Il ministro Nordio dice no ad amnistia e indulto: “Incentivano la recidiva” di Giulia Casula fanpage.it, 22 gennaio 2025 Oggi il ministro della Giustizia ha tenuto al Senato la sua relazione annuale sullo stato della giustizia italiana. Tra i temi toccati dal Guardasigilli, il sovraffollamento delle carceri contro cui Nordio ha ribadito il suo no a provvedimenti come amnistia e indulto: “Sarebbero un segno di debolezza dello Stato”. “Escludo provvedimenti come amnistia o scarcerazioni lineari, sarebbe una debolezza dello Stato”, ha detto in Aula. “Si può essere generosi quando si è forti, non quando si è costretti dalla necessità delle cose. Sarebbe un incentivo alla recidiva”, ha aggiunto. Contro il sovraffollamento delle carceri il Guardasigilli ha detto che il governo starebbe lavorando su tre fronti: eventuale “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti, “espulsione degli extracomunitari” dal territorio nazionale e poi “stiamo agendo nei confronti della carcerazione preventiva” che riguarda il 20% dei detenuti. “Stiamo monitorando situazione, è molto alta la percentuale di extracomunitari, dovrebbe farci riflettere su questa distonia” ha continuato. “Il nostro sistema non è carcerocentrico al 100%”, ha sottolineato, su “forme alternative di detenzione vi assicuro che stiamo lavorando”. Durante la sua relazione sullo stato della giustizia italiana, Nordio ha difeso le misure portate avanti dal governo, in particolare l’abolizione dell’abuso d’ufficio. “Le principali misure normative del 2024 si inseriscono in misure normative adottate ispirate all’esigenza di introdurre nuove forme di protezione sui temi giuridici primari della collettività”, ha dichiarato. “Tra le più significative cito la legge 14/2024 per la ratifica del protocollo Italia-Albania”, “il decreto legge 92 in maniera penitenziaria che prevede un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, una novità estremamente importante che porterà efficenza e rapidità nella risoluzione o nella riduzione dei problemi dell’edilizia carceraria, e la legge con cui è stata disposta l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, che ha ridato serenità a moltissimi amministratori”, ha detto. “Si sono rafforzate poi le garanzie degli indagati e dei terzi nel delicato settore delle intercettazioni e delle misure cautelari, senza vulnerare le indispensabili forme di indagini nei confronti della criminalità organizzata, mafia e terrorismo”, ha concluso. Il ministro è anche intervenuto per chiarire la questione legata ad ‘App’, la piattaforma per la gestione del processo penale telematico dopo le polemiche sulle difficoltà registrate gli scorsi giorni nel funzionamento del sistema. “La prima fase di realizzazione del processo telematico ha richiesto e richiederà un notevole sforzo finanziario e anche un notevole sforzo di immaginazione e di organizzazione”. Per Nordio “queste novità tecnologiche hanno creato criticità, ma siamo certi che entro la fine dell’anno saranno superate e rientreremo nei vincoli del Pnrr”, ha aggiunto. “La riforma della giustizia con la separazione delle carriere era un obbligo e un dovere verso i nostri elettori”, ha affermato Nordio aggiungendo che la “coalizione si era presentata compatta con questo programma”. Il Guardasigilli ha poi assicurato che la riforma completerà il suo iter entro l’estate. “Come ho più volte detto - ha proseguito - con la consapevolezza intellettuale e l’impegno morale di chi per oltre quarant’anni ha indossato la toga del magistrato, non c’è nessuna disposizione che, nella lettera o nella ‘voluntas’ o nella ‘ratio’, preveda l’assoggettamento del pubblico ministero all’Esecutivo”, ha detto a proposito della discussa separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. “Il rischio di una sottoposizione del pm all’Esecutivo, anche questa è un’interpretazione scadente di un pregiudizio obsoleto. Non c’è nessun parallelismo, nessuna consequenzialità tra le due situazioni”, ha ribadito. Secondo Nordio “è sufficiente leggere il testo, chiarissimo, del nostro disegno di legge costituzionale, per assicurarsi che la magistratura requirente mantiene le medesime prerogative di quella giudicante - sottolinea - Ogni altra interpretazione costituisce un processo alle intenzioni che non solo offende la dignità del Parlamento, ma ne dimentica il ruolo, posto che un’eventuale modifica futura dovrebbe transitare attraverso una nuova, e simmetrica, procedura di revisione costituzionale”. A che serve la pena senza riparazione? di Massimo Donini L’Unità, 22 gennaio 2025 In un tempo nel quale non si può leggere un giornale se non si acquisisce qualche conoscenza penalistica, ha un senso concreto cercare di spiegare alcune innovazioni attuali in materia di uso della sanzione punitiva pubblica. Che si tratti di capi di Stato (prima, durante o dopo l’immunità per essi prevista, durante il mandato) o di ministri, di parlamentari o di imprenditori, di amministratori pubblici, di comuni cittadini di ogni classe sociale, siamo tutti soggetti al sindacato giuridico dei poteri, dei doveri, delle condotte, pubbliche e private. Questo sindacato è spessissimo di tipo penale, nazionale o persino internazionale. Che poi la pena si applichi in modo discontinuo o differenziato, con disuguaglianze sia in astratto e sia soprattutto in concreto, anche per classi sociali, è questione diversa che si potrà commentare in altro momento. Potenzialmente nessuno ne resta escluso. Non solo. L’estensione della legislazione penale è tale che nessuno può dire serenamente di non aver commesso un qualche reato (basta una spinta perché si configuri una percossa, o una maldicenza diffusa perché ci sia diffamazione, o una disonestà nel commercio perché si entri nel rischio dei reati patrimoniali o di quelli economici) o di non poterlo commettere. Una volta questa universalità apparteneva alla morale. Oggi anche al diritto. La cultura collettiva, la formazione scolastica stessa dovrebbero prendere atto di ciò. Ci sono molti warning. Tutta la storia potrebbe essere riletta attraverso questo paradigma: sarebbe culture cancel o riappropriazione del passato? Porci questa domanda è oggi inevitabile. L’uso pubblico delle sanzioni punitive può essere limitato a quelle civili e amministrative che non presentano nessuna o scarsa forza censoria, anche se sono spesso più risolutive ed efficaci di quelle penali. Le sanzioni penali, invece, possono permettersi di non servire a nulla che non sia la soddisfazione pubblica o privata, “espressiva” di biasimo e sofferenze aggiunte, che vendicano in modo proporzionato un male commesso. Anche giudici costituzionali (ma non la Corte) si esprimono oggi a favore della tutela dell’”istintivo” bisogno di “giustizia” delle vittime, quale recupero dell’identità dell’intervento punitivo dello Stato a favore dei loro diritti. I politici, poi, lo ribadiscono spesso. Siamo così circondati da bisogni e istinti punitivi, che i media riflettono impietosamente. Di fronte a questo invasivo apparato emotivo-concettuale che non esprime nulla di nuovo rispetto a quanto sappiamo da secoli, cerchiamo invece di indicare alcune novità che possono riportare razionalità e davvero giustizia nella risposta punitiva, anche a favore delle vittime. Di recente ha avuto il primo sì il disegno di legge costituzionale che inserisce la tutela della vittima di reato nella Carta fondamentale, ma prevede anche un quorum qualificato dalla maggioranza assoluta degli aventi diritto di ciascuna Camera per introdurre nuove pene o reati. Dentro a questo scenario diventa fondamentale recuperare una base razionale, e non istintuale, alla risposta sanzionatoria, attraverso l’idea riparativa. Non ci deve mancare la compassion, e neppure la pietas, che sono tuttavia ben altro dalla voglia di restituire il male subìto. La vittima non ha diritto al castigo, ha diritto a una protezione anticipata, ma poi, a illecito compiuto, ha diritto al suo accertamento, alla riparazione e al risarcimento. Il castigo è dello Stato (l’assunto ricorda perfino la famosa frase di Jahvè nel Deuteronomio: la vendetta è mia). Il suo c.d. bisogno di giustizia dissimula troppo spesso un istinto di vendetta che il monopolio della forza nei poteri dello Stato garantisce che sia tenuto sotto controllo. I tribunali, infatti, sono idealmente stati istituiti per controllare la vendetta, come esemplarmente descritto da Eschilo nelle Eumenidi, in una tragedia per nulla letteraria che riguarda l’essenza della pena tradizionale come risposta vendicativa in un ciclo di sangue che le Erinni possono perpetuare senza fine. Anche la proporzione della pena, categoria oggi rediviva nei pensieri ripetitivi dei giuristi, non ci libera affatto dalla reazione vendicativa, perché la limita soltanto, conservando le sue radici nel profondo della sua essenza compensativa. Dato che la proporzione serve a limitare il castigo, la conserviamo tra i ferri del mestiere. Ma senza innamoramenti, perché nella misura “giusta” non c’è l’anima della giustizia: c’è lo spirito del male aggiunto, il suo veleno che non ripara ma disseta Aletto, Megera e Tisifone. Quando quel veleno diventa davvero razionale e benevolo, anche se affligge? Quando la sua base commisurativa, il punto di partenza sono il valore del danno (il “danno fatto alla Nazione”: Beccaria) e l’entità dell’offesa agli interessi protetti: non la colpa. Invece, la colpa come colpevolezza è categoria del rimprovero, dal quale l’ordinamento, nella sua umanità, deve proteggere le persone accusate. Una intera categoria culturale presente nella letteratura scientifica e universitaria, la colpevolezza/Fault/ Schuld, col suo rimprovero/Blame/ Vorwurf, ha ottenebrato le menti dei giuristi, facendo loro credere che sia possibile entrare nell’anima del reo, come preti e psicologi. Ma il giudice di regola non sa niente dell’anima nel corso del giudizio penale, perché la colpevolezza interiore non si accerta. Eppure, la si vorrebbe misurare. Per alcuni è il fondamento della pena, per altri un limite. In realtà si accertano gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, oppure le cause scusanti come vizi di mente, costringimenti psichici, impossibilità di conoscere la legge etc. Invece la colpevolezza interiore è mescolata e confusa con la prova eventuale (non indispensabile) dei moventi, con giudizi sul tipo d’autore dovuti alla sua vita anteatta, ai suoi precedenti etc. La si dovrebbe fissare in un ultimo fotogramma, che è quello della consumazione del reato. Se la condotta risale al giorno x dell’anno 2025 e il dibattimento si celebra due, quattro anni o sei anni più tardi, tutto quello che è accaduto dopo la condotta del giorno x non cambia la colpevolezza, anche se può mutare il giudizio sulla meritevolezza di pena per il fatto che la persona è cambiata, ha neutralizzato le conseguenze dannose o pericolose del reato, si è riconciliata con la vittima, o ha svolto percorsi incompatibili con l’illecito commesso a suo tempo. Dunque: la colpevolezza, categoria di incertissimo contenuto scientifico, non può definitivamente inchiodare la persona a un giudizio solo sul passato, perché la pena riguarda il suo presente e il suo futuro. Il rimprovero, poi, categoria non scientifica, ma psico-sociale e antropologica, riflette giudizi di valore dai quali il magistrato è in realtà tenuto ad astenersi. Invece tutto cambia se si parte da dati oggettivi costituiti dal danno o dal pericolo conseguenza del fatto e dalla situazione sociale e personale dei rapporti del responsabile con la vittima e la società. Oggi lo Stato promuove per tutti, anche per chi ha commesso un delitto imperdonabile o dal quale non si può tornare indietro, programmi di riparazione, riconciliazione, sanatorie, condoni, collaborazioni, offrendo alle vittime o alla società obiettivi concreti di ricevere ristoro, risarcimento, di recuperare beni o prestazioni, vantaggi, di ritrovare se vogliono una relazione che non le separi per sempre in un lutto o in un rancore definitivo. La pena non è cancellata, se non in qualche caso, ma può essere diminuita. Tuttavia, l’obiettivo è di offrire alle vittime, o comunque alla collettività, prestazioni, ristori, ricostruzioni, recuperi, bonifiche, risanamenti, e agli autori un riscatto umano. Queste prestazioni sopravvenute non sono più lasciate a iniziative estemporanee, non sono eventualità private, meri oneri. Anche se non c’è nessuna costrizione (di regola), esse diventano un programma di Stato. Inusitato. C’è voluto un po’ di tempo perché le stesse istituzioni capissero quello che stavano preparando, che non era il prodotto di una parte, di qualche governo, ma si evolveva per accumulo di regole e istituti, e resisteva al mutar delle coalizioni. La panpenalizzazione, che l’introduzione di un quorum per approvare le leggi penali dovrebbe limitare, ha reso ancora più urgenti progetti orientati al sociale, alle conseguenze e non a finalità espressive del mero bisogno sociale di soddisfazione istintiva di vendetta. Attualmente lo Stato offre e sostiene due paradigmi riparatori a chi ha commesso un reato: 1) la riparazione dell’offesa, con neutralizzazione del danno o del pericolo (molti reati sono solo di pericolo e senza vittima individuata, offese a interessi collettivi, istituzionali, economici di impresa ecc.), forme di risarcimento, sanatorie, condoni, collaborazioni processuali, ecc.; 2) la c.d. giustizia riparativa basata sulla mediazione tra autore e vittima fuori del processo, con l’obiettivo di una riconciliazione e prestazioni riparatorie anche simboliche. Sono due forme diverse, una più prestazionale e forse anche laica, del tutto tradizionale e collaudata, da vari anni ampliata a tanti istituti e reati ad impatto processuale e sanzionatorio molto definiti; e una più coinvolgente le persone in carne ed ossa, la loro storia, attraverso una riparazione interpersonale: la restorative justice programmata anche in tanti documenti internazionali e massicciamente regolamentata dalla riforma Cartabia, che ha ancora una attuazione processuale a lento sviluppo, ma presenta un volto umanistico innegabile. Queste due forme di riparazione rappresentano insieme la più grande novità per l’istituto della pena degli ultimi decenni, insieme alle pene alternative al carcere: ancor più rilevanti di queste, tuttavia, perché mirano decisamente a una pena agìta e non solo subìta, e a un nuovo modello di giustizia penale, che non intende semplicemente raddoppiare il male del reato con il male della pena, ma offrire ai tre protagonisti del conflitto, autore, vittima e società, una risposta positiva di recupero dei rapporti con effetti concreti, anche materiali e non solo ideali, diversi dalle ben più incerte misurazioni della colpevolezza e del rimprovero. È una giustizia solidale, che esprime solidarietà e non semplicemente condanna. Anche prestazioni a favore della collettività, o la neutralizzazione di situazioni solo pericolose, o un contributo all’accertamento di situazioni complesse, possono avere un contenuto riparatorio in senso lato del reato e un effetto risocializzativo per fatti di per sé irreparabili in senso stretto, sì da allargare moltissimo lo spazio applicativo di vari istituti ai tantissimi reati senza vittima esistenti. Riflettere su queste nuove dimensioni della pena che si aprono all’orizzonte significa cominciare a diffondere una diversa cultura del penale, che si potrebbe anche insegnare nelle scuole medie, e non solo in quelle per le professioni legali. Di un simile progetto culturale parleremo ancora, perché siamo solo all’inizio di una speranza e non nella tradizione della vendetta collettiva. Io, detenuto, vi dico: se la pena diventa vendetta perde il Diritto e l’umanità di Lucio* Il Dubbio, 22 gennaio 2025 Si è concluso un anno tormentato, nel quale il tema dei femminicidi ha elevato l’apprensione sociale, ma anche l’incapacità generale di capire un fenomeno che andrebbe indagato sul piano culturale più che nei tribunali, per trovarne antidoti nel vivere sociale e tra le mura domestiche. Sul caso Cecchettin e quello di Giulia Tramontano, che hanno attratto l’interesse mediatico con i processi celebrati prima di tutto in tv, con periti, esperti e giuristi a dire la loro e sentenziare, alla fine i tribunali hanno concluso con l’ergastolo per Turetta e Impagnatiello. In mezzo l’inasprimento del codice rosso e la richiesta (assecondata dal legislatore) di inasprimento delle pene. L’8 gennaio 2025 la Corte d’assise di Modena, nel giudizio sul duplice femminicidio di Gabriela Trandafir e della figlia Renata, ha condannato aa 30 anni di reclusione il responsabile, Salvatore Montefusco, al quale sono state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti. La sentenza ha fatto gridare allo scandalo con una levata di scudi bipartisan di politici e associazioni a difesa delle donne, che hanno all’unisono, stacciandosi le vesti, criticato l’estensore della sentenza (una donna, la Presidente Ester Russo) di grave arretramento culturale. A queste persone a cui di tutta evidenza sta più a cuore inseguire il consenso dell’opinione pubblica anche su un terreno così delicato, sfugge il senso primo della sentenza di condanna che in ossequio al dettato costituzionale deve tendere alla risocializzazione del reo (art. 27 Costituzione). Hanno valutato, come ha fatto la Giudice, la portata di una pena alla reclusione di 30 anni per una persona che di età ha 70 anni? Che senso avrebbe una condanna all’ergastolo per una persona di 70 anni che probabilmente non arriverà neppure a scontare l’intera pena inflitta di 30 anni. In che modo un ergastolo a 70 anni può costituire viatico di revisione dell’agito e risocializzazione, perché a questo deve tendere la pena comminata, non a compensare il danno irreparabile compiuto con l’omicidio di una persona. Ed ancora ci chiediamo e chiediamo: si può ancora pensare alla pena senza fine mai come strumento di recupero umano e restituzione alla società di una persona migliore? La reazione alla sentenza evidenzia come per certe “autorevoli” persone la pena per essere accettabile e socialmente legittima non deve essere commisurata alla responsabilità del reo e alle circostanze del fatto, ma corrispondere alle aspettative del pubblico e alle contingenze del suo insindacabile gusto. Perciò essendosi ormai tutti, a destra come a sinistra, fatti la bocca ai sapori forti, cioè all’idea che il massimo della giustizia coincida con il massimo della pena per tutti i reati più gravi e riprovevoli, che un processo per omicidio - a maggior ragione se si tratta di femminicidio - si concluda con qualcosa di diverso dall’ergastolo è da considerarsi come un oltraggio alla vittima e al popolo tutto, in nome del quale la sentenza viene pronunciata. L’insurrezione della politica indignata è scattata per riflesso condizionato a comando, di fronte alle prime sintesi giornalistiche, anch’esse convenientemente allarmate e attonite, sulla sentenza e le sue motivazioni. Nessuno degli istantanei commentatori aveva né letto, né meditato le duecento tredici pagine in questione, perché presumeva di non averne bisogno. Non rilevano nella vicenda davvero le ragioni per cui la Corte ha condannato l’assassino “solo” a trent’anni di reclusione, riconoscendo attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate (avere agito contro la coniuge, in presenza di un minore e in un contesto di maltrattamenti in famiglia) ed escludendo la premeditazione del delitto. Rileva solo che i giudici non si dovevano permettere di fare quella sentenza. A leggere le duecento tredici pagine scritte dalla Presidente del collegio con lo spirito di verità con cui si leggono le tragedie greche (si pensi all’Orestea di Eschilo), come meditazione dell’immanenza del male nelle relazioni e nei comportamenti umani, senza liquidarle sbrigativamente, si capirebbe il senso di quanto motivato (si immagina con grande fatica, disagio e non trascurabile sofferenza) si capirebbe (come traspare dall’interrogatorio del figlio dell’omicida) in che senso per i giudici, analizzando il clima familiare e le violenze morali e materiali che i coniugi - l’assassino e la moglie, con il sostegno della figlia - reciprocamente si infliggevano, abbiano ritenuto che tale clima abbia innescato il raptus omicida unitamente alla condotta confessoria, al contegno processuale e alla sostanziale incensuratezza dell’imputato. E abbiano valutato la concessione delle attenuanti generiche, pur con l’esclusione di quella della provocazione da parte delle vittime. I giudici, con ampia motivazione, giungono alla conclusione che l’imminente sentenza di separazione e il rischio concreto di perdere sia l’abitazione (pagata dal marito e intestata alla moglie), sia l’affidamento del figlio minore, abbia innescato nell’uomo il black out omicida, maturato all’interno di una irrimediabile faida familiare. “La comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato” - passaggio delle motivazioni a cui i giudici sono stati impiccati sulla pubblica piazza mediatica - non è stata invocata per giustificare il delitto o minimizzarne la gravità, ma semplicemente per irrogare una pena più lieve, ma pur sempre di trent’anni, per il duplice omicidio. C’è un passaggio vanamente, ma meritoriamente didascalico della sentenza in cui i giudici spiegano che le attenuanti generiche “costituiscono il “luogo privilegiato” in cui trovano spazio considerazioni di equità a favore del reo, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca dei fatti. E ciò, segnatamente, per i delitti di competenza della Corte di Assise, la cui esistenza trova la ragion d’essere della composizione mista del giudicante, sia nella necessità che le pene più gravi siano irrogate in nome del popolo italiano da una giuria che lo contempli nella sua effettiva costituzione e non solo simbolicamente; sia nella capacità del cittadino comune (che si esprime al di là dei tecnicismi propri del giudice togato e oltre gli stessi) di comprendere, di giudicare e infine di calibrare la sanzione utilizzando la sensibilità, il senso logico ed etico, la quotidiana esperienza, l’assennatezza del quisque de populo, ed, in ultima analisi, l’onestà e il comune sentire del buon padre di famiglia di latina memoria”. Il codice penale ha in mente appunto il “cittadino comune” e il “quisque de populo”, non il pubblico dello spettacolo giudiziario e l’indignato collettivo, che esige, come minimo, di buttare la chiave della cella di qualunque assassino. I giudici di Modena citando la Corte Costituzionale, a proposito della valutazione comparata delle attenuanti con le aggravanti, hanno ricordato come “attraverso tale ragionamento si vada ad attuare il principio di proporzionalità, desunto dagli artt. 3 e 27 della Costituzione, che esige che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo il quale a sua volta dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile”. Queste le considerazioni che portano ad accogliere la sentenza non come la mancata occasione di una pena esemplare (ergastolo) ma come il momento, spesso doloroso, in cui il Giudice immagina un percorso sanzionatorio che possa lasciare aperta la speranza di un percorso di revisione e di risocializzazione, ben sapendo che il bene assoluto della vita stroncata non può trovare, né troverà mai, compensazione o ristoro nella pena comminata dalla sentenza, pena che non ha la finalità retributiva bensì quella voluta dall’art. 27 della Costituzione. Frequentemente la rabbia, sempre più feroce, induce a ritenere il diritto penale non più come limite alla pretesa punitiva dello Stato, che si suppone proporzionata alla gravità del fatto, ma come mero strumento di vendetta legalizzata, con buona pace di quel principio di umanità che si vorrebbe contrapporre all’utilizzo degli algoritmi predittivi nell’ambito della giustizia penale. *Detenuto nella Casa di Reclusione di Milano-Bollate Dacia Maraini: “Il sovraffollamento nelle carceri è una forma di tortura” di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 gennaio 2025 “Il carcere dovrebbe essere un posto dove si paga una colpa ma con dignità e, come dice la Costituzione, con la possibilità di studiare, lavorare, giocare, dormire senza sentirsi come topi chiusi in una gabbia”. A parlare è la grande scrittrice, autrice di “Bagheria”, di “La lunga vita di Marianna Ucria” e molti altri romanzi, che ha svolto diversi seminari negli istituti di pena romani: “La detenzione dovrebbe aiutare le persone a riflettere, non a difendersi dalla ressa, dall’inerzia e dalla totale mancanza di spazio e di libertà”. L’anno scorso nelle carceri sono stati 83 i suicidi, secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (dati al 20 dicembre 2024), 90 secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti (dati al 31 dicembre 2024). E già sono otto i detenuti che si sono tolti la vita nel 2025. Mentre il sovraffollamento ha raggiunto il 132,05% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili, dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al 10 gennaio 2025). “Il sovraffollamento è una forma di tortura”, dice la scrittrice Dacia Maraini. Maraini, nelle carceri l’emergenza è da tempo strutturale… È grave che in tanti anni nessun Governo abbia pensato ad allargare le carceri del nostro Paese. Non si può pretendere che otto persone stiano pigiate dentro una cella di tre metri per tre, come raccontano alcuni carcerati. Uno dei motivi dei tanti suicidi dipende proprio da questo: il carcere dovrebbe essere un posto dove si paga una colpa ma con dignità e, come dice la Costituzione, con la possibilità di studiare, lavorare, giocare, dormire senza sentirsi come topi chiusi in una gabbia. Con una sentenza dello scorso 2 gennaio la prima sezione penale della Cassazione ha stabilito che il ricorso di un detenuto del carcere di Asti, per poter svolgere colloqui con la moglie in intimità, non può essere dichiarato inammissibile dall’ufficio di Sorveglianza di Torino dopo che l’istituto di pena aveva rifiutato la richiesta dell’uomo poiché “la struttura non lo consente”. Nella sentenza si dice che la richiesta “di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità” è un diritto e non “una mera aspettativa” da parte del detenuto, riprendendo la motivazione della sentenza della Corte costituzionale del 26 gennaio 2024. Cosa vuole dirci sul diritto, in carcere, ad avere colloqui in intimità con il proprio partner? Il carcere dovrebbe aiutare le persone a riflettere, non a difendersi dalla ressa, dall’inerzia e dalla totale mancanza di spazio e di libertà. Ma qui viene fuori la questione della scarsità del personale. Perché un Paese benestante come il nostro non riesce a investire su un settore così importante della vita sociale? Fra l’altro, molti sono in carcere per droga. E non è giusto che si trovino in mezzo ad assassini e rapinatori. Chi ha a che fare con la droga dovrebbe essere trattato a parte sapendo che spesso gli spacciatori sono drogati che lo fanno per sopravvivere. Lei ha scritto “Il carcere dovrebbe essere il luogo dove si impara un mestiere e si assimila l’abitudine di relazionarsi in modo costruttivo e pacifico con gli altri e non solo uno spazio angusto di forzato ozio che suscita pensieri lugubri”, in un articolo per Il Corriere della Sera. Bisognerebbe in primis lavorare su questo, per cambiare veramente gli istituti di pena? Certo. Ripeto: il carcere dovrebbe aiutare le persone a riflettere su di sé e sul rapporto col mondo che evidentemente ha subito delle alterazioni pericolose e dannose per la comunità. Io non credo che una persona agisca male per ragioni biologiche. Questo lo credeva Lombroso, che dalla forma del cranio o dalle orecchie stabiliva se uno era nato criminale. Oggi queste teorie fanno solo ridere. Gli esseri umani nascono uguali. Nessun bambino nasce criminale, ma lo può diventare se ha delle cattive esperienze infantili, se non viene amato e curato, se si trova in ambienti dove prevale il cinismo e la crudeltà. Per questo il carcere dovrebbe aiutare ad uscire dalle proprie cattive abitudini mentali e psicologiche. Per alcuni è troppo tardi e non cambieranno, ma per tanti altri invece può essere una occasione di ripensamento e di modificazione della propria visione del mondo. “Insegnare a queste persone l’uso della scrittura è molto importante”, ha affermato in un’intervista a Vatican News, riferendosi ai detenuti. Può spiegarci perché? Perché si passa dall’uso delle armi all’uso della parola e la parola è sempre legata al pensiero, mentre le armi sono legate più ai sentimenti che al pensiero. Molti sparano per vendicarsi e la vendetta è un sentimento e non ha niente a che vedere con la giustizia che è legata alla ragione. Persino le guerre, come possiamo constatare in questo momento con la guerra di Gaza, nascono da un forte e dannoso sentimento di vendetta biblica. Lei ha fatto diversi seminari nelle carceri romane assieme al magistrato Vincenzo Anania parlando di libertà e di poesia. Può raccontarci qualcosa di questa esperienza? Anania, un magistrato che ho stimato e per cui ho avuto affetto, mi ha proposto di andare a parlare con i carcerati. Io ho accettato e insieme abbiamo fatto molti incontri a Rebibbia, sia con i comuni reclusi che con quelli politici. I politici erano restii alle riflessioni, piuttosto chiusi nelle loro sicurezze, mentre i comuni erano molto più disponibili alla comunicazione e spesso rivelavano coraggiosamente le loro fragilità e paure. Erano attratti dalla parola narrativa e si capiva che dentro di loro qualcosa lentamente stava cambiando. Credo di avere imparato molto da questi incontri. Daria Bignardi: “Il carcere è molto classista, ci sono soprattutto poveri, malati e disgraziati” di Ginevra Barbetti Corriere della Sera, 22 gennaio 2025 San Vittore è il primo carcere in cui è entrata, quasi trent’anni fa. Ed è forse proprio quello il tempo in cui, figurativamente, ha iniziato a scriverne, studiando e vivendo un luogo dove “c’è l’essenza della vita: dal dolore all’amore, dalla malattia all’ingiustizia” spiega Daria Bignardi rispetto alla genesi di “Ogni prigione è un’isola”, Mondadori Strade blu. Un viaggio nell’isolamento e nelle prigioni, anche interiori, che presenta insieme ad Adriano Sofri mercoledì 22 gennaio alle 17.30, per la rassegna “Leggere per non dimenticare”, il ciclo di incontri ideato da Anna Benedetti alla Biblioteca delle Oblate di Firenze. “L’ho iniziato e interrotto molte volte, perché qualcosa dentro di me fa resistenza - continua Bignardi - Scrivere un libro significa infilarsi dentro un’ossessione dalla quale non si esce mai, neanche mentre si dorme. E io non voglio stare in carcere per anni, non voglio starci di notte, pensare solo a quello. In carcere si sta male”. La proposta di presentare il libro a Firenze è nata da Anna Benedetti, un suo ricordo? Ne ho tanti e belli di Anna, del suo garbo delicato e deciso, del suo amore per i libri, dei suoi gatti e della sua bellissima casa. La ricordo con affetto e ammirazione. Di Adriano Sofri scrive: “Quando l’ho conosciuto bazzicavo le carceri già da qualche anno. L’ho incontrato al Don Bosco di Pisa, perché mi ero fidanzata con suo figlio Luca. Siamo diventati subito amici e lo siamo ancora. È la persona più divertente, affettuosa, generosa e coraggiosa che conosca”. È stato il primo ad aver letto il libro: cosa le ha detto? Cosa non mi ha detto, piuttosto: mi sembra abbia avuto meno da ridire del solito sulla mia spudoratezza nel mescolare - quando scrivo - le mie cose personali a quel che racconto. Tra le pagine c’è il lavoro di una vita, integrato alla sua sensibilità: nelle situazioni estreme le cose diventano più nitide? Cito Svetlana Aleksievic quando scrive che “in guerra l’uomo è come illuminato a giorno e si vede subito per quel che realmente è”. È così in tutte le situazioni estreme: in carcere, in ospedale, in guerra. Toccare l’argomento “carcere” è spesso un tabù: non se ne occupa la politica e e nemmeno l’opinione pubblica. Perché? La politica non se ne occupa perché il carcere non porta voti, se non per la propaganda del “buttare la chiave”. La gente che non lo conosce pensa comprensibilmente che le priorità siano altre o peggio che “se è lì qualcosa avrà fatto” o “a me non potrebbe succedere”, cosa non vera purtroppo. Il carcere, come gli ospedali, come le scuole, riguarda noi tutti. Anche la condizione delle donne è particolarmente dolorosa... Le donne sono poche, il 4 per cento, e soffrono più degli uomini. Per tanti motivi: la lontananza dai figli e dalla famiglia, la solitudine, la mancanza di progetti di lavoro pensati per loro. Gli uomini hanno spesso una madre, una sorella, o una fidanzata fuori che si occupa di loro. Una donna che finisce in carcere, spesso viene ripudiata dalla famiglia e abbandonata. Resta un ambiente che definisce “classista e inutile”... Molto classista. Oggi in carcere ci sono soprattutto poveri, malati, disgraziati. Per scrivere il libro è andata fino a Linosa, una piccola isola tra la Sicilia e Malta. Questo l’ha aiutata a tenere una linea di racconto onesta e scevra dalla parte più emozionale? Ho cercato di isolarmi il più possibile: Linosa è una piccola isola, non facile da raggiungere, dove vivono quattrocento persone. L’unica farmacia è stata chiusa. Quando il mare è grosso si resta isolati anche per una settimana. Ma il carcere mi ha seguito anche lì: nella piccola biblioteca ho scoperto vecchi documenti che riguardavano i soggiornanti mandati a Linosa per mesi o anni, dal 71 all’88. Erri de Luca, a proposito dei suicidi nelle carceri, scrive che: “Sono derubricati a casi clinici, come la morte violenta di operai sul posto di lavoro è ridotta a incidente. Da parte mia uso diversamente il vocabolario: i suicidi di persone detenute sono omicidi in luogo pubblico aggravati dall’omissione di soccorso”... Parole forti, nello stile di Erri. Ma la realtà dei suicidi mostra la disperazione di una situazione crudele e ingiusta. Più in carcere si sta male, più stanno male i detenuti e di conseguenza le guardie, in un ecosistema virtuoso. Esiste una forma di violenza difficile da educare, generata e indotta anche dal sovraffollamento? Se in carcere si sta male stanno male tutti, detenuti e agenti. E più si sta male, più c’è violenza. Cita Mailer: “Quando audaci e timidi sono obbligati a vivere insieme, il coraggio si trasforma in brutalità”. Come cambia e si plasma il carattere dei detenuti? Dipende anche dalle persone, naturalmente. C’è chi ha maggiori strumenti per reagire a una situazione oggettivamente crudele e chi ne ha meno. Ma non è nostro compito proteggere i più fragili? Qual è la situazione delle carceri toscane? In Gorgona ci sono bei progetti: allevamento, agricoltura, teatro. Ma resta un carcere anzi - un carcere nel carcere - visto che è un’isola e, ad esempio, per i colloqui coi parenti, tutto è più complicato. Come vengono gestiti i detenuti stranieri? Questo è uno dei problemi più tragici e urgenti: un terzo delle persone detenute oggi sono straniere. Molti sono giovani traumatizzati dal passaggio dai sequestri libici, feriti, torturati, magari poi scampati anche a un naufragio. I parenti sono lontani, non sanno nemmeno se loro sono vivi o morti. Per sedare l’angoscia, spesso queste persone diventano anche tossicodipendenti. In che modo potrebbe migliorare la situazione? Non lo dico io, lo dicono gli esperti, i direttori di carcere, i magistrati, c’è solo una cosa da fare per iniziare: concedere amnistia e indulto a chi ha reati minori, rendere le carceri più vivibili e applicare l’articolo 27 della Costituzione che vede la pena focalizzata al reinserimento. Cecilia Sala ha raccontato quanto sia stata dura la permanenza nel carcere di Evin, soprattutto per quello che l’isolamento può generare da un punto di vista nervoso sulla persona. Cos’ha pensato ascoltando le sue parole? Le ho ascoltate con emozione e ammirazione per la sua generosità: le prime parole sono state per chi è ancora in quella condizione. E ha saputo raccontare con grande chiarezza e sobrietà la crudeltà e la tortura dell’isolamento. Una condizione in cui vivono centinaia di persone anche in un paese democratico come il nostro. Il grido di Cospito: “Il vostro diritto è barbarie medievale” di Frank Cimini L’Unità, 22 gennaio 2025 Alfredo Cospito è stato assolto insieme ad altri 11 anarchici dal giudice per le indagini preliminari di Perugia in relazione alle attività della rivista Vetriolo considerata “clandestina” con imputazioni di istigazione a delinquere e istigazione all’evasione aggravate dalla finalità di terrorismo. Ma prima di essere assolto Cospito aveva preso la parola da remoto nel carcere di Sassari Bancali “per ringraziare” la celebrazione dell’udienza. “Mi tocca ringraziarvi - sono state le sue parole. Dopo un anno di silenzio grazie al vostro imbarazzante e anacronistico procedimento penale mi è concesso di esprimere il mio pensiero pubblicamente anche se per il breve tempo di un battito d’ali oggi posso strapparmi il bavaglio, la mordacchia medioevale di un 41bis che un governo di centrosinistra anni fa mi ha applicato per mettere a tacere la mia voce scomoda per quanto minoritaria e ininfluente ma certo nemica di questa vostra democrazia. Questi due anni di regime speciale mi hanno definitivamente aperto gli occhi sul vero volto del vostro diritto, delle vostre garanzie costituzionali rivelando un sistema criminogeno fatto di totalitarismo osceno quanto crudo e assassino”. Il procedimento denominato “Sibilla” era nato nel 2021. Anni di intercettazioni e pedinamenti, 22mila atti. Il gup ha deciso il non a luogo a procedere. Ovviamente non sapremo mai i costi di questa inchiesta perché sul tema vige una sorta di segreto di Stato. In nome della sacra lotta al terrorismo, pure in tempo di repressione senza sovversione, procure e apparati investigativi fanno quello che vogliono. Incontrollati e incontrollabili. “In questa aula - ha aggiunto Cospito dal carcere di Sassari Bancali - stiamo subendo un processo inquisitoriale basato su una intervista rilasciata con regolare posta carceraria e non come vuol far credere l’accusa attraverso il colloquio con mia sorella trascinata in aula per il solo fatto di continuare imperterrita a fare colloqui con il fratello. Classica strategia di tutti i regimi autoritari nel mondo, usata regolarmente al 41bis per fare terreno bruciato di ogni legame affettivo con l’esterno”. Alfredo Cospito, protagonista di un lunghissimo sciopero della fame nel 2023 per ricordare a tutti la tortura del 41bis che riguarda oltre 700 detenuti non demorde e continua a denunciare “una concezione del diritto degna della vostra epoca. Questa è la lebbra che chiamate civiltà”. Intanto in diversi tribunali del paese sono in corso inchieste a carico di persone che parteciparono ai cortei e alle manifestazioni di solidarietà a Cospito, uno dei pochi punti di riferimento di una opposizione che fa fatica a realizzarsi. Il decreto giustizia è legge: braccialetto potenziato e più fondi per le carceri di Gabriella Cerami La Repubblica, 22 gennaio 2025 Ieri l’approvazione alla Camera con 163 voti favorevoli e l’astensione delle opposizioni. Nuovi istituti penitenziari da costruire anche con i fondi della giustizia riparativa e un rafforzamento dell’utilizzo del braccialetto elettronico. Il decreto Giustizia targato Carlo Nordio che prevede la riorganizzazione del sistema giudiziario è stato approvato alla Camera con 163 voti favorevoli e l’astensione delle opposizioni. Il provvedimento contiene anche norme sull’elezione dei consigli giudiziari e del direttivo di Cassazione e limiti al conferimento degli incarichi. Inoltre proroga l’incarico del commissario straordinario per l’edilizia carceraria al 31 dicembre 2026. Per il Pd si tratta di misure “del tutto insufficienti rispetto alle criticità del sistema giudiziario” e, nel suo intervento, la deputata Rachele Scarpa ricorda che il governo ha tagliato “in manovra di bilancio 500 milioni di euro destinati alla giustizia”. Adesso ne stanzia 96 per costruire nuove carceri in un momento in cui ci sono 63mila detenuti a fronte di 5lmila posti disponibili e, nel 2024, 83 persone si sono suicidate. Otto solo nel 2025. Secondo il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto non si doveva attingere dai fondi di giustizia riparativa: “sono importanti” in difesa delle vittime e “non andrebbero toccati”. Bocciate anche le proposte di modifica di dem e 5Stelle che miravano a “risolvere alcune criticità” riguardo l’utilizzo del braccialetto elettronico in caso di violenza di genere. Ddl sicurezza e “scudo penale”, un vertice non basta di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 gennaio 2025 Lite a Palazzo Chigi: la Lega chiede subito le norme pro polizia. Fd’I vuole poche correzioni “senza stravolgere il testo”, da portare in Aula al Senato. Un vertice a Palazzo Chigi per discutere, come previsto, delle correzioni da apportare necessariamente al Ddl Sicurezza e di un provvedimento che contenga norme a tutela delle forze dell’ordine indagate (il cosiddetto “scudo penale” su cui stanno lavorando i tecnici del ministero di Giustizia), finisce con Lega e Fratelli d’Italia che si scontrano a colpi di agenzie di stampa. Da un lato si fa sapere che il provvedimento correrà veloce verso una terza lettura alla Camera con pochi emendamenti presentati dal governo, molto probabilmente in Aula al Senato e non nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia dove anche ieri sera è ripreso l’esame, “senza snaturare il testo”. A stretto giro, fonti del gruppo Lega Senato ribattono che il ddl Sicurezza va bene così com’è, va approvato subito - checché ne dica il capo dello Stato Sergio Mattarella -, ma se proprio Fratelli d’Italia e Forza Italia ritengono di dover “riaprire” il capitolo, allora sono “pronte” ulteriori proposte del Carroccio “per rafforzare il sostegno alle forze dell’ordine e per la sicurezza dei cittadini”. Convocata dal sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano (come dire Giorgia Meloni in persona), alla riunione hanno partecipato i ministri Carlo Nordio (Giustizia), Matteo Piantedosi (Interno) con il sottosegretario Nicola Molteni, e Luca Ciriani (Rapporti con il Parlamento). Presenti anche i presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato, Alberto Balboni (Fd’I) e Giulia Bongiorno (Lega), e i capigruppo in Senato, il leghista Massimiliano Romeo e il forzista Maurizio Gasparri. Il quale ha riferito di “toni e attenzioni diverse” nella maggioranza di governo riguardo al tema della sicurezza, “ma ciò che conta è varare un provvedimento che sta da quasi un anno alla Camera e da più di 4 mesi al Senato”. La necessità di correggere il testo è dettata dalle perplessità del Colle su alcune norme dall’evidente sapore di incostituzionalità, come il divieto di vendere schede Sim ai migranti senza permesso di soggiorno e l’abolizione del differimento obbligatorio della pena in carcere per le detenute madri, passaggi già citati dal ministro Ciriani quando preannunciò la terza lettura alla Camera. Ci sono però altri punti deboli segnalati dal Quirinale, come le aggravanti che superano le attenuanti in caso di violenza minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, il nuovo reato di rivolta in carcere commesso anche tramite resistenza passiva, e l’aumento di pene per chi protesta contro opere strategiche. Nel maxi emendamento che potrebbe arrivare in Aula il governo potrebbe però cogliere l’occasione per correggere anche l’errore (diventato un boomerang) di aver messo a rischio l’intera filiera industriale della canapa con il solo scopo di impedire la vendita di cannabis light. La Lega però insiste per portare a casa anche almeno qualcuna delle sue norme-bandiera con le quali spera di accreditarsi come partito di riferimento delle divise. Una sfida a cui partecipa tutta la maggioranza: “Ogni giorno - afferma Gasparri - le Forze dell’ordine devono subire attacchi fisici, politici, deformazioni informative. Vogliamo dare loro un sostegno normativo, e quindi la tempistica diventa fondamentale”. La questione all’ordine del giorno è come si realizza questo sostegno e che forma avrà la norma: “Meglio sarebbe - precisa il presidente dei senatori di FI -la discussione su un ddl, che è più ariosa. A patto però che non sia vittima dell’ostruzionismo”. Altrimenti, preannuncia, ci “sono provvedimenti legislativi più snelli, come il decreto legge”. Se il pacchetto Sicurezza, con la sua sfilza di nuovi reati e nuove aggravanti, o questi pseudo “scudi penali” di cui discute la maggioranza possano produrre un impatto negativo sul sistema penale, non è preoccupazione che attanaglia le destre. E invece, come ha sottolineato ieri il neo eletto presidente della Consulta Giovanni Amoroso, “quello del sovraffollamento delle carceri è un problema grave” su cui vigila la Corte costituzionale “con dei moniti per la soluzione dei problemi ai quali non può porre rimedio”, pur tenendo presente il principio della “leale collaborazione” tra le istituzioni. D’altronde, ha spiegato parlando delle sentenze di incostituzionalità che l’anno scorso sono state la metà di quelle pronunciate, “la Corte è attrezzata per fare il controllo di costituzionalità anche di leggi che per ipotesi dovessero contenere plurimi reati”. È il caso del Ddl Sicurezza, appunto. No al ddl Sicurezza: per l’Onu le norme sono liberticide di Vitalba Azzollini* Il Domani, 22 gennaio 2025 Sei relatori speciali dell’Onu hanno scritto al governo a dicembre: il ddl viola gli impegni dell’Italia assunti con la firma di convenzioni internazionali. Di recente critiche anche dell’Osce. Il Governo continuerà a fare finta di niente? Il disegno di legge Sicurezza è una normativa liberticida. Lo affermano sei relatori speciali delle Nazioni unite, in una comunicazione inviata al governo italiano il 19 dicembre 2024 e resa pubblica il 16 gennaio scorso. Il testo è stato esaminato, tra gli altri, dai relatori sulla libertà di riunione pacifica e di associazione, sulla libertà di opinione e di espressione, sui diritti umani dei migranti, su razzismo, discriminazione razziale e xenofobia. Gli special rapporteur sono esperti indipendenti e imparziali, ciascuno responsabile di monitorare una categoria specifica di diritti umani o un’area tematica, su mandato del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, redigendo rapporti pubblici sugli aspetti di loro competenza. Dunque, la loro nota inviata all’Italia assume un’importanza rilevante. La libertà di manifestare - Circa le norme del ddl Sicurezza che limitano la libertà di manifestare anche con atti di resistenza passiva, i relatori speciali fanno presente che “il diritto di riunione pacifica comprende anche atti di disobbedienza civile”, e che “uno spintone o il blocco della circolazione di veicoli o pedoni o delle attività quotidiane non costituiscono violenza”. Ciò comporta che alcune norme del ddl Sicurezza “potrebbero limitare indebitamente l’esercizio del diritto alla libertà di riunione pacifica”, specie quelle che rafforzano il potere statale “di imporre divieti totali (incluso il divieto di “bloccare una strada con il corpo”)”. Più specificamente, l’introduzione di restrizioni più severe a tali proteste - si legge nella comunicazione - “potrebbe ostacolare la possibilità per i difensori dei diritti umani di (…) esprimere dissenso o critiche e impegnarsi in atti di disobbedienza civile”, con “un impatto particolarmente negativo sui difensori dell’ambiente”. Gli special rapporteur commentano anche l’inasprimento delle sanzioni per chi compia atti di violenza o minaccia verso “un ufficiale o agente di polizia giudiziaria” o “per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. Pur riconoscendo la necessità di garantire la sicurezza delle forze dell’ordine, i relatori affermano che “disposizioni formulate in modo generico”, in particolare senza definire in modo preciso le fattispecie che costituiscono “violenza”, mancano dei requisiti di chiarezza, certezza e, quindi, prevedibilità. E questo lascia margini di discrezionalità che potrebbero “aprire la porta all’uso improprio della forza” contro chi manifesta. Le proteste in carcere - I relatori affrontano poi il tema posto da un’altra delle norme più controverse del ddl Scurezza, riguardante le severe sanzioni per gli “atti di resistenza, anche passiva”, commessi dalle persone private della libertà nelle carceri e dai migranti nelle strutture di detenzione e di accoglienza. Tale norma potrebbe “costituire una restrizione non necessaria e sproporzionata del diritto alla protesta pacifica e alla libertà di espressione che dev’essere garantita anche in tali contesti”. Ciò rischia di avere “un profondo impatto negativo sul sistema carcerario, comprese le strutture minorili, e impedire il raggiungimento degli obiettivi, previsti dalla legge, di garantire la sicurezza e favorire i processi di reinserimento”. Inoltre, “limitare proteste pacifiche e atti di disobbedienza civile (compresi gesti pacifici come fare rumore, sbattere contro muri e sbarre) potrebbe aumentare le tensioni all’interno delle carceri, il che vanifica l’obiettivo di aumentare la sicurezza”, oltre a “esacerbare i già elevati livelli di vulnerabilità” di diversi soggetti in stato di detenzione. I diritti umani - Gli special rapporteur stigmatizzano pure, tra le altre, la norma in base a cui la cittadinanza può essere revocata allo straniero a seguito della condanna per determinati reati gravi, senza verificare che egli abbia un’altra cittadinanza, ma richiedendo semplicemente che sia “idoneo” a ottenerla. Ciò rischia di “rendere l’individuo un apolide”. I relatori speciali delle Nazioni unite si rivolgono al governo affinché intervenga su alcuni passaggi del testo che violano gli impegni assunti dall’Italia con la sottoscrizione di convenzioni internazionali, in particolare, riguardo ai “principi di legalità, proporzionalità, necessità e non discriminazione”, nonché al dovere di non interferire indebitamente con “i diritti umani”, “la libertà di espressione” e “le legittime attività della società civile”. Nei mesi scorsi, anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e il Consiglio d’Europa avevano chiesto di modificare il ddl Sicurezza affinché fossero garantiti diritti e libertà. Il governo continuerà a fare finta di niente? *Giurista Asse tra Anm, Pd e 5S: il “campo largo” anti-Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 22 gennaio 2025 Come avvenne già contro Berlusconi, sarà inevitabile l’alleanza fra il centrosinistra e la magistratura nella campagna referendaria contro la separazione delle carriere. A poco più di un mese dallo “sciopero anti-Nordio” dell’Anm, in programma per il 27 febbraio, e a poche ore ormai dalla clamorosa passerella che la magistratura associata metterà in scena alle inaugurazioni dell’anno giudiziario di sabato, il clima sulla separazione delle carriere comincia a farsi pesante. Al punto da rievocare le “atmosfere” del 2003-2004, dei giorni in cui attorno alla riforma Castelli si scatenò un conflitto durissimo fra il governo Berlusconi di allora e un fronte composito, con l’Associazione magistrati in prima linea, ma anche con le opposizioni e buona parte della stampa nella stessa trincea. “Intanto a noi non crea alcun imbarazzo trovarci fianco a fianco con Franco Coppi”, ironizza Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione Antimafia, a proposito del no al “divorzio” giudici-pm ribadito dal penalista tra i più celebri del Paese. Ecco, il Pd: all’epoca di Berlusconi e Castelli, Ds e Margherita preparavano il preliminare di accordo, i termini della loro imminente fusione. Oggi il partito di Elly Schlein si ritrova di nuovo contro la riforma sulle “carriere”. Non da solo: di nuovo al fianco dell’Anm, più o meno deliberatamente. È un dato oggettivo. Che però Verini sdrammatizza molto: “Abbiamo la nostra visone: siamo di fronte a una riforma dalla matrice politica. La contrasteremo innanzitutto per questo. Non si può strumentalizzare l’ordinamento giudiziario. Né per consumare vendette né per piantare bandierine. Ammesso che al sì del Parlamento e al referendum ci si arrivi davvero”. Verini nega il rischio di un’imbarazzante alleanza di fatto tra dem e magistratura. La responsabile Giustizia del suo partito, Debora Serracchiani, ha già utilizzato in effetti argomenti anche più aspri dei comunicati Anm, nel bocciare il ddl del guardasigilli. Neppure il capodelegazione in Antimafia risparmia critiche severe. “È una riforma gravemente sbagliata, per la giustizia e i cittadini. Una distanza abissale con le priorità del Paese. Ci opponemmo già nel 2021 e quella consultazione fu un flop. Anche così i cittadini si pronunciarono”. Verini ha argomenti tecnicamente solidi. La sudditanza del giudicante rispetto ai pubblici ministeri, per via dell’egemonia “politico-associativa” che si registra, nell’attuale Csm unico, a vantaggio dei requirenti, “padroni” dell’Anm? “È una favola. In pratica, con la riforma Cartabia e in particolare con la norma che impone una ragionevole previsione di condanna alla base del rinvio a giudizio, le ipotesi delle Procure sono accolte dai gup, e affidate al dibattimento, solo nel 50 per cento dei casi. La subordinazione nell’esercizio delle funzioni che sarebbe provocata dal peso dei pm nel controllo delle carriere dei giudici è smentita dalle statistiche”. Sui dati ci sarà da approfondire. Ma neppure li si può ignorare in partenza. Sta di fatto che la condivisione della trincea, fra Pd e Anm, sarà inevitabile. Lo sarà a maggior ragione per il Movimento 5 Stelle. Che non se ne sentirà imbarazzato di sicuro. Il partito di Giuseppe Conte ha candidato e fatto eleggere in Parlamento due pezzi da novanta della magistratura antimafia come Federico Cafiero de Raho, alla Camera, e Roberto Scarpinato, al Senato. Storicamente, i pentastellati sono la forza politica che più si sente investita dalla missione di rappresentare le istanze del mondo togato. Imbarazzi, insomma, per Conte, non si vede da dove possano nascere. Però è difficile allontanare il rischio di un’opposizione politica schiacciata sulla magistratura, in una battaglia che vede coinvolta, come venti anni fa, innanzitutto l’Anm con le sue correnti, e i pm da cui quelle correnti sono egemonizzate. Servirà lo sforzo di chi come Verini è stato tra l’altro relatore della riforma Cartabia sul Csm, per trasferire all’elettorato l’idea che, almeno il Pd, contrasterà Nordio non per accucciarsi sotto l’ala rassicurante delle toghe ma per convinzione sostanziale. Adesso al Senato, dove Verini è “arruolato”, Pd, 5 Stelle e anche Avs si impegneranno per impedire che già la seconda lettura del ddl sulle “carriere” si riduca a una mera apposizione di timbri. Chiederanno altre audizioni. La maggioranza farà il possibile per ridurle, ma certo il dibattito non potrà essere azzerato. Non lo si è potuto fare più di tanto neppure col decreto Giustizia, licenziato ieri a Montecitorio. A maggior ragione, il bicameralismo non potrà squagliarsi sulle modifiche della Carta. Si tratterà di una fase in cui il gioco del centrosinistra, del “campo largo asimmetrico” provocato dalla riforma Nordio (sostenuta da Azione, Italia viva e +Europa) sarà chiaramente autonomo dalle toghe. “La separazione delle funzioni c’è, è quasi totale, lo dico da relatore della riforma Cartabia: oggi”, ricorda ancora Verini, “i passaggi dalla carriera di giudice al percorso requirente e viceversa sono solo una ventina, a fronte di 9.000 magistrati ordinari. No: è un totem e un attacco all’indipendenza della magistratura”. Gli argomenti ci sono: quelli di carattere tecnico e quelli più politici. Poi però il “campo largo anomalo”, allargato all’Anm, sarà inevitabile. Come sarà inevitabile l’alleanza, nella battaglia sul “referendum Nordio”, fra avvocatura e centrodestra. Certo, per il centrosinistra, riassaporare la condivisione degli anni ruggenti di Berlusconi e Castelli darà sensazioni contrastanti. Suonerà un po’ come un romantico revival, ma anche come il segno che sulla giustizia alcuni schemi sono una specie di prigione del tempo. Se separare le carriere può aiutare la giustizia di Serena Sileoni La Stampa, 22 gennaio 2025 Vista dal Governo, la separazione delle carriere in magistratura è passata in cima alle priorità di riforme. Vista dal lato della magistratura, è tornata un acceso e attuale motivo di scontro. Dopo la conclusione della prima lettura alla Camera, l’Associazione nazionale dei magistrati ha deciso di disertare le imminenti cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Per il 27 febbraio, inoltre, è previsto un primo sciopero nelle aule giudiziarie. Da qualunque lato la si guardi, il motivo per cui la riforma è decisiva, tanto da scatenare di nuovo il conflitto tra i due poteri dello Stato, sembra però riguardare più gli effetti percepiti che quelli concreti. La proposta si basa su tre punti fondamentali: l’istituzione di due diversi Consigli superiori, uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente; il trasferimento della funzione disciplinare a un nuovo e distinto organo, l’Alta corte disciplinare; il sorteggio come criterio di base per la scelta dei componenti di tutti e tre gli organi. Intorno a queste modifiche ruotano l’intenzione e l’obiettivo di separare la carriera dei pubblici ministeri da quella dei magistrati giudicanti. Una battaglia storica di Forza Italia che solo ora, defunto il suo fondatore, è già arrivata là dove non era mai arrivata: la proposta Alfano del 2011 si fermò all’esame in commissione. Pur senza modifica costituzionale, dai tempi di Berlusconi a oggi, però, sono successe un po’ di cose. In particolare, la riforma Castelli prima e la riforma Cartabia poi hanno disincentivato con molti limiti e vincoli il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti. E infatti, i passaggi negli ultimi anni sono di poche decine in tutto. Per molti, questo significa che la riforma Nordio sia inutile. Ma poiché i simboli contano molto, non è affatto inutile. Tre anni fa, nel suo secondo discorso di insediamento da Presidente della Repubblica, Mattarella ha detto al Parlamento che “un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia”, verso la quale il sentimento di fiducia dei cittadini appare fortemente indebolito. A indebolirlo sono stati, negli anni, due fenomeni diversi e collegati: il correntismo e il circo mediatico giudiziario. Rispetto a entrambe queste degenerazioni, la riforma dell’autogoverno dei giudici non sarà certo risolutiva, ma sarà utile a rafforzare la fiducia e la non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario di cui pure ha parlato il Presidente Mattarella. Quanto al primo, se è vero che già ora vigono forti limitazioni al passaggio di funzioni, la carriera ancora unica restituisce all’opinione pubblica l’idea che la magistratura inquirente abbia una posizione equivalente a quella giudicante, che le decisioni di un Pm siano già sentenza, che le indagini siano già processo, che l’indagato sia già condannato. Gli effetti di questa mediatizzazione, le cui responsabilità gravano anche nel mondo del giornalismo e della politica, non sono stati solo i processi sui giornali, ma anche alcune scelte legislative, come quelle sulla decadenza e l’incandidabilità degli indagati. Quanto al correntismo, il sorteggio non rappresenta una garanzia assoluta rispetto alle logiche di appartenenza, che possono sorgere anche successivamente alla composizione dei Consigli. Tuttavia, ridurrebbe il potere attuale delle correnti e il loro condizionamento nello svolgimento delle funzioni dei CSM. Soprattutto, sanerebbe l’attuale anomalia di un sistema che solo per pudore nominalistico viene definito correntizio e non politico. Se c’è un limite della riforma, casomai, è quello di non garantire un ordine di grandezza alla lista di sorteggiabili che il Parlamento, in prima battuta, elegge, o di non separare i concorsi per l’accesso alle due carriere. Dettagli importanti, anche per una riforma sul filo dei simboli. Separazione delle carriere: così il centrodestra nemico delle procure finisce per rafforzarle di Giorgio Altieri Il Riformista, 22 gennaio 2025 È un susseguirsi di invettive contro la riforma Nordio sulla separazione delle carriere. L’ANM ha finanche indetto lo sciopero dei magistrati per il 27 febbraio e invita alla protesta dei magistrati all’imminente inaugurazione dell’anno giudiziario, con l’uscita dei magistrati dalle Aule di Giustizia con la Costituzione in mano quando parlerà il rappresentante del Governo. Costituzione violata? - La riforma ha iniziato il cammino secondo le procedure costituzionali (art. 138 Cost.). Per ora approvata solo in prima lettura dalla Camera. Dovrà poi esserci l’approvazione del Senato. Poi, una seconda lettura di entrambe le Camere. E il referendum, perché sarà una riforma probabilmente approvata in seconda lettura non con il 75% dei voti parlamentari. È eversiva? - I detrattori evocano i fantasmi di Berlusconi o peggio di Gelli. La riforma - per chi come me pensa che occorra arrivare all’Avvocato dello Stato - è addirittura modesta. Il Pubblico Ministero resta Magistrato. Solo che farà il magistrato dell’Accusa e non potrà fare in altri momenti della sua carriera il Magistrato Giudicante. Ci saranno due CSM, un Consiglio Superiore della Magistratura Giudicante e un Consiglio Superiore della Magistratura Requirente. Entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica. Oggi esiste un solo CSM presieduto dal Presidente della Repubblica. Ci sarà poi un’Alta Corte disciplinare, unica per entrambi, Giudici e PM. Quello che cambierà sarà che Giudici e PM non saranno più colleghi a tutto tondo, ma resteranno sempre colleghi. E qui sta il paradosso, il peso istituzionale dei PM sarà rafforzato dalla Riforma e il centro-destra, ‘nemico delle Procure’, avrà in realtà rafforzato le Procure. La fine delle correnti politiche? - Il punto è che il ddl Nordio contiene una riforma indigesta a un certo modo di fare politica. Al di là dei componenti istituzionali dei due CSM, gli altri componenti saranno eletti a sorte, per un terzo tra professori e avvocati e per gli altri due terzi a sorte tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. I detrattori non lo possono dire, ma potrebbe essere la fine delle correnti politiche in seno alla magistratura, con il CSM eletto non più con i metodi svelati dall’ex Palamara. La scelta a sorte non è il bene, perché non è detto che ‘a sorte’ vengano scelti i magistrati migliori per l’autogoverno degli stessi magistrati, ma sarà il male minore rispetto a un certo spettacolo che la magistratura ha dato di sé stessa. L’avvocato dell’Accusa - Agli avvocati dovrebbe però interessare altro: avere la parità dell’Accusa e della Difesa davanti al Giudice. L’Avvocato dell’Accusa come nel sistema anglosassone. Ma apriti cielo, questa sarebbe la vera Riforma: gli Avvocati della Difesa non avrebbero più di fronte due Magistrati, ma si confronterebbero tra Avvocati su sponde parallele con un Giudice terzo e non collega di una delle due parti. Questa sarebbe la riforma necessaria, siamo quindi ancora piuttosto lontani dall’obiettivo. Processi sempre lenti - Altro aspetto è che la riforma Nordio non c’entra con l’accelerazione dei processi, che merita altri interventi e che neppure la riforma Cartabia riuscirà a risolvere, se non in minima parte. Non si può certo tornare al Giudice Istruttore, come auspicato da alcuni autorevolissimi avvocati, ipotesi che sarebbe un clamoroso passo indietro rispetto alla ‘parità di armi’. E, purtroppo, in questi giorni, anche uno strumento utile, come l’informatizzazione del sistema penale della giustizia, sta rivelando gravissimi problemi, soprattutto per gli avvocati. Anche lì si sta assistendo a un differente trattamento tra gli accessi per i magistrati, sia giudicanti che requirenti, e la minore considerazione dei diritti di accesso degli avvocati della difesa, che poi si risolve nello svilimento del diritto di difesa di tutti i cittadini e questo sì è un attacco a un diritto fondamentale della nostra Costituzione. Eppure i magistrati, col dialogo, possono migliorare la riforma di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 22 gennaio 2025 L’ordine giudiziario accolga la distinzione dei ruoli ma contrasti il sorteggio, assurdo per i laici e per i togati. La distinzione tra il ruolo del pm e quello del giudice (se si evitasse il termine “carriere” che inopportunamente viene usato anche nella proposta del governo, il cittadino capirebbe di più) è stata stabilita con legge costituzionale che ha avuto la prima approvazione alla Camera. Come è noto a tutti, sono necessarie altre tre approvazioni da parte del Parlamento, e possiamo sperare che le norme possano essere migliorate e perfezionate. Naturalmente diamo atto al ministro Nordio che, dopo aver incentivato un panpenalismo inadeguato e pericoloso per una società complessa come quella italiana, finalmente si è imposto su una riforma che modifica la struttura del processo, quindi incide sulla giustizia, sul ruolo che debbono avere i magistrati in una democrazia avanzata. Il dibattito su questo argomento dura da anni, ma in particolare dal 1989, quando il Parlamento, per impulso di un grande giurista come Giuliano Vassalli, ha dato vita al nuovo processo penale qualificato come “accusatorio” in sostituzione del “vecchio” processo “inquisitorio”. L’unità della giurisdizione, stabilita in Costituzione, è quindi superata e non più attuale, e la enfatizzazione della fase delle indagini ha oscurato il processo e quindi ha determinato anomalie molto gravi. Il nuovo processo presupponeva una nuova “cultura” da acquisire da parte degli operatori della giustizia, e una modifica costituzionale. Vassalli e il sottoscritto, che all’epoca era presidente della commissione Giustizia e ha collaborato con un eminente giurista come Pisapia, avevano ripetutamente avvertito che senza una distinzione costituzionale dei ruoli diversi (pm e giudici) la riforma non avrebbe avuto successo. E così è stato. La modifica alla Costituzione avviene dopo 35 anni ancora in maniera incerta e approssimativa, anche per colpa della Consulta e delle iniziative dei magistrati che hanno “piegato” le norme a interpretazioni diverse da quelle volute dal legislatore. Interroghiamoci sulle attuali prospettive. In verità tutta la discussione anche in sede parlamentare così come sulla stampa giustifica la riforma come una contingenza, come un espediente per evitare che il giudice, essendo collega del pm, non sia imparziale e al di sopra delle parti. Naturalmente accade nella prassi anche questo, ma la riforma ha e deve avere un significato strutturale di concezione del processo, che attualmente dà grande importanza alla fase preparatoria dell’indagine e non al confronto tra le “parti” in una pubblica contesa alla presenza di un giudice terzo. Come possa non essere accettata, da parte della magistratura, una simile spiegazione, istituzionale e organizzativa al tempo stesso, è un mistero: nessuno più dei magistrati conosce le dinamiche del processo penale e della crisi che esso attraversa. Né vale dire che le norme proposte dalla ministra Cartabia, e in particolare il passaggio per una sola volta dall’ufficio del pm all’ufficio del giudice, potevano bastare a risolvere il problema. Si tratta di una narrazione ingannevole che non fa onore a chi la propaga. La riforma è sistematica: riguarda la struttura del processo e serve a qualificare il pm come parte che deve restare indipendente ma non privilegiata. E il “privilegio” (che non si spiega in un processo di “parti”) ha avuto un’influenza molto negativa sull’opinione pubblica: tutte le notizie che la stampa trasmette sull’esercizio dell’azione penale qualificano il pm come giudice, quindi come uno che giudica, non come uno che accusa. Anche il noto pm Di Pietro veniva chiamato giudice! Nel contraddittorio tra chi accusa e chi difende, è necessario un arbitro davvero imparziale. È questo che ha sempre sostenuto Vassalli parlando di “giusto processo”. Ma anche e causa delle modifiche alla procedura che ci sono state negli ultimi trent’anni, il processo attuale è ibrido e avventuroso. Non c’è un vero dibattimento tra parti uguali, ma una prevalenza del pm, messo sullo stesso piano del giudice. Il pm è solo una parte, come la difesa, e non può avere le guarentigie di un giudice. Viene in evidenza, anche qui come sempre, che la magistratura difende il suo potere anomalo, le sue conquiste anomale, la sua prevalenza sulla politica che crea uno squilibrio dannoso. Se l’Anm accettasse il dialogo e riconoscesse la necessità di una riforma che viene alla luce dopo tanti anni, potrebbe forse influire per trovare punti di equilibrio. La proposta approvata stabilisce il sorteggio dei magistrati e nientemeno dei laici per la formazione dei due futuri Csm: una scelta aberrante che certamente e oggettivamente appare come una punizione: un organo costituzionale non può essere dequalificato perché regolato dal lancio di una monetina! I magistrati attraverso il voto determinano la loro rappresentanza che non si può ottenere a quel livello senza la partecipazione e senza il protagonismo individuale. E la rappresentazione non può avvenire per caso, per una fortuna magari non richiesta e non accettata. Per i laici poi. si tratta una vera e propria umiliazione del Parlamento. Questo è il danno grave sul piano istituzionale, ma l’inutilità, dobbiamo dirlo, è che da questo meccanismo le correnti certamente non vengono scalfite, ma incentivate a un livello certamente più basso e quindi più pernicioso. Il 95% dei magistrati sono iscritti a una corrente. Le correnti, di per sé, non sono un male, proprio come i partiti, a patto che abbiano un’ideologia e non si trasformino in caste, e questo dipende dai soggetti interessati. L’augurio è che questo sgorbio istituzionale venga eliminato per far vivere una riforma sistematica che dia un volto moderno e democratico alla magistratura, magari equilibrando, nei due Csm, il rapporto in termini diversi tra i togati e i laici a favore di questi ultimi (come previsto da tante proposte che arricchiscono l’archivio parlamentare). Così si eviterebbe il corporativismo che, esso sì (e non le correnti) ha tolto prestigio e ruolo istituzionale. Dunque un atteggiamento diverso da parte della magistratura potrebbe contribuire a scrivere norme più equilibrate e mettere in discussione per esempio lo stesso doppio Csm, forse non utile perché irrigidisce e polarizza lo schema istituzionale. È interesse della magistratura dialogare perché il Csm non diventi organo amministrativo ma resti un organo di rilevanza costituzionale, aperto a un rapporto con le istituzioni, rappresentativo ma non garante della indipendenza dei magistrati che è già stabilita nella Costituzione. I partiti vogliono inserire in Costituzione anche le vittime dei reati di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 gennaio 2025 Dal Senato primo sì alla riforma che inserisce in Costituzione la “tutela delle vittime di reato”. Scalfarotto (Italia viva): “Norma ridondante e pericolosa”. Al populismo penale si aggiunge ora il populismo costituzionale: buoni propositi per ottenere consensi, senza badare alla loro attuazione. Dopo l’ambiente, lo sport, gli animali e le isole, ora i partiti vogliono inserire nella Costituzione anche le vittime dei reati. Al populismo penale si aggiunge ora il populismo costituzionale, che porta a riempire la Costituzione di buoni propositi, con cui ottenere facilmente il gradimento dell’opinione pubblica, ma senza tanto badare alla loro effettiva attuazione pratica. La scorsa settimana, infatti, il Senato ha approvato in prima battuta un disegno di legge costituzionale che inserisce all’articolo 24 della Costituzione un terzo comma, che recita: “La Repubblica tutela le vittime di reato”. Il provvedimento, che ora andrà al Senato, è passato con 149 sì e un’unica astensione, quella di Ivan Scalfarotto (Italia Viva). La riforma costituzionale ha ottenuto il via libera di tutto l’arco parlamentare: da Fratelli d’Italia al Partito democratico, passando per il Movimento 5 stelle. E infatti le reazioni dopo l’ok del Senato sono state di giubilo (anche se ora serviranno altre tre approvazioni in Parlamento). “Si sancisce finalmente il principio di uguaglianza sostanziale che per noi di Fratelli d’Italia è una conquista di giustizia sociale, nello spirito di ciò che abbiamo sempre perseguito come destra nazionale”, ha detto il senatore Sergio Rastrelli (FdI). Il M5s con Bruno Marton ha parlato di “grande risultato”, mentre il Pd con Enza Rando di “passo in avanti importante per il nostro paese”. Unica voce fuori dal coro, appunto, quella di Scalfarotto: “Trovo che la norma sia ridondante ma anche pericolosa. Ridondante perché già oggi l’articolo 24 della Costituzione afferma che ‘tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi’, e questo comprende anche le vittime di reato. Pericolosa perché, pur esprimendo io tutta la mia vicinanza alle vittime di qualsiasi reato, la norma asseconda una costruzione vittimocentrica del processo penale, che rischia di far scivolare quest’ultimo verso una mera forma di soddisfazione delle richieste della vittima”. “La giustizia penale è una branca del diritto pubblico, non del diritto privato: è una vicenda che intercorre tra il popolo italiano, in nome del quale viene pronunciata la sentenza, e l’imputato”, ricorda il senatore di Italia viva. “In questo modo, invece, stiamo costruendo un sistema penale in cui la soddisfazione della vittima diventa il centro del sistema penale”. Inizialmente il provvedimento, frutto dell’unione di diversi disegni di legge costituzionali, prevedeva l’inserimento della tutela delle vittime all’articolo 111 della Costituzione, dedicato al processo. Dopo un ciclo di audizioni in cui diversi esperti hanno evidenziato come questa modifica all’articolo 111 avrebbe potuto alterare l’equilibrio del processo penale, la disposizione è stata spostata all’articolo 24, incentrato sui diritti. Ciò, tuttavia, a opinione di Scalfarotto non risolve il problema: “Nel momento in cui si inserisce questo principio nella Costituzione non è certo il modo con cui il giudice lo interpreterà. Io penso che l’emotività debba restare fuori dal processo, e che la sentenza non debba avere come obiettivo quello di soddisfare le richieste delle vittime dei reati e dare l’esempio in senso repressivo. Dobbiamo lasciare i giudici liberi di non seguire la pancia dell’opinione pubblica”. “Il fatto che questa riforma sia stata proposta già vent’anni fa e che solo ora trovi il consenso necessario in Parlamento rende chiara la convergenza dei partiti attorno a una narrazione in cui la funzione del processo penale non è la prevenzione dei delitti e la rieducazione del condannato, bensì dare soddisfazione alle vittime e all’opinione pubblica, che ha sete di sangue”, prosegue Scalfarotto. “Nel caso Cecchettin, pur di fronte a una condanna all’ergastolo, si è arrivati a contestare l’assenza di determinate aggravanti. In questi giorni stiamo assistendo a critiche per una pena decisa da un giudice prima ancora di aver potuto leggere le motivazioni”. Ma a colpire, nel complesso, è ormai l’abitudine della politica di infarcire la Costituzione di dichiarazioni di princìpi. Solo negli ultimi due anni sono state inserite in Costituzione norme che sanciscono la tutela dell’ambiente, la protezione degli animali, la promozione dello sport, persino il riconoscimento della “peculiarità delle isole”. “Buoni auspici ai quali il Parlamento non ha dato alcun seguito”, sottolinea Scalfarotto. “Siamo di fronte a dichiarazioni di principio che non cambiano in alcun modo la situazione”. Il bavaglio alla stampa non tutela davvero la presunzione d’innocenza di Glauco Giostra Il Domani, 22 gennaio 2025 Quella per la tutela della presunzione d’innocenza è una battaglia che si deve combattere a livello culturale e con più trasparenza, non con iniziative fallimentari. Con un recente decreto legislativo il governo ha introdotto, in asserito adempimento della direttiva europea 2016/343, il divieto di pubblicare le ordinanze che applicano misure cautelari personali. La Commissione europea ci ha dovuto chiarire ciò che era chiarissimo sin dall’inizio e come, su queste pagine si era cercato insistentemente, ma inutilmente, di far presente: la direttiva 2016/343 “non prescrive”, ammonisce Michael McGrath, Commissario europeo per la Giustizia, la democrazia e i diritti fondamentali, “limitazioni specifiche per quanto riguarda la pubblicazione da parte della stampa di atti processuali relativi alla fase preprocessuale del procedimento”. La direttiva si limita a prevedere “soltanto che la diffusione di qualsiasi informazione da parte delle autorità pubbliche ai media rispetti la presunzione di innocenza e non crei l’impressione che la persona sia colpevole prima che la sua colpevolezza sia stata provata dalla legge”. Si tratta di un mortificante richiamo che poteva e doveva essere evitato. Difficile attribuire questo passo falso del governo ad inconsapevolezza della improponibilità giuridica del divieto che si intendeva introdurre, peraltro denunciata con fermezza nel corso delle audizioni parlamentari. Al contrario, la strategia di confezionare il discutibile prodotto con pregiata carta europea sembra dimostrare la consapevolezza della sua altrimenti difficile proponibilità. Niente di nuovo: è il vecchio passepartout del “ce lo chiede l’Europa”, con cui si alloca a livello europeo la responsabilità politica di scelte nazionali di problematica presentabilità. Al di là della inesistente “matrice” europea, l’introduzione del divieto di pubblicare le ordinanze cautelari per garantire la presunzione di innocenza dell’imputato resta in difficoltà di senso: se ha questa funzione perché tale divieto cessa con il rinvio a giudizio o non nasce neppure se l’ordinanza è emessa successivamente? Forse che con l’inizio del giudizio l’imputato può essere presunto colpevole? Un problema reale - Beninteso, il problema che ci si proponeva di affrontare con l’improvvida innovazione normativa esiste. Nel prevalente, comune sentire l’accusato è da sempre ritenuto colpevole: il solo fatto di essere risucchiato negli ingranaggi della giustizia è percepito come inequivoco indizio di colpevolezza. Persino quando gli sgherri di Pinochet trascinarono via, i polsi legati con filo spinato, i ragazzi della guardia del corpo di Allende, per torturarli e ucciderli - ci racconta Sepulveda - “i testimoni che non avevano visto nulla mormorarono: “qualcosa avranno fatto, non per niente li portano via”. L’argine che il costituente ha cercato di erigere contro questa tendenza introducendo il controistintivo principio per cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art.27 comma 2 Cost.) ha dato risultati deludenti, anche a causa dell’ odierna narrazione mediatica, che, con l’ eccessivo risalto dedicato ai fatti di cronaca nera e giudiziaria (che secondo l’ Osservatorio europeo sulla sicurezza occupano da noi il 60 per cento delle notizie; in Germania il 18 per cento), alimenta un’impaziente attesa di risultato, accentuando inevitabilmente l’orientamento colpevolista. Nella “Costituzione vivente” quasi sempre “l’accusato è considerato colpevole sino all’assoluzione definitiva, talvolta anche dopo, se per quel crimine non è stato trovato un colpevole”. Una politica controproducente - Sarebbe un’ovvietà affermare che il deprecabile fenomeno può essere debellato efficacemente soltanto sul piano culturale. Meno ovvio è osservare che la politica legislativa sinora seguita per contrastarlo sia del tutto fallimentare, per non dire controproducente. Si è pensato di limitare ai giornalisti l’accesso alle notizie processuali, di fatto consegnandoli all’arbitrio dell’autorità che le detiene e alimentando un clandestino mercimonio della notizia, e/o di vietarne la pubblicazione. Si dovrebbe seguire un orientamento opposto: riconoscere all’operatore dell’informazione il diritto di accesso alle notizie giudiziarie non più segrete e il dovere, ove le pubblichi, di contestualizzarle nella fase interinale cui afferiscono, dando conto della precarietà del risultato che sembrano esibire. In tal modo si privilegeranno i migliori cronisti giudiziari e non, come troppo spesso avviene, i più zelanti trafficanti di notizie ad alta appetibilità populistica. Le eventuali, perduranti patologie dovrebbero essere giudicate da un’Autorità indipendente per l’informazione giudiziaria e punite con sanzioni reputazionali per il giornalista e per la testata di appartenenza, abbandonando l’attuale propensione a prevedere condanne di natura economica, spesso rovinose per la testata o l’emittente di piccole dimensioni, del tutto trascurabili per gli operatori che possono contare su una robusta struttura finanziaria. In conclusione: quando si mette mano al diritto di informare e di essere informati, fondamento della democrazia, l’importante è reprimere l’abuso, mai conculcare il diritto medesimo. Giovanni Amoroso è il nuovo presidente della Consulta: “No arretramenti sui diritti” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2025 È stato eletto questa mattina all’unanimità dai giudici della Corte riuniti in camera di Consiglio. Come primo atto, ha nominato Vicepresidenti i giudici Francesco Viganò e Luca Antonini. Giovanni Amoroso è il nuovo presidente della Corte costituzionale. È stato eletto questa mattina all’unanimità dai giudici della Corte riuniti in camera di Consiglio. Rimarrà in carica fino al 13 novembre 2026, quando scadrà il mandato di nove anni di giudice costituzionale. Come primo atto, ha nominato Vicepresidenti i giudici Francesco Viganò e Luca Antonini. La Consulta aveva ritardato l’elezione in vista della elezione dei 4 giudici mancanti ma dopo l’ennesima fumata nera del Parlamento vi ha proceduto. Dopo la conclusione del mandato di Augusto Barbera, nel dicembre scorso, Amoroso era stato nominato Presidente facente funzioni. Nato a Mercato Sanseverino, in provincia di Salerno, il 30 marzo 1949, è stato eletto giudice costituzionale dalla Cassazione nel 2017. È il secondo giudice più avanti con gli anni, lo supera Marco D’Alberti, nato nell’agosto 1948, ma è quello con maggiore “anzianità” nel ruolo. Rispettata dunque la prassi di eleggere il giudice più prossimo alla scadenza. Sposato, è padre di due figli ed ha quattro nipoti. Ha conseguito con lode il diploma di laurea in giurisprudenza nel 1971 presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sul tema “Corso dei cambi e bilancia dei pagamenti”. “I colleghi nella loro benevolenza mi hanno eletto presidente, dandomi la loro fiducia. Il mio impegno sarà assoluto nello svolgimento di questo incarico, con disciplina e onore come richiede l’articolo 54 della Costituzione”. Ha detto il neo presidente aprendo la conferenza stampa. Amoroso ha poi detto che non ci sono “linee programmatiche” che il presidente possa esporre “perché la Corte è un organo profondamente collegiale”. Il presidente ha poi richiamato l’”esigenza di fedeltà ai propri precedenti” da parte della Consulta e sollecitato sul possibile arretramento sui temi dei diritti civili, come Procreazione medicalmente assistita e “fine vita”, ha chiarito: “Passi indietro è un po’ difficile che si possano ipotizzare, bisogna però poi sempre confrontarsi con il contesto”, ed ha ricordato il difficile periodo della pandemia che ha portato a delle scelte particolari da parte delle Corte. Amoroso ha poi ricordato che “un’altra stella polare della Corte è l’Europa; c’è proprio uno spazio costituzionale comune in un dialogo con la Corte di giustizia, sono ripetuti i rinvii pregiudiziali e le questione europee sono ricorrenti”. Rispondendo poi alle domande sull’inammissibilità, decisa ieri, la sentenza è attesa nei prossimi giorni (comunque entro il 10 febbraio), del referendum sull’Autonomia differenziata ha detto “occorre che il legislatore intervenga e determini i criteri per i Lep” che sono il “pilastro su cui si regge la legge 86” che “è stato investito dalla pronuncia di incostituzionalità”. “La possibilità di determinare i Lep - ha proseguito - non c’è se manca un intervento del legislatore. Anche per le materie non Lep vi è la necessità che ad intervenire sia il legislatore quando incidono su diritti civili e sociali”. “Poi - ha proseguito - vi sono materie sempre non lep che proprio non si prestano alla attribuzione di funzioni come commercio estero e professioni”. Sulla firma digitale che facilita la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum, Amoroso ha commentato: “È difficile arrestare il progresso. La facilità maggiore di accesso all’istituto non è un inconveniente ma una apertura maggiore. La proposta referendaria deve comunque rientrare nei canoni che la Corte ha arricchito al di là del suo contenuto testuale: da ultimo la chiarezza, l’oggetto e la finalità del quesito. Non la vedo come una preoccupazione eccessiva”. Sollecitato sulla possibilità di alzare il numero di 500mila firma, ha poi commentato: “L’asticella potrebbe in ipotesi essere più elevata”. Sul versante carceri, il Presidente ha richiamato la “particolare attenzione” della Corte e le visite negli istituti carcerari. “La Corte il mestiere suo lo fa, sovraffollamento è un problema grosso, vengono in rilievo altri aspetti anche logistici, situazione alle quali la Corte non può porre rimedio e agisce con dei moniti”. Infine sul Plenum ha auspicato che il collegio della Corte “possa essere reintegrato quanto prima già giovedì”, quando è prevista una nuova votazione in seduta comune del Parlamento. Ha però aggiunto: “La Corte non è menomata dal fatto che ha lavorato in 11, perché è previsto dalla legge 1986”. Amoroso è stato nominato magistrato nel 1975 (secondo posto della graduatoria finale); ha svolto le funzioni di pretore penale a Bergamo (1976-1980) e di pretore del lavoro a Roma (1980-1984). È stato collocato fuori ruolo come assistente dei giudici costituzionali Renato Granata e Franco Bile divenuto entrambi presidenti. Nominato consigliere di Cassazione nel 2000, vi ha svolto diverse funzioni: dal marzo 2006 è stato assegnato anche alle Sezioni Unite civili come consigliere e poi come Presidente di sezione. È stato direttore dell’Ufficio del Massimario. Nel febbraio del 2015 è stato nominato presidente di sezione e assegnato alla Sezione Lavoro. Nel giugno del 2015 è stato destinato alle Sezioni Unite civili come presidente di sezione non titolare, venendo altresì designato come coordinatore delle Sezioni Unite civili. Estradizione: misura cautelare personale dopo l’ok alla consegna solo se c’è pericolo di fuga Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2025 La limitazione della libertà personale dell’estradando non è un automatismo e va motivata col fine specifico di scongiurare la sottrazione clandestina alla giustizia del Paese richiedente. L’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, imposto alla persona assoggettata all’estradizione, non può essere applicato senza motivazione adeguata di quali siano le sottese esigenze cautelari. In particolare, va motivata la misura che limita la libertà personale dell’estradando, col concreto pericolo che la persona richiesta dalle autorità straniere possa darsi alla fuga. Non sussiste quindi alcun automatismo tra la sentenza della Corte d’appello favorevole alla richiesta di estradizione e l’ordinanza con cui gli stessi giudici applicano una misura cautelare personale alla persona sottoposta alla procedura estradizionale. Se la cautela è adottata in violazione della legge la persona ha a disposizione lo strumento del ricorso per cassazione non essendo previsto in tale materia il rimedio del riesame. La sentenza n. 2245/2025 della Cassazione penale ha accolto il ricorso di un cittadino albanese che era stato condannato nel proprio Paese d’origine a una pena detentiva “breve” e che dopo l’ok del giudice italiano alla sua estradizione verso l’Albania si era visto applicare la cautela dell’obbligo di presentazione a un ufficio di polizia giudiziaria, ma senza alcuna evidenza del periculum della fuga. Come spiega la Suprema corte, non viene meno il rigido obbligo motivazionale sulle esigenze cautelari cui è sottoposto il giudice, solo perché nel caso dell’estradizione lo Stato richiesto deve - in adempimento dei propri impegni internazionali - garantire la messa a disposizione dell’estradando allo Stato richiedente. Inoltre, nel caso specifico, i giudici di appello al fine di escludere la necessità di una misura cautelare personale detentiva rappresentavano alcuni elementi caratterizzanti la condizione del cittadino straniero in Italia e che deponevano piuttosto a favore dell’insussistenza del pericolo che potesse darsi alla fuga. La fuga costituisce invece il periculum specifico che rileva in tali situazioni al fine di applicare la cautela personale. E se non dimostrato non giustifica il sacrificio della libertà personale, in base ai sovraordinati principi costituzionali che la garantiscono. In effetti, l’ordinanza, ora annullata, al fine di dimostrare l’adeguatezza dell’obbligo di presentazione alla Pg (e non della detenzione) elencava circostanze personali di fatto atte a escludere il pericolo di fuga che poteva, invece, giustificare l’applicazione della cautela. Risultava, infatti, che l’uomo avesse un domicilio fisso in Italia, un regolare contratto di locazione abitativa e un rapporto di lavoro a tempo indeterminato: cioè tutti fattori che lungi dal motivare il periculum in realtà lo depotenziavano, come dice la Cassazione con la sua decisione di annullamento della misura cautelare. Calabria. Giovanna Russo è la nuova Garante regionale dei diritti dei detenuti di Consolato Cicciù strettoweb.com, 22 gennaio 2025 L’Avvocato Giovanna Russo è il nuovo Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “Accogliamo con grande soddisfazione e sincero orgoglio la notizia della nomina dell’Avv. Giovanna Russo quale Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. Queste le parole del Presidente dell’Associazione Nuova Solidarietà, Fortunato Scopelliti, in merito alla nuova nomina. Lo stesso poi aggiunge: “a nome del direttivo, dei soci e dei volontari dell’associazione, ma soprattutto dei tanti amici che in Nuova Solidarietà l’hanno vista crescere, maturare e diventare un profilo professionale di assoluto rilievo, esprimo gli auguri di buon lavoro, con l’incondizionata consapevolezza che saprà offrire a questo nuovo e delicato incarico regionale - così come ha fatto per il Comune di Reggio Calabria - la sua visione, la sua umanità, la sua competenza e quella determinazione che da sempre contraddistinguono il suo operato”. Bologna. De Pascale va in visita nel carcere: “Emergenza suicidi e sovraffollamento” di Marco Madonia Corriere della Sera, 22 gennaio 2025 Il presidente della Regione sarà accompagnato dalle delegazioni degli avvocati e della Camera Penale. Negli istituti penitenziari il nuovo anno si è aperto con l’allarme per il numero dei morti. L’ultima vittima, il 20 gennaio, nel carcere di Cagliari con un detenuto di 20 anni che si è impiccato in cella. Dall’inizio dell’anno il conto drammatico delle morti in carcere segna, in tutto il Paese, 8 detenuti e un operatore di polizia penitenziaria. Numeri che superano addirittura i ritmi del 2024, l’anno peggiore di sempre, che ha registrato 91 morti (quasi una media di 1 ogni 4 giorni) e oltre 2mila tentativi di suicidio. Una mattanza. In regione l’ultimo ad essersi tolto la vita è stato Andrea Paltrinieri, 49 anni, che un anno fa a Modena aveva ucciso l’ex moglie Anna Sviridenko. La Procura ha anche aperto un fascicolo, al momento contro ignoti, per istigazione al suicidio. L’ingegnere 49enne sarebbe stato oggetto di minacce e insulti da parte degli altri detenuti. Paltrinieri è il terzo in pochi giorni a morire al Sant’Anna di Modena. Prima di lui un 27enne marocchino e un moldavo 37enne. Poi un tunisino di 27 anni a Piacenza, in isolamento; e il 3 gennaio a Bologna un 40enne pachistano. è in questo contesto drammatico del sistema carcerario che il presidente della Regione, Michele de Pascale, ha deciso di fare visita alla Dozza. Una delle prime uscite dopo l’insediamento assume un elevato valore simbolico. De Pascale sarà accompagnato da una delegazione dell’Ordine degli avvocati di Bologna e da una delegazione della Camera penale Franco Bricola, guidata dal professore Nicola Mazzacuva che proprio la scorsa settimana è stato riconfermato alla guida del Consiglio nazionale delle Camere penali. A Bologna sono state diverse le iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle morti in carcere, come per esempio la maratona oratoria in piazza Galvani dello scorso luglio. Collegato al tema delle morti in carcere c’è la questione del sovraffollamento. In regione, ultimo dato disponibile, sono 3.850 le persone detenute, molte di più rispetto alla capienza consentita. Ma è solo uno dei problemi. Ad esempio a Bologna lavorano all’esterno 63 detenuti, a Piacenza neanche uno. L’Ordine da tempo chiede un maggior coinvolgimento delle realtà del terzo settore per favorire anche il reinserimento nella società dei detenuti quando avranno scontato la pena. Altra questione fondamentale è l’assistenza sanitaria in carcere, che fa capo alla Regione. Anche su questo ci si attende un impegno di de Pascale che, magari, parlerà anche dell’indulto. Unica soluzione, secondo gli avvocati, per alleggerire il dramma delle carceri ma tema da sempre molto divisivo e, di certo, lontano dalla sensibilità dell’attuale maggioranza di governo a Roma. Udine. Rivolta nel carcere dopo il suicidio di un detenuto: in 13 condannati di Alessandro Cesare Messaggero Veneto, 22 gennaio 2025 Circa 10 anni in totale a fronte di una richiesta del pubblico ministero di 11 anni totali di reclusione per gli imputati. I fatti risalgono al novembre 2022. Sono arrivate nella giornata di martedì 21 gennaio le sentenze di primo grado per la rivolta scoppiata nel carcere di Udine nel novembre 2022 come forma di protesta dopo il suicidio di un ventiduenne dominicano. A fronte di una richiesta del pubblico ministero di 11 anni totali di reclusione per i tredici imputati, il giudice del tribunale di Udine, Paola Turri, dopo quasi due ore di camera di consiglio, ha inflitto condanne per circa 10 anni totali, con i protagonisti di quell’episodio, accusati di interruzione di pubblico servizio e danneggiamento, che hanno ricevuto, grazie ai benefici del rito abbreviato, pene comprese tra i 6 e i 9 mesi ciascuno. Uno degli imputati ha scelto di patteggiare, chiudendo con 9 mesi di pena, un altro ha preferito la strada del dibattimento, con la sua comparsa in aula che è prevista per il 31 gennaio. Un procedimento che ha rappresentato l’occasione per riaccendere l’attenzione sulle difficili condizioni di vita nel carcere di via Spalato. “Udine non è più un’isola felice - ha sottolineato Paolo Bevilacqua, uno dei tanti avvocati presenti in aula -. La situazione è drammatica e lo vediamo quando facciamo i colloqui. Non voglio giustificare quanto accaduto - ha chiuso il legale - ma dopo un fatto drammatico come quello del suicidio i detenuti hanno un solo modo per protestare, e cioè la battitura contro le sbarre delle celle”. Sulla questione è intervenuto anche Andrea Sandra, garante dei detenuti per Udine: “Le condizioni di vita del carcere rimangono meritevoli di attenzione, e non certamente attraverso il modo scelto dal governo attuale, e cioè l’inasprimento delle pene a fronte di un dissenso manifestato in maniera pacifica. Se quanto accaduto in via Spalato nel 2022 fosse successo oggi, immagino che sarebbero state inflitte pene più alte e ingiustificate”. Avellino. Caos carcere: venti agenti penitenziari finiscono sotto inchiesta di Katiuscia Guarino Il Mattino, 22 gennaio 2025 Tra gli episodi contestati evasioni “sospette”, risse tra detenuti e presunte violenze avvenute in cella. Tre evasioni in momenti diversi da parte di cinque detenuti che poi sono stati subito catturati; aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria; botte tra i detenuti, uno dei quali ridotto in fin di vita; sequestri di droga e smartphone. Per alcuni mesi dello scorso anno è regnato il caos nel carcere di Avellino. Una serie di eventi critici che ha portato alla contestazione di provvedimenti disciplinari nei confronti di venti agenti penitenziari, alcuni dei quali rischiano il licenziamento mentre per altri si profila la sospensione dal servizio. Non solo. Nel mirino degli inquirenti è finita anche la direttrice del carcere, Rita Romano (attualmente in licenza, è sostituita al vertice dalla direttrice in missione Maria Rosaria Casaburo). Ma la sua posizione è stata poi archiviata. I sindacati all’attacco: “L’amministrazione penitenziaria cerca capri espiatori”. Una situazione incandescente ad Avellino: proprio ieri sono stati assegnati nuovi uomini per rafforzare l’organico da sempre carente nella struttura irpina. Critico il sindacato della polizia penitenziaria: “Sono stati emessi numerosi provvedimenti disciplinari ingiusti con proposte di sospensione e licenziamento. Gli agenti risultano accusati di aver maltrattato i detenuti. Questo nonostante le condizioni lavorative fossero proibitive: ogni agente era costretto a controllare fino a cento detenuti, spesso armati”. A fronte di una capienza regolamentare di 507 detenuti sono 620 i presenti. Attualmente il personale impiegato è di 111 uomini e 22 donne. Mancano 77 poliziotti in organico, numero al quale - secondo i sindacati - sono sottratte ancora 28 unità per l’Icam di Lauro (struttura per l’accoglienza per le detenute madri) e 4 ai Cinofili per un totale di 81 unità mancanti all’appello. Per il sottosegretario Delmastro i dati sono altri: “Il personale attualmente in servizio ammonta a 322 unità, con un esubero di quattro unità rispetto alla pianta organica”. Per i poliziotti l’indagine interna è volta a verificare se nei loro comportamenti ci siano omissioni nello svolgimento dei compiti di istituto o coinvolgimento in episodi violenti. In corso una parallela inchiesta anche della Procura della Repubblica di Avellino. Chiarita al momento la posizione della direttrice Romano, alla quale non sono state riconosciute responsabilità ma “impegno per cercare di mitigare le diverse criticità”. La commissione di disciplina dell’amministrazione penitenziaria ha accolto all’unanimità la richiesta di archiviazione formulata dalla difesa a supporto della quale è stata “prodotta una copiosa documentazione, volta a dimostrare che la dirigente ha messo in atto, sin dall’inizio, ogni disposizione utile a garantire l’ordine e la sicurezza della struttura”. La commissione “non ravvisa nel comportamento della dirigente irregolarità o omissioni che configurano infrazioni disciplinari, concludendo per l’archiviazione del procedimento”. Il procedimento disciplinare nei confronti della direttrice Romano si è concluso con un decreto di archiviazione emesso lo scorso 10 gennaio firmato del Capo del Dipartimento facente funzioni, Lina Di Domenico. Discorso diverso per una ventina di poliziotti penitenziari. Quattro agenti sarebbero già stati rimossi dal servizio, mentre altrettanti rischiano azioni più pesanti. Un paio di casi potrebbero addirittura arrivare al licenziamento. Le contestazioni sono scattate in seguito alle vicende che si sono registrate lo scorso anno: evasioni, tentate evasioni, aggressioni e violenze tra detenuti. Un quadro complessivo che genera ulteriore tensione nel carcere del capoluogo irpino. Il personale non ci sta a subire un’onta del genere. Alzano la voce i sindacati. Lo fa anzitutto l’Osapp. “L’amministrazione penitenziaria dicono i rappresentanti Leo Beneduci, Emilio Fattorello e Vincenzo Palmieri, che ieri hanno organizzato una conferenza stampa davanti al carcere di Bellizzi - cerca capri espiatori, punendo indiscriminatamente gli agenti. Questa politica rischia di scaricare le responsabilità su chi è stato lasciato solo per anni. Non si possono attribuire le colpe delle evasioni o delle inefficienze ai soli agenti o ai dirigenti locali”. Uno scontro a distanza che rischia di inasprire ancora di più gli animi. Ieri il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha annunciato l’assegnazione di quattro nuove unità maschili nella qualifica di vice-sovrintendente. L’esponente del Governo ha parlato del carcere di Avellino rispondendo a un’interrogazione del parlamentare Toni Ricciardi (Pd), che ha puntato i riflettori sulle vicende del penitenziario del capoluogo irpino e sulla necessità di incrementare il personale nelle carceri. Milano. Ambrogio e Roberto, da narcotrafficanti all’impegno oltre il carcere di Giorgio Paolucci Avvenire, 22 gennaio 2025 Nella vita ci sono momenti in cui il passato presenta il conto - un conto spesso doloroso - al presente. E il presente ne fa tesoro per provare a costruire un futuro diverso da quel passato. Sono momenti che la mente umana non sa prevedere, non sa neppure immaginare, ma che accadono. Forse perché c’è di mezzo un disegno misterioso, nel quale la resa dei conti si trasforma in un trampolino per la ripartenza, occasione per una rigenerazione umana. È quello che è accaduto ai protagonisti delle due storie che andiamo a raccontare, legate alla parola “droga”. Ambrogio e Roberto non ne hanno mai fatto uso ma la conoscono bene, è stata per tanti anni la loro fonte di arricchimento. Fino a quando è diventata il boomerang che li ha portati in carcere. Il curriculum di Ambrogio - da un anno tornato in libertà dopo dodici di reclusione - è segnato da diverse condanne, la più importante per traffico internazionale di stupefacenti. Arrestato in Germania nel 2011, conosce le carceri di Rebibbia, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Opera. È lì che si imbatte nell’altra faccia della sua attività, qualcosa che prima volutamente ignorava: è il volto allucinato e scavato dei tossicodipendenti incontrati in prigione, la sofferenza di quanti non ce la fanno a campare senza le sostanze. Disposti a tutto, anche a commettere reati. “Come Ruggero, 19 anni, che non riesce più a saldare i debiti con il pusher, e una sera per procurarsi il denaro rapina un benzinaio, gli mette la pistola alla tempia, quello reagisce, lui spara, l’ammazza, si becca l’ergastolo. Quando sono finito in carcere ho visto con i miei occhi gli effetti devastanti di quella che per tanti anni ho sciaguratamente considerato un’attività imprenditoriale. Ho avvelenato migliaia di persone, però io non le vedevo, non le conoscevo: mai venduto neppure un grammo, non mi sporcavo le mani con lo spaccio, me ne stavo beatamente molto più in alto, dirigevo il traffico tra Sudamerica e Italia, importavo veleno senza pensare a chi lo assumeva. Con il denaro guadagnato ho fatto la bella vita - Caraibi, Brasile, barche, compagnie allegre... - e procurato morte. Poi, in carcere, arriva quella che considero una specie di pena del contrappasso: l’impatto con le vittime delle mie imprese, la presa d’atto del male compiuto, lo schifo provato per la mia persona. Per mesi facevo la barba nella doccia, non avevo il coraggio di guardare la faccia allo specchio… Anni di carcerazione trascorsi maledicendo il mio passato”. È proprio dallo schifo per il passato e dalla compassione per le vittime dei suoi reati che fiorisce il desiderio di cambiare. “Non potevo rimediare al male che avevo procurato ma volevo abbracciare la loro fragilità, rendermi utile in qualche modo. E il Principale mi è venuto incontro, ha mostrato una strada”. Lo chiama così - “il Principale” - quel Dio che si è manifestato con una proposta inattesa che ha acceso la fiammella della speranza nel buio della detenzione. Grazie all’amicizia con i volontari dell’associazione Incontro e Presenza che lo vanno a trovare in carcere - “i miei angeli custodi, non mi hanno mai mollato” - incontra Davide, responsabile della cooperativa sociale Pandora che gli propone di lavorare all’accoglienza in un centro che aiuta le persone prigioniere della dipendenza da sostanze. È il primo vero lavoro di Ambrogio, dopo tanti anni da trafficante professionista. Ottiene l’applicazione dell’articolo 21, la norma dell’ordinamento penitenziario che autorizza i detenuti a svolgere attività fuori dal carcere, e a settant’anni inaugura una nuova stagione della vita: ogni giorno ottanta minuti di viaggio da Opera al luogo di lavoro in via Ventura, periferia di Milano, tre autobus, 48 fermate, l’ebbrezza dei primi assaggi di libertà. “Ancora una volta, come era accaduto in galera, vedevo passare davanti ai miei occhi le vittime delle mie malefatte. Ogni volta mi sentivo giudicato, provavo vergogna e insieme il desiderio di abbracciarle e di tentare una sorta di riparazione. In quei mesi è accaduto qualcosa di nuovo, è cresciuta la volontà di essere utile, finalmente mi sentivo in pace. Con molti di loro è nata un’amicizia, dopo qualche mese mi hanno proposto persino di gestire alcuni incontri di autocoscienza in cui potessero condividere i loro trascorsi e cercare strade per uscire dalla dipendenza. Cose da non credere: il Principale aiutava le vittime servendosi del loro carnefice. Non c’è limite alla fantasia di Dio”. Anche Roberto ha vissuto in carcere il suo personale contrappasso. Trafficante internazionale di stupefacenti ad altissimo livello, un’esistenza con l’unico pensiero di accumulare denaro e di condurre una vita da nababbo, dopo l’arresto nel 1997 viene condannato a 22 anni di carcere quando ne aveva 50. La prima notte passata a Regina Coeli lo costringe a misurarsi con le vittime dei suoi reati. “Nella cella che condividevamo, due giovani in preda a crisi d’astinenza picchiavano sul blindo urlando come dei dannati. “Guarda cosa ho combinato”, mi sono detto. Il male compiuto presentava il conto e mi costringeva a rendermi conto del dolore che avevo provocato. In carcere cominci a pensare, ti guardi dentro e ti chiedi: cosa ho fatto della mia vita? Dovevo uscire dal vicolo cieco in cui mi ero cacciato pensando solo a me stesso. La chiave per farlo? Lo studio”. Da giovane aveva già preso il diploma di geometra, ma a scuola era sempre andato senza entusiasmo. Nel carcere di Viterbo dove viene trasferito chiede di iscriversi al liceo classico, il direttore si stupisce di una proposta così impegnativa ma accetta, Roberto diventa un studente modello “perché leggere le opere dei greci e di grandi filosofi è stato come aprire gli occhi sul mondo, imparare a usare la ragione, conoscere se stessi e il valore dell’altro e smettere di guardarsi allo specchio. Mi aspettava una lunga detenzione ma mi sentivo libero dentro e non sopportavo l’idea di passare le giornate sdraiato in cella su una branda fantasticando su un futuro lontanissimo”. Lo studio diventa il trampolino per la sua ripartenza, viene trasferito alle Vallette di Torino dove diventa il primo detenuto a frequentare l’università, si laurea in giurisprudenza e scienze politiche. Nel 2008 comincia a uscire con permessi di studio e di lavoro presso la Caritas che gli offre la possibilità di mettere a frutto la conoscenza delle lingue maturata nella lunga militanza malavitosa in giro per il mondo e di realizzare il desiderio di praticare il bene dopo tanto male seminato con i suoi traffici. Comincia a prendere forma la parabola del suo riscatto, diventa realtà la speranza di una vita pulita. “Quando mi hanno arrestato possedevo un capitale di 23 milioni di dollari, oggi campo con 500 euro al mese: va bene così, ho scoperto il valore dell’essenziale”. La moglie vive negli Stati Uniti (dove Roberto aveva una delle sue basi operative), il figlio - ironia della sorte - è un poliziotto della sezione narcotici dell’Fbi. Nel 2013 ha riconquistato la libertà, oggi a ottant’anni suonati ogni mattina è al lavoro negli uffici della Caritas di Torino: cura la rassegna stampa giornaliera e incontra migranti provenienti da ogni latitudine, grazie alle due lauree e alla conoscenza di sette lingue offre i suoi servigi per traduzioni e pratiche burocratiche, collabora con il settimanale diocesano La Voce del tempo, incontra gli studenti nelle scuole e dice ai giovani di non inseguire le sirene del successo a buon mercato e di non prostrarsi al dio denaro. “Dio, quello vero, è venuto a ripescarmi dalla palude in cui ero sprofondato. Non è stato un caso, è stata la Provvidenza che ha trasformato la carcerazione in un’occasione per meditare sulle mie malefatte e per cominciare a cambiare vita. Ora cerco di essere un testimone del bene”. Prove tecniche di fascismo democratico di Sergio Segio Il Manifesto, 22 gennaio 2025 Mentre le cronache politiche mettono in scena il consueto gioco di ruolo, fatto di annunci, forzature del Governo, frenate del Colle, dichiarazioni dei pasdaran della maggioranza e garbate repliche dei partiti di centrosinistra, il fascismo democratico prosegue la sua marcia, spesso inavvertita e comunque inarrestata. Ce ne hanno date, ma gliele abbiamo dette, si consola la minoranza parlamentare. Tanto chi davvero le ha prese, le prende e le prenderà sono altri. Come quei 23 pacifici dimostranti che il 13 gennaio sono stati maltrattati, denudati e infine denunciati dalla polizia a Brescia per aver osato protestare davanti alla sede dell’industria di stato Leonardo, produttrice, in barba alla Costituzione, di strumenti di morte che contribuiscono a far strage di popoli. Per intimidire violentemente quegli attivisti - così come tanti altri prima di loro - il governo e il suo ministro di polizia non hanno dovuto aspettare l’approvazione al Senato del Ddl Sicurezza. Neppure i carabinieri di Milano che lo scorso 24 novembre hanno causato la morte del giovane Ramy Elgam - come tanti altri prima di lui - hanno avuto bisogno di nuove norme per sentirsi autorizzati alla profilazione razziale e alla cattura, costi quel che costi, di ragazzi incolpevoli. Quand’anche manganellate, fogli di via, denunce e processi non fossero sufficienti ecco pronto uno strumento ulteriore e complementare per riportare all’ordine e all’obbedienza giovani dissenzienti e cittadini che protestano: richieste milionarie di risarcimento per danni. È stato messo in campo in questi giorni a Torino, da molti anni laboratorio avanzato anche a questi riguardi, con l’abnorme azione repressiva nel contrasto ormai decennale del movimento popolare contro la TAV. Nel processo in corso contro 28 militanti, imputati in gran parte di associazione per delinquere e per i quali la procura ha già chiesto condanne a ben 88 anni di carcere, Presidenza del consiglio e ministeri dell’Interno e della Difesa costituitisi parte civile hanno chiesto un risarcimento di quasi sette milioni di euro: per le spese sostenute per il ripristino dell’ordine pubblico, ovvero per l’occupazione militare della Val di Susa (nel corso del 2020 si sono alternati 205.988 militari, nel 2021 266.451 e così via), ma anche per danni di “immagine”. Numeri che persino per i cronisti dell’ANSA “evocano uno scenario che, se non è di guerra, è di conflittualità permanente”. Guerra o conflitto dove, afferma una sentenza del prestigioso Tribunale Permanente dei Popoli, “si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta”. In questo scenario il Ddl Sicurezza del governo Meloni impone un salto di qualità, non solo comprimendo ulteriormente i diritti civili e sociali e imprimendo nuovi vulnus al già assai malandato Stato di diritto, ma ampliando impunità e liberando poteri opachi, come denunciato anche dal presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di piazza Fontana: “Siamo di fronte a un provvedimento che vuole aumentare la libertà di manovra dei Servizi, svincolandoli da ogni controllo di legalità” (La Stampa, 13 gennaio 2025) e dall’Associazione Italiana per la Scienza Aperta, che ha segnalato l’imposizione nell’ambito universitario dell’obbligo di collaborare con i servizi segreti. Chiudere ogni spazio al dissenso pacifico e alla protesta nonviolenta, come il Ddl intende fare persino in carcere, rischia di incrementare convinzioni e comportamenti invece violenti. E forse è proprio questo il disegno, rinverdendo quel più che collaudato e sempre funzionante meccanismo che una volta si chiamava strategia della tensione. Referendum. Cittadinanza ai “nuovi italiani”: qual è la posta in palio di Diego Motta Avvenire, 22 gennaio 2025 Con il sì della Consulta, parte la mobilitazione dei giovani nelle piazze e sui social. I promotori: dimezzare i tempi di residenza richiesti per fare domanda. Ma il quorum è un traguardo difficile. Sulla cittadinanza si apre il fronte della piazza, ma nei palazzi della politica il discorso non è chiuso. Anzi. Sono 18 i testi depositati come proposte di riforma sul tema in Parlamento (13 alla Camera, 5 al Senato) eppure la discussione non è mai iniziata. Che effetto avrà adesso il sì della Consulta alla proposta lanciata dal comitato promotore, che ha chiesto di dimezzare da 10 a 5 gli anni di residenza legale richiesti inItalia per fare domanda? L’effetto sarà duplice. Da un lato, il via libera della Corte Costituzionale aggregherà verosimilmente pezzi diversi della società civile e della politica, a partire dall’opposizione, interessati a dare un segnale ai cosiddetti “nuovi italiani”, i figli dei migranti nati e cresciuti in Italia che da tempo chiedono di essere riconosciuti come tali. Dall’altro, probabilmente, compatterà chi finora si è opposto a qualsiasi riforma, su tutti Palazzo Chigi e ampi spezzoni della maggioranza, all’insegna dell’immobilismo. Non fare nulla, insomma, per vedere se e quanto l’istituto del referendum (chiesto non solo per cambiare la cittadinanza, ma anche per abrogare alcune norme del mercato del lavoro) riuscirà a smuovere la coscienza del Paese, consapevoli che l’asticella del quorum è molto alta e assai difficile da raggiungere. “È un traguardo storico, frutto del nostro impegno e siamo felici e orgogliosi per questo risultato”. Chi parla è Noura Ghazoui, responsabile della “Rete Conngi”, nata dalla decisione delle nuove generazioni di mettersi insieme, al di là delle appartenenze e degli steccati. Questa sigla raccoglie ormai 45 associazioni, e insieme ad altri network, come “Italiani senza cittadinanza” e “Idem Network”, rappresenta il mondo dei “nuovi italiani”. “Ora dovremo elaborare una campagna comunicativa all’altezza. Vorremmo dire innanzitutto che il cambiamento che chiediamo non è solo per noi, ma per tutto il Paese. Racconteremo le nostre storie, certo, e punteremo su una presa di coscienza generale”. Portare alle urne milioni di persone in tempi di astensionismo imperante è un obiettivo importante, per molti irraggiungibile. I promotori sperano di replicare, in grande, il grande battage mediatico che ha portato in pochi giorni a settembre a sfondare quota 670mila firme (anche online): allora si impegnarono influencer, testimonial, cantanti da Ghali a Zerocalcare. “Insisteremo ancora su di loro, ci focalizzeremo tanto sul tam tam, via social e saremo poi nelle piazze con i gazebo. La politica? Speriamo si mobiliti con noi”. La sera di lunedì, in piazza a Roma, la voce dei comitati promotori, insieme a quella di Riccardo Magi, segretario di +Europa, si è concentrata su alcuni punti in particolare. “Questa è una legge anacronistica, che non rappresenta più l’Italia di oggi - hanno detto i giovani presenti -. In questo senso, il pronunciamento della Corte Costituzionale è sicuramente un passo importante verso la riforma della legge 91 del 1992 e per noi è stato fondamentale aver avuto il supporto di tutti. Innanzitutto, delle persone che hanno firmato e che ci hanno regalato il loro tempo. Adesso lavoreremo, fianco a fianco, con chi ha dimostrato di credere in questa battaglia”. A suonare la carica ieri è stato il leader della Cgil, Maurizio Landini, secondo cui “si apre una primavera di voto e di diritti, una primavera di democrazia e partecipazione”. Vista dai palazzi delle istituzioni, la prossima consultazione è un sasso lanciato nello stagno immobile della politica. Le proposte presentate da Forza Italia e dal Pd rimangono, su fronti diversi, le basi di un confronto mai iniziato. Fi ha puntato sullo Ius Italiae, che vuole garantire la concessione della cittadinanza a bambini e ragazzi che abbiano completato un percorso di studi obbligatorio di almeno 10 anni nel nostro Paese, limitando nel contempo l’accesso allo Ius Sanguinis, per i cosiddetti oriundi alla seconda generazione e accorciando i tempi di risposta da parte dello Stato per chi chiede il titolo. Per il Partito democratico, invece, bisognerebbe partire con lo Ius Scholae già dalle scuole dell’infanzia e sul tavolo dovrebbero esserci “tutti gli Ius del mondo”, per dirla con i parlamentari che hanno lanciato la proposta. Sulla strategia che verrà seguita, in particolare da Via del Nazareno, Elly Schlein ha ribadito, a proposito di tutti e 5 i quesiti: “Li ho firmati e non faremo mancare il nostro contributo, anche sulla cittadinanza”. Segnali di mobilitazione sono arrivati anche dalla società civile. “A giugno saremo chiamati a dare voce a centinaia di migliaia di persone che, pur senza cittadinanza, sono già italiani. Grande sarà il nostro impegno” ha sottolineato ad esempio Laura Liberto, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti, di Cittadinanzattiva. Secondo il Forum Disuguaglianze e diversità, “su questo tema si aprirà finalmente un dibattito cruciale non solo per le persone di origine straniera, che grazie alla cittadinanza vedranno riconoscersi diritti fondamentali, ma per l’intero Paese”. Migranti. Corti d’appello, le prime convalide a Palermo di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 gennaio 2025 Procedure accelerate di frontiera. Trattenuti sei richiedenti asilo a Porto Empedocle. È un test per i Centri in Albania, dopo le nuove norme introdotte dal Governo. Circa 600 persone sono sbarcate ieri e l’altro ieri a Lampedusa. Tra loro sei cittadini del Bangladesh trasferiti nel centro di trattenimento di Porto Empedocle per sottoporli alle “procedure accelerate di frontiera”, ovvero l’iter per la domanda d’asilo che prevede la detenzione. Per la prima volta dopo il cambio di competenze disposto dalla legge di conversione del dl flussi le richieste di convalida della misura di privazione della libertà finiranno sul tavolo di una Corte d’appello, quella di Palermo che ha la competenza distrettuale sulla struttura dell’agrigentino, invece che davanti alla locale sezione specializzata in immigrazione del tribunale civile. Per il governo si tratta dell’ennesimo tentativo di ottenere il via libera alla nuova prassi dalle toghe, soprattutto in vista della riattivazione dei centri in Albania dove valgono le stesse regole e per cui si sono poste problematiche giuridiche analoghe a quelle sorte nei tribunali siciliani. Non è un caso che l’esecutivo tenti la strada palermitana: sebbene in numeri molto ridotti lì alcune convalide ci sono state. Tra agosto e dicembre l’orientamento dei giudici di primo grado è stato di non contestare la classificazione dei “paesi di origine sicuri”, prerequisito per far scattare la procedura accelerata, ma di valutare altri tipi di contrasti tra la direttiva europea e la detenzione che l’esecutivo vorrebbe mettere a regime. La logica delle norme comunitarie, infatti, prevede il trattenimento solo come extrema ratio, mentre l’obiettivo della destra italiana è di far svolgere l’esame della domanda d’asilo dietro le sbarre a tutti i richiedenti che vengono dai paesi ritenuti sicuri. Complessivamente il tribunale di Palermo ha dato l’ok alla detenzione in 19 casi su 116, tendenzialmente per cittadini tunisini che avevano violato il divieto di reingresso nel territorio dello Stato o presentavano comunque un alto pericolo di fuga. Diverse le valutazioni fatte a Catania, per il centro di Modica-Pozzallo, e Roma, per quelli in Albania. Lì i giudici hanno disapplicato la normativa nazionale perché ritenuta in contrasto con quella europea sulla designazione dei paesi sicuri oppure hanno rinviato tutto alla Corte di giustizia Ue. Nel frattempo a fine dicembre è arrivata un’ordinanza interlocutoria della Cassazione, non è una sentenza perché sospende il giudizio in vista della decisione dei colleghi del Lussemburgo attesa in primavera, che ha destato reazioni contrastanti. Il governo sostiene che gli dia ragione, molti giuristi affermano il contrario. Su quella base, comunque, il 5 gennaio il tribunale di Catania ha nuovamente disapplicato la normativa nazionale liberando un richiedente asilo egiziano. La Corte d’appello di Palermo dovrà dare una risposta alla richiesta di convalida entro 48 ore dalla ricezione, come stabilisce l’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale. Un articolo che prevede la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, ma rischia di essere svuotato per i richiedenti asilo se le procedure accelerate di frontiera, adesso o dopo l’entrata in vigore nel giugno 2026 del Patto Ue immigrazione e asilo, dovessero diventare la norma. L’esito delle convalide palermitane inevitabilmente giocherà un ruolo sul progetto albanese. In particolare sulle tempistiche dei nuovi trasferimenti a cui il governo sta lavorando, ma dei quali non ha annunciato ancora la data. Migranti. L’aguzzino di Tripoli scarcerato per vizio procedurale ed espulso di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 gennaio 2025 Il capo della polizia libica era stato arrestato domenica a Torino. I dubbi di Nordio e i cavilli trovati dal pg di Roma. C’era un mandato della Corte penale. È stato scarcerato ieri sera, subito espulso e messo su un volo in direzione di casa sua in Libia Najeem Osema Almasri Habish, il 47enne capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato a Torino domenica su mandato della Corte penale internazionale (Cpi). Su di lui pendevano accuse di crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati per lo più nel famigerato carcere di Mitiga, spesso oggetto di denunce per le torture che vengono praticate al suo interno. La decisione, formalmente, è stata presa dalla Corte d’Appello di Roma in virtù di un cavillo procedurale. Nell’ordinanza il pg definisce l’arresto come “irrituale” perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale”. Nordio sarebbe stato informato lunedì dopo aver ricevuto gli atti dalla questura di Torino, e, prosegue il pg, “non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”. Così “non ricorrono le condizioni per la convalida e, conseguentemente, per una richiesta volta all’applicazione della misura cautelare. Ne deriva la immediata scarcerazione del pervenuto”. Il caso è stato un vero e proprio rebus giudiziario, durato lo spazio di 48 ore: “È un carteggio complesso” è stata la posizione di via Arenula per tutta la giornata di ieri, mentre negli uffici si ragionava su come trovare una soluzione. Ieri il ministero della Giustizia aveva anche fatto uscire un comunicato in cui diceva che Nordio stava valutando se trasmettere o meno la richiesta della Cpi al procuratore generale di Roma, competente sulla base della legge 237 del 2012. L’articolo che si citava era il quarto - che riguarda le modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria e ne attribuisce la competenza appunto al pg della capitale - ma è stato anche soppesato il quinto, soprattutto la parte in cui si afferma che il Guardasigilli può decidere di negare ogni autorizzazione qualora dovesse ritenere che in gioco ci sono questioni attinenti alla sicurezza nazionale. Il caso Habish ha messo in serio imbarazzo l’Italia: se è vero infatti che l’aguzzino di Mitiga sarebbe stato chiamato a rispondere “solo” delle sue azioni personali, o al massimo di quelle che potrebbe aver ordinato ai sottoposti, non si poteva affatto escludere che una volta finito all’Aja avrebbe fatto menzione dei possibili rapporti avuti con Roma sin dai tempi del memorandum del 2017, quando “la difesa dei confini” ancora oggi in voga veniva declinata dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti come risposta “da sinistra” alle paure dei cittadini sull’immigrazione. Alla fine la scelta della Corte d’Appello è stata di scarcerare l’uomo e rispedirlo in Libia. È la seconda volta in una settimana che l’Italia si trova a dover dare un dispiacere alla Corte dell’Aja: già giovedì scorso, dopo la visita a Roma del ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar era filtrata la notizia che, nel caso di un suo viaggio italiano, nessuno avrebbe arrestato il premier Benjamin Netanyahu, sebbene anche su di lui pendano accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. Meno calzante, invece, è il precedente dell’affaire Sala-Abedini: l’ingegnere iraniano detenuto in Italia su mandato degli Usa è stato scarcerato sulla base di un trattato bilaterale tra Roma e Washington che esiste da un quarantennio. Per Habish, il problema italiano è per lo più reputazionale: il trattato che ha dato vita alla Cpi, del resto, venne siglato a suo tempo proprio a Roma, anche se adesso non sembra più importare a nessuno. Deluse le aspettative di chi aveva esultato per l’arresto del torturatore libico. L’ong Mediterranea aveva parlato di operazione possibile grazie ad “anni di denunce e testimonianze delle vittime, fatte pervenire alla Corte Penale Internazionale, che ha condotto una difficile indagine”. Così invece il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni quando ha appreso la notizia della scarcerazione: “Naturalmente se questo personaggio potrà lasciare tranquillamente l’Italia sarà chiaro a tutti, alla Cpi, all’Interpol, alla comunità internazionale e ai cittadini del nostro paese, che l’attuale governo italiano, Meloni, Nordio, Piantedosi proteggono i trafficanti di esseri umani e i torturatori libici”. Restano sospesi diversi misteri sulla presenza di Habish sul territorio italiano: si sa che sabato sera era all’Allianz Stadium di Torino per assistere alla partita tra Juventus e Milan. Quando e come fosse arrivato, però, non è ancora chiaro. E probabilmente non lo sarà mai. Migranti. Il “torturatore” accusato di crimini di guerra è già libero: perché l’Italia lo ha scarcerato di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 22 gennaio 2025 Il generale libico Almasri è stato rilasciato subito. A causa di procedure tecniche non eseguite correttamente. Il capo della polizia giudiziaria di Tripoli, Osama Njeem Elamsry detto Almasri, è libero ed è già tornato a Tripoli nonostante il mandato d’arresto pendente della Corte penale internazionale, eseguito dalla Digos di Torino nel fine settimana. In pratica l’arresto non è stato convalidato: “Il procuratore generale chiede che codesta Corte dichiari l’irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale; ministro interessato da questo ufficio in data 20 gennaio, immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, a oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito. Per l’effetto non ricorrono le condizioni per la convalida”, si legge nell’ordinanza della Corte d’appello di Roma che ha disposto la scarcerazione. La palla è così passata al ministero dell’Interno, che ha firmato un ordine di espulsione per il generale. Autorevoli fonti del ministero della Giustizia avevano confermato la notizia a Domani in tarda serata. Alla base del rilascio, spiegano, ci sono procedure tecniche non eseguite correttamente e di passaggi saltati, che hanno spinto la corte d’appello di Roma a decidere per il suo rilascio. Proprio per questo motivo intorno a tutta questa storia c’è stato fin dall’inizio un grande silenzio da parte del governo e dei ministeri competenti. Nessun commento dal Viminale o dal ministero della Giustizia, che si era limitato a diramare una nota stringata nel pomeriggio. Il ministro Carlo Nordio, “considerato il complesso carteggio, sta valutando la trasmissione formale della richiesta della Corte penale internazionale al procuratore generale di Roma”, aveva scritto il ministero della Giustizia. Ora per un nuovo arresto bisogna che Almasri rimetta piede in Italia, ancora una volta e difficilmente accadrà. Insomma, una grande beffa. Su Almasri pende un mandato di cattura internazionale, le ipotesi di chi indaga sarebbero di crimini di guerra e contro l’umanità. Ma questa storia, come quella dell’arresto del cittadino iraniano Mohammad Abedini, avvenuto un mese fa, è soprattutto una vicenda che ha per forza di cose conseguenze politiche visti i rapporti tra i governi italiano e libico in chiave di controllo delle frontiere. L’arresto del libico, infatti, avrebbe potuto incrinare i rapporti tra il governo di Giorgia Meloni e quello di Tripoli guidato da Abdel Hamid Debeibeh, con cui le relazioni sono buone, così come con l’altro centro di potere, quello nemico, guidato dal generale Khalifa Haftar, che comanda nella Cirenaica. Troppo importanti gli interessi italiani e delle sue aziende in Libia per iniziare una crisi diplomatica. Inutili gli appelli delle ong e di alcuni esponenti del Partito democratico che chiedevano di trasferirlo all’Aja il più rapidamente possibile. Ma il silenzio attorno a questa vicenda non è stato tutto italiano. Sui media libici la notizia è passata - volutamente - sotto traccia ed è stata riportata per lo più da pagine vicine alle varie milizie. Almasri è una figura chiave per il governo tripolino, al centro di numerose vicende politiche fin dall’era di Muhammar Gheddafi. Lo sprint alla sua carriera avviene con la nomina di funzionario di primo piano della nota milizia di Tripoli chiamata Rada, creata per combattere il crimine organizzato e inglobata poi per arginare i flussi migratori. Nel 2021 Almasri diventa il capo della prigione di Mitiga e supervisiona anche altre carceri come quelle di Heida, Ruwaimi e Ain Zara. Successivamente diventa direttore della sezione Riforma e riabilitazione della polizia giudiziaria. Un organo che è subordinato al ministero della Giustizia del governo di unità nazionale che ha sede a Tripoli. I cambi di incarichi e ruoli hanno rafforzato il suo potere. Nella capitale libica, nell’agosto 2023, forze sotto il comando di Almasri hanno anche preso parte a combattimenti tra milizie. Le accuse - Il lungo elenco di accuse contro Almasri proviene non soltanto da ong come Amnesty International e da quelle attive nel salvataggio delle persone migranti nel Mediterraneo centrale. Ma anche dal Dipartimento di Stato americano che cita le testimonianze dei detenuti del carcere di Mitiga di cui il libico ne era il capo. Hanno raccontato di torture che duravano anche fino a cinque ore. Tutto accadeva mentre la prigione era diretta da Almasri. Amnesty International e altre ong internazionali hanno riportato di uccisioni illegali, maltrattamenti, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. Ma c’è di più. La ong Mediterranea racconta che dalle testimonianze raccolte durante i salvataggi in mare, Almasri è stato spesso citato dai naufraghi. Molti migranti hanno raccontato di omicidi e stupri commessi dalla milizia da lui guidata e addirittura hanno riferito di aver lavorato come schiavi per la costruzione della nuova pista dell’aeroporto di Mitiga, che sorge vicino alla prigione in cui erano detenuti. Almasri è a tutti gli effetti uno degli uomini degli apparati di sicurezza libici che hanno reso infernale la vita ai migranti. Ciò nonostante pensava di godere di impunità, tanto da andare allo stadio a vedere la partita del 18 gennaio della Juventus contro il Milan. Il suo nome non figura tra i sei soggetti ricercati pubblicamente dalla Cpi, ma tra i cinque coperti da segreto. Ora è a conoscenza anche lui del mandato e starà attento a non recarsi nei paesi, come l’Italia, che aderiscono allo statuto della Corte. Un colpo grosso per i libici nel cuore dello stato italiano, che nel 1992 ha ospitato la firma del trattato. Prima Bidja poi Almasri - Dopo l’uccisione di Abdelrachman Milad meglio conosciuto da tutti come Bidja (accusato di crimini di ogni tipo e di traffico di migranti), ucciso da un commando armato in pieno stile mafioso mentre era nella sua auto, l’arresto di Almasri ha rischiato di far saltare gli equilibri di potere a Tripoli. Il trafficante di esseri umani Bidja, così come il generale libico, era referente di primo piano del governo di Tripoli, che l’Italia e Bruxelles continuano a finanziare per fermare i flussi di migranti. Nelle stesse ore in cui in Italia i media raccontavano l’arresto del funzionario libico, l’ambasciatore dell’Ue in Libia, Nicola Orlando, ha tenuto un incontro con il governo di Tripoli per discutere il prossimo pacchetto di cooperazione. Tradotto: nuovi soldi impiegati per commettere violenze a danno dei migranti. Tracciare i fondi inviati in Libia è molto complicato fin dall’entrata in vigore del Memorandum di intesa firmato nel 2017. E ora lo sarà ancora di più dopo che nel nuovo decreto flussi approvato dal governo Meloni è prevista la secretazione degli appalti per l’affidamento a paesi terzi dei mezzi di controllo delle frontiere. Le associazioni stimano che in totale dal 2017 siano arrivati in Libia circa un miliardo di euro, divisi tra fondi sia italiani sia europei. In Italia passano attraverso i fondi della cooperazione con l’Africa. In Europa attraverso i fondi per la stabilizzazione del paese, usati invece per il controllo delle frontiere. Una tranche di finanziamento per il valore totale di 15 milioni di euro è stata stanziata da Bruxelles per implementare la transizione politica. La data di scadenza del progetto recita 31 maggio 2025, l’inizio è 1° novembre 2021. A tre anni e mezzo di distanza, la Libia è esattamente allo stesso punto: senza elezioni politiche e nelle mani delle milizie che si fanno la guerra a vicenda. Stati Uniti. Trump ripristina la pena di morte federale. E i militanti di destra lasciano il carcere Il Dubbio, 22 gennaio 2025 Ordine esecutivo del nuovo presidente Usa per garantire agli Stati le quantità di farmaci letali. Pioggia di provvedimenti su migranti, sanità, gender e ambiente. Il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo sulla pena di morte che ordina al Procuratore generale di “intraprendere tutte le azioni necessarie e legali” per garantire che gli Stati abbiano abbastanza farmaci per l’iniezione letale per eseguire le esecuzioni. L’ordine di Trump, emanato solo poche ore dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, obbliga il Dipartimento di Giustizia non solo a richiedere la pena di morte nei casi federali appropriati, ma anche a contribuire a preservare la pena capitale negli Stati che hanno avuto difficoltà a mantenere scorte adeguate di farmaci per l’iniezione letale. Trump ha anche ordinato al Procuratore generale di chiedere la pena di morte “indipendentemente da altri fattori” quando il caso riguarda l’omicidio di un agente delle forze dell’ordine o crimini capitali “commessi da uno straniero illegalmente presente in questo Paese”. Sta anche ordinando al Procuratore generale di cercare di annullare i precedenti della Corte Suprema che “limitano l’autorità dei governi statali e federali di imporre la pena di morte”. “La responsabilità più solenne del Governo è quella di proteggere i propri cittadini da atti abominevoli, e la mia amministrazione non tollererà tentativi di ostacolare e sviscerare le leggi che autorizzano la pena di morte per coloro che commettono orribili atti di violenza contro i cittadini americani”, si legge nell’ordine di Trump. Capitol Hill, i militanti di estrema destra lasciano il carcere - Intanto oggi sono usciti dal carcere i leader dei movimenti statunitensi di estrema destra Proud Boys e Oath Keepers, rispettivamente Enrique Tarrio e Stewart Rhodes, graziati dal presidente Donald Trump durante il primo giorno del suo secondo mandato alla Casa Bianca. I due erano stati condannati rispettivamente a 22 e 18 anni di prigione per il ruolo avuto nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del 2021, quando una folla di sostenitori di Trump fece irruzione nei locali del Senato e della Camera dei rappresentanti per impedire la certificazione della vittoria del democratico Joe Biden alle presidenziali del novembre precedente. Ieri Trump ha annunciato la grazia per quasi tutti le persone incriminate per i disordini, circa 1.500. Il presidente aveva anticipato da mesi l’intenzione di concedere la grazia ai suoi sostenitori arrestati, arrivando a definirli più volte “ostaggi”, anche durante l’evento tenuto ieri sera alla Capital One Arena. Pioggia di provvedimenti su migranti, sanità, gender e ambiente - Nel suo primo giorno alla Casa Bianca, Trump ha revocato ben 78 provvedimenti della precedente amministrazione. Tra questi, ce ne sono dieci in materia di crisi climatica, cambiamento climatico, mobilità pulita, energia pulita ed esclusione di alcune aree da future concessioni di petrolio e gas naturale ai fini della tutela ambientale. Otto sono legati alla risposta alla pandemia di Covid-19. La lista comprende anche sette provvedimenti sulla promozione della “equità razziale” e delle opportunità per i nativi americani, gli afroamericani, gli ispanoamericani, gli asioamericani e altri gruppi. Sono stati cancellati, inoltre, cinque atti su immigrazione, asilo e rifugiati, ricongiungimenti familiari e inclusione dei “nuovi americani”. Altri quattro provvedimenti cassati riguardano la non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Sono stati annullati tre ordini esecutivi sulla riduzione dei costi per l’assistenza sanitaria e i farmaci. Via anche l’ordine esecutivo sullo sviluppo e l’uso sicuro e affidabile dell’intelligenza artificiale. Infine, sono state revocate numerose designazioni di funzionari per vari uffici e incarichi. Una valanga di provvedimenti quelli firmati da Trump che, come anticipato dalle priorità della campagna elettorale, non poteva escludere il giro di vite sui migranti. Trump ha infatti anche dichiarato lo stato di “emergenza nazionale” al confine meridionale del Paese, con il Messico quindi, dando il via all’uso di risorse e personale del Pentagono che saranno schierati e utilizzati per costruire il muro di confine. Interrotto anche l’utilizzo di un’app che consente ai migranti di notificare alla US Customs and Border Protection la loro intenzione di entrare negli Stati Uniti e di programmare appuntamenti con le autorità di frontiera per richiedere asilo. Trump ha anche firmato un ordine che mira a ridefinire la cittadinanza per nascita, il processo attraverso il quale a tutte le persone nate negli Stati Uniti viene automaticamente concessa la cittadinanza americana. L’ordinanza, che si applica ai bambini nati dopo 30 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento, si applica in circostanze in cui i genitori sono presenti illegalmente negli Stati Uniti e in situazioni in cui la madre si trova temporaneamente negli Stati Uniti, ad esempio con un visto, e il padre non è cittadino. Tra i provvedimenti firmati, anche il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, definito “unilaterale”, e l’avvio del processo per portare l’America fuori dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), motivata dalla “cattiva gestione della pandemia di Covid-19 e di altre emergenze sanitarie”. Trump ha anche firmato un provvedimento per “difendere le donne dall’ideologia di genere” e “ripristinare la verità biologica al governo federale”. Trump ha poi firmato un’ordinanza che concede a TikTok una proroga di 75 giorni per conformarsi alla legge che richiede all’azienda cinese di trovare un nuovo proprietario per evitare il divieto della piattaforma. L’ordine esecutivo ordina al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di non applicare il Foreign Adversary Controlled Applications Act, approvato con ampio sostegno bipartisan al Congresso e firmato ad aprile dall’ex presidente Joe Biden. È stato inoltre ordinato al governo federale di ripristinare la libertà di parola e impedire la censura governativa della libertà di parola. Trump ha quindi istituito il “Dipartimento per l’efficienza del governo” (Doge), organo consultivo e non un dipartimento governativo ufficiale. Disposto anche un blocco normativo che impedisce ai burocrati di emanare ulteriori regolamenti finché l’amministrazione non avrà il pieno controllo del governo. Trump ha infine adottato misure esecutive sui nomi dei monumenti degli Stati Uniti, tra cui la ridenominazione del monte Denali in Alaska e del Golfo del Messico, che si chiamerà “Golfo d’America”. Stati Uniti. Il ritorno a casa di Leonard Peltier di Marco Cinque Il Manifesto, 22 gennaio 2025 Dopo un processo farsa per omicidio e 49 anni passati in cella, l’attivista nativo-americano va ai domiciliari per decisione (in extremis) di Biden. “Lo cureremo e onoreremo ricollegandolo alla sua terra”. Finalmente una notizia tanto buona quanto insperata per Leonard Peltier, leader nativo americano di ascendenza Lakota/Anishnabe, tra i fondatori dell’Aim (American Indian Movement) e simbolo di una resistenza indigena che dura da più di 500 anni, Pochi istanti prima di lasciare l’incarico, il presidente Joe Biden ha commutato la sua condanna di due ergastoli, permettendogli di scontare la pena agli arresti domiciliari. Biden ha così motivato la decisione: “Nazioni tribali, premi Nobel per la pace, ex funzionari delle forze dell’ordine, decine di legislatori e organizzazioni per i diritti umani sostengono fermamente la concessione della clemenza al signor Peltier, citando la sua età avanzata, le sue malattie, i suoi stretti legami e la sua leadership nella comunità dei nativi americani e il notevole lasso di tempo che ha già trascorso in prigione”. Poi però ha tenuto a precisare, per non irritare oltremodo l’Fbi, che i crimini a lui addebitati non sono stati perdonati. Kathy Peltier, che non vedeva suo padre Leonard dall’inizio della pandemia di Covid, ha detto che ora la sua famiglia piange lacrime di gioia: “È un sollievo - ha detto - potremo abbracciarlo davvero, stare seduti per ore senza limiti di tempo e parlare. Ci sono così tante cose che lui si è perso”. L’avvocato Kevin Sharp, che ha sostenuto la libertà vigilata di Peltier ha dichiarato: “Il presidente Biden ha compiuto un enorme passo avanti verso la guarigione e la riconciliazione con il popolo nativo americano in questo paese. Ci sono voluti quasi 50 anni per riconoscere l’ingiustizia della condanna di Leonard Peltier e della sua lunga detenzione, ma con l’atto di clemenza del presidente, Leonard può finalmente tornare nella sua riserva e vivere i suoi giorni rimanenti”. La vicenda giudiziaria di Peltier è ormai arcinota, raccontata in svariati libri, film e pubblicata su un’infinità di media nazionali e internazionali, anche in numerosi articoli dedicatigli da il manifesto. Tutto ebbe inizio il 26 giugno 1975, a Pine Ridge, territorio degli Oglala Lakota, una delle riserve indiane più grandi e povere degli Stati uniti. Erano tempi di forti tensioni sociali e scontri, dove avvenivano continue aggressioni alle comunità indigene, soprattutto da parte dei Goon, cioè bande armate formate in parte da nativi stessi, assoldati dal governo statunitense per reprimere le lotte di rivendicazione dell’Aim. Quel giorno, senza alcun preavviso, irruppe nella riserva un’auto priva di targa con due uomini a bordo che diedero inizio a un conflitto armato. In seguito si scoprirà che erano due agenti dell’Fbi. La sparatoria che ne seguì fu caotica, lasciando a terra i due agenti e un nativo. Sul nativo nessuno si prese la briga di indagare, come avveniva regolarmente anche per la gran quantità di indigeni uccisi in quegli anni, ma per gli agenti morti qualcuno doveva pagare. In quanto attivista dell’Aim, l’allora 31enne Peltier, divenne il capro espiatorio perfetto. Per comprendere il clima in cui si svolsero i fatti, in una precedente intervista Peltier aveva denunciato: “Sono stato minacciato con le pistole puntate in faccia quando ho cercato di filmare un blocco stradale di una squadra Goon; in un’altra occasione sono stato sbattuto contro un muro dai Goon, che tendevano a percepire l’intero corpo della stampa come simpatizzante dell’Aim. I freni della mia macchina furono tagliati e, in un’occasione, un fucile ad alta potenza fece un buco nell’automobile su cui stavo guidando. Ma le mie esperienze impallidiscono in confronto ai pestaggi, alle bombe incendiarie e alle sparatorie di quel periodo; almeno 28 omicidi di indiani rimangono ancora irrisolti e la tribù Oglala Sioux ha ripetutamente presentato petizioni al governo federale per riaprire questi casi”. L’arresto di Peltier avvenne in Canada, il 6 febbraio successivo agli scontri di Pine Ridge, ma l’estradizione fu ottenuta con prove così fasulle che, in seguito, il governo canadese protestò formalmente per il modo truffaldino in cui era stata formulata. Nel 1976 Peltier fu condannato a due ergastoli, dopo un processo segnato da discriminazione e pregiudizio, dove venne accusato dell’omicidio dei due agenti dell’Fbi, Ronald A. Williams e Jack R. Coler. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Lakota era già segnato. Il processo infatti fu una farsa che ricalcò un copione già scritto, con prove inesistenti o costruite e testimonianze ritrattate. La giuria che condannò Peltier era composta esclusivamente da gente bianca, ma la cosa paradossale fu che i due coimputati nativi, accusati assieme a lui, vennero giudicati non colpevoli per motivi di legittima difesa. Nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: “Gran parte del comportamento del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del signor Peltier, è da condannare. Il governo ha trattenuto prove. Ha intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili”. Alla notizia della commutazione della pena a Peltier, Nick Tilsen, direttore esecutivo di Ndn Collective, un’organizzazione non-profit guidata dagli indigeni, ha affermato: “La liberazione di Leonard Peltier è la nostra liberazione: lo onoreremo riportandolo nella sua terra natale per vivere il resto dei suoi giorni circondato dai suoi cari, guarendo e ricollegandosi alla sua terra e alla sua cultura”. Già in precedenza, altri due presidenti democratici come Clinton e Obama avrebbero potuto firmare il provvedimento, ma si sono rifiutati di farlo. Ora la detenzione domiciliare di Peltier somiglierà per molti versi alla condizione stessa dei popoli nativi nelle riserve. Fossero ancora vivi, chissà se John Trudell e Robbie Robertson avrebbero dedicato a questo evento una nuova poesia o un’altra canzone. Dopo quasi mezzo secolo, bentornato a casa, caro Leonard.