Carceri senza capo, manca la nomina. Nordio: no all’amnistia di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 gennaio 2025 Dopo le dimissioni di Russo, il Dap è diretto dalla sua vice Lina Di Domenico. Ma nessun nome è ancora arrivato al Colle. Amministrazione della giustizia, la relazione al Parlamento del Guardasigilli. Il sovraffollamento c’è. Ma l’atto di clemenza “sarebbe un incentivo alla recidiva”. A un mese dalle dimissioni di Giovanni Russo, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è ancora senza un capo. Mentre l’ex procuratore nazionale antimafia che si era insediato a largo Daga nel gennaio 2023 ha già preso posto come consigliere giuridico della Farnesina, la sua vice Lina Di Domenico, magistrata collocata fuori ruolo dal Csm l’8 gennaio scorso, lo ha sostituito ma ancora solo nella veste di facente funzione. Ma né il suo né un altro nome è ancora arrivato - come vuole la prassi - al Quirinale. Spetta infatti a Sergio Mattarella, in quanto capo delle forze armate, firmare il decreto presidenziale di nomina della figura istituzionale che guida anche il corpo di Polizia penitenziaria. L’impasse è tale che la delibera con la quale il governo propone il nome del nuovo capo Dap non è neppure ancora pervenuta formalmente sul tavolo del Consiglio dei ministri. Ma è tema, questo, che non viene neanche sfiorato dal ministro Carlo Nordio durante la sua relazione sull’amministrazione della Giustizia presentata ieri prima al Senato e poi alla Camera. Le carceri però sono uno dei temi su cui si concentra maggiormente il Guardasigilli. Il quale ammette il sovraffollamento degli istituti penitenziari, anche quelli per minorenni, ma nega ogni responsabilità dell’esecutivo, puntando invece l’indice contro “l’aumento esponenziale dei detenuti stranieri”. Le ricette governative per contrastare un problema che, insieme al record di nove detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno (nello stesso periodo del 2024 erano tre), è sintomo del disastro in cui versa l’amministrazione penitenziaria sono sempre le stesse. “Esclusi” invece “i provvedimenti di amnistia o di scarcerazione lineare che - ribadisce Nordio - manifesterebbero una debolezza da parte dello Stato. Si può essere generosi quando si è forti, non quando si è costretti dalla necessità delle cose. L’amnistia sarebbe un incentivo alla recidiva - arriva ad affermare il titolare del dicastero - come ci dimostra la stessa esperienza giurisdizionale”. “Stiamo lavorando sulla riforma della custodia cautelare” che riguarda “il 20% dei detenuti”, assicura il ministro che commenta così il dato: “Nel Paese per anni abbiamo assistito al paradosso che era tanto facile entrare in prigione prima del processo, quando si era presunti innocenti, quanto era facile uscire dopo la condanna definitiva quando si era colpevoli conclamati”. E poi, ancora di nuovo, parla di “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti, di “espulsione degli extracomunitari” dal territorio nazionale (ma gli accordi bilaterali con Marocco, Tunisia e Nigeria sul modello albanese, di cui si è tanto parlato, sono ancora al palo) e del “commissario straordinario con poteri idonei a scavalcare quelle difficoltà burocratiche che si oppongono alla edificazione e alla ristrutturazione degli edifici carcerari”, Marco Doglio, nominato nel settembre scorso con il compito di “rimodulare e adattare le strutture esistenti” perché, realizza Nordio, “costruire un nuovo carcere in Italia è praticamente impossibile”. Riguardo alla prevenzione dei suicidi in cella, “ce la stiamo mettendo tutta”, assicura, e cita come misura “l’integrazione di risorse pari a 5 milioni per l’osservazione psicologica”. Sui dati il ministro mette le mani avanti: “A fine 2024 il numero complessivo di detenuti in Italia era pari a 61.861 unità: è un numero elevato che supera la capienza, ma vorrei anche segnalare che non si entra in prigione per volontà del governo, ma perché si compie un reato e perché la magistratura ritiene che non ci siano alternative al carcere per l’espiazione di questi reati”. Sorvola però sull’elemento più importante: 15 mila detenuti in più rispetto alla capienza effettiva di 47 mila posti. Ma, è la consolazione di Nordio, “non siamo il fanalino di coda dell’Europa: siamo messi meglio di Francia e Gran Bretagna”. Surplus di reclusi anche negli Istituti penali per minorenni dove al 31 dicembre si registravano 588 presenze. Il Guardasigilli però parla solo di “tendenziale sovraffollamento del comparto detentivo minorile” che considera “conseguenza anche dell’aumento esponenziale dei detenuti stranieri, in larghissima maggioranza minori stranieri non accompagnati”, perlopiù “provenienti dal nord Africa, spesso poliassuntori di sostanze stupefacenti e/o psico-farmaci, con gravi problematiche comportamentali, talora anche di natura post-traumatica, che giunti in Italia vengono presto fagocitati dal circuito illecito”. La criminalizzazione di taluni comportamenti non è, secondo l’inquilino di Via Arenula, responsabile di un eccesso di carcerazione: “Nessuna persona è in prigione per il reato di rave party”, assicura. Confermando, senza volerlo, che il relativo decreto legge era solo una norma bandiera, assolutamente non urgente né necessaria. Dare un volto umano alle carceri: la missione del Commissario per l’edilizia penitenziaria di Errico Novi Il Dubbio, 23 gennaio 2025 Più tempo, innanzitutto: il nuovo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio vede prorogata al 31 dicembre 2026, con un extra time di 12 mesi esatti, la scadenza per presentare e mettere sui binari il proprio piano di riqualificazione. È una delle novità previste, in materia carceraria, dal decreto Giustizia convertito martedì alla Camera. Ieri, in entrambi i rami del Parlamento, il guardasigilli Carlo Nordio ha citato il “Piano per l’edilizia penitenziaria e la ristrutturazione del patrimonio” nell’ambito della propria relazione sullo Stato della giustizia. Il futuro degli istituti di pena è dunque nelle mani, almeno in termini strutturali, di un super manager con un passato molto importante nel pubblico e nel privato: Doglio ha guidato tra l’altro Rete ferroviaria italiana e, più di recente, è stato responsabile della Direzione immobiliare di Cassa Depositi e prestiti. Di certo una delle figure professionalmente più attrezzate a cui il governo avrebbe potuto rivolgersi per tentare di restituire un minimo di dignità, almeno sul piano materiale, ai malmessi istituti di pena italiani. Ed è una novità non irrilevante che, per una volta, un incarico chiave in campo carcerario non sia conferito a un magistrato. Doglio è un ad, vocazione che nell’impresa si coniuga con i principi di efficienza, pianificazione e sostenibilità finanziaria. Non si discutono le sue capacità. Ma un profilo del genere dovrà calarsi in una missione forse insolita o quanto meno ellittica rispetto alla prospettiva tipica del top management: umanizzare le carceri, a partire da una diversa idea di architettura penitenziaria. Sono idee e visioni attorno alle quali il Dubbio, nello scorso mese di giugno, ha organizzato una giornata di studi. In quell’occasione la materia di un’architettura concepita per rendere non solo dignitosa ma anche più armonica, per quanto possibile, la permanenza fisica negli istituti di pena è stata una volta tanto al centro del confronto politico. Nella relazione consegnata, e in parte oralmente esposta, dal ministro Nordio ieri alle Camere, l’idea è, almeno nelle intenzioni, di non limitarsi a progettare e costruire nuovi istituti, obiettivo che sarebbe del tutto insensato rispetto alla terribile emergenza che divora il sistema: i suicidi dietro le sbarre. L’anno 2024 è finito col macabro e assoluto record di 90 vittime, in questo primo mese del 2025, non ancora concluso, siamo già a 9 detenuti che si sono tolti la vita: con una progressione del genere, si rischia di infrangere di nuovo il vergognoso primato. Ma appunto, Nordio definisce il compito affidato a Doglio come rivolto non solo alla “edilizia” ma anche al “completamento della ristrutturazione del patrimonio”. Seguono declinazioni che solo in parte si coniugano con l’aspettativa di un’architettura penitenziaria più compatibile con la vita umana: il “Documento programmatico generale” emanato dal Dap riguarda “la riqualificazione del patrimonio edilizio, l’efficientamento energetico e l’adeguamento strutturale con innovazione degli impianti di sicurezza e videosorveglianza”. Esigenze che pure esistono, ma alle quali si spera che Doglio provveda ad associare altre soluzioni. Il commissario disporrà di una non trascurabile riserva finanziaria. Solo con il decreto Giustizia licenziato l’altro ieri a Montecitorio, gli sono stati assicurati 95 milioni e 724mila euro. Risorse recuperate da pregressi stanziamenti per obiettivi di ben diversa natura: non solo la riforma della magistratura onoraria (73 milioni e mezzo) ma anche il rimborso delle spese agli assolti (13 milioni e 236mila) e la giustizia riparativa (poco meno di 9 milioni). Quelle somme non avrebbero potuto rimanere appostate, in quanto non spese, sugli scopi a suo tempo indicati. Che sono sì rifinanziati per l’anno 2025 ma che, per legge, non potevano avvalersi di un accumulo con le riserve avanzate in passato. Così si è deciso di trasferire il tesoretto inutilizzato sui progetti per l’edilizia penitenziaria. Di per sé la scelta rischia di essere ambivalente, qualora i soldi servissero solo all’ampliamento volumetrico delle prigioni. Umanizzare il carcere è un dovere dello Stato. Doglio potrà avvalersi, sempre in virtù di quanto stabilito dal Dl giustizia, di una struttura formata da 5 esperti e del contributo “gratuito” di stazioni appaltanti, società partecipate dallo Stato e della “vigilanza collaborativa” dell’Autorità nazionale Anticorruzione presieduta da Giuseppe Busia. Certo, anche la prevenzione del malaffare, negli interventi per riqualificare le carceri, va garantita. Ma la testa dovrebbe essere rivolta ai reclusi. Alla devastante condizione in cui sono costretti. Un’idea del degrado in cui sono precipitati gli istituti di pena è offerta dall’Ordine degli avvocati di Bologna, coinvolto ieri, insieme con la Camera penale del capoluogo emiliano, dal presidente della Regione Michele De Pascale in una visita nel carcere “Dozza”. Ebbene, nella propria nota, il Coa bolognese ricorda tra l’altro di aver chiesto al governatore “un impegno concreto a investire risorse per l’assistenza sanitaria negli istituti di pena, settore che più di altri vive una condizione di grave difficoltà per carenze di personale e mezzi. L’implementazione di personale medico specializzato nel trattamento del diffusissimo disagio psichico può essere un primo passo per prevenire il rischio suicidario, riducendo l’abuso di psicofarmaci che provoca dipendenze patologiche e alimenta un mercato clandestino all’interno delle carceri”. Prigioni come piazze di spaccio di psicofarmaci per resistere alla disperazione. Un vero e proprio inferno. Di fronte a simili descrizioni, Doglio dovrà realizzare una rivoluzione umanizzante. O il suo stesso mandato perderà di senso. Suicidi in carcere, Nordio fa scena muta di Angela Stella L’Unità, 23 gennaio 2025 Silenzio sui detenuti suicidi, solito bla-bla sul sovraffollamento. Difesa della separazione delle carriere con contemporaneo attacco alla figura del pubblico ministero, soddisfazione per la diminuzione dell’arretrato, nessuna parola sui suicidi in carcere: questa la sintesi del detto e non detto nella Relazione sull’amministrazione della giustizia da parte del Ministro Nordio ieri prima al Senato poi alla Camera. Il responsabile di Via Arenula si è infatti scagliato contro quell’ “enfasi apocalittica di radicati pregiudizi” che accomunano magistratura e parte dell’opposizione nel fronteggiare il ddl costituzionale per la modifica dell’ordinamento giudiziario. Ad esempio, secondo il Guardasigilli, “quanto al timore che il pm diventi un superpoliziotto, la risposta è assai semplice: nel sistema attuale esso è già un super poliziotto, con l’aggravante che, però, godendo delle stesse garanzie del giudice, egli esercita un potere immenso, senza alcuna reale responsabilità”. Per Nordio “oggi infatti il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea, attraverso la cosiddetta clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo, che può sottoporre una persona a indagini occulte, eterne e che, alla fine, creano disastri, anche finanziari, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, che sono irreparabili. Pensiamo a quante inchieste sono state inventate (nel vero senso della parola), si sono concluse con sentenze la cui formula è ‘il fatto non sussiste’ e sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, in tempi, in ore di lavoro perdute e in altro”. Sul tema poi ha assicurato “Completeremo l’iter entro l’estate”. Il Ministro poi ha rivendicato “grandi risultati raggiunti” sulla “riduzione degli arretrati, in relazione anche agli impegni che abbiamo preso con il Pnrr”. Invece nessuna parola sui suicidi in carcere, già arrivati a 9 dall’inizio del 2025. Sul sovraffollamento la solita litania: “Per quanto riguarda la riduzione del cosiddetto sovraffollamento carcerario, noi stiamo agendo in tre direzioni, esclusi i provvedimenti di amnistia o di scarcerazione lineare, che manifesterebbero una debolezza da parte dello Stato; si può essere generosi quando si è forti, non quando si è costretti dalla necessità delle cose”. Le tre direzioni? “Eventuale detenzione differenziata per i tossicodipendenti”, “espulsione di extracomunitari che già dovrebbero essere espulsi, ma che ancora non lo sono per ragioni burocratiche di lentezza della magistratura di sorveglianza, alla quale va tutta la mia gratitudine”, “Stiamo poi agendo nei confronti della carcerazione preventiva”. Soluzioni prospettate da tempo ma mai messe in atto. Nel dibattito parlamentare seguito all’illustrazione della Relazione le opposizioni sono andate all’attacco. Per la vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando, “Quel tanto di velocizzazione sui tempi del processo, di cui il governo si fa vanto, è dovuto alle riforme Cartabia approvate nella scorsa legislatura. Inoltre si stanno ancora utilizzando le risorse del Pnrr, ma non c’è nessun piano, nessun progetto su investimenti strutturali, che invece voi continuate a tagliare. Ancora, più carcere e intercettazioni, ma non per tutti, solo per alcuni e solo per alcune tipologie di reato, come il rave, non per corruzione e mafia. In compenso registriamo tagli ai fondi della magistratura onoraria, alla giustizia riparativa e al fondo assolti. Non soltanto non state contrastando le disuguaglianze, ma state costruendo un sistema di disuguaglianze”. Anche la magistratura si è espressa. Per Giovanni Zaccaro, Segretario di AreaDg, “il ministro continua a citare esempi virtuosi di sorteggi ma allora dovrebbe applicare queste regole non solo al Csm ma a tutti gli organi costituzionali di garanzia”. Insomma, “come sempre, citazioni colte, enfasi retorica ma - conclude il segretario dell’associazione che riunisce le toghe progressiste - nessuna idea, nessun progetto per fare funzionare meglio la giustizia”. Nordio: ecco le nostre misure per contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere gnewsonline.it, 23 gennaio 2025 “Non è vero che non si è fatto nulla contro i suicidi” ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio nella sua replica in Aula alla Camera, dove nel pomeriggio è stata presentata la Relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2024. “Il Ministero della Giustizia ha procurato un’integrazione di risorse pari a 5 milioni di euro per l’osservazione psicologica - ha proseguito Nordio - fondamentale per trovare i segnali di allarme in queste situazioni”. Pertanto, per l’esercizio finanziario corrente le risorse sono state più che triplicate rispetto al 2023: nel totale sono stati stanziati 14.461.000 euro, a fronte di 4.491.000, anche e soprattutto nell’ottica della prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari. Il 14 marzo 2023, inoltre, è stato istituito uno specifico Gruppo di lavoro per lo studio e l’analisi degli eventi suicidari delle persone detenute, con il compito di definire protocolli operativi ed elaborare momenti di formazione per il personale penitenziario, proprio allo scopo di tutelare la salute psico-fisica e prevenire il rischio suicidario. Con la circolare del 12 febbraio 2024 “Fenomeno suicidario. Azioni di prevenzione in ambiente penitenziario” si è voluto ulteriormente sensibilizzare i provveditorati regionali e i direttori penitenziari nel coinvolgimento di tutti coloro che operano negli istituti e sono quotidianamente a contatto con i detenuti, affinché si prosegua in tutte le azioni utili: dall’osservanza delle disposizioni sulle regole di accoglienza e monitoraggio di detenuti, allo studio approfondito degli atti processuali a disposizione nel fascicolo del detenuto e lo studio e l’analisi della personalità dei singoli nell’ambito dell’osservazione e del trattamento, utili per attivare misure preventive atte ad arginare questo fenomeno. Il 15 febbraio 2024, con una nota indirizzata all’Ispettore generale dei Cappellani penitenziari, è stata sollecitata la loro collaborazione così come quella di volontari, religiosi e psicologi, che quotidianamente svolgono la propria missione, perché sappiano cogliere con il dialogo e l’incontro i segni del malessere e il disagio dei reclusi, segnalandoli tempestivamente. “È un fardello di dolore che ci portiamo tutti appresso ma sul fenomeno dei suicidi ce la stiamo mettendo tutta” ha concluso il Ministro Nordio. Celle sovraffollate, il nodo extracomunitari. Nordio: “Vanno espulsi, ma la burocrazia è lenta” di Francesco Grignetti La Stampa, 23 gennaio 2025 No amnistie o provvedimenti svuota-carceri: nell’anno record per suicidi in cella, il ministro Carlo Nordio insiste sull’ampliamento dei penitenziari. Mancano almeno 15mila posti e se va bene nei prossimi anni ne arriveranno appena 7mila. Nel frattempo la popolazione carceraria aumenterà ancor di più, ma tant’è. Tutta colpa degli stranieri: “Vi è un’alta percentuale, molto alta, di persone extracomunitarie. Ciò dovrebbe farci riflettere, anche se non è questo il momento di farlo, sulla ragione della distonia tra carcerati cittadini italiani e provenienti da altri Paesi”. Una soluzione sarebbe quella di rispedire questi stranieri a casa loro con decisione unilaterale. Ma non ci si riesce. Nordio anziché ammettere lo scacco (non foss’altro perché i Paesi d’origine rifiutano di riprendersi i criminali), addita la “solita” cattiva magistratura. Continuano a restare in cella, infatti, “extracomunitari che già dovrebbero essere espulsi, ma che ancora non lo sono per ragioni burocratiche di lentezza della magistratura di sorveglianza”. Per quanto riguarda il sovraffollamento nelle carceri minorili, “è conseguenza anche dell’aumento esponenziale dei detenuti stranieri, in larghissima maggioranza minori stranieri non accompagnati”. Si riferisce a giovani magrebini, “spesso assuntori di sostanze stupefacenti e/o psico-farmaci. Con problematiche comportamentali tali, anche di natura post-traumatica. Giunti in Italia, vengono fagocitati dal circuito illecito”. Bando ai buoni sentimenti. “Il tema centrale dell’attività in campo penitenziario è stata e sarà la sicurezza nelle carceri”. Perciò gli investimenti maggiori riguardano la polizia penitenziaria, gli organici, le dotazioni (si citano: scudi, guanti anti-taglio, uniformi, giubbotti antiproiettile), l’istituzione di un Gruppo d’intervento operativo per reprimere le rivolte. Né si può dimenticare il reato in discussione di “rivolta carceraria” per punire chi si ribella con violenza e chi fa resistenza passiva. Nel documento depositato alle Camere si riferisce che sono stati stanziati “166 milioni relativi a 21 interventi sbloccando interventi fermi da anni come la costruzione del nuovo carcere di Forlì, di quello di San Vito al Tagliamento e l’ampliamento di Brescia-Verziano”. Con i soldi del Pnrr, poi, “al 30 novembre 2024, sono state aggiudicate le procedure di esecuzione lavori per 11 interventi su 12 relativi alla realizzazione di padiglioni detentivi”. Ci sarebbe all’opera da quattro mesi anche un commissario straordinario all’edilizia carceraria, il dottor Marco Doglio. Ha dodici mesi per fare il miracolo di moltiplicare le celle, ma senza farsi illusioni. Dice il ministro: “Costruire un nuovo carcere in Italia è impresa quasi impossibile, per cui dobbiamo piuttosto rivolgerci alla rimodulazione e all’adattamento di strutture esistenti”. Non solo rieducazione né solo impiego. Lo sguardo giusto sul lavoro in carcere di Francesco Rotondi* Avvenire, 23 gennaio 2025 Il confronto politico e sociale, così come purtroppo la cronaca, non smettono di portare al centro del dibattito pubblico il tema delle carceri. La condizione della detenzione in un Paese dalla solida tradizione democratica e con uno spiccato senso dell’etica collettiva non può limitarsi all’analisi - per quanto rilevante - dei fenomeni dal punto di vista numerico. I dati - sebbene non esaustivi - testimoniano che il nostro sistema carcerario registra circa 61mila persone in stato di detenzione, la metà dei quali stranieri, e il 4,3% donne: ciò a fronte di una capienza delle strutture di circa 51.700 posti. Dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane circa 6 mila usciranno dallo stato di detenzione entro un anno, e il 35,7% ha un fine pena al più paria 4 anni. Occorre anche aggiungere che nel 2024 si sono verificati 89 suicidi di detenuti oltre a 7 agenti. Su questi numeri si sviluppa il confronto fra l’opposizione e la maggioranza di governo che ha recentemente annunciato il proprio impegno per rendere disponibili 7mila nuovi posti nelle carceri nel prossimo triennio. Occorre - ad avviso di chi scrive - superare la logica dei freddi numeri per accogliere un approccio che sia all’altezza della delicatezza e complessità del tema. La prima questione a venire in rilievo in una visione costituzionalmente orientata sembra quella del rapporto fra lavoro e stato di detenzione: non però nell’accezione puramente economicista che si rifà al filone del lavoro carcerario obbligatorio sotto-remunerato a vantaggio di imprese private, o dei lavori socialmente utili, ma nel senso di un legame con la funzione rieducativa della pena e alla dignità della persona attraverso il lavoro. In questa logica il lavoro può e deve rappresentare la leva perché la detenzione svolga la funzione rieducativa che la Costituzione gli riconosce, ma anche come strumento di riscatto sociale e di recupero dei valori etici che presiedono alla vita nella nostra società. Non deve essere dimenticata la dimensione economica e di pubblico interesse del lavoro, sicché esso non rappresenti solo la vittoria o la via di redenzione del lavoratore contro i propri errori del passato, ma anche uno strumento utile al mercato del lavoro e quindi alla collettività. In questo senso, un modo di rappresentare questi percorsi virtuosi potrebbe essere quello di considerare quel 35,7% di detenuti che nei prossimi 4 anni avranno finito di scontare la pena, come un bacino utile per fare fronte al mismatch di competenze o alla situazione di people scarcity che affligge il nostro Paese, specialmente in alcuni settori - ad esempio quello turistico alberghiero e della ristorazione - e in particolari periodi dell’anno. Il progetto sarebbe affascinante e meritevole di tutta l’attenzione della società e della politica; ma richiede altresì un sano realismo, affatto contrario alla dottrina sociale della Chiesa: a tal proposito dovendosi tenere in adeguata considerazione, da un lato, la domanda di sicurezza che proviene dai cittadini, e dall’altro le oggettive difficoltà che s’incontrano nel ricollocare in maniera ottimale una quota significativa della popolazione carceraria. In sintesi, il punto di partenza di questo percorso sta nel valorizzare in senso costruttivo il rapporto fra stato detentivo, formazione e lavoro; nella consapevolezza che la sfida potrà vincersi solo considerando questa parte della società come una risorsa. *Consigliere esperto Cnel Convertire in carceri i Centri per migranti in Albania è impossibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2025 Secondo Antigone se il Governo dovesse convertire in carceri i Centri di Shëngjin e Gjader l’Italia violerebbe numerosi diritti fondamentali sanciti della Carta. Il progetto del Governo di mandare i migranti nei Centri in Albania è sicuramente congelato. Di fronte alle difficoltà di implementazione del Protocollo Italia- Albania (che prevede il trasferimento in Albania, per identificazione e valutazione delle richieste di asilo, dei migranti soccorsi dalle autorità italiane in mare), tempo fa il presidente di Italia Viva, Matteo Renzi, aveva proposto un’idea - per ora respinta dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni - riguardante la conversione dei centri albanesi in vere e proprie carceri in cui trasferire detenuti di nazionalità albanese attualmente reclusi in istituti penitenziari italiani. Comunque sia, anche questo piano appare altrettanto problematico. Secondo Antigone, tale proposta presenta numerosi profili di criticità sia sul piano giuridico sia su quello dei diritti umani, risultando profondamente contraria ai principi di non discriminazione e al rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute. L’ipotetica costruzione di carceri italiane in Albania richiama alla memoria il controverso accordo siglato tra Danimarca e Kosovo nel 2021. In quell’occasione, i due governi stabilirono che 300 detenuti, già in esecuzione della pena nelle carceri danesi, sarebbero stati trasferiti nel carcere di Gjilan, in Kosovo. L’accordo prevedeva l’avvio delle operazioni dal primo trimestre del 2023 per una durata iniziale di cinque anni, rinnovabili, con un contributo annuo di 15 milioni di euro e un pagamento iniziale di 5 milioni destinato all’adattamento delle strutture. Pur stabilendo che “il Regno di Danimarca sarà responsabile dell’esecuzione delle sentenze secondo le leggi e le obbligazioni internazionali del Regno”, il testo lasciava aperte numerose questioni, come la responsabilità per i comportamenti dei detenuti e del personale di custodia, nonché la nazionalità degli addetti. Era chiaro che il trasferimento avrebbe riguardato esclusivamente detenuti stranieri, escludendo i cittadini danesi, che sarebbero rimasti entro i confini nazionali. Inoltre, i detenuti trasferiti avrebbero dovuto rientrare in Danimarca al termine della pena per essere successivamente espulsi verso i Paesi d’origine. Antigone, insieme alla World Organisation Against Torture (Omct), all’European Prison Observatory e all’International Rehabilitation Council for Torture Victims (Irct), aveva già evidenziato le principali criticità legate a un progetto di outsourcing penitenziario di questo tipo, sottolineando che gli obblighi in materia di diritti umani non possono essere esternalizzati. A tre anni dalla firma dell’accordo, il progetto non è ancora stato completamente realizzato. Analogamente, nel caso italiano, le complessità giuridiche e operative potrebbero creare un pericoloso precedente. Se, per ipotesi, il governo dovesse convertire in carceri i centri di Shëngjin e Gjader, costati oltre 670 milioni di euro, secondo Antigone tale delocalizzazione carceraria violerebbe numerosi diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) e dalle regole internazionali, come le Mandela Rules. Partiamo dal diritto alla rieducazione e dal principio di non discriminazione. L’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato. Secondo Antigone, in un carcere albanese mancherebbero le infrastrutture e i programmi necessari per garantire un trattamento rieducativo efficace. Inoltre, le dure condizioni delle carceri albanesi, già criticate dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt), configurerebbero una discriminazione rispetto ai detenuti che scontano la pena in Italia. C’è anche il diritto alle relazioni affettive. Il mantenimento dei rapporti con i familiari è sancito dalla Cedu e dall’articolo 42 dell’ordinamento penitenziario italiano. Tuttavia, molti detenuti albanesi in Italia hanno legami familiari e sociali sul territorio italiano, che verrebbero compromessi da un trasferimento in Albania. Senza dimenticare il diritto alla salute. Dal 2008, la sanità penitenziaria italiana è integrata nel Sistema Sanitario Nazionale, garantendo parità di trattamento tra cittadini liberi e detenuti. In Albania, queste garanzie non potrebbero essere rispettate, aprendo la strada a gravi disparità e possibili violazioni. C’è il diritto all’istruzione e al lavoro. Elementi essenziali del trattamento rieducativo, l’istruzione e il lavoro potrebbero non essere garantiti. La mancanza di un sistema educativo e lavorativo strutturato comprometterebbe il reinserimento sociale dei detenuti. Ma l’aspetto ancora più grave è la difficoltà di rendere praticabile il sacrosanto diritto alla difesa. L’articolo 6 della Cedu sancisce il principio di legalità e, con esso, il diritto alla difesa. La Direttiva 2013/ 48/ UE stabilisce inoltre il diritto a essere assistiti da un avvocato durante i procedimenti penali, a informare un terzo in caso di privazione della libertà personale e a comunicare con le autorità consolari. La Costituzione italiana, all’articolo 24, riconosce il diritto di difesa come inviolabile in ogni fase del procedimento, e la Corte Costituzionale lo ha definito un diritto supremo per le persone detenute (Sentenze n. 143/ 2013 e n. 18/ 2022). Il trasferimento di detenuti albanesi in un carcere italiano situato in Albania potrebbe limitare significativamente l’esercizio di questo diritto, specialmente per chi non è ancora stato condannato in via definitiva. Anche per i condannati in via definitiva potrebbero sorgere difficoltà nel ricevere supporto legale per questioni legate all’esecuzione della pena o per denunciare abusi e violenze. Infine, c’è il discorso della magistratura di sorveglianza, che avrebbe difficoltà a esercitare efficacemente il proprio ruolo in un contesto estero. Sebbene si affermi che le carceri situate in Albania sarebbero sotto giurisdizione italiana, è probabile che si crei una situazione di giurisdizione concorrente con quella albanese. La Corte Costituzionale albanese, riguardo ai centri di Shëngjin e Gjader per migranti, ha stabilito che la giurisdizione albanese continua a valere, coesistendo con quella italiana in materia di asilo. Questo suggerisce che, in caso di trasferimento di detenuti, la giurisdizione italiana potrebbe subire limitazioni, specialmente se fossero in gioco diritti fondamentali. Lo stesso discorso vale per le autorità di garanzia territoriali e nazionali, che potrebbero incontrare difficoltà nel garantire la tutela dei diritti delle persone detenute in un contesto simile. Come propone Antigone nel documento, piuttosto che destinare decine di milioni di euro all’apertura di un carcere italiano in Albania, tali risorse potrebbero essere impiegate per migliorare le condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane. Gli elevati costi legati al trasferimento dei detenuti, al personale penitenziario in missione, agli spostamenti dei magistrati di sorveglianza e degli altri operatori legali potrebbero invece essere utilizzati per assumere nuovo personale negli istituti penitenziari italiani, rafforzando le attività rieducative e migliorando le infrastrutture esistenti. Una simile scelta permetterebbe non solo di risolvere alcune delle criticità attuali del sistema penitenziario italiano, ma anche di garantire un trattamento più equo e rispettoso dei diritti fondamentali per tutte le persone coinvolte. Nelle carceri privazione dell’affettività e deumanizzazione di Rossella Faella napolimonitor.it, 23 gennaio 2025 Quello dell’affettività in carcere è un tema cruciale e ampio, che ingloba questioni come lo spazio dato ai legami personali dentro le mura degli istituti, le pratiche che sostengono o negano queste relazioni, le dinamiche e i rapporti di potere che le modellano. Non è solo una questione di diritti da rivendicare, ma di comprendere come questo diritto costituisca un terreno complesso e significativo, un intreccio di dinamiche di esclusione, pratiche di controllo e indisponibilità all’ascolto di istanze di semplice umanità. L’espansione in termini quantitativi e l’estensione delle funzioni del carcere, lo configura ogni giorno di più come luogo di marginalità, spazio in cui vengono sospesi non solo i corpi, ma anche le relazioni: i detenuti vivono in un sistema finalizzato ad allontanare se non a recidere i legami affettivi, sfilacciati, ridotti - come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia - a pochi momenti privi di privacy, “che spesso non bastano neppure per mantenere vivo un rapporto”. Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la Corte Costituzionale aveva sottolineato l’importanza di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività, chiedendo al governo di intervenire per regolare questa materia. La Corte affermava che negare del tutto l’intimità e i legami affettivi costituiva una violazione della dignità umana, in contrasto quindi con la funzione costituzionale della pena. Da allora non ci sono stati interventi legislativi in questa direzione, così dodici anni dopo, nel 2024, la Corte ha fatto un ulteriore passo avanti, dichiarando incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impediva ai detenuti di avere colloqui intimi con il coniuge, il partner dell’unione civile o la persona convivente senza la sorveglianza del personale di custodia. Ero in carcere, quella mattina del gennaio di un anno fa, quando la notizia fece ingresso nel femminile di Pozzuoli. Alcune detenute immaginarono, insieme a me e alle altre operatrici di Antigone presenti, quel momento tanto sognato: quella sentenza non rappresentava solo un diritto riconosciuto, ma una flebile speranza di recuperare un pezzetto di umanità che credevano perduto. Per altre, invece, l’idea di non essere controllate a vista dal personale penitenziario era un’eventualità remota, una possibilità mai presa in considerazione, accolta con una certa diffidenza e scetticismo. La decisione della Corte si basa sui principi fondamentali della Costituzione, richiamando l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza davanti alla legge), l’articolo 27 (sulla funzione della pena) e l’articolo 117, legato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta ha sottolineato come la privazione del diritto all’affettività non sia giustificabile, e contribuisca a rendere il carcere un luogo ancora più desocializzante e deumanizzante: la negazione di una dimensione così essenziale non solo aliena gli individui, ma taglia ogni filo con la società, spingendoli a vivere in una realtà priva di legami autentici. Va sottolineato, in questo senso, che l’Italia resta agli ultimi posti in Europa sul sostegno ai legami affettivi dei detenuti (paesi come Francia, Olanda e Romania offrono già da tempo possibilità di incontri intimi in contesti riservati). Un tabù che sembra avere radici anche più resistenti degli interventi della Consulta: può capitare, per esempio, che un magistrato di sorveglianza - è successo a Torino - dichiari inammissibile il reclamo di un detenuto del carcere di Asti che aveva richiesto di poter effettuare un colloquio intimo con sua moglie, sterilizzando l’orientamento della Corte Costituzionale e sollevando dubbi sulla capacità del sistema giuridico di tradurre i principi sanciti dalla Consulta in diritti concretamente esigibili (a risolvere la situazione è dovuta intervenire la Corte di Cassazione, ribadendo che il diritto ai colloqui intimi non può essere ridotto a “una semplice aspettativa”: questo tipo di relazione rappresenta infatti una legittima espressione del diritto all’affettività e alla cura dei legami familiari, limitabili solo per ragioni di sicurezza, ordine o esigenze giudiziarie). Considerando il livello di sovraffollamento delle carceri, il quadro è anche quantitativamente critico: ci sono in Italia oltre sessantamila persone detenute, a cui vanno aggiunti i rispettivi partner, per le cui affettività e sessualità sembra non esserci né spazio né interesse. Parliamo, è bene ribadirlo a oltranza, di una dimensione essenziale, capace di caratterizzare (basta citare anche solo l’enciclopedia Treccani) “le tendenze e le reazioni psichiche di un individuo”. La repressione totale di questa dimensione, in un contesto come quello carcerario, risulta totale. Michele Esposito, in una sua analisi sul numero zero di Ristretti Orizzonti, ha osservato come la soppressione dell’espressione affettiva e sessuale dell’individuo non solo ne aggravi le condizioni fisiche e psichiche, ma danneggi anche la sua vita familiare e sociale: “Di tutti gli aspetti volutamente negativi che il carcere infligge, questo è certamente il peggiore e, alla lunga, il più deleterio per la psiche di una persona, perché distrugge la vita affettiva del detenuto e delle persone a lui legate, e quindi anche l’istituzione della famiglia”. La dimensione dell’affettività non investe infatti solo la vita di coppia e l’aspetto sessuale: riguarda anche le relazioni tra il detenuto o la detenuta con i propri figli, e la tutela della bigenitorialità, intesa come il diritto del figlio di conservare un rapporto equilibrato e continuativo sia con la figura paterna che con quella materna, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambe. Ancora Favero ha spiegato come l’affettività comprenda anche momenti di condivisione e quotidianità essenziali per il benessere psicologico di un detenuto e per mantenere i legami familiari, mostrando come anche la semplice possibilità di pranzare con i propri familiari, in quanto semplice atto di condivisione, possa rappresentare un momento di contatto umano essenziale per salvaguardare un certo grado di benessere psicologico nei detenuti, e aiutare a mantenere saldi i legami affettivi anche in un contesto di privazione della libertà. A dispetto delle aperture legislative, tuttavia, la realizzazione del diritto all’affettività in carcere resta un obiettivo ambizioso e lontano. L’assenza di una normativa organica che disciplini le modalità di esercizio di questo diritto continua a lasciare spazio a interpretazioni restrittive e discrezionali, subordinando i diritti fondamentali a logiche premiali. Al momento, l’unica possibilità per i detenuti di vivere la propria intimità durante la detenzione è legata ai permessi premio, che, sebbene non concepiti per soddisfare tale esigenza, finiscono per assolvere a tale funzione (un meccanismo che naturalmente esclude una grande parte della popolazione carceraria, perpetuando una disparità di trattamento che comprime ulteriormente la dignità umana). Occorre invece un intervento legislativo chiaro e coraggioso che superi le logiche di concessione condizionata e riconosca questo diritto come un elemento da tutelare a ogni costo durante l’esecuzione della pena, integrandolo come principio all’interno del sistema penitenziario italiano. La privazione sistematica di legami affettivi e intimi non è solo contraria alla Costituzione, ma è anche una delle pratiche più violente di questo sistema, capace di palesare la vera funzione del carcere, dispositivo di controllo le cui armi principali sono marginalizzazione e deumanizzazione dell’individuo. Nordio: “Separazione delle carriere entro l’estate, obbligo verso gli elettori” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2025 Nel corso della Relazione annuale il ministro ha detto che la giustizia civile che muove il 2% del Pil sta avendo una formidabile accelerazione. “Il Ddl di riforma costituzionale volto a separare le carriere dei magistrati, per i quali vengono istituti due Consigli superiori, oltre all’alta Corte disciplinare, è promanato direttamente dal programma elettorale, perché la riforma della giustizia era tra i primi punti del programma, era un obbligo, un dovere verso gli elettori. Concluderemo l’iter in prima e seconda lettura entro l’estate”. Così il Ministro Nordio al Senato nel corso della Relazione annuale sull’amministrazione della giustizia del 2024. “La riforma - ha proseguito - esclude, come ho detto con conoscenza professionale e con impegno morale, l’assoggettamento del Pm all’esecutivo”. “E questo - ha proseguito - è garantito dalla norma positiva che attua il principio costituzionale del giusto processo che pone le parti in posizione di parità”. Quanto poi al pericolo che il Pm diventi un superpoliziotto, Nordio ha affermato: “Nel sistema attuale lo è già, con l’aggravante che avendo gli stessi potere del giudice, non ha sostanzialmente responsabilità, non solo dirige le indagini ma le crea attraverso la cd clonazione del fascicolo. Noi invece vogliamo che rimanga assolutamente indipendente dal potere esecutivo, ma vogliamo anche una migliore definizione dei tempi nei quali potrà intervenire ma questo potrà essere oggetto della riforma del processo penale”. “La cultura liberale della giurisdizione - ha concluso sul punto - è cosa ben diversa da quella della corporazione; l’unico processo che respingiamo è quello alle intenzioni”. Critiche le opposizioni. La senatrice Rossomando (PD-IDP) attacca: “Sulla separazione delle carriere lei dice: garantiremo l’approvazione in prima e seconda lettura entro l’estate. Signor Ministro, è una minaccia questa? È una minaccia al Parlamento: non toccheremo palla e non potremo discutere su una importante riforma costituzionale? È la prima volta che un disegno di legge costituzionale esce in prima lettura senza neanche una virgola di modifica e di contributo del Parlamento”. Corti di appello arretrati ridotti del 99% - “Con riguardo alla riduzione dell’arretrato civile pendente al 2019 - prosegue Nordio -, a fronte del target del Pnrr di riduzione del 95% entro dicembre 2024, al 31 ottobre del 2024 nelle Corti di Appello si registra una riduzione del 99,1%, e presso i tribunali vi è stata una riduzione del 91,7%”. “La giustizia civile - continua il Guardasigilli- sta avendo una formidabile accelerazione per merito anche della magistratura che si è impegnata a fondo, vorrei ricordare che la giustizia civile, che incide per il 2% del Pil, prima o dopo tocca ognuno di noi, per una causa condominiale, di divorzio, lavoro, sui confini; nel penale per fortuna poche sono le persone raggiunte da un avviso di garanzia”. Riguardo la riduzione dei tempi del processo, il cd. disposition time, Nordio ha ricordato che nel primo semestre del 2024 vi è stata una riduzione del 22,9% nel settore civile e del 32% in quello penale. “Vi assicuro - ha aggiunto - che mai si era lavorato tanto raggiungendo tanti risultati di cui purtroppo nessuno è venuto a conoscenza”. Sui procedimenti civili pendenti al 31 dicembre 2022, gli ultimi dati disponibili fino ad ottobre scorso segnalano una riduzione del 70,3% per i Tribunali e del 66,8% per le Corti di Appello”. I principali provvedimenti - “Molto è stato fatto dal nostro Ministero nel 2024 - ha aggiunto - e la permanenza in carica per tutta la durata della Legislatura, evento mai verificato, è un elemento di forza e stabilità e corrobora la certezza del quadro giuridico”. “Taglio perché vi è una tale marea di provvedimenti efficaci”. “Purtroppo - ha proseguito - le notizie nella maggior parte dei casi riguardano le polemiche, l’80% del lavoro del Ministero però è diretto all’efficientamento della giustizia ma è rimasto oscuro”. Nordio ha poi ricordato le principali misure del 2024 tutte ispirate “a nuove forme di protezione per la sicurezza e al contrasto alla immigrazione clandestina, rafforzando però nel contempo le garanzie per chi è sottoposto a indagini penali”. Il Ministro ha poi citato fra i principali risultati il Protocollo Italia-Albania sui migranti, le misure in materia di Cybersicurezza, il Dl in materia penitenziaria con la previsione di un commissario straordinario, “una grande novità”. E poi l’abrogazione dell’abuso ufficio che “ha ridato serenità a molti amministratori”. Rafforzate le garanzie degli indagati nell’ambito delle intercettazioni senza vulnerare la lotta a mafia e terrorismo. Organici magistratura al completo nel 2026 - “Per la prima volta, entro il 2026, colmeremo il numero dei magistrati, che era carente del 20%; avrà effetti benefici sui processi”. Nordio ha poi ricordato l’avvio “positivo del progetto Pinto Paga”. Un progetto, ha spiegato, volto ad “azzerare l’arretrato degli indennizzi” che lo Stato deve pagare per l’eccessiva durata del processo. “Ad oggi - ha detto - il dovuto ammonta a 300milioni di euro per 62mila decreti emessi dalle Corte di appello, “con interessi molto cospicui; accelerando i pagamenti pagheremo anche molti meno interessi”. Processo penale telematico - Riguardo alle difficoltà del processo penale telematico che ha portato diversi Tribunali e procure a sospendere l’applicativo ha ammesso che “si sono create delle criticità” aggiungendo però che “entro la fine dell’anno verranno completamente superate, e rientreremo nei ranghi di quelli che sono i progetti e i vincoli del PNRR”. “Quindi, confido che grazie alla fattiva e leale collaborazione tra il Ministero della giustizia e gli uffici giudiziari si potrà registrare presto il completo venir meno delle ragioni che hanno comportato l’adozione di provvedimenti di sospensione dell’obbligatorietà del processo penale telematico”. Carceri - “Noi stiamo agendo in tre direzioni. La prima è quella di un’eventuale detenzione differenziata per i tossicodipendenti, almeno quelli imputati di reati minori. La seconda è quella dell’espulsione di extracomunitari. Stiamo poi agendo nei confronti della carcerazione preventiva; abbiamo il 20 per cento di detenuti che sono in attesa di processo. È una delle contraddizioni del nostro sistema penale”. Il Ministro ha poi fornito i numeri. Alla fine del 2024 il numero complessivo di detenuti era pari a 61.861, di cui 59.163 uomini e 2.689 donne. “Vi è un’alta percentuale - molto alta - di persone extracomunitarie. Questo dovrebbe farci riflettere”. Sulla giustizia di comunità e la giustizia riparativa su un totale di circa 62.000 detenuti negli istituti penitenziari, vi erano 46.000 persone in espiazione di pena e 1.300 di queste in condizioni di semilibertà. “Ora - ha spiegato Nordio - a fronte di 62.000 detenuti complessivi, di cui 46.000 condannati in via definitiva, vi erano 60.000 persone che stavano espiando una pena con modalità differenti dalla tradizionale detenzione intramuraria, alle quali aggiungere ulteriori 26.000 persone sottoposte alla misura della messa in prova. Questo per dire che il nostro sistema non è, come si dice, carcerocentrico al 100 per cento. Rossomando: flop Ppt - Intervenendo in replica la senatrice Pd Rossamando parla di “flop telematico nel penale”, e della magistratura onoraria che “è al collasso” con un “deficit impressionante di magistrati e di giudici di pace: a Torino c’è il 94 per cento dello scoperto. Ma quali sono le risposte di questo Esecutivo, di questa maggioranza, di questo Governo? Tagli. Tagli ai fondi per la magistratura onoraria, tagli alla giustizia riparativa, tagli ai fondi per gli assolti a seguito di un processo”. Mentre, prosegue Rossomando, “quel tanto di velocizzazione sui tempi del processo, di cui vi fate vanto, è dovuto alle riforme Cartabia approvate nella scorsa legislatura”. Sul sovraffollamento nelle carceri nessun ragionamento sulla liberazione anticipata: “l’unico intervento che avete fatto l’ha complicata e non ha dato assolutamente alcun risultato. Più reati, più carcere, più intercettazioni. Attenzione, però, perché tutto questo è solo per alcune categorie di autori del reato, mica per tutti. Più intercettazioni per il rave. In compenso, penalizzazione delle intercettazioni per tutti quei reati che servono, invece, a indagare su corruzione e mafia. Lì, invece, niente”. Nordio: “Porto a termine la rivoluzione di Vassalli”. Il Pd replica: “Hai solo aumentato i reati” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 gennaio 2025 Il guardasigilli espone in Parlamento la relazione annuale sulla giustizia e difende la separazione delle carriere. “Rischi di creare un pm superpoliziotto? È ora che gli inquirenti sono fuori controllo”. Più che una “Relazione annuale sull’amministrazione della giustizia”, quella esposta oggi dal guardasigilli Carlo Nordio prima al Senato e poi alla Camera è stata una difesa della riforma sulla separazione delle carriere da poco approvata a Montecitorio, o meglio un attacco ai detrattori e alla loro “enfasi apocalittica di radicati pregiudizi”. Secondo il ministro “l’unico processo che noi respingiamo è quello alle intenzioni: non si può continuare a dire che c’è l’intenzione di sottoporre il pm all’Esecutivo quando la legge costituzionale da noi proposta lo esclude, apertis verbis, in via assoluta”. Nordio ha ribadito: “Proseguiremo nella piena attuazione del sistema accusatorio all’interno del sistema processuale penale, ripristinando l’impianto del codice firmato da Giuliano Vassalli nel 1989, in sostituzione di quello di Alfredo Rocco e Benito Mussolini”. Poi il duro attacco alla magistratura requirente: “Quanto poi al timore che il pm diventi un superpoliziotto, la risposta è assai semplice: nel sistema attuale esso è già un super poliziotto, con l’aggravante che, però, godendo delle stesse garanzie del giudice, egli esercita un potere immenso, senza alcuna reale responsabilità. Oggi infatti il pm non solo dirige le indagini, ma addirittura le crea, attraverso la cosiddetta clonazione del fascicolo, svincolata da qualsiasi parametro e da qualsiasi controllo, che può sottoporre una persona a indagini occulte, eterne e che, alla fine, creano disastri, anche finanziari, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, irreparabili. Pensiamo a quante inchieste sono state inventate, nel vero senso della parola, si sono concluse con sentenze la cui formula è ‘il fatto non sussiste’ e sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, in tempi, in ore di lavoro perdute”. Il responsabile di Via Arenula ha poi espresso soddisfazione per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio “che ha ridato serenità a moltissimi amministratori. Si sono rafforzate poi le garanzie degli indagati e dei terzi nel delicato settore delle intercettazioni e delle misure cautelari, senza vulnerare, lo ripeto ancora una volta, quelle che sono le indispensabili forme d’indagine nei confronti di criminalità organizzata, mafia e terrorismo”. Ha parlato poi di “grandi risultati raggiunti” per la “riduzione degli arretrati, in relazione anche agli impegni che abbiamo preso con il Pnrr”. Riguardo all’amministrazione penitenziaria, il guardasigilli ha ripetuto quello che sostiene da mesi e mesi: “Per quanto riguarda la riduzione del cosiddetto sovraffollamento carcerario, noi stiamo agendo in tre direzioni, esclusi i provvedimenti di amnistia o di scarcerazione lineare, che manifesterebbero una debolezza da parte dello Stato, perché si può essere generosi quando si è forti, non quando si è costretti dalla necessità”. Le tre direzioni sarebbero piuttosto, per Nordio, “eventuale detenzione differenziata per i tossicodipendenti”, “espulsione di extracomunitari che già dovrebbero essere espulsi, ma che ancora non lo sono per ragioni burocratiche di lentezza della magistratura di sorveglianza, alla quale va tutta la mia gratitudine”, e modifiche sulla “carcerazione preventiva”, per le quali “stiamo già agendo”. Il ministro ha poi concluso: “Lo Stato liberale, nel quale noi crediamo, si propone di affrancare il cittadino dall’abbraccio soffocante dello Stato, di favorirne l’avvicinamento attraverso una semplificazione dei diritti e dei doveri e, per quanto riguarda il nostro caso, la giustizia penale, di attuare il garantismo nella sua duplice funzione di presunzione di innocenza e di certezza della pena”. Proprio a partire da quest’ultimo punto gli ha replicato il senatore dem Walter Verini: “Lei ha rinnegato proclami garantisti, smentendo sue stesse dichiarazioni di principio, e ha indossato l’elmetto e l’armatura del peggiore populismo penale. Lei è il ministro che nella storia ha introdotto in così breve tempo il maggior numero di nuovi reati, gran parte dei quali legati al palinsesto televisivo: reati di strada, rave, imbrattatori. Di contro, ha messo la sua faccia e spesso la sua firma sull’indebolimento di presidi e norme di contrasto alla corruzione, alla criminalità organizzata e alle mafie. Invece di cooperare con la magistratura, l’avvocatura e tutte le componenti della giurisdizione per applicare le riforme e modernizzare il sistema giudiziario, ha scelto di dichiarare di nuovo guerra ai magistrati, alla loro indipendenza e alla separazione dei poteri”. Forza Italia, invece, per voce del capogruppo Giustizia a Palazzo Madama Pierantonio Zanettin, ha spronato il ministro ad andare avanti su altri provvedimenti: “A noi sta a cuore anche la grande riforma delle intercettazioni: una prima gamba è già divenuta legge col divieto assoluto di intercettare i colloqui tra avvocati e cliente. Attendono di completare l’iter parlamentare due importantissimi ddl già passati al vaglio del Senato: le nuove norme sul sequestro di smartphone e dispositivi digitali e la proroga delle intercettazioni per evitare il deprecabile fenomeno di quelle a strascico o meramente esplorative. Sulle modifiche relative al trojan, ministro, siamo in attesa di una sua iniziativa legislativa, motivo per cui abbiamo congelato la nostra, qui giacente in commissione Giustizia. È in attesa di calendarizzazione anche la modifica della prescrizione. Ricordo infine il ddl sui criteri di priorità dell’azione penale: anche su questo tema ci aspettiamo un’accelerazione da parte del governo”. Giudizio completamente positivo quello del senatore di FdI Sergio Rastrelli: “Con la riforma Nordio l’Italia torna ad essere uno Stato di diritto. Sui temi della giustizia, il governo ha realizzato interventi legislativi e ordinamentali che hanno consentito all’Italia di risollevarsi”. È arrivata anche la reazione della magistratura. Secondo Rossella Marro, presidente del gruppo centrista dell’Anm Unicost, “le parole pronunciate in Parlamento dal ministro Nordio sono inaccettabili e tradiscono il non detto della riforma costituzionale: ridurre l’indipendenza e le garanzie del pm. Il ministro parla di ‘clonazioni’ di fascicoli, di indagini ‘occulte ed eterne’, di ‘disastri finanziari’, tutte condotte che vengono individuate come prassi diffuse e condivise dalle Procure della Repubblica: sono affermazioni gravi e inaccettabili perché semplicemente non vere”. Nordio attacca le toghe ma è smemorato su Pnrr e sui suicidi in carcere di Giulia Merlo Il Domani, 23 gennaio 2025 Il ministro parla di pm “superpoliziotti” e definisce l’Anm una “corporazione”. Ma trascura le emergenze. Annullata la seduta di giovedì 23 per eleggere i quattro giudici costituzionali. Separazione delle carriere, nessuna amnistia e nuovi reati. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha relazionato sull’amministrazione della giustizia mettendo in luce i punti politici più caratterizzanti e prudentemente sorvolando sulle molte emergenze, ereditate e non risolte oppure provocate dal governo. Il guardasigilli ha scelto la linea dura soprattutto per rivendicare la separazione delle carriere, usando la sua quarantennale storia di pm come scudo alle critiche di vendetta nei confronti delle toghe. “Nessun assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo”, ha detto. Poi ha sapientemente affondato il colpo nei confronti della magistratura associata, che sarebbe pervasa dalla “cultura perniciosa della corporazione”, e ribadito che nel sistema attuale “il pm è già un super poliziotto, con l’aggravante che, godendo delle stesse garanzie del giudice, egli esercita un potere immenso senza alcuna reale responsabilità”. Tesi non nuove alla retorica di Nordio e pirotecnico antipasto dello scontro che si animerà venerdì e sabato, al momento dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in cui l’Anm ha annunciato proteste. Le amnesie - Nordio ha messo in luce quelli che considera i successi della sua attività di ministro: riduzione dell’arretrato civile e della durata dei processi civili penali e piani di assunzioni per magistrati, amministrativi e poliziotti penitenziari. In merito alla riduzione dell’arretrato e del disposition time, obiettivi nevralgici perché inseriti nel Pnrr, ci sono tuttavia alcuni nodi su cui il ministro ha sorvolato: quanto al civile, una delle strategie è quella di togliere i processi dai tribunali. Dal 31 ottobre 2025, infatti, entrerà in vigore l’aumento di competenza per i giudici di pace, i quali si occuperanno in via esclusiva sulla materia condominiale (storicamente ad alto tasso di litigiosità) e giudicheranno cause fino a a 50mila euro in caso di risarcimento danno. Una strada, questa, che è stata oggetto di forti critiche da parte dell’avvocatura, contraria alla degiurisdizionalizzazione di questa grande mole di procedimenti ma anche preoccupata perché gli uffici dei giudici di pace sono a corto di personale e di mezzi, oltre che indietro a livello tecnologico. Per quanto riguarda il penale, inoltre, l’altro pilastro previsto dal Pnrr è la digitalizzazione del processo: l’App - l’applicativo ministeriale - è entrato in uso a inizio anno e dopo qualche giorno già si è rivelato inutilizzabile. “Queste novità tecnologiche hanno creato delle criticità, ma siamo certi che entro la fine dell’anno saranno completamente superate”, è stata la stringata relazione del ministro. La visione è ottimista, considerando che la delibera del Csm sottolinea che i malfunzionamenti “sono stati accertati in 87 tribunali” e l’obbligatorietà dell’utilizzo è stata “prevista senza adeguata sperimentazione”, sperando di “di correggere in corsa i numerosi difetti di progettazione e programmazione, confermando il grave vulnus”. Il carcere - La relazione ha affrontato anche l’emergenza carceraria e Nordio ha esordito rendicontando il numero di assunzioni di agenti della polizia penitenziaria. Esclusa categoricamente l’ipotesi di amnistia ma definendo anche “un’impresa quasi impossibile” la costruzione di nuove carceri (si parla di “adattamento di strutture già esistenti”), il ministro ha spiegato la sua strategia per ridurre “il cosiddetto” sovraffollamento carcerario: detenzione differenziata per i tossicodipendenti; espulsione dei detenuti extracomunitari e nuovi limiti alla carcerazione preventiva, che porta in carcere “il 20 per cento di detenuti in attesa di processo”. In realtà, per ora operativamente è stata avviata solo una mappatura delle potenziali strutture che potrebbero ospitare i tossicodipendenti. Nell’attesa che il ministero metta a terra queste strategie, tuttavia, il numero dei detenuti è aumentato a raggiungere un totale di circa 62mila detenuti e il 2024 è stato l’anno del numero record di 90 suicidi, con già 8 che si sono verificati nel 2025 (oltre il doppio di quelli avvenuti nello stesso periodo dell’anno scorso). La parola “suicidi”, tuttavia, non è nemmeno stata pronunciata nella relazione dal ministro. Altra amnesia ha riguardato la giustizia minorile. Nordio ha fissato al “termine dell’emergenza pandemica” il sovraffollamento delle carceri minorili, conseguenza secondo il ministro “anche dell’aumento esponenziale” di “minori stranieri non accompagnati”. In realtà, lo spartiacque temporale dell’esplosione del numero di minori in carcere, soprattutto in custodia cautelare, è stato il decreto Caivano fortemente voluto dal governo. L’effetto è stato un sovraffollamento del 110 per cento che mai si era verificato prima. Lo dimostrano i dati del report di Antigone: A ottobre 2022 i ragazzi detenuti erano 392. A settembre 2024, 569. E i problemi nel settore giustizia per il governo non sono finiti. Prosegue infatti l’impasse per la nomina dei quattro giudici costituzionali, tanto che è stata annullata la seduta comune fissata per giovedì 23 e spostata al 30 gennaio. Nodo irrisolto: il nome del giudice in quota Forza Italia e di quello di mediazione con le opposizioni. Carlo Nordio, il guardasigilli contro le toghe politicizzate di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 gennaio 2025 Il ministro Carlo Nordio non è uno da resistenza sulla linea del Piave come Borrelli. Le sue parole sono più da carica dei bersaglieri, tromba nelle mani e avanti di corsa. Così è apparso ieri al Senato per quella che doveva essere non più di una annuale, noiosa e spesso ripetitiva relazione sull’amministrazione della giustizia. Ma che invece questa volta è cascata in mezzo a una chiamata alle armi da parte della magistratura militante, pronta allo sciopero contro la separazione delle carriere e a manifestazioni in bilico tra le provocazioni pannelliane d’un tempo e la chiamata alla rivolta sociale di piazza di Maurizio Landini. Le ferite sono aperte - Il Guardasigilli non si sottrae. Ha fatto il compito e lo premiano i numeri sulla riduzione degli arretrati - sia nel settore civile che in quello penale - così come le assunzioni, il triplo di quanto ha saputo fare Alfonso Bonafede e il doppio di Marta Cartabia. Ma le ferite sono aperte, e lo spadone sguainato. Perché - nonostante il mondo liberale avrebbe preferito una riforma in cui la parte dell’accusa fosse svolta da un avvocato e non da un magistrato - per uno come Nordio è offensivo sospettare, come sta gridando a gran voce il sindacato delle toghe, che colui che quella stessa toga ha indossato per oltre 40 anni voglia un pm che risponde sul piano politico all’esecutivo. Il pubblico ministero all’italiana - Nordio conosce bene questo alieno che è il pubblico ministero all’italiana. Alieno per l’intero mondo occidentale, negli ordinamenti variamente configurati. Ma in nessuno dei quali esiste un soggetto dell’accusa totalmente “irresponsabile” e con un potere immenso. Uno che dovrebbe attendere la notizia di reato e invece se la va a cercare attraverso, come ha detto più volte il Guardasigilli, il “fascicolo clonato”. È la filosofia su cui nel passato si esercitarono a lungo i magistrati di Md, quando nella corrente esistevano ancora i garantisti, del “tipo d’autore”. Negli anni delle inchieste di terrorismo, un esempio di questa politica giudiziaria fu Toni Negri, il “cattivo maestro” accusato addirittura di aver organizzato il rapimento di Aldo Moro, pur essendone totalmente estraneo e lontano anni luce dai veri esecutori delle Brigate Rosse. Più di recente avevamo visto il caso del sindaco di Parma, Pietro Vignali (proprio ieri premiato dal leader di Forza Italia Antonio Tajani, che lo ha inserito nella segreteria del partito) e poi il vero scandalo del governatore della Regione Liguria, Giovanni Toti. Il meccanismo consiste nell’individuare una persona sospetta - quasi geneticamente - di essere portata a commettere una certa tipologia di reati, e poi di andare a cercarla. Con grande investimento di denaro e di intercettazioni. Il tutto accordato al pm dalla decisione, spesso passiva e subalterna, del giudice delle indagini preliminari. E voi mi dite - s’indigna Nordio nell’Aula del Senato - che noi abbiamo esercitato un’aggressione sulla magistratura! Sottinteso: siamo noi gli aggrediti. Ma noi riformiamo la giustizia, vostro malgrado. Forse un ripensamento sull’amnistia, anche piccola, da parte del ministro sarebbe utile nell’immediato. Sono già otto i suicidi nelle carceri dall’inizio dell’anno. Separare le carriere non guarisce la giustizia di Giuseppe Cascini Il Dubbio, 23 gennaio 2025 La Camera dei deputati ha approvato in prima lettura la riforma costituzionale in materia di ordinamento giudiziario proposta dal governo. I toni bellicisti e trionfalistici che hanno accompagnato la discussione, in uno con la “blindatura” del testo proposto dal governo, hanno reso certamente più difficile un confronto pacato e ragionato sulle tante questioni che quella riforma pone, sulle sue ragioni e sui suoi obiettivi. Sicuramente la riforma è espressione di un malessere profondo della classe politica nei confronti della magistratura, che, al netto di alcune provocazioni che trasudano uno spirito di vendetta e di rivalsa spesso legato a singole vicende, merita di essere analizzato e approfondito. Il primo tema è quello del funzionamento della macchina giudiziaria. I tempi lunghi delle procedure, la ipertrofia dei procedimenti, la difficile prevedibilità degli esiti dei giudizi sono all’origine di una grave crisi di credibilità del sistema giudiziario. Nel processo penale la centralità del dibattimento, immaginata dalla riforma del 1988, è rimasta una chimera e si è creato un oggettivo squilibrio in favore della fase delle indagini preliminari, con una enfatizzazione del ruolo, anche mediatico, del pubblico ministero. Esiste poi, oggettivamente, una crisi del sistema di governo autonomo, le cui gravi degenerazioni di carattere clientelare e corporativo sono di recente venute alla attenzione dell’opinione pubblica. Sullo sfondo, infine, più o meno dichiarato, vi è il tema del rapporto “conflittuale” tra magistratura e politica e della necessità di un “riequilibrio”, che consenta di ridurre l’invadenza del potere giudiziario nel campo della politica. Occorre domandarsi se la riforma costituzionale proposta dal governo offra risposte adeguate ai problemi rappresentati. La mia opinione è negativa. La separazione delle carriere non può incidere sugli attuali squilibri del processo che hanno cause complesse e molteplici: il numero troppo elevato di procedimenti e la conseguente eccessiva durata dei processi; l’ipertrofia del sistema normativo e la conseguente incertezza interpretativa di leggi e regolamenti; l’assenza, o il cattivo funzionamento, di strumenti di regolazione e di controllo diversi dal diritto penale, che consentano di risolvere i problemi “a monte”, prima che intervenga l’indagine penale. Un ordine separato di pubblici ministeri, autonomi e indipendenti, con un proprio organo di autogoverno, rischia di accentuare anziché ridurre i difetti dell’attuale sistema. È, infatti, concreto il rischio che si diffondano e generalizzino atteggiamenti e comportamenti che già oggi in parte si registrano, con una maggiore torsione in chiave antigarantista della fase delle indagini preliminari: la logica di risultato, cioè la ricerca della “vittoria” nel processo mediante la condanna dell’imputato; la trattazione di casi con forte impatto mediatico e la diffusione dei risultati delle indagini, con un rafforzamento dei legami con la stampa specializzata; il legame con le forze di polizia, con una maggiore difficoltà a svolgere indagini su eventuali comportamenti illegali degli appartenenti alle forze dell’ordine. Davvero si ritiene che il presunto rafforzamento della terzietà del giudice, che si indica come miracolistico risultato della riforma, sia idoneo da solo a far fronte a tali pericoli? A me pare di no. Per questo molti giuristi ritengono che uno dei pericoli della riforma sia quello, in prospettiva, di determinare un affievolimento delle garanzie di indipendenza del pubblico ministero. Perché dalla separazione sarebbe ben difficile tornare indietro e allora l’unico rimedio allo straripante potere di questo piccolo corpo di funzionari sarebbe quello di creare forme di controllo sul loro operato da parte del potere politico. Quanto al sistema di governo autonomo, e alle gravi degenerazioni di carattere corporativo e clientelare che sono venute sempre più all’evidenza, a me pare del tutto illusorio pensare che la proposta del sorteggio dei componenti degli organi di governo autonomo (sia togati che laici) possa incidere su questi mali. Corporativismo e clientelismo sono pericoli immanenti in ogni sistema di governo autonomo. È sufficiente guardare al funzionamento degli ordini professionali (avvocati, medici, commercialisti) per averne piena conferma. Per non parlare delle carriere universitarie. Ed è un errore e una illusione pensare di sconfiggere questi mali “spezzando le reni al sistema delle correnti”. In realtà, a mio avviso, la “modestia etica” che è venuta alla attenzione del grande pubblico negli ultimi anni (ma che molti di noi avevano già visto e denunciato molto prima) non dipende da un eccessivo potere delle correnti, ma semmai, paradossalmente, dalla loro debolezza, cioè dalla loro incapacità di essere portatori di valori e ideali e dalla loro trasformazione in comitati elettorali a base personale e territoriale, concentrate quindi sulla ricerca del consenso, anche attraverso meccanismi clientelari. In un sistema di governo autonomo l’unico argine alle derive corporative e clientelari può venire da forme di organizzazione del consenso fondate su ideali e valori, da aggregazioni in grado di dialogare con la società civile e di confrontarsi, anche con capacità autocritica, con il mondo esterno. Questo è stato per anni il portato (di alcune) delle correnti della magistratura italiana. Ed è la perdita di questo ruolo da parte delle correnti una delle cause della grave crisi che stiamo attraversando. Non è facile invertire questa tendenza, ma non è difficile, per chi conosce la magistratura, prevedere che con il meccanismo del sorteggio le derive corporative e clientelari finiranno per aumentare. Anche in questo caso, dunque, come per la separazione delle carriere, appare legittimo dubitare che sull’analisi ragionata delle cause dei fenomeni e sulla ricerca di soluzioni condivise prevalga un desiderio di rivincita e di rivalsa nei confronti della magistratura. Altre sono, a mio avviso, le soluzioni da ricercare attraverso un dialogo costruttivo tra tutti gli operatori. Il primo male da sconfiggere è quella della eccessiva durata dei giudizi, perché esso è la causa prima di tutti i difetti del sistema. Il numero abnorme di processi e la impossibilità di garantire una durata ragionevole dei giudizi rende impossibile (o difficilissima) ogni forma di controllo sulla responsabilità professionale degli operatori, favorisce opacità nei comportamenti e incontrollabilità delle scelte. Sul versante del governo autonomo, alcuni interventi potrebbero portare ad un miglioramento della situazione. Ad esempio andrebbe seriamente considerata la proposta avanzata da alcuni componenti laici della scorsa consiliatura di prevedere un rinnovo parziale dei componenti del CSM, in modo da impedire (o ostacolare) la formazione di “maggioranze” all’interno della istituzione. E poi servirebbe una legge elettorale proporzionale con collegio unico nazionale, per togliere peso ai comitati elettorali, per garantire la rappresentanza anche di minoranze indipendenti e per costringere le correnti a indicare candidati non di apparato e consentire agli elettori di scegliere all’interno della lista i rappresentanti più affidabili. Per quanto riguarda il disciplinare andrebbe rafforzato il potere di azione che oggi è esercitato poco e male dal Ministro e dal Procuratore generale. Si potrebbe ad esempio pensare alla creazione di una autorità indipendente con poteri investigativi. Tale autorità potrebbe anche svolgere compiti di verifica sulla efficienza organizzativa degli uffici giudiziari e di controllo sull’operato dei magistrati (attività che oggi sarebbero demandate all’Ispettorato presso il Ministero che pure non ha dato grande prova di sé). Infine, invece di separare le carriere si dovrebbe, a mio avviso procedere ad una ulteriore unificazione delle carriere. Riprendo qui una proposta da me già avanzata molti anni fa. Tra i tanti problemi del sistema giudiziario italiano uno dei più gravi è quello della assistenza legale dei meno abbienti. L’attuale sistema di patrocinio gratuito ha costi enormi e risultati del tutto insoddisfacenti. In molti paesi avanzati, penso agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Svezia, al Brasile sono stati istituiti uffici di difesa pubblica che garantiscono la assistenza legale a chi non può pagarsi un avvocato. Ebbene la introduzione di questa istituzione anche nel nostro paese oltre a risolvere la grave ingiustizia della assenza di tutela legale per i poveri potrebbe consentire di accorpare in una “unica carriera” tutte le professioni. L’idea è quella di prevedere un concorso unico per magistrati e avvocati. La prima esperienza professionale dovrebbe essere presso un ufficio di difesa pubblica, una esperienza che aiuterebbe a formare nel futuro magistrato una piena consapevolezza dei rischi derivanti dall’esercizio di questo “terribile potere”. Dopo un congruo periodo si potrà scegliere se diventare magistrato o avvocato del libero foro. Un’unica carriera, un unico percorso professionale, una comune consapevolezza del ruolo della giurisdizione come strumento di tutela e di affermazione dei diritti fondamentali delle persone. Quanto alla necessità di stabilire un diverso equilibrio tra magistratura e politica, io credo sia un errore pensare di affermare il “primato della politica” cercando di “tagliare le unghie” ai magistrati o di “mettere i leoni sotto il trono”. Si pensi, ad esempio, al tema della responsabilità politica o, se si vuole, al tema dell’etica pubblica. Se esistessero meccanismi, interni alle istituzioni e ai partiti, idonei ad intercettare situazioni di opacità sul piano etico, potenziali conflitti di interessi, legami con ambienti criminali etc., si eviterebbe di delegare l’intera questione dell’etica pubblica alla magistratura inquirente. Al contrario, oggi la politica rinuncia del tutto al suo potere/ dovere di vigilare sulle condotte dei propri aderenti e attribuisce una delega in bianco alla magistratura (“attendiamo il rinvio a giudizio”; attendiamo la eventuale condanna di primo grado” etc.). Salvo poi denunciare lo squilibrio nei rapporti tra magistratura e politica. Non serve poi lamentarsi delle “invasioni di campo” dei magistrati, quando questi sono chiamati a districare testi normativi incomprensibili, involuti e contraddittori oppure a colmare lacune normative. La politica deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte, approvando leggi chiare e comprensibili, conformi ai principi costituzionali e alle norme sovranazionali, evitando, anche in questo campo, improprie deleghe alla giurisdizione. Per affermare il primato della politica è necessario un passo avanti della politica e non un passo indietro della giurisdizione. Ddl Sicurezza, Meloni e Forza Italia ascoltano il Quirinale. Raffica di no a Salvini di Federico Capurso e Francesco Malfetano La Stampa, 23 gennaio 2025 Salta ancora l’accordo sui giudici della Consulta: la premier contatta Schlein. Il ministro vuole inasprire il ddl ma gli alleati alzano un muro e lo isolano. Si rende probabilmente conto, Giorgia Meloni, che tra le mani inizia ad avere troppe questioni di peso aperte. E l’apprensione aumenta se pensa a quei dossier sui quali il Quirinale ha posato lo sguardo: il ddl Sicurezza e l’elezione dei quattro giudici mancanti della Corte costituzionale. La premier convoca quindi in mattinata a Palazzo Chigi i suoi partner di governo, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi. Vuole soluzioni. Ma alla fine di un vertice di circa due ore, deve constatare che quei nodi non possono essere sciolti con la rapidità che sperava. Anzi, se ne sono aggiunti altri. La questione più pressante riguarda l’elezione dei giudici della Consulta. FdI ha il suo candidato, Francesco Saverio Marini, il consigliere giuridico della premier a Palazzo Chigi, mentre il Pd l’accademico dei Lincei, Massimo Luciani. Per la prima volta, anche Tajani mette sul tavolo il nome scelto da Forza Italia, premurandosi poi con gli alleati di mantenere il massimo riserbo. Tra le indiscrezioni serali, continua a circolare il nome di Valeria Mastroiacovo, tributarista e segretaria dell’Unione giuristi cattolici italiani. Manca solo il quarto giudice, che negli accordi con le opposizioni deve essere un indipendente, non ascrivibile a nessuna forza politica. E qui il gioco si impantana. La rosa di tre nomi proposta dal Pd viene rispedita al mittente da Palazzo Chigi: chi non ha i requisiti, chi è troppo schierato. Alla fine Meloni decide di aprire un canale diretto di trattativa con la segretaria del Pd Elly Schlein, ma dopo i primi contatti capisce che il negoziato non sarà semplice. Sembrava quasi fatta, e invece è costretta a congelare la partita. Annullata la seduta in Parlamento di questa mattina e rimandata di una settimana, al 30 gennaio. Un buco nell’acqua di cui centrodestra e centrosinistra si accusano vicendevolmente. Anche il ddl Sicurezza avrà bisogno di tempo. La Lega chiedeva di fare in fretta e approvarlo definitivamente in Senato, senza apportare le correzioni chieste dal Quirinale. Per Meloni è impossibile: “Il testo va modificato”. Piuttosto, si supereranno le lentezze della commissione, ingolfata dagli emendamenti, e si andrà direttamente in Aula senza mandato al relatore. Una strategia, questa, per poter usufruire di alcune scorciatoie, come la “tagliola”, che il regolamento del Senato mette a disposizione della maggioranza per aggirare l’ostruzionismo. Sparirà la norma sul carcere per le madri con figli minori di un anno, così come quella che trasforma in reato la protesta non violenta dei detenuti. I migranti poi potranno avere una sim per il cellulare senza dover mostrare un permesso di soggiorno, basterà un documento. Tutto quello che Salvini non vuole. Anzi, fosse per lui, il testo verrebbe inasprito. E ci proverà, fa sapere ai suoi alleati. Ecco allora la prima doccia fredda di Meloni: la Lega potrà presentare tutti gli emendamenti che vuole, ma se non saranno previsti dall’accordo di maggioranza, non verranno approvati. Salvini ingoia malvolentieri la decisione della premier e rilancia sul terzo mandato per i governatori: “Per noi è importante”. Quasi un atto dovuto, visto il pressing che arriva dai governatori leghisti del Nord, ma il leader del Carroccio non riesce ad aprire una breccia. “Non se ne parla”, gli rispondono, in estrema sintesi, Meloni e Tajani. Sembra quasi una recita alla sua milionesima rappresentazione: Salvini pone il problema del terzo mandato, gli alleati alzano un muro. Il segretario della Lega può però mostrare tutto il suo risentimento per l’immagine offerta il giorno precedente alla Camera, quando durante la sua informativa sui ritardi dei treni, nonostante fosse sotto attacco delle opposizioni, ha trovato ai banchi del governo solo le sue truppe. Nessuno di FdI, né di FI. “Mi aspetto un sostegno maggiore”, avrebbe fatto capire. E su questo, come si vedrà poche ore più tardi durante la sua informativa ripetuta in Senato, viene quantomeno ascoltato. Banchi gremiti di alleati. Magra consolazione. Anm al voto per il dopo-Santalucia: le toghe di destra verso la vittoria dopo oltre vent’anni di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2025 Anm al voto per il dopo-Santalucia: le toghe di destra verso la vittoria dopo oltre vent’anni. E il rapporto col governo ora può ammorbidirsi. In un momento politico delicatissimo, l’organismo di rappresentanza di giudici e pm rinnova i suoi vertici: in vantaggio i conservatori di Magistratura indipendente, la corrente più vicina all’esecutivo in carica. Mentre la sinistra giudiziaria, divisa, perderà la presidenza. Il regno di Giuseppe Santalucia è stato lungo e stabile: un mandato intero di quattro anni alla guida di una giunta unitaria, sorta di “governo di larghe intese” tra le varie correnti. Ora però, nel momento politico forse più delicato di sempre, l’Associazione nazionale magistrati (Anm) è chiamata a rinnovare completamente i suoi vertici: dal 26 al 28 gennaio, gli oltre novemila iscritti all’organismo rappresentativo di giudici e pm eleggeranno online il Comitato direttivo centrale, il “parlamentino” di 36 seggi. Quest’ultimo, poi, sceglierà al suo interno il presidente, il segretario e il resto della giunta esecutiva, composta da dieci membri. Come noto da tempo nell’ambiente, Santalucia ha scelto di non ricandidarsi: il presidente uscente, esponente del gruppo progressista di Area, si dedicherà a tempo pieno al suo lavoro di giudice penale della Cassazione. Netto nei contenuti ma misurato nei toni, è riuscito a tenere (quasi sempre) unita l’Anm nonostante le faide interne, accreditandosi nel tempo come un leader riconosciuto e credibile. A prendere il suo posto, con ogni probabilità, sarà una toga di Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice più vicina al governo in carica: dalle sue file vengono Alfredo Mantovano, potente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e tutti i dirigenti scelti dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Quasi certamente la sigla di destra arriverà prima alle elezioni e quindi acquisirà il diritto a esprimere il frontman dell’associazione per la prima volta da oltre vent’anni, se si eccettua una brevissima parentesi nel 2019. Una novità che potrebbe ammorbidire, almeno nella forma, i rapporti con la maggioranza in vista del probabile referendum sulla separazione delle carriere, la riforma costituzionale detestata dai magistrati che ha appena avuto il primo via libera alla Camera. Mi e i flirt col governo - I rappresentanti di Magistratura indipendente, infatti, hanno da sempre un rapporto privilegiato con il centrodestra e non nascondono una certa allergia verso i colleghi “toghe rosse”: i suoi eletti, ad esempio, non avevano voluto schierarsi a difesa di Iolanda Apostolico, la prima giudice attaccata in modo feroce dal governo per una decisione in materia di immigrazione. Sabato scorso, poi, quattro di loro si sono astenuti nel voto del “parlamentino” che ha deliberato di abbandonare le inaugurazioni dell’anno giudiziario quando parlerà il rappresentante del ministero. “Ribadiamo di voler esprimere i valori dell’intera magistratura moderata, ritenendo che il magistrato non debba farsi condizionare, nel proprio operato, dalla propria legittima ma individuale concezione della realtà, che deve essere mantenuta nella sfera riservata del singolo”, si legge in cima al programma elettorale di Mi. Che, come da tradizione del gruppo, si concentra poco sui temi politici e molto su quelli strettamente sindacali: diritto alla malattia senza decurtazioni, adeguamento dei carichi di lavoro, equiparazione degli stipendi a quelli dei magistrati amministrativi e contabili. ?I nomi in pole per la presidenza - Nella lista compaiono alcuni candidati considerati campioni di preferenze, tutti potenziali futuri presidenti: il procuratore di Messina Antonio D’Amato, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, il procuratore aggiunto di Torino Cesare Parodi, il pari grado di Reggio Calabria Walter Ignazitto e il giudice di Palermo Giuseppe Tango, capo della sezione locale dell’Anm. Quest’ultimo, in particolare, è ritenuto il più adatto a mettere insieme i vari orientamenti politici del “parlamentino”, in quanto più giovane e meno legato alla stagione di Cosimo Ferri, ex leader della corrente e sottosegretario alla Giustizia con Pd e Forza Italia, pesantemente coinvolto nello scandalo Palamara. Se invece i designati fossero D’Amato o Parodi, più invisi ai progressisti, l’unitarietà della nuova giunta potrebbe non essere scontata. Qualcuno però ipotizza addirittura che Mi possa rinunciare alla presidenza, per evitare di trovarsi troppo esposta nello scontro politico: in quel caso potrebbe continuare a esprimere il segretario (come fa ora con Salvatore Casciaro) lasciando il ruolo più importante a un membro gradito di un altro gruppo. La sinistra divisa - In ogni caso difficilmente il leader dell’Anm verrà ancora dalle file della sinistra giudiziaria, che nella migliore tradizione si presenta divisa. Area, il “correntone” vincitore delle ultime elezioni nel 2020, ha subito ormai tre anni fa la scissione della sua ala più radicale, che ha ridato autonomia politica allo storico marchio di Magistratura democratica (Md). Il risultato - già visto in occasione del voto per il Csm nel 2022 - sono due liste che si rivolgono allo stesso elettorato, facendosi concorrenza spesso con una certa acredine. Area, che al primo punto del programma mette la “difesa dell’assetto costituzionale” contro il ddl sulla separazione delle carriere, dovrà fare a meno dell’apporto del pm milanese Luca Poniz: l’ex presidente dell’Anm, recordman di voti alla scorsa tornata non può ripresentarsi avendo già svolto due mandati nel Comitato direttivo. Ma il gruppo punta molto sui due membri uscenti ricandidati: Rocco Maruotti, giovane ed energico pm della Procura di Rieti (in lizza per un ruolo importante in giunta), e Paola Cervo, giudice di Sorveglianza a Napoli. Altri nomi forti in lista sono Marco Gianoglio, procuratore aggiunto di Torino e coordinatore dell’indagine sull’eredità Agnelli; Morena Plazzi, procuratrice aggiunta a Bologna; Giorgio Falcone, aggiunto a Vicenza; Ida Teresi, pm anticamorra napoletana appena promossa alla Direzione nazionale antimafia; Andrea Vacca, pm a Cagliari e presidente dell’Anm sarda; Chiara Valori, gip a Milano; Domenico Pellegrini, giudice civile a Genova. Il giudice “anti-Meloni” in lista con Md - Magistratura democratica, invece, potrebbe capitalizzare nelle urne un periodo di intensa esposizione mediatica di alcuni dei suoi membri. A causa del limite dei due mandati non può più correre Silvia Albano, giudice dell’immigrazione a Roma che ha firmato alcuni dei provvedimenti sgraditi alla maggioranza sui centri in Albania (e per questo è finita sotto scorta). Ma tra i candidati c’è Marco Patarnello, pm in Cassazione finito nel mirino per una mail privata in cui definiva “pericolosa” la premier Giorgia Meloni. Corre pure Emilio Sirianni, giudice di Catanzaro punito dal Csm - e bastonato dai giornali di destra - per aver dato consigli tecnici e supporto all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, suo amico allora indagato. Tra gli uscenti, l’unico a ripresentarsi è Stefano Celli, esperto e apprezzato pm a Rimini; ci si aspetta un buon risultato, poi, da alcuni giudici giovani e piuttosto attivi nel dibattito interno, come Sergio Rossetti (Milano), Giulia Locati (Torino) e Simone Spina (Siena). Nonostante il forte profilo identitario, Md ha scelto di dare spazio in lista anche a candidati indipendenti: tra gli altri Leonardo Lesti, pm e presidente dell’Anm di Milano (con un passato in Autonomia & Indipendenza, corrente fondata da Piercamillo Davigo e ormai sciolta), la giudice palermitana Rachele Monfredi e pure una neo-vincitrice di concorso, la 31enne Marta Zavatta, ancora in tirocinio al Tribunale di Bologna. I “moderati” per risalire, gli “anti-correnti” per la conferma - In questa tornata puntano a riemergere nei consensi i “moderati” di UniCost (Unità per la Costituzione), crollati nel 2020 dopo lo scandalo che travolse Luca Palamara, per anni leader della corrente. Da allora il gruppo ha intrapreso un percorso di profondo rinnovamento - passato per la rottura dell’asse con la destra al Csm - e tra i punti centrali del programma cita il “ripudio di ogni forma di convergenza e di collateralismo con forze politiche e con apparati esterni alla magistratura”. Tra i candidati, scelti in base alla stima negli uffici e all’esperienza nelle giunte locali dell’Anm, i più forti sono Annamaria Frustaci, pm antimafia calabrese; Dora Bonifacio, giudice d’Appello a Catania; Marcello De Chiara, giudice del Tribunale di Napoli; Eugenia Serrao, giudice penale in Cassazione; Gaspare Sturzo, pm alla Suprema Corte, già sostituto procuratore antimafia a Palermo e pronipote di don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare. Infine, cerca quantomeno la conferma dei suoi quattro seggi Articolo 101, il gruppo “anti-correnti” intitolato alla norma costituzionale che prevede soggezione del giudice soltanto alla legge. Nel programma compaiono le storiche battaglie della sigla, tra cui il sorteggio dei candidati al Csm e la rotazione negli incarichi ai vertici degli uffici giudiziari. Ricandidati tre membri uscenti del Comitato direttivo: Andrea Reale, combattivo giudice del Tribunale di Ragusa, Cristina Carunchio, pm a Vicenza, e Giovanni Favi, giudice a Torre Annunziata. Il “giudicato cautelare” non regge al cambio di indirizzo in Cassazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2025 La Suprema corte, sentenza n. 2717 depositata oggi, ha respinto il ricorso del Pg di Catanzaro confermando la libertà per l’imputato a seguito di una pronuncia della Suprema corte favorevole al coimputato. Il mutamento giurisprudenziale può costituire un elemento nuovo idoneo a superare il cd “giudicato cautelare”. Anche se non proviene dalle Sezioni unite ma dalla ordinaria attività nomofilattica della Suprema Corte. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 2717 depositata oggi, respingendo il ricorso del Pg di Catanzaro. Il locale Tribunale aveva rimesso in libertà l’imputato prendendo atto che nelle more del procedimento, la Sezione, con la sentenza n. 46380/2023, pronunciata nei confronti del coimputato, aveva mutato indirizzo, affermando che l’ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare per complessità, adottata ai sensi dell’articolo 304, co. 2, cod. proc. pen., non spiega i suoi effetti nei confronti dell’imputato libero. Ragion per cui la Corte di appello, preso atto del fatto che l’imputato non era ristretto, con decisione confermata poi dal Riesame ha dichiarato cessati gli effetti della misura per decorrenza dei termini. A sostegno della soluzione negativa il Pg richiama le “Sezioni unite Librato”, secondo cui, rispetto alle ordinanze in materia cautelare, all’esito del procedimento di impugnazione, si formerebbe una preclusione processuale, “anche se di portata più modesta di quella relativa alla cosa giudicata”. Per cui non “può valere a rimuovere l’effetto preclusivo il mero sopravvenire di una sentenza della Corte di cassazione che esprime un indirizzo giurisprudenziale minoritario, diverso da quello seguito dall’ordinanza che ha già deciso la questione controversa”. La stessa sentenza, però, annota la Corte, ritiene tale orientamento nel merito non condivisibile. La questione è stata però successivamente approfondita da altra pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U. n. 18288/2010). Secondo questa decisione, in relazione ai provvedimenti adottati in sede cautelare, così come in sede esecutiva, “impropriamente” si evoca il concetto di giudicato “in quanto la circostanza che in tali procedimenti non ci sia mai un giudizio di merito sul fatto comporta necessariamente una diversa regolamentazione dell’efficacia preclusiva della decisione”. Viene, poi, affrontato il problema del rapporto tra norma e interpretazione alla luce del principio di legalità dell’articolo 7 Cedu, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, osservando che quest’ultima “ha inglobato nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale”. Per cui “l’obbligo di interpretazione conforme alla Cedu impone di includere nel concetto di nuovo “elemento di diritto” idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell’articolo 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il diritto vivente”. Si tratta, prosegue la Corte, di una operazione doverosa per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, di fronte ai quali la citata preclusione, che ha natura e funzione diverse dal giudicato, non può che essere recessiva. Per la VI Sezione penale tali principi assumono portata generale che “trascende l’ambito del giudicato esecutivo per estendersi anche al giudicato cautelare, che del primo condivide la natura di mera preclusione”. Così, conclude la Cassazione, se la sentenza impone certamente di rimuovere la preclusione del giudicato nell’ipotesi di intervento delle Sezioni unite, “non esclude che analoga rimozione possa e debba operare nel caso di un mutamento giurisprudenziale determinato dal normale esercizio della funzione nomofilattica attribuita al giudice di legittimità”, come “correttamente affermato nell’ordinanza impugnata, specie se funzionale a garantire il rispetto di diritti fondamentali”. Tanto più che la decisione innovativa ha riguardato il coimputato. Bologna. Carcere della Dozza, i legali in visita con De Pascale: “Situazione pesante” di Marco Madonia Corriere di Bologna, 23 gennaio 2025 Un impegno per garantire ai detenuti percorsi di reinserimento lavorativo con un piano triennale, oltre a un confronto continuo sui temi del sovraffollamento e degli atti di autolesionismo. Lo hanno assicurato il presidente della Regione, Michele De Pascale, e l’assessora al Welfare, Isabella Conti, al termine della visita al carcere dalla Dozza, alla guida di una delegazione di cui facevano parte anche il presidente dell’Assemblea legislativa, Maurizio Fabbri, la vicesindaca, Emily Clancy, e rappresentanti della Camera penale e del consiglio dell’Ordine degli avvocati. Tra i principali interventi previsti, de Pascale e Conti hanno sottolineato i percorsi di inclusione sociale e abitativa che si aggiungono a quelli di assistenza sanitaria, potenziati di recente dalla Regione con un fondo di oltre 18 milioni. La visita ha reso ancora più evidenti le criticità in cui si trova il carcere, a partire dal sovraffollamento e dall’aumento degli atti di autolesionismo, sia tra i detenuti che tra gli agenti di Polizia penitenziaria. “Abbiamo voluto vedere con i nostri occhi la situazione, questa è la prima di una serie di visite nelle strutture carcerarie della regione — ha commentato de Pascale —. La situazione è molto pesante”. La delegazione, guidata dalla direttrice Rosa Alba Casella, è entrata nella sezione che ospita i detenuti in attesa di giudizio, nella sezione “nuovi giunti” e nell’infermeria, oltre che nella sezione femminile che ospita il nido a disposizione dei figli delle detenute. “La Regione ha la possibilità di intervenire sia per quanto riguarda il reinserimento nel mondo del lavoro, sia per il miglioramento delle condizioni sanitarie”, ha aggiunto Conti. Per l’Ordine degli avvocati, la visita “dimostra sensibilità ed attenzione per quella che ormai è divenuta una vera e propria emergenza umanitaria”. Il Consiglio dell’Ordine ha chiesto “un impegno concreto a investire risorse per l’assistenza sanitaria. L’aumento di personale medico specializzato nel trattamento del diffusissimo disagio psichico”. Questa visita “è un segnale importante”, dice il professore Nicola Mazzacuva presidente della Camera penale che ha rilanciato la soluzione dell’indulto: “È una misura che viene sollecitata da più parti. Il ministro Nordio sa bene che è una misura di facile attuazione”. Roma. Rebibbia, l’appello dei detenuti: “Curarsi è sempre più difficile” tag24.it, 23 gennaio 2025 I detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia, a Roma, hanno denunciato una grave mancanza all’interno dell’istituto penitenziario, caratterizzato da una presenza di medici di molto inferiore a quanto servirebbe. In carcere ci si ammala tanto e curarsi è sempre più difficile, malgrado l’encomiabile impegno dei medici presenti negli istituti. Ma sono sempre meno. L’appello è portato avanti in primis dal carcere romano ma potrebbe tranquillamente essere applicato ad ogni istituto penitenziario, per questo è stato rivolto oltre che al presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, anche alla Federazione nazionale degli Ordini dei medici. Ad essere portavoce di questa protesta è il notiziario che è stato ideato da alcuni detenuti interno al carcere, intitolato Non tutti sanno. Il testo definitivo porta poi la firma di Roberto Monteforte, giornalista coordinatore di quella redazione. La crisi della sanità pubblica e la mancanza di risorse, infatti, colpiscono in modo diretto e pesante i livelli di assistenza sanitaria, le condizioni di vita e di lavoro dei medici, ma anche quelli della popolazione detenuta che già oggi sconta la carenza di assistenza sanitaria, la difficoltà ad usufruire in tempi efficaci di esami clinici e prestazioni specialistiche anche per i limiti posti dalla detenzione e dal sovraffollamento delle carceri. L’effetto è che per noi il diritto alla salute e alla cura è messo in discussione. Lo sarà ancora di più se, come abbiamo constatato, risultano sempre meno i medici che decidono di prestare la loro attività nelle carceri. La sanità pubblica resta l’unica via percorribile per chi è in carcere - I problemi che affliggono il Servizio Sanitario Nazionale sono ben noti a tutti, dalle liste di attesa infinite al numero di medici che sta diminuendo sempre più. Pur con tutte le difficoltà del caso, tuttavia, per coloro che non si trovano in uno stato detentivo resta percorribile la via della sanità privata. Lo stesso non si può ovviamente dire per i detenuti, che possono avvalersi solo e soltanto del servizio pubblico. Per noi la sanità pubblica rappresenta l’unico strumento di tutela della nostra salute, del nostro diritto alla cura, della nostra dignità di cittadini e di persone, di futuro possibile. Vorremmo non fosse dimenticato. Terni. In programma l’istituzione di un tavolo di sanità penitenziaria orvietonews.it, 23 gennaio 2025 Sovraffollamento, mancanza di personale e assistenza sanitaria dei detenuti. Sono questi i problemi che si riscontrano nella Casa Circondariale di Terni dove nel pomeriggio di martedì 21 gennaio si è recata in visita la presidente della Regione Stefania Proietti, accompagnata dall’avvocato Giuseppe Caforio, garante dei detenuti. Prima della visita la governatrice ha avuto una riunione tecnica con il direttore del carcere Luca Sardella, il presidente della magistratura di sorveglianza Antonio Minchella e il giudice di sorveglianza Fabio Gianfilippi, il personale della struttura e della Polizia Penitenziaria. Dal tavolo è emerso che a fronte di una capienza di 422 posti, oggi i detenuti sono 572. E su una dotazione organica di 293 agenti di polizia penitenziaria ne lavorano 194; appena 6 sono gli educatori, meno della metà del reale fabbisogno. “Sono numeri - afferma la presidente - che restituiscono in maniera lampante un quadro di difficoltà che ci risulta comune ad altre strutture carcerarie umbre. La casa circondariale non è un’entità aliena, è una comunità di persone dentro una comunità più grande a cui non può e non deve mancare la nostra vicinanza, la nostra attenzione e il nostro impegno”. La competenza della Regione è in ambito sanitario: oltre a garantire il più possibile personale tra medici e infermieri all’interno del carcere - che ieri sono stati salutati dalla Presidente- è appurato che la presenza di ben due terzi di detenuti di fuori regione, che necessitano di assistenza e cure in particolare in ambito mentale e psichiatrico, ha un costo notevole per le casse dell’ente tant’è che la presidente di recente ha portato la questione all’esame della premier Giorgia Meloni e ha intenzione di interessare anche la Conferenza Stato-Regioni, proponendo l’istituzione di un fondo nazionale per la sanità carceraria. Tale fondo permetterebbe una redistribuzione più equa dei costi tra le diverse regioni anche in base alla popolazione ristretta nelle carceri ma soprattutto la reale possibilità di erogare tutte le cure e i servizi necessari, anche dal punto di vista sociale, al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e quindi anche dei lavoratori che se ne prendono cura. Un altro tema di particolare importanza affrontato durante l’incontro è stato quello delle REMS, ovvero le strutture sanitarie dedicate ai detenuti affetti da patologie psichiatriche. Una questione delicata e lungamente dibattuta visto che l’Umbria non dispone di alcuna Rems e i casi, purtroppo, sono in grande aumento, una mancanza che la Presidente Proietti ritiene urgente da colmare. Quindi le rassicurazioni della presidente al termine della visita: incrementare la presenza sanitaria incentivandola, avviare l’iter per la attivazione della Rems, seguire in maniera sempre più puntuale i tanti detenuti malati mentali e quelli con comportamento antisociali, accelerare i processi di integrazione e inclusione con la realtà dove sorgono le strutture carcerarie, potenziare la dotazione strumentale medica e le azioni da poter esercitare in telemedicina, implementare percorsi integrati di giustizia riparativa, occuparsi dell’accoglienza ed integrazione dei detenuti che devono uscire dal carcere nonché degli aspetti di relazione e colloqui con le famiglie (azione che assume un ruolo fondamentale per ridurre le tensioni). La situazione è complessa - ha affermato il garante - e questa è stata un’occasione importante per la presidente della Regione di vedere con i propri occhi le condizioni in cui vivono detenuti e operatori. Per l’aspetto sanitario bisogna fare presto e la Regione si è impegnata in questo senso, ma il sovraffollamento e la carenza di personale sono a volte cause scatenanti di atti di violenza che rappresentano sintomi di forte disagio da non ignorare assolutamente”. La presidente ha annunciato l’intenzione di convocare a breve il tavolo di sanità penitenziaria, nel mentre insieme all’Assessorato competente la Regione si attiverà per incrementare politiche, progetti, processi di formazione e inserimento sociale e lavorativo. San Gimignano (Si). Al carcere di Ranza servizio di salute mentale tra i migliori d’Italia radiosienatv.it, 23 gennaio 2025 Un servizio medico 24 ore su 24 quello assicurato dalla Asl Toscana Sud Est per i detenuti del carcere di Ranza a San Gimignano, così come il servizio medico è attivo nella casa circondariale di Siena. La Medicina Penitenziaria, che è a carico del sistema sanitario nazionale dalla pubblicazione del Dpcm del 2008, assicura il diritto alla salute anche ai detenuti. I medici coprono tutti i servizi previsti dai livelli essenziali di assistenza tra cui la salute mentale. Ed è proprio in questo settore che crescono le patologie soprattutto nel carcere di massima sicurezza di San Gimignano, paradossalmente perché il servizio di psichiatria e psicologia è uno dei migliori d’Italia. “Copriamo un servizio di salute mentale con molta accuratezza e con tante ore sia con psichiatri che con psicologi - ha detto il direttore dell’Uoc Salute in Carcere della Asl Tse - questo fa sì che i nostri standard siano i migliori e quindi i detenuti del circuito di massima sicurezza con problemi psichiatrici, vengono indirizzati a Ranza”. Ma le patologie diffuse nelle case di detenzione, sono svariate: “Nella popolazione carceraria più giovane le patologie sono spesso e volentieri legate al consumo di droghe, quindi malattie virali e problemi odontoiatrici - ha proseguito nel suo racconto il dottor Ameglio - mentre nella massima sicurezza i detenuti sono più avanti con gli anni e quindi hanno per lo più malattie croniche legate all’età”. Busto Arsizio. Una linea di vestiti realizzati nel carcere di Fulvio Fulvi Avvenire, 23 gennaio 2025 Dodici detenuti della Casa circondariale di Busto Arsizio hanno cominciato un corso di formazione per imparare il mestiere di operatore del settore tessile. Le lezioni e le attività di laboratorio termineranno entro febbraio e almeno due saranno assunti come operai specializzati dalla Grassi Spa, società benefit di Lonate Pozzolo. Ma potrebbe esserci spazio anche per gli altri, ai quali sarà comunque rilasciato un attestato da poter spendere in percorsi di reinserimento sociale, utili anche quando avranno terminato di scontare la pena. Il progetto di riabilitazione prevede l’apertura di una linea di confezione abbigliamento all’interno dell’istituto. Lo stabilisce un protocollo d’intesa firmato nei giorni scorsi dal direttore del carcere, Maria Pitaniello, dal presidente della Grassi Spa e della Confindustria varesina, Roberto Grassi, e dal prefetto Salvatore Pasquariello. La convenzione si inserisce in un più ampio accordo finalizzato a “promuovere e sostenere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna”. La Grassi Spa applicherà agli assunti il Contratto Nazionale di settore usufruendo dei benefici della Legge Smuraglia: fino a 520 euro mensili erogati come crediti d’imposta e la riduzione del 95% di aliquota contributiva. Il laboratorio del penitenziario è stato dotato di 6 macchine da cucire e di3 macchinari e tavoli per il taglio dei tessuti. Allo studio, inoltre, la realizzazione di una linea di abbigliamento come primo kit per i detenuti che arrivano nella Casa Circondariale senza cambio indumenti. Non si tratterà di divise carcerarie, ma di abiti casual realizzati attraverso il riutilizzo di tessuti dell’azienda. “Siamo in tanti ad avere rispetto per la storia e la vita di questi detenuti e crediamo in quello che possono essere e fare quando usciranno dal carcere - ha affermato il prefetto Pasquariello -, molta parte della società crede in loro, nella capacità che avranno di riformare la loro vita”. “Ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare tanto per la società, anzi ha il dovere di farlo - ha proseguito - ciascuno deve svolgere, come dice la Costituzione, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale. Questo vale anche per i detenuti una volta scontata la pena. Non devono dimenticare che anche loro hanno dei doveri. Hanno diritti che, insieme alla loro dignità, vengono sempre più riconosciuti, ma hanno anche loro il dovere, come cittadini, di aiutare la comunità in cui vivono”. L’auspicio del direttore del carcere, Pitaniello, “è che il laboratorio sia un punto dipartenza per creare altre opportunità lavorative interne ed esterne: molti detenuti attendono mesi prima di poter lavorare, molti scoprono in occasione delle attività formative nuove abilità che non sapevano di possedere”. Nella struttura di Busto Arsizio 140 reclusi risultano impegnati in attività lavorative alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e di un datore di lavoro esterno presso una cioccolateria. “Ci sono penitenziari situati in siti totalmente scollegati da mondi produttivi. Anche a volerlo - commenta il cappellano don David Maria Riboldi - non si può fare granché. Ma il nostro carcere sorge in un territorio a vocazione industriale e manifatturiera importante. E iniziativa di Roberto Grassi nasce all’interno dell’istituto, ma laddove il percorso giuridico lo consente, si possono avviare collaborazioni tra dentro e fuori per il lavoro esterno: uno esce la mattina, va a lavorare e rientra a sera. Quante aziende ci sono a Busto Arsizio, Gallarate, in Valle Olona? Le persone in carcere sono circa 440: una per azienda e in dieci anni il carcere non servirà più”. Roma. Una nuova casa di accoglienza per ex detenute di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 23 gennaio 2025 “Giustizia e misericordia sono la stessa cosa”. È il senso che monsignor Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma, ha dato all’avvio del “cantiere pastorale” dedicato ai penitenziari, durante un incontro nella Chiesa di Nostra Signora de la Salette. “Un modo per fare di tutto perché non si vada per conto proprio”, ha aggiunto il prelato. Si tratta di un ciclo di approfondimenti, organizzato insieme alla Caritas, per capire meglio la realtà detentiva. Il progetto si inserisce tra le iniziative per il Giubileo 2025, nel solco del gesto simbolico di papa Francesco di aprire una Porta Santa nel penitenziario di Rebibbia. Da un cantiere vero e proprio durato due anni, sorgerà invece la nuova casa di accoglienza per ex detenute o detenute beneficiarie di misure alternative alla detenzione, ma anche in permesso premio. Aprirà a marzo e offrirà 5 appartamenti, per aiutare le donne in un percorso di ricostruzione della propria vita. Durante l’incontro, la testimonianza di Natalia: originaria della Russia, ha scontato due anni di pena a Rebibbia e ha un passato di abbandono e dipendenze alle spalle. “Sono forse l’unica detenuta che ama il carcere”, ha detto. “Lì da te stessa non puoi scappare; ho avuto l’opportunità di comprendermi”. Ma la ricostruzione di sé non decolla senza l’aiuto di una rete. Educatori, agenti, volontari. “Mi hanno dato una mano molte persone e in carcere mi sono avvicinata alla fede”, ha aggiunto Natalia. Poi, a fine pena, la paura di essere rimpatriata: “pensavo già all’espulsione; ero senza documenti e con precedenti, e nonostante avessi avuto un figlio in Italia, ne ho perso la potestà”. Qui è entrata in gioco l’assistenza del terzo settore: Natalia è stata accolta in una casa di accoglienza; poi, il supporto della fondazione Severino. “Ora lavoro nel settore delle pulizie, ho un contratto, mi mantengo da sola”, ha detto con una certa fierezza. “E quando, tra poco, mio figlio compirà 18 anni, rientrerò nei miei diritti di madre”. “Per accogliere donne con storie di vita complesse c’è bisogno di un surplus di amore e di un’iniezione di fiducia”, ha detto Ambarus commentando la testimonianza di Natalia. E aggiunto che la rete è un’opera complessa: “È necessaria la collaborazione di tutti; l’assistenza dei volontari in carcere è insufficiente senza il confronto con educatori e agenti, senza l’aiuto delle istituzioni”. Brescia. La città “samaritana” si fa incontro a carcerati e clochard di Lorenzo Rosoli Avvenire, 23 gennaio 2025 Giubileo nelle diocesi. Due progetti: il primo rivolto a carcerati a fine pena che cercano casa e lavoro per rifarsi una vita, il secondo dedicato a persone senza dimora tagliate fuori dalla rete dei servizi socio-sanitari. Due opere-segno, accese come luci di speranza per il Giubileo 2025. La diocesi di Brescia apre la mappa delle opere di misericordia e traccia il cammino per l’Anno Santo che chiama a essere “pellegrini di speranza”. Insieme: come Chiesa. In “alleanza” con terzo settore, istituzioni, territori. Pregare e agire. “Via dei Bucaneve 25: la libertà trova casa”. È il nome che la diocesi guidata dal vescovo Pierantonio Tremolada ha scelto per il “progetto diffuso” di reinserimento nella comunità di persone che hanno terminato di scontare la pena. Un’iniziativa che nasce dentro un cammino, già avviato, di impegno nella pastorale carceraria, e che con il Giubileo si vuole rinnovare e accrescere. Il primo passo: l’istituzione da parte della diocesi di una giornata di preghiera per le carceri che cada, ogni anno, nella domenica della Divina Misericordia - il 27 aprile, nel 2025. A questa giornata si “agganceranno” iniziative di sensibilizzazione per attivare le parrocchie riguardo all’accompagnamento di ex detenuti - tutto questo nel solco dell’itinerario formativo “Nella fine, è l’inizio” per volontari in ambito penitenziario, promosso da VolCa (Volontariato Carcere) con Caritas diocesana. In questo scenario è stato individuato un bisogno a cui rispondere: “il binomio casa-lavoro per le persone a fine pena”, spiega una nota della diocesi. Si cercherà dunque di “coinvolgere le parrocchie nella candidatura di spazi abitativi - il cui affitto viene pagato dalle persone a fine pena o ex detenute in virtù del lavoro che nel contempo viene trovato loro”. Dal carcere alla comunità. Nel contempo la diocesi ha scelto di investire su una figura professionale “dedicata” - i cui costi d’assunzione, per tre anni, saranno coperti da Fondazione Opera Caritas San Martino - che operi con VolCa e Caritas sul versante del lavoro. Dentro queste coordinate, ecco l’opera-segno diocesana “Via dei Bucaneve 25”: “Un progetto diffuso di reinserimento nella comunità di persone che hanno terminato di scontare la loro pena. L’auspicio, anche alla luce di esperimenti già in essere in alcune parrocchie, è di moltiplicare nelle comunità le esperienze di Via dei Bucaneve, 25”. Senza dimora? Senza cure. Secondo uno studio condotto a Brescia città su persone senza dimora o in stato di emarginazione grave, il 57% di chi si rivolge a strutture di accoglienza presenta problematiche sanitarie, fisiche e/o mentali per le quali sono necessarie cure mediche, infermieristiche e/o psichiatriche. Intanto si fanno strada due altre criticità: i senza dimora dimessi dagli ospedali hanno bisogno di un’assistenza sanitaria che ricoveri notturni o strutture residenziali non riescono a gestire; mentre chi vive in strada e non ha permessi regolari di soggiorno o di residenza è restio, in caso di necessità, a rivolgersi a ospedali o altri servizi di cura attraverso i canali istituzionali. In questo scenario ha preso forma l’altra opera segno: il progetto “Insieme per la cura”, che grazie alla collaborazione fra strutture ospedaliere, servizi sociali, enti non profit e istituzioni - e grazie a personale medico e infermieristico in équipe “itinerante” - mira a potenziare la presa in carico dei soggetti più fragili sul versante della povertà sociale e sanitaria. Nessuno sia abbandonato. Con la diocesi di Brescia, hanno firmato il protocollo che ha dato il via al progetto le Acli, l’Ats, la Fondazione Opera Caritas San Martino, Casa Betel 2000, la cooperativa sociale Kemay, il Comune, la Congrega della Carità Apostolica, le Ancelle della Carità, la Fondazione Poliambulanza, la Provincia Lombardo Veneta dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio Fatebenefratelli e la San Vincenzo. Gli scopi del progetto? Migliorare l’accesso ai servizi sanitari e socio-assistenziali delle persone senza dimora in condizioni di fragilità sociale fornendo interventi di primo livello nelle strutture in cui sono ospitate o presso gli “enti erogatori” dei servizi socio-sanitari; creare un sistema di supporto integrato che garantisca continuità assistenziali post-ospedalizzazione. Un centinaio circa le persone che si intende aiutare ogni anno. L’obiettivo? “Nessuno deve essere lasciato indietro”. Reggio Emilia. “Parole liberate”, oggi l’evento dedicato ai detenuti della Atsm di Cesare Corbelli Il Resto del Carlino, 23 gennaio 2025 Si terrà oggi, dalle 11 alle 13 presso la Casa Circondariale di Reggio, l’evento “Parole liberate: oltre il muro del carcere” dedicato ai detenuti ristretti nella Articolazione per la Tutela della Salute Mentale (Atsm). Dopo i saluti di accoglienza del direttore del carcere, Lucia Monastero, interverranno i dirigenti di “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini e Sergio D’Elia, i responsabili dell’associazione “Parole Liberate” Duccio Parodi e Michele De Lucia, l’ex deputato Pierluigi Castagnetti, il Presidente della Camera Penale di Reggio Luigi Scarcella, il professore e avvocato di diritto minorile Marco Scarpati la presidente di Closer Giulia Ribaudo e il medico e membro di Nessuno tocchi Caino Federico Canziani. Nel corso degli ultimi due anni Nessuno tocchi Caino ha svolto oltre 220 visite agli istituti penitenziari: “Possiamo dire che la malattia mentale abita sempre di più in carcere - dicono i dirigenti -. La sua dimensione, un tempo segregata nei manicomi, impone una riflessione sull’adeguatezza di questo istituto a curare il male e anche il solo disagio psichico”. L’anno scorso sono avvenuti dietro le sbarre 241 decessi di cui 89 suicidi e che sono già 8 quelli registrati nelle prime due settimane del 2025. Nel corso dell’evento, Nessuno tocchi Caino darà conto anche dell’azione senza precedenti intrapresa insieme all’Unione delle Camere Penali Italiane - attraverso un massiccio accesso agli atti - nei confronti delle Asl affinché ottemperino ai loro obblighi di legge, in particolare di ispezione dei luoghi di detenzione e di verifica della loro idoneità a ospitare persone detenute e di verifica anche delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari. Seguirà nella stessa giornata, dalle 15.30 alle 17.30 presso il Ceis di via Antonio Urceo Codro, una conferenza nella quale verrà presentato il progetto di “Laboratorio permanente integrato artistico sociale nella Atsm del carcere di Reggio Emilia”. Insieme ai dirigenti di Nessuno tocchi Caino, interverranno Eliseo Bertani, Presidente di “Servire l’Uomo”, Alessio Saponaro (Regione Emilia Romagna Salute in carcere), Simone Stoppazzoni, referente artistico del dipartimento Salute Mentale Ausl, Sara Uboldi, ricercatrice di Pre-Texts Social Lab - progetto carcere, Tonino D’Angelo, Referente del Gruppo Mutuo Aiuto Famigliari Detenuti in Atsm e Manuele Fusaroli, direttore dello studio di registrazione di Ferrara “Natural Head Quarter”. Alla iniziativa di Reggio Emilia, seguiranno i Laboratori “Spes contra spem” nel carcere di Opera il 24 gennaio (10-13) e Parma il 25 gennaio (10-13). Migranti. Il Governo dei Cpr: un Centro persino nell’area inquinata di Falconara Marittima di Alice Dominese Il Domani, 23 gennaio 2025 Quello di Torino è stato ristrutturato ed è pronto per entrare di nuovo in funzione. Nelle Marche si lavora a un Cpr nei pressi di un’area contaminata e pericolosa per l’uomo. Dalle Marche al Trentino-Alto Adige, l’uso dei Cpr è la strada scelta dal governo per affrontare la gestione delle persone migranti. Dopo l’annuncio in pompa magna, nel primo anno del governo Meloni, di ulteriori aperture da parte del governo, i nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio rischiano di sorgere dove nessuno vede, anche in luoghi sotto indagine per disastro ambientale. È il caso di Falconara Marittima, a pochi chilometri da Ancona. In questa località, a settembre, il ministero degli Interni ha commissionato un’indagine geognostica per verificare la possibilità di edificare quello che potrebbe essere il primo Cpr costruito nelle Marche. I termini dei rilevamenti sono scaduti, ma i risultati non sono ancora stati resi pubblici. Fabrizio Recanatesi, attivista del Laboratorio Falkatraz, associazione che da alcuni mesi chiede alla regione di fare chiarezza sulla possibile apertura del Cpr, spiega che “l’indagine ministeriale mira a verificare a livello tecnico se, sul territorio in questione, possa essere inserito il prefabbricato che su modello dell’Albania dovrebbe ospitare il centro per i rimpatri”. Collocata tra l’aeroporto anconetano e la raffineria Api, la zona individuata per ospitare il Cpr è un’ex area militare inserita in una località dove la popolazione denuncia da anni di essere esposta a esalazioni insalubri da idrocarburi. Per accertare la responsabilità dei miasmi, è in corso un processo nei confronti dell’azienda Api che coinvolge vari imputati, accusati tra l’altro di disastro ambientale e gestione illecita di rifiuti speciali. I problemi di salute pubblica della zona di Falconara sono stati accertati dall’Istituto superiore di sanità, da Arpa Marche e dall’Istituto nazionale dei tumori. In quest’area i decessi e la diffusione di patologie oncologiche, aborti spontanei, malformazioni congenite e altre malattie non oncologiche superano la media regionale e quella del Centro Italia. Nello stesso territorio, a circa un chilometro di distanza dalla raffineria, il Viminale sta pensando di aprire un nuovo Cpr. In questo modo, aggiunge Fabrizio Recanatesi, “le persone nel Cpr sarebbero esposte agli stessi rischi della popolazione che abita il territorio: essere soggette a esalazioni da idrocarburi quotidiane della raffineria Api”. A novembre il ministro Matteo Piantedosi ha ribadito che il Cpr marchigiano si farà, assicurando che l’apertura avverrà “in accordo e in convincimento della proficua valenza di queste strutture anche per i rappresentanti del territorio”. Se la regione sembra appoggiare l’intervento, centinaia di cittadini si sono schierati contro mobilitandosi con presidi e manifestazioni. A opporsi alla nuova apertura ci sono anche la sindaca di centrodestra di Falconara, Stefania Signorini, e il segretario locale della Lega, Andrea Paci, che si sono dichiarati favorevoli ai Cpr in quanto tali, ma non a quello di Falconara. La richiesta è di edificarlo altrove. “La comunità di Falconara non può farsi carico di un’ulteriore fonte di criticità” ha detto Signorini. Anche in Trentino-Alto Adige si parla della possibile apertura di nuovi Cpr. A settembre, il presidente leghista della provincia di Trento Maurizio Fugatti ha annunciato di aver preso accordi tecnici con il ministero dell’Interno per la realizzazione di un centro per i rimpatri in città. Da allora il coordinamento regionale No Cpr è sceso in piazza più volte per manifestare la propria opposizione al progetto. Il comune di Trento si è detto contrario all’apertura aggiungendo che dalla provincia non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale in merito. Attualmente non è chiaro dove dovrebbe sorgere la nuova struttura. Alcune ipotesi indicano la zona vicino al carcere, nell’area industriale della città, altre fanno riferimento ai dintorni della questura. L’idea della provincia, in ogni caso, sembra essere quella di destinare il Cpr trentino a un “uso locale” trattenendo solo le persone già presenti sul territorio provinciale, per una capienza massima di 25 detenuti. L’approccio è lo stesso per il secondo Cpr previsto nella regione, quello che dovrebbe sorgere a Bolzano. Qui i posti disponibili per le persone detenute dovrebbero essere al massimo 50. In Sud Tirolo, l’annuncio ufficiale dell’apertura è arrivato a inizio novembre. In occasione della sottoscrizione di un accordo per aumentare la sicurezza pubblica sul territorio, Piantedosi e Arno Kompatscher, presidente della provincia di Bolzano, hanno ribadito l’intenzione di aprire un Cpr nel capoluogo altoatesino entro il 2025. Anche in questo caso la struttura dovrebbe essere costruita nella zona dell’aeroporto, in un’area defilata di Bolzano Sud. Nella stessa zona, secondo l’ipotesi ministeriale, accanto al Cpr dovrebbe sorgere anche un nuovo carcere. Il tentativo di aprire un centro per il rimpatrio nella provincia d’altra parte non è nuovo, così come la resistenza delle autorità locali e dei cittadini contrari. “È una decina di anni che si parla di aprire un Cpr ma nessuno lo vuole - racconta Matteo De Checchi, della rete No Cpr Bolzano - Dopo aver fallito in Albania, l’impressione è che il governo proverà a implementare Cpr ovunque, non solo a Bolzano”. Mentre i progetti delle nuove aperture restano vaghi, la possibilità che riapra il Cpr piemontese diventa più concreta. A Torino, infatti, il bando per la gestione del centro, chiuso a marzo 2023 per inagibilità, è stato assegnato e questo potrebbe riaprire a partire dal prossimo anno. Parzialmente ristrutturato, la sua capienza ha raggiunto i 70 posti disponibili. Italia-Libia. L’Italia al servizio dei tagliagole libici: Nordio e Piantedosi si dimettano di Angela Nocioni L’Unità, 23 gennaio 2025 Il governo sapeva da sabato che il criminale ricercato dalla Cpi stava arrivando in Italia. Il Guardasigilli ha mentito. Il Falcon mandato a Torino a prenderlo prima della sentenza della Corte d’appello di Roma. Chissà se qualche sostenitore del governo Meloni si infastidisce a vedere un pericoloso criminale, arrestato due giorni prima a Torino dalla polizia giudiziaria, scendere col sorrisone da un Falcon col tricolore a Tripoli accolto da banditi in tripudio perché il loro capo ha scampato un processo per reati contro l’umanità. Chissà se qualche elettore di destra (non un criminale: un onesto e probo elettore di destra) si indispettisce a vederlo festeggiare tra fumogeni rossi sotto gli occhi dei funzionari dei servizi italiani a cui è stato ordinato di scortarlo fin lì con un volo di Stato per sottrarlo alla Corte penale internazionale: un’umiliazione pesante. È poco patriottico sostenere un governo sotto ricatto. Quel Falcon col tricolore sulla pista dell’aeroporto è uno schiaffo all’Italia. E nulla come la foto dello sghignazzo di Osama Njem, miliziano che si fa chiamare generale da quando il governo italiano lo paga per far sparire migranti, mostra come Giorgia Meloni sia tenuta per il collo dai criminali che finanzia perché pensino loro a uccidere migliaia di persone prima che arrivino in Europa. Sabato scorso Osama Njem, noto come “Almasri”, che comanda le torture nelle prigioni infernali di Tripoli, era in Germania dove si è presentato ad un autonoleggio per chiedere se poteva riconsegnare a Fiumicino l’auto a noleggio. Lo stesso giorno la Corte penale internazionale ha spiccato il mandato d’arresto chiesto dal procuratore il 2 ottobre scorso per le sevizie ai prigionieri negli ultimi tredici anni (non solo migranti, anche dissidenti ci sono nel carcere di Tripoli). Sempre sabato un funzionario della Corte dell’Aja ha avvisato un funzionario dei servizi dell’ambasciata italiana in Olanda che Almasri sarebbe entrato in Italia, dove è stato arrestato la sera del 19. Il presidente della Corte dell’Aja aveva già annunciato di estendere le indagini sulla vicenda della fossa comune di Taruma - con gli scheletri delle vittime della guerra del 2019 - alle violazione per crimini contro l’umanità nelle carceri libiche. Aveva anche detto che i nomi sarebbero restati coperti, segno di quanto si fidino all’Aja dei governi dei Paesi in cui i miliziani libici scorrazzano tranquilli. In Italia ai miliziani libici gli abbiamo pure organizzato i campionati di calcio, gli illustri ospiti hanno fatto infiniti capricci, si sono pure lamentati delle condizioni dei campi. Quando la Corte pensale viene a sapere che Almasri è in un paese aderente a Statuto di Roma dirama la red notice e la polizia giudiziaria italiana fa scattare l’arresto. Lui viene portato al carcere delle Vallette, i tre che sono con lui vengono “espulsi” (gli viene dato il foglio di via e vengono lasciati liberi? Vengono caricati su un aereo? E soprattutto, chi hanno incontrato prima del 19, cos’hanno fatto tutti e quattro in Europa? Davvero stavano in Italia solo per la partita a Torino? E da chi avevano rassicurazione di potersi muovere indisturbati?). Il criminale Osama Njeem Almasri è stato liberato il 21 sera con un provvedimento della Corte d’appello di Roma che ha raccolto la richiesta del Procuratore generale a dichiarare “la irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il Ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte Penale internazionale, Ministro interessato in data 20 gennaio e che, ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta In merito”. La Corte dice quindi che non ricorrono le condizioni per la convalida e, conseguentemente, per una richiesta volta all’applicazione della misura cautelare. Trova un vizio di forma e, viste passare le 48 ore, scarcera. Come se in Italia fosse già stato abolito il reato di tortura. Ignora il precedente della condanna di trafficanti libici, legati alle milizie colpevoli del reato di tortura, da parte del Tribunale di Messina. Eppure Almasri era sotto la giurisdizione italiana e le prove trasmesse dalla Corte penale internazionale erano assai consistenti. Ma la Corte ha preferito evocare un vizio procedurale, senza entrare nel merito delle responsabilità. Di tutto ciò si potrebbe anche discutere se non fosse che il prezioso lavoro del cronista di Radio radicale, Sergio Scandura, ha documentato che il Falcon è decollato da Roma Ciampino per andare a prendere il libico molto prima del provvedimento della Corte e molto prima della nota stampa di Nordio in cui il ministro diceva di “star valutando”. Quindi la decisione è stata presa altrove e il Procuratore e la Corte hanno eseguito. È questo il dato più grave di tutta questa gravissima vicenda. Nota Scandura: “Alle 16:04 il ministro Nordio consegnava ai cronisti la nota stampa, il Falcon 900 italiano alle 11:14 ha lasciato Roma Ciampino e alle 12:15 stava già a Torino Caselle pronto a imbarcare Osama Najim ‘Al Masri’ Habish per riconsegnarlo in serata a Tripoli”. Atterrato alle 21:42. Nel pomeriggio la nota stampa del ministero annunciava grande lavorio di cervelli sul caso (“considerato il carteggio complesso”),(“Nordio sta valutando”), ma in realtà l’epilogo era già stato deciso molto prima perché l’areo da Ciampino è decollato alle 11:14 del mattino. Tutta la messinscena è stata montata sulla faccia di Nordio dice di aver saputo in ritardo. Eppure il governo sapeva da sabato che il libico stava entrando in Italia. Su questo ieri in Parlamento le opposizioni hanno chiesto a Giorgia Meloni di venire immediatamente a riferire in Aula e al ministro Nordio di dimettersi. Nordio ha poi il dovere di interloquire costantemente e tenere aggiornata interrottamente la Corte penale internazionale, cosa che evidentemente non ha fatto. Ieri pomeriggio la Corte penale non aveva ancora ufficialmente sul database il provvedimento della Corte d’appello di Roma, era quindi impedita nel commentare lo scandalo perché non aveva ancora ufficialmente il provvedimento del tribunale. Finché in serata ha fatto sapere che “senza preavviso e consultazione con la Corte è stato scarcerato e riportato in Libia. la Corte sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica da parte delle autorità su quanto accaduto”. Su tanti misteriosi ritardi e stranissime inerzie, brilla la perspicacia della difesa di Almasri che senza aver avuto il tempo materiale di leggere un bel nulla ha presentato una richiesta di scarcerazione basata proprio su un discutibilissimo e inscovabile vizio procedurale. Ma guarda un po’. Un fulmine d’avvocato. Italia-Libia. Perché l’Italia ha liberato Almasri? di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 gennaio 2025 Il cavillo giuridico che Nordio non ha rimosso, la scelta del governo e l’aereo dei Servizi. Perché l’Italia ha liberato Almasri, capo della polizia giudiziaria libica e del centro detenzione di Mitiga, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità? Nel governo la volontà di evitare contrasti con Tripoli sui migranti. La volontà del governo italiano di ignorare il mandato di arresto del generale Najem Osama Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica e del centro di detenzione di Mitiga accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, è svelata in una frase del procuratore generale di Roma: “Il ministro della Giustizia, interessato da questo ufficio in data 20 gennaio immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, ad oggi non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”. Qualunque “irritualità” dell’arresto del generale libico poteva essere sanata dal Guardasigilli, ma Carlo Nordio non ha ritenuto di farlo. Una decisione politica, evidentemente concordata con Palazzo Chigi che prima ha deciso di non convalidare l’arresto di Almasri e poi l’ha riportato in Libia a bordo di un aereo dei servizi segreti italiani. Com’era successo dieci giorni fa con l’iraniano Abedini. Lì c’era da onorare un patto con Teheran in cambio della liberazione della giornalista Cecilia Sala; in questo caso bisognava evitare guai con un elemento cardine della cooperazione italo-libica nel contrasto all’immigrazione, nonostante i crimini addebitatigli dalla Corte dell’Aia. Commessi proprio ai danni dei migranti trattenuti nel suo Paese. La richiesta del procuratore risaliva al 2 ottobre 2024, ma sabato scorso, 18 gennaio, è arrivata la notizia che Almasri si trovava in Europa; di qui l’immediata emissione del mandato d’arresto e il contestuale avviso al funzionario addetto alla sicurezza dell’ambasciata italiana in Olanda che il ricercato stava arrivando in Italia. Lo stesso giorno, infatti, s’era presentato in un autonoleggio in Germania chiedendo di affittare una macchina da riconsegnare all’aeroporto di Fiumicino. Il funzionario ha subito inserito il nome nella banca dati Interpol, e dagli accertamenti è saltata fuori la prenotazione presso un albergo di Torino, dove gli agenti della Digos si sono presentati all’alba di domenica 19 gennaio. Almasri, che la sera prima era andato allo stadio per vedere Juventus-Milan, è stato arrestato e gli atti sono stati inviati alla Corte d’Appello di Roma, competente per la cooperazione tra l’Italia e la Corte internazionale. Ed è negli uffici giudiziari della Capitale che è emerso il cavillo per non dare seguito a un arresto poco gradito dal governo. Per la Corte d’Appello, infatti, la polizia italiana s’è mossa in base alle norme sugli arresti a fini estradizionali, mentre in questo caso andavano applicate altre due leggi di ratifica e attuazione della cooperazione con la Corte dell’Aia. Che prevedono una preliminare e indispensabile “interlocuzione tra il ministro della Giustizia e la Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma”. In sostanza, la polizia non poteva arrestare il ricercato di propria iniziativa, ma solo su autorizzazione del ministro Guardasigilli al quale dovevano rivolgersi i magistrati dell’Aia. Che potrebbero averlo fatto tramite l’ambasciata in Olanda, come avvenuto per la richiesta fatta alla polizia, visto che una delle tante norme in materia prevede che le istanze siano trasmesse “per via diplomatica”. Fatto sta che quando la Corte d’Appello ha rilevato l’anomalia e ha chiesto un parere, il procuratore generale ha ritenuto la cattura di Almasri “irrituale”, ma non illegittima, e ha domandato al ministero della Giustizia che cosa intendesse fare. Il Guardasigilli, a quel punto, poteva risolvere il problema tecnico chiedendo di procedere secondo l’istanza della Corte internazionale. Come fanno i giudici quando non convalidano un fermo disposto dal pubblico ministero in assenza dei presupposti formali, ma di fronte ai gravi indizi e a una contestuale richiesta ordinano la custodia cautelare. Nordio invece non ha nemmeno risposto al procuratore generale, e a quel punto ai magistrati non restava che provvedere alla scarcerazione del generale libico, nell’impossibilità di convalidare l’arresto. Il resto della storia conferma che dietro i tecnicismi giuridici c’è la scelta politica di liberare Almasri e farlo tornare tranquillamente in patria. Visti gli indizi a suo carico raccolti dalla Corte dell’Aia, infatti, il ministro dell’Interno ha firmato un decreto di espulsione dall’Italia in quanto “soggetto pericoloso” con divieto di rientrare per i prossimi 15 anni, e il questore di Torino per i tre libici che lo accompagnavano. Potevano essere accompagnati all’aeroporto e caricati su un volo di linea per Tripoli, come si fa normalmente in questi casi. Ma il governo ha preferito caricare i quattro su un aereo di Stato a disposizione dei servizi di sicurezza, e riportarlo personalmente a casa. Italia-Libia. Amarezza e sconcerto per Almasri libero di Mario Chiavario Avvenire, 23 gennaio 2025 Esito amarissimo di una vicenda per molti versi sconcertante: è il minimo che si possa dire. Dunque, libero e trionfante è tornato a Tripoli il generale Almasri, benché colpito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale per tortura e altri crimini gravissimi, di cui vi sono molteplici testimonianze di istituzioni e organizzazioni non governative internazionali, documentate da tempo su queste colonne. Provvisoriamente arrestato sabato sera dalla Digos a Torino, è stato scarcerato tre giorni dopo dalla Corte d’appello di Roma. Giuridicamente, la soluzione si appoggia a un’interpretazione, che è ingeneroso definire “un cavillo” ma che non può dirsi incontrovertibile, della legge italiana di attuazione dello Statuto della Corte dell’Aja, la 237 del 2012. In sostanza - dicono i giuridici romani, cui competeva decidere su un’istanza difensiva - la Polizia, prima di procedere all’arresto, avrebbe dovuto interloquire con il ministro della Giustizia, non avendo il potere di agire come ha agito di sua iniziativa. È una risposta che fa leva sul silenzio mantenuto, su quest’ultimo punto, dall’art. 11 della legge, la quale si diffonde invece sul potere-dovere del ministro di chiedere alla corte d’appello, in casi del genere, che sia cautelarmene custodita la persona della quale è richiesta la consegna alla giustizia penale internazionale. È il classico argomento riassunto nel latinetto “ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit” (dove la legge volle, parlò; dove non volle, tacque), ma c’è spazio pure per ragionare in senso contrario: l’articolo 3 della legge suddetta stabilisce in via generale che nelle materie di cui si tratta “si osservano, se non diversamente disposto dalla legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale”, dettato in tema di estradizione su richiesta di uno Stato estero; e tra queste norme vi è un articolo (il 716) che, per situazioni analoghe a quella contestata sabato sera al ricercato dalla Corte internazionale, detta le regole cui si è attenuta la polizia torinese. Né si può dire che, disciplinando esplicitamente, e in deroga alle norme del codice attinenti a questa materia, la sola situazione di chi sia oggetto di una richiesta di custodia cautelare, la legge del 2012 abbia implicitamente interferito nel diverso campo dell’arresto provvisorio, impedendo con il silenzio l’applicazione delle norme del codice rientranti tra quelle richiamate dall’art. 3, così da fissare in proposito un divieto che non c’è nel codice, di arresto provvisorio ad opera della Polizia. Del resto, ci si potrebbe anche domandare come mai, una volta pervenuta al Ministero la comunicazione circa l’avvenuta emissione del mandato d’arresto internazionale, non si sia giunti subito a un’ordinanza applicativa della cusrodia cautelare da parte della Corte d’appello investita dall’ufficio del Guardasigilli. Carenza di documentazione di supporto e inesistenza dei requisiti per un’applicazione provvisoria, pur in astratto possibile ai sensi dell’articolo 14 della legge? O che altro? Una spiegazione sembra necessaria, per non dar adito all’ennesima delle ombre per le chiusure d’occhio dei nostri governanti (a dire il vero, non soltanto di quelli attuali) di fronte a violazioni dei diritti umani consumate in mare e sulla terraferma da funzionari, anche di alto grado, di Paesi come la Libia. C’è, però, almeno un altro aspetto che la vicenda mette ulteriormente in risalto. È quello del tramonto - si vorrebbe sperare solo temporaneo - del sogno di una giustizia penale internazionale che riuscisse a imporre in modo efficace una reale forza alle sue decisioni. Sì, forse non tutto e non sempre, nel funzionamento della Corte dell’Aja, si è espresso in modo totalmente credibile, e non solo a causa di poteri speciali come quelli che al riguardo lo Statuto concede a un organo politico com’è il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ci si sta abituando all’indifferenza -talora addirittura conclamata o preannunciata - e agli inadempimenti per l’obbligo di dare esecuzione a sentenze e provvedimenti di quella Corte? Allora, forse, non ha torto chi parla di “eclissi del diritto”. Italia-Libia. Un lavoro sporco che deve continuare di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 23 gennaio 2025 Il caso del generale libico a capo della “polizia giudiziaria” di Tripoli, fermato a Torino per un mandato di cattura della Corte penale internazionale, che lo considera un torturatore, e in appena 48 ore scarcerato e trionfalmente riportato in patria da un volo di stato italiano è semplice. A complicarlo sono le giustificazioni del governo Meloni. Arrestato in base all’ordine esecutivo della Corte dell’Aja, avrebbe dovuto essere consegnato ai giudici internazionali “al più presto” per essere processato, lo prevede lo statuto della Corte che proprio a Roma è stato firmato nel 1998. Rischia una condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, compresi omicidi, torture e stupri. Il ministro Nordio, invece, dopo 24 ore di silenzio ha fatto sapere - con un comunicato stampa - che stava studiando “il complesso carteggio”. Nel frattempo il volo che avrebbe riaccompagnato Osama Najeem Elmasri a Tripoli era già partito da Roma per recuperarlo a Torino. Studia studia, Nordio non deve essere riuscito a inventarsi nulla, così la via d’uscita l’ha trovata qualche ora dopo la solerzia della procura generale e della Corte di appello di Roma: il ministro della giustizia (piegato sulle carte) non era stato consultato prima dell’arresto (che però era obbligatorio in forza di un mandato esecutivo, emesso dopo che le consultazioni c’erano state). L’ingombrante “tifoso” libico (era a Torino per Juve-Milan, aveva in programma di proseguire per Roma) è stato così non solo scarcerato, ma anche riaccompagnato con tante scuse a Tripoli dove lo aspettavano caroselli e fuochi d’artificio. La ricostruzione governativa evidentemente non sta in piedi e la storia è assai più semplice. Quello che per la Corte penale internazionale è un aguzzino, è un valido collaboratore delle autorità italiane. Un protagonista di quella “politica mortale” (New York Times, non il manifesto) per la quale i flussi migratori dalla Libia verso l’Italia si aprono o si chiudono, e i migranti rischiano di morire di torture nei centri di detenzione in terraferma o di affogare in mare, sulla base di logiche di puro guadagno e di ricatto. Non c’è alcuna differenza nelle modalità di azione dei trafficanti e carcerieri libici, ufficiali (come Elmasri) o ufficiosi che siano, lo denunciano da sempre le Ong e lo ha certificato una missione promossa dal segretario generale delle Nazioni unite. È tutto scritto, è tutto noto, oltre ai rapporti e agli atti di accusa della Corte penale internazionale ci sono video, foto, migliaia di testimonianze: le più terribili violenze sono pratiche ordinarie nei centri libici. L’ipocrisia delle formule è una patina che viene via immediatamente, come una scusa di Nordio o il nome dell’apparato di repressione che dirige il fortunato generale libico che ha risparmiato anche sul biglietto di ritorno: “Istituto di riforma e riabilitazione”. Parole vuote, come “diritto” e “legalità internazionale”: per il nostro paese non contano niente. Più importante è tutelare chi può continuare a farci il favore di limitare le partenze, altrimenti ci tocca mandare i migranti in Albania - cosa che come si è visto non è affatto semplice. Conosciamo anche i nomi di chi ha promosso e firmato il “memorandum d’intesa” con la Libia che regge tutto questo sistema e giustifica i trasferimenti di denaro e mezzi dall’Italia e dall’Europa che lo sorreggono: il ministro dell’interno Minniti e il presidente del Consiglio Gentiloni nel 2017, la ministra Lamorgese e il presidente Conte che lo hanno prorogato nel 2020 e il ministro Piantedosi e la presidente Meloni che lo hanno ancora prorogato nel 2022 fino, per il momento, al 2026. Proprio la presidente Meloni che aveva promesso di scatenare una caccia mondiale ai trafficanti di esseri umani ma si accontenta di far arrestare qualche disperato tra i sopravvissuti in mare, identificato come “scafista”. I veri criminali invece li proteggiamo e li riaccompagniamo a casa, purché continuino il lavoro. In silenzio. Italia-Libia. La débâcle del diritto internazionale di Marina Castellaneta Il Manifesto, 23 gennaio 2025 Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra i quali tortura, omicidi, stupri e violenze sessuali commessi in Libia a partire da febbraio 2015. Sono le accuse rivolte a Osama Najeem Elmasri, destinatario di un mandato di arresto della Corte penale internazionale che, però, arrivato in Italia è stato arrestato, ma subito rilasciato. La Corte di appello di Roma, sezione IV, infatti, ha bloccato l’esecuzione del mandato di arresto. Un rifiuto che pesa come un macigno sulla giustizia penale internazionale e sulle vittime: il no alla consegna arrivato dall’Italia e l’immediato accompagnamento in Libia dell’accusato impedirà l’esercizio dell’azione penale e lo svolgimento del processo perché i procedimenti dinanzi alla Corte non si possono svolgere in contumacia. E certo Elmasri, riaccompagnato a casa dall’Italia, non correrà più il rischio di uscire dal Paese. Eppure, l’obbligo di cooperare con la Corte penale internazionale è cristallino: gli Stati sono tenuti a eseguire i mandati di arresto emessi dalla Corte e, nel caso di ostacoli o difficoltà nell’attuazione delle richieste, a interloquire con l’Aja. Ma alle regole e agli obblighi precisi di cooperazione sono seguiti fatti del tutto diversi. Dal punto di vista giuridico il quadro è chiaro sul piano formale, ma è diventato nebuloso nell’attuazione concreta. L’Italia ha ratificato lo Statuto e ha adottato la legge 237/2012 per adeguarsi, almeno in parte, alle sue disposizioni. L’articolo 11, che si occupa dell’applicazione della misura cautelare ai fini della consegna, s’inserisce nel quadro generale dell’obbligo di cooperazione con la Corte e, quindi, con l’obbligo per l’Italia di eseguire i mandati di arresto. In pratica, una volta arrivata la richiesta di applicazione di una misura cautelare, il pg effettua la richiesta sulla misura cautelare su istanza dell’Aja alla Corte di appello di Roma. Nel caso di difficoltà o dubbi è previsto un costante dialogo con la Corte penale internazionale. L’iter è stato lineare fino a un certo punto: la Pre-Trial Chamber ha emesso il mandato di arresto, lo ha notificato a sei Stati, inclusa l’Italia e lo ha trasmesso all’Interpol. L’arresto in Italia sembrava poter aprire le porte alla prosecuzione del procedimento all’Aja e a garantire il funzionamento della giustizia. Ma, poi, è arrivato il no della Corte di appello che ha respinto la richiesta e la convalida dell’arresto perché, in sostanza, non è stata seguita la procedura fissata dall’articolo 11 della legge 237/2012 che, ad avviso della Corte di appello, impone “una prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il ministro della giustizia e la procura generale presso la Corte di appello di Roma” e non permette l’applicazione dell’articolo 716 del codice di procedura penale che prevede l’intervento della polizia giudiziaria. Eppure, l’articolo 11 non richiede un intervento del ministro della giustizia (se non per l’inoltro del verbale nel caso di consenso alla consegna). Inoltre, l’immediato ritorno a casa del presunto autore dei crimini ha pure vanificato la possibilità del ricorso in Cassazione da parte del procuratore, come previsto sempre dall’articolo 11. Nella generale débâcle del rispetto degli obblighi di cooperazione è stato anche trascurato che il mandato di arresto della Corte ha, in questo caso, una particolare forza in ragione del fatto che la sua competenza è fondata sul deferimento della situazione libica da parte del Consiglio di sicurezza, con la conseguenza che gli Stati che non rispettano gli obblighi di cooperazione agiscono anche in contrasto con le decisioni vincolanti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Stati Uniti. Se l’America di Trump vuole la pena di morte di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 23 gennaio 2025 Nello spettacolo delle firme, che Donald Trump ha offerto ai suoi fan e imposto a tutti gli altri, un ruolo importante ha giocato la mole di dossier posti sulla sua scrivania. Ne è rimasto un poco in ombra e quindi poco commentato quello riguardante la pena di morte. Trump ha ordinato di riprenderne l’esecuzione dopo che, con una moratoria disposta da Biden, essa era rimasta sospesa. Allo stesso tempo Trump ha anche ordinato all’Attorney General di aumentare i casi in cui la pena di morte viene richiesta, specialmente per crimini commessi da migranti irregolari. Le prime notizie che sono state date hanno riferito che la pena di morte era stata reintrodotta. Una formulazione imprecisa. Avrebbe potuto essere reintrodotta se fosse prima stata esclusa. Una nuova previsione non sarebbe stata retroattiva. Ma così non è. Al livello federale - quello su cui Trump è intervenuto con il suo ordine - si era solo trattato di una moratoria, eliminando la quale le esecuzioni riprendono, anche per coloro che sono stati condannati in precedenza. Così Joe Biden negli ultimi giorni della sua presidenza ha commutato in ergastolo trentasette delle quaranta condanne a morte per crimini federali che attendevano di essere eseguite ed erano sospese. Per loro Trump ha ordinato che l’ergastolo sia eseguito con durezza. Ma proprio il caso dei rimanenti tre condannati dimostra che la pena di morte è sempre restata in vigore. Ed ora con il provvedimento di Trump dovrebbe essere eseguita. Per loro vita e morte dipendono dall’esito elettorale. La forma federale degli Stati Uniti consente legislazioni diverse nei vari Stati. Così in taluni la pena di morte è prevista, in altri è esclusa. La lista dei reati per cui può essere ordinata dalle Corti è diversificata (giudici e pubblici ministeri sono eletti dalla maggioranza alle elezioni politiche oppure nominati dal Presidente - la giuria è composta da giudici popolari). L’atteggiamento dei governatori degli Stati - democratici o repubblicani - è diverso nel far eseguire, sospendere, negare l’esecuzione. Accanto alle realtà nei vari Stati vi è poi il livello federale. Le regole procedurali e la possibilità di ricorsi portano normalmente a lunghissimi anni di attesa nel c. d. corridoio della morte. È difficile pensare che il condannato, al momento in cui viene ucciso, sia la “stessa persona” che ha commesso il crimine per cui è stato giudicato. L’attesa della morte - nel dubbio e nella lotta processuale - è stata ritenuta dalla Corte europea dei diritti umani un trattamento inumano, tale da impedire l’estradizione dei condannati negli Usa. Ma questo avviene in Europa dove, dopo un lungo svolgimento storico, è la stessa pena di morte a essere vietata. Negli Stati Uniti, nei vari livelli giudiziari fino alla Corte Suprema, si discute se l’uno o l’altro sistema per uccidere i condannati sia o non sia “crudele o inusuale”, come tale vietato dall’Ottavo Emendamento della Costituzione (sedia elettrica, impiccagione, iniezione letale, fucilazione, etc.). Ma la pena di morte è ritenuta costituzionale. Essa, nell’ordine esecutivo di Trump, è addirittura indicata come voluta dai Padri Fondatori degli Stati Uniti, cosicché sarebbero i critici a essere contro la Costituzione Il divieto della pena di morte è un fatto centrale nella definizione della cultura e dell’etica umanistica europea: nei 46 Paesi del Consiglio d’Europa e nei 27 dell’Unione europea. Un tratto distintivo e diversificante, anche rispetto a società e Stati per altri versi vicini. Come è il caso degli Usa. Ed è per questo che il ricorso alla pena di morte negli Stati Uniti suscita - deve suscitare - tanta emozione e quel dossier sulla scrivania del presidente deve essere tirato fuori dal mucchio e fatto oggetto di speciale condanna. È vero che una critica altrettanto severa non viene fatta e ripetuta per le tanto più numerose uccisioni di condannati in Iran, in Cina e altrove. Non si tratta di pregiudizio antiamericano. È il contrario. Essa deriva proprio dalla riconosciuta vicinanza. Infatti si usa, senza tanto precisarlo, il termine Occidente, per distinguere gli “altri” e tenere insieme l’Europa e le Americhe. Ma la pena di morte divide, separa. La questione è tanto più grave perché il successo elettorale di Trump dimostra che il suo orientamento, anche in ordine alla pena di morte, è largamente condiviso a livello di opinione pubblica. È cioè un fatto di società. In un lontano soggiorno di studio in Texas ricordo quante volte il mio essere italiano produceva la ripetuta e sorprendente domanda sulla pena di morte. E lo stupore per la risposta negativa. Una risposta negativa che cercavo di spiegare con un poco di orgoglio, accennando al fatto che l’abolizione in Italia risale alla fine del ‘700 (Leopoldo II, Granduca di Toscana) e che in tempi recenti fu il fascismo a reintrodurla, fino a che la Costituzione repubblicana l’ha definitivamente vietata. Un orientamento, dunque, largamente presente nella società americana. D’altra parte - altra ragione di diversità per noi europei - una cultura di morte è espressa dalla enfatizzata mania delle armi e dalla frequenza di stragi nelle scuole e nei luoghi pubblici, ignote altrove. La soddisfazione di Trump, che traspare nella motivazione del suo ordine esecutivo, è coerente con quel contesto sociale. Stati Uniti. Tende per i deportati, soldati al confine col Messico: arriva la stretta di Lucia Capuzzi Avvenire, 23 gennaio 2025 La cancellazione della piattaforma per presentare le richieste da parte dell’amministrazione Trump lascia bloccate alla frontiera 33mila persone. Pronte sanzioni per chi non collabora. Cassata la corsia preferenziale per haitiani, venezuelani, nicaraguensi e cubani. Il Messico monta tende per accogliere i deportati. Sanzioni agli agenti che non collaboreranno alle retate “Ora che cosa accadrà?”. Da Tijuana a Nuevo Laredo, la domanda si ripete martellante fra i 33mila “reduci” della app Cbp, creata dall’Amministrazione Biden per presentare richiesta d’asilo. Donald Trump l’ha bloccata ancor prima di mettere piede nello Studio ovale. Mentre, lunedì, pronunciava il discorso inaugurale, sui cellulari degli interessati è comparso il messaggio: “Gli appuntamenti sono stati cancellati”. Tutti: sia i 3mila già fissati fino al 18 febbraio, sia i 30mila in attesa di data. Da allora è apparso chiaro il giro di vite trumpiano era solo all’inizio. Non solo è stato congelato il sistema per chiedere asilo. Anche chi l’ha già ottenuto non potrà raggiungere gli Usa. I voli programmati per i rifugiati ammessi sono stati annullati. Lo stop, annunciato dal presidente per il 27 gennaio, è stato anticipato a mercoledì. Le pratiche in corso sono state fermate. Inclusa quella per duecento famiglie di soldati afghani che sarebbero dovute essere ricollocate ad aprile. Le nuove istanze sono, al momento, impossibili. Cassata pure la “corsia preferenziale” concessa da Biden a haitiani, venezuelani, cubani, nicraguensi, a causa della gravità delle crisi in atto nei rispettivi Paesi. Basta domande e nessun rinnovo per il mezzo milione arrivato negli Usa con un permesso di due anni grazie alla protezione umanitaria temporanea. L’unico spiraglio per l’asilo resta l’esame caso per caso anche se ancora non è chiaro come fare. Questo accresce l’ansia lungo la frontiera dove il governo ha appena ordinato il dispiegamento di altri 1.500 militari che dovrebbero supportare i 2.200 militari della Guardia nazionale già mobilitati per l’”emergenza nazionale” appena decretata. Obiettivo: tenere sprangate le porte dell’America. Almeno in entrata. In uscita, al contrario, il capo della Casa Bianca è deciso a spalancarle per far uscire “quanti stanno nel nostro Paese senza averne diritto”, come più volte affermato in campagna elettorale. Il programma di “deportazioni express” è pronto nel cassetto e prevede retate a tappeto ovunque, senza eccezioni. Nemmeno i luoghi finora “sicuri” - come chiese, ospedali, scuole - lo sono più. Ogni riluttanza nell’adeguarsi al nuovo corso da parte dei funzionari sarà perseguita con severità. Passare dalla carta alla realtà è questione di ore o di giorni. Il Messico sta già preparando le tendopoli in nove città di confine per accogliere quanti verranno spediti dal vicino. L’incognita di chi si tratterà. Solo i cittadini messicani rimpatriati, come vorrebbe la presidente Claudia Sheinbaum, o tutti i “latinos”, secondo l’idea trumpiana di rispolverare il vecchio programma “Remain in Mexico”? Il ministro degli Esteri, Esteban Monteczuma Barragán ha contatto ieri il neo-segretario di Stato Marco Rubio per “negoziare i dettagli”. Non è detto che Trump sia disponibile alla trattativa. Come nel primo mandato potrebbe ricorrere all’arma dei dazi per convincere Sheinbaum ad accettare le sue condizioni. La minaccia di tassare al 25 per cento le merci messicane dal primo febbraio rientrerebbe in questa strategia.