Ancora problemi da risolvere nelle carceri italiane di Ettore Di Bartolomeo La Discussione, 20 gennaio 2025 Troppo carico di lavoro e responsabilità per gli agenti e gli operatori. Secondo i dati del Garante Nazionale delle persone private della libertà, per il 2024, gli agenti penitenziari hanno dovuto gestire 5.532 atti di aggressione, 12.544 casi di autolesionismo, 14.509 emergenze con ricovero ospedaliero, 1.436 proteste collettive, 12.706 proteste individuali, 2.035 tentativi di suicidio e 2.098 aggressioni fisiche nei loro confronti. Il bilancio più tragico del 2024 riguarda i decessi: 246 morti tra i detenuti, di cui 89 suicidi - il numero più alto mai registrato - e 7 suicidi tra gli stessi agenti della polizia penitenziaria. Carenze di personale - L’associazione “Nessuno Tocchi Caino” sottolinea come queste condizioni di lavoro “umilianti” degli agenti siano il riflesso di un sistema carcerario dove la condizione della popolazione detenuta è essa stessa “disumana, degradata e degradante”. Le norme in vigore stabiliscono una dotazione di 37.389 agenti per i 189 istituti penitenziari italiani, ma al 31 dicembre 2024, le unità effettivamente assegnate erano solo 31.091. Questa carenza, evidenza Nessuno Tocchi Caino, “si traduce in un rapporto medio nazionale di 1 agente per 1,99 detenuti, ben al di sotto del rapporto ottimale di 1 agente per 1,62 detenuti stabilito. La situazione è ulteriormente aggravata da disparità regionali: ad esempio, nella Casa Circondariale di Rieti, il rapporto è di un agente per 3,80 detenuti, mentre a Regina Coeli a Roma si arriva a un agente ogni 3,03 detenuti. All’estremo opposto, strutture come quella di Sciacca presentano un rapporto di un agente ogni 0,49 detenuti.” Ripensare il carcere - Nessuno Tocchi Caino sottolinea come sia “necessario ripensare completamente l’approccio all’esecuzione penale, considerando il carcere come extrema ratio e potenziando le pene e le misure alternative. In questa prospettiva, occorrerebbe riparametrare tutti gli organici delle figure professionali che operano nelle carceri. La situazione attuale è ulteriormente aggravata dal sovraffollamento strutturale degli istituti e da un’impostazione sempre più orientata alla sicurezza, che rischia di compromettere gli obiettivi di reinserimento sociale dei detenuti.” Inoltre a fronte di una pianta organica che prevede 1.001 educatori per i 189 istituti penitenziari italiani, al 31 dicembre 2024 solo 983 erano effettivamente in servizio. La media nazionale, già di per sé critica, è di un educatore per 63 detenuti. Ma con sempre la disomogeneità nella distribuzione. In istituti come Regina Coeli a Roma, Verona e Bergamo, ogni educatore deve occuparsi di circa 150 detenuti, “un compito al limite dell’impossibile.” Al contrario, realtà come Sciacca, con un rapporto di 1 educatore per 11 detenuti, rappresentano “eccezioni rare e non significative rispetto al quadro generale. Sovraffollamento - A oggi le persone detenute nelle carceri italiane sono 61.852, mentre i posti regolarmente disponibili ammontano a 46.839 rispetto alla capienza regolamentare di 51.312 (Divario - 4.473 posti). Da un ulteriore approfondimento si evince che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni detentive (come per esempio CC di Milano San Vittore, ove l’indice di sovraffollamento si attesta al 218,3% ed è l’Istituto che sui 190 detiene da tempo il massimo primato). A livello nazionale la criticità sovraesposta determina un indice di sovraffollamento del 132,05%. Sono 148 (pari al 77,90 %) gli Istituti con un indice di affollamento superiore al consentito e in 59 (31,05%) Istituti risulta pari e superiore al 150%. Regioni quali la Puglia (171,09%), Lombardia (151,21%), Veneto (150,22), Basilicata (145,21%), Lazio (146,01%), Molise (143,41), mostrano un preoccupante indice di sovraffollamento, in buona parte determinato dal divario in negativo tra capienza regolamentare e posti regolarmente disponibili. Rita Bernardini: “Nelle carceri la situazione è disastrosa e a rischio peggioramento” di Barbara Roffi tuttieuropaventitrenta.eu, 20 gennaio 2025 Sovraffollamento e “liberi sospesi”. Se negli ultimi tempi il sovraffollamento nelle carceri italiane ha raggiunto già il 133% della sua capacità a livello nazionale - con percentuali superiori al 200% in alcune carceri come a Milano, a Brescia, a Lucca e a Foggia - la situazione rischia ancora di peggiorare a causa dei più di centomila cosiddetti “liberi sospesi” cioè individui condannati, ad una pena inferiore a 4 anni, che aspettano la decisione di un magistrato di sorveglianza se mandarli in carcere o dargli una qualunque altra misura alternativa. “L’attesa per queste persone può durare anche diversi anni - ci dice Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino - con un impatto immaginabile sulla vita di queste persone, ma se per ipotesi anche solo il 40% di queste persone dovesse finire in carcere la situazione esploderebbe e rischierebbe di succedere un finimondo”. I dati del sovraffollamento secondo il Ministero della Giustizia indicano che la capienza regolamentare sarebbe di 51.312 posti a cui vanno sottratti 4.475 posti inagibili, a fronte di una popolazione carceraria di 61.861 persone al 31/12/2024. Ma secondo Rita Bernardini - ex parlamentare radicale ed ex vicedirettrice di Radio Radicale - occorre sottrarre dalla capacità ricettiva 4.474 posti che sono inagibili e quindi inutilizzabili. Quello del sovraffollamento non è certo l’unico problema ma la situazione è in gran parte dovuta allo Stato che per primo non rispetta le proprie leggi. Uscire dalla visione carcerocentrica - “Per esempio, nella nostra Costituzione, scritta da persone che in molti casi hanno vissuto il carcere in prima persona, la parola carcere non compare mai in nessun articolo, mentre si parla invece solo di pene - prosegue Bernardini - e di pene ce ne possono essere molte e diverse fra loro; malgrado questo la mentalità resta prevalentemente carcerocentrica con le conseguenze che sono sotto gli occhi tutti”. L’articolo 27 infatti dice tra l’altro che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, mentre le condizioni di vita dei carcerati è spesso disumana e degradante, come la nostra associazione - attiva da più di 30 anni - denuncia regolarmente dopo le visite effettuate negli istituti di pena in tutta Italia”. Secondo Rita Bernardini le pene che potrebbero essere declinate in vario modo di fatto sono poco praticate anche per l’assenza di tutto il personale che dovrebbe occuparsi di metterle in atto. Carenza del personale penitenziario - La carenza del personale è severissima per ogni professione necessaria per un corretto funzionamento del carcere, a partire dai magistrati di sorveglianza di cui ne servirebbero mille in più, gli educatori, gli assistenti sociali che avrebbero un ruolo cruciale nell’organizzazione delle attività ‘trattamentali’ e si dovrebbero occupare del reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale, fino ad arrivare alla carenza degli agenti penitenziari di cui Bernardini stima attualmente un deficit di 6.298 unità. Il caso degli agenti è particolarmente inquietante anche a fronte del numero dei suicidi nelle loro stesse fila, spesso compiuti con la pistola di ordinanza “perché gli agenti sono l’unica figura professionale che sta a diretto contatto con il detenuto - prosegue Bernardini - e tutta l’attenzione di una persona ristretta nella propria libertà, che per fare qualsiasi cosa deve chiedere, da una informazione, una preoccupazione per un famigliare, una telefonata e a volte anche una doccia, si rivolge sempre per primi agli agenti”. I suicidi in carcere - Per cercare di capire invece le ragioni dell’elevato numero di suicidi tra i detenuti, Bernardini dice: “bisogna partire da una domanda, chi c’è in carcere? Che tipologia di persone troviamo in carcere? Troviamo innanzitutto persone che hanno problemi di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti, tossicodipendenti per intenderci, i casi psichiatrici, molti poveri nel senso di gente che vive il degrado della povertà, come i senza tetto o senza fissa dimora, e poi gli stranieri, quelli soprattutto che non hanno il permesso di soggiorno, che sono degli invisibili, che spesso commettono reati perché nessuno gli dà un lavoro”. La combinazione tra sovraffollamento, emarginazione sociale e carenza degli organici sono secondo Bernardini le tre ragioni principali dell’alto tasso di suicidi in carcere. Il carcere e la droga - Alcuni casi di buona gestione esistono per esempio Villa Maraini a Roma che segue circa 700/800 tossicodipendenti al giorno “una struttura non pubblica che fa un lavoro immenso e che ha pochi finanziamenti pubblici ma dovrebbe averne molti di più perché non aspetta che le persone problematiche arrivino, ma le va a cercare indicando loro una possibilità di scelta alternativa”. “l loro ruolo è molto importante anche in termini di prevenzione, così come dovrebbero esserci più psicologi o psichiatri, perché quando si innesca un percorso di gestione quotidiana problematica poi è molto difficile tornare indietro, mentre il carcere resta comunque una grande piazza di spaccio di stupefacenti, di tutti i tipi e questo grava molto sulla sicurezza sia dentro ma anche fuori dal carcere”. Uscire dalla situazione di illegalità - In assenza di tutto questo bisognerebbe prendere altri provvedimenti come fu fatto per esempio a seguito di un fortissimo monito dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che aveva recepito molti dei suggerimenti di Marco Pannella, in un messaggio alle Camere in cui scrisse a chiare lettere che è obbligo delle istituzioni, nel momento in cui c’è uno stato strutturale di illegalità nell’esecuzione penale, uscire immediatamente da questa situazione. Il messaggio alle Camere di Napolitano fu successivo alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei Diritti dell’Uomo - continua Bernardini - che condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti legati soprattutto al sovraffollamento, e anche se non ci fu indulto o amnistia, nel 2014 ci fu la “liberazione anticipata speciale” che consentì di liberare circa 6000 detenuti meritevoli, aiutando ad alleggerire il sovraffollamento. Ma da allora non è più stato fatto niente e dall’inizio di questa legislatura la popolazione carceraria è aumentata di più di 5000 unità e la nostra associazione, con un’iniziativa dell’on. Roberto Giachetti, ha riproposto di aumentare, per un periodo di anni limitato, il numero dei giorni di sconto della pena, da 45 a 75 giorni, a cui ogni detenuto ha diritto ogni sei mesi di buona condotta. Politica militante - Secondo Bernardini infatti la costruzione di nuove carceri prenderebbe molti anni e nel frattempo non contribuirebbe in nessun modo ad uscire da questa situazione di illegalità. “La nostra è sempre stata una politica militante, noi cerchiamo di cambiare le leggi le impostazioni politiche e cerchiamo di risolvere i problemi in modo concreto” conclude Rita Bernardini ricordando che Nessuno tocchi Caino si occupa dell’abolizione della pena di morte nel mondo, e che il nome stesso dell’associazione, tratto dal libro della Genesi della Bibbia “ci spinge a batterci per una giustizia senza vendetta”. Salute mentale in carcere, storie fragili e spiragli di luce di Rebecca De Fiore sentichiparla.it, 20 gennaio 2025 “Patologie quali quelle legate alla dipendenza da sostanze stupefacenti, il disagio mentale, le malattie cardiovascolari e infettive sono molto più frequenti nella popolazione detenuta che non nella popolazione generale e la percentuale di suicidi in carcere risulta essere tra le 9 e le 20 volte maggiore coinvolgendo sia le persone detenute che il personale che opera nel carcere”. Scriveva così, a ottobre del 2022, sulle pagine di Forward, supplemento di Recenti Progressi in Medicina, Sandro Libianchi, Presidente del Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane. Un problema, quello della salute in carcere, che invece che essere affrontato e risolto sembra aumentare. Soprattutto per quanto riguarda la salute mentale: in carcere la presenza di un diffuso disagio psichico rimane una delle problematiche più spesso segnalata anche all’Osservatorio Antigone, Associazione che ogni anno redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia. Secondo l’ultimo rapporto, uscito a inizio di quest’anno, il 12 per cento delle persone detenute (quasi 6.000 persone) ha una diagnosi psichiatrica grave, rispetto al 10 per cento dello scorso anno. Salute mentale in carcere, curare dentro o fuori? “La percezione diffusa tra gli operatori è che le patologie psichiche tra la popolazione detenuta siano in continuo ed esponenziale aumento e che gli strumenti e le risorse a disposizione per trattarla siano sempre più scarse e inadeguate”, si legge nel rapporto. “Se agli operatori il problema appare chiarissimo, la reazione diffusa del decisore politico è quella di vedere la causa principale di questo diffuso disagio nella chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che hanno smesso di esistere per legge nel 2014 e per davvero nel 2017. Gli Opg erano infatti l’istituzione di scarico a cui inviare le persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione”. Con la chiusura degli Opg sono state costituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture a gestione sanitaria destinate a ospitare autori di reato giudicati incapaci di intendere e di volere e perciò prosciolti (anche in questo caso, per approfondire, rimandiamo al rapporto Antigone Salute mentale e Rems). I problemi non sono certamente legati alla chiusura degli Opg, ma, come sottolineano anche gli autori del libro “Advocacy per la salute mentale”, edito dal Pensiero Scientifico Editore, le Rems non li hanno risolti: “Purtroppo non tutti, compresa parte degli addetti ai lavori, hanno chiaro che le Rems non hanno sostituito gli Opg che, al contrario, sono stati sostituiti da un insieme di interventi messi in atto dai Dipartimenti di salute mentale attraverso la predisposizione di un piano terapeutico riabilitativo che può anche (ma non necessariamente) prevedere il ricovero in Rems. Purtroppo non tutta la magistratura ha chiaro che il malato di mente può certamente essere pericoloso, ma la sua pericolosità dipende da molteplici fattori e anche la sua pericolosità può essere gestita”. Un’alternativa è che la patologia psichica venga curata e seguita all’interno del carcere. Per farlo nel modo corretto, però, bisognerebbe investire in spazi, professionalità e risorse. Ma non è così. Ad oggi, gli spazi interni per il trattamento delle patologie psichiatriche, soprattutto nella fase più acuta, sono chiamate Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm). In Italia sono 32, collocate in 17 istituti penitenziari, uno per regione. Hanno posto per meno di 300 detenuti in totale, le più grandi sono a Barcellona Pozzo di Gotto (50 persone) e Reggio Emilia (43 persone). “Le Atsm affrontano solo una piccola parte del problema, ma non fotografano affatto il disagio mentale diffuso nelle altre sezioni detentive, né l’evidente tendenza alla psichiatrizzazione degli spazi detentivi”, chiarisce ancora il rapporto Antigone. “Perché il disagio psichico, evidentemente, non vive nelle sole Atsm, ma in tutte le sezioni detentive. E qui il principale strumento di governo della salute mentale diventa il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzate con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di sedazione collettiva e pacificazione delle sezioni”. Altro tema importante è quello dei suicidi in carcere. Il dato relativo al 2024 è particolarmente allarmante: tra inizio gennaio e metà aprile sono stati 30 i suicidi accertati. Uno ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022 - l’anno record - a metà aprile se ne contavano 20. Se il ritmo dovesse continuare in questo modo, a fine anno rischieremmo di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio. Insomma, come scrive Grazia Zuffa, psicologa e bioeticista, su ilPunto, “le persone che entrano in carcere hanno maggiori problematiche psicologiche e psichiatriche rispetto alla popolazione generale: rappresentano perciò un gruppo ad alta vulnerabilità psicosociale. E insieme, sono costrette in un ambiente, la prigione, che come scrive il Comitato nazionale di bioetica, produce sofferenza e malattia. Dunque, in nessun altro luogo vale la raccomandazione di considerare l’assistenza psichiatrica come una parte dell’azione più vasta di tutela della salute mentale. Accanto a validi servizi psichiatrici, è necessario predisporre una robusta strategia in chiave preventiva, di intervento sul contesto, che cerchi di contenere la produzione di sofferenza e malattia del carcere”. Lo Spiraglio va in carcere, con il Premio Luciano De Feo - Anche per tutti questi motivi, Lo Spiraglio Filmfestival ha scelto come grande tema di quest’anno quello della salute mentale nelle carceri. Lo Spiraglio - diretto da Federico Russo per la parte scientifica e da Franco Montini per quella artistica, e organizzato da Roma Capitale e dal Dipartimento di salute mentale della Asl Roma 1 - si è confermato ancora una volta come appuntamento immancabile per capire, pensare e conoscere a fondo il mondo della salute mentale. In anteprima assoluta la settimana prima dell’inizio del festival - che si è tenuto dall’11 al 14 aprile al MAXXI - sono stati proiettati alcuni film in concorso nel carcere di Regina Coeli. “Quest’anno abbiamo deciso di fare un’anteprima assoluta del Festival al Regina Coeli per diversi motivi: innanzitutto perché il Premio Luciano De Feo è stato assegnato a un documentario girato all’interno di un carcere, quello di Rebibbia a Roma”, ci racconta Federico Russo, direttore scientifico dello Spiraglio. “Poi perché l’istituzione carceraria è l’istituzione totale per eccellenza, un luogo pensato come luogo di pena e non di rieducazione. Quindi un luogo in cui ci si chiude e abbiamo pensato che lo Spiraglio potesse portare luce qui dentro”. Il Premio Luciano De Feo, di cui parla Federico Russo, è la novità più rilevante del Festival di quest’anno. Luciano De Feo, avvocato romano, e? stato un grande appassionato di cinema e in particolare del suo ruolo educativo. Direttore dell’Istituto Nazionale LUCE e, successivamente, dell’Istituto Internazionale del Cinema Educativo ICE, Luciano De Feo nel 1930 e? tra i fondatori della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Come ha raccontato Fiamma Lussana nel corso di una chiacchierata con Luca De Fiore, nipote di De Feo e attuale direttore de Il Pensiero Scientifico Editore, “la Mostra del cinema di Venezia nasce dall’incontro di due diverse sensibilità. La prima ispirata da un personaggio molto noto, il Conte Giuseppe Volpi di Misurata, allora Presidente della Biennale. Questa è un’anima di carattere culturale-affaristica perché aveva intenzione di rilanciare il turismo lagunare dopo la crisi del 1929. C’è un’altra anima, però, che ispira la nascita della Mostra, che possiamo definire liberal-pedagogica, ed è quella dell’avvocato romano Luciano De Feo, il cui scopo era proprio quello di valorizzare il cinema come arte universale nazionale e internazionale”. Secondo Luciano De Feo, dunque, il cinema doveva diventare un linguaggio universale, doveva capire e parlare più lingue e mettere in comunicazione tra loro popoli, storie e contesti nazionali anche molto diversi. E sulla scia di questa concezione di comunicazione aperta Luciano De Feo fonda nel 1946 la casa editrice Il Pensiero Scientifico Editore, nata proprio per contrastare la chiusura alla scienza anglosassone imposta dal regime fascista. Un premio, quindi, che più di ogni altro rispecchia l’anima dello Spiraglio: unire cinema e salute. Salvate dai pesci: storie fragili e spiragli di luce - “Mi piacerebbe essere un cagnolino, di quelli piccolini di qualche razza con il pedigree. Non perché li consideri meglio di quelli senza pedigree ma perché il più delle volte vengono viziati tanto. Alcuni hanno addirittura il dog-sitter, fanno la manicure, vanno dal parrucchiere. Una volta ho visto un chihuahua con il collare Louis Vuitton che viaggiava in un trasportino abbinato. Vengono coccolati tantissimo, dev’essere piacevole essere un chihuahua con padroni ricchi. […] Quando sono arrivata a Rebibbia ho pensato “Beh, dai, mi riposo qualche giorno, lontano dallo stress del mondo, poi l’avvocato mi fa uscire”. Potrei anche essere io un chihuahua pensavo, mi arrivava la colazione in cella, la mattina, quando ero ancora in isolamento. Passavano a chiedere cosa volevi e potevi scegliere. Prendevo il caffè americano, senza latte. Poi doccia, mi truccavo e tornavo a letto. Dicevo: “Ma che ci torno a fare a casa, qui mi portano la colazione!”. Ovvio che volevo tornare a casa, ma era una sensazione diversa, il poter stare per un po’ senza pensieri e accudita…” - Francesca. “Salvate dai pesci”, il documentario (che è anche un libro) vincitore della prima edizione del Premio Luciano De Feo, racconta il laboratorio realizzato dall’Associazione Ri-Scatti nella sezione femminile della Casa Circondariale di Rebibbia dal 13 ottobre del 2022 al 23 febbraio del 2023. L’associazione, nata nel 2013, sviluppa progetti creativi - fotografici, teatrali, laboratori di scrittura - per promuovere l’integrazione sociale e dare un’opportunità di riscatto a chi soffre o a chi nella vita è rimasto indietro. “Ogni anno viene identificata una categoria fragile e gli vengono forniti gli strumenti per raccontarsi”, ci racconta Stefano Corso, presidente dell’Associazione. “Negli anni abbiamo coinvolto persone che soffrivano di disturbi del comportamento alimentare, senza fissa dimora, migranti, bambini con una patologia oncologica, adolescenti vittime di bullismo. Nel 2021 a Milano avevamo già fatto un laboratorio nelle carceri, dando la possibilità sia ai detenuti sia agli agenti di polizia penitenziaria di raccontarsi attraverso la macchina fotografica. Qualche anno dopo siamo voluti entrare in un carcere di Roma”. L’obiettivo iniziale era quello di condurre le donne a raccontare la propria storia in modo fiabesco, così che potessero raccontare la loro vita e la loro esperienza ai propri figli per provare a spiegargli il perché della loro assenza e la realtà carceraria. Con il passare del tempo, però, ci si è resi conto di come scrivere storie personali fosse difficile e doloroso. Il laboratorio è diventato così uno spazio aperto in cui parlare di sé, dei propri sogni, delle proprie speranze. Da questa esperienza è nato un libro “Salvate dai pesci. Racconti delle detenute di Rebibbia”, curato da Mario Corso ed edito da Castelvecchi, che raccoglie storie di nomi, di oggetti, di luoghi, di ricordi, desideri e rimpianti. Storie fragili che lasciano però uno spiraglio di luce. Oltre le sbarre: la rivoluzione terapeutica nelle Rems di Cinzia Scopano laquilablog.it, 20 gennaio 2025 In un mondo che spesso dimentica i margini, le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) si presentano come avamposti di un nuovo pensiero terapeutico, dove la cura psichiatrica tenta di liberarsi dai lacci delle vecchie concezioni. La sfida è immensa: trasformare l’istituzione da luogo di confino a spazio di cura, un cambiamento radicale che interroga le fondamenta stesse della nostra percezione della malattia mentale e della criminalità. Ne parliamo con il dott. Vittorio Sconci, psichiatra. Quali sono le principali difficoltà che le REMS incontrano nel garantire un trattamento efficace ai detenuti? Ritiene che le risorse attualmente disponibili, sia umane che strutturali, siano adeguate a sostenere i percorsi di riabilitazione o ci sono carenze significative che ostacolano il processo? Le REMS, nate per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, pagano il prezzo di una Psichiatria ancora condizionata da vecchi pregiudizi. Soprattutto, sono influenzate da spinte ideologiche distanti da un corretto principio di realtà, che condannano i pazienti a interventi spesso grossolani e, talvolta, anche nel lessico quotidiano, lontani da un corretto inquadramento scientifico. Un destino che riguarda anche i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura Ospedalieri, condannati alla coesistenza in uno stesso luogo di patologie che dovrebbero essere distinte per i necessari approcci terapeutici diversificati, sia nei contesti di intervento sia nei tempi di sviluppo dei percorsi riabilitativi. Mi riferisco alla commistione tra pazienti psichiatrici e le persone affette da tossicodipendenza obbligate a convivere in strutture ospedaliere e territoriali che non rispondono alla necessità dei trattamenti necessari per le singole patologie. Si tratta, a mio giudizio, della riproposizione “moderna” degli asili e dei ghetti dove il malato mentale non aveva diritto alla cura e subiva l’emarginazione sociale insieme alle altre categorie deboli rappresentate, allora, da poveri, handicappati e storpi. La nuova marginalità si confonde ancora con la malattia mentale tanto da impedire la soggettività delle cure e la specificità dei trattamenti. Inoltre così si ritarda la necessità di una rivisitazione dell’organizzazione dei Sert (servizi per le tossicodipendenze) che, permanendo prevalentemente territoriale, non rappresenta altro che il prodotto della convinzione ormai negletta che la tossicodipendenza sia la conseguenza delle contraddizioni sociali e pertanto non omologabile ad una malattia e, tanto meno, alla patologia psichiatrica. Tutti noi ricordiamo che la prevalenza ideologica di questa convinzione fece si che i primi Sert fossero istituiti all’interno dei Comuni: un’ulteriore prova di quanto le esasperazioni ‘politiche’ portino a risultati opposti alle intenzioni iniziali facendone pagare il prezzo a chi dovrebbe soltanto essere curato. Sarebbe il caso quindi di ridefinire la pericolosità sociale, cioè il motivo del ricovero in una REMS, in base alla malattia che l’ha determinata ed alla possibilità di poterla curare in maniera specifica in luoghi appropriati restituendo così alla struttura una configurazione soltanto sanitaria ed assolutamente non detentiva. Quanto è importante il supporto psicologico nel percorso di recupero dei detenuti? Crede che il trattamento psicologico nelle REM sia sufficiente per affrontare i traumi e le problematiche comportamentali dei detenuti, o servirebbero interventi più specifici e mirati? L’intervento psicologico, unitamente a quello psicofarmacologico e riabilitativo, è fondamentale per il recupero dei pazienti con patologie mentali, essendo cruciale la sua corretta collocazione temporale e spaziale nel percorso terapeutico. In tutte le fasi del trattamento, sia esso ospedaliero, territoriale o all’interno di una struttura riabilitativa come la REMS, è bene attenersi alle indicazioni delle principali Linee guida internazionali nelle quali sono specificati i momenti e le modalità dei singoli interventi tra i quali quelli psicologici assumono una grande rilevanza. Per l’organizzazione della REMS, è essenziale valorizzare il legame con il territorio e le sue risorse relazionali, trasformando la struttura in un ambiente aperto dove la terapia si fonde con la progressiva acquisizione della libertà. Un efficace intervento terapeutico-riabilitativo riduce significativamente, fino a eliminarla, la pericolosità sociale, rendendo superflue le misure detentive e i controlli oppressivi. Molto diverso dovrebbe essere invece il controllo iniziale delle tossicodipendenze che dovrebbe avvenire in luoghi molto controllati per superare almeno le fasi iniziali dell’astinenza per poi intraprendere una fase riabilitativa e, soprattutto, psicologica di lunga durata, certamente maggiore rispetto a quella riservata ai malati mentali, da attuare prevalentemente in strutture comunitarie. Di fronte a una ‘doppia diagnosi’, è cruciale trattare entrambe le patologie contemporaneamente, in un contesto differente dalla REMS, anticipando periodi di recupero estesi, paragonabili a quelli per la tossicodipendenza. Quali strategie potrebbero facilitare il reinserimento sociale dei detenuti una volta terminata la pena? Dal suo punto di vista, quali politiche o programmi dovrebbero essere implementati per preparare meglio i detenuti al ritorno nella società, sia dal punto di vista lavorativo che relazionale? Il reinserimento sociale degli ospiti della REMS si equipara a quello dei pazienti dei servizi territoriali, essendo la pericolosità sociale generalmente conseguenza di un mancato ricorso alla cura. Controllando l’assunzione costante della terapia psicofarmacologica e avviando l’intervento psicoriabilitativo, si eliminano i motivi del comportamento criminoso. Questo permette di iniziare un percorso di recupero che, superando gli atteggiamenti disfunzionali, facilita il reinserimento sociale e riduce lo stigma associato sia alla malattia mentale che alla precedente condizione detentiva. Pertanto, la detenzione non indica necessariamente una grave psicopatologia, ma spesso riflette soltanto la mancata assunzione delle terapie, potendo così segnare l’avvio di un trattamento appropriato. Questo è particolarmente evidente quando il reato commesso emerge come primo segnale della malattia mentale. Invece, la cura e la prognosi del tossicodipendente richiedono un approccio di lungo termine e intensivo. Come può la società essere sensibilizzata per accogliere meglio gli ex-detenuti? Il pregiudizio e la mancanza di fiducia verso chi ha scontato una pena rappresentano un ostacolo. Quali campagne o azioni concrete potrebbero favorire un cambiamento culturale in questa direzione? Il reinserimento degli ospiti della REMS, simile a quello dei malati mentali non detenuti, dipende essenzialmente dalla qualità delle cure ricevute. È mostruoso stigmatizzare un comportamento criminoso che deriva da uno scompenso psicologico, essendo quindi sintomo di una malattia. L’ospite di una REMS non è né un criminale né un detenuto, ma un paziente che necessita di cure appropriate. L’efficacia della cura determina il futuro e il reinserimento sociale del paziente. I motivi che hanno portato al superamento degli ospedali psichiatrici riflettono la volontà di restituire dignità e diritti a persone che per secoli sono state marginalizzate. Credo fermamente che il rispetto reciproco debba essere il fondamento delle relazioni umane, per tutti, in particolare per chi dispone di minor potere contrattuale. Qual è il ruolo della formazione professionale nei percorsi di riabilitazione? Crede che l’attuale offerta di corsi di formazione nelle REM sia sufficiente per dare ai detenuti strumenti concreti per costruire una nuova vita fuori dal carcere? Quali miglioramenti suggerirebbe? Le REMS sono dotate di personale abbondante e altamente motivato, essenziale per attività che richiedono passione ed entusiasmo. Il problema urgente da affrontare è la commistione innaturale tra quelle che definisco ‘le nuove marginalità sociali’. Questo ritorno al passato, non previsto dal legislatore, è il risultato della prevalenza delle posizioni ideologiche rispetto al rigore scientifico, che dovrebbe guidare ogni intervento medico e psicologico. È necessario un lavoro continuo e un’urgente revisione del concetto di ‘pericolosità sociale’. Tale revisione dovrebbe enfatizzare l’importanza di interventi e terapie che contraddicano la credenza nell’incurabilità della malattia mentale, promuovendo una metodologia scientifica condivisa che mantenga sempre al centro il rispetto per l’individuo. ***** L’orizzonte delle REMS non è soltanto una promessa di miglioramento infrastrutturale o di incremento delle risorse; è un invito a ripensare radicalmente il significato di cura e reintegrazione. In queste nuove prassi si nasconde la potenzialità di riscrivere storie di vita troppo spesso segnate solo dalla marginalità, offrendo non solo una seconda chance ma un nuovo inizio, fondato sul rispetto profondo dell’essere umano e sulla fiducia nelle sue possibilità di riscatto e di crescita. Dopo i pestaggi, le promozioni: chi protegge gli agenti violenti nelle carceri di Nello Trocchia Il Domani, 20 gennaio 2025 Lo scudo per le forze dell’ordine voluto da Delmastro esiste già. La sospensione dal servizio di poliziotti indagati risponde a logiche discrezionali: non esiste un criterio univoco. Ancora al lavoro i registi del pestaggio di Santa Maria Capua Vetere e la dirigente accusata dai pm di tortura. Chi era al comando durante il pestaggio di stato avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, è tornato in servizio. Intanto prosegue il processo a loro carico per decine di capi di imputazione a partire da quello più grave: tortura. E di tortura rispondono anche altri agenti, comandanti, ispettori, vice, che sono tornati in carcere a svolgere il proprio lavoro. Mentre il Governo propone uno scudo per gli agenti, in modo da evitare l’iscrizione automatica nel registro degli indagati di chi appartiene alle forze dell’ordine, nel sistema carcere questo “scudo” già c’è e si chiama Andrea Delmastro Delle Vedove. Il sottosegretario alla Giustizia è in attesa di incassare la nomina di una sua fedelissima a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Lina Di Domenico. Una nomina che ha generato non pochi malumori. In fondo era stato proprio Delmastro, poche settimane dopo i fatti di Santa Maria, a proporre un encomio solenne per i poliziotti penitenziari coinvolti. “Le sospensioni sono materia del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma non possono essere così discrezionali perché negli ultimi tempi sembrano condizionate anche dal peso sindacale di chi è coinvolto. Ci sono agenti indagati per tortura che lavorano, alcuni neanche sospesi, e altri indagati per traffico d’influenze che hanno dovuto subire mesi di purgatorio, è normale? Mi chiedo giuridicamente come si spiegano questi due pesi e due misure, la confusione aumenta la sfiducia tra i vertici e i sottoposti”, dice il sindacalista Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.p.p (sindacato polizia penitenziaria). L’amore dei sindacati - Le indagini per tortura non significano, in alcun modo, responsabilità accertate, ma raccontano in maniera evidente come le sospensioni rispondano a logiche discrezionali, siano di fatto dei regolatori di conflitti per evitare uno scollamento definitivo tra i vertici e i sottoposti. Il tutto in un contesto nel quale alcuni sindacati sono vicini al governo, a volte troppo vicini. “Noi Delmastro lo amiamo e lo seguiamo”, diceva a Domani il sindacalista Raffaele Tuttolomondo, agente penitenziario, segretario di un sindacato con cinquemila iscritti, il Sinappe, ma anche chef e organizzatore di eventi culinari. C’è chi non solo applaude il governo, ma ha deciso proprio di lavorarci, per portare l’esperienza del sindacato di appartenenza. Se Tuttolomondo tifa e sponsorizza Delmastro, Antonio Fellone, segretario aggiunto del Sinappe, è diventato capo del dipartimento carceri e penitenziaria della Lega. Oltre all’attività sindacale svolge il compito di assistente capo coordinatore della penitenziaria nel carcere di Brescia, ma da due anni ormai segue come un’ombra Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia in quota Carroccio. Il sindacato è in costante crescita tra gli agenti. Dall’Albania a Foggia -Proprio il Sinappe, in una recente riunione al Dap, si è prodigato per chiedere un ulteriore incentivo per gli agenti impegnati in missioni internazionali. Al momento gli unici poliziotti penitenziari sono quelli di stanza in Albania, in realtà già destinatari di uno stipendio più alto e, non per colpa loro, da mesi pagati per guardare una struttura vuota (anche i randagi di cui si occupavano ora non ci sono più). Sempre del Sinappe è Annalisa Santacroce, segretaria generale del sindacato. Non ha voglia di parlarci e di chiarire. Volevamo chiederle di quanto emerso lo scorso marzo quando è finita ai domiciliari coinvolta in una storiaccia di presunte torture in carcere e omissioni d’atti d’ufficio. Alla sindacalista viene contestato di aver assistito alle denunciate violenze, avvenute il giorno 11 agosto 2023 nel carcere di Foggia ai danni di due detenuti. Ci sono i video al vaglio dell’autorità giudiziaria. In un fotogramma Santacroce è con un collega all’esterno della cella. “Osservavano inermi quello che i colleghi stavano perpetrando ai danni dei due detenuti. In particolare, emergeva dai video che, in queste fasi le grida diventavano sempre più significative quando, ad un tratto, lasciavano il posto a vere e proprie urla e suppliche di dolore”, si legge negli atti. Quando è stata interrogata ha negato di essersi affacciata nella cella dove era in corso la perquisizione poi sfociata in violenza, una versione che le immagini smentiscono. A settembre è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini. Passata la bufera, Santacroce, che si dichiara totalmente estranea alle contestazioni, è tornata a fare la sindacalista e a rappresentare la penitenziaria. È in servizio nel carcere di Ancona. Da tutto questo emerge un quadro confuso e incerto nell’uso del sistema sanzionatorio che aumenta discrezionalità e allontana la trasparenza. “Fermo restando i casi di sospensione obbligatoria (quelli disposti dall’autorità giudiziaria, ndr) noi valutiamo posizione per posizione (ciascuna delle quali ha la propria specificità) sulla base delle risultanze dei procedimenti atti giudiziari e il criterio generale che seguiamo è la misura in cui il rientro può nuocere al buon andamento dell’amministrazione”, è la risposta del Dap. Una discrezionalità evidente che diventa un elastico piegato alla volontà politica del momento. Il 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, è avvenuto un pestaggio senza precedenti. I video e le testimonianze, pubblicate da questo giornale, hanno raccontato l’orrore di quel giorno, l’accanimento degli agenti, l’indecenza del successivo depistaggio. La gestione del sistema sanzionatorio da parte del ministero della Giustizia è stata criticata da più parti e chiaramente racconta di una confusione e di una discrezionalità evidente. Come ha svelato questo giornale ci sono alcuni imputati, ai quali è contestato anche il reato più grave, quello di tortura, che non sono mai stati sospesi e altri che hanno dovuto subire un lungo purgatorio. Con l’arrivo del nuovo governo delle destre sono tornati definitivamente in servizio tutti i vertici della catena di comando. La responsabilità penale sarà accertata dal processo giudiziario in corso. Mentre il sistema carcere è al collasso, con il ministro Carlo Nordio impegnato a fare la guerra alle toghe, tra suicidi, aggressioni e violenze, qualcosa accade. Il ritorno di agenti, dirigenti, vertici imputati è stato salutato positivamente da alcuni sindacati. Lo scorso luglio Domani aveva dato notizia del ritorno in servizio di Gaetano Manganelli e Anna Rita Costanzo, tra i principali imputati del processo in corso non solo per il pestaggio, ma anche per il depistaggio conseguente. Era proprio Costanzo, nelle chat sequestrate dagli inquirenti, a imbastire la macchinazione. “Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro… In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornellino anche con acqua”, scriveva la commissaria capo responsabile del reparto Nilo, a un collega. Foto che dovevano servire, dopo averle retrodatate, a giustificare l’orrenda mattanza. Costanzo, lo scorso dicembre, è stata anche impegnata in una tavola rotonda organizzata dall’ordine dei giornalisti della Campania e da quello dei medici, il dibattito ruotava attorno alla normativa sulla privacy. È andato a comandare il nucleo traduzioni del carcere di Ancona, invece, Pasquale Colucci. Colucci guidava il gruppo d’intervento che ha fatto irruzione al Francesco Uccella. Al ministero è tornato anche Antonio Fullone, lui aveva ordinato la perquisizione straordinaria ed è il principale imputato del processo in corso a Santa Maria Capua Vetere. Sia Colucci sia Fullone sono tornati dopo una lunga sospensione. Rispondono di decine di capi d’imputazione. Come gli altri sono innocenti fino a sentenza definitiva di condanna. Ma gli uomini comandanti da Colucci, nella perquisizione disposta da Fullone, quel giorno sfregiarono la carta costituzionale e trasformarono la civiltà in barbarie. I video sono lì a provarlo. Giustizia, una riforma già superata di Sergio Locoratolo La Repubblica, 20 gennaio 2025 Tra le grandi riforme che il Governo e la maggioranza di centrodestra stanno proponendo a ritmi serrati (con esiti incerti), questa settimana spiccano quella del gioco del burraco, promossa dal presidente del Senato La Russa, e quella, senz’altro di minor rilievo, della separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Di cui ci occupiamo, occorrendo per il burraco competenze tecnico - scientifiche che meritano un approccio di maggiore valore contenutistico. Dunque, la Camera approva in prima lettura il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere di giudici e pm. Scopo della riforma: limitare il correntismo tra i magistrati, depotenziare la figura del pm, con l’intento di limitarne gli eccessi di potere, fare del pm una controparte vera e propria della difesa, a sostegno della struttura accusatoria del codice del processo penale. E, dunque, sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e delle carriere ma, e qui una prima defaillance, istituzione di un’unica Alta corte disciplinare che giudica entrambi, senza distinzioni. Due di tutto, tranne quando si tratta di sanzionare. Tuttavia, le chicche con finiscono qui. Tratto caratterizzante di questa riforma è l’affidarsi alla “sorte”, sperando che sia buona. I componenti dei due Csm e dell’Alta corte sono infatti “scelti” per sorteggio e non frutto di elezione, sia da parte dei giudici che del Parlamento. Un bel segnale che proviene da un governo che ha sempre violentemente denigrato il principio dell’”uno vale uno” di marca grillina e che, di contro, ha sempre sbandierato l’applicazione del merito come discriminante nella formazione dei cittadini, tanto da dedicare a tale principio un bel ministero. Ma è proprio l’impianto della legge che appare superato. Perché se l’intento era quello di rompere una contiguità tra pm e giudicante e, dunque, evitare in radice che tra i due si potesse stabilire un così stretto rapporto, tale da alterare gli esiti processuali, questa riforma non coglie nel segno. Distinguere le carriere oltre che le funzioni, moltiplicando gli organi di autogoverno nella speranza di indebolire il pm, non è per nulla decisivo. Anzi. Il rischio è proprio quello di rafforzare la figura del pm. Che godrà di una autonomia e di una forza ancora maggiore, ormai corpo separato dagli altri magistrati e non più “unus e multis” come prima. Ed è pia illusione che con la moltiplicazione delle carriere, dei concorsi e delle forme di governo dei magistrati le correnti scompaiano. Anzi, esse si moltiplicheranno e si adegueranno alla mutata realtà. Perché il principio della libertà di organizzazione spontanea della rappresentanza non può essere limitato o ridotto con qualche provvedimento legislativo di buona volontà. Lo si è visto con i partiti. Può cambiare la legge elettorale, può cambiare l’assetto istituzionale, può cambiare l’orientamento delle formazioni politiche ma nei partiti le correnti continuano a moltiplicarsi. Dunque, un tentativo inutile. Ma errata è pure la concezione di partenza. Che immagina il pm come un rappresentante dell’accusa e, pertanto, contrapposto alla difesa nella dialettica processuale. Se il pm è troppo vicino al giudice, si sostiene, tale intima connessione andrà a discapito della difesa. Dimenticando che il pm non è una parte contrapposta all’avvocato ma è un soggetto che deve agire per la ricerca della verità processuale, se non quella oggettiva, in nessuna contrapposizione preconcetta all’indagato. Una parte imparziale, per usare un ossimoro. Inserito in un ruolo separato, con un rapporto con la polizia giudiziaria che si farà ancora più esclusivo e totalizzante, il pm, per paradosso, sarà ancora più autonomo e forte. L’opposto di quanto spera il Governo. Ma l’inutilità di questa riforma si era già palesata da tempo. Difatti, a partire dalla legge Castelli del 2006 e fino alla legge Cartabia del 2022 la possibilità di passare dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa, è già stata fortemente limitata, tanto da renderla di fatto inesistente. Oggi tale passaggio è possibile una sola volta nei primi dieci anni. Di fatto, le carriere separate già esistono. Il tema vero è che l’unicità delle carriere affonda la sua motivazione essenziale nella necessità che i pm e i giudici si formino, maturino e sviluppino le proprie competenze nell’ambito di un patrimonio culturale comune. L’unità della giurisdizione rimane essenziale e vive nella condivisione di principi comuni, nel confronto continuo, nello scambio di esperienze diverse pur nella comunanza di intenti. Di tutt’altro ci sarebbe bisogno qui e ora. La massacrante lotta contro la criminalità, come denunciato nelle scorse ore dal procuratore di Napoli Nicola Gratteri, richiederebbe più giudici, più pm, più mezzi, più risorse. Invece, ci si trastulla sfornando riforme già superate dalla realtà, come la divisione delle carriere, o che quella realtà superano, sconfinando nell’onirismo. Come il burraco. Giustizia, la protesta delle toghe: fuori dall’aula quando parla Nordio di Federica Pozzi Il Messaggero, 20 gennaio 2025 L’Associazione nazionale magistrati continua la sua battaglia contro la separazione delle carriere, la riforma tanto voluta dal centrodestra che ha avuto il primo via libera alla Camera lo scorso giovedì. Diversi gli atti di protesta annunciati che saranno messi in pratica a stretto giro. A iniziare dalle cerimonie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, durante le quali i magistrati usciranno dall’aula quando prenderà la parola il ministro Carlo Nordio o un suo delegato. Non solo: si riuniranno all’esterno, prima dell’inizio della cerimonia, per mostrare dei cartelli con una serie di frasi tratte da un testo significativo sul valore della Costituzione. Quale sarà questo testo verrà deciso nei prossimi giorni. I giudici hanno poi annunciato per il prossimo 27 febbraio anche una giornata di sciopero. Le varie iniziative di protesta sono state decise dal Consiglio direttivo centrale dell’Anm, l’ultimo a guida Giuseppe Santalucia, che si è riunito a Roma. La premessa delle toghe è che non c’è nessun “ribellismo” ma il “dovere” di spiegare il “no” alla separazione delle carriere. “Non amo la parola protesta - ha precisato Santalucia - preferisco la parola proposta. Ma ahimè qui proposte di emendamento che rendano il testo costituzionalmente digeribile non ce ne sono. È un testo che andrebbe totalmente eliminato”. “Non c’è nessuna forma di ribellismo illegale o istituzionalmente incompatibile - ha spiegato il presidente -, ma si tratta di rendere palese ai cittadini, e il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è un giorno importantissimo, le ragioni per cui riteniamo che il disegno costituzionale non vada nel segno di un miglioramento della giustizia e del rafforzamento delle garanzie d’indipendenza e autonomia”. “I magistrati - ha aggiunto - hanno il dovere di dirlo”. E poi ha ribadito: “Siamo assolutamente fedeli alla Repubblica”. Il presidente dell’Anm ha parlato di una “blindatura del testo” che “ci ha profondamente colpiti, ci amareggia” perché “modifica il Titolo IV della Costituzione”. Quindi occhi puntati sul referendum, così che “i cittadini vengano informati nel miglior modo possibile e non vengano ingannati con un referendum sul gradimento del sistema giustizia”. “Spiegheremo in tutte le sedi possibili - ha dichiarato - le ragioni della contrarietà, che nulla hanno a che vedere con gli interessi corporativi”. Secondo Santalucia si tratta di una riforma che “non migliorerà la giustizia ma la affosserà. Il prezzo finale, in termini dolorosi, sarà pagato dalla cittadinanza”. Il presidente uscente dell’Anm è convinto che “la politica” voglia “piantare la bandierina della separazione delle carriere per chiudere vittoriosamente una partita che invece doveva mettersi alle spalle”. A puntare il dito contro la separazione delle carriere anche il segretario generale dell’Associazione, Salvatore Casciaro, convinto che la riforma “tutela più i potenti dei cittadini perché inevitabilmente attrarrà il pubblico ministero nell’orbita dell’esecutivo, con un controllo della politica sul pm”. Un controllo “fatale” che, secondo il segretario, determinerà che “alcune indagini scomode non verranno mai sottoposte a quel giudice terzo, imparziale che i riformatori sostengono di voler potenziare”. E lo scontro con la politica si riaccende. “Quella di oggi è solo l’ultima delle innumerevoli levate di scudi dell’Anm, che terrorizza sistematicamente l’opinione pubblica contro le scelte del Parlamento”, ha tuonato Enrico Costa, deputato di Forza Italia che ha parlato di “un film già visto tante volte” e di “correnti dell’Anm che si scagliano contro le decisioni del Parlamento per difendere gli interessi corporativi e per non perdere il potere accumulato negli anni”. Gli ha fatto eco il presidente dei senatori di FI, Maurizio Gasparri, che ha giudicato la decisione di abbandonare la cerimonia dell’anno giudiziario “una scelta autenticamente eversiva. Chi assume decisioni del genere andrebbe estromesso dall’ordine giudiziario per indegnità”. Separazione delle carriere, l’unità dei magistrati sullo sciopero. I dubbi tra i moderati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 gennaio 2025 I 5 astenuti contro la protesta al via dell’anno giudiziario. Cinque astensioni a fronte di ventotto voti a favore e nessuno contrario non sono il segno di divisioni o spaccature, anzi. La protesta varata dal comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati contro la riforma costituzionale che ha ricevuto il primo sì in Parlamento ribadisce che le toghe di ogni tendenza politica e culturale sono compatte nell’opporsi alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Le astensioni a titolo personale di 4 aderenti alla corrente più moderata, Magistratura indipendente, e di un rappresentante di ciò che resta del gruppo Autonomia e indipendenza, nascono dalla mancata condivisione di un punto: l’abbandono delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, il 25 gennaio, quando prenderà la parola il ministro della Giustizia o chi lo rappresenta, come più volte avvenuto oltre vent’anni fa, con Berlusconi al governo. Per il resto c’è totale adesione da parte di tutti, a cominciare dallo sciopero (il primo di una serie) proclamato per il 27 febbraio. Nessun magistrato mette in dubbio che il Parlamento è sovrano e può modificare la Costituzione come crede, rispettando le regole fissate dalla Costituzione stessa, ma nessuno dubita che i magistrati abbiano il diritto di esprimere la propria opinione contraria. Ed è quello che accadrà sabato prossimo nelle sedi delle ventisei corti d’appello italiane. Il giorno prima, venerdì 24, alla cerimonia nazionale in Cassazione a cui assisterà in prima fila il presidente della Repubblica, non accadrà nulla. Per rispetto a Sergio Mattarella, e perché negli interventi ufficiali si parlerà dei veri problemi della giustizia, legati soprattutto alla lentezza dei processi. Sui quali la separazione delle carriere non avrà alcuna incidenza. Del resto la protesta dell’Anm, associazione privata, non coinvolge minimamente il Quirinale, né ha bisogno di avalli o sconfessioni presidenziali. Diversamente da ciò che accade al Consiglio superiore della magistratura, presieduto dal capo dello Stato, che s’è già espresso in maniera netta e a larghissima maggioranza contro la riforma appena approvata dalla Camera; un parere votato da tutti i consiglieri togati tranne un astenuto, e dai due membri di diritto, il primo presidente della Cassazione Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. “La separazione delle carriere non rafforza le garanzie del giusto processo ma ne mina le radici - ha spiegato nel suo intervento al plenum la presidente Cassano - e rischia di essere impropriamente interpretata come una reazione di insofferenza ai controlli di legalità riservati alla magistratura”. Questo il giudizio del primo giudice d’Italia sulla riforma al centro dello scontro tra la maggioranza politica di centro-destra e i magistrati di ogni tendenza. Tra i quali alcuni aderenti a Magistratura indipendente restano in disaccordo sull’uscita dall’aula (con annessa esibizione di coccarda tricolore sulla toga ed esposizione all’esterno di cartelli con frasi a difesa della Costituzione attuale), in plateale (ma non inedito) contrasto col rappresentante del governo. “Per me è una questione di educazione e rispetto - spiega il segretario di Mi Claudio Galoppi -, e ritengo che certe sceneggiate servano a farci passare dalla parte del torto. Sono inutili e possono rivelarsi dannose, quando invece abbiamo mille ragioni nel dichiarare la nostra intransigente contrarietà a questa riforma”. Questione di galateo istituzionale, dunque. Dentro l’Anm c’è chi pensa che sia stato proprio Galoppi, già componente del Csm e collaboratore della ministra per le Riforme Elisabetta Alberti Casellati quando era presidente del Senato, a spingere perché si abbassassero i toni anti-governativi, in virtù dei rapporti politici suoi e della sua corrente con l’esecutivo, a cominciare da quelli coi magistrati arruolati dalla premier Giorgia Meloni: il sottosegretario a palazzo Chigi Alfredo Mantovano e il ministro della Giustizia Carlo Nordio; il quale ha scelto quasi tutti i magistrati che collaborano con lui proprio nelle file di Mi. “Sono illazioni infondate - replica Galoppi - noi siamo liberali ed esercitiamo libertà di pensiero e azione. Se una parte di noi ritiene che sia più utile scioperare anziché alzare un cartello, e mantenere tratti urbani anche nel dissenso, chi non è d’accordo deve farsene una ragione”. Fatto sta che altri appartenenti a Mi, a partire dal segretario dell’Anm Salvatore Casciaro, hanno aderito senza riserve a tutte le decisioni prese. Forse anche in considerazione di una singolare coincidenza: il giorno dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario si apriranno i seggi per l’elezione del nuovo comitato direttivo dell’Associazione, e Mi confida in un buon risultato per rivendicare una presidenza che non riesce a esprimere da oltre un decennio. Difficile ottenerla smarcandosi troppo da una protesta che, nelle sue motivazioni, continua a tenere uniti i magistrati italiani. L’Anm vuole giocarsi il tutto per tutto e far saltare la separazione delle carriere di Errico Novi Il Dubbio, 20 gennaio 2025 L’Anm è nuda. Come un re. Come il re che ha governato, anzi sottomesso il sistema politico dal 1992 a oggi. Lo ha fatto per l’intero ventennio berlusconiano e poi nei lustri successivi. Con l’allure snobistica e sussiegosa dei custodi della morale. I pm cambiavano il destino di leader e governi, ma nel supremo distacco dei loro uffici giudiziari. Indicavano la retta via al popolo ma senza sporcarsi le mani. Ora no. Ora se le sporcano. Sono pronti a presidiare le cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario, in programma venerdì e sabato prossimi, bardati di magliette anti-Nordio, come i militanti di un partito antagonista. Peccato siano invece i titolari di uno dei tre poteri della Repubblica. Peccato si tratti dei giudici imparziali che dovrebbero garantire la terzietà, ai segretari di partito indagati perché presunti corrotti come ai cittadini invisibili e alle loro vite distrutte da un’accusa ingiusta. Peccato si tratti non degli attivisti di Just stop oil ma dei pm colleghi di quei giudici, pm che rivendicano di ispirarsi alla “comune cultura della giurisdizione”. Siamo nella Repubblica del possibile. Dove tutto e il suo contrario può succedere. Ebbene sì. L’Anm stavolta non si limita a una giornata di astensione dalle udienze. Stavolta si gioca il tutto per tutto. Alle inaugurazioni dell’anno giudiziario e nei prossimi comizi contro la riforma Nordio. E siamo soltanto al day after del primo seppur decisivo voto (il testo è destinato a non cambiare più nelle successive tre letture parlamentari). Figuriamoci quando l’iter previsto dall’articolo 138 per le leggi che modificano la Carta sarà concluso. Figuriamoci quando Palazzo Madama avrà pronunciato l’ultimo dei quattro sì ed entreremo nel pieno della praticamente certa campagna per il referendum confermativo. Cosa succederà, allora? Fino a che punto la magistratura associata svestirà la toga e scenderà in campo? E fino a che punto tutto questo sarà costituzionalmente tollerabile? È una domanda necessaria. Ma non è detto che susciti risposte decisive. O meglio: il governo di questa situazione politico-istituzionale fuori controllo sarà in parte nelle mani del presidente della Repubblica. Che riuscirà - se ne può essere certi - ad arginare, impedire, censurare le derive e gli esibizionismi più estremi delle correnti Anm. Ma c’è una battaglia più sottile, pervasiva, subliminale che l’associazionismo giudiziario militante è pronto a combattere pur senza esporsi in maniera troppo plateale. Sarà possibile grazie alla sponda dei partiti di opposizione. Faranno eccezione +Europa, Azione e Italia viva. Giovedì scorso, alla Camera, i deputati di Carlo Calenda e Riccardo Magi hanno votato sì, Matteo Renzi ha dato ai suoi licenza di astenersi. L’ex premier non contribuirà all’alleanza toghe-centrosinistra. Che però ci sarà. A fronte della mobilitazione annunciata dall’Anm contro la riforma già a partire dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Pd, Avs e ovviamente il Movimento 5 Stelle hanno già detto che, tranquilli, cosa c’è di strano, i magistrati hanno tutto il diritto di mobilitarsi come se non fossero magistrati, come se non fossero un presidio della democrazia chiamato a una funzione delicatissima e distante dagli schieramenti. Sarà la sponda fra opposizioni e Anm a fare di quest’ultima un partito di fatto, nella campagna referendaria. Non ci saranno comitati formati dalle correnti della magistratura, ma i comitati dei partiti daranno piena ospitalità alle lectio delle toghe sulla democrazia insidiata da Carlo Nordio. Lo schema è già scritto. Siamo solo alle prove generali. Ma, si diceva, la domanda non è tanto se davvero assisteremo all’estrema iperbole semieversiva di un’Anm che getta definitivamente la maschera e si comporta come un partito politico. La vera domanda è un’altra. È se una simile deriva inscenata dai più alti funzionari della Repubblica, dai dispensatori dei diritti e delle pene che scendono in campo come un re sceso dal trono per l’ultima disperata battaglia spada in pugno, servirà davvero. Se porterà alla vittoria del No nella consultazione referendaria prevista di qui a un anno. E questa è una previsione difficile da fare. Si possono azzardare ipotesi. Si può dire che certo, i giudici liberati dalla maschera e in trincea come una qualsiasi fazione sconfesseranno il pilastro democratico che li vuole terzi e imparziali. La battaglia che smentisce, e anzi fa a pezzi il principio costituzionale della terzietà (articolo 111) potrebbe essere, come ha avvertito Luciano Violante, il più micidiale autogol per le toghe. Può darsi sia così. A rigor di logica sarebbe così. Ma nella furia degli scontri può accadere di tutto. È chiaro che la discesa in campo dell’Anm rievocherà il conflitto totale che solo una ventina d’anni fa ancora contrapponeva l’Anm e i governi di Silvio Berlusconi. E quella confusione, quel gioco di sovrapposizioni ingannevoli fra il Cavaliere e Giorgia Meloni, fra Roberto Castelli e Carlo Nordio, potrebbe insinuare una tremenda inquietudine, negli elettori. Non si può escludere che una buona fetta di italiani si lasci suggestionare dall’idea secondo cui con la separazione delle carriere si realizza la fantomatica insorgenza dei politici corrotti - lo sono per definizione, corrotti, secondo la narrazione antisistema culminata nel grillismo. È l’idea nera che vuole la politica, e l’attuale maggioranza in particolare, protesa solo nel far trionfare l’impunità. Potrebbe insomma farsi strada l’ipnotica convinzione che la riforma Nordio sia la battaglia finale condotta dalla casta politica per affrancarsi dal controllo morale dei magistrati. Un’assurdità che può risvegliare lo spirito del ‘93, il ricordo del fanatismo inneggiante a Di Pietro. Sarebbe una mistificazione capace di calpestare non solo chi, da Nordio ai parlamentari impegnati da anni per la separazione delle carriere, vuole solo riportare i poteri dello Stato in equilibrio, e sottrarre la giustizia allo snaturamento eversivo di cui, da Mani pulite in poi, è stata oggetto. Una menzogna come quella delle carriere separate quale riscatto sfrontato e manigoldo della “casta” mortificherebbe anche la generosa, pluridecennale battaglia degli avvocati. Sarebbe una beffa disgraziata e ingiusta nei confronti dell’Unione Camere penali, che nel 2017, against all odds, contro ogni previsione e logica, riuscì a raccogliere le firme - 72mila, 22mila in più del necessario - a sostegno della legge d’iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, scaturigine del ddl Nordio. L’annichilimento delle battaglie condotte per anni dall’avvocatura e da gran parte dell’accademia penalistica a favore di una riforma che desse senso all’opera di Giuliano Vassalli, e realizzasse appieno il modello accusatorio, è un fantasma che impone alla comunità forense di scendere in campo, legittimata assai più di quanto la militanza dell’Anm sia compatibile con la ragionevolezza. Gli avvocati non dovranno essere partito: dovranno essere portatori di verità. Raccontare ai cittadini, in tutte le sedi possibili, che la riforma è un’altra cosa. È il passaggio indispensabile verso una nuova fase che faccia rinascere la rappresentanza democratica e la partecipazione alla politica. Dovranno arrivarci, gli avvocati. Dovranno spiegare ai cittadini che un giudice separato dal pm garantisce tutti, sottopone qualsiasi eventuale persona indagata semplicemente a un procedimento penale, e non al potere indefinito di un ordine sovrano. Dovranno dire, gli avvocati, che il re, l’Anm, è nudo. E che è non è più tempo di lasciarsi irretire dalle sue favole. Quel “resistere, resistere, resistere” di Borrelli trasformò le toghe in partito di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 20 gennaio 2025 Il corpo scelto dei Pubblici Ministeri ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo nel processo. Questa è una verità inoppugnabile ed è anche il fondamento della lotta furibonda, condotta con le unghie e con i denti, che le toghe conducono da sempre nei confronti di qualunque riforma che liberi i giudici dal giogo del rappresentante dell’accusa. Sotto sotto c’è sempre la nostalgia per il sistema inquisitorio, quando tutto si faceva di nascosto e in gran segreto. Ma la riforma Vassalli del 1989 ha portato tutto nella luce appariscente dell’aula. È lì che si forma la prova, è lì che le due parti, accusa e difesa, dovrebbero lottare ad armi pari davanti a un giudice che, lo impone la Costituzione, deve essere terzo e imparziale. Un dato di fatto non ancora accettato, a oltre trent’anni da quel giorno, tanto che l’opinione pubblica, opportunamente ispirata, pare sempre pronta a gridare la propria protesta quando i giudici assolvono. Perché la parola di verità deve essere sempre e solo quella dell’accusa. Il pm, soggetto nel nostro ordinamento del tutto “irresponsabile”, perché non deve rispondere a nessuno del proprio operato, è il vero dominus del processo. Lo sa, ne va fiero e sa come usare a piene mani del proprio potere. Si sprecano negli anni gli aneddoti su certi comportamenti, alcuni dei quali veramente poco edificanti. C’era una volta a Milano un sostituto procuratore molto famoso e molto potente. E c’era una giudice molto garantista, appartenente alla corrente di Magistratura Democratica nella sua prima versione, quella più attenta allo Stato di diritto. Il pm aveva fatto richiesta di una misura cautelare in carcere nei confronti di una persona sospettata di appartenere a un gruppo terroristico, la giudice non aveva ritenuto sufficienti gli elementi di accusa e aveva respinto la richiesta. Ecco come andò a finire. Il pm strillò e telefonò al presidente del tribunale, minacciò procedimenti disciplinari, facendo il finimondo in tutto quanto il palazzo di giustizia. La giudice finì, in lacrime, con il rinunciare all’inchiesta, e la situazione si risolse quando si trovò un altro giudice disposto a firmare il provvedimento di custodia cautelare. Sarebbe successo lo stesso in regime di carriere separate? Probabilmente no. Perché, se è importante la parità processuale tra accusa e difesa, ancora più rilevante è la libertà del giudice, che non deve subire condizionamenti né dal potere del pm né dall’eco mediatica dell’inchiesta. In quel caso si trattava di indagini su fatti di terrorismo, ma la situazione si è fatta ancora più pesante durante i fatti di tangentopoli e le inchieste del gruppo Mani Pulite. In modo appropriato giovedì scorso, quando la Camera ha approvato per la prima volta nella storia il primo passaggio per la separazione tra le carriere requirenti e giudicanti, in molti hanno consegnato nelle mani di Silvio Berlusconi quella bandiera politica, nel nome e nel ricordo di quella battaglia che era stata soprattutto la sua. E la memoria si è soffermata su quei giorni dei primi anni duemila quando con il ministro della giustizia Roberto Castelli fu votata la separazione delle funzioni, un primo timido passo verso la divisione delle carriere. Ma il finimondo di allora fu addirittura superiore a quello di oggi, perché Berlusconi, il “cavaliere nero”, era considerato ben più pericoloso di Giorgia Meloni. La quale ha il vantaggio di non esser stata ancora oggetto di affettuose attenzioni giudiziarie. Si scatenò allora la magistratura intera, solo per il atto che aveva tentato un guardasigilli di fare quel che molti anni dopo riuscirà a Marta Cartabia, cioè di limitare radicalmente il passaggio dal ruolo di giudice a quello di pm e viceversa. E si gridò, indovinate un po’? Si gridò che la separazione delle funzioni nascondeva in realtà la volontà di dividere le carriere e in seguito, inevitabilmente, di sottoporre il rappresentante dell’accusa all’esecutivo. Il procuratore capo di Milano Saverio Borrelli si fece capo di una vera battaglia ideologica e politica che partì dall’inaugurazione dell’anno giudiziario del 12 gennaio 2002 e sfociò nelle organizzazioni dei famosi girotondi che coinvolsero persino le femministe, al grido di “se non era quando?”. Sottinteso: quando ci libereremo di Berlusconi, del suo governo autoritario che vuol tagliare le unghie all’autonomia e l’indipendenza della magistratura? La relazione del procuratore generale Borrelli, destinato al pensionamento tre mesi dopo, fu una vera dichiarazione di guerra e anche il suo testamento ai successori e alle giovani generazioni di pubblici ministeri. Prende di mira le “riforme minacciate con intenti punitivi contro la magistratura”. Il tono si fa apocalittico contro la bestia nera, ieri come oggi, delle toghe. “Si parla di separazione delle carriere. Una separazione che, se motivata dall’intenzione di vincolare il pubblico ministero all’esecutivo… vulnererebbe indirettamente la stessa indipendenza del giudice penale”. La riforma Castelli si limitava a separare le funzioni tra magistrati, ma già si lanciava l’allarme contro un fantasioso progetto della politica di assoggettare a sé tutta quanta la magistratura. L’appello di quel giorno di Borrelli terminerà con il famoso appello risorgimental-patriottico in difesa della patria sotto attacco, e il mitico “resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. Di lì partirono i girotondi e in seguito la legge approvata dal Parlamento fu sospesa dal governo Prodi e dal ministro Mastella. Il quale non fu comunque risparmiato dal furore giudiziario, se pur lui fosse, come ricordato anche di recente, contrario alla separazione delle carriere. Si dovrà aspettare quasi vent’anni per arrivare alla riforma Cartabia, che ha ridotto al minimo i passaggi di funzioni tra magistrati. E finalmente oggi, nel nome di Berlusconi, e anche di Vassallo e di Pannella e dei tanti che ci avevano provato, il ministro Nordio e una maggioranza parlamentare di centrodestra (forse) ci riusciranno. I magistrati: “Mai in 50 anni stravolta così la Costituzione”, l’allarme dell’Anm Il Messaggero, 20 gennaio 2025 Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Delegittima le toghe stare in silenzio di fronte a una riforma che peggiorerà il servizio giustizia e indebolisce il quadro delle garanzie”. “Lanciamo un grido di allarme. Non c’è mai stata negli ultimi 50 anni, forse, una riforma che stravolge radicalmente la fisionomia della nostra Costituzione alterando quelli che sono i rapporti tra i poteri dello Stato e gettando le basi per un possibile condizionamento del potere giudiziario”. Lo ha detto Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, parlando ad Agorà in onda su Rai Tre, della separazione delle carriere. “Delegittima le toghe stare in silenzio di fronte a una riforma che peggiorerà il servizio giustizia e indebolisce il quadro delle garanzie”. Lo ha detto a Sky Tg24 il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, ribattendo ai penalisti secondo cui lo sciopero contro la separazione delle carriere delegittima i magistrati. “Stiamo privando i magistrati del diritto di elettorato attivo e passivo. È come dire: non siete in grado di eleggere i vostri rappresentanti. Il sorteggio non è la panacea di tutti i mali e umilia la magistratura, unica tra le tante a vedersi privata di questo diritto”, ha aggiunto Santalucia. Una riforma costituzionale come la separazione delle carriere “cambia il volto della magistratura. Se sarà questa la volontà del Paese saremo rispettosi, ma abbiamo il dovere di dire quello che pensiamo”, ha detto poi il presidente dell’Anm. Con lo sciopero e con la protesta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario “abbiamo ritenuto necessario richiamare l’attenzione dei cittadini sulla riforma e sul fatto che il referendum non venga vissuto come un sondaggio sul gradimento della giustizia e del suo servizio”, ha spiegato Santalucia che ha escluso qualunque “mancanza di rispetto”, solo la volontà di puntare un “faro su un punto essenziale per la vita democratica del Paese”. Santalucia ha anche fatto presente che le cause di ciò che non va nel servizio giustizia “non sono addebitabili ai magistrati. Noi stiamo facendo tutto il possibile, ma da soli non ce la facciamo” ha aggiunto facendo esplicito riferimento alle competenze che ha in materia il ministro della Giustizia. Perché separare le carriere dei pm è ipocrita, costoso e soprattutto inutile di Pietro Grasso La Stampa, 20 gennaio 2025 Dopo l’approvazione alla Camera del ddl costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati, il ministro Nordio ha dichiarato di avere realizzato un sogno che inseguiva da trent’anni: speriamo non si trasformi in un incubo di gelliana memoria. Le tanto auspicate riforme della giustizia dovrebbero tendere a garantire celerità, efficienza e qualità. Invece questo “epocale” cambiamento appare solo una vittoria simbolica in spregio alla magistratura, una bandiera piantata con toni trionfalistici nel territorio nemico che, dopo la riforma Cartabia, appare solo costosa, ipocrita, inutile e dannosa. Costosa, perché buona parte delle già scarne risorse umane, materiali e logistiche saranno sottratte per istituire un doppione del CSM e l’Alta Corte Disciplinare. Ipocrita, perché si vorrebbe impedire un passaggio da una funzione all’altra che nei fatti è già ridotto allo 0, 2%. Inutile, perché la fantomatica “Repubblica dei Pm” non esiste: il Pm nel sistema accusatorio è sotto il pieno controllo del giudice. Non può far nulla: né chiedere un sequestro, né un’intercettazione, né una cattura se non glielo consente il giudice. Perché questi rimanga forte, indipendente ed imparziale rispetto alle richieste di un procuratore dipende soprattutto dalla sua professionalità. Il tema quindi è l’aggiornamento professionale del Pm soprattutto nella valutazione della prova, che deve in dibattimento reggere al contraddittorio della difesa e all’esame del giudice. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione tecnica. La possibilità del Pm di incidere gravemente nella vita, nella libertà e nella reputazione dei cittadini deve essere costituzionalmente interpretata in funzione della grande probabilità di conferma delle sue tesi accusatorie. La mia esperienza personale, prima Pm e poi giudice nel maxiprocesso e poi ancora procuratore, ha arricchito la mia capacità di valutare con criticità le prove, tant’è che proporrei provocatoriamente che qualsiasi magistrato, prima di esercitare le funzioni di Pm, debba fare il giudice per almeno tre anni in un collegio penale. Infine la riforma, per eterogenesi dei fini, sarà dannosa perché si corre il concreto rischio di accrescere il potere del Pm, di modificarne la natura e renderlo un organo squisitamente di parte, come accade nel sistema statunitense. Questo porterebbe a cercare sempre e comunque di far condannare gli imputati, al di fuori di quella funzione di garanzia, di organo di giustizia, attribuitagli attualmente dalla nostra legge, che lo obbliga ad accertare anche fatti a favore degli indagati. Una riforma dannosa inoltre perché inevitabilmente porterà il Pm a essere attratto nel raggio di influenza del potere esecutivo: del resto, è un dato di fatto che in tutti i Paesi in cui i Pm sono separati il Governo controlla l’esercizio dell’azione penale. Inoltre si andrà verso una sempre maggiore discrezionalità dell’azione penale, come dimostra il fatto che i relativi criteri di priorità sono già oggi devoluti al Parlamento. Si replica che si tratta di un processo alle intenzioni, ma chi oggi è convinto assertore della separazione non può fornire alcuna rassicurazione sulla piena indipendenza del pubblico ministero di domani. Il ministro assicura che sarebbe necessario un ulteriore processo di revisione costituzionale, ma non si riflette abbastanza che l’art. 107, quarto comma Cost. prevede che “il Pm gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, per cui qualsiasi maggioranza potrà con legge ordinaria privarlo delle attuali garanzie di autonomia e indipendenza, punto irrinunciabile che per i nostri padri costituenti segnò la discontinuità con il precedente regime fascista. Si è sostenuto che questa riforma può finalmente mettere accusa e difesa in perfetta parità dinanzi a un giudice terzo, ma non si tiene conto che questo principio costituzionale ha già trovato il suo vulnus nella riforma che impedisce al PM l’impugnazione delle assoluzioni in primo grado per una miriade di reati. Dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, questa riforma appare come un ulteriore passo verso l’esigenza della politica di indebolire l’azione giudiziaria. Ho vissuto un tempo in cui un procuratore generale invitava Chinnici a riempire di processetti Falcone per non fargli scoprire nulla attraverso le indagini nelle banche, che avrebbero rovinato, a suo dire, l’economia siciliana. Ordinaria amministrazione e basta, nessuna iniziativa: questo era il diktat. Non ostacolare il sistema di mafia, politica e affari. Non vorrei che proprio quei tempi tornassero, che si voglia oggi di nuovo una magistratura prona al potere. Invece, alla luce degli attuali principi costituzionali, i cittadini devono guardare all’indipendenza della magistratura come un patrimonio insostituibile di democrazia da difendere, non come un privilegio di casta ma funzionale all’efficienza della magistratura e alla domanda di verità e giustizia che si leva dalla società. Presto non resterà che aspettare il giorno del referendum. Si spera che a questo appuntamento non si arrivi con una magistratura sempre più delegittimata, sotto attacco, rappresentata come politicizzata, a orologeria, impunita, irresponsabile e i magistrati considerati, come già avvenuto in passato, nemici da combattere, matti o utopisti, antropologicamente diversi o un cancro da estirpare. Credo però che la battaglia referendaria potrà essere un buon momento per risvegliare nel paese un autentico spirito, gioioso e determinato, di difesa dei principi costituzionali. Celli (Md): “Il nostro sciopero serve ad aprire la discussione su una riforma sbagliata” di Giulia Merlo Il Domani, 20 gennaio 2025 Parla Stefano Celli, la toga di Magistratura democratica che ha proposto l’emendamento dello sciopero, previsto per il 27 febbraio, contro la separazione delle carriere. Quella dell’Anm “è una risposta ferma, non cercata, ma quasi imposta dall’atteggiamento tenuto finora dall’esecutivo”, che ha presentato un testo blindato. In risposta al primo via libera per la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudici e pm, l’Associazione nazionale magistrati ha proclamato uno sciopero per il 27 febbraio prossimo. La decisione è stata presa a maggioranza in una concitata assemblea durata quasi otto ore e la determinazione a incrociare le braccia è stata presa con la presentazione di un emendamento del magistrato di Magistratura democratica, Stefano Celli. L’Anm ha proclamato lo sciopero. Una risposta durissima al primo via libera per la separazione delle carriere, con quale obiettivo? Comincio col dire che la separazione delle carriere, che peraltro è praticamente operativa anche se i passaggi da una funzione all’altra interessano lo “zerovirgola” dei magistrati da anni, è solo una delle cattive riforme introdotte dal disegno legislativo. E forse neppure la peggiore, perché si prevede: la duplicazione dei Csm, il sorteggio dei membri, che priva i magistrati, unici cittadini, del diritto di elettorato, attivo e passivo, per l’organo di autogoverno. Poi l’Alta corte disciplinare, dove si altera a favore dei laici l’attuale rapporto laici/togati e dove e dove, al contrario che per il futuro Csm, non fa problema la circostanza che i pubblici ministeri contribuiscano a giudicare i giudici, e viceversa. Da mesi, anzi da anni, usiamo argomentazioni della logica e del diritto, del buon senso, per cercare di spiegare le conseguenze inaccettabili, soprattutto per i cittadini e per i loro diritti, di un pubblico ministero separato che scivolerà lentamente nella sfera dell’esecutivo. Da anni l’Europa raccomanda agli stati di incoraggiare il passaggio da una funzione all’altra e ogni operatore del diritto sa quanto equilibrio innesti nell’azione del pubblico ministero la precedente esperienza di giudice. La risposta è stata un percorso parlamentare accelerato, un testo blindato, un dibattito parlamentare strozzato: lo sciopero vuole essere il tentativo di imprimere una spinta alla discussione, di “portare al tavolo della discussione” il governo, la maggioranza, ma anche l’opposizione. Che messaggio dovrebbe trarne il governo? Vi hanno accusati di essere eversivi... Uno sciopero di un giorno, che garantisce comunque i servizi essenziali, è una risposta ferma, non cercata, ma quasi imposta dall’atteggiamento tenuto finora dall’esecutivo. Confidiamo che si colga il significato della protesta, che non fa diminuire di una virgola la nostra capacità di dialogo. Mi tengo alla larga dalle espressioni forti, dalle invettive e dal dileggio: l’eversione è una parola che riservo allo sconvolgimento della repubblica dalle sue fondamenta, non all’esercizio di un diritto. Piuttosto mi chiedo come definire un disegno di legge di iniziativa del ministro, che è uno dei due pubblici ministeri in materia disciplinare, mediante il quale lo stesso pm disciplinare ridisegna e costituisce il suo giudice. La proposta di fissare la data dello sciopero è venuta da un emendamento di Magistratura democratica. Non bastava la manifestazione durante l’apertura dell’anno giudiziario? Il comitato direttivo centrale doveva dare attuazione al deliberato della partecipatissima e riuscitissima assemblea del 15 dicembre, che comprendeva la proclamazione dello sciopero e lo collegava al progredire dell’iter parlamentare. Domenica prossima ci saranno le elezioni, poi il nuovo comitato direttivo centrale dovrà eleggere il presidente e la Giunta. Abbiamo pensato di individuare una data per evitare che, impegnati in questi passaggi, lo sciopero rimanesse sullo sfondo e si perdesse tempo prezioso, ancor più alla luce del fatto che il governo intende procedere per tappe forzate e una risposta tardiva equivale a nessuna risposta. Anzi, è peggio. Nella memoria c’è lo sciopero del 2022 sulla riforma Cartabia, che non ha avuto la partecipazione sperata. Questa volta sarà diverso? Sono sicuro di sì. Ci sono molti segni positivi e incoraggianti, a cominciare da una partecipazione forte dei giovani magistrati in tirocinio che, nelle prime due settimane dal giuramento, si sono iscritti in massa, e in massa sono venuti a Roma. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per spiegare ai pochi incerti l’indispensabilità di questo passaggio che peraltro, anche se è sicuramente la più visibile, non è l’unica forma che assume la nostra battaglia. La componente più conservatrice si è astenuta. Un segnale? L’astensione è stata solo di alcuni, sul documento finale. L’emendamento che indicava la data dello sciopero è stato votato da tutta Magistratura indipendente, che non ha sollevato alcuna obiezione. Alcuni autorevoli rappresentanti del gruppo, all’assemblea di dicembre, hanno addirittura prospettato il ricorso a più giornate di sciopero. Penso che anche loro condividano il giudizio sul carattere esiziale della riforma e terranno un comportamento coerente con le dichiarazioni pubbliche. Guardando avanti, se come sembra la riforma verrà approvata, siete pronti a una campagna per il no al referendum? Sì. Ci sono forze e idee antiche e nuove, e noi abbiamo bisogno di entrambe. Certo la partita più difficile sta nel coinvolgimento della società civile e degli altri corpi intermedi, con i quali è fondamentale rapportarsi e dialogare. Le nostre buone ragioni devono diffondersi seguendo un movimento di cerchi concentrici, raggiungendo, e convincendo, prima i più vicini, che magari già la pensano come noi, poi gli incerti e i dubbiosi, poi i lontani e infine i contrari. Stiamo pensando anche a nuove forme di comunicazione, anche per rendere comprensibili le nostre ragioni anche ai non tecnici. Come risponde all’obiezione che così le toghe farebbero politica? Se la intendiamo come perseguimento di interessi di parte, è un’obiezione che non sta in piedi, prova ne sia che tutta la magistratura, che non si riconosce in un’unica idea politica, contrasta la riforma. Se invece si tratta di contribuire al processo democratico i magistrati sono cittadini a pieno titolo, che hanno piuttosto un obbligo civile di mettere a disposizione le proprie competenze. È quello che faremo, con ostinata ragionevolezza. Sì al ricorso in Cassazione contro il diniego alla giustizia riparativa di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2025 Cambio di orientamento: impugnazione anche per reati procedibili d’ufficio. L’ordinanza di diniego dell’invio delle parti a un centro per la giustizia riparativa pronunciata dal giudice in base all’articolo 129-bis del Codice di procedura penale è ricorribile in Cassazione insieme con la sentenza conclusiva del giudizio. Lo ha deciso la stessa Suprema corte con la sentenza 131/2025, che corregge la rotta rispetto alle precedenti pronunce. La Corte aveva già affrontato la questione con la sentenza 24343 del 20 giugno 2024, con la quale, confermando un indirizzo già avviato (si veda Cassazione 6595 del 14 febbraio 2024), aveva affermato il carattere discrezionale, non gravato da alcun onere motivazionale, della decisione dell’autorità giudiziaria sull’invio della parte a un centro di mediazione (si veda anche Cassazione 25367 del 9 maggio 2023). La non impugnabilità del provvedimento con cui il giudice non accoglie l’istanza della parte di invio a un centro di giustizia riparativa è stato giustificato alla luce della natura non giurisdizionale della giustizia riparativa e, dunque, della non operatività della garanzia prevista dall’articolo m, comma 7, Costituzione. Tuttavia, già con la sentenza 33152 del 7 giugno 2024, la Cassazione aveva operato un primo revirement, confermando il divieto di autonoma impugnazione dell’ordinanza prevista dall’articolo 129-bis del Codice di procedura penale in forza del principio della tassatività dei mezzi di impugnazione (articolo 586 Codice di procedura penale) e dell’estraneità della stessa alla materia della libertà personale (articolo 111 Costituzione), ma ammettendo - nei soli procedimenti relativi a reati procedibili a querela suscettibile di rimessione - l’impugnazione differita del provvedimento insieme alla sentenza che definisce il giudizio. Con la sentenza 131/2025, la Corte amplia ulteriormente questo orizzonte interpretativo, individuando nell’ordinanza pronunciata in base all’articolo 129-bis del Codice di procedura penale un atto endoprocedimentale adottato nelle forme tipiche del processo penale (articolo 125 Codice di procedura penale), nei cui confronti si deve, pertanto, ammettere la facoltà di impugnativa, alla luce delle importanti ricadute sul piano del trattamento sanzionatorio e nella fase esecutiva generate dalla giustizia riparativa, ricordando che la giustiziabilità dei provvedimenti in materia di restorative justice è prevista anche dalla raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018. L’importante principio così affermato viene esteso dalla sentenza 131/2025 alle ordinanze con cui il giudice nega l’invio ai programmi di giustizia riparativa anche nel caso si proceda per reati diversi da quelli rimettibili a querela, alla luce della ricordata raccomandazione europea, che non opera distinzioni tipologiche, e dell’articolo 44 del decreto legislativo 150/2022 che, allo stesso modo, non contiene alcuna preclusione con riferimento alle fattispecie di reato. Resta fermo che - nell’ipotesi di reati diversi da quelli perseguibili a querela rimettibile - l’istanza non sospende il processo; una distinzione, secondo la Cassazione, dovuta al fatto che, nei reati procedibili a querela rimettibile, l’esito riparativo estingue il reato, così che il tempo di sospensione previsto per legge del procedimento è “compensato” dall’effetto deflattivo connesso all’anticipata definizione del processo, in linea con le esigenze di ragionevole durata. Calabria. “La situazione delle carceri è esplosiva, subito amnistia e indulto” di Massimo Clausi lacnews24.it, 20 gennaio 2025 Rita Bernardini è figura storica del Partito Radicale di cui è stata segretaria e membro del consiglio generale. Più volte deputata ha incentrato la sua attività parlamentare sui temi della giustizia e Nel febbraio 2010 ha condotto uno sciopero della fame per l’ottenimento di 10 obiettivi politici che riguardano principalmente le carceri. Con lei abbiamo parlato della situazione delle carceri in Italia con particolare riferimento a quella calabrese. Bernardini, partiamo da un piccolo bilancio della situazione nelle carceri italiane e l’attività di “nessuno tocchi Caino”… “Il bilancio purtroppo è DI-SA-STRO-SO. Da quando si è insediato il Governo Meloni la popolazione detenuta è aumentata di 5.237 unità mentre la capacità ricettiva dei 189 Istituti penitenziari è rimasta invariata. Il sovraffollamento è arrivato al 133% a livello nazionale con situazioni impressionanti come quella San Vittore dove in 100 posti lo Stato italiano ci mette 212 detenuti. Aggiungo che gli agenti di polizia penitenziaria sono 6.300 in meno rispetto alla striminzita pianta organica fissata da Nordio per le carceri e che gli educatori continuano ad essere drammaticamente pochi rispetto alle esigenze di una popolazione detenuta che sfiora le 62.000 unità: sono infatti solo 983. Insomma, credo che non ci si possa meravigliare se nel corso del 2024 abbiamo battuto tutti i record delle morti in carcere: 252 morti dei quali 89 suicidi fra i detenuti e 7 fra gli agenti. E questo nuovo anno è iniziato nel peggiore dei modi con già sette detenuti che si sono tolti la vita e altri sette che sono morti per “altre cause”. Tutto ciò dimostra con parametri inoppugnabili che lo Stato italiano è fuori-legge e fuori-Costituzione! Come Nessuno tocchi Caino noi proseguiamo il “viaggio della speranza” nelle carceri. In due anni ne abbiamo visitate 220 relazionando alle istituzioni il disastro che abbiamo constatato”. Cosa pensa delle ultime iniziative del Governo sul tema con riferimento al decreto-legge “Carceri” del luglio scorso? “Il nulla vestito di niente accompagnato da dichiarazioni negazioniste e contraddittorie come “il sovraffollamento non esiste, noi rispettiamo i parametri europei”, o “i suicidi non hanno nulla a che fare con il sovraffollamento”. A queste prese di posizione se ne sono aggiunte altre esilaranti come quella dell’uso delle caserme, dell’invio dei detenuti stranieri nei loro paesi d’origine o dei tossicodipendenti in comunità: tutte soluzioni prospettate in passato e mai realizzatesi. Poi c’è stata la promessa di favorire un più facile accesso alle misure alternative al carcere smentita seccamente dall’introduzione di nuove fattispecie di reato che facilitano l’ingresso nei penitenziari”. Ma quale sarebbe l’interesse del Governo in tutto ciò? “Vogliono prendere voti mostrando la faccia feroce senza porsi seriamente il problema della tanto sbandierata sicurezza quando tutti sanno che il carcere è criminogeno e fomenta la recidiva di chi sconta l’intera pena in quel luogo illegale che nulla ha a che vedere con il principio costituzionale del reinserimento sociale del condannato. Sono stati così spudorati da rinviare la proposta di legge Giachetti/Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale affermando che il “decreto Nordio” avrebbe risolto il problema del sovraffollamento; lo abbiamo visto, infatti! Un impatto uguale a zero”. Nelle carceri mancano le equipe di psicologi e assistenti sociali e il numero dei suicidi fra i detenuti è in netto aumento. Cosa fare? “Gli assistenti sociali, che sono pochi e oberati da mille incombenze per curare l’esecuzione penale esterna al carcere, con molta difficoltà riescono a stare dietro ai problemi di coloro che sono reclusi in carcere. Gli psicologi sono pochissimi per non parlare dello staff dei sanitari che dovrebbe assicurare la gestione della salute nei penitenziari. Sotto questo aspetto c’è da dire che ogni Asp fa come vuole e, in generale, tende a risparmiare sulla sanità penitenziaria. Colpevolmente non esistono a livello nazionale le piante organiche di medici, specialisti, infermieri, Oss. Ci fu una conferenza unificata nel 2015 che aveva stabilito linee guida nazionali che le regioni avrebbero dovuto rispettare con atti conseguenti, ma nessuna regione ha fatto quel che doveva”. Di fronte a questa situazione cosa state facendo? “Insieme alle Camere Penali abbiamo fatto una richiesta massiccia di accesso agli atti per verificare il contenuto delle due relazioni che ogni Dirigente Sanitario deve fare all’anno a seguito di visite per verificare la “salubrità” di tutti i luoghi del carcere, comprese le celle (art. 11 O.P.). Entro il mese di febbraio renderemo pubblici gli esiti di questa rilevazione. Lei riesce ad immaginare cosa può succedere in una sezione detentiva di 200 persone se un recluso si sente male di notte e c’è un solo agente a governare la situazione? O se persone fragili a rischio suicidario devono ricevere l’assistenza di un personale sanitario e di custodia che letteralmente non c’è?”. In Calabria manca persino la figura del Garante dei detenuti, mentre nel penitenziario di Paola si è registrato il terzo suicidio dall’inizio dell’anno… “Purtroppo, nel frattempo, i suicidi sono arrivati a 7. E’ gravissimo che la Regione non abbia proceduto alla nomina, tanto più che la Calabria ha anche il neo della mancanza del Garante a Vibo Valentia”. La popolazione carceraria in Calabria conta quasi 3mila detenuti, di cui circa il 40% è in attesa di giudizio quali proposte portate avanti per snellire la popolazione carceraria? “Quel che ci vorrebbe subito (anzi, da tempo) è un provvedimento di amnistia e di indulto che decongestioni le carceri e il numero spropositato di procedimenti penali e che sia volto a far ritornare il nostro sistema nella legalità. Lo dice il Papa, lo dice Mattarella, ma non ci sono orecchie buone per ascoltare. Come dicevo in precedenza, con Roberto Giachetti, abbiamo presentato la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale. E’ proposta ragionevole che consentirebbe a qualche migliaio di persone che in carcere si sono comportate bene, di poter uscire dall’inferno delle loro celle. È stata già adottata nel 2014 quando l’Italia fu condannata dalla Corte EDU per trattamenti inumani e degradanti”. E la situazione calabrese? “In Calabria, tutte le carceri hanno più detenuti che posti. In particolare, le case circondariali di Castrovillari e Locri sono le più sovraffollate. Quanto agli agenti, ne mancano 174 rispetto alla già striminzita pianta organica ministeriale, mentre gli educatori sono solo 53 per tutti i quasi tremila detenuti calabresi. Più della media nazionale ma sono sempre davvero troppo pochi per i compiti che devono svolgere”. Un tema molto delicato è quello della gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici che sembrano abbandonati a loro stessi… “Non “sembrano”, “sono” abbandonati a loro stessi. Casi psichiatrici e dipendenti problematici da sostanze stupefacenti in carcere non ci devono proprio stare perché devono essere curati in luoghi con adeguato personale sanitario e socio-riabilitativo che in carcere non c’è e non ci può essere, tanto più per come è organizzata ora la sanità penitenziaria e per l’eccessivo numero di detenuti. Lei non sa quante madri ci chiamano perché hanno il figlio in carcere e si tormentano pensando che possa commettere un gesto estremo. Finché non cambia la situazione succede e continuerà a succedere che questi giovani si tolgano la vita, ma è lo Stato e chi lo rappresenta ad avere sulla coscienza queste morti”. Cagliari. Si suicida un detenuto straniero: è il secondo dall’inizio dell’anno in Sardegna Il Dubbio, 20 gennaio 2025 I soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari sono stati inutili. Un detenuto di origine straniera si è tolto la vita nelle prime ore di questa mattina, impiccandosi nella sua cella presso la casa circondariale di Cagliari. I soccorsi della polizia penitenziaria e dei sanitari sono stati inutili. Si tratta del secondo suicidio nel carcere del capoluogo sardo dall’inizio dell’anno. A livello nazionale, il bilancio sale a otto detenuti che si sono tolti la vita, a cui si aggiunge un operatore in servizio presso la casa circondariale di Paola, in Calabria. Nove morti in appena 20 giorni: un bilancio drammatico. Lo denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Purtroppo, la catena di suicidi nelle carceri non si arresta, con una media di quasi un caso ogni due giorni in questo 2025, iniziato persino peggio del già tragico 2024”, ha dichiarato De Fazio. “Con 16mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, 18mila unità mancanti nella polizia penitenziaria, carenze nell’assistenza sanitaria, strutture inadeguate, risorse logistiche insufficienti, equipaggiamenti scarsi e una gestione approssimativa, servirebbero interventi immediati e concreti che, però, non sembrano essere nell’agenda di governo”. “La nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria non può essere una soluzione rapida ed efficace”, ha aggiunto. “È indispensabile adottare subito misure che riducano il sovraffollamento, potenziare gli organici del personale, garantire un’assistenza sanitaria adeguata e avviare una riforma complessiva del sistema carcerario”. Modena. Andrea Paltrinieri suicida in carcere dopo il femminicidio: inchiesta per istigazione di Valentina Lanzilli Corriere di Bologna, 20 gennaio 2025 Fascicolo contro ignoti sulla morte dell’uomo che uccise la ex moglie e portò il suo cadavere in caserma: ipotesi di minacce da altri detenuti. Emergenza suicidi e sovraffollamento nella struttura di detenzione. Il carcere di Modena ancora sotto i riflettori. Dopo l’ennesimo caso di cronaca, avvenuto giovedì scorso, quando due detenuti hanno appiccato il fuoco in cella, ora è un altro episodio a finire sul tavolo della Procura. Parliamo della morte di Andrea Paltrinieri, il 49enne modenese che si è tolto la vita lo scorso 7 gennaio, inalando gas da alcuni fornellini a disposizione dei detenuti per cucinare. La procura di Modena ha infatti aperto un fascicolo contro ignoti con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. L’indagine per istigazione - Secondo quanto emerso, la scorsa estate Paltrinieri sarebbe stato destinatario di minacce e insulti da parte di altri detenuti e ora si cerca di verificare se ci fossero segnali che sono stati sottovalutati, portando poi l’uomo a compiere l’estremo gesto. Lo riporta Il Resto del Carlino. Ricordiamo che Andrea Paltrinieri si trovava in carcere dopo aver ucciso, nel giugno del 2024, la sua ex moglie, la dottoressa bielorussa Anna Sviridenko, madre dei suoi figli. L’uomo la soffocò, caricò il cadavere su un furgone e lo portò alla caserma dei carabinieri di Modena, dove confessò il delitto. Tra i motivi di tensione nella coppia anche l’affidamento dei due figli piccoli. Tre suicidi in tre settimane - Quello di Paltrinieri è stato il terzo suicidio nel giro di sole tre settimane nel carcere di Sant’Anna. A questo si aggiunge poi l’episodio di giovedì, quando due detenuti hanno appiccato il fuoco in cella. Uno di questi, un 25enne straniero, è tutt’ora ricoverato in prognosi riservata al centro grandi ustionati di Parma in gravissime condizioni. Intossicati e accompagnati in ospedale anche 9 agenti della polizia penitenziaria che sono subito intervenuti in loro soccorso e che sono poi stati dimessi. In cella 570 persone ma i posti sono solo 370 - Solo due giorni fa invece è stato presentato un ulteriore esposto, relativo però ai fatti del marzo del 2020, quando a seguito di una rivolta, 9 detenuti persero la vita. La denuncia è stata presentata da un 37enne marocchino che ora è tornato in libertà e che non fu coinvolto negli scontri. Secondo la sua ricostruzione, proprio quel giorno, dopo essere uscito dalla sua cella che era stata data alle fiamme, venne picchiato. Tra i tanti problemi che affliggono la struttura, il sovraffollamento resta quello più drammatico. Al Sant’Anna, con una capienza di 370 posti, ci sono ad oggi più di 570 detenuti, oltre il 60% in più. Anche per questo la Camera penale di Modena ha proclamato l’astensione collettiva dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale degli avvocati per la giornata di venerdì 24 gennaio. Milano. Ex detenuti e volontari in concerto per gli ospiti del Trivulzio Corriere della Sera, 20 gennaio 2025 Domenica 19 gennaio l’Associazione Amici della Nave e la Fondazione Amici del Trivulzio insieme per un’iniziativa di inclusione e solidarietà, in collaborazione con il SerD di Asst Santi Paolo e Carlo. Giorgio Gaber e Jannacci, la banda dell’Ortica e i quaranta-dì-quaranta-nòt a San Vitùr, Dario Fo e la Montagna de San Sir: il tutto cantato dai volontari, dagli ex detenuti e dai pazienti SerD del Coro Amici della Nave di San Vittore per (e con) gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio e i loro familiari. È il concerto intitolato “Milano inCantata” in programma domenica 19 gennaio alle ore 16 nell’Auditorium del Pio Albergo, promosso grazie alla collaborazione tra Associazione Amici della Nave OdV e Fondazione Amici del Trivulzio, Martinitt e Stelline Onlus. Per il coro e per i suoi componenti, oltre che per i musicisti della Piccola banda Amici della Nave da cui sono accompagnati, si tratta di un nuovo ritorno dopo precedenti esibizioni che avevano sempre suscitato grande entusiasmo e partecipazione tra gli ospiti della struttura. I volontari e le volontarie dell’Associazione Amici della Nave, che da anni sostengono con il loro impegno le attività del reparto La Nave di San Vittore, hanno tra l’altro come obiettivo non secondario quello di promuovere anche tra i cittadini una sensibilità sempre più diffusa sui temi dell’inclusione, della partecipazione, del dialogo, attraverso gli strumenti dell’arte, della cultura, della musica, della bellezza in tutte le sue forme. La Nave, a sua volta, è un reparto di trattamento avanzato gestito da Asst Santi Paolo e Carlo presso la Casa circondariale di San Vittore per la cura dei detenuti-pazienti con problemi di dipendenza. Il canto corale è una delle attività del reparto che prosegue anche all’esterno del carcere con una ulteriore formazione - quella dell’attuale concerto al Pio Albergo - in collaborazione con il SerD della stessa Asst. Fondazione Amici del Trivulzio, Martinitt e Stelline Onlus affianca invece gli operatori dell’Istituto con iniziative e progetti innovativi nella cura degli Ospiti del Trivulzio per donare loro, tutti i giorni, un giorno migliore e per intercettare sul territorio le fragilità delle famiglie bisognose: un ponte fra il dentro e il fuori del Trivulzio, per fare rete alimentando con linfa nuova il vivere in modo pieno la città. Fra i progetti di maggior rilevanza promossi dalla Fondazione è il Giardino Alzheimer del Trivulzio, uno spazio verde concepito come vero e proprio “healing garden” per la salute e il benessere delle persone con morbo di Alzheimer cui è destinato. La Fondazione ha attivato un fundraising per avviare la fase esecutiva del progetto e completare la realizzazione del Giardino nei primi mesi del 2025. Cremona. Gli studenti dell’Aselli e la vita in carcere: incontro formativo cremonaoggi.it, 20 gennaio 2025 Nell’ambito del progetto di Educazione Civica “Libertà va cercando”, avviato già da anni nel liceo Aselli grazie alla regia della prof.ssa Digiuni, alcune classi quarte (4A e 4C LIC, 4B e 4D LSA), nelle giornate del 16 e 17 dicembre scorso, si sono recate in visita alla casa circondariale di Cremona Ca’ del Ferro. Quello del carcere è un “mondo sommerso”, uno di quei mondi che la nostra società tende a dimenticare: la vulnerabilità di questo luogo - di chi vi abita e di chi vi lavora - è sicuramente lontana da una civiltà, quale la nostra, in cui la logica dell’utile e della produttività schiaccia i più fragili. Divenire cittadini consapevoli significa però, prima di tutto, accantonare i pregiudizi e mostrarsi aperti a un percorso di conoscenza e di sensibilizzazione, che il progetto “Libertà va cercando” promuove in relazione alla realtà carceraria odierna. Dopo alcune lezioni preparatorie, sviluppatesi anche grazie al contributo di don Roberto Musa, cappellano della casa circondariale di Cremona, la visita al carcere, sotto la guida dello stesso don Musa, ha avuto così lo scopo di offrire ai ragazzi un’esperienza di contatto e dialogo diretto con i detenuti. Proprio nel luogo in cui il carcere mostra una delle “migliori” parti di sé, la sala del teatro, con le sue pareti dipinte a tinte vivaci dai detenuti stessi, gli studenti delle classi quarte hanno incontrato, divisi a gruppi, alcuni carcerati che stanno scontando la loro pena. Alcune parole chiave, quali “responsabilità”, “tempo”, “famiglia”, “speranza”, su cui gli studenti avevano riflettuto in classe, hanno costituito il fil rouge dell’incontro. Sollecitati da queste parole, oltre che da domande poste dagli studenti, i detenuti si sono raccontati, tra aperture e reticenze: hanno parlato delle problematiche con cui quotidianamente devono convivere, dal sovraffollamento alla difficile convivenza con i compagni di cella, dalla solitudine alla sospensione del tempo, dalle difficoltà comunicative di chi non parla la nostra lingua agli stati depressivi che alcuni di loro hanno attraversato. Ma hanno anche rivelato quanto il percorso rieducativo a cui stanno partecipando stia dando loro la forza per combattere e per sperare in un futuro fuori dalle mura carcerarie. La dimensione rieducativa, e non esclusivamente punitiva della pena, così come previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione, è così riuscita a strappare i detenuti incontrati dal circolo vizioso di una reclusione che sarebbe altrimenti solo fine a se stessa. Certo, chi è stato “selezionato” per incontrare gli studenti ha mostrato la volontà di ridefinire la propria vita - cosa che non a tutti evidentemente accade, visto l’alto tasso di recidività che caratterizza le carceri italiane. La predisposizione al cambiamento passa attraverso il coinvolgimento dei detenuti in attività manuali, ma anche, e soprattutto, attraverso lo studio: più volte gli studenti sono stati spronati a completare il loro percorso di studi, a coltivare passioni e relazioni sane. Moniti inaspettati per i ragazzi dell’Aselli che hanno ritrovato nelle parole dei carcerati una dignità e un senso di umanità che si pensava a loro estraneo. A chiusura dell’incontro, l’interessante testimonianza di chi lavora in carcere: un agente della polizia penitenziaria, che ha sottolineato il tentativo di costruire un rapporto equilibrato con i carcerati, basato su una convivenza il più possibile rispettosa, e due educatori, che hanno evidenziato la difficoltà e la delicatezza della loro professione. “L’esperienza in carcere - commenta uno studente - è stata una delle più significative, a livello umano, che io abbia mai vissuto”. Lecce. Incontro sul progetto “IncludiAMOci. Giustizia con Misericordia” caritas.it, 20 gennaio 2025 La Diocesi di Ugento - S. Maria Di Leuca, attraverso la Caritas Diocesana, promuove lunedì 20 gennaio alle ore 18.30, presso la Cattedrale di Ugento, l’incontro pubblico: “Progetto IncludiAMOci. Giustizia con Misericordia”. L’incontro, moderato da don Lucio Ciardo, direttore della Caritas diocesana, è l’occasione per illustrare i risultati raggiunti nell’attuazione del progetto, sostenuto da Caritas Italiana e Intesa San Paolo per il Sociale. Si inizierà con il saluto istituzionale di Salvatore Chiga, sindaco di Ugento, e si proseguirà con gli interventi di Rocco Pezzullo, Caritas Italiana; Paolo Bonassi, Intesa Sanpaolo Chief Social Impact Officer; Antonella Attanasio, referente ambito Giustizia Caritas Ugento - S. Maria di Leuca, “Sportello VI Opera”; Giuseppe Santoro, dirigente penitenziario Udepe; padre Angelo De Padova, cappellano Casa Circondariale Borgo San Nicola a Lecce; Alessandro Borgia, luogotenente comandante Stazione Carabinieri Ugento. Le conclusioni sono affidate a mons. Vito Angiuli, vescovo di Ugento - S. Maria di Leuca Dal 2020, la Caritas diocesana ha stilato una Convenzione con il Tribunale di Lecce, alla luce del protocollo tra Caritas Italiana e Ministero di Grazia e Giustizia, per l’accoglienza di persone coinvolte in misure di esecuzione penale esterna. Negli anni alcune parrocchie della Diocesi hanno accolto queste persone senza un coordinamento che tenesse traccia delle accoglienze e dei risultati raggiunti alla fine di ogni percorso e, soprattutto, senza interazioni tra i vari attori. Grazie al progetto, è stato avviato lo “sportello VI Opera”, che sta svolgendo la funzione di creare un coordinamento funzionale alle prese in carico, dando vita a percorsi di accompagnamento educativo rivolti alle persone più vulnerabili, come quelle colpite da procedimenti penali, ad uscire dalla loro situazione, anche attraverso l’attenzione alle loro famiglie. Inoltre è stato realizzato un programma con l’obiettivo di formare dei volontari, in grado di supportare le comunità in queste azioni di accoglienza e inclusività. Lo sportello è diventato un importante riferimento degli Uffici dell’Udepe e degli avvocati, ma soprattutto dei beneficiari; ciò ha portato a un aumento non previsto delle richieste: si è passati dall’accoglienza di 15 Affidati in Prova e di 12 Lavori di Pubblica Utilità all’attuale numero: 49 volontari in Affidamento in Prova e 28 LPU. Inoltre sta supportando una comunità parrocchiale nell’accoglienza di un ragazzo agli arresti domiciliari. Raffaele Diomede: “I social alimentano la rivalità. Il carcere? Non è la soluzione” di Federica Dibenedetto L’Edicola del Sud, 20 gennaio 2025 “Stiamo abbandonando intere generazioni a loro stesse, lasciandole vivere un profondo disagio”. A lanciare l’allarme è il pedagogista esperto in devianza minorile, Raffaele Diomede: “Non basta la repressione: serve un’educazione efficace. Le misure punitive come il carcere non sono una soluzione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un lavoro educativo e pedagogico mirato, che aiuti i giovani a sviluppare empatia e a gestire i propri comportamenti. Questo significa coinvolgere educatori, psicologi e professionisti del settore per intervenire in modo tempestivo e strutturato. Bisogna creare un sistema di supporto che sappia cogliere i segnali di disagio e agire prima che le situazioni possano degenerare”. Quali sono le cause principali del fenomeno? “Alla base della violenza giovanile c’è spesso una mancanza di empatia, ovvero l’incapacità di controllare i propri comportamenti e di comprendere le emozioni altrui. E così, i ragazzi manifestano il loro malessere attraverso atti violenti. In passato, atti predatori come furti o rapine potevano essere alla base delle aggressioni. Oggi, invece, la violenza è spesso fine a se stessa, priva di un obiettivo concreto”. Ci sono dei contesti in cui questa violenza emerge maggiormente? “Si tratta spesso di contrasti tra giovani di quartieri diversi, che intendono mettere in atto azioni punitive o regolamenti di conti per affermare la propria supremazia territoriale. Le risse diventano un modo per ostentare prestigio e potere nei propri ambienti, ma queste dinamiche portano inevitabilmente a epiloghi gravi. Inoltre, i social non aiutano, perché ormai rappresentano un palcoscenico dove i ragazzi mostrano il proprio status, alimentando rivalità e comportamenti aggressivi”. Che ruolo hanno le scuole e le famiglie? “Fin dalle elementari è possibile cogliere i segnali di disagio nei bambini, come piccoli atti di bullismo. Questi comportamenti, se non vengono compresi e affrontati tempestivamente, possono degenerare in violenza vera e propria, arrivando nei casi peggiori a trasformarsi in reati. Le famiglie, da parte loro, hanno una responsabilità determinante. Molti ragazzi abbandonano le scuole perché provengono da contesti familiari caratterizzati da una povertà di valori e da mancanza di riferimenti educativi solidi. Molti ragazzi si indebitano per pagare il gioco d’azzardo, e questo li spinge ulteriormente verso comportamenti devianti. Inoltre, stiamo assistendo a un incremento del consumo di sostanze stupefacenti, in particolare droghe chimiche spesso prodotte in casa. Questi sono tutti segnali di un disagio profondo che non possiamo più ignorare”. Come si può arginare questa ondata di violenza? “Non basta la repressione: serve un’educazione efficace. Le misure punitive come il carcere non sono una soluzione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un lavoro educativo e pedagogico mirato, che aiuti i giovani a sviluppare empatia e a gestire i propri comportamenti. Questo significa coinvolgere educatori, psicologi e professionisti del settore per intervenire in modo tempestivo e strutturato. Bisogna creare un sistema di supporto che sappia cogliere i segnali di disagio e agire prima che le situazioni possano degenerare”. Olanda. Meno detenuti e prigioni dismesse: come ci sono riusciti? di Francesca Salvatore insideover.com, 20 gennaio 2025 Il numero di persone detenute in carcere in tutto il mondo sta crescendo, ma nei Paesi Bassi la tendenza va nella direzione opposta. Negli ultimi dieci anni, venti prigioni sono state chiuse nel Paese. Gli olandesi hanno visto la loro popolazione carceraria diminuire di oltre il 40% negli ultimi 20 anni: non si tratta di una ricetta miracolosa ma della risultante di differenti fattori, ma quello che risulta vincente è l’atteggiamento culturale nei confronti della detenzione, che guarda alla permanenza in prigione come qualcosa che fa più male che bene e non garantisce la redenzione e tantomeno il reinserimento sociale. Uno studio condotto dalle Università di Leida e Portsmouth ha rilevato che il numero di persone in carcere nei Paesi Bassi è sceso da 94 ogni 100.000 cittadini a 51 ogni 100.000 tra il 2005 e il 2016. Sebbene la tendenza al ribasso non sia continuata da allora, i dati di Eurostat suggeriscono che il tasso di incarcerazione si è stabilizzato a questo basso livello. Nel 2021 e nel 2022 era a 54 ogni 100.000. Ciò rende i Paesi Bassi uno dei pochi Paesi che hanno visto la popolazione carceraria diminuire. Una di queste è legata alla riduzione dei tassi di criminalità convenzionale e violenta, come l’omicidio. D’altro canto, molta criminalità convenzionale è finita in precise cloache online ed è meno visibile. E quindi meno persone finiscono in prigione. Questo aspetto non è di certo un merito del sistema olandese. Quello che risulta vincente è invece l’atteggiamento culturale locale nei confronti della detenzione e che guarda a una permanenza in prigione come qualcosa che fa più male che bene e non garantisce né redenzione tantomeno il reinserimento sociale. Un sondaggio pubblicato dall’European Journal of Criminology nel 2014 ha rilevato un’ampia accettazione delle condanne sospese nel Paese, riflettendo un consenso sociale sull’importanza della riabilitazione. I giudici olandesi sono molto più propensi a dare servizi alla comunità o una condanna sospesa in casi di reati minori. Un altro fattore sono le condanne più brevi per i crimini non violenti. Un ricercatore senior presso il Dutch Study Centre for Crime and Law Enforcement, Peter van der Laan, ha dichiarato alla stampa che il 55% di tutte le condanne detentive nei Paesi Bassi sono inferiori a un mese; tre quarti sono inferiori a tre. Inoltre, invece di trattenere le persone in cella, le autorità olandesi assicurano che i colpevoli rispettino le restrizioni legali, tra cui confini geografici e coprifuoco, utilizzando il tagging elettronico; una nuova alternativa alle pene detentive. Con questi dispositivi, le autorità possono sorvegliare i trasgressori e prevenire crimini futuri. La ricerca mostra che questo non solo è più economico, ma riduce anche la probabilità di recidiva. Anche nei casi in cui viene comminata una pena detentiva, la durata delle condanne per reati minori come il furto è diminuita in modo significativo nell’ultimo decennio, sebbene la durata delle condanne per reati violenti e sessuali sia aumentata. Dal 2006, i procuratori statali nei Paesi Bassi possono gestire alcuni casi senza il coinvolgimento di un giudice e persino imporre pene non detentive. È un cambiamento introdotto per accelerare il processo giudiziario e ridurre il carico di lavoro per i giudici. La riforma ha fatto sì che un minor numero di casi finisse in tribunale, dove i sospettati avrebbero potuto affrontare una possibile pena detentiva. Ciò ha contribuito a sua volta alla diminuzione complessiva del numero dei detenuti. A questo si aggiunge un’attenzione per la salute mentale che è spesso precondizione e conseguenza dei reati. Il sistema giudiziario olandese fornisce percorsi di riabilitazione specializzati alle persone affette da malattie mentali. Le carceri olandesi gestiscono un programma di riabilitazione psicologica unico nel suo genere, noto come TBS, che è parte integrante del sistema di giustizia penale. I detenuti rimangono in un centro di cura, a volte dopo una pena detentiva, dove ricevono cure per le condizioni psicologiche che hanno contribuito ai loro crimini. Ogni due anni, i giudici valutano se il trattamento debba essere esteso, con una permanenza media di due anni. Con queste riabilitazioni si affrontano disturbi della personalità, dipendenze e problemi finanziari, mentre i giudici valutano se il trattamento debba essere esteso; la permanenza media è di due anni. Il rapporto tra personale sanitario nelle carceri nei Paesi Bassi supera quello della comunità generale. Ci sono più infermieri per detenuto rispetto al minimo raccomandato. Mentre il numero di medici e psichiatri scende al di sotto della media della regione europea, il livello complessivo del personale sanitario è significativamente più alto. La disponibilità di operatori sanitari è particolarmente importante dato che per molti detenuti la prigione è il primo luogo in cui hanno accesso ai servizi sanitari. I Paesi Bassi contribuiscono al database europeo Health In Prisons (Hiped) dell’OMS/Europa, sviluppato per i decisori che vogliono migliorare i sistemi sanitari nelle strutture di detenzione nei loro Paesi. I dati Hiped sono condivisi volontariamente dagli Stati membri in tutta la regione europea, consentendo trasparenza e benchmarking delle migliori pratiche. Mentre i tassi di detenzione stanno calando in molti Paesi, alcuni si rifiutano ostinatamente di seguire questa tendenza e il Regno Unito è uno di questi. Gli esperti lo chiamano “populismo penale”: si tratta delle sempiterne promesse di “sbattere in cella e buttare a chiave”, politiche dure che si crede piaceranno al pubblico prendendolo alla pancia, piuttosto che seguire l’evidenza: la detenzione dura risolve poco e perpetua i malesseri sociali. Gran Bretagna. “Restrizioni stile Covid contro il sovraffollamento carcerario” agi.it, 20 gennaio 2025 La proposta degli avvocati include il potenziamento delle misure di detenzione domiciliare per i trasgressori non violenti e “prigioni part-time”. Condizioni simili alle restrizioni imposte dal Covid dovrebbero essere applicate ai criminali come alternativa alle carceri sovraffollate. La proposta arriva da un gruppo di avvocati inglesi. In un documento ufficiale presentato alla revisione delle sentenze in corso, guidata dall’ex segretario conservatore alla Giustizia David Gauke, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha chiesto di prendere in considerazione un “uso più creativo della pena”. Le idee avanzate dall’organismo, che rappresenta gli avvocati in Inghilterra e Galles, includono il potenziamento delle misure di detenzione domiciliare per i trasgressori non violenti e “prigioni part-time” che aiuterebbero i detenuti a reintegrarsi nella società. “Un maggiore ricorso al coprifuoco di 20 ore come alternativa diretta alla detenzione avrebbe una serie di vantaggi”, si legge in un documento presentato alla revisione. “È possibile che restrizioni simili a quelle imposte durante le serrate legate a Covid possano essere introdotte come misure punitive”. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha affermato che esistono già leggi che vietano ai trasgressori l’accesso ai pub, ai campi sportivi e agli eventi sociali, il che potrebbe “costituire una significativa privazione della libertà” senza che i trasgressori finiscano in carcere. Ha inoltre esortato il governo a ispirarsi alla Svezia, dove i detenuti possono essere rilasciati per periodi prestabiliti, da alcune ore a diversi giorni, per visitare i familiari, completare corsi di istruzione e cercare lavoro. L’organismo ha affermato che una forma di carcere a tempo parziale potrebbe essere concepita per gli autori di reati a basso rischio che non hanno commesso crimini violenti, consentendo loro di lavorare, formarsi e mantenere i legami familiari mentre li si prepara al rilascio. Michelle Heeley KC, che ha guidato il gruppo di lavoro che ha elaborato le proposte di condanna del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, ha affermato che il sistema attuale “non funziona”. “Il numero di persone in carcere è costantemente aumentato, ma il tasso di criminalità non si è ridotto e la recidiva è aumentata. Mandare le persone in carcere più a lungo non ha l’effetto deterrente che si pensava”, ha dichiarato all’Observer. Medio Oriente. Donne e minori sono tra i primi 90 palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane ansa.it, 20 gennaio 2025 Novanta in tutto, 69 donne e 21 minori sono i primi prigionieri palestinesi liberati da Israele a fronte del rilascio dei primi tre ostaggi rilasciati da Hamas allo scattare della tregua. Sono 90 i prigionieri palestinesi rilasciati oggi da Israele, 69 donne e 21 uomini di cui otto minori. Nessuno di loro ha condanne per omicidio. Una volta arrivati al carcere di Ofer, secondo quanto riferito dal Times of Israel, verranno identificati da rappresentanti della Croce rossa e aspetteranno qui il rilascio definitivo, a fronte della liberazione dei tre ostaggi israeliani. Il cinico conteggio dei rilasci prevede che 30 palestinesi siano liberati per ciascun civile israeliano e con un “peso” corrispondente. Ovvero, per il momento dal carcere israeliano escono detenuti “minori”, quindi non ergastolani e non nomi legati a ruoli apicali della dirigenza di Hamas. C’è Khalida Jarrar, quasi un personaggio storico dell’attivismo palestinese: ha 62 anni ed è una componente di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione attiva fin dagli anni 60, protagonista anche della Seconda Intifada e che da Israele, Stati Uniti e Ue è designata come organizzazione terroristica. Khalida Jarrar - attivista per la difesa dei diritti umani e che proprio sui diritti dei detenuti palestinesi ha guidato importanti battaglie - è stata deputata, eletta al parlamento palestinese nel 2006 e nell’ultimo decennio è stata a più riprese arrestata e rilasciata, sebbene mai condannata per coinvolgimento diretto nelle azioni militari del Fronte Popolare. Nel 2007 le è stato vietato di viaggiare all’estero, divieto poi revocato nel 2010 per consentirle di ricevere cure mediche in Giordania. Nel 2015 la sentenza è stata di 15 mesi di detenzione per incitamento e appartenenza a un’organizzazione vietata e l’arresto più recente nel dicembre 2023, con gli ultimi sei mesi trascorsi in isolamento in una piccola cella, stando ad alcune indicazioni. Dal suo ingresso in carcere oltre un anno fa non è stato consentito nemmeno al marito, Ghassan Jarrar, di farle visita in prigione, come lui stesso ha denunciato in una recente intervista. Un precedente legato ai suoi periodi in carcere riguarda la morte della figlia Suha, nel 2021, a Khalida fu negato un permesso su basi umanitarie per partecipare al funerale. Medio Oriente. Chi sono i palestinesi da rilasciare: Zubeidi e gli altri 1.890 detenuti di Davide Frattini Corriere della Sera, 20 gennaio 2025 Pubblicato l’elenco dei 735 in carcere affinché i famigliari delle vittime possano fare appello. Per ora resta in cella Marwan Barghouti, considerato l’erede di Abu Mazen. Quando ha deciso di slacciare la pistola Smith & Wesson color argento dalla cintura e di nascondere il fucile mitragliatore M-16 (solo perché avrebbe dovuto consegnarlo agli israeliani, disarmo simbolico), l’unico esplosivo che Zakaria Zubeidi portava ancora in giro era quello conficcato in faccia: anni prima, si stava costruendo una bomba ma gli era esplosa troppo presto. Con quei grani di pepe sottopelle, il sorriso di chi resta lo sceriffo anche senza esibire bandoliere, passeggiava per i vicoli del campo rifugiati di Jenin, ormai in pensione dalle battaglie più sanguinose della seconda intifada. Le unità speciali dell’esercito hanno cercato di assassinarlo sei volte: leader delle Brigate Al Aqsa nel Nord della Cisgiordania, nel 2002 ha progettato l’attacco (sei morti) a un seggio elettorale durante le primarie del Likud, il partito di Benjamin Netanyahu, ed è stato accusato di aver inviato attentatori suicidi da quella che venticinque anni fa l’intelligence chiamava “la capitale dei kamikaze”. Neppure l’accordo di amnistia firmato nel 2007, di fatto una resa, lo ha tenuto fuori dal carcere: il patto è stato revocato dodici anni dopo dagli israeliani, l’accusa quella di aver continuato a gestire le operazioni. Di prigione è uscito una volta da evaso - fuga rocambolesca che ne ha rafforzato il mito tra i palestinesi nonostante sia stato poi ripreso - e adesso nelle prossime settimane, da detenuto rilasciato ufficialmente. Per gli israeliani il suo nome è uno dei più pesanti da elaborare nella lista di 1.890 palestinesi - questo il numero secondo fonti egiziane - che verranno liberati, da oggi a 42 giorni, in cambio di 33 ostaggi tenuti dai terroristi a Gaza. Hamas ha chiesto di inserire Zubeidi e altri boss delle Brigate Al Aqsa, legate al Fatah fondato da Yasser Arafat e adesso presieduto da Abu Mazen, proprio per dimostrare di saper superare le rivalità tra fazioni nel nome dei prigionieri. Che in Cisgiordania o a Gaza restano il simbolo più rispettato della lotta, tutti hanno un parente, un amico, un conoscente passato dalle celle israeliane. L’organizzazione palestinese Addameer calcola che in carcere ci siano oltre 10 mila persone: i 320 minori e le 88 donne saranno tra i primi a essere rimandati a casa. Il ministero della Giustizia a Gerusalemme ha pubblicato l’elenco con i nomi dei 735 detenuti che verranno rilasciati perché i famigliari delle vittime possano presentare appello alla Corte Suprema. Oltre a loro sarà scarcerato un migliaio di palestinesi di Gaza imprigionati durante questi 470 giorni di offensiva, nessuno coinvolto nella mattanza del 7 ottobre del 2023. Escono detenuti condannati per i massacri perpetrati durante la seconda intifada come Wael Qassim, trentacinque ergastoli per il coinvolgimento in una serie di attacchi tra cui l’esplosione al Café Moment di Gerusalemme nel 2002. O Ahmad Obeid che ha inviato il kamikaze della strage al bar Hillel di due anni dopo. Ad Hamas appartiene Mohammed Abu Warda: di ergastoli ne ha presi 48 anche per due bombe che hanno ammazzato 45 israeliani nel 1996. Mahmoud Attallah è stato condannato per l’uccisione di una donna a Nablus e dopo accusato di violenza sessuale sulle guardie carcerarie. Khalida Jarrar è stata eletta in Parlamento nel 2006 con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, è un’attivista per i diritti dei carcerati ed è stata riarrestata all’inizio della guerra, anche se non è mai stata condannata per la partecipazione alle operazioni del Fronte. Dalal Suleiman è invece la sorella di Saleh Al Arouri, numero due di Hamas fino alla sua uccisione a Beirut un anno fa, era incaricato di coordinare gli attacchi in Cisgiordania. Nella lista della prima fase non compare Marwan Barghouti, condannato a cinque ergastoli per terrorismo, considerato il Nelson Mandela arabo, accreditato da qualche governo occidentale come un successore al presidente Abu Mazen. E pure da chi in cella ce l’ha messo: lo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, valuta che nei Territori sia ormai meglio confrontarsi con un capopopolo capace di unificare le fazioni e mantenere il controllo. Barghouti - soprannominato Napoleone per la piccola statura e le grandi ambizioni - resta anche dalla cella il più popolare leader palestinese. Di poter mantenere il controllo sulla Cisgiordania e di essere pronto a imporlo a Gaza sta cercando di dimostrarlo Abu Mazen. Le sue forze sono entrate nel campo rifugiati di Jenin dopo sei settimane di trattative-assedio: hanno ottenuto che i miliziani accettassero la presenza di polizia ed esercito, non sono riuscite a far loro consegnare le armi. Il ritorno di Zubeidi potrebbe aiutare l’anziano raìs a contenere (per ora) le nuove generazioni.