle camere, anche poco illuminate, con la presenza di insetti”. Cavalieri e De Fazio affrontano poi il tema del sovraffollamento: “Un problema che non può essere scollegato da quanto accaduto nelle scorse settimane e per questo serve attivare subito un tavolo, aperto al territorio, al fine di individuare nuovi volontari da inserire in struttura sulle attività di ascolto e sostegno ai detenuti, in particolare per quelli a rischio suicidario”. Nel carcere di Modena (dati aggiornati al 31 dicembre 2024) sono presenti 571 detenuti, per una capienza di 372 posti, 25 sono le donne e 350 gli stranieri. Bologna. Il Foro alla “Dozza” con De Pascale. Il Coa: “Ora fondi per la sanità in cella” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 gennaio 2025 Mercoledì scorso, l’Ordine degli avvocati di Bologna ha partecipato a una visita istituzionale presso la casa circondariale “Dozza” di Bologna. L’evento, organizzato dal neo eletto presidente della Regione Emilia Romagna, Michele De Pascale, ha visto la partecipazione di esponenti politici delle istituzioni regionali e comunali, oltre a una rappresentanza della Camera Penale “F. Bricola di Bologna”. “La scelta del Presidente De Pascale, che si pone a inizio del suo mandato, va certamente apprezzata perché dimostra sensibilità e attenzione per quella che ormai è divenuta una vera e propria emergenza umanitaria in cui versano le carceri italiane, comprese quelle della nostra regione - ha dichiarato il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna. “Il gravissimo sovraffollamento, le condizioni strutturali fatiscenti, organici inadeguati, la mancanza di progetti di lavoro ed educativi, con il drammatico numero di suicidi di persone detenute, rendono le condizioni degli istituti di pena “non degne di un Paese civile”, come le ha definite il Presidente della Repubblica Mattarella”. Il Consiglio ha inoltre sottolineato l’importanza della scelta di condividere la visita con l’Avvocatura bolognese, che da anni denuncia con forza le problematiche strutturali e umane del sistema carcerario. “Esprimiamo apprezzamento anche per la scelta di condividere questa visita con l’Avvocatura bolognese, che da sempre è impegnata a denunciare questa drammatica situazione, di cui tutte le istituzioni, nazionali e locali, ciascuna per le proprie competenze, hanno il dovere politico e morale di farsi carico”. Uno dei punti centrali emersi dalla visita riguarda la necessità di investimenti concreti, soprattutto nel settore dell’assistenza sanitaria per i detenuti. “Abbiamo chiesto al Presidente della Regione un impegno concreto ad investire risorse per l’assistenza sanitaria negli istituti di pena della Regione, settore che più di altri vive una condizione di grave difficoltà per carenze di personale e di mezzi - ha spiegato il Consiglio dell’Ordine. L’implementazione di personale medico specializzato nel trattamento del diffusissimo disagio psichico può essere un primo importante passo proprio per prevenire il rischio suicidario, riducendo l’abuso di psicofarmaci che provoca dipendenze patologiche ed alimenta un mercato clandestino all’interno delle carceri”. Parallelamente, l’Ordine degli avvocati ha evidenziato l’importanza di progetti lavorativi ed educativi destinati ai detenuti”. “Altrettanto importante è investire su progetti lavorativi ed educativi per le detenute e i detenuti che vogliono dare un senso al tempo trascorso in carcere, per liberare dal bisogno chi non ha risorse economiche, per dare piena attuazione al principio della finalità rieducativa della pena previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione - hanno spiegato gli avvocati dell’Ordine di Bologna. L’auspicio condiviso è che questa visita possa rappresentare un primo passo verso un percorso virtuoso che integri le carceri nel tessuto sociale, promuovendo speranza e prospettive di reinserimento. Auspichiamo che questa visita sia il primo passo per iniziare un percorso virtuoso in cui il carcere e i detenuti siano considerati come parte integrante del nostro territorio e della società, per creare le basi della speranza di una vita diversa quando dovranno tornare a vivere nella società dei liberi. Riteniamo che solo così, creando e coltivando la speranza, potrà essere realmente perseguita la sicurezza della nostra società”. Torino. Presunte torture in carcere: 4 poliziotti assolti per “non aver commesso il fatto” di Gabriella Mazzeo fanpage.it, 25 gennaio 2025 Le parte lesa, un ex detenuto di origini algerine, è stato espulso dall’Italia e non può testimoniare perché irreperibile. Sono stati assolti anticipatamente 4 agenti della Polizia penitenziaria imputati a Torino con l’accusa di tortura nei confronti dei detenuti del carcere delle Vallette. A pronunciare la sentenza è stato il tribunale durante l’udienza di stamani. Il dibattimento proseguirà invece per altri poliziotti chiamati in causa (circa 20). I quattro poliziotti sarebbero riusciti ad ottenere l’assoluzione perché la parte lesa, un ex detenuto di origini algerine, è stato ora espulso dall’Italia e sarebbe quindi ora irreperibile. Fu ascoltato durante le indagini, ma in quel momento il provvedimento era già in atto e quindi, secondo gli avvocati, la testimonianza avrebbe dovuto essere acquisita con la formula dell’incidente probatorio. Per questo motivo, i 4 non continueranno il processo per tortura nei confronti dei detenuti, ma altri agenti dovranno comparire davanti ai giudici per i fatti avvenuti tra il 2017 e il 2019 nel padiglione C, area destinata ai detenuti per reati di natura sessuale. Uno dei 4 agenti ora assolti era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla sospensione del servizio. L’assistente capo della polizia penitenziaria è oggi stato assolto, insieme agli altri tre operatori per “non aver commesso il fatto”. A chiedere la precisazione durante l’udienza di oggi, sono stati gli avvocati difensori dei quattro agenti coinvolti nel processo. In particolare, il dettaglio relativo alla sospensione di servizio dell’assistente capo e all’arresto domiciliare per lui previsto dopo le accuse, è stato evidenziato dall’avvocato difensore Antonio Maria La Scala del foro di Bari, che lo ha assistito lungo tutto il processo. Nelle prossime udienze invece dovranno comparire gli altri agenti inizialmente citati con l’accusa di tortura, poiché non assolti. Padova. Nuova ala ristrutturata del carcere Due Palazzi, ospiterà cinquanta detenuti di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 25 gennaio 2025 Da marzo il carcere di massima sicurezza di Padova arriverà ad accogliere 650 detenuti. Nella mattinata di ieri è stato inaugurato un nuovo reparto di detenzione all’interno del carcere Due Palazzi. “Nuovo” solo in parte, in realtà, in quanto è stata restaurata un’ala già esistente ma che ora risulta completamente rinnovata e in grado di ospitare 50 detenuti. Talmente “moderne” e dotate di comfort da non sembrare, a prima vista, delle celle. Se non fosse per le dimensioni ridotte, ma comunque vivibili: nella mattinata di ieri è stato inaugurato un nuovo reparto di detenzione all’interno della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. “Nuovo” solo in parte, in realtà, in quanto è stata restaurata - nel giro di circa un anno - un’ala già esistente ma che ora risulta completamente rinnovata e in grado di ospitare 50 detenuti. Basta fare un giro in una delle celle per capire come i lavori siano stati eseguiti nel rispetto dei reclusi: un letto a una piazza (ma in caso di necessità potrebbe essere sostituito con uno a castello), una televisione, una mini-cucina con lavandino e fornello a induzione e un bagno “privato” con box doccia. Sempre ieri è stato inaugurato anche un nuovo reparto sanitario che, grazie alla costante presenza di personale medico e sanitario dell’Usl 6 Euganea, saprà rispondere con ancor più puntualità alle esigenze dei detenuti senza necessariamente costringerli ad uscire dal carcere e riducendo così la possibilità che si creino situazioni “pericolose”. A presenziare alla cerimonia il sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Ostellari che, da padovano, plaude all’apertura del nuovo reparto: “Con questi 50 posti diamo una prima risposta al problema del sovraffollamento delle case di reclusione, che per qualcuno dovrebbe essere “semplicemente” risolto con formule come gli indulti o altri provvedimenti. Questa nuova ala permetterà quindi di aiutare anche i settori più in sofferenza, ma è solo la prima di una serie che verranno inaugurate nei prossimi mesi in tutto il Triveneto. Si fa un gran parlare di “svuota-carceri”, ma non sono soluzioni che premiano perché così non facciamo il bene né dei detenuti né delle nostre comunità. Preferiamo investire su spazi adeguati e sugli unici strumenti di vera rieducazione di chi deve scontare la propria pena per abbassare nel contempo la recidività dei reati visto che, chi impara qualcosa all’interno di istituti come quello di Padova, quando esce non delinque più”. Aggiunge Ostellari: “Sia chiaro che nessuno vuole abbandonare la strada delle misure alternative, anzi le potenzieremo, ma fare uscire qualcuno scontandogli la pena più del dovuto significa non garantirgli un adeguato reinserimento sociale”. Il sottosegretario affronta anche l’argomento “zone rosse”, particolarmente d’attualità all’ombra del Santo: “Non mi risultano in merito attriti tra la Questura e il Comune di Padova: è un tema che il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica saprà risolvere. Noi attendiamo ogni decisione con la massima serenità con la convinzione che sia necessario alzare il livello di attenzione”. Il saluto finale è spettato a Claudio Mazzeo, che a inizio febbraio lascerà la poltrona di direttore del carcere di Padova: “Sono stati sette anni belli e soddisfacenti, che concludo con orgoglio con l’inaugurazione di questa ala, che rispetta i dettami della Comunità Europea e alla cui ristrutturazione hanno lavorato anche alcuni detenuti. A oggi abbiamo 555 persone recluse al Due Palazzi, ma con l’apertura di questo settore e dell’altro, che verrà completato a marzo, raggiungeremo i circa 650 posti letto, con l’obiettivo di puntare a migliorare ulteriormente le condizioni dei nostri detenuti”. Verona. Occupazione e attività culturali per i detenuti di Beatrice Branca Corriere del Veneto, 25 gennaio 2025 Maggiori opportunità di lavoro e attività culturali per i detenuti. Sono questi i due principali temi di cui si è discusso giovedì a Palazzo Barbieri dove si è riunito il tavolo tecnico sulla situazione critica della Casa Circondariale di Montorio. Due ore nelle quali si è discusso delle sinergie che si potrebbero mettere in campo per garantire ai detenuti condizioni di vita migliori, in una struttura dove il sovraffollamento sfiora il 170%. La riunione è stata guidata dal Comune con l’assessora alla sicurezza Stefania Zivelonghi e l’assessora alle politiche sociali Luisa Ceni, assieme ai nuovi vicedirettori del carcere Giulio Baffa e Rosanna Gargano, la Camera Penale, il garante dei detenuti don Carlo Vinco, la Magistratura di Sorveglianza, l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) con il responsabile Enrico Santi, Veneto Lavoro e alcuni enti del terzo settore. “Continua l’impegno dell’amministrazione per il reinserimento dei detenuti nella società - racconta l’assessora Luisa Ceni -. Giovedì Veneto Lavoro ci ha portato alcune proposte sulle attività lavorative che si potrebbero inserire negli spazi della Casa Circondariale di Montorio nel settore metalmeccanico, alimentare e in altri ambiti con cooperative e aziende veronesi”. Tra le iniziative che Veneto Lavoro introdurrà a Montorio c’è anche l’organizzazione di colloqui per chi sta finendo di scontare la propria pena e sarà presto in libertà. “Il servizio lo offriremo alle persone a cui mancano 12 mesi per il fine pena - dice Alessandra Rossi, responsabile di un progetto per i detenuti di Veneto Lavoro finanziato dalla direzione sociale della Regione del Veneto -. L’impegno è anche quello di verificare assieme agli assistenti sociali i problemi di queste persone legate alla necessità di un’abitazione”. Al tavolo di giovedì è stato inoltre presentato anche un altro progetto ludico-creativo già portato avanti in alcuni istituti penitenziari, come quello di Padova, dal direttore d’orchestra Nicola Querini. “Un’attività che prevede l’ascolto della musica e la realizzazione di alcuni disegni - spiega Ceni - per aiutare i detenuti a lavorare sulla percezione del sé”. Dopo l’incontro di giovedì a Palazzo Barbieri, il prossimo appuntamento a cui parteciperà la Camera Penale sarà quello organizzato a febbraio dalla Magistratura di Sorveglianza di Venezia, fissato dopo che gli avvocati scaligeri avevano minacciato l’astensione delle proprie attività dal 5 al 7 febbraio. “Avevamo chiesto nel 2024 un tavolo permanente anche alla Magistratura di Sorveglianza - dice il presidente della Camera Penale Paolo Mastropasqua - per facilitare in tempi più rapidi l’attività istruttoria delle istanze dirette a ottenere l’accesso ai benefici penitenziari da parte dei detenuti del nostro Distretto. Quando è stato finalmente fissato il primo incontro del tavolo tecnico abbiamo revocato l’astensione”. La Camera Penale ha inoltre richiesto al Ministero dell’Interno l’accesso alla Casa Circondariale di Montorio per una visita ispettiva il 5 febbraio. “Ormai si sfiorano i 600 detenuti - precisa Mastropasqua -. In alcune sezioni non funzionano le docce o ci sono stanze di pernottamento con quattro persone. Condizioni inumane e degradanti che intendiamo monitorare”. Brescia. Nuovo carcere, in primavera l’affidamento del progetto di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 25 gennaio 2025 Nel carcere di Canton Mombello ci sono 389 detenuti a fronte di una capienza di 189. A Verziano va leggermente meglio, ma il sovraffollamento è comunque altissimo: 112 persone detenute a fronte di una capienza massima di 71. Numeri da incubo quelli contenuti nella relazione annuale della garante dei detenuti Luisa Ravagnani, che ieri il presidente del consiglio comunale Roberto Rossini ha sintetizzato in aula, ricordando che l’emergenza carceraria c’è ed è sempre più urgente (come conferma il 2024, anno record di sucidi tra detenuti e polizia penitenziaria). Su Verziano ci sono però novità e le snocciola il deputato di Azione (e consigliere in Loggia) Fabrizio Benzoni: “dal ministero è stato assicurato che la conclusione della procedura di affidamento congiunto della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori è stimata entro i primi mesi del 2025”. Nell’ordine del giorno del 17 gennaio si ricordano i 15,2 milioni stanziati nel 2014 per un nuovo padiglione detentivo da 340 posti, ma il 6 novembre 2023 il ministero delle Infrastrutture ha garantito l’intera copertura finanziaria di 40,5 milioni. Resta da capire quando verranno reperite (tramite esproprio o accordo coi privati) i terreni agricoli adiacenti, condizione fondamentale all’ampliamento. Venezia. Carcere sovraffollato: ci sono 261 detenuti al posto di 159 di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 25 gennaio 2025 Anche tre persone costrette a condividere 9 metri quadrati. Vanto (Cgil): “Servono progetti di inserimento lavorativo”. Spazi da ridisegnare, chiesto aiuto a Iuav. Nove metri quadrati, o poco più. Tre persone che ci devono vivere dentro con tre letti, a volte ben tre brande a castello da cui se allunghi il braccio puoi quasi toccare il soffitto, poi un tavolo di 80 centimetri per 60, tre sgabelli, tre armadietti. Ma questi nove metri quadrati erano pensati per far vivere una sola persona, e invece ce ne stanno tre. Nelle carceri, e la casa circondariale di Santa Maria Maggiore non fa eccezione, non si respira e si vive cercando di non calpestarsi a vicenda. Nel clima asfissiante, gli arredi iniziano ad accusare i segni del tempo e, per questo, il direttore Enrico Farina sta pensando di coinvolgere lo Iuav e l’Accademia di Belle Arti in un progetto che punta a ridare vita nuova e sicuramente un tocco di colore agli armadi. Per ora, si tratta solo di un’ipotesi che, tuttavia, non stupirebbe se diventasse realtà, vista la collaborazione sempre più stretta che il carcere sta stringendo con enti e istituzioni del territorio. Pensare all’arredamento, al colore, significa pensare a un carcere diverso, umano, in cui le condizioni detentive rispettino quelli che sono i diritti delle persone, la salubrità degli ambienti, la dignità umana. Pensare all’arredamento significa fare quel poco che si può davanti all’onda travolgente che sta sommergendo le carceri italiane, che devono fare i conti con spazi ristretti e sempre più detenuti, anche a causa dell’inasprimento delle pene. Questo, inevitabilmente, comporta la comparsa della terza branda, in celle già troppo piccole. La Cgil Fp veneziana, però, non ci sta e chiede che il letto a castello con tre brande venga una volta per tutte vietato dal Garante nazionale, che vigila sui diritti dei detenuti. I numeri sono allarmanti e a snocciolarli è Franca Vanto (Cgil Fp Venezia), all’indomani del sopralluogo dei sindacati nel carcere situato nel sestiere di Santa Croce. “Parliamo di 261 detenuti a fronte di una capienza di 159, di cui una trentina con problemi psichiatrici. La struttura sta scoppiando e questo crea enormi disagi sia ai detenuti che al personale penitenziario, ridotto all’osso” spiega, sottolineando che nell’ultimo periodo gli agenti arrivano anche a fare turni di 12 ore, gestendo un numero di utenti che fa saltare qualsiasi rapporto numerico ragionevole. Il personale, infatti, conta 146 unità, ma attualmente solo 84 prestano la loro attività all’interno dell’istituto, 12 agenti alla navale e 16 al Nucleo dei piantonamenti. Numeri che mettono a rischio la sicurezza, che non permettono il rispetto dei diritti dei lavoratori, dai riposi agli orari di lavoro, e che si traducono in un carico di lavoro spropositato. “Venezia non viene considerata come meta da parte di chi deve prendere servizio” spiega la sindacalista, “la scartano a prescindere, quindi, qua la situazione resta quella che è”. D’altronde, si sa, Venezia è cara, spesso inappetibile, con poche case e spesso troppo costose e sono pochi quelli che decidono di sceglierla come città in cui lavorare. “Anche per questo motivo, noi chiediamo che il fine pena possa essere sempre più spesso scontato fuori, tramite progetti di inserimento lavorativo, più proficui per tutti” conclude Vanto. Bologna. Noi, dentro e fuori dal carcere del Pratello di Mery De Martino* cantierebologna.com, 25 gennaio 2025 Sappiamo quanto il Comune di Bologna sia impegnato sui temi dell’adolescenza e della detenzione minorile e non, in coordinamento con tante realtà territoriali, istituzionali e associative, cui credo si debba tributare la nostra riconoscenza collettiva. Dobbiamo insistere e investire sempre più tempo, energie e risorse su questo versante, perché ne va davvero del futuro della nostra comunità cittadina. Tra i tanti argomenti di dibattito in città, non c’è dubbio che quello legato alla sicurezza e alla violenza giovanile abbia assunto, da molto tempo, un ruolo di primo piano. Le soluzioni semplicistiche sulla questione abbondano, ma possiamo essere certi che non saranno le ronde auto-organizzate da cosiddetti “patrioti” o il mero utilizzo di etichette che si limitino a stigmatizzare violenti e delinquenti, senza lasciare alcuno spazio all’analisi della complessità, a salvarci come comunità. Anzi, imboccare quella strada non farà altro che acuire quel solco e quella distanza tra noi e loro, adulti e ragazzi, istituzioni e giovani cittadini. Solco di cui, alla fine, pagheremo tutte e tutti le conseguenze. A tal proposito, alcuni giorni fa è stata pubblicata sul “Corriere di Bologna” una bella intervista a don Domenico Cambareri, cappellano dell’Istituto penitenziario minorile del Pratello (qui). Vi ho trovato elementi molto importanti che, tanto sul piano politico quanto su quello della cittadinanza attiva e consapevole, non possiamo ignorare, a maggior ragione perché arrivano da chi frequenta quasi quotidianamente quelle mura e conosce bene chi ci vive o lavora. Nella sua intervista, don Domenico parte dalle origini dei detenuti: ci sono italiani figli di italiani, seconde generazioni e minori stranieri non accompagnati. Background, quindi, molto diversi, ma accumunati dagli stessi sentimenti: sono tutti ragazzi, dice lui, “abituati a non essere visti, abituati a non importare, a essere messi da parte. Ragazzi che hanno ansia per il futuro e vivono solo un presente che spesso non è fatto di adulti”. Ragazzi che fanno fatica a comprendere e gestire le proprie emozioni e che, proprio per questo, sono affamati di affetto e amicizia. Ragazzi che sentono le istituzioni lontane, perché non le reputano in grado di offrirgli alternative concrete per potersi costruire una vita come quella degli altri. Lo stesso Cambareri ammette che, quando gli chiedono un aiuto, si rende conto di non avere tutti gli strumenti necessari. Alcuni sono di cosiddetta seconda generazione e dunque subiscono, oltre a tutto quanto detto sopra, anche un razzismo latente e quotidiano. Un razzismo, prosegue sempre don Domenico, fatto anche di cose “piccole” che noi non noteremmo - talvolta anche semplici sguardi - ma che su di loro hanno l’effetto di pugnalate che li allontanano sempre più dal nostro Paese. Questo ci dice che servono lenti allenate per notare queste discriminazioni, a volte così sottili, e che l’unico modo per ottenerle è passare del tempo con questi ragazzi, ascoltarli, guardare ciò che loro ci indicano. In questo contesto già molto complesso, si aggiungono ulteriori difficoltà quando ci troviamo di fronte un minore straniero non accompagnato che, nella grande maggioranza dei casi, al compimento dei diciotto anni perde ogni tipo di tutela. Insomma, il quadro restituitoci da don Domenico conferma alcune riflessioni che da tempo sono al centro della mia attenzione: i ragazzi dell’Ipm sono ragazzi che possiamo tranquillamente incontrare nelle nostre piazze, nelle nostre strade, nei nostri centri commerciali, perché hanno tantissimo in comune con chi sta fuori dalle sbarre. E se con questo non voglio certamente dire che tutti i nostri ragazzi potrebbero arrivare a delinquere, quel che mi preme sottolineare è che c’è, nella grande maggioranza di loro, un senso di disagio sempre più profondo che li accumuna e che ne porta una parte, sempre più significativa, a commettere atti violenti o contro la legge. Basti pensare che, quando insieme al collega Giacomo Tarsitano e a don Domenico andammo a parlare di carcere con un ex detenuto di fronte a una platea di 60 quattordicenni, solo in otto alzarono la mano per rispondere affermativamente alla domanda con cui gli veniva chiesto se si fidassero degli adulti. Poi, certo, una differenza sostanziale c’è. Ed è il fatto che chi di loro arriva a delinquere e viene per questo privato della libertà si ritrova in un contesto, come quello del carcere minorile, che oggi, per scelte politiche precise e ottuse, riesce a perseguire solo il mero scopo del contenimento e della separazione dal resto della società, mentre dentro continuano a crescere e ad alimentarsi la violenza e la sopraffazione, nonostante l’egregio lavoro degli operatori/operatrici e delle associazioni, che a loro volta però si devono quotidianamente scontrare con limiti concreti e materiali, a cominciare dal sovraffollamento sempre più endemico delle nostre strutture penitenziarie. È di pochi giorni fa la notizia che al momento nel carcere minorile del Pratello si trovano 51 detenuti, nonostante una capienza di massimo 44 e un personale di polizia ed educativo ancora tarato sulla vecchia capienza (22-25 ragazzi). Il mio timore è che se continueremo a non vedere queste connessioni, a fare finta che non esistono, a limitarci a dividere i buoni dai cattivi e gli italiani dagli stranieri senza occuparci davvero di chi vive dietro le sbarre, questa spirale di disagio, frustrazione e violenza, dentro e fuori il carcere, continuerà ad autoalimentarsi rischiando di diventare, prima o poi, una vera bomba sociale. Sappiamo quanto il Comune di Bologna sia impegnato sui temi dell’adolescenza e della detenzione minorile e non, in coordinamento con tante realtà territoriali, istituzionali e associative, cui credo si debba tributare la nostra riconoscenza collettiva. Dobbiamo insistere e investire sempre più tempo, energie e risorse su questo versante, perché ne va davvero del futuro della nostra comunità cittadina. Un futuro che non siamo già più noi, tanto meno chi scrive, ma quello che stiamo lasciando indietro non occupandoci appieno dei più giovani. *Consigliera comunale Pd Bologna. Cinevasioni approda in carcere. Primo ospite Pellacani di Paola Gabrielli Corriere di Bologna, 25 gennaio 2025 “Il nostro motto è portare il cinema ovunque. Se le persone non possono andarci, il cinema arriva a casa loro”. Dove la parola “casa” va intesa in senso ampio e, se possibile, metaforico. Così Roberto Guglielmi. Docente al liceo “Laura Bassi” di Bologna e coordinatore del “Corso Doc”, corso documentaristico e cinematografico dello stesso istituto in collegamento con altre scuole, è il motore di Cinevasioni.edu. Ovvero, il cinema che si fa portatore di benessere per aiutare a uscire dai contesti di sofferenza. Con la direzione artistica di Piero Di Domenico, il progetto presenta varie diramazioni e articolazioni, punta alla formazione di studenti degli istituti superiori del territorio e promuove il confronto tra partecipanti attraverso laboratori, rassegne, attività formative. Diramazioni come “I mestieri del cinema”, o “Cinegiro”, con un camper coloratissimo a portare una rassegna di film in 15 luoghi tra Bologna e area metropolitana, già sperimentate gli scorsi mesi. Come il “Cinevasioni.Edu Film Festival”, lo scorso dicembre al Perla. Ora è la volta di “Cinevasioni in carcere”, con cinque incontri da lunedì 27 alla Casa Circondariale Rocco D’Amato, a cui si affiancano attività in ospedale con la rassegna “Buena Vista Social Comedy”, e “Cinevasioni in mensa”, all’Antoniano. “Gli appuntamenti in carcere - continua Guglielmi - si chiamano Sfide e nascono da una richiesta dei detenuti. Al centro ci sono storie di riscatto attraverso lo sport. Noi abbiamo raccolto la proposta e a ogni proiezione seguirà un ospite che ha vissuto questo riscatto nella sua esistenza attraverso la pratica sportiva”. Primo incontro lunedì, in rigoroso orario scolastico (9-12), studenti autorizzati e detenuti vedranno insieme “Non ci resta che vincere” di Javier Fesser, sul basket, a cui seguirà un incontro con Nino Pellacani, ex cestista della Fortitudo. Tra gli altri ospiti, l’atleta paralimpica Martina Caironi, la pugile Pamela Malvina, i registi Manetti Bros., mentre il 16 maggio dovrebbe chiudere, ma è da confermare, Stefano Accorsi. La fabbrica delle emergenze di Susanna Turco L’Espresso, 25 gennaio 2025 Più minori in carcere, più aggravanti per tutti. Dai rave a Caivano, dalla resistenza passiva alla gestazione per altri. Hanno rinunciato a quasi tutte le grandi riforme, non hanno provvedimenti-bandiera da sventolare ma posseggono un’attitudine, un talento particolare: inventano reati come nessun altro. Il governo guidato da Giorgia Meloni è una fabbrica di commi, codicilli e aggravanti come il governo Berlusconi poteva essere una fabbrica di scudi personali a tutela del Cavaliere: stavolta l’abbondanza serve a coprire un vuoto di prospettiva, con la fantomatica indicazione di nemici di volta in volta diversi. Da solo, ad esempio, il ddl sicurezza - giunto al secondo passaggio ma che forse sarà modificato ancora per recepire le perplessità del Quirinale - prevede di introdurre almeno 14 reati e 9 aggravanti, come ha fatto notare Gianluigi Gatta, docente di diritto penale, in audizione al Senato. Ad esempio prevede la cosiddetta norma anti-Gandhi, vale a dire la galera per chi blocca una strada o una ferrovia, il reato di rivolta carceraria che punisce pure la resistenza passiva, anche questo piuttosto anti-gandhiano considerando che potrebbe applicarsi a un detenuto in sciopero della fame, ma anche a un immigrato richiuso in un Cpr visto che c’è un nuovo reato anche per questo, inasprisce le pene per chi protesta davanti a opere pubbliche strategiche, come ad esempio il ponte sullo Stretto e la Tav, vieta ai migranti senza permesso di soggiorno di comprare una sim per telefonare, abolisce l’obbligo di rinviare l’esecuzione della pena per le donne in gravidanza e le madri di bambini sotto l’anno, cioè consente che un bambino passi in galera anche i suoi primi mesi di vita. E tutto questo escludendo per adesso l’ipotizzato scudo, o filtro, a tutela degli agenti. Appare un insieme troppo variegato? È la logica del pacchetto, approvato in Consiglio dei ministri a novembre 2023 e scongelato in Parlamento solo a metà maggio 2024, nel mezzo della campagna elettorale delle elezioni europee. Norme che hanno provocato, oltre ai cortei e alle proteste, anche la bocciatura da parte delle Nazioni unite e l’intervento del Consiglio d’Europa, che ha invitato il Senato a non adottare un testo che “restringe i diritti di manifestare pacificamente e la libertà di esprimere il proprio pensiero”. Criminalizzare il dissenso, creare lo spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata di reati spesso vaghi, è in effetti l’apoteosi di una strategia che cerca il titolone per mimare un attivismo nella stasi, minacciando invariabilmente chi non ha particolari leve di potere, si trova ai margini o in difficoltà. Non i grandi interessi o i grandi poteri: piuttosto i carcerati, gli immigrati, i disagiati, gli studenti, i dissidenti in genere. E meno male che, appena insediato, il guardasigilli Nordio ebbe a dire che “la velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, una riduzione dei reati”. È in realtà accaduto l’opposto. Gli unici reati che sono stati ridotti sono quelli contro la pubblica amministrazione: come l’abuso d’ufficio, abolito quasi integralmente, o il traffico di influenze, praticamente dimezzato. Per il resto si è alla moltiplicazione biblica. I pani, i pesci e le procedure. Per dare l’idea dell’emergenza sul fronte migratorio, si sono introdotte via decreto delle procedure di trattenimento nei centri di protezione temporanea che consentono di rinchiudere qualsiasi irregolare alla frontiera, salvo magari risultare inapplicabili. Per dare il senso dell’emergenza sul fronte della lotta all’uso di droghe, si è sviluppata una lotta su più piani alla cannabis (per la medicina la meno pericolosa) e in ultimo una tolleranza zero nel nuovo codice della strada che, equiparando antidepressivi e ansiolitici a sostanze stupefacenti, ha fatto insorgere persino gli psichiatri, preoccupati che i loro pazienti smettano di curarsi. Per dare il senso di un’emergenza procreativa, si è deciso di rendere la gestazione per altri - pratica già vietata in Italia - perseguibile anche se realizzata all’estero da italiani: la famosa estensione “per tutto l’orbe terracqueo” che a Meloni non è riuscita contro gli scafisti, applicata invece ai genitori di bambini nati con la Gpa, anzi in realtà soprattutto ai bambini. Tutto questo s’è visto fin dal primo giorno, quando il governo appena insediato ha vergato quel manifesto di intenti che è il decreto rave, col nuovo reato di occupazione di terreni ed edifici per raduni illegali. Una norma che, come ha detto lo stesso Nordio nel question time la scorsa settimana, non si è alla fine applicata perché auto-deterrente a effetto immediato: in pratica una formula magica. L’emergenza è sparita, la zucca è tornata zucca dopo che il governo l’aveva dichiarata carrozza. Più efficace, se possiamo dire così, è stato il decreto Caivano, approvato a novembre 2023: il mix di pene più severe per reati di lieve entità, estensione del Daspo ai minori sopra i 14 anni, multe più alte e reclusioni più facili, ha portato a un aumento costante dei minori in carcere, secondo i dati forniti dal capo dipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano, in linea con quelli dell’associazione Antigone che già in primavera, rilevava numeri di ragazzini carcerati più alti di sempre, il 50 per cento in più rispetto all’inizio del governo Meloni, sintetizzandolo come “un modello criminalizzante e carceri-centrico”. Intanto però l’esecutivo ne va fierissimo e anzi prima di Natale ha licenziato il Caivano bis, per esportarlo in sei/sette aree disagiate d’Italia. Ai tempi dell’approvazione del Caivano originale, il ministro dei Rapporti col Parlamento Luca Ciriani andava dicendo che poteva chiamarsi tranquillamente “decreto Meloni”, non a caso. La sicurezza non sia un alibi per reprimere di Emilio Carelli L’Espresso, 25 gennaio 2025 Bisogna affrontare il disagio sociale e non cedere all’idea di usare la paura come metodo di Governo. Negli ultimi mesi il tema della sicurezza ha dominato il dibattito pubblico. Numerosi eventi di cronaca hanno acuito l’attenzione mediatica, in particolare manifestazioni di protesta sfociate in duri scontri con le forze dell’ordine. In questo contesto, il “decreto sicurezza” varato nei mesi scorsi dal governo suscita interrogativi non soltanto sulla sua efficacia, ma anche sulla sua compatibilità con i principi fondamentali dello Stato di diritto. La sicurezza è un diritto inalienabile di ogni cittadino, ma come spesso accade, la percezione si scontra con la realtà. E così norme troppo severe o repressive rischiano di alimentare un clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni. È avvenuto all’indomani della decisione del governo di intervenire con un decreto che promette di rafforzare la presenza delle forze dell’ordine, incrementare le misure di prevenzione limitando di fatto la libertà di espressione e di dissenso individuali. Da qui il dilemma. Da un lato, la legittima richiesta di maggiore sicurezza da parte dei cittadini; dall’altro, il rischio di comprimere diritti e libertà in nome di una sicurezza percepita ma, talvolta, illusoria. È facile cadere nella tentazione di usare la paura come metodo di governo. Ecco perché l’uso strumentale della legislazione in materia di sicurezza ha già dimostrato di avere conseguenze devastanti in termini di diritti civili e rispetto della legalità. Nelle ultime settimane diverse manifestazioni hanno riproposto il dissenso di chi teme che il decreto non faccia altro che criminalizzare situazioni e comportamenti, senza affrontare la radice del problema. La sicurezza non può diventare un alibi per giustificare misure repressive, evitando di affrontare alla radice la discriminazione sociale. È essenziale ricordare che la sicurezza vera si costruisce su basi solide: un welfare efficace, opportunità di lavoro per i giovani e un’inclusione sociale che non lasci indietro nessuno. E purtroppo le cronache più recenti hanno evidenziato che, in molte situazioni, su questi punti la risposta delle istituzioni non c’è o è stata tardiva e inefficiente. Ecco perché diventa fondamentale riflettere sulla necessità di investire non sulla repressione, ma sulla prevenzione. Formazione, educazione e dialogo sono le chiavi per una società coesa e pacifica e quindi più sicura. Bisogna rimettere al centro la comunità e il suo protagonismo, avviando un processo di recupero di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Insomma la sicurezza deve essere anche e soprattutto sinonimo di giustizia. È fondamentale sostituire la logica dell’emergenza con una visione di lungo periodo. Nel numero de L’Espresso in edicola da oggi - 24 gennaio - vogliamo stimolare una riflessione e un dibattito che proponga soluzioni, perché la sicurezza deve essere una costruzione collettiva, non frutto di mera imposizione. La vera sfida è costruire un modello di società dove ogni cittadino possa sentirsi al sicuro, non solo grazie alla presenza delle forze dell’ordine, ma anche e soprattutto grazie al senso di comunità e solidarietà. Migranti in Albania, la nave Cassiopea operativa e pronta ai trasferimenti di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2025 I giudizi sulle convalide dei nuovi trattenimenti rischiano di essere sospesi a causa dei rinvii pregiudiziali sulla questione dei “Paesi sicuri” pendenti presso la Corte europea. La sospensione delle convalide, come già avvenuto ai primi di ottobre, comporta l’immediato rilascio dei richiedenti e, in base al Protocollo Italia Albania, l’obbligo di portarli in Italia. La nave Cassiopea è operativo a sud di Lampedusa e pronto a trasferire altri migranti in Albania. Il governo ha deciso di non aspettare il pronunciamento della Corte di giustizia europea e di riattivare il noto Protocollo. Ai primi di novembre, il tribunale di Roma aveva sospeso il giudizio sulle convalide dei trattenimenti in Albania, rinviando alla Corte Ue la questione dei “Paesi d’origine sicuri”. Decisioni che, almeno dal punto di vista giuridico, hanno di fatto messo in stallo i trasferimenti in Albania di migranti provenienti da Paesi d’origine che l’Italia considera sicuri. Con la legittimità dei trattenimenti oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte europea, che ha fissato una prima udienza per il 25 febbraio, appare improbabile che i prossimi giudici italiani investiti delle stesse valutazioni non sospendano a loro volta il giudizio. E questo anche se la competenza delle convalide è stata affidata, per decreto, alle corti d’appello e non più alle sezioni immigrazione dei tribunali, ormai invise al governo. Così, dopo una pausa di oltre due mesi si riparte. Non più con la nave Libra, che tante polemiche aveva sollevato per i costi a fronte dei pochissimi migranti trasferiti nei due viaggi di metà ottobre e inizio novembre. Stavolta tocca al pattugliatore gemello, il Cassiopea, già nelle acque internazionali vicino a Lampedusa, pronto a caricare migranti da trasferire nell’hotspot di Shengjin, dove avverrà il secondo screening e saranno presentate le domande di protezione internazionale, poi vagliate dalla Commissione territoriale quando i richiedenti saranno stati portati nel centro di Gjader. Dal momento dello sbarco, la Questura di Roma ha 48 ore per chiedere al giudice competente (la corte d’appello di Roma) la convalida del trattenimento e il magistrato ha lo stesso momento da quando riceve la richiesta. Ma, ancora una volta, il giudizio rischia di essere sospeso a causa dei rinvii pregiudiziali pendenti presso la Corte europea, che non dovrebbe decidere prima di aprile. La sospensione delle convalide, come già avvenuto ai primi di ottobre, comporta l’immediato rilascio dei richiedenti che dovranno essere portati in Italia e inseriti nel sistema di accoglienza. ?Allora perché rischiare nuovi viaggi a vuoto? Perché nel frattempo ci sono state due sentenze della Cassazione che, hanno dichiarato numerose volte i ministeri competenti e la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, avrebbero dato loro ragione, confermando la responsabilità del governo di designare i Paesi “sicuri” e lasciando ai giudici la sola possibilità di sindacare sulla situazione individuale del singolo migrante rispetto al suo Paese d’origine. Insieme al passaggio di competenze alle Corti d’Appello, alla luce delle sentenze della Cassazione l’esecutivo sembra confidare in un esito positivo per le nuove richieste di convalida dei trattenimenti in Albania. Chi non concorda ha più volte osservato che, al contrario, la Cassazione ha ribadito l’obbligo del giudice di verificare non solo la situazione attuale del Paese designato come sicuro, ma anche la legittimità della designazione operata dal governo. Concetto già espresso dalla Corte di giustizia europea nella sentenza del 4 ottobre scorso, dove si chiarisce che, viste le implicazioni per l’esame della domanda e il suo esito, la designazione “è un elemento procedurale” e in quanto tale il giudice deve comunque verificarne la legittimità. Caso Almasri: la Libia e l’impunità hanno vinto, mentre l’Italia ci ha perso la faccia di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2025 L’Italia ospitò, nel 1998, la conferenza internazionale che diede vita, attraverso quello che per l’appunto si chiama Statuto di Roma, alla Corte penale internazionale. L’Italia ratificò sollecitamente lo Statuto di Roma, impegnandosi dunque tra l’altro a consegnare alla Corte le persone raggiunte da un mandato di cattura. Quindi era chiaro cosa avrebbero dovuto fare le autorità italiane nei confronti di Osama Njeem detto El Masry, del cui arresto a Torino è stata data notizia il 20 gennaio: trasferirlo alla Corte penale internazionale. Cosa è avvenuto dopo è noto: il velocissimo ritorno a Tripoli del ricercato, accolto in pompa magna a Tripoli tra esultanze e cori di scherno nei confronti del nostro paese. La brutta figura, un vero e proprio schiaffo alla Corte (che, irritualmente, ha emesso un duro comunicato stampa) si è concretizzata attraverso un cavillo tratto dalla legge 237 del 2012 sulla cooperazione tra l’Italia e la Corte, che stabilisce che le richieste da essa formulate vengono gestite dal ministro della Giustizia, il quale deve trasmettere tali richieste al procuratore della Repubblica di Roma affinché le esegua. Ciò implica che gli uffici competenti di Torino avrebbero dovuto coinvolgere immediatamente il ministero della Giustizia. Così pare non sia stato fatto. Una mera irregolarità (che nel migliore dei casi potremmo definire frutto di superficialità o mancata conoscenza) nelle procedure di comunicazione interna sulle cose da farsi quando c’è in ballo un mandato di cattura spiccato dal massimo organo della giustizia internazionale. La rapidità con cui Osama Njeem è stato scarcerato e rimandato nel suo paese d’origine - a bordo di un aereo di stato italiano - non ha lasciato il tempo di correggere quell’irregolarità procedurale interna che, è bene sottolinearlo, non rappresentava in alcun modo una violazione dei diritti dell’arrestato. In sintesi, le istituzioni italiane nel loro complesso non hanno rispettato l’obbligo di cooperare con la Corte, come previsto dallo Statuto di Roma. Ne è risultata un’ulteriore delegittimazione della Corte, alla faccia delle persone che hanno subito i crimini di guerra e contro l’umanità contestati a Osama Njeem, tra le quali anche persone migranti e richiedenti asilo. Il miliziano a capo dell’Apparato di deterrenza per il contrasto al terrorismo e al crimine organizzato, successivamente capo della polizia giudiziaria di Tripoli, dove ha sede il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e con cui l’Italia nel 2017 ha firmato un memorandum di cooperazione, potrà dunque continuare impunemente a svolgere il suo lavoro, che Amnesty International ha ampiamente documentato nella prigione di Mitiga, nella capitale libica: maltrattamenti e torture, uccisioni illegali, sparizioni forzate e altro ancora. Ha perso la giustizia internazionale, ha perso la faccia l’Italia, ha vinto la Libia e ha trionfato l’impunità. *Portavoce di Amnesty International Italia Serve una geopolitica della gentilezza di Riccardo Redaelli Avvenire, 25 gennaio 2025 Sono davvero periodi cupi e tristi quando la ferocia viene esibita come un valore, quando il disprezzo della vita altrui - soprattutto la vita dei poveri e dei meno fortunati - diviene un elemento di successo politico. Era lecito aspettarsi il peggio dal ritorno alla presidenza statunitense di un Donald Trump privo di freni inibitori, attorniato da una corte di tecnocrati miliardari insofferenti di ogni regola; e infatti il peggio sembra essere arrivato oltre ogni timore. Questi primi giorni sono un diluvio di ordini esecutivi, alcuni palesemente incostituzionali, che vanno a minare alcuni dei principi cardine della democrazia americana. Stupisce la brutale crudezza con cui la nuova amministrazione intende trattare i migranti: separare le madri dai figli piccoli, come promesso dal nuovo “zar” della lotta all’immigrazione, Tom Homan; attuare una grande deportazione di donne e uomini, abolire l’automatismo dello jus soli, cardine fondativo della società statunitense: se nasci in America sei americano. Ma a destare ancor più stupore è l’amara costatazione che tutto ciò venga accolto dai sostenitori repubblicani con grande soddisfazione. La crudele indifferenza verso la sofferenza altrui viene celebrata come una virtù da esibire e da premiare; la brutalità delle politiche, il disprezzo verso chi raccomanda prudenza e solidarietà divengono mosse elettorali vincenti. Sarebbe tuttavia troppo facile ritenere che tutto ciò sia il simbolo di una “malattia” confinata negli Stati Uniti. Perché gli atteggiamenti muscolari, l’arroganza e la violenza del potere sembrano un aspetto comune di un bel pezzo del mondo contemporaneo. Dalla Russia di Putin, che massacra cinicamente i nemici quanto i suoi stessi soldati, alla politica minacciosa di Xi Jiping verso Taiwan e contro ogni dissenso interno; dal premier indiano Modi, il quale ha fatto dell’induismo un’ideologia politica intimidatoria nei confronti delle minoranze cristiane e musulmane, al razzismo messianico dell’ultradestra israeliana che ha impedito per mesi di fermare la sanguinosa guerra a Gaza. E questa “ferocia della politica” non risparmia l’Europa. I movimenti sovranisti e della destra estrema avanzano quasi ovunque nel Vecchio Continente, con i loro proclami di deportazioni di migranti, frontiere chiuse e intolleranza, speculando sulle paure nei confronti del futuro che ci attende. In Italia hanno comunque pagato i proclami elettorali per un “blocco navale” impossibile giuridicamente e tecnicamente quanto. Che deve fare l’Europa, ci si chiede continuamente, ora che la Russia si fa più aggressiva e che gli Stati Uniti minacciano di rompere quel legame speciale di amicizia e alleanza che rappresentava il pilastro dell’Occidente? In molti spingono per un riarmo massiccio, addirittura si parla di un 5% dei nostri bilanci per la difesa; una cifra iperbolica che assorbirebbe le risorse destinate al welfare. Altri suggeriscono di scimmiottare la minacciosa arroganza di Trump, per costruire una “fortezza Europa”. Ma snaturare i valori che sono stati alla base della costruzione dell’Unione Europea non sembra essere una cura ragionevole. Una massima di un generale britannico nell’India coloniale recitava: “Dimostriamo a questi selvaggi che possiamo essere più selvaggi di loro”. Ecco, questa sarebbe la ricetta per perderci definitivamente. Non si tratta di voler immaginare un Europa incatenata a un buonismo sciocco e velleitario. Dobbiamo rafforzarci? Lo faremo. Dobbiamo essere più pronti a difenderci? Impareremo a farlo. Ma senza rinunciare ai nostri valori fondativi, che ci impongono di prediligere la diplomazia alla forza, la cooperazione agli ultimatum, il sedersi attorno a un tavolo piuttosto che rovesciarlo. Insomma, all’aggressività della politica neo-imperiale di Trump, alla cinica durezza esibita da troppi leader nel mondo, opponiamo una “geopolitica della gentilezza”, che guardi sì ai nostri interessi nazionali e continentali - sarebbe assurdo non volerlo fare - ma senza umiliare o minacciare gli altri. Diventare meno inconcludenti e farraginosi evitando di trasformarci in lupi affamati non deve suonare un’utopia velleitaria, ma il miglior regalo che possiamo fare a noi stessi. Stati Uniti. Trump, la foto dei migranti in catene e la nostra indignazione di Paolo Giordano Corriere della Sera, 25 gennaio 2025 Così inizia “l’età dell’oro” dell’America: con la fotografia di un gruppo di persone in catene. Un’istantanea del mondo che verrà, dove le azioni peggiori delle politiche antimigratorie non si fanno più nell’ombra: vengono esibite invece, in onore del “buon senso comune”. È un passo avanti importante nell’agenda del sovranismo, perché il post di ieri non è di un fanatico suprematista in acido ma dell’account X ufficiale della Casa Bianca. La rivendicazione istituzionale della brutalità. La fotografia ci indigna. Ma la nostra indignazione non è che uno sbuffo di vapore, dura meno del post. D’altra parte non c’è tempo. Qualche giorno fa era Elon Musk con il braccio teso, oggi sono le catene, domani chissà. Non si sa quando fermare l’attimo. E di cosa dovremmo parlare prima? Della ridicolizzazione di dieci anni di sforzi ambientali? Di cosa comporterà smontare l’Oms a quattro anni da una pandemia da milioni di morti? Delle nuove minacce militari a cui siamo improvvisamente esposti? Oppure della marginalizzazione istantanea di intere comunità? Ogni fascicolo avrebbe bisogno di ore e ore di dibattito ma gli ordini esecutivi sono stati firmati a raffica in un mezzo pomeriggio. Con tanta rapidità cambia il paesaggio. Lo spirito della seconda legislatura Trump è chiarissimo: scassare tutto, in fretta. Ed essere “unapologetic” nel farlo. Un leader gioiosamente disinibito. Elogio della sfrenatezza. Andrà avanti. La soglia della nostra incredulità verrà superata innumerevoli volte. E gli sbuffi innocui della nostra indignazione, le tempeste nei nostri bicchieri social non faranno che alimentare il processo. Perché vorranno dire più engagement, ancora più potere. Cosa vogliamo essere in mezzo a tutto questo? L’Europa è stordita, ma almeno in quanto italiani possiamo domandarcelo. Siamo davvero pronti ad accogliere un modello di società come quello che i nuovi Stati Uniti stanno presentando, in nome delle nostre relazioni bilaterali privilegiate? Braccia alzate e catene incluse? Quanto ci assomigliano quei post? La decisione va presa. È uno di quei momenti della storia. Accade adesso. Passato il tempo di rispondere colpo su colpo, di ingrassare l’algoritmo, è arrivato il tempo del quadro complessivo, dei fondamentali. Il tempo del paesaggio. Il bello di vivere nell’epoca delle intelligenze artificiali e della realtà aumentata è che si possono inventare tutti i paesaggi che si vogliono. Quello della nuova età dell’oro americana lo abbiamo capito. Forse, da questa parte dell’oceano, ne desideriamo uno diverso. L’Egitto è il buco nero dei diritti di Antonella Napoli L’Espresso, 25 gennaio 2025 Dopo la rielezione di al-Sisi nel 2023, si è intensificata l’onda di repressione contro dissidenti e manifestanti. Con arresti, minacce, libertà violate. Come attesta un rapporto all’esame dell’Onu. Egitto, Paese sicuro? Qualche volta, se hai almeno una doppia nazionalità e il governo del tuo Paese riesce a intervenire prima che i servizi di sicurezza ti facciano sparire; come invece è accaduto a Giulio Regeni, il ricercatore di Fiumicello sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 al Cairo. A Sherif Elanain, ex pornoattore e cittadino italiano che rischiava tre anni di carcere per l’accusa di “immoralità”, è andata bene: è stato scagionato e rilasciato lo scorso 2 gennaio. Non sono altrettanto fortunati i prigionieri che a migliaia affollano le carceri egiziane. Dalle elezioni presidenziali del dicembre 2023, vinte dal presidente in carica Abdel Fattah al-Sisi con il 90 per cento dei voti, si è registrata nel Paese una nuova ondata di arresti e processi. Le autorità politiche e giudiziarie hanno intensificato la campagna di repressione nei confronti dei dissidenti e dei manifestanti pacifici, arrivata al culmine lo scorso luglio con una maxi-retata con centinaia di fermi. L’azione repressiva si è poi estesa fino a fine anno. E continua. Attraverso arresti massicci e intimidazioni, il regime ha dimostrato, ancora una volta, di non tollerare il dissenso né l’espressione di idee diverse dalle proprie. Dall’aprile del 2022 al novembre del 2024 in 7.426 sono finiti in carcere per la loro partecipazione a manifestazioni non autorizzate, per la diffusione di “notizie false” o per presunti atti di terrorismo. Un caso emblematico del “bavaglio” imposto a chiunque manifesti una forma di dissenso è rappresentato dal processo contro uno sfidante di al-Sisi, Ahmed al-Tantawy, esponente dell’opposizione, e Abu al-Dayyar, coordinatore della sua campagna elettorale, arrestato assieme a 21 sostenitori del candidato presidenziale poi costretto al ritiro. Le accuse erano in gran parte basate sulla legge n. 45 del 2014, che limita gravemente l’esercizio dei diritti politici. Gli imputati - i primi due accusati di cospirazione e incitamento alla diffusione di materiale elettorale senza autorizzazione, gli altri di averlo stampato e distribuito - sono comparsi lo scorso 17 dicembre davanti a un tribunale egiziano, il quale ha confermato sia la condanna emessa in primo grado a un anno di carcere per al-Tantawy e al-Dayyar, oltre al divieto di ricoprire incarichi politici per cinque anni, sia le sanzioni economiche per gli altri accusati di reati minori. Non si tratta solo di repressione politica: anche le manifestazioni di solidarietà per la Palestina sono state soffocate. Inizialmente sostenute da partiti e soggetti filogovernativi, queste proteste sono state vietate non appena hanno iniziato a mescolarsi a richieste di libertà e giustizia sociale. Nell’ottobre del 2024, gli agenti di sicurezza hanno arrestato numerosi manifestanti che si erano riuniti nell’iconica Piazza Tahrir, simbolo della rivolta del 2011. Tra gli arrestati, molti studenti con accuse di terrorismo e partecipazione a riunioni non autorizzate: sei di loro risultano “scomparsi”. Il settore dell’istruzione non è immune da questa repressione. Lo scorso novembre, le forze di sicurezza hanno dispiegato mezzi ed energie per disperdere una protesta di insegnanti contro l’obbligo di accademia militare per chi desidera candidarsi a impieghi pubblici. In quattordici sono ancora detenuti. Le violazioni sistematiche dei diritti umani in Egitto creano un clima di paura e di silenzio oppressivo, rendendo nulla la possibilità di un cambiamento politico pacifico. Il dibattito pubblico è sempre più rarefatto e le voci dell’opposizione vengono soffocate. I servizi di sicurezza interni egiziani, gli stessi responsabili del sequestro e delle torture che hanno portato alla morte di Regeni, continuano a far sparire decine di persone a settimana anche semplicemente per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni. L’atmosfera al Cairo, dove si può pagare cara una sola parola sbagliata, è carica di tensione. Come emerge dal rapporto sulla situazione in Egitto che sarà presentato il prossimo 28 gennaio alla 48^ sessione della Conferenza periodica universale del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. La Commissione egiziana per i diritti e la libertà e altre undici organizzazioni non governative sostengono che “l’Agenzia nazionale per la Sicurezza egiziana nell’ultimo anno ha sistematicamente rapito cittadini, tenendoli in stato di fermo in luoghi sotto il suo controllo per lunghi periodi, negando nel contempo di detenerli. Le vittime di queste sparizioni forzate includono attivisti, giornalisti, avvocati e cittadini attivi politicamente, molti dei quali sono stati presi esclusivamente per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica”. Le ong egiziane rilevano che la maggior parte delle persone scomparse riappare con segni di torture davanti alla Procura di Sicurezza dello Stato. Accusati di appartenenza a un “gruppo terroristico” e di “diffusione di informazioni false che minano la sicurezza nazionale”, in base alla draconiana legge antiterrorismo del 2015 e alla legge sul crimine informatico del 2018, da quel momento gli imputati iniziano una lunga fase processuale che viene dilatata con rinvii infiniti. Un passaggio della relazione evidenzia che “la Procura egiziana non ha mai accusato alcun ufficiale di illeciti legati a sparizioni forzate”, denunciando che “la detenzione arbitraria rimane uno strumento di repressione diffuso. Gli individui detenuti arbitrariamente sono spesso trattenuti per mesi o anni senza accusa o processo, con il pretesto di detenzione cautelare che viene ripetutamente rinnovata senza un giusto motivo”. Inoltre - si legge ancora nel testo - coloro che vengono arrestati sono sottoposti a tecniche di interrogatorio dure, inclusa la tortura: pestaggi, scosse elettriche e isolamento prolungato. Le condizioni di detenzione sono spesso disumane, anche a causa del grave sovraffollamento, della scarsa igiene e dell’accesso inadeguato alle cure mediche, con conseguente deterioramento della salute e, in alcuni casi, “morte in custodia”. Le misure “punitive”, come negligenza medica, divieto per i prigionieri di ricevere visite dei familiari o di comunicare privatamente con i propri avvocati, da parte degli agenti della Sicurezza nazionale continuano anche nelle nuove prigioni costruite in Egitto. Le limitazioni agli incontri tra famiglie e detenuti, introdotte al tempo della pandemia di Covid, vengono ancora applicate nonostante l’emergenza sia finita. “Tutte queste pratiche violano palesemente la Costituzione dell’Egitto e i suoi obblighi ai sensi del Patto internazionale sui Diritti civili e politici. Non sono mai state adottate misure efficaci per fermare questi abusi o per perseguire i responsabili”, conclude il rapporto. Il Comitato Onu contro la tortura, dopo avere visionato la relazione del governo egiziano alla fine del 2023, ha rilevato che “la tortura nel Paese rimane diffusa e sistematica”. Per il 2025 la situazione si prevede ancora più drammatica. Se fosse adottato il nuovo Codice di procedura penale, in fase di definizione, le già scarse garanzie di un processo equo previsto (seppure violato) dalla legge in vigore, con una maggiore concentrazione di potere nelle mani della Procura e delle agenzie di sicurezza, sarebbero pressoché nulle. Siria. Al Hol, la bomba che ora rischia di esplodere di Chiara Cruciati e Giansandro Merli Il Manifesto, 25 gennaio 2025 Reportage dal Nord-est della Siria Visita al campo che ospita 40mila familiari dei jihadisti catturati dopo la fine del Califfato. Un inferno con i suoi gironi - siriani, iracheni, stranieri “rimossi” dai loro paesi - e dinamiche di un piccolo Stato islamico. Pronto pericolosamente a risorgere. Parla la direttrice della struttura Jihan Hanan: “Abbiamo avuto informazioni che l’Isis sta pianificando qualcosa. Non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno”. Ma in questo momento nella regione a maggioranza curda retta dall’Amministrazione autonoma il principale incubo è la Turchia. Una distesa di reti, grate e filo spinato taglia il deserto. Fuori, tutto intorno, ci sono le postazioni asaysh, la polizia dell’Amministrazione autonoma del Nord-est della Siria (Aanes). Più lontano vigilano le Syrian Democratic Forces (Sdf), la federazione di unità di autodifesa nata dalla rivoluzione del Rojava, il Kurdistan siriano. La terra è una piana di sfumature di giallo. Non cresce un albero. Dentro, nelle tende, vivono 39mila persone: al 95% donne e bambini, la maggior parte familiari dei miliziani dell’Isis e alcuni sfollati di guerra. I minori sono 24mila, i più piccoli sono nati dietro la recinzione e non hanno mai visto il mondo fuori. Alcuni di loro lanciano sassi verso i pulmini che sfilano all’esterno, altri fanno ciao con le mani, uno mostra l’indice destro: è il saluto dello stato islamico. Il campo di Al Hol - 85 chilometri a sud di Qamishlo, capitale della regione a maggioranza curda - è “una bomba a orologeria”, dice la direttrice della struttura Jihan Hanan. “Abbiamo avuto informazioni dagli alleati della coalizione internazionale (guidata dagli Usa, ndr) e dal governo iracheno che l’Isis sta pianificando qualcosa. Ma non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno”, aggiunge. Parla davanti a una delegazione europea di giornalisti, deputati e amministratori locali. L’obiettivo è riportare l’attenzione internazionale su quello che accade nel Nord-est: dopo la caduta del regime di Assad riflettori e promesse di investimenti sono puntati solo su Damasco. Il campo, creato da rifugiati iracheni nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, è tornato a riempirsi dopo la battaglia di Baghuz del marzo 2019. Quella che ha segnato la sconfitta militare dell’Isis e posto fine a Daesh come entità territoriale. “Il Califfato, però, continua a esistere come ideologia, come progetto da realizzare”, dice Hanan. E proprio da Al Hol, secondo alcuni, dovrebbe nascere di nuovo. Le dinamiche che si sono ricreate nella tendopoli sono le stesse che per cinque anni hanno permesso alla creatura di al-Baghdadi di farsi stato: molte delle donne detenute non erano “solo” mogli e madri ma ingranaggi di quella macchina, responsabili di torture, polizia morale, addestramento. Tra il 2019 e il 2020 all’interno sono stati registrati 150 omicidi di abitanti del campo. Poi sono iniziati i blitz militari, sostenuti dalla coalizione, alla ricerca delle armi che continuano a entrare attraverso i camion e il personale locale che fa la spola ogni giorno. L’inferno di Al Hol è diviso in gironi: quello per i siriani, quello per gli iracheni e la sezione ancora oggi quasi inaccessibile dove si trovano i parenti dei foreign fighters che gli altri paesi non hanno voluto riprendersi. Complessivamente la popolazione si è ridotta, dopo aver raggiunto un massimo di 64mila presenze, ma nel 2024 solo 304 stranieri sono stati rimpatriati: oltre la metà in Kyrghizistan, poi in Russia, Turkmenistan e a seguire altre nazionalità. Quando l’8 dicembre 2024 è caduto il regime di Assad i siriani sfollati di guerra hanno festeggiato: per la prima volta dopo un decennio sperano nel ritorno a casa, che nei giorni scorsi l’Amministrazione autonoma ha detto di voler sostenere. Dal canto loro le famiglie dello Stato islamico hanno subito intravisto nella destabilizzazione dell’area una possibile via di fuga collettiva. “Gli stranieri erano convinti che in una settimana Al Jolani sarebbe venuto a liberarli”, continua Hanan. Così si sono barricati nella sezione Annex: per dieci giorni hanno impedito alle Sdf di entrare e per una settimana alle ong di consegnare cibo e servizi. La “ribellione” è finita solo a causa della fame, ma il segnale è stato chiaro: le fazioni più radicalizzate vogliono approfittare del momento. Il campo non è impermeabile. All’ingresso ci sono solo le Sdf e le asaysh, le forze di sicurezza interne, ma nessun metal detector. “Ogni giorno transitano 400 veicoli e migliaia di persone. Il contrabbando avviene così. È impossibile controllare tutto”, afferma Hanan. Entrano armi, telefoni cellulari, denaro: a fare da corriere sono gli addetti locali delle organizzazioni che operano nel campo e chi consegna beni alimentari, costretti da minacce di morte delle milizie islamiste e da un po’ di soldi. Il denaro che entra serve anche al mantenimento dei familiari dei membri dell’Isis. Accanto alle tende della sezione, alla fine di una piccola salita, c’è una sorta di mercato all’aperto, baracchine di ferro tinteggiato di blu. Scatoloni di cartone, buste di patatine, sacchi di iuta sporcano il pavimento di sabbia gialla che corre giù fino alla tendopoli. Qui l’amministrazione del campo consegna frutta, verdura, riso, snack, lattine di ceci. “Arriva tutto da fuori, loro comprano quello che serve e cucinano da sé - ci dice un’operatrice -. I camioncini, però, non servono solo a far entrare dentro il campo, servono anche per le evasioni: le persone si infilano nelle cisterne dell’acqua o nei furgoncini dei commercianti e scappano”. Altri tentano di rompere la recinzione, “ci provano quasi ogni notte”. È la recinzione a cui rivolge lo sguardo un gruppo di bambini, nessuno ha più di dieci anni. Qualcuno è più giovane del campo di Al Hol: sono i bambini nati dai matrimoni tra adolescenti, forzati dalle famiglie e dalle loro gerarchie interne che replicano la modalità di gestione della comunità secondo Daesh. Alle donne è affidato lo stesso compito che avevano fuori: mettere al mondo nuovi “cuccioli del califfato” e proseguire un’opera feroce di indottrinamento. Le famiglie si rifiutano di mandare a scuola bambini e ragazzini e gli inculcano l’unica “educazione” possibile, l’ideologia dell’Isis. Il resto lo fa quel limbo miserabile che è Al Hol: il gelo invernale, l’arsura estiva, le tende ingiallite, i libri che non ci sono, il mondo irraggiungibile, le ore e i giorni che si ripetono uguali a se stessi. L’Amministrazione autonoma sa che il campo è uno Stato islamico in miniatura. Per questo, da qualche anno, ha aperto due centri di rieducazione dove finiscono i maschi una volta compiuti i 12 anni. Vengono sottratti alle famiglie per interrompere il processo di indottrinamento e per impedire nuove nascite. Non è facile: le madri li nascondono, rendendo impossibile sapere con esattezza in quanti vivano nella sezione Annex. “Sono centri per la deradicalizzazione - ci dice Sara, parte dell’amministrazione di Al Hol - e una sorta di case famiglia. Vivono là, hanno un alloggio e la mensa, un percorso educativo e uno sportivo, le aule e il campetto. Non arrivano tutti da Al Hol, alcuni provengono da Al Roj”. È il campo gemello, l’altro centro di detenzione per membri e familiari dell’Isis. “Non sappiamo per quanto tempo ancora questi due campi dovranno restare aperti - continua Hanan - Gli sfollati devono poter tornare a casa e i foreign fighters vanno rimpatriati: gestire 40mila persone è un peso insopportabile per l’amministrazione”. Questa, nel corso degli anni, ha ripetutamente chiesto alla comunità internazionale l’istituzione di un tribunale che giudichi gli affiliati allo Stato islamico, consapevole del dilemma etico e politico di imprigionare migliaia di persone senza processo. Nessuno ha mai accolto questa proposta. Oggi la preoccupazione principale delle autorità della Siria del Nord-est sono gli attacchi turchi sul fronte lungo l’Eufrate dove gli F-16 di Ankara continuano a bombardare militari e civili nei pressi della diga di Tishreen e del ponte di Qaraqoz, a sostegno delle milizie islamiste raggruppate nell’Esercito nazionale siriano. Nonostante questo ennesimo sforzo militare, però, le Sdf hanno scelto di aumentare la presenza intorno ad Al Hol, la “bomba a orologeria” che rischia di esplodere. Cina. La caccia agli uiguri non si è mai fermata di Giulia Pompili Il Foglio, 25 gennaio 2025 Quarantotto cittadini cinesi dello Xinjiang detenuti in Tailandia da più di dieci anni ora sono a rischio rimpatrio. Il simbolo della spietatezza cinese, anche dentro a una storia più italiana. “Potremmo essere imprigionati o essere uccisi. Facciamo appello a tutte le organizzazioni internazionali e ai paesi che hanno a cuore i diritti umani perché intervengano per salvarci da questo tragico destino, prima che sia troppo tardi”. Una decina di giorni fa l’Ap è venuta in possesso di una lettera scritta da uno dei 43 cittadini cinesi di etnia uigura detenuti da dieci anni in Tailandia, e che le autorità di Bangkok vorrebbero adesso deportare in Cina. La loro vicenda rappresenta la capacità della Repubblica popolare cinese di usare la repressione internazionale e la manipolazione dei media come arma diplomatica e politica. Per un breve periodo tre, quattro anni fa, il dramma degli uiguri dello Xinjiang, cioè la minoranza musulmana e turcofona che da decenni la leadership del Partito comunista cinese cerca di cancellare con campi di lavoro e detenzione, ha avuto il suo momento di attenzione mediatica internazionale. Testimonianze strazianti, libri, rapporti ufficiali, timide sanzioni da parte dei governi occidentali. Pechino era stata costretta ad ammettere l’esistenza di “campi di rieducazione” giustificandoli con il pericolo del “terrorismo islamico” e del “separatismo”, ma nel frattempo ha continuato a fare quello che stava facendo, aumentando la pressione anche sugli uiguri fuggiti all’estero con le sue tattiche di repressione transnazionale, di cui fanno parte anche gli sgherri delle cosiddette “stazioni virtuali di polizia all’estero”. Nel 2021 Marco Rubio, segretario di stato della nuova Amministrazione Trump, aveva promosso l’Uyghur Forced Labor Prevention Act, che vietava le importazioni in America dallo Xinjiang perché frutto del lavoro forzato. Durante la sua audizione di conferma al Congresso, la scorsa settimana, Rubio ha detto che avrebbe fatto pressioni sulla Thailandia - “un forte alleato americano” - affinché non rimpatri gli uiguri in Cina, dove finirebbero quasi certamente in un campo. Nel 2014 un gruppo di circa 350 uiguri cercò di oltrepassare illegalmente i confini thailandesi nella speranza di trovare un rifugio sicuro dopo essere scappati dalla persecuzione cinese. Tra di loro c’erano anche dei bambini. Durante la lunga detenzione thai, secondo alcuni gruppi di attivisti, sarebbero morti in cinque, anche un neonato e un bambino di tre anni. La gran parte dei 350 è stata poi rilasciata tranne 48 uomini, che sono ancora detenuti in Thailandia e che Pechino sostiene essere parte del East Turkestan Islamic Movement, riconosciuto come gruppo terroristico anche dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea. Naturalmente la maggior parte delle volte l’accusa è un trucco di Pechino, e gli attivisti chiedono ai paesi che arrestano uiguri su mandato della Cina di fare indagini indipendenti, capire se la repressione è solo politica. Ma la vicenda di questi 48 uiguri da più di dieci anni imprigionati si è aggravata all’inizio del mese, quando le autorità di Bangkok hanno cominciato a parlare di rimpatri e di “ritorni volontari” in Cina. Dal 10 gennaio alcuni di loro sono in sciopero della fame. La Cina fa pressioni sui paesi con cui sa di poter ottenere collaborazione da questo punto di vista: la Thailandia applica la “politica del bambù”, cioè di flessibilità fra relazioni con America e Cina. Bangkok ha bisogno di Washington come di Pechino, e con il regime di Xi Jinping ha molti negoziati in corso - sul turismo ma anche, per esempio, sulla sicurezza comune e la piaga delle scam city. A maggio del 2022 il Foglio si era occupato della vicenda di Mihriban Kader, scappata da casa sua nello Xinjiang fino a rifugiarsi in Italia con suo marito, un bambino piccolo e quello che aveva in grembo, confidando nel diritto internazionale che avrebbe portato, prima o poi, a far arrivare in Italia anche i suoi altri quattro figli. Che invece sono rimasti per anni in un campo di detenzione. Un anno e mezzo dopo la nostra intervista, né il Foglio né l’avvocato che la seguiva per il ricongiungimento e la richiesta d’asilo sono riusciti più a mettersi in contatto con la famiglia Kader. Sparita nel nulla, come migliaia di uiguri nel mondo. Forse tornati in Cina, volontariamente o meno, o forse troppo esposti. La “democratica e progressista” Taiwan riprende le esecuzioni capitali di Sergio D’Elia* L’Unità, 25 gennaio 2025 Taiwan è una piccola isola immersa nel mar della Cina, una grande montagna della resistenza liberale all’impero dispotico continentale. Davide e Golia. Democrazia e Dittatura. Stato di Diritto e Potere assoluto dello Stato. La differenza è abissale, ma anche la riprova che un modo d’essere ordinato e orientato ai valori umani universali può avere nel tempo, speriamo ancora, la meglio sul disordine costituito e centrato sul potere. La Cina può fare di Taiwan un sol boccone solo se il grande avrà assimilato il piccolo, quando il piccolo sarà simile al grande. L’irriducibile differenza di valori è la forza vitale della resistenza al regime violento. Ammainare le proprie nobili bandiere, quelle di grazia e giustizia, di diritto e libertà, mette a repentaglio insieme ai propri grandi principi anche la propria piccola indipendenza nazionale. Per questo è grave quel che è accaduto qualche giorno fa nella Repubblica di Cina. La rottura di una tregua che durava da cinque anni nella guerra di Taiwan ai suoi cittadini Caini. Un detenuto di 32 anni, Huang Lin-kai, è stato giustiziato nella prigione di Taipei per un duplice omicidio commesso nel 2013. È stata la prima esecuzione nel Paese dopo cinque anni di moratoria di fatto. Lo stop improvviso sulla via dell’abolizione della pena capitale è stato siglato con un tratto di penna e l’autografo del ministro della Giustizia Cheng Ming-chien. Il condannato è stato fucilato nel giro di poche ore dalla firma dell’ordine di esecuzione. La prassi, lo stile, il metodo sono gli stessi in voga nell’antitetico sistema di giustizia cinese. Il segreto di stato, l’attacco a sorpresa, la fucilazione. È chiaro, il paragone col gigante cinese non regge se consideriamo il numero dei clandestini della pena di morte, vittime dei plotoni di esecuzione. Se Taiwan ne tiene 36 nel braccio della morte, la Cina ne nasconde 36.000. Se il primo ne condanna 10, la seconda ne condanna 10.000. Se la piccola isola ne fucila 1 ogni tanto, l’immenso continente ne fucila 2.000 all’anno. Ma Taiwan è uno Stato di diritto, la Cina uno stato dove il diritto è volto al torto, fino alla tortura. Ci deve pur essere una differenza, anche nell’aberrante pratica della pena di morte! Nel caso di Huang Lin-kai, tutte le garanzie costituzionali e internazionali sull’uso della pena di morte sono state da Taiwan violate. Gli avvocati non hanno avuto il tempo di fare un ultimo, disperato tentativo di salvargli la vita. I famigliari non hanno avuto il tempo di portargli un ultimo, estremo saluto. Il 20 settembre 2024, la Corte costituzionale ha stabilito che la pena di morte può essere legittimamente imposta solo a seguito di sentenze emesse dai giudici all’unanimità e che tale informazione deve essere divulgata dall’accusa. Il suo avvocato non ha mai saputo se la decisione mortale nel caso di Lin-kai era stata unanime. L’esecuzione, nascosta a difensori e parenti del condannato, è avvenuta mentre era ancora in sospeso la richiesta di saperlo. L’ultima esecuzione di un prigioniero a Taiwan prima di quella di Huang è avvenuta il 1° aprile 2020. È stata la prima da quando il presidente Lai Ching-te del Partito Democratico Progressista (DPP) è entrato in carica a maggio 2024. In precedenza, due detenuti nel braccio della morte erano stati giustiziati durante i due mandati (2016-2024) dell’allora presidente Tsai Ing-wen del DPP. Dieci anni di governo dei “democratici progressisti”, tre esecuzioni. La conferma che spesso i nomi dei partiti esprimono l’opposto di quello che fanno. Certo, l’opposizione Kuomintang ha fatto di peggio. Durante l’amministrazione 2008-2016 del suo presidente Ma Ying-jeou, sono stati giustiziati 33 detenuti. Ma il Kuomintang, come è noto, è da sempre estremamente contrario all’indipendenza taiwanese, è uno strenuo sostenitore dell’identità cinese degli abitanti dell’isola e come i cinesi del continente è anche a favore della pena di morte. Gli argomenti sono identici: l’esecuzione della pena capitale è prevista dalla legge ed è quindi un dovere ineludibile del governo fucilare un assassino. Il piatto della bilancia dev’essere sempre in equilibrio, chi sbaglia paga, chi ha ucciso dev’essere ucciso… per rendere giustizia alle vittime e alle loro famiglie. Come nel caso di Huang Lin-kai, autore di duplice omicidio. Lo hanno costretto a sdraiarsi a faccia in giù, lo hanno sedato e poi lo hanno sparato alle spalle, all’altezza del cuore. È avvenuto nel centro di detenzione della “democratica e progressista” Taipei. Come avviene ogni giorno nelle carceri della tirannica madre patria cinese. *Segretario dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino