Un altro suicidio dietro le sbarre, non si ferma il dramma delle carceri di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2025 Quasi un suicidio ogni due giorni. L’emergenza nelle carceri non si ferma. L’ultimo caso a Uta, la Casa circondariale dell’area metropolitana di Cagliari dove un detenuto straniero si è ucciso impiccandosi. Subito è scattato l’allarme ma i soccorsi prestati dal personale della Polizia penitenziaria e dei sanitari sono serviti a poco. Per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Si tratta del secondo suicidio registrato nel carcere del capoluogo sardo. Non sono gli unici nel panorama nazionale. Complessivamente, infatti, in tutta Italia si contano 8 suicidi tra i detenuti. A questi bisogna aggiungere quello di un operatore in servizio alla Casa Circondariale di Paola, in Calabria. Situazione preoccupante - Una situazione definita “preoccupante” sia dai rappresentanti delle associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti, sia dalle organizzazioni sindacali. “Nove morti in soli 20 giorni sono una vera e propria carneficina - denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, in una nota -. Purtroppo, nelle prigioni la scia di morte prosegue senza soluzione di continuità, al ritmo di quasi un suicidio ogni due giorni in questo 2025 che è cominciato persino peggio di come si è concluso il tragico 2024”. Non è certo un caso che anche lo scorso mese le associazioni abbiano lanciato richieste di intervento per trovare soluzioni ai numerosi problemi che si registrano nell’universo delle carceri. Tra carenze e sovraffollamento - A rilanciare il problema, alla luce dell’ultimo dramma, è sempre il segretario della Uilpa Polizia penitenziaria che aggiunge: “16mila detenuti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, carenze nell’assistenza sanitaria, deficienze strutturali, insufficienze logistiche, penuria di equipaggiamenti e approssimazione organizzativa - ribadisce - richiederebbero interventi concreti e a impatto immediato che non si intravedono nell’azione di governo. La soluzione celere non può di certo essere il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria”. Gli appelli - Da qui la richiesta che suona come un appello per migliorare la situazione che, come ribadisce De Fazio, non può bastare la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. “Sono urgenti misure per ridurre la densità nelle carceri, potenziare gli organici del personale e garantire un’adeguata assistenza sanitaria. È necessaria una riforma complessiva del sistema penitenziario”. Posizione ribadita recentemente anche dai vertici di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti delle persone recluse. A denunciare problemi e difficoltà anche le altre organizzazioni sindacali. Come il caso del Si.N.A.P.Pe di Teramo (Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria), all’indomani dell’ennesimo episodio preoccupante nel carcere teramano di Castrogno. I giorni scorsi, inoltre c’era stata la denuncia del Garante piemontese dei detenuti Bruno Mellano e del garante nazionale Mario Serio che avevano sollevato il problema relativo al carcere minorile di Torino Ferrante Aporti e al Beccaria di Milano. Già nove suicidi in soli 20 giorni: è una carneficina di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2025 L’allarme lanciato da Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, dopo la morte del detenuto che si è impiccato nella sua cella a Cagliari-Uta. “È una carneficina! Servono subito misure deflattive!”. Questo grido d’allarme non arriva dalle associazioni per i diritti umani o dai movimenti politici come i Radicali, ma da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria, dopo l’ennesima tragedia consumatasi dietro le sbarre. Un detenuto di origine straniera si è tolto la vita impiccandosi nelle prime ore di ieri mattina nella sua cella della Casa Circondariale di Cagliari- Uta. Nonostante i tempestivi interventi della Polizia penitenziaria e dei sanitari, non è stato possibile salvarlo. Si tratta del secondo suicidio dall’inizio dell’anno nel carcere del capoluogo sardo, mentre il bilancio nazionale parla già di otto detenuti che si sono tolti la vita in meno di tre settimane, a cui si aggiunge il suicidio di un operatore penitenziario in servizio presso la Casa circondariale di Paola, in Calabria. Nove morti in venti giorni. Una cifra agghiacciante che il sindacalista non esita a definire “una vera e propria carneficina”. “La scia di morte nelle carceri prosegue senza soluzione di continuità, al ritmo di quasi un suicidio ogni due giorni in questo 2025 che è cominciato persino peggio di come si è concluso il tragico 2024”, denuncia De Fazio. “Le condizioni di sovraffollamento e la mancanza di risorse sono ormai insostenibili: 16mila detenuti oltre la capienza regolamentare, 18mila unità mancanti nella Polizia penitenziaria, assistenza sanitaria carente, strutture fatiscenti, insufficienze logistiche e organizzative. A fronte di una situazione tanto drammatica, servirebbero interventi immediati e concreti, ma l’azione del governo appare del tutto inadeguata. Di certo, la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria non è la risposta che serve”. Il Segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria torna quindi a chiedere con forza misure deflattive della popolazione carceraria, il potenziamento degli organici del personale (su Il Dubbio la scorsa settimana abbiamo parlato del documento di Nessuno Tocchi Caino in tal senso), il miglioramento dell’assistenza sanitaria e l’avvio di una riforma complessiva del sistema penitenziario. “Non possiamo permettere che il carcere si trasformi in una fabbrica di morte”, conclude. Quindi non ci siamo lasciati alle spalle l’emergenza suicidi, tanto che l’anno 2024 appena concluso sarà ricordato come quello che ha superato ogni record con 89 detenuti che sono tolti la vita. No. Secondo l’ultimo aggiornamento del Garante nazionale delle persone private della libertà, il numero di questo anno appena iniziata, si tratta di un dato elevato rispetto allo stesso periodo di gennaio 2024, 2023 e 2022 in cui si registrarono un numero inferiore di suicidi. La gravità della situazione è chiara. Ma, come riportato già da Il Dubbio, il governo ha espresso l’intenzione di non intervenire, se non puntare all’edilizia penitenziaria. Puntualmente fallimentare. Ci viene in aiuto il report di fine anno redatto dall’associazione Antigone. Sostanzialmente gli spazi detentivi ufficialmente disponibili sono sempre gli stessi: erano 50.228 della fine del 2016, sono 51.320 al 16 dicembre 2024. Circa 1.000 in più, ma intanto i detenuti sono circa 8.000 in più di allora. Da quando poi è entrato in carica questo governo, la capienza è ulteriormente diminuita. Non tanto quella ufficiale, che è rimasta sostanzialmente invariata, quanto quella effettiva, perché vanno sottratti i posti detentivi non disponibili. Questi a luglio del 2022 erano 3.665. Oggi sono, come detto sopra, 4.462. L’incuria, il sovraffollamento e gli incidenti che si registrano in continuazione rendono gli spazi sempre più invivibili, come abbiamo avuto modo di osservare anche durante molte delle nostre visite. Nelle 87 carceri visitate dall’Osservatorio di Antigone negli ultimi 12 mesi in 28 istituti, il 32%, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di Sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia. Sono stati 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022, 4.731 nel 2023. Ma se da una parte c’è il sovraffollamento che inevitabilmente incide negli eventi critici, osservando le vicende singole dei detenuti che si sono tolti la vita, molti sono coloro con disagio psichico e con passati di tossicodipendenza. Sono numeri che raccontano enorme sofferenza e marginalità. Antigone: “Aumentano i suicidi tra i 19 e 29 anni, serve una decarcerizzazione” di Enza Savarese lumsanews.it, 21 gennaio 2025 L’associazione Antigone, che si occupa dei diritti e delle garanzie delle persone detenute, ha pubblicato il suo rapporto annuale sulle condizioni delle carceri in Italia. Sofia Antonelli è ricercatrice e membro dell’osservatorio sugli istituti penitenziari del Lazio. Con Lumsa News parla dell’ultimo studio di Antigone, “Nodo alla gola”. Qual è il dato più preoccupante che è emerso dal vostro studio? “Ovviamente il numero dei suicidi totale nel corso del 2024. È un numero che parla già di per sé. Il 2022 era stato l’anno dei record, il 2023 allo stesso modo per i suoi numeri altissimi, per poi arrivare al triste primato del 2024. Purtroppo anche il 2025 è iniziato in maniera tragica. Siamo già a sette casi, con un suicidio anche da parte di un agente penitenziario nel carcere di Paola”. Che cosa c’è dietro? “Vite di persone, spesso con fragilità sociali, psicofisiche, con percorsi di tossicodipendenza, fragilità economiche. Ma anche molte persone senza fissa dimora e un numero preoccupante di ragazzi giovanissimi. Tra i giovani che purtroppo si sono tolti la vita almeno una ventina erano tra i 19 e 29 anni. A essere tragico non è però solo il dato dell’età. Molte persone si tolgono la vita all’inizio del loro periodo di detenzione, addirittura nei primi mesi, alcune volte anche nelle primissime settimane. Ne è un esempio il suicidio avvenuto poco tempo fa a Regina Coeli a Roma di un ragazzo romeno di 23 anni entrato in carcere a dicembre. Altri invece compiono gesti estremi quando stanno per lasciarlo. Ecco perché noi chiediamo particolare attenzione alla fase iniziale e finale dei percorsi di detenzione, particolarmente drammatiche per chi ha appena subito un arresto, per chi entra all’interno di un istituto e magari non c’è mai stato. O per chi ci entra per l’ennesima volta e non ha più speranza per il futuro”. C’è un rapporto di causa ed effetto tra sovraffollamento e suicidi in carcere? “Non possiamo parlare di cause dirette perché si rischierebbe di banalizzare e semplificare un fenomeno molto più complesso e delicato. Sicuramente un carcere pieno dove gli operatori devono seguire un numero crescente di persone spesso fragili e marginali è sicuramente un carcere che avrà più difficoltà a individuare e seguire i casi più delicati. Quindi sì, in quest’ottica il carcere sovraffollato è sicuramente una delle cause da inserire nel fenomeno dei suicidi”. Quali azioni dovrebbe intraprendere il governo per prevenire il fenomeno? “È necessario intervenire sulle condizioni detentive e ridurre i numeri, in quanto un miglioramento delle condizioni generali delle strutture porterebbe a un beneficio anche ai soggetti più a rischio. La maggioranza di suicidi avvenuti l’anno scorso si è verificata nelle sezioni chiuse, cioè le zone di isolamento o le sezioni cosiddette ex articolo 32, dove vengono detenute le persone considerate più difficili da gestire. Oppure nella sezione nuovi giunti, dove le persone passano il primo periodo di detenzione. Qui si dovrebbe essere seguiti in maniera più appropriata. Spesso invece sono le sezioni gestite peggio. A Regina Coeli, molti suicidi sono avvenuti in una di queste sezioni, la settima”. C’è poi il tema delle misure alternative... “Ci sono poi tante persone che sono in carcere per periodi molto brevi oppure per reati di scarsa pericolosità sociale. Quindi se per queste persone ci fosse una diversa possibilità di detenzione carceraria, i numeri potrebbero facilmente calare in maniera drastica. In generale servirebbero politiche di decarcerizzazione, ma in questi anni di governo stiamo vedendo il contrario. Assistiamo solo a nuovi reati, a più carceri, a pene più lunghe”. Sovraffollamento e suicidi. La denuncia di Ilaria Cucchi: “Il Governo non è interessato” di Enza Savarese lumsanews.it, 21 gennaio 2025 Fin dall’inizio del suo mandato la senatrice Ilaria Cucchi si batte per accendere un focus sulle condizioni delle carceri italiane, strutture dove dovrebbe vigere il principio di rieducazione. Tuttavia, come ha spiegato la senatrice, la realtà è totalmente diversa. Cosa è emerso dalle sue ultime visite nelle carceri italiane? “Il filo comune è la sofferenza della popolazione detenuta. Se la nostra Carta fondamentale, precisamente all’articolo 27, prevede che le pene non possano ‘consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’ e debbano ‘tendere alla rieducazione del condannato’, nelle carceri la realtà quotidiana parla un linguaggio totalmente differente. Non si tratta solo dei suicidi sempre più frequenti e del sovraffollamento che rasenta il 130%. A rendere le carceri (e i Cpr, non dimentichiamoli) luoghi di smarrimento e deprivazione ci sono sicuramente gli abusi di psicofarmaci, la mancanza di finanziamenti in ambito sanitario, educativo, associativo. Per non parlare degli interventi richiesti dall’altra parte delle sbarre, dalla polizia penitenziaria. Anche gli agenti, come voglio ricordare sempre nei miei interventi, partecipano a questa sofferenza e portano sulla loro pelle, così come nelle proprie vite, i segni di questa mancanza di cura e interesse da parte dello Stato che rappresentano”. Secondo lei c’è una relazione causale tra sovraffollamento e suicidi dietro le sbarre? “Qualche settimana fa (il 28 dicembre 2024, ndr) il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto a questa domanda sostenendo che non ci sono legami tra i due fenomeni, in quanto i suicidi sarebbero principalmente correlati “alla solitudine, al dolore, alla mancanza di prospettive”. Tuttavia, come suggerito anche da analisi recenti, i numeri inquietanti sui suicidi sono da leggere in relazione al sovraffollamento e a altri fattori. Non bisogna fermarsi alla punta dell’iceberg, ma comprendere il sistema carcere nella sua interezza e complessità. Sottolineare un semplice rapporto causa effetto sarebbe sbagliato, ma altrettanto sbagliato è escludere che vi sia un’incidenza del sovraffollamento e degli altri elementi sul verificarsi di gesti estremi. Solitudine, dolore e mancanza di prospettive sono questioni anche politiche, seppur non interamente”. È d’accordo con la proposta del governo di costruire nuove carceri? “Nel costruire nuovi luoghi detentivi, per non dire di confino, il governo ripropone una chiave di lettura della realtà che dal mio punto di vista è completamente sbagliata. Ormai sono più di due anni che la maggioranza insiste per dare una risposta alla questione della ‘sicurezza’, con l’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene, spostando tutta l’attenzione - le di conseguenza responsabilità nel dare una risposta politica - sul volto repressivo dello Stato. Si tratta di un fenomeno già ampiamente indagato in letteratura, il cosiddetto populismo penale: una tendenza a sostituire alle promesse universali di cura dello Stato sociale le promesse di protezione particolari - perché destinate solo a una parte della società - dello Stato penale. Questo significa che il potere pubblico evita, sempre di più, di offrire una vera risposta alle richieste e le rivendicazioni degli ultimi della società, che già oggi rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione detenuta, limitandosi ad aprire i cancelli delle carceri quando le loro difficoltà sfociano in comportamenti ritenuti devianti a norma di legge. In questo percorso, la costruzione di nuove carceri è rivelatrice: il governo non è interessato alla costruzione di una vera alternativa, per cui offre una soluzione che, rispetto alla questione della sicurezza, soluzione non è. Per nessuno”. Quali sono allora le azioni che il governo dovrebbe intraprendere per risolvere il fenomeno del sovraffollamento e dei suicidi in carcere? “La lista è lunghissima, ma senza dubbio per diminuire il sovraffollamento il primo passo sarebbe ragionare sui residui di pena che ancorano in cella la popolazione detenuta, a partire da chi ha commesso i cosiddetti reati minori. Le misure alternative alla detenzione esistono già, per cui individuare percorsi che, incontrando le esigenze di cura delle persone condannate, riescano ad agevolare il ritorno in società sarebbe tutt’altro che un’impresa impossibile. Per quanto riguarda le altre tematiche esposte in precedenza, compresa la questione dei suicidi, l’unica possibilità è quella di agire con una serie di interventi che vadano a modificare tutti i tasselli del sistema, dalla promozione del lavoro negli istituti di pena alla previsione di maggiori fondi per il supporto medico e psicologico a quello per gli educatori; senza dimenticare il grande e necessario supporto che può offrire lo Stato a tutte le realtà che portano in carcere ciò di cui le persone private della libertà hanno più bisogno: la capacità di immaginare un’altra vita. Oltretutto, è ormai patrimonio diffuso che le vie più semplici per abbattere la recidiva sono lavoro, cultura e istruzione. Le migliori alternative alle sofferenze, le migliori garanzie per la sicurezza di tutti”. Suicidi e carceri, zero tutele. L’allarme degli psicologi: “Manca l’organizzazione” di Enza Savarese lumsanews.it, 21 gennaio 2025 Vito Michele Cornacchia è uno psicoterapeuta, specializzato nel sostegno a soggetti tossicodipendenti e a rischio di suicidio o di autolesionismo. Ex psicologo del carcere San Giorgio di Lucca, parla delle carenze del sistema psichiatrico negli istituti detentivi in Italia. Quali sono le principali difficoltà che uno psicologo penitenziario deve affrontare in una struttura detentiva in Italia? “Fino a poco tempo fa gli psicologi non guadagnavano neanche 17 euro l’ora. Tuttavia la difficoltà non è solo dello psicologo, ma di un sistema che in Italia è disomogeneo. Se venisse applicata la norma, l’organizzazione in carcere sarebbe basata su uno staff settimanale o quindicinale composto da medico, funzionario pedagogico, psicologo e psichiatra. La squadra si occuperebbe dei nuovi giunti all’interno della struttura. Dopo aver incontrato la persona che è entrata nel carcere, lo staff ne valuterebbe il profilo. Se viene rilevato un rischio psicologico, il detenuto verrebbe seguito ogni giorno dall’équipe. Questo processo purtroppo non trova mai applicazione effettiva”. Perché non viene messo in pratica? “Perché il sistema non è organizzato. In un fenomeno tanto complesso come quello dei suicidi, la prevenzione e la conoscenza della storia individuale sono le armi più importanti. La prevenzione però è possibile solo attraverso una cura quotidiana che purtroppo nei penitenziari italiani non c’è. Uno dei motivi è sicuramente il sovraffollamento e la mancanza di personale. Se mancano gli operatori e gli spazi è evidente che i primi a risentirne saranno gli individui più fragili. Molto spesso si fanno discorsi politici sui problemi delle carceri, ma questo a volte sposta l’attenzione dalle persone di cui ci dovremmo occupare. I detenuti devono scontare la pena come persone, non come animali. A Prato ad esempio un ragazzo nonostante fosse segnalato a rischio suicidario è stato lasciato solo nella sua cella durante la giornata e si è tolto la vita. Questo avviene o perché la minaccia del suicidio non viene presa sul serio oppure perché il personale non riesce a gestire la quantità di detenuti”. Il governo nel 2024 ha stanziato cinque milioni di euro per prevenire il fenomeno dei suicidi. I fondi sono bastati? “Ogni regione ha un protocollo d’intesa per i rischi suicidari con i vari provveditorati e l’Asl locale. Il governo può stanziare i fondi che vuole, ma se manca l’organizzazione il problema non sarà mai risolto. Serve un servizio specialistico di qualità e affidabilità. Il problema vero è che tutti avanzano proposte su cui si può essere o meno d’accordo, ma nessuno parla di riorganizzare davvero il sistema carcerario”. Carceri, agenti penitenziari vittime del sovraffollamento: “Dal Governo il solito mantra” di Enza Savarese lumsanews.it, 21 gennaio 2025 Gennarino De Fazio è il segretario generale del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria. A Lumsa News dà la sua chiave di lettura sia sul fenomeno dei suicidi in carcere italiane sia sulla precarietà degli agenti penitenziari. Aumentare le strutture di detenzione come ha promesso di fare il governo Meloni è una soluzione funzionale? “Il governo Meloni ripete lo stesso mantra da almeno un anno, però i posti disponibili vanno via via diminuendo invece di aumentare. Se anche l’esecutivo riuscisse a creare i 7000 posti detentivi che ha promesso, comunque non basterebbero al fabbisogno. E non solo di quello attuale, ma anche di quello ulteriore che si verificherà nelle more della realizzazione di questi posti. Ciò di cui non si tiene conto sono gli organici degli operatori. Perché 7000 posti in più richiedono assunzioni straordinarie in più. La Polizia penitenziaria già oggi è mancante di 18mila unità. Francamente le promesse del governo sembrano una tattica per buttare un po’ la palla in tribuna”. Con le risorse disponibili allo stato attuale, in che misura si possono prevenire i suicidi in carcere? “Attualmente non è possibile prevenirli o quasi. Ciò è dimostrato dal fatto che nel 2024 si è superato ogni record con 89 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli operatori della Polizia Penitenziaria. Nei primi 11 giorni del 2025 sono stati 7 i suicidi per cui evidentemente non si riesce a scongiurare efficacemente questo fenomeno. È significativa la circostanza che l’ultimo suicidio avvenuto a Cagliari di un detenuto ha riguardato un soggetto classificato a rischio suicidario. Si sapeva che fosse un soggetto che aveva già manifestato la volontà di togliersi la vita. Per cercare di prevenire non si è potuto fare altro che allocarlo in una cella con altri detenuti. Siamo all’auto sorveglianza”. A suicidarsi però sono anche gli agenti della Polizia penitenziaria. Come mai secondo lei? “È un lavoro disumanizzante per una serie di ragioni. Intanto le turnazioni massacranti. Noi abbiamo 18mila unità mancanti per cui si effettuano sistematicamente turni di 12, 14, a volte anche 24 ore ininterrotte. Non si fruisce regolarmente dei riposi settimanali, neanche di quelle annuali e spesso ci si vede compressi una serie di altri diritti anche di rango costituzionale. A questo si aggiunge che il lavoro viene svilito da quello che succede nelle carceri, che sono episodi disfunzionali e che alimentano questa disumanizzazione e burn-out negli operatori. C’è un’insoddisfazione complessiva di una categoria che fa di tutto, tutto il giorno, sacrificando la famiglia, per raggiungere un obiettivo che sistematicamente non può raggiungere. Non perché non voglia, ma perché lo stesso stato che sta servendo non lo mette nelle condizioni di poterlo fare”. Il detenuto è laureando? Discuta la tesi, ma online di Ilaria Dioguardi vita.it, 21 gennaio 2025 Durante un question time, il senatore Pierantonio Zanettin ha chiesto spiegazioni sulla vicenda di un detenuto che si trova nel carcere di Vicenza. Prossimo alla laurea, non gli è stata concesso di discutere il lavoro finale alla Sapienza di Roma, con un dietrofront del magistrato. Il ministro alla Giustizia Nordio: “Per chi è in regime detentivo di alta sicurezza la norma consente i permessi in presenza di ragioni gravi o eccezionali, che siano riferibili alle relazioni familiari”. Il senatore Pierantonio Zanettin, in un’interrogazione parlamentare, ha portato la vicenda di un detenuto nel carcere di Vicenza che, “mentre era nel suo percorso di reclusione, è riuscito a completare i suoi studi e si accinge a ottenere il diploma di laurea. Dovrebbe comparire fra pochi giorni, proprio qui a Roma, all’università La Sapienza per la sua proclamazione. Ha presentato al magistrato di sorveglianza la richiesta di poter partecipare in presenza, che gli è stata però negata in quanto il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) non è stato in grado di assicurargli una scorta adeguata fino a Roma”. Non assicurato un idoneo servizio di vigilanza - Il ministro alla Giustizia Carlo Nordio ha risposto che “il detenuto Nicosia è ristretto presso la casa circondariale di Vicenza in regime di alta sicurezza”. Il 25 novembre scorso il magistrato di sorveglianza, sulla sua istanza, gli concesse un permesso ex articolo 30 per recarsi presso l’università Sapienza di Roma per sostenere l’esame di laurea. Il Guardasigilli, premettendo che “il detenuto aveva svolto il percorso universitario in modalità telematica e da remoto”, ha affermato che il Dap segnalava che “le modalità e il luogo di svolgimento dell’esame di laurea rischiavano di non assicurare un idoneo servizio di vigilanza […]. Pertanto, chiedeva al magistrato di sorveglianza di valutare l’opportunità di revocare il provvedimento emesso, disponendo l’esecuzione dell’esame di laurea in modalità telematica”. Alta sicurezza: permessi in presenza solo per ragioni familiari gravi o eccezionali - Per chi è in regime detentivo di alta sicurezza “la norma consente i permessi in presenza di ragioni gravi o eccezionali che siano comunque riferibili alle relazioni familiari”, ha continuato Nordio, “e non anche per ragioni magari pure apprezzabili, ma estranee alla famiglia”. Il ministro alla Giustizia ha concluso dicendo che “al detenuto è stato pienamente garantito il diritto allo studio, consentendogli di partecipare, il prossimo 25 gennaio, alla propria cerimonia di laurea con le modalità di sicurezza richieste dal suo regime detentivo di alta sicurezza”. Laurea online: “Una notizia positiva, ma si poteva sperare di meglio” - “Io speravo che il Governo desse una soddisfazione a questa persona, che l’umanizzazione della pena gli avrebbe consentito di laurearsi in presenza”, ha detto a Vita il senatore Pierantonio Zanettin. “Poteva essere un fiore all’occhiello che quest’uomo si laureasse in presenza. Il ministro ha garantito (e spero che questa garanzia venga mantenuta) che il detenuto lo farà in via telematica. Questa è una notizia comunque positiva rispetto a quella di cronaca che riportava un quotidiano, che diceva che non poteva proprio laurearsi. Il carcere di Vicenza è all’avanguardia, è uno tra i migliori istituti di pena italiani, si poteva sperare di meglio”, ha continuato il senatore. “Ci accontentiamo dell’assicurazione che il detenuto potrà diventare dottore in videoconferenza. Il fatto che avesse fatto tutti gli esami da remoto alla Sapienza non l’avevo capito, visto che non si tratta di un’università telematica ma dell’ateneo romano. Evidentemente”, ha concluso Zanettin, “ci sono dei protocolli, stipulati tra il carcere e l’università, che lo permettono”. Ddl Sicurezza. Un’occasione da non sciupare di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 gennaio 2025 Venerdì scorso, in molte piazze italiane l’oscurità è stata rischiarata da centomila fiaccole, accese per chiedere al governo e alla maggioranza di modificare un provvedimento, il cosiddetto “ddl Sicurezza”, licenziato dalla Camera in prima lettura e attualmente al vaglio del Senato. Una manifestazione indetta per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto negativo che il disegno di legge 1236 potrebbe avere sui diritti umani, se definitivamente approvato nella forma attuale. L’accorata e pacifica richiesta che sale da quelle piazze (e non solo) merita qualche considerazione. Attualmente, com’è noto, il ddl si trova all’esame delle commissioni di Palazzo Madama. In soli 38 articoli, introduce 20 fra nuove fattispecie di reato e aggravanti, su cui da mesi si appuntano, oltre alle critiche delle opposizioni, gli argomentati dubbi “trasversali” di costituzionalisti e magistrati di vaglia (espressi anche nelle audizioni parlamentari), nonché i timori di sindacati, enti e associazioni umanitarie come la Caritas e Antigone. In più, nei mesi scorsi, nell’ambito del dialogo fra istituzioni, sono pervenuti dal Quirinale cinque rilievi puntuali su altrettanti nodi, fra cui il divieto di vendita di sim card a stranieri privi del permesso di soggiorno, il reato di resistenza passiva in carcere e nei centri per migranti e la detenzione in carcere per le madri con figli piccoli. Rilievi ai quali, è appena il caso di ricordare, si sommano le preoccupazioni di organismi internazionali. A dicembre, il Consiglio d’Europa ha invitato per lettera i 200 senatori di Palazzo Madama ad “astenersi dall’adottare” il testo, “a meno che non venga modificato in modo sostanziale per garantire che sia conforme agli standard in materia di diritti umani”, menzionando come problematici “gli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27” ed evidenziando il rischio che le nuove norme finiscano per colpire il “legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica”. E sempre a dicembre, ma si è appreso da poco, sei Special Rapporteurs delle Nazioni Unite hanno scritto al governo, esprimendo forte preoccupazione e facendo presente che diverse disposizioni, se non modificate, potrebbero collidere con gli obblighi dell’Italia fissati nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, intaccando libertà fondamentali come quelle di movimento, di associazione e di espressione. Insomma, di materia per ingranare la retromarcia o quantomeno mettere in folle ce ne sarebbe. E dunque consola apprendere che in seno alla maggioranza si stia valutando se emendare nei prossimi giorni il testo in Senato, per limare quantomeno le asperità segnalate dal Quirinale. Ciò aprirebbe la via al ritorno del ddl alla Camera per una terza lettura, che - par di capire - a quel punto il governo (con la Lega in pressing sulle altre forze) vorrebbe di breve durata e forse “blindata” dall’apposizione della fiducia. Eppure, riteniamo, ogni giorno in più impiegato per ragionare su quei 38 articoli non sarebbe mal speso. Le politiche di sicurezza sono tema troppo complesso per affrontarle solo inforcando le lenti del panpenalismo (peraltro interpretato in modo ondivago: a volte per addizione, con pletore di nuovi reati; altre per sottrazione, come nel caso dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio). E il fermento nelle piazze e i problemi del Paese non si risolvono reprimendo il dissenso o ipotizzando scudi penali per gli agenti: “Se ai ragazzi dai un futuro e un lavoro, alle famiglie case decenti in quartieri civili e serviti, scuole e sanità che funzionano, la rabbia sociale si sgonfia”, ha dichiarato in questi giorni un esponente dell’associazione dei funzionari di Polizia, che varrebbe la pena di ascoltare. Insomma, se davvero si aprisse, la finestra di una terza lettura del testo offrirebbe il destro al governo per ascoltare e rivalutare le perplessità sopra accennate, formulate non da facinorosi e nemmeno solo dalle forze d’opposizione - i cui rilievi di merito, in una sana democrazia parlamentare, sarebbe comunque bene rispettare e tenere da conto - ma, come detto, dal Colle più alto delle istituzioni repubblicane, da organismi internazionali e non da ultimo da enti di volontariato che, prima di ogni ideologia e di ogni ragione di parte, hanno a cuore l’essere umano, i suoi diritti e le sue concrete necessità. “La buona occasione difficilmente si presenta e facilmente si perde”, ammoniva il drammaturgo latino Publilio Siro, apprezzato da Seneca. Ebbene, sul ddl sicurezza in questi giorni all’esecutivo guidato da Giorgia Meloni viene offerta un’occasione preziosa per porgere orecchio a quella congerie di dubbi, rilievi e timori motivati. Correggendo dunque il tiro, prima che gli articoli più controversi finiscano sul tavolo della Corte costituzionale (forse troppo spesso chiamata in questi anni, ahinoi, a porre rimedio alle indecisioni o alle imprecisioni della politica). Ci auguriamo sinceramente, anzi confidiamo, che non vada sciupata. Fallire la sfida dello sciopero: ecco la paura dell’Anm di Valentina Stella Il Dubbio, 21 gennaio 2025 Il parlamentino delle toghe ha indetto per il 27 febbraio l’astensione contro la riforma Nordio: già si teme il flop. 27 febbraio: è la data scelta dal “parlamentino” dell’Anm sabato scorso per scioperare contro il ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Adesso l’obiettivo è non ripetere il flop che ci fu con l’astensione indetta a maggio 2022 per dire no alla riforma Cartabia. Allora solo il 48% dei magistrati partecipò alla protesta. L’obiettivo è replicare i numeri precedenti a quelli di tre anni fa. Nel luglio 2010, quando le toghe scioperarono contro la Manovra, la percentuale si attestò tra l’80 e l’85%. Nel 2004, all’astensione proclamata contro la riforma Castelli, aderì il 90% delle toghe. La partecipazione allo sciopero del prossimo mese deve essere alta perché entra nel vivo la partita più importante: quella contro la riforma che per alcuni magistrati è questione addirittura di “vita o di morte”. Il governo e la maggioranza considerano la modifica costituzionale “la madre di tutte le riforme”, e il referendum che verrà un indice di gradimento sulla magistratura. Vietato dunque sbagliare per l’Anm nella prima vera iniziativa contro il ddl costituzionale appena approvato alla Camera e tra poco in discussione al Senato. “Se falliamo l’appuntamento del 27, potremmo veder seppellita la nostra campagna contro la riforma”, ci ha detto un magistrato al termine della riunione di sabato. La proclamazione dello sciopero è nata su input di un emendamento di Stefano Celli di Magistratura democratica al documento poi approvato sabato al termine del Comitato direttivo centrale, con solo 5 voti di astensione. Tuttavia, anche tra chi ha votato a favore non si nasconde appunto qualche perplessità: se c’era necessità di uscire uniti dalla riunione del parlamentino e rispettare il deliberato dell’assemblea straordinaria del 15 dicembre scorso, c’è comunque chi lontano dai microfoni sostiene che la mossa di convocare lo sciopero così presto sia una scelta azzardata, fatta anche in chiave elettorale in vista delle elezioni del 26, 27, 28 gennaio per il nuovo Comitato direttivo centrale dell’Anm. Per alcuni sarebbe stato meglio lasciare che a gestire la protesta avesse provveduto direttamente il nuovo direttivo, a urne scrutinate dunque. Ma una volta presentato l’emendamento da parte di “Md”, la corrente che si fosse opposta allo sciopero avrebbe certamente perso voti, e siccome i pronostici sulle elezioni sono incerti meglio non fare passi falsi. Il timore sulla riuscita è comunque legato a fattori temporali: lo sciopero è stato indetto dal “Cdc” uscente, a gestirlo dovrà essere quello nuovo che si riunirà per la prima volta l’8 febbraio. Se fino a qualche giorno fa si ipotizzava che per eleggere la nuova giunta e il nuovo presidente sarebbero stati necessari anche un paio di mesi, con la data fissata già del 27 febbraio le prospettive cambiano: occorre avere subito un nuovo vertice, anche solo per dare un volto alla campagna di comunicazione. L’alternativa potrebbe essere quella di avere l’eletto più anziano nel “Cdc” come presidente ad interim. Per alcuni magistrati sarebbe stato meglio utilizzare il 25 gennaio come test per poi vedere quando convocare l’astensione. Infatti, sempre sabato scorso, il direttivo dell’Anm ha deliberato di abbandonare, indossando toga e coccarda tricolore e con la Costituzione in mano, le aule in cui si terranno le inaugurazioni dell’Anno giudiziario nelle singole Corti d’appello: a Napoli, nel momento in cui prenderà la parola il Nordio, in tutte le altre sedi non appena interverrà il rappresentante dell’Esecutivo. Inoltre i magistrati, prima dell’inizio delle 26 cerimonie, si raccoglieranno all’esterno, mostrando cartelli sui quali saranno trascritte frasi tratte da un testo significativo sul valore della Costituzione. E qui sorge un’altra preoccupazione: pur avendo alcuni componenti di “Magistratura indipendente” votato il documento finale a favore delle manifestazioni del 25 gennaio, c’è la paura che un’altra ala della corrente moderata dell’Anm, su indicazione del segretario Claudio Galoppi, possa boicottare quanto deciso dal parlamentino. Un danno di immagine, di forza e compattezza che il “sindacato” delle toghe non può permettersi in questo momento. Comunque, anche per evitare imbarazzi con il Capo dello Stato, si è deciso di non mettere in atto azioni di dissenso durante l’inaugurazione nazionale dell’Anno giudiziario che si terrà in Cassazione venerdì 24. Santalucia, durante il “Cdc” di sabato, ha precisato, replicando sempre a Celli: “A scanso di equivoci non ci sono telefonate che mi fanno da freno: per me lo sciopero va bene. Mi preoccupava l’ipotesi di farlo l’11 febbraio”. Il riferimento era a eventuali interventi da parte degli Uffici del Quirinale che avessero rappresentato un invito a non prendere iniziative così forti di protesta. Al Colle sono perfettamente consapevoli di quanto sia già alta la tensione che c’è tra governo, maggioranza e Anm, ma è da escludere che la Presidenza della Repubblica si muova per formalizzare placet o scagliare anatemi rispetto allo sciopero. Ovviamente prosegue e si farà sempre più intenso lo scontro a distanza con l’Unione Camere penali, secondo la quale la protesta delle toghe “rischia non solo di alterare ancora una volta i necessari equilibri fra i poteri dello Stato ma di compromettere l’immagine stessa della magistratura”. Dai microfoni di SkyTg 24 ha replicato Santalucia: “Delegittima le toghe stare in silenzio di fronte a una riforma che peggiorerà il servizio giustizia e indebolisce il quadro delle garanzie”. L’altro scontro ha coinvolto il deputato di FI Enrico Costa, che ha detto: “Insieme alla separazione delle carriere occorre affrontare il tema dei magistrati fuori ruolo che lavorano nei ministri anziché nei Tribunali. L’Anm, per contrastare la riforma, paventa il rischio inesistente del pm sottoposto all’Esecutivo, l’alterazione dei poteri dello Stato, ma chissà perché resta in silenzio di fronte a questo plotone di toghe che rappresentano plasticamente il potere giudiziario nella pancia dell’Esecutivo”. Qui a controbattere è stato Salvatore Casciaro, che dell’Anm è il segretario: “L’onorevole Costa, da avvocato penalista, segue la scia delle Camere penali ed è ossessionato dal ‘plotone di toghe’ che stanno al ministero, ‘scrivono norme’ e ‘rispondono a interrogazioni’ ma non è in grado di allargare lo sguardo sugli avvocati, un vero e proprio reggimento, pari quasi al 20% delle due assemblee legislative, che siedono in Parlamento e propongono e approvano norme in materia di giustizia, restando simultaneamente impegnati nel quotidiano svolgimento dell’attività professionale nei Tribunali e nelle Corti”. L’anno e mezzo che ci attende da qui al referendum sarà estremamente frizzante. “Lo sciopero dei magistrati è un’entrata a gamba tesa nella politica” di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 gennaio 2025 Parla Esposito, ex pg della Cassazione. “Queste prese di posizione esulano dal compito istituzionale della magistratura”, dice l’ex procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito. “Lo sciopero dei magistrati rappresenta un intervento a gamba tesa delle toghe sul piano politico”. A dirlo, intervistato dal Foglio, è Vitaliano Esposito, ex magistrato con una carriera alle spalle lunga cinquant’anni (dal 1963 al 2012), conclusasi con l’incarico prestigioso di procuratore generale della Cassazione. “Non sono d’accordo con la protesta dei miei ex colleghi. Queste prese di posizione esulano dal compito istituzionale della magistratura”, aggiunge Esposito, commentando la decisione dell’Associazione nazionale magistrati di proclamare uno sciopero per il 27 febbraio contro la riforma costituzionale della magistratura, approvata in prima battuta alla Camera la scorsa settimana. Il provvedimento include la separazione delle carriere tra pm e giudici, che invece trova favorevole Esposito: “È necessaria alla luce della riforma del processo penale in senso accusatorio realizzata nel 1989”. Dopo il primo via libera della Camera, la reazione dell’Anm è stata molto dura. Non solo la decisione di scioperare il 27 febbraio. Il comitato direttivo dell’Anm ha invitato tutti i magistrati a partecipare alle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che si terranno questo fine settimana “indossando la toga e una coccarda tricolore” e ad abbandonare l’aula nel momento in cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio o un suo rappresentante prenderanno la parola, per poi mostrare cartelli “sui quali saranno trascritte frasi tratte da un testo significativo sul valore della Costituzione”. Scene che non si vedevano dai tempi di Berlusconi. “Non sono d’accordo con questa protesta”, dice Vitaliano Esposito, critico nei confronti dell’iniziativa dell’Anm sia per il metodo che per il contenuto. Non è vero, spiega Esposito, che la riforma “getta le basi per un possibile condizionamento del potere giudiziario” da parte dell’esecutivo, come ripetuto ieri dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. “Allo stato non vi è alcun elemento che induca a ritenere che questo rischio esista. Il legislatore è chiarissimo: la riforma stabilisce che il pubblico ministero fa parte dell’ordine giudiziario e, come i giudici, gode di autonomia e indipendenza. Più di questo non si poteva dire”. Insomma, quello dell’Anm sembra più un processo alle intenzioni (non è chiaro di chi). Eppure, prosegue Esposito, membro negli anni Ottanta della commissione Vassalli che portò alla riforma del codice di procedura penale, la separazione delle carriere è una “riforma necessaria sia sul piano ordinamentale che su quello processuale. In nessun paese al mondo in cui vige il sistema accusatorio il pubblico ministero fa parte della stessa categoria del giudice”. Anche Giovanni Falcone nel 1991, con parole polemiche, si schierò a favore della separazione delle carriere tra pm e giudici: “Chi, come me, richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”, disse il magistrato antimafia a Repubblica. Eppure, anche ieri Santalucia ha detto che Falcone in realtà non era favorevole alla separazione delle carriere: “Si limitava a dire un’altra cosa, ossia non indebolire l’ordine giudiziario ma esaltare le reciproche e diverse professionalità”. Una versione smentita da Esposito, che con Falcone collaborò per diverso tempo: “Il mio amico Falcone era assolutamente favorevole alla separazione. A volte, anche scherzando, si spingeva a dirmi: ‘Siamo gli unici due a sostenerla’”. Esposito, tuttavia, mostra perplessità sulla norma della riforma Nordio che prevede il sorteggio per l’elezione dei membri sia togati sia laici dei due futuri Csm: “Per i togati il sorteggio è necessario in una categoria caratterizzata da un’indomabile degenerazione correntizia. Non lo è per i laici. All’avvocatura e al mondo accademico dovrebbe spettare il compito di proporre i nomi sui quali poi, nel libero gioco democratico, dovrebbe svolgersi la scelta del Parlamento”. Si fidi, dottor Grasso: il giudice “separato” vigilerà meglio sul pm di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 21 gennaio 2025 Nel leggere l’intervento del dottor Pietro Grasso sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, sembra che i concetti di separazione delle funzioni e delle carriere, il concetto stesso di terzietà del giudice, stentino a farsi strada nella discussione senza subire l’oltraggio del travisamento. Si può infatti restare legittimamente fedeli alle proprie opinioni, ma è tuttavia necessario che tali opinioni muovano almeno da presupposti concettualmente esatti. Scrive il dottor Grasso che la riforma sarebbe “ipocrita” perché si vorrebbe impedire un passaggio da una funzione all’altra che nei fatti è già ridotta allo 0,2%, non comprendendo con ciò che la terzietà del giudice, così come è scritta nell’articolo 111 della Costituzione, non significa distinzione delle funzioni, effettivamente già in atto, ma separazione nell’esercizio di quei poteri (valutazione professionale, nomine e disciplina) che attualmente accomunano inammissibilmente i controllori (i giudici) e i controllati (i pubblici ministeri) all’interno di un’unica indistinta organizzazione. Ipocrita è l’attuale assetto processuale e ordinamentale, e miope la prospettiva di chi continua a confondere questi due piani senza invece dare risposta a quell’ineludibile quesito di come possa mai l’arbitro indossare la maglia e frequentare lo spogliatoio di una delle due squadre in campo. Inutile sperare di poter restituire legittimazione e credibilità alla giurisdizione se non si scioglie questa evidente anomalia. Occorre poi un sano irrealismo per affermare che la fantomatica “Repubblica dei pm” non potrebbe neppure esistere in quanto “nel sistema accusatorio il pm è sotto il pieno controllo del giudice”. Se è vero, infatti, che in un sistema accusatorio sequestri, intercettazioni e catture dovrebbero essere oggetto di severo controllo, di autorizzazione o di autonomi provvedimenti da parte del giudice, è anche vero che nei sistemi accusatori di tutto l’Occidente, giudici e pm hanno carriere separate. E sappiamo bene come, proprio nella fase delicatissima delle indagini preliminari, la conseguente carenza della “terzietà”, nella ultratrentennale esperienza giudiziaria del nostro Paese, si faccia sentire in tutta la sua drammatica estensione. È infatti proprio in quel fondamentale passaggio processuale, destinato a incidere nella carne viva dei diritti della persona, che la vicinanza ordinamentale del “controllato” e del “controllore” fa sentire i suoi effetti ai danni dei diritti e delle garanzie del cittadino, mandando in sofferenza gli interi equilibri processuali. Il problema è dunque proprio quello di rafforzare la figura del giudice, di renderlo effettivamente terzo, portatore di una nuova cultura del limite, scrutinatore attento e severo dell’azione del pubblico ministero e tutore delle garanzie dell’indagato. Se questo è vero non si comprende in che modo quello stesso pubblico ministero, controllato da un giudice terzo, dunque certamente più forte, più autonomo e più indipendente di quello attuale, dovrebbe mai vedere accresciuto, a codice invariato, il proprio potere all’interno del processo e della società. Come se oggi, proprio a causa dello squilibrio che la riforma intende correggere, il pubblico ministero non godesse già di una vasta egemonia e di una documentata visione agonistica del processo, che solo un riequilibrio ordinamentale, quale quello proposto dalla attuale riforma, potrà efficacemente contrastare. Resta da toccare un ultimo punto non del tutto marginale della requisitoria del dottor Grasso, quanto ai costi della riforma. Non so quali siano i criteri ed i parametri utilizzati dal senatore Gasso nelle sue valutazioni economiche, ma suggerirei di porli comunque a confronto con la somma di 27 milioni e 378 mila euro. Sono i soldi spesi dallo Stato solo nel 2022 per indennizzare le ingiuste detenzioni dei cittadini italiani privati immotivatamente della loro libertà personale. Forse il nuovo Csm dei pubblici ministeri costerà qualcosa in meno. *Presidente dell’Ucpi Parlamento lento: la Corte costituzionale non aspetta le camere e nomina il suo presidente di Giulia Merlo Il Domani, 21 gennaio 2025 Mancano ancora i quattro giudici nominati dal parlamento, ma il tempo “di cortesia” è finito e la Consulta ha scelto il nuovo presidente, che dovrebbe essere Giovanni Amoroso. L’attesa del parlamento è finita e la Corte costituzionale ha rotto gli indugi. Senza attendere ancora l’elezione dei quattro giudici di nomina parlamentare ancora bloccata dalle trattative politiche, oggi gli undici rimanenti eleggeranno il nuovo presidente al posto dell’uscente Augusto Barbera. Se verrà rispettata la consueta prassi di scegliere il più anziano di nomina, la carica spetterà a Giovanni Amoroso, che già la sta esercitando da facente funzioni ed è giudice di nomina della magistratura, indicato dalla Corte di Cassazione. Subito dopo l’elezione, il neo-presidente incontrerà i giornalisti e certamente darà conto anche della decisione sull’ammissibilità dei referendum. Seppur attesa, la scelta della Consulta è chiara: preso atto della perdurante impasse della politica, prosegue per la propria strada. Del resto negli ultimi mesi già erano state prese molte accortezze. In ossequio al principio di leale collaborazione e per consentire le nomine parlamentari, la Corte aveva rinviato di una settimana la camera di consiglio sui referendum che era stata inizialmente prevista per il 13 gennaio. Inoltre, per eleggere il nuovo presidente si è atteso il consueto mese di cortesia (Barbera ha concluso il mandato il 20 dicembre 2024) nel caso in cui l’uscente sia di nomina parlamentare, proprio per consentire alle camere di reintegrare il collegio. Nessuno strappo dunque, ma la presa d’atto che la Consulta ha gli strumenti per non attendere più davanti alla conclamata inerzia della politica. Eppure, il segnale rimane forte e dà la dimensione di come l’organo costituzionale si sia mosso con accortezza per non far sorgere dubbi di imparzialità ma con decisione ora proceda, anche a costo di sottolineare di riflesso l’incapacità del parlamento di adempiere alle sue funzioni. Del resto, è l’analisi pragmatica di fonti interne alla Corte, non c’è alcuna certezza che giovedì 23 gennaio - data della nuova seduta comune - i giudici vengano finalmente eletti. Il voto - Nonostante le rassicurazioni bipartisan, in effetti anche la quattordicesima votazione rischia di concludersi con una fumata nera. Le uniche certezze per ora sono i nomi di Francesco Saverio Marini indicato da Fratelli d’Italia e quello di Massimo Luciani, su cui hanno trovato l’accordo il Pd e le opposizioni. Il terzo profilo, che dipende da Forza Italia, è invece ancora nebuloso: in corsa rimangono il viceministro Francesco Paolo Sisto e il deputato Pierantonio Zanettin, ma la scelta spetta al vicepremier Antonio Tajani, stretto da veti incrociati nel suo partito e dalla contrarietà della premier a indicare un parlamentare come giudice. Eppure un altro pretendente ancora non è emerso con chiarezza. Il quarto nome, da considerare tecnico, sarebbe conteso tra l’avvocata dello stato Gabriella Palmieri Sandulli e la professoressa di diritto tributario Valeria Mastroiacovo. Eppure tutto rimane scritto sull’acqua e, fino a quando i nomi non finiranno nell’urna, i condizionali sono d’obbligo. Anche perché, come fa notare un esponente di maggioranza, “ora che la Corte ha deciso sul referendum dell’autonomia, la fretta non c’è più” e quindi, se servisse un “surplus di ragionamento”, una settimana in più non cambierebbe nulla. In realtà qualche rischio c’è. Sul fronte operativo, la Consulta ridotta a 11 giudici è a un passo dal blocco, perché il collegio non può operare in dieci e basta un malanno di stagione per uno dei componenti a fermare i lavori. Su quello politico, più i nomi dei papabili rimangono a bagnomaria sulle pagine dei giornali, più c’è il rischio che rimangano cardinali. Lazio. Carceri, suicidi, affollamento: l’anno più nero. “Bisogna ascoltare i detenuti” di Enza Savarese lumsanews.it, 21 gennaio 2025 Il 2024 è stato l’anno più nero per i suicidi in carcere, soprattutto nelle strutture del Lazio. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, illustra i numeri dell’emergenza: “Come ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di fine anno, l’alto numero di suicidi in carcere è indice di condizioni inammissibili. Ogni caso è un caso a sé, dietro cui c’è una storia di solitudine e di disperazione. Ma la sproporzione tra i suicidi che avvengono in carcere e quelli che avvengono fuori - dieci, venti volte di meno, in rapporto alla popolazione - ci fa pensare che il carcere raccoglie persone disperate o le induce alla disperazione. Questo non è accettabile in un ordinamento costituzionale che vuole pene lontane dal trattamento disumano e che punta al reinserimento del detenuto”. Quali sono le principali problematiche che affronta un detenuto in Italia? “Tutti i problemi della vita quotidiana che un individuo può incontrare sono ingigantiti in carcere. Nella condizione di privazione della libertà diventa complicato ottenere una carta d’identità o recarsi a una visita specialistica fuori dal carcere. In Italia, la situazione è ancora più difficile a causa del sovraffollamento, che rende insufficienti spazi, personale e attività trattamentali per il reinserimento dei condannati. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), i detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani alla fine dell’anno scorso erano 61.861, a fronte di 46.839 posti effettivamente disponibili”. Qual è la situazione nella Regione Lazio? “Peggiore rispetto al resto del Paese. Al 31 dicembre 2024, il tasso di affollamento in Italia è arrivato al 133%, mentre nel Lazio è al 146%. Per quanto riguarda i tassi di affollamento carcerario per singoli istituti, tre strutture del Lazio si collocano tra le prime venti in Italia: Regina Coeli con un tasso del 185,7%, Rieti con il 180,3%, e Civitavecchia con un tasso del 176,2%”. Come si può oggi prevenire il fenomeno dei suicidi in carcere? “Naturalmente la prevenzione assoluta non esiste, ma è possibile lavorare sull’individuazione dei segnali di disagio, oltre che migliorare il clima nelle carceri. La Regione Lazio ha da tempo sviluppato un piano per la salute mentale e tutti gli istituti hanno adottato piani locali di prevenzione del rischio suicidario, in ossequio all’accordo stipulato in Conferenza Stato-Regioni nel 2017. Recentemente, è stato istituito un tavolo interistituzionale per l’elaborazione di un Piano regionale per la prevenzione dei suicidi. Tra le azioni più innovative, già sperimentate in alcuni istituti, vi è la valorizzazione degli interventi dei cosiddetti Peer Supporter, detenuti appositamente formati per individuare segnali di autolesionismo o di intenti suicidi nei propri compagni.” Cagliari. Carcere di Uta: due detenuti suicidi in 20 giorni di Luigi Alfonso vita.it, 21 gennaio 2025 Questa mattina un giovane algerino si è tolto la vita. Salgono così a nove i decessi nelle carceri italiane in questo primo scorcio del 2025. Parlano la garante per i diritti dei detenuti, Irene Testa, e la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano. Un dramma annunciato, che ancora una volta scuoterà le coscienze di pochi. Il nuovo suicidio avvenuto oggi nella Casa circondariale di Uta (Cagliari) è il secondo caso nell’arco di appena venti giorni. Nello stesso carcere, nel 2024, erano state registrate altre tre morti. Con questo episodio, salgono a nove i decessi in Italia in questo primo scorcio del 2025. “Una vera e propria carneficina”, la definisce Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria. Testa, garante dei diritti: “Situazione insostenibile” - Un giovane di origine algerina stamane ha preferito togliersi la vita, piuttosto che misurarsi con la detenzione. “E i suicidi a Uta sarebbe stati tre se, pochi giorni fa, gli agenti della Polizia penitenziaria non fossero riusciti a intervenire in tempo per salvare un 21enne italiano”, commenta Irene Testa, garante dei diritti delle persone private della libertà personale per la Sardegna. Una bomba a orologeria. “I detenuti che hanno gravi disagi, non assumono i farmaci perché non sono seguiti come si dovrebbe”, conclude Testa. “Non sono capricci. Molte persone non dovrebbero stare dentro un carcere perché non sono in grado di superare le fasi più acute delle loro patologie. Le famiglie mi chiamano a tutte le ore, ma io non so più come fare per richiamare l’attenzione delle istituzioni. Non è un problema della sola Sardegna, bensì di tutto il Paese”. “L’ingresso in carcere è il momento peggiore, per un giovane detenuto”, sottolinea Maria Cristina Ornano, presidente del tribunale di sorveglianza di Cagliari. “Soprattutto per chi non c’è mai stato, è un fatto traumatico che può spingere a gesti estremi. Anche l’uscita dal penitenziario è molto difficile, perché molte persone si chiedono: e ora, che cosa faccio? La situazione a Uta è esplosiva, e purtroppo lo stesso clima si registra anche in altre carceri. La causa principale è una: il sovraffollamento”. La presidente del Tribunale di sorveglianza: “Non faccio che ricevere telefonate dalle madri dei detenuti” - “La situazione è ormai insostenibile, ma non da oggi: lo diciamo da tempo, senza che venga preso un provvedimento. Le sezioni sono invivibili, spesso piene di detenuti che hanno gravi problemi di salute mentale. I più fragili, che andrebbero seguiti con la massima attenzione, sono lasciati da soli. E spesso, approfittano dell’assenza temporanea dei compagni di cella per togliersi la vita. Il personale penitenziario è insufficiente e i detenuti sono diventati dei numeri, mera contabilità. Non faccio altro che ricevere telefonate delle mamme di giovani detenuti tra i 20 e i 23 anni, le quali temono che i figli commettano un gesto estremo da un momento all’altro, come spesso minacciano di fare. Da anni aspettiamo un provvedimento concreto, non solo del ministro competente ma anche del Parlamento. In Aula votano alla cieca ciò che i vertici dei partici dicono di votare. Tra il 2005 e il 2006, quando si susseguirono numerose manifestazioni sulla situazione penitenziaria, ebbi modo di vedere la partecipazione delle massime istituzioni, a cominciare dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Da sinistra a destra, tantissimi politici si interessavano della questione perché capivano ciò che chiedeva la nostra Costituzione. Nel 2006, non a caso, c’è stato l’ultimo indulto. Lo ha detto anche Papa Francesco, di recente, ma il suo messaggio è stato disatteso: occorreva un coro a più voci, e le poche che ci sono state non sono provenute dal Parlamento. Se la politica non vuole dare un segno di clemenza, deve indicare, spiegare e soprattutto attuare soluzione alternative. Di recente, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto che una soluzione passa per le comunità terapeutiche, ma il numero è assolutamente insufficiente, soprattutto quelle per le doppie diagnosi: non ci sono le risorse finanziarie”. I dati ufficiali del ministero di Giustizia parlano da soli. In Italia, al 31 dicembre 2024, si contavano 61.861 detenuti (il dato, in tre settimane, è ulteriormente lievitato) a fronte di una capienza di 51.312 unità. Quest’ultimo dato, tuttavia, è fuorviante: secondo l’indagine indipendente svolta nei mesi scorsi dal Garante nazionale, si contano soltanto 46mila posti disponibili. Cioè, cinquemila unità di differenza. Gli stranieri rappresentano un terzo circa della popolazione penitenziaria complessiva: 19.694 al 31 dicembre scorso. Per restare alla Casa circondariale di Uta, al 31 ottobre 2024, c’erano 749 detenuti ma la capienza autorizzata è di 561 posti regolamentari. Nel frattempo, anche qui, i numeri sono aumentati. Stranieri più fragili - “Gli stranieri sono i più fragili tra i fragili”, precisa Ornano. “Dal 2021 a oggi, il tasso di sovraffollamento risulta in costante crescita e ha assunto carattere strutturale e non episodico: al 31 dicembre 2021 i detenuti in Italia erano 54.134, l’anno successivo 56.196, nel 2023 erano diventati 60.166. Insomma, nell’arco di tre anni sono cresciuti di 7.727 unità. Continuando di questo passo, non servirà neppure costruire nuove carceri perché non riusciranno ad assorbire i nuovi ingressi. I provvedimenti presentati di recente dal governo non hanno prodotto alcun effetto”. La destra, e non da oggi, sostiene che molti extracomunitari in Italia vivono di espedienti e finiscono col delinquere. “Solitamente delinquono perché sono in condizioni di assoluta marginalità”, commenta la presidente Ornano. “Il sistema, respingendoli, li spinge verso l’illegalità. Quando si vive in condizioni di deprivazione, si finisce col vivere nell’illegalità. In Sardegna è un fenomeno limitato perché gli extracomunitari sono pochi, ma nelle grandi città il dato è consolidato. E comunque le migrazioni non possono essere arrestate: per dieci che ne porti in Albania, mille entrano in Italia con navi e barconi. Se non li accogliamo e li integriamo in maniera efficace, finiscono nelle mani della criminalità organizzata. Detto ciò, in buona parte dei penitenziari abbiamo una situazione di enorme sofferenza dovuta al sovraffollamento carcerario, che riduce gli spazi e le opportunità trattamentali e di lavoro. Certe scelte estreme, tuttavia, sono dovute a una molteplicità di fattori. Di sicuro, bisognerebbe accompagnare queste persone con progetti individualizzati e di supporto socioassistenziale”. La vita in carcere non deve essere tempo sprecato - È un fiume in piena Maria Cristina Ornano: “Il tribunale di sorveglianza che presiedo sta cercando di dialogare con tutte le istituzioni territoriali e le realtà del Terzo settore più strutturate, favorendo interventi di cura e supporto, ma anche progetti che offrano prospettive occupazionali una volta terminata la detenzione. La vita in carcere non dev’essere un tempo sprecato, piuttosto un periodo utile nel quale riprogrammare la propria vita. Dobbiamo fare di tutto per evitare i casi di recidiva. Gli uffici giudiziari stanno facendo uno sforzo enorme per dare una risposta adeguata. Ma la politica, in Italia, in questi mesi è più impegnata a ragionare della separazione delle carriere dei magistrati. Tra l’altro, continuando di questo passo, temo che a breve il nostro Paese verrà sanzionato nuovamente dall’Unione europea per trattamento inumano e degradante dei nostri detenuti, proprio a causa del sovraffollamento. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani, condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Se non ci sarà un intervento urgente ed efficace, il sovraffollamento crescerà ancora. Anche il Papa ha fatto riferimento a misure come l’amnistia e l’indulto. In passato è stato fatto, senza che si gridasse allo scandalo, non vedo perché non si possa fare anche oggi”. Modena. Suicidio di Paltrinieri, il Garante: “Tutele insufficienti a causa del sovraffollamento” di Valentina Reggiani I Resto del Carlino, 21 gennaio 2025 L’ingegnere 50enne, reo confesso del delitto dell’ex moglie, era stato picchiato da altri detenuti. Cavalieri: “Al di là della collocazione, non ci sono abbastanza agenti per assicurare determinate attenzioni”. Si è svolta ieri l’autopsia sul corpo di Andrea Paltrinieri, l’ingegnere modenese 50enne finito in carcere un anno fa per il brutale omicidio della moglie 40enne Anna Sviridenko e morto suicida in carcere. Infatti la procura ha aperto un fascicolo - per ora contro ignoti - per la morte di Paltrinieri ipotizzando l’istigazione al suicidio e ieri mattina ha nominato i periti. Per la famiglia di Anna Sviridenko, i legali hanno dato incarico alla dottoressa Silvestri. Come noto Paltrinieri uccise la moglie, specializzanda modello di radiologia al Policlinico e medico nucleare all’ospedale di Innsbruck soffocandola; dopo di che - lo scorso giugno - caricò il cadavere della giovane mamma in un furgone e si consegnò ai carabinieri. Lo scorso 7 gennaio, però, l’uomo si è tolto la vita in carcere inalando gas dal fornellino elettrico utilizzato dai detenuti per scaldare gli alimenti. La procura ha sottoposto a sequestro anche gli scritti lasciati dal 50enne, alcuni dei quali indirizzati ai familiari e il cui contenuto è al momento riservato. Come noto nel giro di venti giorni e con le stesse modalità - inalazione di gas - sono morti al Sant’Anna ben tre detenuti. La ‘storia’ di Paltrinieri, però, ha portato la procura a decidere di indagare a fondo sul contesto che ha avuto come epilogo il tragico gesto. Infatti nei mesi estivi il 50enne era stato selvaggiamente pestato da altri detenuti ma pare che l’ingegnere fosse stato anche di recente oggetto di critiche e insulti da parte degli altri detenuti proprio in conseguenza al terribile gesto commesso ai danni della moglie, mamma di due bambini piccoli ora affidati ai nonni materni. Ieri si è svolta dunque l’autopsia che potrà fornire i primi elementi utili alle indagini. Nonostante la ‘delicatezza’ del caso, però, Paltrinieri non era più nella sezione ‘protetti’. “Paltrinieri non era nei ‘protetti’ per una questione di sovraffollamento - conferma Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti -. C’erano stati episodi in cui aveva avuto problemi sul piano dei ‘rapporti’ con i detenuti, che lo avevano giudicato per il gesto commesso. Questo era accaduto sia nella sezione ‘protetti’ che in quelle successive. Il detenuto era stato spostato quindi in una situazione più favorevole a lui, nell’ottava sezione a ‘trattamento intensificato’; da un certo punto di vista anche meglio della sezione ‘protetti’ - afferma Cavalieri. Il problema di fondo è che più di dov’era collocato, è che era incensurato e causa sovraffollamento questi soggetti più fragili sono maggiormente esposti a questi pericoli. Il punto è che manca il personale per garantire determinate attenzioni e controlli. Insieme alla Garante De Fazio - prosegue - abbiamo fatto venerdì scorso un incontro anche alla presenza dell’Ausl, discutendo su alcuni punti che dobbiamo ancora formalizzare. Abbiamo fatto osservazioni per migliorare la gestione dei detenuti, puntualizzando alcune questioni dove abbiamo chiesto alla dirigenza e all’Ausl di aumentare il tenore del servizio erogato”. Torino. Nel carcere minorile c’è chi dorme per terra: il grido di dignità dalle carceri di Francesco Rosati Il Riformista, 21 gennaio 2025 Una brandina da spiaggia e materassi buttati sul pavimento: questa è la condizione inumana e degradante in cui vivono sei detenuti del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Storie di un’orribile quotidianità, diventata ormai drammaticamente ordinaria. Storie di giorni a cui viene sottratta la dignità. Quello appena trascorso è stato un anno terribile per le carceri italiane: 88 suicidi, il dato più alto mai registrato da quando si raccoglie questo macabro censimento di vite perdute. Erano 84 nel 2022, 69 nel 2021, meno della metà dieci anni fa. L’endemica carenza di psicologi, psichiatri, educatori, mediatori culturali e agenti rende i nostri istituti penitenziari indecorosi per un Paese civile, una condizione definita dal Presidente Mattarella “angosciosa agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”. Nel minorile di Torino i ragazzi sono 54, a fronte di 46 posti disponibili. Ragazzi che, come afferma il Garante dei detenuti Mario Serio in un’intervista a La Stampa, sono “spogliati completamente della loro dignità”. La denuncia, continua il Garante, sulle condizioni del Ferrante Aporti è arrivata anche da un sindacato che rappresenta la polizia penitenziaria, il che implica che a soffrire delle carenze carcerarie siano non solo i detenuti, ma anche gli agenti, costretti ad agire in circostanze estreme, che possono mettere a repentaglio la loro stessa incolumità. “È fondamentale ascoltare anche la loro voce - conclude Serio - perché è nell’interesse dello Stato non tollerare la situazione di cui stiamo parlando. Ma, al momento, non percepiamo nessun segnale che lasci intendere un cambiamento”. Dalle 87 carceri visitate dall’associazione Antigone nel 2024 emergono dati preoccupanti: il 35,6% delle strutture è stato costruito prima del 1950, di cui il 23% addirittura prima del 1900. Nel 10,3% degli istituti non tutte le celle sono riscaldate. Nel 48,3% mancano celle con acqua calda garantita in ogni periodo dell’anno. Nel 55,2% ci sono celle senza doccia, e nel 25,3% non esistono spazi per attività lavorative. Nonostante un sovraffollamento medio del 132,6% (con punte del 225%), il Governo ritiene che amnistia e indulto non siano soluzioni serie per affrontare il problema. Si ripone invece fiducia in un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, incaricato di creare 7.000 nuovi posti in tre anni a partire dal 2025. Tuttavia, secondo Patrizia Gonnella, Presidente di Antigone, questi interventi sono insufficienti: “Anche se il Governo riuscisse a realizzare questi nuovi posti, rimarrebbero comunque almeno 8.000 persone senza un posto regolamentare. Inoltre, il numero dei detenuti è cresciuto di oltre 2.000 unità nell’ultimo anno e di oltre 5.000 dal 2022. Se il tasso di crescita continuasse con questo ritmo, i nuovi posti andranno a coprire solo i nuovi ingressi, lasciando il sistema penitenziario in una condizione di sovraffollamento cronico e drammatico”. Tra vite sospese e dignità calpestate, quella delle carceri è una realtà che non può più essere ignorata. Reggio Emilia. Sotto processo dieci agenti penitenziari: “Macché tortura, fu autodifesa” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 21 gennaio 2025 Si sono concluse le arringhe delle difese nell’udienza preliminare che vede dieci agenti imputati con rito abbreviato a vario titolo per tortura e lesioni verso un detenuto tunisino 44enne, oltre a falso nelle relazioni stilate sull’episodio datato 3 aprile 2023 e avvenuto nel carcere della Pulce. Il 17 febbraio sono previste le repliche e la sentenza. Davanti al Gup Silvia Guareschi, ieri ha preso la parola l’avvocato Federico De Belvis, che assiste tre persone: un 46enne viceispettore che deve rispondere dei tre reati e per il quale il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha chiesto la pena più alta tra tutti (5 anni e 8 mesi), oltre a un 51enne e un 30enne. Secondo la ricostruzione investigativa, basata sulle telecamere interne, il detenuto, ora costituito parte civile attraverso l’avvocato Luca Sebastiani, fu incappucciato, fatto cadere a terra, preso a calci e pugni, denudato e portato in cella di isolamento dopo essere stato sanzionato per violazioni del regolamento carcerario. Per le difese, si trattava però di un uomo che si sarebbe dimostrato aggressivo e a cui sarebbero state trovate lamette. Ieri l’avvocato De Belvis ha chiesto l’assoluzione dalla tortura “perché il fatto non costituisce reato”, sostenendo che non vi sia prova della volontà degli agenti di sottoporre il detenuto a sofferenze fisiche per degradarlo e disumanizzarlo. Si è inoltre soffermato sul fatto svelato nell’aprile 2024 dal Carlino, cioè un caso-gemello avvenuto nel 2021 e che riguarda un altro detenuto tunisino che sarebbe stato incappucciato a Reggio e poi trasferito a Piacenza, fatto su cui il pm Pantani ha depositato documentazione. L’uomo fu accolto a Piacenza dagli agenti penitenziari che fecero foto alle sue ferite e lo mandarono all’ospedale. Dal carcere partì una denuncia a cui si aggiunse quella del detenuto per lesioni. Fu aperto un fascicolo d’indagine rimasto al momento contro ignoti perché, a differenza del caso reggiano, non vi erano filmati disponibili e lui non era riuscito a identificare gli agenti. Ma dalla lettura dei documenti emerge che almeno uno degli imputati della vicenda alla Pulce datata 2023 sarebbe stato coinvolto anche nel caso piacentino, tra cui il viceispettore 46enne (a oggi mai raggiunto da informazione di garanzia). Per De Belvis, dai documenti si evince che il detenuto al centro dell’episodio di Piacenza subito dopo l’incappucciamento estrasse dalla bocca una lametta e ne consegnò un’altra alla penitenziaria. “Ciò significa - ha argomentato l’avvocato De Belvis - che l’uso del cappuccio non voleva comportare un’afflizione fisica per umiliarlo, ma rappresentava invece il ricorso a un oggetto non convenzionale per impedirgli di usare le lamette”. In quest’ottica, per la difesa anche il denudamento avvenuto a Reggio “era solo funzionale alla perquisizione, dato che non si può condurre in isolamento un detenuto armato”. Napoli. I detenuti ricamano le toghe della speranza di Laura Aldorisio Corriere del Mezzogiorno, 21 gennaio 2025 Dietro le sbarre di Secondigliano ora si lavora anche per il Vaticano “Aprire una finestra sull’orizzonte”. È il lavoro di Giulia Russo, direttrice del Centro Penitenziario “Pasquale Mandato”, per tutti il carcere di Secondigliano. Una sfida per uno spazio invalicabile che occupa 4o ettari e ospita 1480 detenuti in 12 reparti. Dallo scorso maggio, poi, tra le stesse mura ci sono anche le detenute del carcere di Pozzuoli, evacuato per questioni di sicurezza. Imprevisti, problemi e responsabilità a non finire, ma la direttrice sa quale ritmo vuole dare al tempo del carcere, il battito di “occasioni perdute”. Da quando sette anni fa ha assunto la direzione, ha inaugurato quattro lavorazioni penitenziarie: falegnameria, meccatronica, digitalizzazione e sartoria. “Quest’ultima è una continua scommessa”. Tutto nasce da due bisogni effettivi: confezionare lenzuola e federe per i letti dei detenuti e smaltire le divise degli agenti, mai utilizzate o dalle taglie sbagliate, che occupavano un intero magazzino. Ripulite di bottoni, stemmi e simili, ai dodici uomini, scelti e formati con un corso specializzato in sartoria, venivano consegnate solo le stoffe. E loro sono riusciti a realizzare degli zaini: “Abbiamo visto che chi lavora, cambia. Lo sguardo accigliato diventa limpido”. Sono impiegati per circa sei ore al giorno e vengono retribuiti secondo il contratto collettivo nazionale. E creatività chiama creatività. Con il cappellano del carcere di Secondigliano, don Giovanni Russo, tre anni fa nasce un’idea: lavorare le casule per i sacerdoti e i paramenti sacri. “Abbiamo coinvolto una sarta - prosegue Russo - che ci ha insegnato non solo come realizzarli, ma anche il loro significato, i diversi colori delle casule, ad esempio, e così ha preso il via un nuovo filone sartoriale”. Decine di parrocchie si rivolgono al carcere e in questi mesi ha fatto capolino un committente inaspettato, il Vaticano, con centinaia di lavorazioni per il Giubileo. Lo stemma viene ricamato sulla stoffa e una sua prima prova è stata consegnata nelle mani di papa Francesco qualche mese fa. Ma le dita dei detenuti scorrono da poco tempo su tessuti differenti, destinati a diventare le toghe che vestiranno magistrati, avvocati e professori universitari. “Nei tre progetti c’è una simbologia: l’importanza dei valori, come la legge, la sacralità e la legalità. Il carcere non solo rieduca, è riduttivo, ma può aiutare in una nuova autocoscienza. Questo significa aprire una finestra sull’orizzonte: considerare che la persona non è il suo errore e offrire strumenti per far entrare una novità”. Catanzaro. “Le sbarre non vi rinchiudono, c’è una vita nuova che potete costruire” di Francesco Savino* Avvenire, 21 gennaio 2025 La lettera del vescovo di Cassano Jonio ai giovani del carcere minorile. Carissimi ragazzi, varcare la soglia di questo luogo mi riempie il cuore di emozioni contrastanti. Da una parte, sento il peso delle vostre storie, spesso intrecciate con il dolore, la solitudine, e talvolta la disperazione. A questo si aggiunge, troppo spesso, il peso dello stigma: un giudizio ingiusto che ferisce e separa, ma che non ha il potere di definire chi siete veramente. Dall’altra, intravedo in ciascuno di voi una luce, anche se talvolta nascosta o offuscata dalle ombre del passato. Parla di forza interiore, di un desiderio ardente di riscatto e di rinascita. Non siete soli. La vostra presenza qui è accompagnata da mani pronte ad aiutare, da sguardi attenti e pieni di empatia, anche se talvolta il linguaggio della cura può sembrarvi lontano. Mi riferisco al personale che, nelle sue diverse e variegate articolazioni, ogni giorno, si impegna con dedizione per offrirvi non solo regole e confini, ma anche opportunità di crescita, percorsi educativi, e soprattutto una speranza. A loro va il mio ringraziamento più sincero: il loro compito è arduo, spesso ingrato, ma è indispensabile per coltivare nuove prospettive e restituire dignità dove sembra non essercene affatto. Non lasciate che il passato oscuri la luce del vostro futuro. Ogni uomo è più grande delle sue cadute, voi non siete i vostri errori, i vostri reati, e Dio vi guarda con l’amore di un padre che vede sempre in voi un figlio amato. Questo è il momento di ricostruire, un passo alla volta, una vita nuova. Dentro di voi c’è una forza che forse non conoscete ancora, capace di guidarvi oltre ogni ostacolo. Avete mai pensato a quale segno volete lasciare nel mondo? Qual è il sogno che non avete ancora avuto il coraggio di inseguire? Permettetemi di dirvi che, anche se sentite il peso dell’assenza o della distanza, qui non siete soli. Questo luogo può diventare una famiglia diversa, dove trovare nuovi punti di riferimento e sguardi che vi incoraggiano a credere in voi stessi e nel futuro. E nella fede, se lo desiderate, troverete un Padre che non abbandona mai, che cammina accanto a voi anche nelle notti più buie. È Colui che accende stelle nel cielo delle vostre inquietudini e che, con mani amorevoli, trasforma il vostro dolore in forza e i vostri timori in nuove possibilità. La Sua luce vi guida, come un faro che illumina il cammino anche nei momenti più incerti. La vostra presenza qui è una parentesi, non un punto finale. Ogni giorno è una nuova pagina da scrivere, un capitolo che potete riempire con scelte di speranza e cambiamento. Il passato, per quanto difficile o ingiusto, non ha il potere di definire per sempre chi siete o chi potrete diventare. Ciò che conta è come decidete di affrontare il presente e costruire il futuro. La vostra vita ha un senso profondo, un potenziale che aspetta solo di emergere. È come un campo in attesa di essere coltivato: con impegno e coraggio, potete trasformare ogni sfida quotidiana in un passo verso una meta nuova e luminosa. E a voi, uomini e donne delle Istituzioni, rivolgo un appello accorato: investite con coraggio e lungimiranza nelle persone, rafforzando le risorse umane e migliorando le infrastrutture carcerarie. Promuovete politiche che vadano oltre la gestione dell’emergenza, attivando percorsi di de-sovraffollamento e garantendo che le persone più fragili trovino risposte adeguate alle loro necessità. Tossicodipendenti, malati psichiatrici e affetti da Aids meritano progetti di recupero in comunità terapeutiche e strutture specializzate, dove possano essere sostenuti con dignità e cura. Allo stesso modo, non dimenticate di investire nella formazione e nella riabilitazione, strumenti essenziali per restituire speranza e opportunità a chi ha vissuto l’ombra dell’esclusione sociale. Solo così potremo costruire un sistema che non si limiti a punire, ma che sappia anche rieducare, includere e far rinascere. Concludo questo mio breve messaggio invitandovi a superare il momento presente con uno sguardo al futuro. Siate costruttori di orizzonti: insieme possiamo abbattere i muri della diffidenza, del pregiudizio e del dolore. Ricordate che ogni alba porta una nuova opportunità, come il sole che illumina anche il giorno più buio. Abbracciate il domani con coraggio, perché ogni passo in avanti è una vittoria contro il passato. Dio cammina accanto a voi come un padre premuroso che non abbandona mai i suoi figli. *Vescovo di Cassano Ionio e vicepresidente Cei Roma. Costruire il futuro dopo il carcere di Giulia Rocchi romasette.it, 21 gennaio 2025 Dalla pastorale carceraria diocesana il progetto di ristrutturazione di un immobile destinato all’accoglienza. Le altre iniziative in programma: incontri e percorsi di formazione. “Ho voluto che la seconda Porta Santa fosse qui in un carcere. Ho voluto che ognuno di noi tutti che siamo qui, dentro e fuori, avessimo la possibilità anche di spalancare le porte del cuore e capire che la speranza non delude”. Le parole di Papa Francesco dello scorso 26 dicembre a Rebibbia sono il filo conduttore delle attività portate avanti in questo anno giubilare dal Servizio diocesano per la pastorale carceraria. Incontri, percorsi di formazione e l’inaugurazione di una nuova struttura per l’accoglienza delle detenute, segni di quanto la diocesi sia attenta alla realtà del carcere. Il primo appuntamento è per mercoledì 22 dicembre: alle 16 nella Sala degli Imperatori si terrà un incontro con le rappresentanze istituzionali del mondo del carcere, alla presenza del cardinale vicario Baldo Reina e del provveditore della Regione Lazio Giacinto Siciliano sul tema “Il volontariato nella giustizia penale”. Oltre ai dirigenti dei sei istituti di pena della città, parteciperanno dei membri di alcune delle associazioni di volontariato impegnate con i detenuti, come Vic, Comunità di Sant’Egidio, Voreco, Volontari Casal del Marmo, Fondazione Severino, ma anche diaconi, cappellani e una rappresentanza delle consacrate attive in questo servizio. “L’incontro nasce su richiesta delle direzioni dei singoli istituti, che hanno desiderio di incontrarci e di incontrarsi tra loro”, spiega il vescovo Benoni Ambarus, delegato diocesano per l’ambito della Diaconia della carità. “I volontari sono tutte persone degne di fiducia, motivate, che desiderano affiancare la popolazione carceraria - sottolinea - e questo incontro servirà a rafforzare la disponibilità di tutti alla collaborazione”. Per chi opera nella pastorale carceraria sono stati pensati anche alcuni percorsi di formazione. Lunedì 27, alle 18, al Seminario Maggiore, è in programma il secondo incontro dal titolo “Giustizia riparativa ed esecuzione della pena secondo la riforma Cartabia” (il primo si tenne a novembre), con Maria Pia Giuffrida, mediatore penale esperto e formatore, e Pasquale Bronzo, professore associato di diritto processuale penale. “La giustizia riparativa non va confusa con sconti di pena o misure alternative al carcere - spiega il vescovo -; si tratta di un tentativo di riparazione del male e di assunzione di responsabilità, dove entra in gioco il rapporto tra danneggiante e danneggiato”. Nell’ambito della formazione, inizia anche il “Percorso in-formativo per la pastorale carceraria”, promosso nel territorio della XXX prefettura; gli incontri, al via dal primo febbraio, si terranno dalle 10 alle 12 nella parrocchia della Trasfigurazione. A pochi passi dall’edificio parrocchiale, inoltre, sorge una struttura dell’Opera Ronconi - Pennesi, un’associazione nata negli anni Sessanta per l’assistenza post-carceraria delle detenute, ispirata al pensiero di Guglielmina Ronconi, insegnante e pedagogista, e della sua discepola Lina Pennesi. “Nel corso degli anni, la struttura ha poi accolto anche donne rifugiate e in difficoltà - racconta Ambarus - e al momento la stiamo ristrutturando. In primavera il cantiere sarà completato e ne verranno fuori 6 appartamenti, 5 dei quali verranno utilizzati per la popolazione carceraria femminile”. Intanto, oggi, 20 gennaio, alle 19, nella parrocchia di Nostra Signore de La Salette, a Monteverde, in un incontro dedicato alla realtà del carcere, verrà presentato il progetto di ristrutturazione di questo immobile destinato all’accoglienza, segno concreto di speranza che verrà realizzato dal Servizio di pastorale carceraria della diocesi e dalla Caritas diocesana. “L’iniziativa - sottolineano dalla Caritas - nasce a seguito del forte gesto simbolico compiuto lo scorso 26 dicembre, in occasione del Giubileo della Speranza, quando Papa Francesco ha aperto una Porta Santa presso la Casa Circondariale di Rebibbia. È la prima volta nella storia della Chiesa che, durante un Giubileo, una Porta Santa viene aperta in un carcere. Un atto che riflette l’attenzione del Santo Padre verso il mondo carcerario e richiama l’urgenza di un impegno pastorale più concreto e consapevole verso i fratelli e le sorelle detenuti”. Firenze. Il carcere, i suoi problemi e la forza del volontariato novaradio.info, 21 gennaio 2025 È stato il carcere - il sistema carcerario italiano con i suoi annosi problemi, le condizioni di vita spesso inumane, le “aree grigie” di illegalità e abusi, ma anche una diversa idea di immaginare e raccontare il carcere - oltre l’approccio repressivo e il modello detentivo - fatta di impegno e lavoro, costante e spesso difficile, delle associazioni del volontariato. È stato questo il filo conduttore dell’intero programma dei talk che hanno animato “Nova!” il Festival di Novaradio, che si è svolto sabato scorso al brillante nuovo teatro Lippi di Firenze con una lunga giornata di confronto e talk con i protagonisti che il carcere lo vivono “dal di dentro”. Ornella Favero, presidente di Ristretti Orizzonti e della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha parlato a lungo delle attività dell’associazione attiva dal 1997 con una redazione composta da circa 30 detenuti della Casa di reclusione “Due Palazzi” affiancati da un gruppo di volontari, che si occupa di informazione, comunicazione e inchieste sul mondo carcere, ma anche sensibilizzazione e promozione dei modelli alternativi alla detenzione attraverso incontri, convegni, coinvolgimento diretto delle scuole e della società civile in carcere. “È dura - ammette - soprattutto in un Paese come l’Italia in cui le carceri sono esse stesse luoghi di illegalità diffusa, e in un clima politico e culturale in cui prevale la propensione alla detenzione all’inasprimento delle pene e alla criminalizzazione”, ma ha anche rivendicato il ruolo del volontariato e la sua necessità di essere autonomo: “Bisogna osare di più. Il volontariato non deve sentirsi ospite dell’istituzione carceraria, la società civile deve entrare in carcere e occuparsi della opera di rieducazione. Ed è quello che stiamo facendo da 27 anni a questa parte”. La riflessione di Francesco Carlo, rapper noto con il nome d’arte “Kento” è partita dalla condizione delle carceri minorili - in cui da anni è impegnato in laboratorio e progetti che coinvolgono i giovani detenuti - in particolare dagli effetti del decreto Caivano che ha portato ad un aumento del 43% dei reclusi minori. “Nonostante il decreto Caivano, dei 17 mila ragazzi colpiti da provvedimento di esecuzione penale, i reclusi sono circa 600 ragazzi: a finire dentro inoltre non sono gli autori dei crimini più efferati, ma sono gli ultimi: quelli che non hanno una casa una famiglia cui essere affidati o una rete di protezione sociale. La mia speranza ha aggiunto è che un giorno potremo parlare delle carceri minorili in prospettiva storica come di qualcosa che non esiste più così come facciamo ora per i manicomi i matrimoni riparatori o il divieto per le donne di essere magistrati: ridicolo, grottesco, incivile”. Luigi Mastrodonato, giornalista d’inchiesta classe 1990, con il suo podcast “Tredici” ha raccontato della vicenda delle morti non chiarite di alcune detenuti del carcere di Modena dopo le rivolte del marzo 2020: molte di quelle morti sono state archiviate, su altre le indagini sono ancora aperte, e c’è anche un’indagine che ipotizza abusi e torture a carico degli agenti penitenziari (scollegata dalle morti), mentre l’unico processo aperto è quello a carico dei detenuti che hanno partecipato alle proteste. “l lavoro di giornalismo di inchiesta sui temi carcerari è molto difficile ma soprattutto tra le nuove generazioni c’è maggiore attenzione a questo tema. Quello che dobbiamo fare è anche cambiare il nostro modo di intendere e raccontare il carcere”. Roma. A Rebibbia dialoghi con Diego Bianchi: giornalismo televisivo e non solo uniroma2.it, 21 gennaio 2025 Mercoledì 15 gennaio alle ore 11:00 presso la Sala Meta della C.C. Rebibbia Nuovo Complesso, si è tenuto il terzo incontro del ciclo di lezioni curato dalla dott.ssa Serena Cataldo nell’ambito del progetto “Università in carcere”. Ospite e interlocutore principale il conduttore televisivo Diego Bianchi. Ad aprire l’evento è stata la professoressa Marina Formica, delegata del Rettore per la formazione universitaria negli istituti penitenziari e promotrice del progetto. Sono seguiti dei brevi interventi dell’Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria, Dott.ssa Cinzia Silvano e del dottor Emilio Minunzio consigliere del Cnel - Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Entrambi hanno sottolineato come questo evento rientri in quelle buone iniziative che hanno reso possibile abbassare le percentuali di recidiva dal 70 al 2%. Dello stesso avviso Laura Fazzioli, direttrice della Casa Circondariale di Roma Rebibbia “Nuovo Complesso”. Marco Palma, già docente presso il nostro Ateneo e giornalista sul campo, è ora titolare per la Facoltà di Lettere e Filosofia-Scienza della Comunicazione dell’insegnamento di Giornalismo televisivo proprio nel carcere romano. Partendo dalla domanda “Cos’è il giornalismo” ha messo al centro il detenuto come perfetto comunicatore, perché ha molto da dire e da raccontare. Le chiavi del giornalismo, secondo Palma, sono l’immediatezza, l’empatia e il cuore. Sarah Brunetti, comandante del Reparto di polizia Penitenziaria, ha aggiunto che ritiene il giornalismo fortemente collegato al concetto di libertà, in più declinazioni: libertà di pensiero, di espressione, di opinione e, soprattutto, di capacità di rivisitazione del proprio pensiero. “Non sono un giornalista e questo può essere un problema” esordisce il conduttore di “Propaganda Live” Diego Bianchi, in onda su La7 il venerdì in prima serata. La sua esperienza e la sua onestà narrativa lo rende comunque un comunicatore efficace e che gode di grande consenso e ammirazione nel pubblico. Come testimoniato dall’intervento di un detenuto presente all’incontro “In quello che fai c’è poco di tuo e tanto di vero”. L’ambiente carcerario è stato più volte protagonista dei suoi reportage “Ho sempre cercato di raccontarlo come un posto da cui si esce. Il carcere può diventare una risorsa per la società. La cultura rende più sicuri tanto il carcere quanto la società tutta”. Infatti secondo Bianchi bisogna essere liberi dal pregiudizio sia quando si racconta sia quando si ascolta. Avere un’opinione completamente priva di dubbio e restarci ancorati rende la narrazione faziosa e non autentica. C’è trasporto e partecipazione tra i detenuti presenti: molte le mani alzate per fare domande e prendere attivamente parte al dibattito. Alcuni avevano già avuto occasione di conoscere il conduttore di persona in altre occasioni. Tra le domande poste una ha riguardato anche l’intelligenza artificiale. “Ho perso il grip, non riesco a stargli appresso” ha risposto Bianchi, per poi aggiungere “Ma comunque il futuro va da quella parte”. “Può essere un ausilio, ma non può sostituire il lavoro umano” ha precisato Palma. Riguardo il progetto “Università in carcere” Bianchi ha avuto parole di ammirazione “Si deve dare la possibilità a chi è in carcere di crescere. Studiare è un modo per farlo già normalmente, a maggior ragione per chi è dentro. Si garantisce così il diritto allo studio.” Carcere, quel “salto di paradigma” per una proposta abolizionista di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 21 gennaio 2025 “Decostruire la pena”, un libro di Giuseppe Mosconi pubblicato da Meltemi. È un libro ricco, coraggioso e militante quello di Giuseppe Mosconi che propone “modalità radicalmente alternative di risposta agli illeciti penali” (Decostruire la pena. Per una proposta abolizionista, Meltemi, pp. 242, euro 20). È sotto gli occhi di tutti la crisi drammatica del diritto penale, usato nella società post-moderna quale strumento tecnocratico del potere per dividere, escludere, incapacitare, neutralizzare. Il libro è un manifesto abolizionista che si muove lungo una storia di opere radicali della sociologia e della criminologia critica che vanno da Pene perdute di Louk Hulsman a Scarcerare la società di Alain Brossat, da Crime control as industry di Nils Christie sino a The politiics of abolition di Thomas Mathiesen. L’intensità del volume sta nel tenere sempre insieme il doppio livello: da un lato quello della critica al diritto penale e al carcere come istituzione di controllo sociale, dall’altro quello della proposta della rinuncia definitiva al sistema penale. Mosconi propone di affidarsi a modelli di giustizia riparativa che siano effettivamente alternativi alla giustizia penale e non succubi del suo impianto repressivo o correzionalista. Nella sua visione la giustizia riparativa dovrebbe muoversi del tutto al di fuori del percorso penale. Se così non fosse ne esalterebbe i vizi, trasformando la riparazione in vera e propria pena aggiuntiva. Il carcere come pena non riesce, spiega bene Mosconi, ad assolvere ad alcune delle funzioni che la dogmatica penale gli avrebbe affidato nel tempo. È in crisi anche la stessa funzione rieducativa della pena, e ciò, spiega l’autore “intacca la sua immagine più progressista e avanzata”. Tocca, dunque, a chi la difende dimostrare che essa ha ancora un suo senso e un suo spazio di applicazione. Spetta a chi crede al diritto penale e alla necessità della sanzione carceraria dimostrare che sono ancora la migliore tra le soluzioni possibili per anestetizzare i rischi di violenza. Il libro suggerisce un’inversione sociologica dell’onere della prova. È sotto gli occhi di tutti come il carcere assomigli sempre di più a quella pena corporale alla quale avrebbe dovuto sostituirsi. Sovraffollamento, internamento di massa, diritti negati, tassi di suicidio venti volte superiori a quelli della società libera richiedono che si rifletta criticamente intorno alla crisi di senso e di ragione della prigione come pena. Mosconi conosce bene il carcere potendo sovrapporre lo sguardo profondo dello studioso e dell’accademico con quello empirico del militante, impegnato da decenni con Antigone, a guardarlo da dentro come osservatore. A partire dal suo doppio sguardo critico propone “un radicale rovesciamento, che porti finalmente al centro la necessità di decostruire le deformanti costruzioni penalistiche e penitenziarie”. Un “salto di paradigma”, dunque, da innestarsi inevitabilmente dentro una società complessivamente meno iniqua, meno ingiusta, meno classista. Essere abolizionisti significa mettere in discussione la società contemporanea dalle sue radici. È, quindi, un’utopia quella abolizionista? Di certo costringe i difensori del diritto penale ad affidarsi non solo ad argomentazioni filosofiche e giuridiche, ma anche a sporcarsi le mani con l’esperienza di una storia che, dappertutto nel mondo, è fatta di afflizioni, dolore, violenza, abusi, diritti negati. Di fronte all’estremismo delle politiche della sicurezza, diventate un mantra per comprimere diritti e libertà, Mosconi mette a disposizione di studiosi e attivisti le sue riflessioni lungo decenni di impegno accademico e sociale. Amore, canzoni, vita nel musical “Mare fuori” di Francesco Verni Corriere del Veneto, 21 gennaio 2025 Il regista Siani: “Un fenomeno una sorta di Gioventù bruciata” Quando si parla di Mare fuori, seppure nata da pochi anni, si parla già di una serie cult. Oggi più che mai le puntate si stanno spezzettando in frasi e tormentoni che il grande pubblico ripete, “tagga” e condivide. Un fenomeno! Un successo esplosivo che ha colpito l’interesse di molti, tutti, me compreso”. Alessandro Siani racconta così Mare fuori, la serie Rai di successo di cui a breve uscirà la quinta stagione, da cui è tratto il musical diretto dal regista napoletano che andrà in scena sabato al Gran Teatro Geox di Padova come unica data regionale La location della serie così come quella di Mare fuori - Il musical è il carcere minorile di Nisida. Qui si racconta in modo profondo e crudo la vita di un gruppo di ragazzi all’interno di un istituto penitenziario. Guardando oltre alle sbarre si affaccia un mare libero e immenso, una sorta di sogno, di miraggio, e la detenzione diventa ancora più dura per via del Mare fuori. L’Istituto di detenzione minorile è una bolla in cui “ragazzi interrotti” hanno la possibilità di capire chi sono e cosa vogliono al di là di cosa sono stati fuori da quelle mura. La reclusione si cristallizza per loro come una parentesi di sospensione in cui hanno la possibilità di navigare nel loro mare interiore, fare nuove scoperte e conoscere nuovi mondi. Mentre fuori imperversa la guerra di camorra tra Ricci e Di Salvo, dentro l’istituto penitenziario i loro eredi, Rosa Ricci e Carmine Di Salvo, si trovano l’una contro l’altro. Ma, in modo inspiegabile, tra loro sin da subito inizia a scorrere una corrente magnetica che presto si trasforma in un sentimento forte e travolgente. I due ragazzi non possono sottrarsi a quello che provano e l’educatore Beppe vede in questo loro amore l’antidoto per la tragica guerra tra le loro famiglie. La scoperta dell’amore diventa un’onda che travolge tutti i protagonisti e, pur manifestandosi in diverse forme, conduce tutti alla scoperta di nuove parti di sé stessi. Qualcuno di loro si trova perso a causa di questa emozione sconosciuta, qualcun altro, invece, vive questo sentimento come faro nella notte e si fa guidare dalla sua luce. “La versione teatrale sicuramente aveva bisogno di non perdere dei temi fondamentali: le motivazioni che hanno portato in carcere i ragazzi, la famiglia distrutta nei suoi valori primordiali, la lotta fra bande, la delinquenza beffarda che trascina una persona non “adulta” a fare determinate scelte - continua Siani si tratta di riflettere su una sorta di Gioventù bruciata, figlia di un destino amaro e inaccettabile. Il tema che pervade questa trasposizione teatrale è il “momento”. Trovarsi nel momento sbagliato! Perdere sempre il momento giusto, perché confusi e avviliti dall’ambiente che li circonda, crescere male e continuare a sbagliare. Si può sopravvivere e poi rinascere per sempre”. La musica, già molto presente nella serie tanto che la colonna sonora della prima stagione è stata certificata doppio disco di platino, diventa protagonista assoluta di questa epopea accompagnando il pubblico in questo tortuoso ma inesorabile percorso di crescita. “L’amicizia, la fratellanza e soprattutto l’amore copriranno il dolore, ma nessuno sarà mai sereno, perché tutto potrebbe cambiare da un “momento” all’altro - conclude il regista - gli occhi dei ragazzi, le loro voci, la musica, l’anima e le risate amare, tingono l’anima”. Corte Costituzionale, serve più chiarezza. E sul regionalismo la sfida è aperta di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 21 gennaio 2025 Non è finita. Dopo le due decisioni della Consulta, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Preclusa la via diretta dell’abrogazione di una brutta legge, resta la necessità di affermare un regionalismo costituzionalmente orientato. Questo è stato scritto nella prima sentenza del nostro giudice delle leggi che è l’antecedente storico, ma anche logico, della seconda decisione sull’inammissibilità. Da qui bisogna ripartire. A ben vedere - come abbiamo già avuto modo di evidenziare in tempi non sospetti su queste pagine - persino l’abrogazione della legge 86 del 2024 per via referendaria non ci avrebbe esentato dall’onere della prova contraria: la necessità di indicare il modello di regionalismo solidale che la nostra Costituzione pretende. Ora, la decisione della Corte costituzionale sull’inammissibilità - che non ci dà soddisfazione, ma che ci riserviamo di valutare nel merito quando leggeremo le motivazioni - ha accelerato i tempi e ci pone da subito di fronte alle nostre responsabilità. Ripartiamo dalla vittoria e non dalla battuta d’arresto, dallo smantellamento operato dalla sentenza 192 del 2024 che non solo ha dichiarato l’incostituzionalità dei pilastri della legge Calderoli, ma che ci ha anche indicato i principi di un nuovo regionalismo non più di natura “duale”, bensì - come ha scritto la Consulta - di natura “cooperativa”, “che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano”. Di più non si poteva dire, non compete infatti al giudice costituzionale scrivere le leggi. Spetta a noi, ai cittadini, alla politica e al parlamento dare attuazione ad un regionalismo solidale. Ciò che deve essere chiarito, tanto più ora dopo la doppia pronuncia del giudice delle leggi, è che i principi ispiratori della riforma del regionalismo in Italia non possono comunque più essere quelli proposti dall’attuale maggioranza politica, ma sono quelli definiti dalla sentenza che ha stracciato la legge vigente. La legge Calderoli (i monconi che ne residuano) non può proseguire il suo iter perché definisce un modello di regionalismo in contrasto con quello prescritto dalla nostra Carta fondamentale. Spetta adesso ai soggetti che hanno contrastato questa legge indicare la rotta, ripartendo dalle chiare indicazioni della Consulta. Si tratta in sostanza di passare dalla critica ad un disegno politico che si è rivelato contrario ai principi della nostra costituzione, alla costruzione di un progetto che sia in grado di darne attuazione. Una nuova prospettiva che ha oggi dalla sua parte una fondamentale ragione in più: la consapevolezza che è diventato indispensabile ricondurre il nuovo regionalismo nel solco della Costituzione, quello sin qui proposto non lo era. Cambiare direzione non è solo possibile, diventa necessario. Alla realistica obiezione della mancanza di una maggioranza parlamentare che possa cambiare il modello regionale è necessario rispondere ricordando che il cambiamento, così come il necessario consenso popolare, può ottenersi solo a seguito di una lotta per l’egemonia. È da riflettere, dunque, se non sia giunto il tempo per iniziare a costruirla, magari rivoltando gli indirizzi sino ad ora dominanti: contrapponendo al regionalismo egoistico quello solidale; ma anche contrastando il modello verticistico dei poteri, che è alla base della riforma del premierato, tramite il rilancio del pluralismo politico e del parlamentarismo che è da tempo offeso; abbandonando le politiche giustizialiste e di mera contrapposizione tra politica e magistratura per adottare politiche attente alla tutela dei diritti e al garantismo penale; uscendo dalla spirale che sacrifica alla sicurezza la più ampia libertà di dissenso sociale e politico. In tal modo, si potrebbe persino riuscire a scuotere le forze di opposizione dal torpore e dalla remissività che da tempo sta prevalendo, per farle tornare a dire “qualcosa di sinistra”. È mettendo in gioco se stessi e le proprie idee che si conquista una nuova egemonia, non stando alla finestra. Buon lavoro, dunque, alle opposizioni di oggi, con l’augurio che sappiano ritrovare il legame smarrito con il popolo in nome della Costituzione. Non abbiamo molto tempo da perdere, né è possibile farsi prendere dallo sconforto per una sentenza sgradita. Sulle decisioni assunte ieri dalla Corte costituzionale, in attesa di conoscere le motivazioni che hanno portato a inibire ancora una volta le richieste dei promotori, un solo aspetto possiamo sin d’ora con certezza rilevare. Se non si vuole rinunciare al principale strumento di partecipazione alle decisioni politiche da parte del popolo è necessario ripensare ab imis fundamentis il referendum e la giurisprudenza costituzionale che si è venuta edificando e che ha portato ormai alla assoluta imprevedibilità degli esiti. Spetta al legislatore illuminato il compito di riscrivere la legge 352 del 1970, mentre il compito della Consulta, se vuole ricoprire il ruolo che le è stato assegnato di “isola della ragione”, è quello di definire pro futuro un modello chiaro, unico e semplificato di principi cui i promotori possano attenersi. Avremmo bisogno di un nuovo Livio Paladin (il grande costituzionalista che fu l’estensore della sentenza pilota del 1978). La difficile difesa della democrazia di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 gennaio 2025 Discutendo con un ragazzo di 18 anni mi sono sorpresa sentendogli dire che la democrazia è una invenzione dell’Occidente, che non tiene conto delle esigenze delle masse e delle nuove scoperte tecnologiche. E quale sarebbe la alternativa? Un sistema rigido di controllo, è stata la risposta. Ma chi farebbe questo controllo, visto che ogni controllo porta censura e censura porta sottomissione alle volontà del più forte? Mi ha guardato con un sorriso di sufficienza e mi ha detto che queste sono nostalgie di un passato che non esiste più. La felice liberazione di Cecilia Sala ci ha ricordato che ci sono tanti giornalisti ancora chiusi in galera. Le statistiche parlano di 553 reporter in custodia. Sappiamo che i potenti hanno sempre temuto chi li osserva, li critica e mette in luce le loro azioni non rivelate. In democrazia la libertà di parola è assicurata. In un regime dittatoriale viene repressa, sia chiudendo i giornali e le sedi televisive, sia più sottilmente togliendo i mezzi di sopravvivenza alle voci critiche. Discutendo con un ragazzo di 18 anni mi sono sorpresa sentendogli dire che la democrazia è una invenzione dell’Occidente, che non tiene conto delle esigenze delle masse e delle nuove scoperte tecnologiche. E quale sarebbe la alternativa? Un sistema rigido di controllo, è stata la risposta. Ma chi farebbe questo controllo, visto che ogni controllo porta censura e censura porta sottomissione alle volontà del più forte? Mi ha guardato con un sorriso di sufficienza e mi ha detto che queste sono nostalgie di un passato che non esiste più. Ho ribattuto che la democrazia è certo lenta ma perché comporta una distribuzione dei compiti in una società che dà spazio a tutte le istituzioni: governo, Parlamento, magistratura, polizia, sanità, media, cultura, ecc. Tutte le istituzioni devono avere la libertà di giudicare, criticare in autonomia. Il controllo democratico è garantito dalla Costituzione. Ma appunto, mi ha ribattuto il ragazzo, tutto questo porta confusione e scontri, noi abbiamo bisogno di certezze e sicurezza. E per sicurezza saresti disposto a rinunciare a conoscere la verità dei fatti e alla giustizia secondo libertà di giudizio? Si è messo a ridere. Gli ho chiesto cosa pensa di fare in futuro. Il fisico, mi ha risposto e naturalmente è favorevole all’introduzione del nucleare. Ma leggi i giornali? No. Ascolti la radio? No. E come ti informi? TikTok, Instagram, YouTube. Anche X? Sì anche X. E credi che loro dicano il vero? Loro danno tanti pareri e poi tu decidi. Mi chiedo fino a che punto questo sicuro e gentile ragazzo che ho incontrato in una scuola rappresenti i suoi coetanei. E se veramente il concetto di democrazia sia così decaduto da apparire come un pericolo pubblico. È la vecchiaia che mi acceca o la giovinezza che si sta tappando gli occhi con le proprie dita? Giornata dell’educazione, ma 2 milioni di bambini sono in povertà educativa di Marco Rossi-Doria* Corriere della Sera, 21 gennaio 2025 La principale questione educativa nel nostro Paese è la povertà educativa. Ma ci sono anche cose sorprendenti, modelli per altre nazioni L’educazione? Atto d’amore. L’esempio dell’Italia: cosa funziona e cosa no. Nel celebrare la Giornata dell’Educazione, l’Onu ci ricorda che è il sapere alla base dello sviluppo ed è la conoscenza diffusa a determinare la forza delle economie e il rapporto tra queste e la sostenibilità sociale e ambientale. Al contempo, ricorda che la conoscenza è un diritto di tutti. Se è questo il senso del 24 gennaio, per l’Italia è un giorno di riflessione. La principale questione educativa italiana è, infatti, la povertà educativa. Sono i fatti a dirlo. L’Italia è tra le dieci prime economie. Ma siamo troppo vecchi: l’indice di vecchiaia è tra i più alti del mondo (193,1 persone con più di 65 anni ogni cento con meno di 14) e su 59 milioni di persone solo 9,8 sono minorenni, cioè il 16,2%. Di questi 1,4 milioni sono in povertà assoluta e 2,2 milioni in povertà relativa. Il 12% abbandona la scuola ma è il 20% nel Sud e in ogni periferia del Centro-Nord. E un bimbo non povero ha il triplo di probabilità, rispetto a un coetaneo povero, di scrivere bene e capire ciò che legge, sapere la matematica, comprendere il mondo secondo le conoscenze dell’umanità, fare uso avvertito delle tecnologie, essere cittadino. Se un quarto del nostro futuro rischia di restare lontano dal sapere atto a produrre beni, servizi, partecipazione, vi è una seria questione di diritti e, al contempo, una seria ipoteca sullo sviluppo della nazione. È tempo che ogni parte politica e ogni media se ne occupi di più. Per fortuna non si parte da zero. L’Italia crea cose sorprendenti, modelli anche per altri Paesi e ha in Costituzione il principio di sussidiarietà. E, dal 2016, Fondazioni di origine bancaria, Terzo Settore e ogni Governo succedutosi attivano il Fondo per il contrasto della povertà educativa, non rinnovato, attuato da Con i Bambini che, unendo pubblico e privato, dà vita a migliaia di comunità educanti facendo lavorare insieme scuole, agenzie del terzo settore, volontariato, parrocchie, centri sportivi, raggiungendo 600 mila minori e le loro famiglie. Questa giornata ci chiede di andare avanti. *Presidente Con i Bambini Corte dell’Aja. Il capo della polizia di Tripoli arrestato a Torino per “torture” di Daniela Fassini Avvenire, 21 gennaio 2025 Njeem Osama Elamsry, detto Almasri, fermato nel capoluogo piemontese su mandato della Corte penale internazionale per crimini di guerra. Le Ong: perché si nascondeva in Italia? Potrebbe essere solo il primo di una lunga serie, l’arresto di ieri a Torino, di Njeem Osama Elmasry (Almasri), il capo della polizia giudiziaria di Tripoli. L’uomo è stato fermato nel capoluogo piemontese su mandato della Corte penale internazionale per crimini di guerra. Un arresto clamoroso perché si tratterebbe di uno dei personaggi “chiave” della rivoluzione libica, ai tempi di Gheddaffi, ma anche protagonista di un sistema dì violenze e di carcerazioni. L’informazione è stata diffusa dalla pagina Facebook ufficiale della Fondazione per la riforma e la riabilitazione di Ain Zara, una struttura carceraria di Tripoli, e rilanciata da diverse testate libiche, tra cui “Al Hadath Libya”. Il direttore della struttura, Abdel Moaz Nouri Bouaraqoub, ha condannato quello che ha definito un “arresto arbitrario” di Njeem, che è un generale di brigata, esortando le autorità libiche ad assumersi la responsabilità di questa situazione. “Il generale di brigata Osama al Najim è noto per il suo rigore, la sua dedizione e la professionalità nell’adempimento dei compiti affidatigli per molti anni. Preghiamo Dio Onnipotente che possa tornare sano e salvo al più presto”, si legge nella dichiarazione. L’uomo arrestato - che era capo della prigione e centro di torture libico di Mitiga - era balzato agli onori della cronaca nel 2022, nell’ambito degli scontri armati nella zona di Sabaa, a est della capitale libica Tripoli, vicino alla sede dei servizi segreti del ministero dell’Interno: a confrontarsi erano stati da una parte gli uomini della Guardia presidenziale guidati dal vice comandante Ayoub Bouras; dall’altra le forze della polizia giudiziaria Najim affiliate alla Rada, gruppo armato libico specializzato nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata guidato dal comandante salafita Abdul Rauf Kara. Il complesso di Mitiga ospita non solo l’unico scalo aereo civile che attualmente serve Tripoli, ma anche un’importante prigione dove sono detenuti oppositori politici e terroristi dello Stato islamico e una base aerea dalla quale partono i droni d’attacco di fabbricazioni turca. Non è chiaro a quali episodi si riferiscano i crimini di guerra contestati ad Al Najim. Non è esclusa una sua presunta partecipazione nelle fosse comuni trovate a Tarhuna dopo il cessate il fuoco in vigore dall’ottobre 2020 su cui sta indagando la Corte penale internazionale. “La cattura di Elmasry getta un’ombra inquietante sulla sua presenza nel nostro Paese - dichiara don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans - Sappiamo che il potere della mafia libica cresce di giorno in giorno grazie ai respingimenti che l’Italia e l’Europa finanziano. Si parla di lotta ai trafficanti, ma intanto si finanziano i respingimenti, che fanno crescere il potere dei trafficanti. Dobbiamo insistere perché si fermino i respingimenti, perché ci si prenda per mano con i migranti e con la società civile e si costruisca una vera fraternità. É una via difficile, che richiede coraggio, ma é l’unica possibile per sconfiggere le mafie e le ingiustizie e per realizzare pienamente la nostra umanità”. “Almasri è la prova di come l’intero sistema libico, foraggiato in questi anni da milioni di euro dai governi italiani e dall’Unione Europea, sia atroce e criminale: banditi come Almasri hanno solo messo in pratica il mandato ricevuto di “fermare i migranti”, con mezzi e soldi delle istituzioni occidentali. Si nascondeva in Italia, ovviamente: perché qui i trafficanti si sentono al sicuro” attacca Luca Casarini di Mediterranea Saving Humans. “Ma siamo solo all’inizio - aggiunge - chi ha pagato Almasri per torturare, detenere, uccidere donne uomini e bambini?”. Stati Uniti. Da democratico vi dico che la libertà è a rischio di Alan Friedman* La Stampa, 21 gennaio 2025 Il discorso di insediamento di Trump è stato rancoroso, distopico e vendicativo. È stato pieno di minacce e insulti per Joe Biden, seduto ad appena due metri di distanza. A tratti, è stato anche surreale. Trump ha delineato il quadro di un’America immaginaria come di una nazione decadente, per poi affermare che porrà rimedio subito a ogni singolo problema americano. Istantaneamente. È stato un discorso superficiale, letto malamente sul gobbo da un uomo che appariva distratto o stanco. È sembrato che Trump fosse alle prese con uno dei tanti discorsi di un comizio elettorale, con Elon Musk che faceva il tifo per lui. Questo discorso inaugurale è stato il contrario di un discorso di unità. Trump è stato come nel 2017, carico di spacconate rabbiose e falsità. Ha affermato mentendo che la Cina in qualche modo gestisce il Canale di Panama, e ha minacciato di ricorrere alla forza militare contro Panama. Il pregiudicato settantottenne non ha sorriso molto. È stato cupo. Ha parlato in tono brusco, evitando qualsiasi parvenza di finezza. Sotto l’Amministrazione Biden è andato tutto male. Sotto l’Amministrazione Trump andrà tutto bene. Trump è apparso anche come un uomo determinato a rimodellare l’America in una democrazia illiberale. È sembrato un Orbán americano. Ha attaccato il sistema giudiziario che lo ha condannato per molteplici capi d’accusa. Ha parlato come un uomo spinto dal desiderio di vendetta. Ha attaccato i diritti della comunità Lgbtq+ e di altre minoranze, e ha promesso di abolire le loro tutele antidiscriminatorie. Ha lanciato ai suoi fan qualche bocconcino di politica identitaria anti-woke. Il discorso è stato soltanto un preludio, naturalmente, della vera agenda di Trump, a cui ha dato il via più tardi, nella serata di lunedì, nella cerimonia della firma nello Studio Ovale. Quelli che seguono sono alcuni piccoli esempi del menu à la carte di Trump per le politiche populiste del 2025. 1.?Criptovalute - Anche se non ha ancora firmato un ordine esecutivo, una delle priorità di Trump, insieme a Elon Musk, sarà la deregolamentazione e la promozione delle criptovalute. Si calcola che al momento vi abbia una posta personale in gioco di oltre 50 miliardi di dollari. 2.?Grazia per i fatti del 6 gennaio - Ieri Trump ha concesso la grazia a centinaia di criminali condannati, mandati in carcere per aver preso parte all’insurrezione del 6 gennaio 2021. In pratica, lo stato di diritto è stato rovesciato e il presidente incriminato per aver istigato l’insurrezione ha concesso il perdono ai seguaci che aveva convinto a commettere atti violenti. 3.?Immigrazione - Trump ha dichiarato un’emergenza nazionale e invierà l’esercito al confine tra Stati Uniti e Messico. Chiuderà la frontiera ai migranti in cerca di asilo. Tenterà di dare il via a espulsioni di massa di immigrati clandestini. Provocherà tanto trambusto ed enormi sofferenze. 4.?Ius Soli - Trump vorrebbe mettere fine al diritto di Ius Soli per i figli di immigrati. Questo proposito sarebbe anticostituzionale. Probabilmente, a fermarlo saranno i tribunali. Si spera. 5.?Iniziative gender e di Diversità, Equità e Inclusione - Trump vuole istituire per tutti i lavoratori federali definizioni sessuali biologiche, eliminando l’opzione transessuale. Vuole anche cancellare le tutele per i transgender nelle carceri federali. Vuole abolire tutti i programmi che hanno offerto vantaggi alle minoranze nelle università e sul posto di lavoro. 6.?Dazi e commercio - Qui Trump è stato più prudente di quanto ci si aspettasse, e ha detto che si riserva di valutare l’osservanza da parte della Cina di un accordo commerciale che egli ha firmato nel 2020, e così pure l’Agreement tra Stati Uniti, Messico e Canada. Ha però prospettato la creazione di una nuova agenzia federale, l’”External Revenue Service” per gestire la raccolta di dazi. 7.?Energia e ambiente - Il team di Trump di ex dirigenti delle società petrolifere e di lobbisti del settore darà presto il via nella natura selvaggia dell’Alaska ad altre trivellazioni per la ricerca di altro petrolio e altro gas. Cancellerà anche molte regolamentazioni finalizzate a proteggere l’aria e l’acqua pulite. Abolirà i programmi miranti a tutelare le comunità più povere da un inquinamento eccessivo. Questo è soltanto l’inizio di quello che promette di essere un quadriennio molto lungo. Dalla Casa Bianca di Trump c’è da aspettarsi tanto altro. Questo è soltanto l’antipasto, sappiatelo. La buona notizia per l’Europa è che forse non sarà troppo duro con i dazi. Forse. *Traduzione di Anna Bissanti Stati Uniti. “Clemency” in extremis, dopo 49 anni Leonard Peltier non morirà in carcere di Marinella Correggia Il Manifesto, 21 gennaio 2025 “Ho commutato la pena dell’ergastolo alla quale era stato condannato Leonard Peltier, concedendogli gli arresti domiciliari”: nell’ultimo giorno, nelle ultimissime ore della presidenza Biden, il comunicato della Casa bianca informa che l’attivista nativo statunitense lascerà il carcere Coleman 1 in Florida dove ha scontato 49 anni - sempre dichiarandosi innocente - per l’omicidio di due agenti della potente Fbi, dopo un processo molto dubbio. La executive clemency è finalmente arrivata. Non morirà dietro le sbarre. Leonard torna a casa, alla Turtle Mountain. Un enorme sollievo per lui, per la sua famiglia, per la sua comunità e per i tantissimi, sconosciuti o noti, che nei decenni hanno seguito il suo caso, manifestato, mandato lettere postali ai presidenti, lanciato appelli. I difensori dell’attivista continueranno a lavorare per un’assoluzione totale. Joseph Biden (che da dicembre ha concesso la grazia o la commutazione di pena a migliaia di persone, compresi membri della sua famiglia), è stato attento a non urtare l’Fbi: il suo comunicato precisa che Peltier non viene perdonato per i suoi “crimini” e che la clemency ha tenuto conto delle sue numerose patologie, dell’età, del fatto di aver speso in carcere la gran parte della sua vita. Il comunicato afferma poi che per queste ragioni la clemency era stata chiesta da leader nativi, premi Nobel, giuristi, organizzazioni per i diritti umani, lo stesso procuratore che si era occupato del processo. “Non c’è vera giustizia dopo 50 anni di carcere ingiusto, ma oggi i nostri cuori esultano di gioia e gratitudine”, si legge nel comunicato dell’organizzazione dei nativi Ndn Collective che ringrazia “tutti quelli che, negli Usa e nel mondo, hanno lavorato per questo giorno e magari non hanno vissuto abbastanza a lungo per vederlo”. Insieme all’esultanza, il ricordo di chi è ancora prigioniero e la promessa che l’impegno per i nativi continuerà. Costa D’Avorio. Maurizio Cocco da 31 mesi detenuto nel carcere di Abidjan di Alessandro Rocca articolo21.org, 21 gennaio 2025 La vicenda di Cecilia Sala forse può aiutare a porre l’attenzione sugli altri nostri connazionali detenuti all’estero e di cui, fino ad ora, il governo non si è interessato. In particolare Maurizio Cocco ingegnere detenuto da 31 mesi in Costa D’Avorio nel carcere di Abidjan. Inizialmente incriminato per riciclaggio e traffico di stupefacenti per poi essere assolto da questa accusa, ma condannato per evasione fiscale a due anni di reclusione. Pena scontata e conclusa il 2 giugno 2024. Ma Cocco è ancora in carcere, e non si sa per quale motivo non sia stato rilasciato. Come hanno dichiarato i suoi legali si tratta di “una detenzione illegale ed arbitraria”. Pare ci sia ulteriore indagini su di lui sempre sui primi capi d’imputazione dai quali era stata assolto. È in condizioni precarie. Ha perso molto peso, ha problemi respiratori e cardiaci certificati dal medico del carcere e si trova in una cella con altri 40 detenuti, in un penitenziario in cui sono recluse 15mila persone, dieci volte di più del numero consentito. La moglie, Assunta Giorgili, per riportare all’attenzione la vicenda, il 21 di dicembre 2024 si è incatenata davanti a palazzo Chigi chiedendo l’intervento del Governo e del ministero degli Affari Esteri Antonio Tajani. Ma a quanto pare l’attenzione non solo dei media era da un’altra parte. Ogni vita conta. Quella di Cecilia, che per fortuna è tornata a casa, ma anche quella di Maurizio. Sono molti i cittadini italiani detenuti all’estero. 2182 per l’esattezza. Molti sono detenuti giustamente perchè hanno commesso reati, soprattutto in paesi europei. Poi c’è un’altra categoria di detenuti, in paesi dove spesso i diritti sono un’opzione trascurabile. Si tratta di giornalisti, cooperanti, attivisti, ricercatori o semplici imprenditori che svolgono il loro lavoro. Lo fanno in paesi dove in molti casi ci sono dittature, conflitti, tensioni di carattere politico e sociale. A volte sono detenuti in uno stato di fermo informale, senza nessuna accusa particolare. Tutti questi nostri connazionali sono prigionieri del silenzio. Prigionieri del silenzio delle istituzioni italiane, ma anche prigionieri del silenzio dei media che probabilmente fanno distinzione fra storie di serie a e le storie di serie b. Spesso sono storie di solitudine e ingiustizia. Gli uffici della direzione per gli italiani all’estero del Ministero sono impegnati anche in mille altre operazioni delicate di carattere internazionale: sottrazione di minori, cooperazione giudiziaria internazionale, assistenza e rimpatri sanitari, ricerca delle persone scomparse. Ma pone quantomeno qualche interrogativo il fatto che esistano un inviato speciale per gli stati insulari di piccole dimensioni del Pacifico ed un coordinatore per la partecipazione dell’Italia ai programmi multilaterali riguardanti l’Antartide, uno per la cooperazione internazionale per lo Spazio, un altro per i paesi dei Caraibi, ma non per gli italiani detenuti all’estero. Medio Oriente. Il silenzio, tra l’offesa e la tregua di Valeria Parrella Il Manifesto, 21 gennaio 2025 Poi a un certo punto si è fatto silenzio. Si è fatto silenzio pure sulla diretta Rai dall’ingresso di Rafah, per mezz’ora hanno mandato solo immagini di persone impegnate in carichi e scarichi, così, con un tramestio di sottofondo senza nessun commento. Nessuno ha parlato, né giornalisti né capi e capetti, ma soprattutto, sopra ogni cosa a un certo punto (molto più tardi di quanto sperato, ancora diciannove morti dopo) le bombe hanno smesso di tuonare. Si è fatto silenzio, questo era. E le persone sopravvissute a Gaza hanno tirato fuori la testa dalle tende degli accampamenti dove sono dovute rimanere, ammassate, a custodirsi la dignità minuto dopo minuto, e hanno potuto dire ai loro figli: “Questa è la tregua”. Noi, increduli spettatori occidentali, avvelenati e vergognosi da questa parte dello schermo, pure siamo stati zitti. Tutti in silenzio, tanto che quando poi quell’indegno Erdogan ha parlato io ho pensato - zitto. E quando poi quell’indegno Smotrich ha parlato io ho pensato - zitto. Appiccavano fuoco, come dei mostruosi bambini, mentre tutti sentivamo il silenzio. È stato un attimo, uno di quegli attimi che durano assai, come quello di Faust quando si affaccia e, nella valle, vede persone libere intente al loro lavoro e si dice che questo è il motivo ultimo: vedere e vivere, su libero suolo come un popolo libero. A Faust, almeno in quello di Goethe, poi cadono le lancette dell’orologio e i lemuri l’afferrano, eppure lui non aveva ucciso nessuno, era stato cinico ma mai crudele. Ma quel silenzio incredulo, come prima del primo respiro: quella era la tregua. Come è stato nobile, e alto, quel silenzio: è stato da lì che, piano piano, i palestinesi hanno potuto mettersi in cammino e tornare verso nord. È dentro quel silenzio che potranno tornare a casa gli ostaggi e i prigionieri (quelle tre giovani donne israeliane, quel ragazzino palestinese di quindici anni, lei, loro, noi, le nostre sorelle, i nostri figli). È in questo silenzio che potranno procedere in processione le derrate alimentari, e le cisterne, e le medicine, e le attrezzature. Un medico di Msf, intervistato, ha detto una parola semplice, secca: “ospedali”, ha raccontato che erano arrivati a dover lavare le garze di un paziente per curare il successivo. Ha detto che teme tanto per la tenuta psicologica dei sopravvissuti perché finché hai paura che una bomba ti cada in testa è il tuo unico pensiero, ma tornare in una casa che non c’è più, comprendere quello che è avvenuto: è doloroso, ineffabile. E noi lo sappiamo, perché ce lo ha insegnato Primo Levi, cos’è “La tregua”: “Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi dove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti” (Torino, 1963). Medio Oriente. L’attivista palestinese Khalida Jarrar irriconoscibile dopo il carcere di Marianna Romeo tg.la7.it, 21 gennaio 2025 Il video del suo rilascio fa il giro del mondo. Tra i 90 detenuti liberati il 19 gennaio nel primo scambio tra Israele e Hamas figura anche Khalida Jarrar. Attivista per i diritti umani, accademica presso la prestigiosa Università di Birzeit a Ramallah e deputata del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) nelle elezioni del 2006, Jarrar è una figura di spicco in Palestina. Hamas ha incluso il suo nome nella lista dei prigionieri da liberare, insieme a quelli di altri detenuti non appartenenti al movimento islamista. Il PFLP, infatti, rappresenta una delle fazioni più a sinistra e laiche della politica palestinese. Il video della liberazione - Le immagini e i video della liberazione di Jarrar, avvenuta all’una di notte ora italiana alla periferia di Ramallah, hanno suscitato grande emozione. È difficile riconoscere nella donna fragile e sofferente, sostenuta dalla sorella mentre attraversa la folla in attesa, la figura forte e curata che rappresentava Khalida Jarrar prima della sua ultima detenzione. Tra i liberati vi erano anche donne e minori, molti dei quali trattenuti in detenzione preventiva nelle carceri israeliane. Chi è Khalida Jarrar - Khalida Jarrar, 61 anni, è la prigioniera palestinese di più alto profilo ad essere stata rilasciata nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco siglato domenica. Nota attivista e membro del Consiglio legislativo palestinese per il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), Jarrar ha trascorso oltre sei anni in carcere negli ultimi dieci anni, suddivisi in cinque diverse detenzioni, molte delle quali in regime di detenzione amministrativa senza alcuna accusa formale. Negli ultimi sei mesi, Jarrar è stata sottoposta a isolamento in una cella di appena 2 metri per 1,5. Era stata nuovamente arrestata nel dicembre 2023 con l’accusa di “sostegno al terrorismo” secondo il governo israeliano, ma è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza processo. L’utilizzo di questa accusa da parte di Israele è stato criticato a livello internazionale per la sua vaghezza e l’ampia applicazione, che spesso include azioni non tradizionalmente considerate terrorismo, come post critici sui social media, partecipazione a proteste pacifiche o presunte affiliazioni con gruppi politici palestinesi. Al momento del suo arresto, Jarrar stava conducendo ricerche sull’esperienza delle prigioniere presso il Muwatin Institute for Democracy and Human Rights dell’Università di Birzeit. Secondo il suo avvocato, le condizioni di detenzione erano disumane: confinata in una cella soffocante di 2,5 per 1,5 metri, dotata solo di una panca di cemento e un bagno fatiscente. L’aria era così scarsa che Jarrar era costretta a sdraiarsi sul pavimento per poter respirare meglio attraverso una fessura tra la porta e il pavimento. Il carcere di Neve Tirza - La prigione femminile di Neve Tirza, situata a Ramla, dove Jarrar è stata detenuta, è stata oggetto di numerose inchieste condotte da Ha’aretz, che ne hanno denunciato il sovraffollamento, l’uso eccessivo dell’isolamento e le celle anguste che garantiscono a ciascuna prigioniera solo 2 metri di spazio personale. Giappone. In carcere per sfuggire alla solitudine, il paradosso delle donne anziane di Luca Miele Avvenire, 21 gennaio 2025 Il fenomeno riguarda soprattutto le donne anziane. Che, in alcuni casi, reiterano i reati solo per prolungare il soggiorno dietro le sbarre. Bianche non sono solo le pareti. Ma anche i capelli delle persone che vi sono “ospitate”. La popolazione carceraria femminile in Giappone invecchia. E un drammatico paradosso la alimenta. Molte donne anziane preferiscono il carcere - dove in qualche modo vengono accudite - alla solitudine che le aspetterebbe fuori dalle prigioni. E per questo, a volte, reiterano i reati. Solo per prolungare il “soggiorno” dietro le sbarre. La Cnn è entrata nella prigione femminile di Tochigi, a nord di Tokyo. Un “viaggio” che coglie un cambiamento che attraversa e segna l’intera la società giapponese: l’invecchiamento, sempre più pronunciato, della sua popolazione. “Alcune persone fanno cose cattive di proposito, per farsi arrestare, in modo da poter finire di nuovo in prigione quando non hanno più soldi”, ha detto all’emittente Usa Yoko, una donna di 51 anni, finita in carcere per questioni di droga cinque volte negli ultimi 25 anni. “Ci sono persone che vengono qui perché fa freddo o perché hanno fame”, aggiunge una guardia carceraria. “Anche dopo essere state rilasciate e essere tornate alla vita normale, non hanno nessuno che si prenda cura di loro. Ci sono anche persone che sono state abbandonate dalle loro famiglie dopo aver commesso ripetutamente crimini. Non hanno un posto dove andare”, racconta un altro agente. Il furto è di gran lunga il crimine più comune commesso dalle detenute anziane. Nel 2022, più dell’80% delle detenute anziane era in carcere per aver rubato. “Alcune lo fanno per sopravvivere: il 20% delle persone di età superiore ai 65 anni in Giappone vive in povertà, secondo l’Ocse, rispetto a una media del 14,2% nei 38 paesi membri dell’organizzazione. Altri lo fanno perché hanno così poco da vivere fuori”, scrive ancora la Cnn. I dati catturano lo “scivolamento” del Paese del Sol levante. Che ondeggia a un passo dal “baratro demografico”. La popolazione si è ridotta per 15 anni consecutivi, con le nascite che hanno raggiunto il minimo storico di 730.000 lo scorso anno e i decessi che hanno raggiunto il massimo storico di 1,58 milioni. La popolazione anziana ha raggiunto la quota record di 36,25 milioni di persone, con gli over 65 che ora rappresentano quasi un terzo dei giapponesi. Circa 20,53 milioni di persone di età pari o superiore a 65 anni sono donne, 15,72 milioni sono uomini. Il cambiamento demografico si riflette, inevitabilmente, anche nella composizione della popolazione carceraria. Nel Paese il numero di detenuti di età pari o superiore a 65 anni è quasi quadruplicato dal 2003 al 2022. Cambia anche il ruolo delle guardie carcerarie che devono in qualche modo reinventare il loro lavoro, che assomiglia sempre più a quello di operatori sanitari. Operatori sanitari che “fuori” sono sempre meno numerosi. È un altro buco che minaccia di inghiottire il Giappone. Mentre si stima che il mercato del lavoro perderà otto milioni di lavoratori nei prossimi sei anni, il Paese dovrà affrontare una carenza di circa 570.000 operatori sanitari nell’anno fiscale 2040. Stime pubblicate lo scorso anno hanno mostrato che saranno necessari 2,72 milioni di operatori, mobilitati per fronteggiare la domanda di cura che proviene da una popolazione sempre più anziana e sola. In questi casi, persino la prigione può sembrare una soluzione.