Nordio si chiede dove mettere i detenuti. Ma il recupero? di Michele Passione Il Dubbio, 24 gennaio 2025 Va bene l’edilizia carceraria contro il sovraffollamento. Manca però un piano articolato. Nel giro di pochi giorni il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dato i numeri, sciorinando nella sua Comunicazione al Parlamento anche alcuni dei punti contenuti nel d.d.l. n.1315, di conversione in legge del d.l. n.178/2024, recante misure urgenti in materia di giustizia (che, sia chiaro, ha registrato 163 voti a favore, 103 astenuti e nessun contrario). In disparte l’eterogeneità del testo (si va da norme che regolano la gestione delle crisi d’impresa ai Consigli giudiziari, dall’eliminazione del requisito di servizio residuo per incarichi direttivi degli Uffici giudiziari all’estensione della copertura Inail ai Lavori di pubblica utilità, dalla verifica della fattibilità operativa dei braccialetti elettronici alle disposizioni in materia di edilizia penitenziaria), che pur essendo condizione necessaria per l’utilizzo della decretazione di straordinaria necessità e urgenza sembra ormai sfuggire al controllo, colpisce lo storno delle provviste economiche già appostate sui capitoli 1265 e 2136 in favore dell’edilizia penitenziaria. E infatti, come si può leggere sul sito della Camera, la verifica delle quantificazioni porta a rilevare come l’incremento di quasi 96 milioni di euro per costruire nuove carceri tragga linfa soprattutto da quello per la riforma della magistratura onoraria - quasi 74 milioni - per più di 13 milioni dal fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti, e per circa 9 milioni dal Fondo per la Giustizia riparativa. Certo, com’è noto, i fondi non utilizzati non possono andare in accumulo sullo stesso capitolo, e occorre prendere atto che “il Governo ha assicurato che l’utilizzo delle risorse dei predetti fondi non arreca alcun pregiudizio alla realizzazione delle finalità di spesa previste a legislazione vigente a valere sulle medesime risorse”. Staremo a vedere. Ma che ci vuole fare il Governo con questi quattrini? Ce lo dice, per l’appunto, il Ministro della Giustizia, evocando gli antichi Greci e la loro accezione qualitativa del tempo (Kairos), circa “la capacità di fare la cosa più opportuna al momento giusto, cogliendo lo spirito stesso del Tempo”. E allora vediamo, il Ministro Spike Lee: pur attingendo da diverse risorse, il nostro ci informa, attraverso i rappresentanti del popolo, che quanto al processo penale telematico si va “verso una rapida attribuzione di nuovi ruoli direttivi in cui sia potenziata la presenza di magistrati rispetto a quella del personale tecnico e ingegneristico, per svolgere al meglio la fase per così dire di tailoring dell’applicativo”. È scritto così; dall’antica Grecia alle storiellette, affidate a nuovi fuori ruolo. Ma torniamo all’hardware: “Il tema centrale dell’attività in campo penitenziario è stata e sarà la sicurezza nelle carceri”. L’usato sicuro fa sempre il suo effetto, “in particolare a favore della polizia penitenziaria”. E del resto, con desolante presa d’atto, si comincia con l’elencazione di G.i.o., organigrammi, scudi, guanti, giubbotti antiproiettili, e si prosegue con “un discorso speciale che merita l’edilizia penitenziaria”, ché del resto “il sovraffollamento carcerario si affronta con l’edilizia penitenziaria e non con i provvedimenti svuota carceri [..] che erodono la certezza della pena e aumentano l’insicurezza sociale”. Eccallà; carceri, padiglioni, per arrivare a “ben 7.000 nuovi posti detentivi”, con i super poteri del commissario Doglio, per “fondare il futuro del mondo carcerario”. Solo alla fine, sol perché “il presente è figlio di passato che vogliamo superare, si impone tuttavia di rappresentare [...] la situazione della popolazione carceraria”, la cui rappresentazione drammatica si limita ad enunciazione numerica (e così anche per il capitolo concernente la Giustizia minorile, il cui overcrowding penitenziario viene incredibilmente attribuito al progressivo aumento penitenziario post Covid, all’aumento esponenziale dei giovani detenuti migranti, all’aumento della devianza. Dice qualcosa il decreto Caivano? Sipario, con richiamo ai pilastri della cultura giudaico-cristiana e a quella greco-romana, inseguendo la felicità attraverso libertà economica, religiosa e culturale. Quanto all’attitudine rieducativa della pena, “lo Spirito del tempo” (quale?) a coronare l’ideale cristiano, la intende così: “Redenzione dopo l’espiazione”. “Cervello per comprendere, cuore per risolversi, braccio per eseguire”; questo l’insegnamento dello storico e politico inglese cui si richiama il Ministro. Chi scrive ha diversa concezione del corpo umano; per quel che riguarda le persone, la domanda è “cosa fare”, non “dove la metto”. Carceri senza capo, manca la nomina. Nordio: no all’amnistia di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 gennaio 2025 Dopo le dimissioni di Russo, il Dap è diretto dalla sua vice Lina Di Domenico. Ma nessun nome è ancora arrivato al Colle. Amministrazione della giustizia, la relazione al Parlamento del Guardasigilli. Il sovraffollamento c’è. Ma l’atto di clemenza “sarebbe un incentivo alla recidiva”. A un mese dalle dimissioni di Giovanni Russo, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è ancora senza un capo. Mentre l’ex procuratore nazionale antimafia che si era insediato a largo Daga nel gennaio 2023 ha già preso posto come consigliere giuridico della Farnesina, la sua vice Lina Di Domenico, magistrata collocata fuori ruolo dal Csm l’8 gennaio scorso, lo ha sostituito ma ancora solo nella veste di facente funzione. Ma né il suo né un altro nome è ancora arrivato - come vuole la prassi - al Quirinale. Spetta infatti a Sergio Mattarella, in quanto capo delle forze armate, firmare il decreto presidenziale di nomina della figura istituzionale che guida anche il corpo di Polizia penitenziaria. L’impasse è tale che la delibera con la quale il governo propone il nome del nuovo capo Dap non è neppure ancora pervenuta formalmente sul tavolo del Consiglio dei ministri. Ma è tema, questo, che non viene neanche sfiorato dal ministro Carlo Nordio durante la sua relazione sull’amministrazione della Giustizia presentata ieri prima al Senato e poi alla Camera. Le carceri però sono uno dei temi su cui si concentra maggiormente il Guardasigilli. Il quale ammette il sovraffollamento degli istituti penitenziari, anche quelli per minorenni, ma nega ogni responsabilità dell’esecutivo, puntando invece l’indice contro “l’aumento esponenziale dei detenuti stranieri”. Le ricette governative per contrastare un problema che, insieme al record di nove detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno (nello stesso periodo del 2024 erano tre), è sintomo del disastro in cui versa l’amministrazione penitenziaria sono sempre le stesse. “Esclusi” invece “i provvedimenti di amnistia o di scarcerazione lineare che - ribadisce Nordio - manifesterebbero una debolezza da parte dello Stato. Si può essere generosi quando si è forti, non quando si è costretti dalla necessità delle cose. L’amnistia sarebbe un incentivo alla recidiva - arriva ad affermare il titolare del dicastero - come ci dimostra la stessa esperienza giurisdizionale”. “Stiamo lavorando sulla riforma della custodia cautelare” che riguarda “il 20% dei detenuti”, assicura il ministro che commenta così il dato: “Nel Paese per anni abbiamo assistito al paradosso che era tanto facile entrare in prigione prima del processo, quando si era presunti innocenti, quanto era facile uscire dopo la condanna definitiva quando si era colpevoli conclamati”. E poi, ancora di nuovo, parla di “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti, di “espulsione degli extracomunitari” dal territorio nazionale (ma gli accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Nigeria sul modello albanese, di cui si è tanto parlato, sono ancora al palo) e del “commissario straordinario con poteri idonei a scavalcare quelle difficoltà burocratiche che si oppongono alla edificazione e alla ristrutturazione degli edifici carcerari”, Marco Doglio, nominato nel settembre scorso con il compito di “rimodulare e adattare le strutture esistenti” perché, realizza Nordio, “costruire un nuovo carcere in Italia è praticamente impossibile”. Riguardo alla prevenzione dei suicidi in cella, “ce la stiamo mettendo tutta”, assicura, e cita come misura “l’integrazione di risorse pari a 5 milioni per l’osservazione psicologica”. Sui dati il ministro mette le mani avanti: “A fine 2024 il numero complessivo di detenuti in Italia era pari a 61.861 unità: è un numero elevato che supera la capienza, ma vorrei anche segnalare che non si entra in prigione per volontà del governo, ma perché si compie un reato e perché la magistratura ritiene che non ci siano alternative al carcere per l’espiazione di questi reati”. Sorvola però sull’elemento più importante: 15 mila detenuti in più rispetto alla capienza effettiva di 47 mila posti. Ma, è la consolazione di Nordio, “non siamo il fanalino di coda dell’Europa: siamo messi meglio di Francia e Gran Bretagna”. Surplus di reclusi anche negli Istituti penali per minorenni dove al 31 dicembre si registravano 588 presenze. Il Guardasigilli però parla solo di “tendenziale sovraffollamento del comparto detentivo minorile” che considera “conseguenza anche dell’aumento esponenziale dei detenuti stranieri, in larghissima maggioranza minori stranieri non accompagnati”, perlopiù “provenienti dal nord Africa, spesso poliassuntori di sostanze stupefacenti e/o psico-farmaci, con gravi problematiche comportamentali, talora anche di natura post-traumatica, che giunti in Italia vengono presto fagocitati dal circuito illecito”. La criminalizzazione di taluni comportamenti non è, secondo l’inquilino di Via Arenula, responsabile di un eccesso di carcerazione: “Nessuna persona è in prigione per il reato di rave party”, assicura. Confermando, senza volerlo, che il relativo decreto legge era solo una norma bandiera, assolutamente non urgente né necessaria. Dare un volto umano alle carceri: la missione del Commissario per l’edilizia penitenziaria di Errico Novi Il Dubbio, 24 gennaio 2025 Più tempo, innanzitutto: il nuovo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio vede prorogata al 31 dicembre 2026, con un extra time di 12 mesi esatti, la scadenza per presentare e mettere sui binari il proprio piano di riqualificazione. È una delle novità previste, in materia carceraria, dal decreto Giustizia convertito martedì alla Camera. Ieri, in entrambi i rami del Parlamento, il guardasigilli Carlo Nordio ha citato il “Piano per l’edilizia penitenziaria e la ristrutturazione del patrimonio” nell’ambito della propria relazione sullo Stato della giustizia. Il futuro degli istituti di pena è dunque nelle mani, almeno in termini strutturali, di un super manager con un passato molto importante nel pubblico e nel privato: Doglio ha guidato tra l’altro Rete ferroviaria italiana e, più di recente, è stato responsabile della Direzione immobiliare di Cassa Depositi e prestiti. Di certo una delle figure professionalmente più attrezzate a cui il governo avrebbe potuto rivolgersi per tentare di restituire un minimo di dignità, almeno sul piano materiale, ai malmessi istituti di pena italiani. Ed è una novità non irrilevante che, per una volta, un incarico chiave in campo carcerario non sia conferito a un magistrato. Doglio è un ad, vocazione che nell’impresa si coniuga con i principi di efficienza, pianificazione e sostenibilità finanziaria. Non si discutono le sue capacità. Ma un profilo del genere dovrà calarsi in una missione forse insolita o quanto meno ellittica rispetto alla prospettiva tipica del top management: umanizzare le carceri, a partire da una diversa idea di architettura penitenziaria. Sono idee e visioni attorno alle quali il Dubbio, nello scorso mese di giugno, ha organizzato una giornata di studi. In quell’occasione la materia di un’architettura concepita per rendere non solo dignitosa ma anche più armonica, per quanto possibile, la permanenza fisica negli istituti di pena è stata una volta tanto al centro del confronto politico. Nella relazione consegnata, e in parte oralmente esposta, dal ministro Nordio ieri alle Camere, l’idea è, almeno nelle intenzioni, di non limitarsi a progettare e costruire nuovi istituti, obiettivo che sarebbe del tutto insensato rispetto alla terribile emergenza che divora il sistema: i suicidi dietro le sbarre. L’anno 2024 è finito col macabro e assoluto record di 90 vittime, in questo primo mese del 2025, non ancora concluso, siamo già a 9 detenuti che si sono tolti la vita: con una progressione del genere, si rischia di infrangere di nuovo il vergognoso primato. Ma appunto, Nordio definisce il compito affidato a Doglio come rivolto non solo alla “edilizia” ma anche al “completamento della ristrutturazione del patrimonio”. Seguono declinazioni che solo in parte si coniugano con l’aspettativa di un’architettura penitenziaria più compatibile con la vita umana: il “Documento programmatico generale” emanato dal Dap riguarda “la riqualificazione del patrimonio edilizio, l’efficientamento energetico e l’adeguamento strutturale con innovazione degli impianti di sicurezza e videosorveglianza”. Esigenze che pure esistono, ma alle quali si spera che Doglio provveda ad associare altre soluzioni. Il commissario disporrà di una non trascurabile riserva finanziaria. Solo con il decreto Giustizia licenziato l’altro ieri a Montecitorio, gli sono stati assicurati 95 milioni e 724mila euro. Risorse recuperate da pregressi stanziamenti per obiettivi di ben diversa natura: non solo la riforma della magistratura onoraria (73 milioni e mezzo) ma anche il rimborso delle spese agli assolti (13 milioni e 236mila) e la giustizia riparativa (poco meno di 9 milioni). Quelle somme non avrebbero potuto rimanere appostate, in quanto non spese, sugli scopi a suo tempo indicati. Che sono sì rifinanziati per l’anno 2025 ma che, per legge, non potevano avvalersi di un accumulo con le riserve avanzate in passato. Così si è deciso di trasferire il tesoretto inutilizzato sui progetti per l’edilizia penitenziaria. Di per sé la scelta rischia di essere ambivalente, qualora i soldi servissero solo all’ampliamento volumetrico delle prigioni. Umanizzare il carcere è un dovere dello Stato. Doglio potrà avvalersi, sempre in virtù di quanto stabilito dal Dl giustizia, di una struttura formata da 5 esperti e del contributo “gratuito” di stazioni appaltanti, società partecipate dallo Stato e della “vigilanza collaborativa” dell’Autorità nazionale Anticorruzione presieduta da Giuseppe Busia. Certo, anche la prevenzione del malaffare, negli interventi per riqualificare le carceri, va garantita. Ma la testa dovrebbe essere rivolta ai reclusi. Alla devastante condizione in cui sono costretti. Un’idea del degrado in cui sono precipitati gli istituti di pena è offerta dall’Ordine degli avvocati di Bologna, coinvolto ieri, insieme con la Camera penale del capoluogo emiliano, dal presidente della Regione Michele De Pascale in una visita nel carcere “Dozza”. Ebbene, nella propria nota, il Coa bolognese ricorda tra l’altro di aver chiesto al governatore “un impegno concreto a investire risorse per l’assistenza sanitaria negli istituti di pena, settore che più di altri vive una condizione di grave difficoltà per carenze di personale e mezzi. L’implementazione di personale medico specializzato nel trattamento del diffusissimo disagio psichico può essere un primo passo per prevenire il rischio suicidario, riducendo l’abuso di psicofarmaci che provoca dipendenze patologiche e alimenta un mercato clandestino all’interno delle carceri”. Prigioni come piazze di spaccio di psicofarmaci per resistere alla disperazione. Un vero e proprio inferno. Di fronte a simili descrizioni, Doglio dovrà realizzare una rivoluzione umanizzante. O il suo stesso mandato perderà di senso. Le soluzioni impossibili di Nordio al sovraffollamento delle carceri di Alessandro Villari zetaluiss.it, 24 gennaio 2025 Il ministro della Giustizia ritiene che costruire nuovi istituti risolverà i problemi dei detenuti. Intanto lo stipendio di Marco Doglio potrebbe raddoppiare. Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio serve costruire nuovi istituti penitenziari. Così si risolverebbe il problema del sovraffollamento nelle carceri che secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone supera il 120 per cento: 61.480 detenuti dove dovrebbero starcene 51.234. L’ex magistrato è tornato a parlare dell’argomento lo scorso 22 gennaio quando ha presentato in Senato la relazione annuale sulla giustizia, il giorno dopo l’approvazione alla Camera dei deputati del suo disegno di legge. Se questo provvedimento dovesse passare, il fondo per l’edilizia carceraria aumenterebbe di 96 milioni di euro, soldi che verrebbero tolti al tesoretto destinato alla riforma della magistratura onoraria, al rimborso delle spese legali agli imputati assolti e alla giustizia riparativa. Sulla gestione dei fondi non è d’accordo Emilio Santoro professore di Filosofia del diritto dell’università di Firenze e presidente del comitato scientifico dell’associazione L’altro diritto: “Quei soldi non servono per nuove carceri, anche perché non basterebbero neanche. Sarebbe meglio se li usassero per rendere decente e dignitosa la detenzione in cella: spesso ci sono le cimici e i topi, manca l’acqua calda, le docce sono in comune e i muri trasudano umidità”. Il ministro ha ricordato i numeri registrati dal governo lo scorso anno: secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il numero complessivo di detenuti era di 61.861 (60.166 nel 2023), ma non ha specificato che i posti disponibili sono 51.312. Parliamo di 10 mila persone in più rispetto alla capienza massima degli istituti e “se approvano il disegno di legge Sicurezza il dato si alzerà di altre 6 mila unità: significa che bisogna costruire dieci carceri da 600 posti. È realistico?” si chiede Emilio Santoro. L’idea di costruire nuove celle sembra però difficile da realizzare, “al massimo - commenta il professore - il governo dovrebbe riuscire a recuperare le sezioni dei penitenziari chiuse dalla magistratura e dall’Asl perché invivibili”. Questo sarà il compito del Commissario straordinario per l’edilizia carceraria Marco Doglio, nominato il 23 settembre scorso da Nordio: se il ddl Giustizia passerà, il suo incarico, che sarebbe terminato alla fine del 2025, sarà prorogato al 31 dicembre 2026 con l’obiettivo di portare a termine “le opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”, ribadisce il ministro al Senato. “L’unico a guadagnarci da questa storia è lui” commenta il docente che spiega come al Commissario non solo sarà raddoppiato lo stipendio, ma continuerà a ricevere anche quello da Chief Real Estate Officier di Cassa depositi e prestiti, la Spa del ministero dell’Economi, incarico che ricopre dal 2019. Escludendo le ipotesi di amnistia e di scarceramento lineare per i detenuti, in quanto, secondo Nordio, “manifesterebbero una debolezza da parte dello Stato”, il ministro vorrebbe liberare le celle dai reclusi extracomunitari espellendoli dal territorio nazionale. Ma il problema è “far funzionare il meccanismo” sottolinea Santoro, perché in realtà esiste l’articolo 16 del Testo unico che già prevede l’espulsione come pena sostitutiva o come misura alternativa. Ma di fatto “le questure non riescono a rimpatriare le persone soggette a questa misura e le lasciano nelle carceri”. Inoltre, una convenzione del Consiglio d’Europa stabilisce che oltre all’accordo tra i due Stati è necessaria anche la volontà del detenuto che dev’essere trasferito. Santoro sostiene che il modo in cui il governo affronta il tema delle carceri si può riassumere con il titolo di un libro scritto da Alessandro Dal Lago sui migranti: Non persone. “Ma la situazione non cambierà perché prendono più voti loro dicendo questo rispetto a chi pensa che i detenuti meritino comunque il rispetto della loro dignità”. “Buttare la chiave” non garantisce la sicurezza. Il carcere deve rieducare di Matteo Zuppi Il Domani, 24 gennaio 2025 Pubblichiamo di seguito la prefazione del cardinale Matteo Zuppi al volume I volti della povertà in carcere di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (EDB). Desidero ringraziare di cuore i tanti che hanno contribuito a questo viaggio nel pianeta carcere. Non si tratta di un altro pianeta, ma dell’altra faccia del nostro, quella che non vogliamo vedere, che speriamo resti buia, ma che rappresenta quello che siamo; dobbiamo conoscerla e illuminarla con l’attenzione e l’amore, perché solo così siamo in grado di comprendere il resto. (...). Fare conoscere, unire con delicatezza alcune bellissime e drammatiche immagini e la storia - che spesso resta dall’altra parte della cella, oltre il muro, ma che in realtà ci parla del nostro mondo - è stato certamente un compito difficile. (...). “Ero in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25, 43), afferma il Vangelo. Non si dice nulla delle caratteristiche della persona rinchiusa, non si cercano meriti o al contrario condanne per giustificare la scelta di abbandonare i detenuti. “Ero in carcere e non mi avete visitato”, ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne. Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l’ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro. Pezzi diversi - Il libro ci fa incontrare l’altro e “vedere” pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio. Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: “Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro” (dal discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013). Dobbiamo uscire da un’idea pietistica - simile all’assistenzialismo che papa Francesco ha saggiamente stigmatizzato a Trieste, in occasione della 50° settimana sociale dei cattolici italiani, dicendo che è nemico dell’amore al prossimo ed è ipocrisia sociale - che poi è funzionale a quella ferocemente punitiva. Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e camminare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro la persona che è, degna sempre della nostra “compassione”, che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell’esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo. La banalità del bene - Il libro ci restituisce i nomi - che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche peculiari di ciascuno - di quei fratelli più “piccoli” che dobbiamo visitare. Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l’angoscia di non fidarsi più di nessuno, l’umiliazione, i turbamenti. Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili, ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto - grazie all’attenzione di qualcuno - le doti che non si sa di avere. Capiamo i problemi psichiatrici - così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati - perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di “essere morto”. Certo conosciamo anche comunità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l’errante non sarà mai il suo errore! “L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83). La professoressa Marta Cartabia, nella già citata settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di “pene”, secondo la previsione dell’articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducazione e pene - Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l’unica scelta sia “farla pagare” all’autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cerca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento - problema decennale -, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità. In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove godere di pene alternative. Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno “italiano” perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro. Non sono scorciatoie, concessioni “buoniste”, ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore. Solo il “riparativo” risana la ferita e offre sicurezza. Lo richiama la dichiarazione Dignitas infinita, del Dicastero per la dottrina della fede, approvata nell’aprile 2024 da papa Francesco, in particolare laddove dice, riferendosi alle carceri di tutto il mondo: “Appare opportuno ribadire la dignità delle persone che si trovano in carcere, spesso costrette a vivere in condizioni indegne, e che la pratica della tortura contrasta oltre ogni limite la dignità propria di ogni essere umano, anche nel caso in cui qualcuno si fosse reso colpevole di gravi crimini”. Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi. La linea del Csm: riforma del sistema e nuove Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2025 Attualmente, circa 700 persone sono in attesa di essere assegnate a una delle Rems, con 45 di loro ancora detenute negli istituti penitenziari. Non solo aumentare le Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma rafforzare i servizi territoriali di assistenza mentale e puntare su una riforma complessiva per garantire percorsi alternativi per i detenuti con problemi di salute mentale. Mercoledì scorso, il Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha approvato all’unanimità il documento finale sulle Rems. Il testo è stato elaborato dalla Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione penale, organo tecnico della Nona Commissione del Csm. La delibera approvata sottolinea che le Rems, nate a seguito della sacrosanta abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, continuano a essere al centro di numerosi problemi irrisolti nel sistema penale italiano. Attualmente, circa 700 persone sono in attesa di essere assegnate a una di queste strutture, con 45 di loro ancora detenute negli istituti penitenziari. Un dato allarmante che evidenzia un fabbisogno nettamente superiore alla disponibilità attuale: sebbene gli esperti stimino la necessità di almeno 1.400 posti, quelli effettivamente accessibili restano insufficienti. Oltre alla carenza strutturale, il coordinamento tra il ministero della Giustizia e il sistema sanitario regionale, responsabile della gestione operativa delle Rems, si rivela spesso inefficace. Questa mancanza di sinergia aggrava ulteriormente la situazione, rendendo difficile una pianificazione adeguata e il tempestivo inserimento degli individui nelle strutture appropriate. Un’altra questione cruciale riguarda l’utilizzo delle Rems per soggetti affetti da disturbi della personalità non curabili o che, in molti casi, potrebbero trarre maggior beneficio da misure alternative sul territorio. La Commissione Mista, istituita dal Csm, ha evidenziato come sia necessario non solo aumentare i posti disponibili, ma anche ripensare l’intero sistema, investendo nel rafforzamento delle reti di assistenza psichiatrica territoriale e prevedendo strutture dedicate ad alta sicurezza per gestire i casi più complessi. Le proposte della Commissione puntano a una riforma strutturale. Tra le principali iniziative vi è l’aumento della capienza delle Rems e la creazione di nuove strutture in regioni attualmente sprovviste, come Calabria e Umbria. Si propone inoltre l’istituzione di un albo di esperti psichiatrici per fornire consulenze specializzate volte ad evitare il cosiddetto “abuso delle Rems” e l’attivazione di un osservatorio centrale per monitorare dati e decisioni. Parallelamente, si punta al potenziamento dei Dipartimenti di Salute Mentale, così da garantire percorsi alternativi per i pazienti, e alla creazione di tre centri ad alta sicurezza, distribuiti tra Nord, Centro e Sud Italia, per i soggetti più pericolosi. Infine, viene ribadita la necessità di un maggiore coinvolgimento del ministero della Giustizia nella gestione delle Rems, in linea con quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22/ 2022. Durante la seduta, tutti i membri del Consiglio hanno rivolto un ringraziamento speciale al consigliere Andrea Mirenda (membro togato indipendente), unico giudice di sorveglianza presente nel Csm, per il contributo determinante dato alla relazione approvata. Mirenda, che ha presieduto la Commissione Mista, è stato riconosciuto come figura chiave per l’ottima riuscita di questo lavoro. A relazionare il documento è stato il consigliere Tullio Morello, appartenente alla corrente Area, che ha sottolineato come la Commissione abbia lavorato in modo approfondito e collaborativo, grazie anche al prezioso contributo di magistrati che, senza esoneri e con grande impegno, hanno partecipato alle attività della Commissione affrontando notevoli sacrifici personali e professionali. Ha evidenziato che spesso l’attività del Csm sotto i riflettori mediatici si limita al tema delle nomine, mentre lavori come questo rappresentano un esempio concreto della rilevanza e delicatezza del ruolo del Consiglio. La commissione ha proceduto ad audizioni che hanno coinvolto i vertici del ministero della Salute, del Ministero della Giustizia e delle Regioni, le cui competenze frammentate rappresentano uno dei principali ostacoli alla gestione efficace delle Rems. Questi incontri hanno permesso di identificare criticità e avanzare proposte che sono state recepite nella delibera. Tra le principali problematiche emerse, ha sottolineato che l’istituzione delle Rems, avvenuta con una disponibilità di 600 posti letto a fronte dei 1.200 pazienti che erano accolti negli ospedali psichiatrici giudiziari, ha creato un grave deficit strutturale. Attualmente, centinaia di misure di sicurezza rimangono ineseguite per anni e, ogni anno, circa 40 persone particolarmente pericolose vengono ristrette in carcere, una collocazione inadeguata alle loro condizioni. Il consigliere ha poi richiamato l’attenzione sul dramma umano che si cela dietro questi numeri: internati, famiglie e comunità che si trovano a sopperire alle carenze del sistema, spesso affrontando situazioni di estrema difficoltà. Morello ha ribadito che una gestione appropriata di queste persone non solo rappresenterebbe un atto di giustizia sociale, ma gioverebbe anche alla sicurezza collettiva. Infine, ha espresso l’orgoglio del Consiglio per il lavoro svolto, che ha acceso un faro su una realtà trascurata e avanzato proposte concrete per affrontare il problema. Ha ricordato che il Csm continuerà a sensibilizzare l’opinione pubblica su questa importante questione, anche attraverso il convegno in programma, che approfondirà ulteriormente i risultati e le prospettive del lavoro svolto. Diversi sono stati gli interventi, come quelli della consigliera Bernadette Nicotra, appartenente alla corrente di Magistratura Indipendente. Nel suo intervento, la consigliera ha ripreso il discorso del collega Morello, sottolineando l’attualità e la rilevanza del problema legato alle Rems. Nicotra ha lodato il lavoro svolto dalla Commissione Mista, descrivendolo come pregevole e di altissimo livello, e ha evidenziato l’importanza di proseguire su questa strada. La consigliera ha ricordato come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 22/ 2022, abbia evidenziato le gravi lacune della normativa sulle Rems, paragonando la situazione a una partita giunta ai tempi supplementari. Ha sottolineato che è indispensabile completare il percorso di riforma avviato con l’abolizione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e che il legislatore deve impegnarsi a portare a termine questo sforzo. In questo contesto, il ruolo della Commissione Mista di sorveglianza è fondamentale per sollecitare un intervento concreto. Nicotra ha messo in luce la carenza strutturale che affligge il sistema delle Rems, una situazione che lascia numerosi detenuti con gravi patologie mentali in carcere. La consigliera ha ricordato che, da Gip, ha dovuto fare i conti con questa dura realtà, ponendosi il problema di non lasciare in carcere detenuti incompatibili per la loro malattia mentale. L’obiettivo, prefissato da tutti i consiglieri, è quello di avviare un dialogo costruttivo per superare le criticità attuali e garantire che le Rems possano rispondere pienamente alle esigenze della società. Questo, come ha sottolineato il consigliere Marcello Basilico di Area durante il suo intervento, può essere visto come un impulso a lavorare insieme con l’avvocatura, che troppo spesso li divide su temi come la separazione delle carriere. Tuttavia, un tema come quello della salvaguardia dei diritti umani può rappresentare un punto di unione. Noi Garanti chiediamo un incontro urgente con il ministro Nordio. Il carcere è una polveriera Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2025 “Emergenza carcere. Abbiamo chiesto con urgenza un incontro con il Ministro Nordio”, così afferma il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, che si appella al Ministro della Giustizia, affinché possa riceverlo insieme agli altri sei membri del Coordinamento della Conferenza dei Garanti territoriali. Alla luce delle dichiarazioni del Ministro, il Portavoce e il Coordinamento dei Garanti territoriali composto da Bruno Mellano, Veronica Valenti, Valentina Calderone, Valentina Farina, Francesco Maisto e Giuseppe Fanfani, chiedono a gran voce un incontro urgente per discutere delle criticità del sistema penitenziario e delle buone prassi da mettere in campo nell’immediato. Il Portavoce Ciambriello continua: “Come Portavoce e Coordinamento dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, siamo stati accolti dal Ministro Nordio lo scorso 7 agosto. Durante il nostro incontro aveva dichiarato la disponibilità a sentirci nuovamente, per impegnarci insieme nella realizzazione sinergica di progetti concreti, per l’umanizzazione delle carceri, per il superamento del sovraffollamento e per la prevenzione dei suicidi. Il tema complesso degli istituti penitenziari merita un confronto costante tra più attori. Come già fatto nei mesi precedenti, ho scritto al Ministro Nordio, affinché possa ricevermi con urgenza e in tempi brevi in qualità di Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, insieme agli altri sei membri del Coordinamento. L’emergenza merita un’attenzione costante e concreta da parte della politica e delle istituzioni: il carcere è una polveriera!”. Nella giornata di ieri, il Ministro Nordio ha dichiarato di aver integrato nuove risorse finanziarie per l’osservazione psicologica, al fine di contrastare i suicidi nelle carceri. Manifesta ancora una volta la sua contrarietà alla concessione di amnistia e indulto, visti come “un incentivo alla recidiva”. Insiste sull’ampliamento dei penitenziari, additando come causa del sovraffollamento la presenza di stranieri negli Istituti. Un quadro della Giustizia penale e del Settore penitenziario assolutamente non rassicurante. Il Portavoce Ciambriello, nonché Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, conclude: “Noi Garanti territoriali delle persone private della libertà personale abbiamo i dati in bianco e nero delle carceri, dove sono presenti più di ottomila detenuti che devono scontare soltanto un anno di carcere e più di tremila appena sei mesi, e non hanno reati ostativi! Per noi Garanti non serve edificare nuove carceri; infatti, lo stesso Ministro Nordio ha dichiarato che per aprire nuovi istituti penitenziari ci vogliono tempi molto lunghi. Per noi è chiaro che serve invece costruire un sistema penitenziario che sia nuovo nel trattamento, nell’affettività, nella concessione delle misure alternative, nella depenalizzazione dei reati minori, nell’umanizzazione della pena”. Csm, togati contro Nordio: “Lesa la credibilità della magistratura” di Simona Musco Il Dubbio, 24 gennaio 2025 Chiesta una pratica a tutela della magistratura dopo il discorso del ministro in Parlamento. Costa (Forza Italia): “Pensino alla protesta dell’Anm”. “I sottoscritti consiglieri ritengono le parole del ministro - pronunciate, peraltro, in una sede istituzionale - integrino un “comportamento lesivo del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento alla credibilità della funzione giudiziaria” e richiedono, pertanto, l’apertura di una pratica a tutela dell’ordine giudiziario ai sensi dell’art. 36 del regolamento interno”. È un’iniziativa senza precedenti quella intrapresa dai togati del Consiglio superiore della magistratura e dal laico Pd Roberto Romboli. Che 24 ore dopo l’intervento del ministro Carlo Nordio hanno chiesto al Comitato di Presidenza di prendere posizione contro il guardasigilli, colpevole di aver replicato alle polemiche sulla separazione delle carriere puntando il dito contro i pm. Che sono già, ha dichiarato il guardasigilli, superpoliziotti, con un potere smisurato e, dunque, pericoloso. “Intervenendo in Parlamento per la relazione sullo stato della giustizia il ministro Nordio - si legge nella richiesta -, nel descrivere l’attività del pubblico ministero, ha riferito di “clonazioni” di fascicoli, di indagini “occulte ed eterne”, di “disastri finanziari” descrivendo tali condotte come prassi diffuse e condivise dalle procure della Repubblica. Ha poi spiegato come i pubblici ministeri siano già “superpoliziotti” che godono, però, delle garanzie dei giudici proponendo così un’erronea ricostruzione dell’attività del pm e del suo ruolo nell’attuale assetto ordinamentale”. Parole che appaiono, continua la richiesta, ancora più gravi “perché provenienti da uno dei titolari dell’azione disciplinare che ha l’obbligo di segnalare e perseguire le condotte che egli, con impropria e gratuita generalizzazione, pretende di attribuire alla generalità dei pubblici ministeri italiani”. Insomma, le toghe - che già hanno bocciato la riforma con un duro parere - chiedono di essere letteralmente difese, questa volta senza distinzioni tra correnti, complici anche le imminenti elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Appuntamento elettorale che ha spinto la corrente più moderata, Magistratura indipendente, la più presente nelle stanze del ministero con proprie toghe fuori ruolo, a non discostarsi dalla linea tracciata durante l’ultimo comitato direttivo centrale, quando è stata indetta una giornata di sciopero contro la riforma costituzionale - in programma per il 27 febbraio - a una protesta nelle sedi di Corte d’Appello il 25 gennaio, giorno in cui verrà inaugurato l’anno giudiziario nei distretti del Paese: solo quattro esponenti di Mi e un esponente di ciò che rimane di Autonomia e indipendenza, infatti, si sono astenuti. La scelta di Mi di aderire alla richiesta di pratica a tutela appare, dunque, a molti come un’ulteriore mossa in chiave elettorale. Un concetto che anche il laico di Forza Italia Enrico Aimi ha evidenziato e rilanciato. “Apprendo con stupore e sconcerto che alcuni colleghi consiglieri hanno sottoscritto una surreale richiesta di apertura pratica a tutela del prestigio dell’ordine giudiziario in relazione alle dichiarazioni rese dal ministro della Giustizia in Parlamento - ha dichiarato in una nota -. A poche ore dalle cerimonie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025, queste suggestioni allarmistiche non fanno altro che esacerbare i già tesi rapporti tra magistratura e Esecutivo. Ricordo ai colleghi che il Consiglio superiore della magistratura non è la terza Camera. Tra i suoi compiti non c’è quello di fare opposizione al governo, biasimando le parole del ministro pronunciate peraltro nell’Aula del Senato della Repubblica. Capisco che le imminenti elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Anm creino un clima da campagna elettorale che porta ad alzare sempre di più l’asticella dello scontro istituzionale, ma a tutto c’è un limite. Siamo all’Abc del rapporto di lealtà e reciproco rispetto dei ruoli istituzionali”. E non è escluso che il vicepresidente Fabio Pinelli - che pure tende a non esprimersi e a evitare la polemica - non appoggi, almeno intimamente, il ragionamento di Aimi: già lo scorso anno, infatti, nel corso di una conferenza stampa che suscitò numerose polemiche e una mezza ribellione dei togati del Consiglio, il numero due di Palazzo Bachelet richiamò la stagione degli scandali e dell’Hotel Champagne sottolineando il possibile ruolo improprio del Csm, trasformato in terza Camera: “Il Consiglio - aveva sottolineato - aveva perso, a nostro giudizio, la funzione propria che la Costituzione gli aveva assegnato, quella di organo di alta amministrazione e non di organo volto ad una impropria attività di natura politica. Il Consiglio non è una terza Camera, è un organo di rilevanza costituzionale, di governo di una funzione che è posta al servizio dei cittadini”. Uno “spostamento” che ha portato ad una “riflessione” dalla quale è emersa la “necessità di reimpostare un modello organizzativo di lavoro”. Una frase che aveva suscitato polemiche, dato l’elemento di continuità tra le due consiliature - il Capo dello Stato Sergio Mattarella -, ma l’incendio di spense quasi subito. E quella frase, aveva suggerito qualcuno, era un modo per sponsorizzare la riforma del Csm. Che restringerà di molto il potere di Palazzo dei Marescialli, limitandone il ruolo politico, in mano invece all’Associazione nazionale magistrati. Non è mancata la risposta di Enrico Costa (Forza Italia) ai consiglieri del Csm: “Il Csm anziché aprire inutili pratiche a tutela contro le sacrosante parole del ministro Nordio nelle aule del Parlamento, farebbe bene ad approfondire le modalità della protesta deliberata dall’Anm in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario - ha dichiarato -. Tale delibera indirizza i magistrati a porre in essere un comportamento che andrà valutato sotto il profilo disciplinare, per verificare se rappresenta un utilizzo improprio e strumentale della qualità, al fine di condizionare l’attività del Governo e del Parlamento”. Mentre a puntare il dito contro Nordio è Devis Dori, di Avs: “Abbiamo chiesto le dimissioni del ministro Nordio per l’orribile affaire del rilascio del trafficante libico, su cui anche la Corte penale internazionale chiede spiegazioni all’Italia. Oggi torniamo a farlo accusando Nordio di fomentare una guerra interna al sistema giudiziario che non ha nulla a che fare con l’amministrazione della buona giustizia. L’azione intrapresa dal Csm, da tutti i componenti togati di esso, dà il quadro di una situazione insostenibile”. L’ultima sortita dei togati del Csm: pratica a tutela contro Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 gennaio 2025 Per i magistrati che siedono al Consiglio superiore della magistratura, Nordio nella sua relazione annuale ha delegittimato l’ordine giudiziario. Il consigliere laico Aimi: “Sconcertato dall’iniziativa dei miei colleghi. Il Csm non è la terza Camera”. Con un’iniziativa senza precedenti, tutti i componenti togati del Consiglio superiore della magistratura (più il laico in quota Pd, Roberto Romboli) hanno depositato al comitato di presidenza la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell’ordine giudiziario, contestando le parole espresse mercoledì in Parlamento dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nella relazione annuale sullo stato della giustizia. “Il ministro Nordio nel descrivere l’attività del pubblico ministero, ha riferito di ‘clonazioni’ di fascicoli, di indagini ‘occulte ed eterne’, di ‘disastri finanziari’ descrivendo tali condotte come prassi diffuse e condivise dalle procure della Repubblica”, denunciano i togati del Csm. “Ha poi spiegato come i pubblici ministeri siano già ‘superpoliziotti’ che godono, però, delle garanzie dei giudici proponendo così un’erronea ricostruzione dell’attività del pm e del suo ruolo nell’attuale assetto ordinamentale”, aggiungono i consiglieri, concludendo che “le parole del ministro - pronunciate, peraltro, in una sede istituzionale - integrano un comportamento lesivo del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento alla credibilità della funzione giudiziaria”. L’iniziativa, oltre a essere senza precedenti, risulta ancora più sconcertante se si riascoltano le parole dette dal ministro Nordio in Parlamento. Le riportiamo: “Nel sistema attuale il pm è già un superpoliziotto, con l’aggravante che godendo delle stesse garanzie del giudice egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità. Oggi, infatti, il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea, attraverso la cosiddetta clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo, che può sottoporre una persona a indagini occulte, eterne e che alla fine creano dei disastri anche finanziari nell’ambito dell’amministrazione della giustizia che sono irreparabili. Pensiamo a quante inchieste sono state inventate e si sono concluse con sentenze secondo cui il fatto non sussiste e sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, tempi, in ora di lavoro perdute e altro”. Si comprende bene il motivo per il quale i togati del Csm non siano entrati nel merito delle parole espresse da Nordio: perché non avrebbero avuto modo di smentirle. Come smentire che il pm sia oggi un superpoliziotto se egli “dispone direttamente della polizia giudiziaria” (art. 327 cpp), può acquisire notizie di reato “di propria iniziativa” (art. 330 cpp), svolgendo quindi attività volte a individuare persone, documenti, fonti ancor prima della formulazione della notizia di reato? Come smentire che il pm goda di un potere ampissimo privo di efficaci forme di responsabilità, come evidenziato anche da numerosi studiosi del settore? Come smentire il ricorso al metodo della “clonazione del fascicolo”, che consente ai pubblici ministeri di aprire indagini, archiviarle e poi riaprirle per un tempo indefinito (si veda il caso di Dell’Utri e Berlusconi, accusati da trent’anni a Firenze di essere mandante delle stragi di Cosa nostra del 1993-1994)? Come smentire il fatto che numerosissimi processi, magari preceduti anche da pesanti misure di custodia cautelare nei confronti dei soggetti coinvolti, finiscono con l’assoluzione degli imputati, che però nel frattempo hanno visto le loro esistenze distrutte? Interpellato dal Foglio, il consigliere laico del Csm Enrico Aimi si dice “sconcertato” dall’iniziativa dei suoi colleghi togati: “Il Csm non ha il compito di ergersi a censore delle parole espresse dal ministro della Giustizia, peraltro in Parlamento. Siamo veramente fuori dal garbo istituzionale. Il Csm non è la terza Camera”. “Temo che l’imminenza delle elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Anm e la riforma costituzionale della giustizia stiano creando un clima da campagna elettorale che porta ad alzare sempre di più l’asticella dello scontro istituzionale. Ciò che manca in questo momento è l’equilibrio”, aggiunge Aimi. “Ho il timore che questo clima arroventato possa perpetrarsi fino al referendum sulla separazione delle carriere”, conclude. “Le indagini prendono il posto della sentenza, il pm prende il posto del giudice che si finge morto” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 24 gennaio 2025 Enrico Costa, avvocato e deputato di Forza Italia, ha applaudito l’intervento del ministro Nordio che punta a riequilibrare lo strapotere giudiziario e stigmatizza le minacce delle Procure, pronte a scioperare pur di scardinare le riforme di cui il sistema giudiziario ha invece bisogno. “Mi è piaciuto molto. E le dirò che avevo anticipato le parole del ministro Nordio”. In quale occasione? “In un intervento in aula dove ho evidenziato il tema del capovolgimento del procedimento penale, che dovrebbe terminare con una sentenza definitiva pronunciata da un giudice e invece vede una contestazione da parte della Procura che finisce per diventare la vera sentenza ‘pubblica’. Le indagini prendono il posto della sentenza. E il Pm prende il posto del giudice, nel pronunciarla. E quindi ho parlato per primo di strapotere dei Pm, che sta svolgendo tutti i compiti, da quello di Polizia giudiziaria che fa le indagini fino al ruolo giudicante. Il giudice durante le indagini preliminari - sia esso il Gip o il Gup - è un soggetto affetto da tanatosi”. È una malattia grave? “No, è la particolare forma di autodifesa che adotta qualche animale: quando si sente in pericolo, si finge morto. Per non essere aggredito dal Pubblico ministero, che lo accuserebbe di interferire con le indagini, di tutelare i criminali, il giudice si finge morto. E accetta sempre passivamente tutte le richieste del Pm: proroga delle indagini, proroga delle intercettazioni, richieste di misure cautelari sono sempre controfirmate automaticamente dal giudice. Senza mai sollevare un dubbio. Diventando così del tutto superflui, nel procedimento reale: decide tutto il Pm, al netto delle formalità”. Alla stazione dei Pm i treni non si fermano mai… “No, perché rilevare un eccesso, mostrare un dubbio viene subito visto come un problema dagli inquirenti. Ho visto pochissimi casi di diniego di misure cautelari: in ciascuno di questi c’è stata la levata di scudi delle Procure che hanno gridato all’attentato alla giustizia”. Il recupero della figura del giudice lo abbiamo nel processo: già in primo grado c’è oltre il 50% di assoluzioni, in Italia. “Sì, però è evidente che la fase delle indagini preliminari getta addosso agli indagati un fango dal quale poi è difficile liberarsi del tutto. Perché durante le indagini il Pm ha una tale forza mediatica che esercita quello che si chiama marketing giudiziario. Si vende all’esterno la sua indagine proprio per schiacciare la figura del giudice e renderlo passivo di fronte all’impostazione accusatoria: dà il nome alle inchieste, fa le conferenze stampa, fanno in modo che ci sia un trailer sui telegiornali… tutte cose che con il rispetto dello stato di diritto e il principio della presunzione di innocenza non hanno niente a che vedere”. Come si recupera la forza del giudice terzo ed imparziale? “Non è facile. E si dovrebbe poter contare anche sul recupero della difesa, perché con il ruolo così debole per gli avvocati - che non possono replicare con la stessa forza mediatica alle conferenze stampa delle Procure - c’è un vulnus enorme. Questa è la ragione che ci porta a intervenire per una applicazione reale dell’articolo 111 della Costituzione, che dice che ci vuole un giudice terzo e che i due soggetti dell’accusa e della difesa devono essere messi sullo stesso piano”. L’informativa di Nordio ha toccato tutti i punti della riforma. Separazione carriere ma anche investimenti, piano di assunzioni che consenta alla magistratura di funzionare… “Ci sono stati, nel corso del tempo, sempre maggiori investimenti sulla giustizia. Ma il punto è la credibilità. Perché oggi il pianeta giustizia manca di credibilità. Guardiamo ai numeri: troppi casi di errori giudiziari, tantissime sentenze ribaltate, verdetti capovolti. Tantissimi. Poi però leggiamo che le valutazioni di merito dei magistrati sono positive al 99,6%. E allora un problema c’è, ed è serio. La responsabilità disciplinare determina il 95% di archiviazioni dal Procuratore generale presso la Cassazione. Ci sono circa duemila segnalazioni disciplinari all’anno, non sono poche. Perché poi non se ne fa mai niente? E il danno erariale delle condanne sbagliate, delle ingiuste detenzioni, perché non lo paga mai nessuno?” Non esiste, dal 2010, la responsabilità civile dei magistrati? “Dal 2010 al 2023 ci sono state dodici condanne nella storia giudiziaria italiana. Meno di una all’anno, a fronte di oltre mille detenuti per errore ogni anno. 193 milioni spesi dal Tesoro per risarcire quegli errori, zero casi di condanna. Di cosa parliamo?” Il programma delle riforme Nordio si farà? E quando? “Tutto il pacchetto delle riforme è stato voluto in chiave garantista e va nella direzione giusta. Speriamo solo che la prescrizione, di cui è stata approvata la riforma un anno fa alla Camera, approdi presto al Senato. Perché ricordo sommessamente che in questo momento in Italia è in vigore la riforma Bonafede: quella del fine processo, mai. Ci sono poi profili, come il tema del panpenalismo, che vanno analizzati meglio. Non si può pensare di risolvere i problemi penalizzando tutto”. Peccato che la maggioranza resti contraria anche ad amnistia e indulto… “I numeri parlamentari per l’amnistia non ci sono, e invece ci sono e sono chiarissimi quelli del sovraffollamento carcerario. C’è una Costituzione che prevede la certezza della pena, sì, ma non la certezza della galera e le condizioni inumane in cui questa viene oggi vissuta”. Pietro Vignali, protagonista anni fa di una indecente campagna mediatico-giudiziaria risoltasi nel nulla da cui era partita, è entrato nella segreteria di Forza Italia. Un segnale importante da parte di Tajani. “Un segnale a suo modo importante: Forza Italia conferma - semmai ce ne fosse bisogno - che chi esce dal tritacarne può e deve ambire a recuperare il ruolo che l’aggressione giudiziaria gli ha tolto. In Italia purtroppo non funziona mai così, chi esce dal processo lo fa con le ossa rotte e ci mette una vita intera, per provare a recuperare”. “La riforma Nordio sbilancia i poteri dello stato” di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 gennaio 2025 Giuseppe Tango, giudice al tribunale di Palermo e candidato con Magistratura Indipendente al parlamentino dell’Anm. Queste elezioni, in programma da domenica a martedì, arrivano in un momento complesso dei rapporti tra politica e magistratura. Di fatto il prossimo presidente avrà il compito di guidare la campagna contro la riforma della giustizia. Come si affronta questa fase? Si affronta avendo come obiettivo quello di riconquistare la fiducia dei cittadini, in modo tale da poter poi far comprendere loro dove sta la verità e dove la propaganda. In particolare, a mio modo di vedere, l’Anm, senza indugio, dovrà esercitare un ruolo propulsivo e di coordinamento delle varie iniziative da svolgere nei vari distretti, dove le giunte territoriali giocheranno un ruolo fondamentale nel raccogliere le disponibilità dei più volenterosi di noi a recarsi nella varie realtà della società civile - università, scuole, associazioni varie, sindacati… - e nell’organizzare tali incontri. Ma questo sarà solo il primo passo, in attesa del coinvolgimento di chi, all’esterno della magistratura come parte dell’accademia e l’avvocatura, potrà sposare le ragioni in cui crediamo. I sondaggi d’opinione mostrano che la magistratura, per così dire, non è più tra le istituzioni preferite dagli italiani. Il governo, convinto di vincere, cercherà di fare del referendum una sorta di sondaggio di gradimento sui giudici. Crede che riuscirete a convincere i cittadini delle vostre ragioni? Se non fosse così, cioè se credessi che non ci siano margini per convincere i cittadini della bontà delle ragioni che portiamo avanti, non mi sarei sino ad ora impegnato tanto in tal senso, anche a livello territoriale, e di sicuro non mi sarei candidato al Cdc. Non c’è dubbio che si tratta di una sfida assai ardua e dall’esito quanto mai incerto, ma se impiegheremo il tempo che resta da qui al possibile referendum per spiegare in modo chiaro, comprensibile ed efficace le numerosissime criticità della riforma e le conseguenze nefaste che produrrebbe, anzitutto a danno degli stessi cittadini, sono certo che questi ci ascolteranno. Ma, e dico un’ovvietà, non ci crederanno se non saremo credibili: se non riusciremo a mostrare il volto migliore della magistratura. Non perdono occasione per rimproverarci che siamo la magistratura di Palamara… Bene, ricordiamo loro di essere anche la magistratura di Falcone, Borsellino, Livatino, Alessandrini, Chinnici e tanti altri che, ancora oggi, silenziosamente, senza mezzi e senza risorse adeguate, trascorrono interminabili giornate lavorative, senza badare all’orologio, sacrificando spesso esigenze familiari e trascurando finanche la propria salute, pur di rendere un servizio nell’interesse della collettività. Al congresso di Palermo, la scorsa primavera, il suo è stato forse l’intervento più applaudito. Sono arrivati apprezzamenti anche da esponenti di correnti lontane da Mi. Secondo lei come dovrà essere la prossima giunta dell’Anm? Una giunta unitaria, dialogante al suo interno ed all’esterno, operativa, propositiva, con grande capacità di ascolto delle esigenze dei colleghi, scevra da inutili protagonismi e che abbia il coraggio di affrontare le sfide che ci attendono, abbandonando logiche obsolete ed adottando nuove strategie di comunicazione. Qual è secondo lei l’argomento più forte che dovrebbe dissuadere chiunque dall’essere favorevole alla separazione delle carriere? Di argomenti contrari ce ne sarebbero a iosa. Direi così: premesso che la riforma non risolverà un solo problema reale della giustizia, se si vuole un pubblico ministero strutturato per diventare l’avvocato dell’accusa, un corpo separato di magistrati del pubblico ministero, privi di cultura giurisdizionale e fortemente aggregati, sciolto da qualsiasi altro potere, in sintonia con la mentalità dominante presso gli organi di polizia giudiziaria, una minore tutela per il cittadino, un magistrato meno autonomo e meno indipendente, una riscrittura dell’assetto costituzionale, caratterizzato da un manifesto sbilanciamento tra i poteri dello Stato, la riforma è ciò che fa per voi. Se, invece, vi fidate del sapiente sistema di pesi e contrappesi concepito dai nostri saggi padri costituenti, persone della caratura di De Gasperi, Togliatti, Calamandrei, Pertini e Bernardo Mattarella, solo per citarne qualcuno, allora siate contrari alla riforma. Brescia. Canton Mombello, sempre più anziani nel carcere “da chiudere” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2025 Aumentano i detenuti over 70. Anche 15 persone in una sola cella nella vecchia Casa circondariale, dove il sovraffollamento arriva al 207%. Il problema è soprattutto al mattino: se non riesci a mettere i piedi a terra per primo, puoi ritrovarti una coda di 14 persone. E “prima di riuscire ad andare in bagno - sospira Salvatore - possono passare due ore”. Ad aspettare, sempre più spesso anche anziani. Detenuti con più di 70 anni, plurime patologie e il passo incerto. “Devo andare in bagno, ma è occupato; altri 15 sono in fila. Un anziano ha il mio stesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza”. La lettera inviata dagli abitanti di Canton Mombello al Presidente della Repubblica la scorsa estate prende vita, attraversando la casa circondariale di Brescia. La rotonda ottagonale, la cupola scrostata, le statue della Madonna e di Gesù. Quattro piani, oggi 389 detenuti per 182 posti. Chi meglio dei residenti può descrivere la quotidianità tra queste mura? Loro che ogni giorno respirano l’aria di stanze senza spazio né speranza? Sia d’estate quando si boccheggia, sia ora che l’umidità si insinua attraverso infissi in perenne attesa di rinnovo. “Abbiamo freddo”, urla una voce da chissà quale cella, dove letti a castello sono incastrati come lego per ricavare un angolo per lo scalda-vivande. “In 15 è impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolo per mangiare; quindi facciamo a turno. Con noi si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce”. A sottoscrivere la lettera anche Salvatore - tra i protagonisti del documentario “n giorni” - che ora in cucina prepara il pranzo per la zona sud. Altri fornelli sono in azione per l’ala nord e i vip, come chiamano i detenuti che lavorano, le cui celle restano aperte di giorno. “Tagliatelle al tonno, salmone e funghi”, proclama. L’odore di cipolla si mescola al resto nella rotonda. Dietro cancelli corrosi da anni di mancata manutenzione partono le sezioni: a sud, a piano terra, anche gli anziani. In questo momento, 7 uomini hanno più di 70 anni; il più grande 75; altri 15 contano più di 65 compleanni. Tutti sono italiani. L’aumento degli anziani - bisognosi talora dell’aiuto di operatori - è una delle ulteriori criticità con cui si confronta la casa circondariale “Nerio Fischione”. Primo istituto per sovraffollamento (207%) in autunno, stima il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Classifiche che oscillano. “Sono arrivati in cinque”, è l’aggiornamento del comandante della Polizia penitenziaria Aldo Scalzo alla direttrice Francesca Lucrezi. Cinque nuovi giunti “portati direttamente in sezione”. Non ci sono spazi per passare nel limbo di una sezione - accoglienza: l’immersione nel carcere profondo sarà immediata. Subito a fare i conti con la “vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente e d’inverno è maledettamente fredda”, scrivono i detenuti. Sei le celle con 15 giacigli. E quando sono solo tre, è perché quella sarebbe una singola e per recuperare centimetri si valutano letti a ribalta. Da anni, in modo trasversale rappresentanti locali invocano la chiusura di Canton Mombello, il carcere “inaccettabile, indecoroso, indegno” che resta lì con la sua storia e le sue latrine. Anche Cassa depositi e prestiti si interessò alla struttura, uno dei banchi di prova del commissario all’edilizia penitenziaria. Nel frattempo, stanno cominciando lavori di manutenzione in 44 bagni ad opera di dieci detenuti “Per portare acqua calda e wc mobili”, sintetizza Lucrezi. E sono arrivate lavatrice e asciugatrice per chi non ha una famiglia ad assicurare abiti puliti. Nella sezione nord sarà rifatto tutto, per avere celle rispettose dell’ordinamento penitenziario (vecchio di 5o anni) e delle indicazioni della Corte europea. Si aspetta il progetto dalla ditta vincitrice del bando per due milioni. c.so detenuti dovranno essere spostati, dove? La condizione di Canton Mombello va letta insieme a quella di Verziano, distante 4 km, l’altra faccia del Giano bifronte degli Istituti penitenziari di Brescia unificati sotto un solo vertice. Qui dovrebbe essere costruito un nuovo padiglione: dopo le assicurazioni del ministro Nordio e del sottosegretario Ostellari, si attende il progetto del Provveditorato alle opere pubbliche per indire la gara d’appalto. 300 i posti stimati, 53 milioni la spesa (38 stanziati dal Mit nel 2023). Il padiglione è previsto dove ci sono campo di calcio, orti e prati. Inizialmente i posti erano di meno per non comprimere troppo gli spazi trattamentali, che fanno la differenza nell’esecuzione della pena. In fondo, è sempre questione di scelte. E di prospettiva. Che cambia anche se si visita una parte o l’altra dello stesso istituto. Così, a Canton Mombello mentre ancora ci accompagna la malinconia di un corridoio dall’insolito silenzio ancor più mesto per una coperta sulla finestra di una cella - all’improvviso è un rock a tutto volume a catapultarci in altra dimensione: gruppi di non più giovani si allenano in palestra. Un piano più su, in biblioteca la band JRock, ribattezzata Chryste Eleison da quando compone per il Giubileo, intona Agnello di Dio, abbi pietà di noi. Dona noi la pace. Per consentire al maggior numero di persone di accedere ai corsi, molti sono su più turni. Nei sotterranei, 14 detenuti lavorano per cooperative con commesse nella siderurgia o nell’assemblaggio di quadri elettrici. La Joyful offre anche programmi di housing, decisivi nell’abbattimento della recidiva. “Portare lavoro qui non è semplice; a malincuore abbiamo declinato offerte importanti per assenza di spazi; siamo però felici - sorride la direttrice - del rinnovo della convenzione con Confindustria, grazie alla quale alcuni sono stati già assunti”. Le industrie hanno bisogno di manodopera; il carcere di occasioni. Ed è proprio il territorio - con le imprese, il volontariato, associazioni come Carcere e territorio - a rendere meno gravosa la condizione dei detenuti. Un territorio che ha tradotto la misericordia di visitare i carcerati in responsabilità collettiva. Brescia si fa carico dei reclusi almeno fin dai tempi in cui un coraggioso Guardasigilli, Mino Martinazzoli, e un ancora più coraggioso direttore, Luigi Pagano, aprirono le porte di Canton Mombello al Maurizio Costanzo Show. In diretta, milioni di italiani videro “un grande romanzo dell’800”, scrisse Beniamino Placido. E i detenuti, oltre a descrivere la loro detenzione (nel 1985 erano 450, con dissociati Br e una sezione femminile), parlarono anche “di grandi problemi irrisolti come l’espressione dell’affetto”. Dopo 4o anni e più pronunce della Corte costituzionale, ai penitenziari è stato chiesto di individuare spazi per incontri intimi. Più facile a Verziano (114 uomini, 34 donne), l’originario istituto per minori divenuto valvola di sfogo dell’ottocentesca casa circondariale. Ogni giorno in 32 escono da qui, come i cannoncini farciti dentro e diretti ai bar del centro. Tra quelli in semilibertà, Walter che guida pulmini per ragazzi con problemi motori. La prospettiva professionale lo rasserena in vista dell’uscita definitiva dalla cella dove è entrato per truffe informatiche “per il bisogno di soldi indotto dalla cocaina. Ora sono pulito e contento di restituire qualcosa”. Una forma di riparazione. Considerato un sobillatore per aver partecipato alle rivolte nel carcere di Bergamo a inizio pandemia (“Con i telefoni in tilt e nessuna informazione era da impazzire”), Walter racconta di aver ricevuto “fiducia sia a Canton Mombello che a Verziano” (qui 9 detenuti lavorano per cooperative interne, 36 per l’amministrazione e quasi tutti partecipano a laboratori che hanno trasformato dei corridoi in gallerie d’arte). Proprio quella fiducia che, a suo dire, si è ridotta da parte della magistratura di sorveglianza nella concessione di misure alternative. Anche per questo aumentano gli anziani in cella, spesso recidivi con sentenze eseguite anni dopo il reato. Persone potenzialmente diverse che si ritrovano con altre 14, un solo bagno e nessuna speranza. “Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”, sentenziò Sergio Mattarella. Torino. Un’ora per suicidarsi in cella. “Nessun agente lo stava controllando” di Elisa Sola La Stampa, 24 gennaio 2025 Il caso di Roberto Del Gaudio, morto suicida nel novembre 2019. “Da me non saprai mai quello che è successo perché potresti essere interrogata dai magistrati e quindi non è il caso che io ti dica quello che è capitato”. Qual è la “inconfessabile verità” che il poliziotto, intercettato mentre parla con la fidanzata, nasconde? Cosa stavano facendo davvero, lui e i suoi due colleghi, la sera del 10 novembre 2019, mentre Roberto Del Gaudio, detenuto fragile e sotto osservazione psichiatrica, si impiccava nel carcere delle Vallette col suo pigiama? È una domanda senza risposta. Lo era e lo resterà probabilmente per sempre. Perché nessuno dei tre poliziotti condannati a otto e nove mesi per omicidio colposo e falso, avrebbe detto tutta la verità. Nelle motivazioni della sentenza che conferma le condanne, i giudici della corte d’appello - presidente Gianni Filippo Reynaud, relatore Marco Lombardo - scrivono che da parte di tutti gli imputati ci fu una “negligente carenza di osservazione, assai prolungata”. Del Gaudio era un uomo ad altissimo rischio di suicidio. La sera prima di morire aveva già tentato di farsi del male. Eppure, quella in cui morì, nessuno sarebbe passato dalla sua stanza per controllare se stesse bene. Le immagini delle videocamere non mentono. Già alle 21 si vede il detenuto dare inizio “a un’ampia serie di movimenti e di manovre” preliminari all’impiccagione. “Del Gaudio - scrivono i giudici - è stato ripreso in più o meno evidente carenza dei pantaloni del pigiama nell’arco di circa un’ora”. Del Gaudio alle 21 è già parzialmente nudo sul letto. Armeggia per un’ora sotto le coperte per togliersi il pigiama, che userà come cappio. Alle 22.25 si alza dalla branda e va alla finestra. Per 12 minuti cerca di togliersi la vita. Ci riesce. Viene trovato morto soltanto alle 22.42. Perché i tre agenti in servizio quella sera non sono passati dalla sua cella prima? È l’interrogativo che si sono posti inquirenti e giudici. Sono state violate le leggi, conferma la corte, e anche il protocollo locale, che prevede che in caso di “comportamenti sospetti” vengano tolti dalla stanza della persona a rischio di suicidio lenzuola e oggetti che potrebbero essere usati per togliersi la vita. Come i pantaloni del pigiama. “Il monitor era rotto perché era caduto quella notte”, avevano detto gli agenti. Una tesi falsa per i giudici, perché sarebbe stato rotto già da tempo. E proprio per via del fatto che il monitor collegato con la cella di Del Gaudio non sarebbe stato funzionante, “il giorno del fatto l’obbligo di vigilanza era ancora più stringente” per i tre imputati, precisano i giudici. Due poliziotti si erano difesi dicendo che mentre Del Gaudio si stava uccidendo, loro sarebbero stati impegnati a contenere la protesta di un altro detenuto. Anche in questa tesi ci sarebbe, secondo i giudici, qualcosa di improbabile. La corte d’appello ha condannato gli imputati, in solido tra loro e con il responsabile civile, il ministero della giustizia, a pagare le spese legali. “È una sentenza molto ben scritta - dichiara l’avvocato di parte civile Riccardo Magarelli - che afferma capisaldi in fatto e in diritto che inchiodano gli imputati alle loro responsabilità”. Ivrea (To). Suicidio in carcere di Alex Riccio: il ministero della Giustizia responsabile civile di Maria Di Poppa giornalelavoce.it, 24 gennaio 2025 Il suicidio di Alexando Vito Riccio, avvenuto il 26 settembre 2021 nel carcere di Ivrea, ha aperto uno squarcio sulla gestione medico-psichiatrica dei detenuti e sulla vigilanza nelle strutture penitenziarie. Mercoledì 22 gennaio si è tenuta ad Ivrea l’udienza preliminare del processo nato dall’inchiesta condotta sul carcere dalla Procura eporediese. Nel corso dell’udienza predibattimentale il Ministero della Giustizia è stato citato come responsabile civile su richiesta degli avvocati di parte civile Giuseppe Lopedote e Alessandro Di Matteo, che rappresentano la famiglia del detenuto. La decisione è stata presa dal gup Davide Paladino, e l’udienza preliminare è stata aggiornata a giugno per consentire al Ministero di partecipare al processo attraverso un proprio avvocato. Cosa significa che il Ministero della Giustizia è responsabile civile? In questo caso, il Ministero, che sovrintende il sistema carcerario, potrebbe essere ritenuto legalmente responsabile per eventuali errori o mancanze da parte del personale penitenziario. Se venisse accertato che ci sono state negligenze nella gestione del detenuto - come la mancata vigilanza o l’insufficienza di cure psicologiche - il Ministero potrebbe essere condannato a risarcire i familiari di Riccio. Si tratta di una questione non solo economica, ma che solleva interrogativi più ampi sulla tutela dei diritti umani nelle carceri italiane. Il suicidio di Vito Alexandro Riccio, 39 anni, avvenuto cinque mesi dopo il suo arrivo nel carcere di Ivrea, apre domande sulla gestione dei detenuti fragili e sulle responsabilità del sistema carcerario. Riccio, rappresentante di commercio e figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, aveva condotto una vita ordinaria fino al 20 gennaio 2021, quando uccise la moglie Teodora Casasanta e il figlio Ludovico di soli cinque anni nella propria casa a Carmagnola. Prima di allora, era incensurato. Dopo l’omicidio, aveva tentato il suicidio bevendo candeggina e gettandosi dal secondo piano, ma era sopravvissuto. Arrestato il 29 gennaio 2021, fu trasferito prima al carcere Lorusso e Cutugno di Torino e poi, il 17 aprile, a Ivrea. Qui, secondo la procura eporediese, visse sei mesi di “gravi sofferenze” fino a togliersi la vita. Si impiccò nel bagno della cella utilizzando i pantaloni della tuta, un gesto che gli inquirenti definiscono come un “suicidio annunciato”, risultato di una gestione negligente da parte del personale penitenziario. Nonostante i suoi precedenti tentativi di suicidio e le condizioni psicologiche evidenti, non ci fu tempo per sottoporlo a una perizia psichiatrica. La pm Valentina Bossi, che ha coordinato le indagini, accusa otto persone, tra cui i vertici dell’epoca, di omicidio colposo. Gli imputati, secondo l’accusa, avrebbero ignorato segnali d’allarme chiari e inequivocabili. Alberto Valentini, 57 anni, direttore del carcere, difeso dagli avvocati Giuseppe Cormaio e Mario Angelo Conti, è accusato di aver omesso di adottare le misure necessarie per garantire la sicurezza del detenuto. Giorgio Siri, 67 anni, responsabile dell’area pedagogica, rappresentato da Mario Benni ed Enrico Scolari, è accusato di aver sottovalutato i campanelli d’allarme sul rischio suicidario. Maria Margherita Pezzetti, 53 anni, psicologa, assistita dalle avvocate Raffaella Enrietti e Francesca Peyron, è accusata di non aver monitorato adeguatamente le condizioni psichiche di Riccio. Paola Raitano, 48 anni, funzionaria giuridico-pedagogica, rappresentata dall’avvocata Rita Puglisi, è imputata per aver trascurato l’obbligo di vigilanza. Silvia Santià, 37 anni, psichiatra, difesa dall’avvocato Antonio Mencobello, avrebbe omesso di intervenire sul piano terapeutico. Elena Carraro, 50 anni, psichiatra, rappresentata dall’avvocata Cristina Rey, è accusata di negligenza nella gestione sanitaria. Cristina Biader Cepidor, 47 anni, psicologa, difesa dall’avvocato Danilo Cerrato, avrebbe ignorato le richieste di assistenza psicologica. Mauro Bergamini, 75 anni, psichiatra, assistito dall’avvocato Pietro D’Ettorre, è imputato per non aver predisposto un adeguato supporto psichiatrico. Secondo quanto emerso dall’inchiesta della polizia penitenziaria, Riccio sarebbe stato abbandonato in un momento di grave fragilità. Nonostante fosse stato classificato inizialmente ad alto rischio di suicidio, la sua scheda fu declassata a medio rischio, e per due mesi non venne visitato da alcuno psicologo. Nei giorni in cui esplodevano rivolte nelle carceri di Torino e Ivrea, Riccio era stato lasciato a se stesso, senza le adeguate misure di sorveglianza e sostegno psicologico. Bologna. Abusi in questura, il video finisce alla Corte europea di Enrica Riera Il Domani, 24 gennaio 2025 Il 5 novembre 2020 le sorelle Brisaida e Marisleidis Babastro Guibert, di origine cubana e da oltre 20 anni in Italia, vengono condotte negli spazi della questura di Bologna. Lì, denunciano di aver subito maltrattamenti e soprusi. Il procedimento viene archiviato, la Corte di Strasburgo ammette il ricorso ed emergono immagini eloquenti. Due celle di sicurezza diverse, all’interno due donne. Entrambe in stato confusionale. Sono a terra, sul pavimento, cercano di divincolarsi mentre poliziotti in tenuta antisommossa si avvicinano. Gli agenti sono più di tre in certi momenti. Una delle due fermate indossa un casco; l’altra, come la prima, viene sedata, senza alcuna autorizzazione dell’autorità amministrativa competente. Dopo le denunce delle donne per i “maltrattamenti” subiti, quei video non sono confluiti subito nel fascicolo aperto dal pm. Sono riemersi tre anni dopo, nel luglio del 2023, a seguito dell’intervento del gip che, dopo una prima archiviazione a cui si è opposta una delle due donne, ha chiesto nuove indagini. Perché un filmato così importante non è stato messo subito agli atti? Esistono altri video? Le domande restano aperte, al contrario del procedimento che, riunito con quello che ha visto iscrivere due agenti nel registro delle notizie di reato per falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, è stato definitivamente archiviato. Per l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Brisaida Babastro Guibert, le “carenze investigative” in questa storia sono tuttavia troppe. Per lei, 40enne, quattro figli e un passato da modella, il referto del pronto soccorso ha rilevato “policontusioni da riferite percosse e trauma cranico con contusione dell’orbita dx”. Secondo il consulente di parte, quel filmato “è stato estrapolato con modalità che non consentono di escludere con certezza l’assenza di manipolazioni”, inoltre “dall’indagine svolta emerge che l’estrazione della copia è avvenuta il 7 novembre 2020, ovvero il giorno successivo alla presentazione di una delle due denunce, in assenza di qualsiasi controllo e all’oscuro del pm, con violazione del diritto di difesa e del contraddittorio”. E ancora che “il file risulta modificato il 10 novembre 2020”. L’analisi in questione “evidenzia pure una serie di elementi che attestano la totale inattendibilità dei video ai fini di prova e che fanno sorgere insuperabili interrogativi sul modus operandi degli inquirenti”. Affermazioni che il pubblico ministero ritiene “apodittiche”. Aspettando Strasburgo - Ora, però, saranno i giudici di Strasburgo a doversi pronunciare. Il ricorso presentato da Babastro Guibert alla Corte europea dei diritti dell’uomo è stato ammesso. A profilarsi sono ipotesi di violazioni gravissime: l’aver subito un trattamento inumano e degradante, una illegittima privazione della libertà personale e una discriminazione in quanto donna e straniera. Tutto è cominciato il 5 novembre 2020. Al termine del pranzo le sorelle si sono recate alla fermata dell’autobus. Mentre discutevano con un autista una volante le ha notate. Gli agenti le hanno fatte scendere dal mezzo e, poi, portate in questura. Molte delle testimonianze raccolte confermano che una delle due donne è stata “atterrata, ammanettata con le mani dietro la schiena e spinta nell’auto di servizio, nonostante fosse tranquilla e stesse semplicemente dialogando con uno degli agenti”. È nei locali della questura che, stando al loro racconto e al video, la situazione sarebbe degenerata. È lì che Brisaida racconterà di aver subito un presunto abuso sessuale. La donna vuole denunciare i fatti quello stesso 5 novembre, ma dice di essere stata mandata via. Sporgerà comunque denuncia successivamente. I procedimenti - Dopo la denuncia la procura aveva aperto un fascicolo contro ignoti per lesioni personali aggravate, violenza sessuale e tortura. Due anni dopo il pm ha chiesto l’archiviazione. Il pubblico ministero ha scritto “che alcune condotte energiche operate dagli agenti, incontrovertibilmente avvenute (...) erano necessarie - e pertanto avvenute nell’adempimento delle loro funzioni - al fine di far fronte al pericolo scaturente dai comportamenti aggressivi, osservati da terzi, delle due donne”. All’archiviazione si è opposta la difesa. Il 24 aprile 2023 il gip di Bologna ha aperto un nuovo fascicolo, questa volta iscrivendo due agenti nel registro delle notizie di reato. Così è emerso il video. Ma al termine dell’attività investigativa il pm ha chiesto nuovamente l’archiviazione. Oggi gli unici procedimenti ancora aperti pendono sulla donna che ha denunciato: uno per resistenza a pubblico ufficiale, l’altro per calunnia. In corso c’è anche un’interrogazione parlamentare, presentata dalla deputata di Avs, Elisabetta Piccolotti, il 3 aprile del 2023. Oltre al mistero sul filmato ci sarebbero altre “incongruenze”, è la tesi della difesa, anche nella redazione dei verbali e nella mancata attivazione delle procedure di Codice rosso. E c’è di più. Perché la questura di Bologna, che “aveva nel frattempo svolto segretamente una sorta d’indagine interna, non riferì alcunché al pm” come prevede la legge? Su questo e molto altro toccherà a i magistrati europei pronunciarsi. Milano. La seconda vita di telefoni e pc inizia a Bollate, grazie a un progetto Leonardo Il Giorno, 24 gennaio 2025 Il progetto ambientale e sociale nasce da una partnership tra Leonardo, Fenixs srl e Amsa (Gruppo A2A). L’obiettivo è il recupero e il riutilizzo di computer, cellulari e materiali provenienti dai data center dismessi. Dal 2020 al carcere di Bollate si dà una seconda vita ai rifiuti elettronici. Solo dal 2023 sono stati venduti oltre mille cellulari rigenerati e, per quest’anno, la previsione è addirittura triplicata. Il progetto ambientale e sociale vede una partnership articolata, che mette insieme Leonardo, Fenixs srl e Amsa, società del Gruppo A2A. L’obiettivo è il recupero e il riutilizzo di dispositivi come computer, cellulari e materiali provenienti dai data center dismessi. Un’iniziativa di economia circolare che si unisce al reinserimento nel mondo del lavoro sui dispositivi dei detenuti, che in questo modo possono acquisire competenze professionali di alto livello. Si parte dal data wiping, cioè la cancellazione dei dati, poi le apparecchiature vengono sottoposte a un’attività di refurbishing (rigenerazione) per arrivare, infine, sul mercato. I telefoni arrivano dai siti di Leonardo, che contribuisce così alla riduzione dei rifiuti elettronici e al miglioramento della sostenibilità ambientale. L’azienda fino a oggi ha conferito al progetto un totale di circa 35 tonnellate di materiali, con un incremento significativo previsto per questo anno che è stato quantificato in 3mila cellulari e ulteriori 35 tonnellate di componenti elettronici. Numeri da record che fanno parte di un più ampio piano di sostenibilità avviato da Leonardo per la gestione responsabile dei materiali, l’adozione di pratiche aziendali circolari e il rafforzamento della presenza territoriale, con un impatto sociale tangibile. Attenzione all’ambiente e inclusione sociale, collaborazione tra pubblico e privato e tra impresa e società civile, ma non solo. Ampio spazio è dato, infatti, all’innovazione tecnologica con l’utilizzo anche dell’intelligenza artificiale. Il recupero di materie prime di alta qualità A++ (urban mining) avviene attraverso la separazione dei componenti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), arrivati a fine corsa e diventati quindi uno scarto. Il processo nell’impianto di trattamento del carcere di Bollate include l’uso di un robot svitatore, a sua volta alimentato da algoritmi di intelligenza artificiale, che automatizza la separazione dei vari materiali. I rifiuti, trattati da impianti specializzati, danno vita a materie prime seconde, come metalli e plastiche, pronte per tornare nella filiera produttiva. Un’innovazione che non solo riduce l’impatto ambientale, ma risponde anche alle nuove normative europee, che richiedono trasparenza nella gestione dei rifiuti e del loro recupero. Una sinergia win-win, in cui l’economia circolare non solo fa bene all’ambiente ma anche alla società. I detenuti sono stati formati e oggi lavorano nell’impianto di Bollate grazie a competenze altamente specialistiche per eseguire le operazioni di rigenerazione dei dispositivi elettronici. Un know-how spendibile che favorisce il reintegro professionale. A testimoniarlo è proprio il tasso di recidiva, che dall’avvio del progetto è sceso dal 70 al 20%, sintomo dell’efficacia del programma nel migliorare le opportunità di reinserimento sociale. Genova. Detenuti al lavoro in bar e ristoranti, firmato un protocollo d’intesa liguriaoggi.it, 24 gennaio 2025 Una seconda chance per detenuti con un progetto di reinserimento nel mondo del lavoro. Un progetto di rinascita per chi, trovandosi nelle giuste condizioni e non volendo tornare “a sbagliare” desidera cercare una nuova strada per formarsi e trovare un posto di lavoro nei locali (bar, ristoranti, strutture ricettive) genovesi. È il progetto presentato oggi dopo la firma del protocollo d’intesa tra Fipe Cinfcommercio Genova e l’associazione Seconda Chance” per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Una serie di iniziative di promozione di attività lavorative e formative mirate al reinserimento in società di soggetti detenuti che si trovano in una condizione giuridica adeguata. Il Protocollo d’Intesa fa seguito all’Accordo Quadro Nazionale, sottoscritto il 30 gennaio 2024, tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Fipe-Confcommercio E Seconda Chance. Fipe-Confcommercio Genova e Seconda Chance potenzieranno la ricerca di opportunità lavorative esterne per i detenuti selezionati dalle Aree Educative, ammessi al lavoro esterno oppure in condizione di ottenere la semilibertà o l’affidamento in prova. La partnership prevede la promozione di intese operative per intercettare e creare occasioni concrete di ripartenza. Un impegno necessario, specie in un momento storico in cui il settore dei pubblici esercizi soffre di una grave carenza di nuove professionalità. “Oltre al suo valore economico, non dobbiamo dimenticare che il lavoro ha soprattutto un importante significato sociale. Un’organizzazione di rappresentanza come la nostra deve fare la sua parte attraverso nobili iniziative come questa che ufficializziamo oggi”, ha dichiarato Alessandro Cavo, Presidente Fipe-Confcommercio Genova. “Per questa ragione - prosegue Matteo Losio, Presidente Associazione Ristoranti Fipe-Confcommercio Genova - siamo onorati di siglare questo significativo Protocollo con Seconda Chance, che vuole essere l’inizio di un percorso che possa dare vita a una lunga serie di iniziative per la promozione del lavoro come strumento di inclusione, dignità e integrazione”. L’associazione Seconda Chance nasce a Roma 3 anni fa, ad opera della giornalista Flavia Filippi, per costruire un ponte tra le imprese e i detenuti. Circa il 65% di recidiva deve essere combattuto con ogni mezzo e una seconda chance lavorativa è un’ottima possibilità di rinascita. Seconda Chance ha già procurato oltre 430 offerte di lavoro in tutta Italia, coinvolgendo aziende di ogni ordine e grado e contribuendo al reinserimento di tante persone meritevoli. “La situazione nelle carceri è molto complessa. - spiega l’Associazione Seconda Chance - Conosciamo il dato terribile di oltre 90 suicidi nel solo 2024: ognuno deve fare la sua parte per aiutare a risolvere questa gravissima emergenza. Grazie alla regione Liguria i datori di lavoro possono ora usufruire di contributi per i tirocini formativi (progetto GOL); inoltre la legge Smuraglia può offrire agevolazioni fiscali importanti per chi assume anche a tempo determinato persone in detenzione. Per noi di Seconda Chance questo protocollo è un importante incoraggiamento e la speranza è quella di svilupparlo ulteriormente, scrivendo al più presto i nomi e cognomi degli imprenditori disponibili e dei detenuti selezionati. Seconda Chance accompagnerà entrambi nella prima fase di approccio e conoscenza”. Carinola (Ce). Detenuti-agricoltori, al via progetto CReA ansa.it, 24 gennaio 2025 Prevede la coltivazione di oltre sette ettari in campo aperto, e la trasformazione dei prodotti in un laboratorio interno al carcere (quest’ultimo finanziato da Cassa delle Ammende): è il progetto “C.R.eA. Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura”, nato all’interno della cabina di regia istituita dal Provveditorato regionale. L’iniziativa - che sarà presentata alle 10 di lunedì prossimo 27 gennaio nella casa di reclusione “G.B. Novelli” di Carinola, in provincia di Caserta - vede già coinvolti quattro detenuti già formati e pronti a essere impiegati nelle diverse fasi di produzione. Il progetto è stato affidato, con un avviso pubblico a febbraio 2023, all’associazione temporanea di scopo (ATS), istituita tra le Cooperative Sociali Terra Felix, La Strada, L’uomo il legno e le Aziende Agricole Naturiamo e Rusciano con il supporto della Federazione Provinciale di Coldiretti Caserta. L’obiettivo è la realizzazione di un’attività agricola e sociale che controlli e gestisca tutte le fasi di produzione, completando le filiere, dalla coltivazione alla vendita, che possa fornire servizi di trasformazione di prodotti agricoli in conto terzi agli agricoltori del territorio ed agli altri Istituti Penitenziari della regione. Il progetto sarà presentato dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Campania, Lucia Castellano, da Carlo Brunetti (direttore della Casa di reclusione), e da Giuseppe Miselli (direttore Coldiretti Caserta). Tra le autorità annunciate anche Riccardo Turrini Vita (presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale); Maria Rosaria Covelli (presidente della Corte d’appello di Napoli); Patrizia Mirra (presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli) e Anna Ceprano (presidente di Legacoop Campania). Torino. Emergenza carcere, convegno nella sede del Consiglio regionale di Marina Lomunno vocetempo.it, 24 gennaio 2025 Sovraffollamento, strutture obsolete, carenza di personale, disperazione che nel 2024 ha spinto 89 detenuti (7 in Piemonte) a togliersi la vita. Sono i temi al centro del convegno che si è tenuto a Torino nella sede del Consiglio regionale, promosso da Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Piemonte. A mezzo secolo dall’entrata in vigore della legge che ha introdotto in Italia il nuovo Ordinamento penitenziario qual è lo stato di salute delle nostre carceri? Pessimo se stiamo ai dati con cui si è chiuso il 2024 segnato da un gesto - quello di Papa Francesco che il 26 dicembre ha aperto la seconda Porta Santa, dopo la Basilica di San Pietro, nel carcere romano di Rebibbia - che richiama tutta la società a farsi carico di “ridare speranza dietro le sbarre”. Della lista nera delle patrie galere si è parlato a Torino giovedì scorso nella sede del Consiglio regionale al convegno “Emergenza carcere a 50 anni dal nuovo ordinamento penitenziario”, promosso da Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Piemonte, in collaborazione con la Conferenza dei Garanti territoriali. Sovraffollamento, strutture obsolete, carenza di personale, disperazione che nel 2024 ha spinto 89 detenuti (7 in Piemonte) a togliersi la vita. Il numero più alto da 30 anni, a cui bisogna aggiungere 7 agenti penitenziari, da quando il tragico conto entra nelle statistiche ministeriali. Uno stillicidio che non si arresta: sono già 8 nel 2025 i reclusi che si sono ammazzati in cella e siamo solo a gennaio… “La popolazione carceraria è mutata negli ultimi anni e richiede risposte diverse affinché, oltre a risolvere i problemi cronici legati al sovraffollamento (nei 189 penitenziari per adulti su 47 mila posti sono recluse 62 mila persone) il carcere assolva alla sua funzione rieducativa come recita l’art. 27 della Costituzione. Tra le urgenze da affrontare la gestione degli spazi, l’offerta di formazione e istruzione, il lavoro dentro e fuori le mura, l’accompagnamento all’uscita per evitare la recidiva che sfiora il 70%, il mantenimento delle relazioni famigliari e il diritto all’affettività”. In attesa che ciò si realizzi, Mellano ha ribadito che i garanti sono “compatti nel richiedere che non cada nel vuoto l’appello di Papa Francesco ad atti di clemenza”. E con il Papa, che auspica carceri che non siano luoghi dove il tempo si consuma senza speranza, anche il Presidente Mattarella denuncia da tempo le condizioni “inammissibili” degli Istituti penitenziari, come ha ripetuto nel discorso di fine anno alla Nazione ricordando il dovere “di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione”. Ma lo stato delle carceri italiane è in linea con il dettato costituzionale? I relatori - tra cui Stefano Anastasia, garante regionale del Lazio, Giorgio Sobrino, docente di Diritto costituzionale, Stefano Tizzani dell’Ordine degli avvocati di Torino e Roberto Capra, presidente della Camera penale “Chiusano” - sono stati concordi nell’affermare che siamo al limite dell’incostituzionalità se i nostri penitenziati sono da anni “in emergenza”. Un’allerta, ha aggiunto Anastasia, che dal decreto Caivano in poi riguarda anche i 17 Istituti penali minorili (Ipm) dove sovraffollamento (al “Ferrante Aporti” di Torino 8 giovani ristretti dormono in giacigli di fortuna perchè su 46 posti disponibili i reclusi sono 54) e carenza di comunità alternative alla reclusione sono brace che cova sotto la cenere. A questo riguardo Mellano, che ha visitato nei giorni scorsi il “Ferrante”, esprimendo piena solidarietà alla Direzione e alla Polizia penitenziaria dell’Ipm ancora una volta chiamati a gestire l’emergenza, ripete che “la preziosa e ricca offerta formativa e di attività del Ferrante può raccogliere frutti solo se il numero dei detenuti è compatibile alla capienza e agli operatori. In fasi di sovraffollamento, occorrono risposte immediate ed eccezionali, ma anche il potenziamento delle ore di attività sportiva e ginnica, magari con il coinvolgimento del privato sociale: i materassi per terra sono solo l’emblema di un sistema penitenziario minorile sotto stress: da modello a trappola”. Anche il Procuratore dei Minori di Piemonte e Valle d’Aosta Emma Avezzù ricorda che la situazione è comune in tutta Italia. Tuttavia “al Ferrante, tranne qualche episodio isolato di danneggiamento, la situazione sembrava sotto controllo, alla Messa di Natale c’era un buon clima. Purtroppo il disagio minorile è aumentato: sono 9 i tentati omicidi e un omicidio nell’ultimo anno e se non si investe su prevenzione l’alternativa è il carcere”. “È fondamentale che il ministero della Giustizia fornisca risorse adeguate per migliorare le strutture esistenti e garantirne il funzionamento in condizioni dignitose, e imponga il ‘numero chiuso’ di ingressi” aggiunge la garante dei detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo. “Se i posti sono esauriti non si può accogliere e se i giovani sono difficili da gestire, forse ci dobbiamo chiedere il perché. Infine il ministro dovrebbe chiarire perché i fondi del Pnnr destinati all’Ipm di Torino, pari a 25 milioni di euro, non hanno visto l’avvio di nessuna opera di ristrutturazione”. Che fare allora? Non c’è nulla da inventare è stato affermato con forza al convegno: seguire il dettato costituzionale (“la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”) e “diffondere speranza” come invita il Papa che tra l’altro - come ha concluso Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e garante della Campania - è anche il nuovo motto della Polizia penitenziaria: Despondere spem munus nostrum, “garantire la speranza è il nostro compito”. Un dovere che, “se messo in pratica da tutti i soggetti che si occupano dei detenuti e delle loro condizioni, potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza carcere”. Ivrea (To). Carcere e scuole: rieducare o punire? Il dialogo che divide di Alessandro Spanu giornalelavoce.it, 24 gennaio 2025 Non c’è contesto migliore di quello scolastico per affrontare il tema della rieducazione. L’incontro tra gli studenti e il mondo carcerario è stato un momento formativo di grande importanza per preparare i giovani ad affrontare con consapevolezza una nuova fase della loro vita. Questa sensibilità è centrale per affinare lo spirito critico, traducendolo, auspicabilmente, in interventi attivi e solidali. Martedì 14 gennaio, presso l’Istituto Superiore Piero Martinetti di Caluso, si è svolto un incontro tra gli studenti delle classi quinte e i volontari dell’Associazione Tino Beiletti, attiva presso il penitenziario di Ivrea. L’obiettivo di questo dialogo è stato sensibilizzare i ragazzi su temi cruciali come il malfunzionamento e il sovraffollamento del sistema carcerario italiano, evidenziando anche le gravi carenze strutturali nell’ambito educativo e rieducativo. Su questi aspetti, “l’opinione pubblica e l’attenzione politica raramente si soffermano”, ha sottolineato il Presidente dell’associazione, Armando Michelizza. “Il reato va sicuramente punito, non si discute su questo. Ma non è sufficiente”, ha dichiarato Michelizza. “Se manca la componente educativa, non vedremo un reale cambiamento nei detenuti. Non è solo una questione morale o costituzionale, per quanto fondamentali, ma anche di efficacia sociale: un detenuto consapevole può contribuire a prevenire nuovi crimini e a trasformare vite che, altrimenti, resterebbero segnate da percorsi sbagliati.” Non è semplice, ovviamente, vedere in chi ha commesso crimini orrendi una persona di cui prendersi cura. Tuttavia, le dinamiche sociali all’interno del mondo carcerario risultano profondamente alterate. “Nella mia carriera ho insegnato nelle carceri”, racconta Michelizza. “Uno studente mi chiese perché loro dovevano pagare per leggi violate, mentre noi eravamo liberi di ignorarle. La nostra Costituzione pone la rieducazione come pilastro del sistema carcerario, ma nella pratica la società è ancora lontana da questo obiettivo”, ha aggiunto. “Il rischio di un sistema che non si occupa della rieducazione è che il detenuto si percepisca come vittima, e questo è un grave errore.” L’attualità fornisce esempi concreti di questa dinamica distorta. Tra questi, il caso di Alessandro Impagnatiello, condannato per il brutale omicidio della compagna Giulia Tramontano e del figlio Thiago. Una sua lettera, inviata a Giuseppe Cruciani durante la trasmissione La Zanzara, ha destato scalpore per il tono vittimistico con cui ha criticato l’esasperazione mediatica del suo caso. Impagnatiello ha lamentato la morbosa attenzione verso il suo nome, che sarebbe stato cercato più della stessa vittima. Questo paradosso evidenzia come spesso l’interesse pubblico si concentri più sugli autori dei crimini che sulle loro vittime. Tornando al progetto dell’Istituto Martinetti, quello di gennaio è stato solo il primo di una serie di incontri. Gli studenti avranno occasione di visitare la Casa Circondariale di Ivrea ad aprile, per assistere allo spettacolo teatrale “Dalla mia anima ne farò un’isola”, diretto dalla regista e volontaria Simonetta Valenti. Liberamente ispirato al romanzo “Fine pena ora” del magistrato Elvio Fassone, lo spettacolo rappresenta un ulteriore ponte tra il mondo carcerario e la società. “Il carcere mi affascina per l’umanità che si incontra al suo interno”, ha dichiarato la Valenti, Presidente dell’Associazione Culturale Torri Rosse d’Ivrea. “Ho iniziato a lavorare in carcere prima ancora di entrare nell’Associazione Volontari Penitenziari. Portare il teatro in questo contesto significa creare uno spazio dove i detenuti possano esprimersi e, in qualche modo, ritrovare se stessi. Qui, più che altrove, si comprende il valore inestimabile della libertà personale.” Gino Cecchettin, padre di una vittima di crimini violenti, è un esempio di chi ha scelto di guardare oltre la rabbia, dimostrando che la rieducazione può trasformare non solo il colpevole ma anche l’intera società. Un sistema carcerario più equo e orientato alla rieducazione non è solo un atto di giustizia, ma un investimento per un futuro più sicuro e solidale. Insomma, dare una seconda possibilità a chi ha imboccato una strada sbagliata significa offrire alla società l’opportunità di evitare nuovi crimini, costruendo un tessuto sociale più resiliente e consapevole. Cremona. Studenti a Cà del Ferro, emozioni che liberano laprovinciacr.it, 24 gennaio 2025 Fa centro l’iniziativa dell’Aselli: gli alunni dialogano con i detenuti oltre ogni pregiudizio. Nell’ambito del progetto di Educazione Civica “Libertà va cercando”, avviato già da anni al Liceo Scientifico Aselli e supervisionato dalla professoressa Stefania Digiuni, alcune classi quarte (4A e 4C LIC, 4B e 4D LSA), nei giorni scorsi, si sono recate in visita alla casa circondariale di Ca’ del Ferro. “Quello del carcere - si legge nella nota diffusa nelle scorse ore dall’ufficio stampa del liceo - è un ‘mondo sommerso’, uno di quei mondi che la nostra società tende a dimenticare: la vulnerabilità di questo luogo - di chi vi abita e di chi vi lavora - è sicuramente lontana da una civiltà, quale la nostra, in cui la logica dell’utile e della produttività schiaccia i più fragili. Divenire cittadini consapevoli significa, però, prima di tutto, accantonare i pregiudizi e mostrarsi aperti a un percorso di conoscenza e di sensibilizzazione, che il progetto ‘Libertà va cercando’ promuove in relazione alla realtà carceraria odierna. Dopo alcune lezioni preparatorie, sviluppate anche grazie al contributo di don Roberto Musa, cappellano della casa circondariale di Cremona, la visita al carcere, sotto la guida dello stesso don Musa, ha avuto così lo scopo di offrire ai ragazzi un’esperienza di contatto e dialogo diretto con i detenuti. Proprio nel luogo in cui il carcere mostra una delle ‘migliori’ parti di sé, la sala del teatro, con le sue pareti dipinte a tinte vivaci dai detenuti stessi, i nostri studenti delle classi quarte hanno incontrato, divisi a gruppi, alcuni carcerati che stanno scontando la loro pena. Alcune parole chiave, quali ‘responsabilità’, ‘tempo’, ‘famiglia’, ‘speranza’, su cui gli studenti avevano riflettuto in classe, hanno costituito il fil rouge dell’incontro. Sollecitati da queste parole, oltre che da domande poste dagli studenti, i detenuti si sono raccontati, tra aperture e reticenze: hanno parlato delle problematiche con cui quotidianamente devono convivere, dal sovraffollamento alla difficile convivenza con i compagni di cella, dalla solitudine alla sospensione del tempo, dalle difficoltà comunicative di chi non parla la nostra lingua agli stati depressivi che alcuni di loro hanno attraversato. Ma hanno anche rivelato quanto il percorso rieducativo a cui stanno partecipando stia dando loro la forza per combattere e per sperare in un futuro fuori dalle mura carcerarie. La dimensione rieducativa, e non esclusivamente punitiva della pena, così come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione, è così riuscita a strappare i detenuti incontrati dal circolo vizioso di una reclusione che sarebbe altrimenti solo fine a se stessa. Certo, chi è stato ‘selezionato’ per incontrare gli studenti ha mostrato la volontà di ridefinire la propria vita - cosa che non a tutti evidentemente accade, visto l’alto tasso di recidività che caratterizza le carceri italiane. La predisposizione al cambiamento passa attraverso il coinvolgimento dei detenuti in attività manuali, ma anche, e soprattutto, attraverso lo studio: più volte gli studenti sono stati spronati a completare il loro percorso di studi, a coltivare passioni e relazioni sane. Moniti inaspettati per i nostri ragazzi, che hanno ritrovato nelle parole dei carcerati una dignità e un senso di umanità che si pensava a loro estraneo”. A chiusura dell’incontro, le interessanti testimonianze di chi lavora in carcere: un agente della polizia penitenziaria, che ha sottolineato il tentativo di costruire un rapporto equilibrato con i carcerati, basato su una convivenza il più possibile rispettosa, e due educatori, che hanno evidenziato la difficoltà e la delicatezza della loro professione. “L’esperienza in carcere - commenta uno studente - è stata una delle più significative, a livello umano, che io abbia mai vissuto”. Ha permesso di ritrovare, nell’inferno reale e immaginato del mondo carcerario, “chi e che cosa […] non è inferno”, per citare le parole di Italo Calvino. Reggio Emilia. Parte il bando di “Parole Liberate”: in musica le liriche dei detenuti di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 24 gennaio 2025 La Casa circondariale ieri mattina ha ospitato la presentazione del progetto “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, dedicato ai detenuti ristretti nella Articolazione per la Tutela della Salute Mentale (Atsm). All’incontro, insieme ai detenuti del carcere nella sezione Atsm, hanno partecipato la direttrice Lucia Monastero, alcuni dirigenti di Nessuno tocchi Caino - Rita Bernardini e Sergio D’Elia, il medico Federico Canziani - i responsabili dell’associazione ‘Parole Liberate’- Duccio Parodi e Michele De Lucia - il presidente della Camera Penale di Reggio Emilia Luigi Scarcella, Marco Scarpati e la presidente di Closer Giulia Ribaudo. Michele De Lucia ha illustrato il progetto: un bando su scala nazionale per la composizione di un testo che sarà poi musicato e interpretato da noti compositori e cantanti. “Nel corso degli ultimi due anni Nessuno tocchi Caino ha svolto oltre 220 visite agli istituti penitenziari italiani. - Ha detto Sergio D’Elia, presidente e segretario dell’associazione radicale. - Possiamo confermare che la malattia mentale abita sempre di più in carcere. La sua dimensione, un tempo segregata nei manicomi, oggi reclusa in carcere, impone una riflessione sull’adeguatezza di questo istituto a curare il male e anche il solo disagio psichico. Riservare luoghi più idonei a malati psichiatrici e persone con tossicodipendenza aiuterebbe anche a ridurre il sovraffollamento delle carceri, migliorando le condizioni di detenuti e operatori. Nessuno tocchi Caino ricorda che l’anno scorso sono avvenuti dietro le sbarre 241 decessi di cui 89 suicidi e che sono già 8 quelli registrati nelle prime due settimane del 2025. Il carcere non è solo un luogo di privazione della libertà, perché la privazione è di molte altre cose, della salute, fisica e mentale, e anche della vita”. Durante l’incontro nel carcere di Reggio Emilia, Nessuno tocchi Caino ha dato conto dell’azione intrapresa insieme all’Unione delle Camere Penali Italiane nei confronti delle Asl affinché ottemperino ai loro obblighi di legge, in particolare di ispezione dei luoghi di detenzione e di verifica della loro idoneità a ospitare persone detenute e di verifica anche delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari. Giubileo della Comunicazione: se informare (bene) è una questione di rispetto di Luigi Ferraiuolo* Corriere della Sera, 24 gennaio 2025 Via al Giubileo della Comunicazione: papa Francesco ha evidenziato come la nostra società sia sempre più povera di rispetto. Anche a causa di una cattiva informazione. Forse nessuno ci ha fatto ancora caso, ma nel brano della lettera di Pietro (1Pt3, 15-16) citato da Papa Francesco come tema della Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali del Giubileo viene usata la parola rispetto. Lo scorso dicembre l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana ha scelto rispetto come parola dell’anno. Il Papa sicuramente non “ci azzecca” nella scelta ma, come fa spesso Bergoglio, ha letto i segni dei tempi di una società sempre più povera di rispetto a causa anche dell’informazione o forse soprattutto per l’informazione. Un tema legato inscindibilmente, secondo noi delle Buone Notizie, alla qualità dei media ma anche alla loro credibilità e soprattutto al ruolo: che non è litigare in tv, aizzare le persone le une contro le altre, strombazzare accuse, spesso anche in buona fede, non capendo che quanto più si spettacolarizzano omicidi e gesti di violenza in tv, sui giornali e nei social, più diventano familiari e ripetibili. Un male senza possibili cure, direte. Non è così: basterebbe rispettare i fondamentali delle notizie, come nello sport. Buona informazione, storie positive, solo racconto della realtà, non mistificazione; giornalisti al loro posto e non multiuso, preparati e non tanti ciarlatani come se ne vedono in giro. Senza laurea, senza studio, senza impegno non c’è buona informazione. Basterebbe rispetto: per gli altri e se stessi, per i lettori e la notizia. Rispettare affonda le radici in respicere che, letteralmente, significa guardare di nuovo, guardare indietro. Richiama cioè il dovere di non cedere alla smania del giudizio immediato figlio dell’emotività, che non tiene conto delle storie delle persone, delle loro battaglie. Occorre, invece, allenarsi al prendersi cura, al fare attenzione, così che le persone e la comunità possano crescere in armonia. Il rispetto, dunque, come rivendicazione dell’importanza delle relazioni autentiche, oltre la superficialità, libere dalla schiavitù della banalità, dell’approccio mediato dai social, che possono essere un bene - ma è difficile - a patto che non si deleghino loro i rapporti umani. *Segretario generale Premio Buone Notizie Potere, manipolatori e verità fatte su misura di Gabriele Segre La Stampa, 24 gennaio 2025 Sarà il caso di iniziare ad abituarci: la verità non esiste più. O, perlomeno, non per come eravamo abituati a conoscerla. A dissipare gli ultimi dubbi ci ha pensato Donald Trump che, con le prime dichiarazioni e azioni del suo secondo mandato, ha letteralmente riscritto gli ultimi decenni di storia americana e qualche secolo di geografia mondiale. Eppure, leggere le sue parole come pura eversione o, al contrario, come semplice provocazione significherebbe non cogliere l’essenza di un’epoca in cui, ormai, ognuno si appropria del suo pezzo di verità. Intendiamoci: esiste sempre una dimensione oggettiva dei fatti, un dato incontrovertibile che l’informazione ha il compito di perseguire. Ma sappiamo bene che la realtà è soltanto il punto di partenza di un processo di interpretazione e connessione tra gli eventi ben più ampio. D’altronde, l’intero universo funziona così: la velocità della luce è incontestabile, ma persino un fotone si comporta in modo diverso a seconda di come scegliamo di osservarlo. E se anche la scienza ammette misure relative, figuriamoci le relazioni umane, dove la verità sembra dipendere sempre dal contesto in cui si manifesta. Non si tratta di un fenomeno nuovo. Basti pensare a come, nel corso dei secoli, le nostre certezze più consolidate su principi come libertà, diritti, giustizia siano cambiate. Così come il giudizio su personaggi e periodi storici dipende dall’umore delle diverse generazioni. Tuttavia, c’è stato un momento in cui, inebriati dal trionfo del nostro modello occidentale, abbiamo creduto di poter raggiungere una verità quantomeno condivisa: un’etica universale che ci avrebbe permesso di conoscere, capire e agire con chiarezza e coerenza. Era il compito che da sempre avevamo affidato a ideologie e religioni, e che ora, vincitori della Guerra Fredda, sembrava spettare a noi. Un’illusione crollata insieme al mito della globalizzazione, quando abbiamo cominciato a renderci conto, spesso in modo traumatico, che chi guarda il mondo da un’altra prospettiva ha anche verità molto diverse dalle nostre. Per molti, i bugiardi siamo noi. Trump è, certo, l’esempio più eclatante, ma solo perché ha giurato sulla Costituzione di una nazione che non ha mai perdonato neanche la più innocua bugia al proprio presidente. Nel resto del Pianeta assistiamo da anni a questo relativismo sociale: ucraini e russi si accusano a vicenda di essere nazisti; la violenza in Medio Oriente non smette di ricordarci ciò che in quelle terre si sa da sempre: ciascuno ha la propria verità ed è pronto ad uccidere e morire per rivendicarla. Noi, nel mezzo, ci ostiniamo a credere di essere la culla di una cultura universale. Tuttavia, sarebbe forse più utile concentrarci su una questione ancora più essenziale per la nostra sopravvivenza: dietro ogni verità proclamata, qual è l’intenzione che la sostiene? Guardiamo in faccia la realtà: né l’argomentazione più raffinata né la protesta più accesa saranno da sole sufficienti per convincere utenti social e cittadini frustrati della falsità di molte affermazioni. Piuttosto, è tempo di riflettere con attenzione sui valori e le ragioni che stanno alla base di certe convinzioni. Non tutte le narrazioni sono necessariamente negative, e non è detto che, per quanto radicali e distanti, alcune non possano aprirsi a spazi di incontro, rispetto reciproco e convivenza in un universo così caotico. In fondo, non sarebbe la prima volta che identità e culture molto diverse si accordano per collaborare, convergendo su prospettive di compromesso tra visioni opposte. Perché ciò avvenga, tuttavia, dobbiamo anzitutto smettere di pensare che ogni versione diversa dalla nostra sia opera di qualche mente diabolica che ha il solo scopo di conquistare il mondo. Il caso di Trump è emblematico: non è stato lui il primo a costruire le narrazioni su vaccini, identità di genere e pericoli dell’immigrazione che oggi trasforma in ordini esecutivi. Sappiamo bene che si tratta di “verità” condivise da molti in tutto il Pianeta e, con esse, piaccia o no, dobbiamo imparare a fare i conti, trovando il modo di comunicare e creare una relazione. Per farlo, serviranno pazienza, cura e grande attenzione: perché, se è vero che la realtà è piena di zone grigie tra buoni e cattivi, la sfida più grande sta nel distinguere le narrazioni basate su convinzioni sincere da quelle con intenti mistificatori, finalizzate a rafforzare il potere di pochi attraverso la manipolazione dei più. Queste ultime vanno denunciate e rigettate senza compromessi. Tutto il resto deve rientrare nell’area del confronto: una vasta gamma di posizioni che dobbiamo saper osservare e valutare senza pregiudizi, tenendo conto delle origini in cui sono state espresse, delle loro motivazioni e dei cambiamenti inevitabili di un futuro in continua evoluzione. Ognuna di queste ci racconta un pezzo della realtà in cui siamo immersi. Comprenderle significa comprendere il presente e, forse, provare a cambiarlo. Tra gli adolescenti l’alcol è diventato un’emergenza globale di Santino Gaudio* Il Domani, 24 gennaio 2025 Considerando i dati sugli adolescenti italiani, la politica tutta dovrebbe mettere in primo piano il problema e, magari, proporre una maggiore tassazione degli alcolici. Questi proventi potrebbero essere tutti investiti in campagne di informazione per genitori e ragazzi. Il rischio è quello di giocarci la salute e il futuro di tanti nostri giovani. Dall’inizio del nuovo anno di parla tanto di assunzione di bevande alcoliche: dalla stretta sull’assunzione di alcol per i nuovi patentati alla guida, presente nel nuovo codice della strada, alle dichiarazioni del dottor Vivek Murthy, Surgeon General of the United States (la persona a capo del sistema sanitario degli Usa). Quest’ultimo, ricordando che l’alcol è il terzo fattore di rischio nell’insorgenza di tumori dopo fumo e obesità, ha anche proposto di imporre sulle etichette degli alcolici un chiaro avviso sui rischi dell’alcol (così come avviene per i prodotti del tabacco). In questi stessi giorni, il National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism degli Usa ha pubblicato i dati sull’assunzione di alcolici negli adolescenti. Ed è del novembre del 2024 il report con i dati su alcol e giovani pubblicato dalla Commissione europea. Questi report fotografano una realtà di cui poco si parla e che in molti neanche immaginano. Quanti alcolici bevono gli adolescenti? - Secondo l’ultimo rapporto del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism degli Usa (Niaaa, 2025), nel 2023 quasi il 20 per cento dei ragazzi tra i 14 ed i 15 anni ha consumato almeno una sostanza alcolica e 3,3 milioni di giovani tra i 12 ed i 20 anni hanno fatto una “abbuffata di alcol” (più frequente dell’ubriacatura) nell’ultimo mese (il termine scientifico è binge drinking ed equivale a bere almeno 5 cocktail o dosi di sostanze alcoliche in meno di 2 ore). Il 91 per cento di tutte le sostanze alcoliche assunte dagli adolescenti negli Usa vengono consumate durante “abbuffate di alcol”. L’altro dato di interesse è che oggi sono le ragazze a bere più dei ragazzi. I dati che ci riguardano da vicino, forniti dalla commissione europea (OECD/European Commission, 2024), purtroppo non sono diversi. Più del 30 per cento dei ragazzi di 15 anni in Germania, Austria, Italia, Danimarca, Ungheria e Bulgaria si è ubriacato più di volta nel corso della loro giovane vita. Le percentuali sono minori negli altri paesi europei. Anche in Italia il trend è cambiato e sono le ragazze a bere più dei ragazzi. Ed anche in Italia e nel resto dell’Europa sono diventate più frequenti le “abbuffate di alcol”. Perché gli adolescenti bevono? - Il recente report statunitense ci dice che gli adolescenti, nella maggioranza dei casi, bevono per affermare la loro indipendenza, cercare nuove sfide o sperimentare qualcosa di rischioso. Inoltre, hanno un ruolo la pressione del gruppo dei pari e la ricerca di emulazione. Non per ultima, tra le cause che porta i giovanissimi a bere è la facilità di accesso alle bevande alcoliche. Il tutto, senza la consapevolezza dei rischi che comporta per la salute. Quali danni causa l’alcol in adolescenza? Per iniziare, i dati di letteratura, ripresi del report statunitense, ci dicono che iniziare a bere prima dei 15 anni aumenta di 3,6 volte la probabilità di diventare un alcolista in età adulta. Condizione che impatta in modo profondo su vita familiare, sociale e lavorativa e riduce drasticamente le aspettative di vita. Inoltre, l’assunzione di alcolici in adolescenza può alterare lo sviluppo cerebrale, producendo difficoltà cognitive e di apprendimento, e può determinare malattie del fegato, ad iniziare dalla steatosi (condizione che precede il grave quadro della cirrosi epatica da alcol). Cosa si può fare per allontanare gli adolescenti dall’alcol? - Il problema è globale e gli stati hanno messo in campo diverse politiche di prevenzione. In Italia esiste il divieto di vendita di alcolici sotto i 18 anni. Tuttavia, i dati forniti dalla Commissione europea portano a richiedere politiche di maggiore attenzione sul rispetto di questa legge. Il problema non è solo Italiano. Basti pensare che negli Usa il divieto di vendita di alcolici è 21 anni. La Comunità europea si sta muovendo anche sulla limitazione della pubblicità degli alcolici. In particolare, la Norvegia ha vietato la pubblicità di alcolici sui social media (molto utilizzati dai minori). Non ci sono invece direttive europee o politiche comuni sulla tassazione delle bevande alcoliche. Considerando i dati sugli adolescenti italiani, la politica tutta dovrebbe mettere in primo piano il problema e, magari, proporre una maggiore tassazione degli alcolici (magari con una progressione legata alla gradazione alcolica. Lascio ai tecnici le modalità). Questi proventi potrebbero essere tutti investiti in campagne di informazione per genitori e ragazzi. Il rischio è quello di giocarci la salute e il futuro di tanti nostri giovani. *Psichiatra Mantovano annuncia: “A novembre per l’unità di intenti contro le droghe” di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 gennaio 2025 A voler essere ottimisti, la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha fissato ieri per il 7 e l’8 novembre a Roma potrebbe assomigliare più a quella di Trieste del 2009 che non all’ultima, tenutasi a Genova nel novembre 2021. Al contrario del confronto tra istituzioni, studiosi, operatori e consumatori organizzato poco più di tre anni fa dalla ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone (M5S) del governo Draghi, infatti, la “vetrina per sigillare le politiche della legge Fini-Giovanardi” - come venne definita dalle associazioni del privato sociale che si riunirono contemporaneamente in un convegno alternativo - servì solo a celebrare “il matrimonio tra patologizzazione e repressione” tanto caro al governo Berlusconi di allora, e in particolare al sottosegretario Carlo Giovanardi che ne fu promotore. A voler essere ottimisti, stando alla confusione fatta dal governo Meloni tra la canapa e la cannabis light, e tra questa e le sostanze stupefacenti (vedi i vari ddl Sicurezza, decreto Caivano e decreto Schillaci sospeso dal Tar). “Riprendiamo un adempimento non solo previsto dalla legge e che avrebbe dovuto avere una cadenza molto più ravvicinata”, spiega Mantovano dopo l’incontro in Conferenza Regioni a cui ha partecipato anche il ministero della Salute e il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli. Anche se in realtà il T.U. 309/90 sugli stupefacenti prescrive una Conferenza nazionale ogni tre anni. Ma il sottosegretario con delega alle Politiche antidroga precisa che la Conferenza nazionale serve “anche a sottolineare l’unità di intenti e a individuare obiettivi sempre più adeguati su un fenomeno complesso, che varia in continuazione e che necessita di un aggiornamento continuo. La guerra contro le dipendenze, non solo quelle da sostanze stupefacenti ma anche dal gioco d’azzardo e dai social, si può vincere se si combatte insieme. Insieme tra Stato, Regioni e comunità di recupero, con le società scientifiche, con tutti coloro con i quali, da quando esiste il governo abbiamo iniziato un percorso comune”. Un’”unità di intenti”, che ha già portato, sostiene Mantovano, a incrementare di “70 milioni in più dello scorso anno” il fondo per il contrasto, per un “totale di 164 milioni di euro disponibili sui fronti della prevenzione e del recupero”. Soldi che “sono soprattutto vincolati verso le differenti destinazioni funzionali a una reale prevenzione e a un reale recupero”. “Ovviamente - ha aggiunto -, poiché la gran parte delle competenze spettano alle Regioni, poi andranno trovati i canali attuativi”. Canali che vanno ancora trovati - per fare un esempio in campi affini - per mettere a frutto in concreto l’”elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” dei detenuti tossicodipendenti che il governo avrebbe dovuto già stilare secondo il “Decreto carceri” convertito in legge ad agosto. Secondo i dati del sottosegretario alla Salute Marcello Gennato, nel 2023 sono state “132 mila le persone che si sono rivolte ai Sert, e rispetto al 2022 c’è stato un aumento del 5% di accessi ai pronto soccorso per uso di sostanze stupefacenti”, mentre tra i giovani “il 39% dichiara di aver assunto almeno una droga”. Tanto vale uscire dalla Corte penale dell’Aia di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 24 gennaio 2025 La vicenda del generale libico Najem Osama Almasri. Di una Corte internazionale, o si accettano tutte le sue pronunce, anche quelle che riguardano gli alleati, magari considerate ingiuste o semplicemente inopportune, oppure si corre il rischio di depotenziarle tutte, di rivalutare i condannati, autori di massacri e di crimini contro l’umanità. È incredibile, nella sua sconcertante gravità, la vicenda del generale libico Najem Osama Almasri, arrestato a Torino - era lì per Juventus-Milan - perché colpito da mandato di cattura della Corte penale internazionale e subito liberato per un cavillo giuridico o per una ragione di Stato. “Espulso perché pericoloso” ha spiegato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Chissà cosa avranno pensato della serietà del nostro sistema giudiziario, dei valori occidentali, del rispetto dei diritti universali della persona, i suoi sodali che lo hanno accolto in patria come un eroe dopo essere sceso da un aereo di Stato pagato da tutti i contribuenti italiani? Probabilmente che si possono commettere i peggiori crimini con la quasi certezza di farla franca. Forse sarebbe meglio a questo punto che l’Italia uscisse, per coerenza, dall’accordo che ha istituito la Corte Penale internazionale, peraltro firmato a Roma. Ma poi qualcuno ci ricorderebbe che è una condizione di appartenenza all’Unione europea (e l’Ucraina si è aggiunta proprio per questa ragione diventando il centoventicinquesimo membro). Non esistono però trattati à la carte. Specialmente in tema di giustizia internazionale, se ancora valga la pena di chiamarla così. E, nel caso di una Corte internazionale, o si accettano tutte le sue pronunce, anche quelle che riguardano gli alleati, magari considerate ingiuste o semplicemente inopportune, oppure si corre il rischio di depotenziarle tutte, di rivalutare i condannati, autori di massacri e di crimini contro l’umanità. Oltre ad esporre i giudici al ludibrio dei peggiori. In questi giorni, comunque, stiamo dando uno schiaffo storico, un’ingiusta umiliazione, ai tanti interpreti della migliore tradizione giuridica italiana in tema di salvaguardia dei diritti universali: da Giuliano Vassalli ad Antonio Cassese. Fausto Pocar presiedette il tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Che ne pensa un giurista raffinato come l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio? Tutto quello che non torna sul caso di Almasri di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 gennaio 2025 La strana tempistica del mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale, l’inerzia della Germania, il ruolo di Nordio e il volo di stato. Intanto le opposizioni attaccano la premier Meloni. Sono diversi gli aspetti che ancora restano da chiarire del caso di Osama al Njeim Almasri, capo della polizia giudiziaria libica su cui pende un mandato della Corte penale internazionale (Cpi) per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, arrestato in Italia sabato scorso, ma poi rilasciato e rimpatriato martedì in Libia con tanto di volo di stato. La vicenda ha scatenato l’ira dei partiti di opposizione, che uniti hanno parlato di “fatto di gravità inaudita” e chiesto che la premier Meloni riferisca in Parlamento. La stessa Cpi ha chiesto ieri sera spiegazioni all’Italia. Intanto fonti autorevoli del governo, consultate dal Foglio, esprimono forti perplessità sulla tempistica con cui la Corte penale internazionale ha emesso il mandato di arresto e sull’inerzia mostrata dalla Germania. La richiesta del procuratore della Cpi risaliva allo scorso 2 ottobre, ma soltanto venerdì 18 gennaio (a oltre tre mesi di distanza) la Corte ha ordinato l’arresto, subito dopo che Almasri era stato individuato in Germania, presso un autonoleggio, dove ha chiesto se poteva riconsegnare l’auto a Fiumicino. Da qui i dubbi (maliziosi) del governo italiano: Almasri era già oggetto di pedinamento da parte dei servizi di sicurezza tedeschi? E, soprattutto, perché non sono stati il governo e le autorità giudiziarie della Germania a dare seguito al mandato di arresto nei confronti di Almasri? Ruolo della Germania a parte, però, diversi interrogativi sorgono attorno alle modalità con cui il governo italiano ha gestito la vicenda. Una cosa è certa: come affermato dalla Corte d’appello di Roma, c’è stato un errore procedurale da parte della Polizia, che dopo aver fermato Almasri a Torino ha trasmesso gli atti direttamente ai pm romani, senza informare il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che per legge ha competenza esclusiva in materia. Per questi motivi, la Corte non ha potuto fare altro che non convalidare l’arresto. Subito dopo la scarcerazione, però, Nordio avrebbe potuto (dovuto?) chiedere alla procura generale di Roma l’arresto di Almasri, attivando una nuova procedura. Ciò non è avvenuto, non per un cavillo giudiziario, ma per una chiara volontà politica del governo. Almasri è stato espulso con provvedimento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e rimpatriato in Libia con un di volo di stato. Sempre fonti del governo fanno sapere che Almasri è stato espulso per ragioni di sicurezza nazionale, come accade di frequente. A differenza del solito, però, sulla testa del libico pendeva un mandato di arresto della Cpi, con cui l’Italia ha un obbligo di cooperazione ai sensi del trattato istitutivo. E poi: la legge stabilisce che “il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione”, lasciando così pochi margini di discrezionalità al Guardasigilli, a meno che egli non ravvisi ragioni di “sicurezza nazionale”. Tuttavia, come abbiamo visto, il governo italiano non si è opposto alla richiesta della Cpi in virtù di questa disposizione, ma ha lasciato che fosse il ministro dell’Interno a espellere il soggetto. Insomma, il governo ha voluto dire “no” al mandato di arresto della Cpi, ma senza opporsi esplicitamente alla richiesta. Suscita non poche perplessità, poi, il modo con cui il ministro Nordio ha gestito la vicenda sul piano pubblico, facendo sapere con una nota martedì pomeriggio di stare “valutando la trasmissione formale della richiesta della Cpi al procuratore generale di Roma”, mentre - come poi si è scoperto - il volo di stato dedicato al rimpatrio di Almasri era già partito alle ore 11 da Roma destinazione Torino, dove poi sarebbe partito in serata verso Tripoli. A dispetto delle dichiarazioni di Nordio, il governo aveva dunque già deciso di non dare seguito al mandato di arresto della Cpi? L’ultimo interrogativo riguarda proprio il ricorso al volo di stato, evento assolutamente anomalo nel caso di espulsione di un cittadino dall’Italia, che avviene sempre con volo di linea. Anche su questo dal governo fanno sapere che la scelta del volo di stato è stata dettata da “ragioni di sicurezza nazionale”. Ma le perplessità restano. Le accuse al comandante libico Almasri: “Ha torturato, stuprato e ucciso” di Irene Famà La Stampa, 24 gennaio 2025 Il documento con cui i giudici chiedevano l’arresto: “È il direttore di quel lager. Ha partecipato personalmente alle violenze. Assassinati anche medici e religiosi”. Spietato. Sadico. Osama Almasry Njeem, “Mr Njeem”, il comandante libico arrestato a Torino su mandato internazionale e lasciato libero per un cavillo giudiziario, è un uomo crudele. Lo racconta il mandato di cattura della Corte dell’Aja. Che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Di stupri, omicidi, torture, botte. È vero, si legge negli atti, Almasry “non ha un titolo ufficiale”. Ma nella prigione di Mitiga, ad ovest della Libia, “tutto avviene sotto il suo controllo e con il suo consenso”. Lì occupa “la posizione più alta”. È il direttore di quel lager. Dispone di vita e di morte. Dodici sezioni, celle che si susseguono. Quelle dell’isolamento, quelle in cui i detenuti vengono ammassati. Oltre 5140 dal febbraio 2015 a marzo 2024. Ci sono, dicono, alcuni terroristi di Al Qaeda e altri jihadisti. E poi ci sono tanti altri. Arrestati dalla Rada, gruppo paramilitare a supporto del Governo di unità nazionale, di cui Almasri è tra i personaggi al vertice. Ci sono tanti altri imprigionati per motivi politici, religiosi. Per atteggiamenti considerati immorali, perché omosessuali o transgender. Perché non rispettano la legge islamica. “Gli interrogatori sono brutali”, scrive la Corte penale internazionale. A Mitiga “non vengono rispettati i più basilari diritti umani”. Torture fisiche e mentali per “sottomettere, togliere la dignità”. I bambini vengono divisi dalle madri, alle donne “vengono negati anche gli assorbenti”. I prigionieri sono “stuprati, seviziati”. Si tortura con gli elettrodi, con finte esecuzioni. In “un’atmosfera di terrore e oppressione”. Si lasciano uomini appesi a testa in giù per ore. Ad altri viene tolto il respiro: la testa viene spinta nell’acqua, come a volerli annegare. Poi vengono ripresi. E poi di nuovo giù, quasi a soffocarli. A Mitiga non ci sono regole. O meglio. È il generale Almasri a dettarle. “Mr Njeem era presente - si legge nel mandato d’arresto della Corte dell’Aja - quando le guardie picchiavano e uccidevano i detenuti”. E ha promesso di “punire quelli che i reclusi li hanno aiutati”. Magari con del cibo, magari consentendo una telefonata a casa, magari non infierendo su corpi esanimi. “Lui stesso ha picchiato, torturato, ammazzato, stuprato. Ha abusato, anche minori”. Per la Corte dell’Aja, il generale “sapeva cosa stava facendo”. Sapeva di violare non solo l’umana pietà, ma anche le leggi internazionali. Eppure “oltraggiava con crudeltà”. La sua “violenza - si legge - è inflitta di proposito”. Non solo. Tra le accuse c’è anche “la persecuzione, la riduzione in schiavitù”. E “l’emettere sentenze” di condanna senza un giusto processo. Trentaquattro le persone ammazzate nella prigione di Mitiga, di cui la Corte racconta nel dettaglio. “Dodici morte per le torture subite, sedici lasciate senza cure mediche anche se malate. In due poi, sono stati chiusi in una cella al gelo, senza coperte né vestiti”. Il generale Almasri sa. Gli viene comunicata ogni cosa. E di numerose brutalità è proprio lui il protagonista. “L’arresto è necessario” per la Corte penale internazionale. Almasri deve finire in manette: solo così “finirà davanti a un giudice”, solo così “non potrà danneggiare le indagini”. Solo così “non potrà continuare a commettere crimini”. Il 2 ottobre 2024, il procuratore generale della Cpi chiede un mandato d’arresto per Osama Almasri Njeem. “Per i crimini commessi in Libia dal febbraio 2015 all’ottobre 2024”. Il 18 gennaio 2025, la decisione di procedere viene presa a maggioranza. E Almasri viene intercettato dalla Digos di Torino mentre, con alcuni amici, sta tornando in hotel dopo essere stato allo stadio a vedere la sua squadra del cuore. In un borsello nero di marca ha tre passaporti intestati a suo nome, un portafoglio, carte di credito tra le più svariate, qualche moneta, un accendino, una penna. Al polso un Rolex fasullo. Almasri, destinatario “di un mandato d’arresto internazionale a fini estradizionali” a quanto risulta nella banca dati dell’Interpol, finisce in manette. I suoi amici, Ayoub Yousef Sghiar, Murad Shiboub Bramithah e Osama Mohamed Uta, vengono indagati per favoreggiamento. E raggiunti da un ordine di espulsione: devono lasciare l’Italia entro domani. Il generale viene scarcerato tre giorni dopo, il 21 gennaio. Per un “errore di procedura”, sostiene la Corte d’appello di Roma. Il ministro della Giustizia non sarebbe stato avvertito in tempo. La Corte dell’Aja, in una nota, assicura: “L’Italia sapeva”. Esplode la bagarre politica, il rimpallo di responsabilità. Il generale Almasri, nel frattempo, viene rimpatriato. Lo scorso martedì, in tarda serata, torna in Libia, a Tripoli. E c’è una foto, diffusa sui social, che lo immortala mentre scende sorridente, accolto da braccia amiche e fuochi d’artificio, sotto le scalette dell’aereo che lo ha riportato a casa: un aereo che sul lato, ben in vista, la bandiera italiana. Per la Corte dell’Aja, Almasri è un torturatore, da punire con la pena massima dell’ergastolo. Per chi era ad aspettarlo a Tripoli, il generale è una sorta di eroe nazionale. Per chi lavora nella prigione di Mitiga, Almasri è la legge. Per chi è detenuto, il generale è sinonimo di vita. O di morte.