“I detenuti devono respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità” agenziavista.it, 1 gennaio 2025 “Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine.” Lo ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di fine anno. "L'anno si è chiuso con 89 suicidi: la politica ascolti Mattarella" di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 1 gennaio 2025 Il monito di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria. "Ringraziamo il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, particolarmente per le sue parole sul sistema carcerario che ha pronunciato durante il tradizionale discorso di fine anno. Ancora una volta il presidente della repubblica ha richiamato le condizioni inammissibili delle nostre prigioni, caratterizzate specialmente da un sovrappopolamento detentivo prossimo a 16mila reclusi oltre la capienza e da una penuria negli organici della polizia penitenziaria di oltre 18mila unità. Ben 89 sono stati i suicidi di ristretti nell’anno che si chiude, mai così tanti, cui bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria che, altresì, si sono tolti la vita. Oltre 240 sono stati i decessi totali, due gli omicidi, più di 3.500 le aggressioni alla polizia penitenziaria, molteplici le evasioni, non si contano le risse, i traffici illeciti, gli stupri, le violenze. Numeri impietosi che restituiscono un quadro oggettivo della drammaticità e della disfunzionalità di prigioni diffusamente illegali e che non assolvono a nessuno degli scopi a esse assegnati né tanto meno alle finalità delle pene sancite dall’art. 27 della Carta costituzionale”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria. "Il parlamento e il governo ascoltino le parole del garante della costituzione e aprano immediatamente una discussione seria, senza pregiudizi ed evitando di radicalizzare le contrapposizioni, per l’indifferibile varo di provvedimenti utili a restituire crismi di civiltà e legittimità al sistema penitenziario, deflazionando la densità detentiva, implementando gli organici del personale e garantendo l’assistenza sanitaria, conditio sine qua non per riformarlo e stabilizzarlo compiutamente anche attraverso la riorganizzazione e il potenziamento di tutti servizi interni ed esterni, passando per il tangibile rafforzamento del corpo di polizia penitenziaria le cui condizioni di lavoro sono rese inaccettabili", conclude De Fazio. Ergastolo, la pena statica che guarda solo al passato di Luciano Eusebi* Il Riformista, 1 gennaio 2025 Soffermiamoci in primo luogo sull’idea di ergastolo, tralasciando, cioè, i profili delle sue (più o meno effettive) mitigazioni. Si tratta di verificare, dunque, quale modello della risposta al reato esprima l’ergastolo e come esso si collochi nella prospettiva della prevenzione. Appare utile muovere da un presupposto: il reato, in quanto fatto storico, è irrimediabile. Si tratta, peraltro, di una caratteristica della condizione umana, nel cui ambito nulla torna indietro. Rispetto al reato potrà essere possibile una qualche riparazione dell’offesa, come potrà darsi il promuovere la revisione critica, e la modificazione, delle condotte che l’abbiano prodotto: fino a una ricomposizione dei rapporti personali e sociali che abbia incrinato. Tutte cose le quali, comunque, guardano in avanti. Dopo una frattura dei suddetti rapporti, ciò che può risultare proficuo è solo l’attivare qualcosa di opposto rispetto alla logica che le soggiace. Onde contrastare il riproporsi della medesima logica nel futuro. La gestione costruttiva dei problemi che coinvolgono l’agire umano ha natura dinamica. Questo può valere, almeno in linea di principio, anche per la pena detentiva temporalmente definita, che dovrebbe perseguire intenti risocializzativi. Ma non vale per l’ergastolo, che rende irrimediabile anche il percorso esistenziale dell’individuo che abbia delinquito. È la pena statica per eccellenza, che guarda solo al passato. L’espressione estrema, a parte la pena di morte, di un mero intento retributivo. È la pena che rimuove ogni consapevolezza dei profili di corresponsabilità connessi, in modo più o meno intenso, a ciascun fatto criminoso: nel suo orizzonte, non c’è alcun approfondimento da compiere che collochi la posizione dell’autore di reato nella trama dei rapporti in cui ha vissuto; non c’è alcuna indicazione da trarre, di conseguenza, onde agire sul contesto in cui quel fatto è maturato. Serve, tuttavia, la pena perpetua come monito sociale affinché non si delinqua? Rispetto ai reati di omicidio espressivi di odio, che resta l’ambito più classico delle condanne all’ergastolo (sebbene il nostro paese si collochi tra quelli a minor ricorrenza dell’omicidio volontario), l’irrilevanza in termini di deterrenza della minaccia sanzionatoria risulta palese: piuttosto, la ricerca dell’esemplarità attraverso la punizione massima finisce per oscurare, nei casi in cui il soggetto agente sia ritenuto imputabile, l’incidenza di stati psicologici complessi. Ma anche per quanto concerne i fatti gravi di criminalità organizzata, di tipo mafioso o meno, la ponderazione della pena edittale rispetto alla possibile impunità di quei fatti e dei ruoli di potere in tal modo conseguibili appare del tutto secondaria. Di certo, invece, il ricorso all’ergastolo si colloca in un quadro che nega l’orientamento motivazionale delle sanzioni penali, costituente il fulcro della prevenzione generale in quanto rivolto a conseguire adesioni per scelta personale alla legalità, e avalla, attraverso l’enfasi della punizione senza speranza, il disinteresse circa la prevenzione primaria e, in genere, circa la politica criminale. Tutte considerazioni, quelle che precedono, le quali hanno condotto, lo si sa, a smussare l’irrimediabilità dell’ergastolo, prevedendo che il condannato a simile pena, come esige la Corte europea dei diritti dell’uomo, debba poterne vedere la fine ove, dopo un lasso di tempo corrispondente a quello di lunghe condanne detentive, si constati una conseguita rieducazione (costituente, del resto, l’esito di maggior impatto generalpreventivo dell’esecuzione penale). Rimanendo con ciò il dato, però, che, mentre chi si vede inflitta una detenzione temporale pur lunga, può far conto, se la vita lo assiste, a una liberazione sicura, quest’ultima rimane incerta per l’ergastolano. È davvero necessario, tuttavia, non andare oltre simile soluzione compromissoria? Alcuni richiameranno, in proposito, l’esigenza di tener conto della ragione stessa che giustifica il perseguimento, in certi casi, del fine rieducativo senza che si rinunci alla restrizione della libertà: vale a dire la probabilità, altrimenti, della recidiva di reati gravi (secondo una logica di extrema ratio, peraltro, ben lungi dall’essere attuata). Ora, potrebbe permanere tale probabilità anche dopo molti o moltissimi anni? Vi sono effettivamente reati per i quali è da reputarsi indispensabile prevedere che la pena non abbia termine se la rieducazione del condannato non risulti comprovata (posto che, fuori dal caso dell’ergastolo, ciò non è richiesto, comportando il fine rieducativo un orientamento ad esso conforme dei contenuti sanzionatori, ma non un obbligo di risultato, che aprirebbe a derive illiberali)? Del resto, l’aleatorietà del fine pena non potrebbe, invero, compromettere l’impegno del condannato a rieducarsi? È noto che le commissioni ministeriali Pisapia (per la riforma del codice penale) e Palazzo (per la riforma del sistema sanzionatorio penale) avevano operato proposte de iure condendo: la prima sostituendo l’ergastolo con una c.d. pena di massima durata, ricompresa tra i 28 e i 32 anni di reclusione (elevabili fino a 38 anni in caso di concorso con reati essi pure punibili con tale pena), ma con possibili riduzioni all’esito di verifiche periodiche circa i risultati dell’osservazione della personalità del condannato; la seconda - dopo aver evidenziato un orientamento dei commissari contrario a mantenere la pena in oggetto, tuttavia conservata per mere ragioni di praticabilità politica delle proposte di riforma - limitando l’ergastolo ai soli casi di concorso tra più reati puniti con l’innovativa detenzione speciale da 24 a 28 anni, ma prevedendo nel contempo l’estinzione dell’ergastolo stesso dopo 30 anni, salvo il permanere di esigenze di prevenzione speciale da rivalutare con periodicità almeno annuale. Riterremmo necessario, peraltro, giungere a stabilire, in base all’impianto dei princìpi costituzionali, che la pena detentiva inflitta debba avere sempre un termine massimo (umanamente realistico) predeterminato, oltre il quale non possa protrarsi secondo le forme sue proprie e le relative modalità esecutive. Salvo introdurre, nei casi corrispondenti a quelli oggi puniti con l’ergastolo, forme di controllo anche stringenti da rivalutarsi nel corso del tempo (oggi maggiormente praticabili rispetto al passato), circa condannati per i quali risulti in concreto che, nel momento del fine pena, possano tuttora rivestire ruoli attivi nell’ambito di attività criminose gravi. E, comunque, appare necessario intervenire sulle norme stesse che oggi comportano, circa l’ergastolo c.d. ostativo, un’irrimediabilità della condanna difficilmente superabile, per il detenuto non collaborante, sulla base dei requisiti richiesti dal d.l. n. 162/2022, convertito ai sensi della l. n. 199/2022: recuperando, rispetto alla fase esecutiva della pena per reati ostativi, la regola ordinaria, valida in sede processuale, per cui la collaborazione di giustizia viene incentivata applicando disposizioni premiali e non prevedendo deroghe al regime ordinario dell’esecuzione stessa. Ferma, ovviamente, ogni accuratezza nella valutazione inerente ai percorsi rieducativi. Anche il superamento della logica dell’ergastolo è proprio di una società che non semplifica il problema della prevenzione dei reati e che, non recidendo la speranza per il condannato di un ritorno alla vita non detentiva, riafferma la strutturale diversità dell’approccio all’umano che essa intende perseguire rispetto alle fratture dei legami di solidarietà che tante volte constatiamo e che invero, se allarghiamo lo sguardo sul mondo, solo assai marginalmente sono intercettate dal diritto penale. *Professore Ordinario di diritto penale L’ergastolo e il diritto alla speranza del fine pena: qual è il messaggio nella condanna? di Domenico Pulitanò* Il Riformista, 1 gennaio 2025 È difendibile, come pena edittale massima, la pena dell’ergastolo? La Corte costituzionale (sentenza n. 264/1974) ha riconosciuto la legittimità della previsione della pena a vita, additando condizioni e limiti. È stata dichiarata illegittima per i minorenni (sentenza n. 168/1994). Assumo l’interpretazione della Corte costituzionale a premessa giuridica di riflessioni di politica del diritto. Venticinque anni fa avevo condiviso, come componente della Commissione presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso, la quasi unanime proposta di abolizione dell’ergastolo. In tempi recenti ho più volte espresso una posizione favorevole al mantenimento dell’ergastolo come pena edittale, pur condividendo la presa d’atto delle criticità del fine pena mai, e l’idea del diritto alla speranza (la possibilità di un fine pena) per tutti i condannati. La pena edittale a vita - Le ragioni del mio ripensamento sono legate a valutazioni concernenti non la pena ma la dimensione precettiva del diritto criminale, traduzione giuridica del principio responsabilità, principio fondante di un’etica della responsabilità. La presa di distanza dalle proposte di abolizione dell’ergastolo come pena edittale tiene conto della complessità dei problemi, e di ragioni contrapposte. Ci sono tipi di delitto la cui gravità oggettiva e soggettiva è così elevata che per il legislatore è ragionevole statuire la pena edittale massima possibile. In un ordinamento che ha messo al bando la pena di morte e lo splendore dei supplizi descritto da Michel Foucault, una pena detentiva molto severa può essere pensata come monito morale, mirato sull’estrema gravità di certi tipi di delitto. La pena edittale a vita è la pena massima pensabile, ma non come proclamazione di un fine pena mai: arrivare a un fine pena deve sempre restare una possibilità che il condannato può sperare (cui ha un diritto alla speranza) se recepisce il messaggio insito nella severa condanna. Nel linguaggio del nostro ordinamento costituzionale, è la prospettiva definita “rieducazione”. Nei decenni della Repubblica un referendum abrogativo sull’ergastolo è stato seccamente respinto nel 1981. Una proposta di abrogazione fu approvata da un ramo del Parlamento negli anni ‘90, ma non ha avuto seguito. In epoca recente, per i delitti puniti con l’ergastolo, il populismo penale all’inizio della XVIII legislatura ha escluso la possibilità di giudizio abbreviato, cioè della conseguente riduzione della pena (legge n. 33 del 2019). Una battaglia politica contro l’ergastolo come pena edittale sarebbe oggi, in un contesto segnato dal populismo penale, ad alto rischio di essere recepita e criticata come buonista. Per un impegno critico contro il populismo legato al penale è ragionevole cercare altre strade. L’area di applicazione - Per la costruzione del sistema delle pene detentive, il problema della pena massima è un punto importante del messaggio politico. La minaccia legale dell’ergastolo è un messaggio che esprime una valutazione di estrema gravità di un certo tipo di delitto; in un ordinamento decente, è pensabile un’area di applicazione molto ristretta. Coerente con l’idea “rieducativa” sarebbe la riduzione al minimo (fino all’eliminazione) dell’ergastolo ostativo. Riterrei pure giustificato dal senso di umanità che anche il condannato all’ergastolo per delitti gravissimi possa non finire la sua vita in carcere. Riguarda anche (e soprattutto) gli ergastolani e i condannati a pene lunghe la sentenza n. 10/2024 dalla Corte costituzionale: è contrario alla Costituzione un sistema che non consente ai detenuti un incontro con il proprio partner al riparo dallo sguardo di altri. Questa sentenza mette in discussione l’assetto materiale delle carceri, e mette in mora non solo il legislatore ma anche le istituzioni giudiziarie e l’amministrazione penitenziaria. Per una cultura giuridica liberale, un campo da esplorare. La tendenza attuale delle politiche penali va in direzione opposta alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia di pena, complessivamente considerata. Sono le criticità della pena detentiva - su tutti i piani: legislativo, giurisdizionale, materiale - gli aspetti più problematici e più ingiusti di ciò che l’usuale retorica definisce giustizia penale. Riguardano non solo la pena massima, ma l’intero sistema. *Professore Ordinario di diritto penale L’ergastolo gode di ottima salute e il governo Meloni ne ha salvato la versione più estrema di Andrea Pugiotto* Il Riformista, 1 gennaio 2025 L’ergastolo gode di ottima fama. L’opinione pubblica è convinta che, di fatto, non esista più nel nostro ordinamento, lamentandosene. I media, vecchi e nuovi, ne invocano l’applicazione ad ogni delitto efferato. Gli elettori nel 1981 si rifiutarono di abolirlo, mentre nel 2013 i Radicali non trovarono 500.000 firme per riproporne l’abrogazione referendaria. Nel nome delle vittime (ora di femminicidio), lo si ritiene l’unica punizione adeguata. Il governo Meloni, con il suo primissimo decreto legge, ha voluto salvarne la variante più estrema, quella ostativa. Il sottosegretario alla Giustizia Ostellari è favorevole ad estenderlo ad altre, più numerose fattispecie di reato. Gode anche di ottima salute, a giudicare dalle cifre disponibili (cfr. Susanna Marietti, “L’ergastolo in Italia non esiste”. I numeri di un pregiudizio, in Aa.Vv., Contro gli ergastoli, Futura, 2021, 93 ss.). Infatti l’ergastolo esiste in Italia più di quanto non esista mediamente in Europa. Le condanne - Lo storico della media delle condanne annuali al carcere a vita ne segnala una crescita impressionante. Aumenta il peso percentuale degli ergastolani sul totale dei detenuti condannati, e crescerà ancora in ragione della legge n. 33 del 2019 che ha precluso il giudizio abbreviato (e la conseguente sostituzione di pena) per i delitti puniti con l’ergastolo. Nel medesimo arco temporale (2008-2020), il numero delle liberazioni condizionali concesse a persone condannate alla pena perpetua (33) è di molto inferiore alla cifra degli ergastolani morti in carcere (111). Non basta: biblicamente, l’ergastolo è cresciuto e si è moltiplicato. Esistono, infatti, forme diverse di carcere a vita: comune, con isolamento diurno, ostativo alla liberazione condizionale, per folli rei se condannati per delitti puniti con l’ergastolo. Così come c’è ergastolano ed ergastolano: essere condannati a vita a vent’anni d’età non è come esservi condannati a cinquanta; essere ergastolani sottoposti al c.d. “carcere duro” (art. 41-bis, ord. penit.) non è come scontare l’ergastolo in regime ordinario. Le varianti incostituzionali - Fino a ieri, peraltro, abbiamo convissuto con ulteriori varianti del carcere a vita, poi rimosse dall’ordinamento perché incostituzionali: l’ergastolo per i minori, l’ergastolo “del terzo tipo” (Emilio Dolcini) per il reato di rapimento aggravato dalla morte dell’ostaggio, che precludeva al condannato - anche se collaborante con la giustizia - l’accesso a qualsiasi beneficio penitenziario (fosse pure un permesso premio di poche ore) prima di aver scontato “effettivamente” ventisei anni di carcere. Risultato? Alla data del 31 dicembre 2020 gli ergastolani in Italia erano 1.784, costretti ad un regime detentivo il cui fine pena è indicato dalla burocrazia ministeriale con una data inesistente, espressa in neolingua orwelliana: giorno/mese/anno, 99/99/9999. Eppure “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3, Cost.): puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato. Come può, allora, mirare al reinserimento sociale una detenzione fino alla morte del reo? La quadratura del cerchio - Per l’ergastolo comune, che pure il codice definisce pena “perpetua” (art. 22), la quadratura del cerchio è stata trovata nel 1962, estendendo per legge anche ai condannati a vita la liberazione condizionale: la possibilità cioè, per l’ergastolano che abbia dato prova di sicuro ravvedimento, di uscire di galera dopo ventisei anni di detenzione (riducibili fino a ventuno con il meccanismo degli sconti di pena, se meritati). Scarcerato, vivrà in libertà vigilata per cinque anni, trascorsi i quali - se avrà rigato dritto - la sua pena sarà estinta. Ecco perché, quando l’art. 22 c.p. venne impugnato davanti alla Corte costituzionale, la questione fu dichiarata infondata: potendo non essere più perpetuo, l’ergastolo incapsulerebbe una valenza risocializzatrice (sent. n. 264/1974). Dunque, secondo quella sbrigativa decisione, l’ergastolo non vìola la Costituzione purché non sia ergastolo. È un sofisma di corto respiro. Capovolto, dimostra che una pena perpetua è certamente incostituzionale. Rivela, altresì, che in quel lontanissimo precedente la Consulta non giudicò dell’art. 22 c.p., ma della sua ipotetica disapplicazione. Consigli per il da farsi - C’è dunque spazio per ritornare a Palazzo della Consulta, specie se qualche giudice saprà cogliere i segnali lanciati da due recenti sentenze costituzionali in tema di pena perpetua. Penso alla sent. n. 94/2023, costola del “caso Cospito”, che ha dichiarato illegittimo il divieto per il giudice di ritenere prevalenti le attenuanti sulla recidiva reiterata, nel caso di reati puniti con l’ergastolo. Vi si legge che “una pena fissa è per ciò solo indiziata di illegittimità costituzionale”, e che la pena dell’ergastolo “non è graduabile quanto alla durata, proprio perché è perpetua e tale è nel momento in cui viene irrogata con sentenza passata in giudicato: in quel momento la prospettiva per il condannato è una pena che non ha mai fine”. Dunque, in sede di cognizione, l’ergastolo è illegittimo. Penso, poi, alla sent. n. 260/2020, che ha confermato il divieto di accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di reati puniti con l’ergastolo. Qui la Consulta segnala, più volte, che l’”elenco dei delitti puniti con l’ergastolo previsti dal vigente codice penale” comprende reati dall’eterogeneo disvalore. Ed invita i giudici a quibus a impugnare tali scelte legislative irragionevoli. Li invita, cioè, a sfoltirne il catalogo mediante mirate questioni di costituzionalità. Esiste ancora qualche giudice non rassegnato alla “democrazia dell’ergastolo” (Alessandro Barbano)? Se sì, suggerisco a loro due libri come strenne natalizie: Aa.Vv. Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del “fine pena mai” (Giappichelli, 2024) e Aa.Vv., Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41-bis (Stampa Alternativa, 2024). Vi troveranno utili argomenti per decidere il da farsi. Buona lettura. *Professore Ordinario di diritto costituzionale Riina Jr, un cognome non può essere una condanna alla disumanità di Davide Vari Il Dubbio, 1 gennaio 2025 Polemiche per la decisione della Cassazione sul 41bis. Il carcere duro diventa un dogma, soprattutto per il figlio del Capo dei Capi, simbolo vivente di un passato che fa ancora tremare lo Stato. La Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati di Giovanni Riina contro la proroga del regime 41-bis, giudicando “meramente apparente” la motivazione fornita dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. Semplificando: i giudici avevano giustificato il carcere duro con il solito mantra del rischio di collegamenti con la mafia corleonese e della “sovraordinazione” di Riina Jr all’interno dell’organizzazione. La Suprema Corte, però, ha detto che quelle motivazioni non bastano, che non c’è un “percorso argomentativo effettivo e concreto”. In altre parole: rifate i compiti, questa volta meglio. E così esplode la polemica, perché qui non si parla di un detenuto qualsiasi. Si parla di quel cognome. Riina. Non importa cosa faccia, cosa dica, o cosa pensi. È il figlio del Capo dei Capi, il simbolo vivente di un passato che fa ancora tremare lo Stato. Ma proprio per questo è necessario un punto fermo: non possiamo sacrificare i principi costituzionali sull’altare di un cognome, per quanto ingombrante. Il 41-bis è nato come misura emergenziale, un rimedio temporaneo per affrontare il terremoto delle stragi di mafia degli anni ‘90. Doveva essere una risposta limitata nel tempo, una mossa d’urgenza. Ma in Italia nulla è più definitivo di ciò che si presenta come provvisorio. Così il carcere duro è diventato un dogma, una regola automatica per chiunque abbia a che fare con l’etichetta di “mafioso”, spesso senza un’analisi reale della pericolosità attuale. Giovanni Riina è stato arrestato nel 1996 e sottoposto al 41-bis nel 2002. Ventotto anni di carcere, gran parte dei quali trascorsi in isolamento, con una quotidianità ridotta all’osso e priva di speranza. E no, non si tratta di garantismo a buon mercato. È semplicemente ricordare che la Costituzione italiana, quella che tutti amano citare quando fa comodo, dice che la pena deve tendere alla rieducazione e non può mai essere contraria al senso di umanità. E il 41-bis, per sua natura, è l’esatto opposto: non rieduca, ma distrugge, annichilisce, è una sorta di esperimento: non un luogo per custodire ma un laboratorio di disumanità istituzionalizzata. Perché Giovanni Riina è ancora al 41-bis? È lì (soprattutto) perché il suo cognome pesa più di ogni altra cosa. Arrestato a vent’anni, è stato condannato all’ergastolo per pluriomicidio e associazione mafiosa. La sua “formazione” è stata guidata dallo zio Leoluca Bagarella, un uomo spietato che lo ha trascinato in una scia di sangue. Ma Giovanni Riina non è più quel ventenne, non è più quel giovane simbolo della mafia corleonese. È un uomo di cinquant’anni, prigioniero non solo di un regime che lo annichilisce, ma anche di un cognome che lo condanna a una punizione eterna. Si teme che possa riallacciare i contatti con la mafia di Corleone, che possa tornare a comandare. Ma davvero crediamo che quella mafia esista ancora? O stiamo combattendo i fantasmi di un passato che abbiamo già sconfitto? Il problema non è Giovanni Riina. Il problema è che usiamo il suo nome come pretesto per giustificare un sistema che viola i nostri stessi principi. Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, ha proposto di aprire un’indagine sul 41-bis. Sarebbe l’occasione perfetta per chiudere una pagina che puzza di emergenza permanente. Perché il 41-bis, così com’è, non è una misura di giustizia. È una macchia sul nostro ordinamento, una ferita che continua a sanguinare. Non si tratta di fare sconti a Giovanni Riina o a chiunque altro. Si tratta di riaffermare che lo Stato non può essere disumano. E se lasciamo che un Riina basti a giustificare l’eccezione, allora abbiamo già perso. Lazio. Suicidi, autolesionismo, rivolte e sovraffollamento: il 2024 è l’anno nero per le carceri di Natascia Grbic fanpage.it, 1 gennaio 2025 Sette le persone che si sono tolte la vita nell’ultimo anno, numerosi gli atti di autolesionismo: il 2024 è uno degli anni peggiori per le persone recluse nelle carceri del Lazio, dove i numeri del sovraffollamento sono sempre più preoccupanti. Diciotto persone morte a seguito di patologie o per cause ancora da chiarire. Sette suicidi, numerosi atti di autolesionismo: il 2024 si conferma l’anno nero per le carceri del Lazio, dove negli ultimi dodici mesi sono scoppiate numerose proteste e rivolte. Il motivo è il sovraffollamento estremo e le condizioni di vita poco dignitose per i detenuti, costretti a vivere in spazi ristrettissimi, con capienze che superano anche il 140%. Mancanza di privacy, carenza dei servizi, bagni rotti, e tutta una serie di mancanze che rendono la vita ancora più intollerabile per chi è recluso e non ha possibilità di uscire. In questo micro mondo che non è possibile lasciare, sono i più fragili a rimetterci: persone le cui condizioni mentali e di vita sono già precarie, che all’interno del carcere possono solo peggiorare. Senza contare la grande quantità di malati psichiatrici che non dovrebbero proprio varcare la soglia di quegli istituti, e che invece vengono messi lì sia per incuria, sia per mancanza di posti nelle Rems. Il garante dei detenuti del Lazio ha annunciato che proprio ieri un uomo anziano è morto in carcere mentre era in attesa di un trasferimento in una Rsa. “È il diciottesimo caso di morte nelle carceri del Lazio nel 2024, di cui sette suicidi, due per cause da accertare, uno a seguito di un lungo sciopero della fame. Non ho più parole”, le parole di Stefano Anastasia, che da tempo chiede per i detenuti l’applicazione di amnistia, indulto e condono della pena. Soprattutto in quegli istituti dove ormai il sovraffollamento ha raggiunto percentuali altissime, si dovrebbe discutere di procedere con misure alternative, specialmente per chi ha compiuto reati minori, e che invece si trova a dover stare in carcere perché magari non ha una casa o un legale che lo aiuti con i ricorsi per accedere a misure cautelari più leggere. Ma questo è anche l’anno che ha visto un forte sovraffollamento nelle carceri minorili. In generale la popolazione carceraria minorile è cresciuta in tutta Italia e Casal del Marmo non fa eccezione, con settanta detenuti al posto dei cinquanta previsti. Secondo quanto dichiarato da Pippo Costella, direttore di Defence For Children Italia, in un’intervista a La Stampa, la responsabilità sarebbe del “Decreto Caivano che amplia le possibilità di custodia cautelare e limita le opportunità di applicare misure alternative al carcere. Un approccio molto lontano da ciò che il nostro stesso ordinamento del 1988, considerato ‘illuminato’ nel mondo, è riuscito concretamente a dimostrare negli anni passati”. Il risultato sono state tutte una serie di rivolte che per tutto l’anno si sono succedute nelle carceri, da Rebibbia, a Regina Coeli, al Mammagialla, fino ai minori di Casal del Marmo. Rivolte che sono state duramente represse e che hanno avuto conseguenze pesanti per i detenuti, molti dei quali adesso devono affrontare nuove accuse. Piemonte. L’anno nero delle carceri: “Tutto cade a pezzi” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 1 gennaio 2025 Questo è ciò che emerge dal dossier presentato dal Garante per le persone detenute sul territorio piemontese, Bruno Mellano. Per iniziare, per le Vallette sono stati stanziati 12 milioni, soldi che è stato deciso verranno utilizzati per ristrutturare il padiglione C, dove le criticità strutturali riguardano per la maggiore gli impianti idrici, con uno spreco di acqua “intollerabile” come si legge nel dossier: criticità simili sono state riscontrate anche nel braccio femminile e nel padiglione B, dove la muffa è di casa. “Non sono note le tempistiche per questi lavori” fa notare la garante comunale Monica Gallo. Tante pagine raccontano strutture al limite: il rapporto della Gallo sul Lorusso e Cutugno racconta di un luogo fatiscente dove nessuno dei 5 padiglioni non presenta criticità importanti. Gallo sottolinea come diverse aree sociali siano state destinate diversamente, lì si somministrano terapie ad esempio: “L’area che dovrebbe essere dedicata all’infermeria non è idonea”. La raccolta dei rifiuti non è svolta con cura: questi vengono depositati negli stessi locali dove i detenuti stendono il bucato. Locale utilizzato anche come barberia. “Tanti detenuti non hanno uno sgabello, mangiano a letto”. A un anno dal decreto Caivano aumento del 50% dei minori in carcere: una generazione di sogni infranti. Mentre le carceri minorili sono in Anche l’Icam, struttura adibita ad accoglienza delle mamme con bambini, sembra sul punto di cadere a pezzi e qualche giorno fa una finestra è caduta a causa del vento. Anche qui infiltrazioni di acqua. Nessun mediatore culturale. Solo il padiglione E presenta aree fumatori: ovvero, solo quel braccio tutela i non fumatori dai danni nocivi del fumo passivo. A Ivrea la situazione non migliora. Il garante locale, Raffaele Orso Giacone, racconta un carcere dove non c’è possibilità di lavoro. Locali obsoleti dal punto di vista sanitario e da quello relativo al risparmio energetico. Celle che non rispettano i 3 mq calpestabili a persona. Niente doccia né acqua calda dentro. I detenuti sono in maggior parte uomini ma sono presenti diverse persone transessuali. Tutti gli infissi in ferro sono intaccati dalla ruggine e le finestre delle celle sono coperte da grate a maglia troppo fitte. Da rifare sarebbero le aree di passeggio (tutte). Come ci sarebbe da separare l’area di osservazione da quella di isolamento e quest’ultima andrebbe anche separata dall’infermeria. Non c’è uno spazio per i ristretti in semilibertà legata al lavoro né la biblioteca. Dentro, 262 persone a fronte di una capienza attuale di 189. “Una circolare annuncia il dimezzare dei budget sulle mercedi” dice Giacone. Questo si traduce in tagli su personale che bada ai non autosufficienti e a tanti altri servizi. Infine, Mellano porta a riflettere su una sentenza di 11 mesi fa a proposito del diritto all’affettività dei detenuti, con visite da parte di familari lontano da occhi. Sentenza che non è stata rispettata “si riunirà una Commissione ma le visite con privacy garantita dovrebbero già svolgersi” sottolinea Mellano. L’Ipm Ferrante Aporti registra 47 presenti a fronte di 48 posti (a luglio erano 60). Anche qui le condizioni sono di fatiscenza e degrado. Vi sono solo maschi: le femmine vanno al minorile di Pontremoli. L’anno che verrà sarà un altro anno difficile a sentire i garanti. “Il penitenziario di Alba chiuso nel 2016 per un’epidemia di legionellosi doveva esser pronto nel 2024. Speriamo nei prossimi sei mesi”. Per il Montalto spesi 4 milioni e mezzo: a capienza piena potrebbe ospitare 138 persone. I numeri sono neri in tutti gli istituti piemontesi: 4500 detenuti (161 donne, 116 ex art.41 bis) su 3970 posti. 1934 sono stranieri. 241 sono i posti non disponibili. Uniche strutture non sovraffollate (su 13 piemontesi) sono la Don Soria di Alessandria e il penitenziario di Saluzzo. Per le carceri italiane sono stati stanziati fondi importanti: “250 milioni di euro che sono chiusi in un cassetto” ironizza Mellano “di cui 84 milioni stanziati 3 anni fa, 49 milioni per le minorili e 166 per gli interventi di manutenzione straordinaria”. Il tasso di recidiva è ancora molto alto, 2/3 dei reclusi tornano in cella una volta liberi. Tasso che scende in quelle realtà dove i detenuti sono avvicinati al lavoro quando ancora dentro. In Italia ci sono 65 mila carcerati a fronte di 50 mila posti. “E ogni anno la conferenza di fine dicembre sullo stato delle carceri non si discosta in meglio da quella dell’anno precedente” conclude, con una punta di amarezza, Monica Gallo. Abruzzo. “Un annus horribilis” nelle carceri sansalvo.net, 1 gennaio 2025 Il bilancio di fine anno dell’associazione Voci di Dentro. Dopo i 69 suicidi avvenuti nel 2023, e gli 86 nel 2022, questo 2024 sta per chiudersi con una orribile cifra record: sono 88 i morti suicidi nelle carceri italiane; dieci anni fa erano 43, la metà, e con lo stesso numero di detenuti. Di questi 88, tre sono stati trovati impiccati nelle loro celle nel carcere di Teramo. Tra questi Patrick, che si è impiccato il 13 marzo a vent’anni al terzo giorno dall’arresto. Meno di vent’anni avevano altre sette morti suicidi nelle altre carceri italiane. Cinque di loro sono morti in cella di isolamento. Ma a tutti questi 88 vanno aggiunti i tanti indicati con la formula tipo: cause da accertare e altre cause. Nel totale quest’anno nei 200 istituti di pena sparsi in Italia le persone morte sono 243. Numeri segno di una istituzione fallimentare dove la fuga è l’unica soluzione: tremila sono stati i tentati suicidi, oltre diecimila gli atti di autolesionismo (tagli sul corpo, ingerimento di lamette, batterie…). Numeri terribili, impossibile per noi di Voci di dentro parlare di suicidi perché è una parola sbagliata (adatta solo ai titoli di giornale) soprattutto perché nasconde la responsabilità etica della società e perché solleva dalla responsabilità uno Stato che permette e ignora tutto questo. E nasconde il contesto, quello del carcere: un luogo dove le condizioni di detenzione sono sempre più degradanti, difficili da sopportare soprattutto per le persone che in carcere non ci dovrebbero stare: malati, persone con patologie psichiatriche e dipendenze, persone che andrebbero curate in luoghi idonei e non gettate all’inferno. Un luogo dove il sovraffollamento o meglio l’accatastamento di corpi in spazi chiusi e malsani supera ogni immaginazione, mediamente oltre il 130 per cento. Voci di dentro conosce bene il contesto abruzzese, soprattutto Chieti, Pescara e Lanciano dove abbiamo conoscenza diretta e frequentazioni costanti da sedici anni. E dove tocchiamo personalmente con mano la realtà. In sintesi: nel carcere di Chieti i posti letto “regolamentari” sono 79, ma i detenuti sono 135; a Pescara di fronte di 276 posti i detenuti sono 462; a Teramo dove i posti sono 255 le persone ristrette sono 390; a Sulmona invece che 323 come da pianta organica i detenuti sono 448; a Lanciano invece che 223 sono 257; a Avezzano invece che 53 i detenuti sono 75. E così per sopperire alla mancanza di posti letto se ne continuano ad aggiungere tanti altri “posti letto di fortuna”: materassini per terra senza branda, aggiunta di terze brande fin sotto il soffitto, materassini nelle stanze barberia come a Pescara o nelle sale colloqui avvocati peraltro senza gabinetto. Ammucchiati di notte e ammucchiati di giorno, anziani e dipendenti da sostanze, malati e fragili, tutti insieme in stanze per 4 che diventano per 6, stanze da sei che diventano da 12: all’ora del pranzo o della cena devono fare i turni perché nelle celle mancano sgabelli a sufficienza… E potremmo continuare. Agrigento. Giustizia riparativa: così la comunità cresce di Annalisa Putrone* italiacaritas.it, 1 gennaio 2025 Ad Agrigento il progetto sperimentale tra carceri, scuole e quartieri. Il progetto sperimentale di giustizia riparativa nel territorio diocesano agrigentino ha rappresentato un percorso di crescita per la comunità locale. Nato con l’obiettivo di introdurre e promuovere un concetto spesso sconosciuto, ha portato a risultati sorprendenti grazie a un impegno costante e a una serie di azioni mirate alla sensibilizzazione. All’avvio del progetto, la maggior parte della popolazione non conosceva il concetto di giustizia riparativa. Per molti era un termine astratto e lontano dalla quotidianità. Abbiamo, quindi, organizzato una serie di incontri di sensibilizzazione rivolti a diversi segmenti della società: parrocchie, gruppi di volontari, scuole, professionisti, istituti penitenziari e giovani. Questi incontri sono stati fondamentali per costruire una comprensione condivisa dell’approccio della giustizia riparativa. Abbiamo utilizzato varie pratiche per coinvolgere e stimolare il pubblico: cineforum, workshop interattivi, biblioteche viventi, incontri tematici, gruppi di discussione e simulazioni. In particolare, i giochi di ruolo si sono rivelati strumenti potenti per far emergere empatia e comprensione reciproca, elementi essenziali della giustizia riparativa. Gradualmente, abbiamo osservato un diffuso aumento di interesse. Se all’inizio nessuno credeva veramente nella giustizia riparativa, con il tempo molte persone hanno iniziato ad accogliere un punto di vista diverso dal proprio. Questa evoluzione è stata visibile e tangibile: una comunità inizialmente scettica è diventata progressivamente più aperta e ricettiva verso un approccio nuovo. Un aspetto particolarmente significativo del progetto ha riguardato il percorso parallelo tra scuole e case circondariali. Gli alunni delle scuole hanno lavorato sull’analisi dei bisogni di un soggetto autore di reato e sul ruolo che questi potrebbero avere nell’approccio alla giustizia riparativa. I ragazzi hanno riflettuto profondamente sulle ragioni e sui sentimenti che possono spingere una persona a desiderare una seconda possibilità e un reinserimento nella società. Parallelamente, presso l’istituto detentivo si è ragionato su quali potrebbero essere i bisogni delle vittime. Questo esercizio ha permesso ai partecipanti di sviluppare una maggiore consapevolezza e comprensione del dolore e delle difficoltà che le azioni spesso possono causare. È stato un momento di grande introspezione e umanità, che ha contribuito a creare un ponte empatico tra due mondi spesso considerati distanti e inconciliabili. Il culmine di questo percorso è stato l’incontro finale, che ha visto i ragazzi entrare in carcere per confrontare le riflessioni emerse dai lavori svolti. Questo incontro ha permesso di mettere in luce come le esigenze di riconciliazione e riparazione siano profondamente interconnesse e fondamentali per la costruzione di una comunità più accogliente. Un altro momento significativo del percorso ha riguardato l’ottenimento di una misura alternativa di una persona inizialmente ristretta presso la Casa circondariale, in seguito alla partecipazione ai laboratori; ciò gli ha permesso di prendere parte attivamente a un incontro di formazione diocesana. Durante questo evento, ha condiviso la sua esperienza e il percorso di responsabilizzazione che ha vissuto grazie agli incontri. Inoltre, in quell’occasione, è stato distribuito del materiale divulgativo prodotto con i contributi di entrambi i gruppi, trascritti e organizzati in opuscoli finali. Quando abbiamo intrapreso questo percorso, eravamo consapevoli delle sfide che avremmo dovuto affrontare. Tuttavia, un recente episodio ha evidenziato come la determinazione e la fiducia nel progetto hanno piantato dei piccoli semi di cambiamento. Un istituto scolastico ci ha contattati richiedendo il nostro intervento a seguito di una rissa che ha coinvolto alcuni giovani a San Leone, frazione di Agrigento, zona della movida estiva, sul litorale. Ragazzi che erano amici si sono trovati coinvolti in un conflitto apparentemente banale, degenerato e sfociato in un’aula di tribunale. Da quell’episodio è nato un percorso lungo e complesso, durato oltre un anno, che si è sviluppato in modo graduale, senza un obiettivo rigidamente definito. Non si trattava né di riconciliare né di risolvere il conflitto, ma di osservare come il processo stesso potesse evolversi. È stato un cammino costruito passo dopo passo, un “fare facendo”, dove ogni fase ha rappresentato un tassello e ogni incontro, ogni dialogo, ha contribuito a tracciare il cammino. Il percorso si è articolato in diverse fasi: inizialmente, si sono svolti incontri paralleli con i due gruppi separati, seguiti da colloqui individuali, mirati a favorire in ciascun ragazzo una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e responsabilità. Col tempo, in quella trama di ascolto e riflessione, qualcosa ha cominciato a cambiare. A un certo punto, si è considerata l’idea di un incontro collettivo, ma la maggior parte dei ragazzi non ha sentito il bisogno di affrontare quell’esperienza. Soltanto due di loro - proprio quelli da cui era nato il conflitto - hanno espresso la volontà di vedersi di persona. Tra questi, uno dei protagonisti iniziali della lite aveva partecipato agli incontri quasi per obbligo, sedendosi sempre in silenzio, chiuso nel suo mondo, con il pensiero fisso: “Perché dovrei parlare? Nessuno capisce davvero. E po, ‘sti cosi nun su pi mia (e poi, queste cose non fanno per me)”. Dentro di lui c’erano solo rabbia e frustrazione, sentimenti che lo avevano accompagnato fino a quel momento. Con il passare del tempo, tuttavia, quegli incontri hanno cominciato a smuovere qualcosa in lui. Per la prima volta, gli è stato chiesto non cosa fosse successo, ma come si sentisse. Questa attenzione alle sue emozioni lo ha spinto a riflettere e a prendere consapevolezza di un aspetto che fino a quel momento aveva ignorato: “Sentivo solo rabbia”. Questo dialogo emotivo ha innescato in lui un cambiamento interiore. La svolta è arrivata quando si è trovato faccia a faccia con l’altro ragazzo, quello con cui aveva avuto il litigio. Era terrorizzato, incerto su cosa dire e su quale sarebbe stata la reazione dell’altro. Tuttavia, quando l’altro ha cominciato a parlare, ha ascoltato e, per la prima volta, ha compreso il peso delle proprie azioni: “Ho ferito qualcuno”. Quando è stato il suo turno, ha alzato lo sguardo e ha trovato la forza di dire: “Mi dispiace”. Quelle parole, semplici e inaspettate, hanno liberato entrambi da un peso che non sapevano di portare. È uscito da quell’incontro con una sensazione nuova, un sollievo che non aveva mai provato prima: “Non pensavo fosse possibile, ma mi sento più leggero con così poco”. Questa frase invita a riflettere su come la giustizia riparativa non punti a risolvere il conflitto nel senso tradizionale, ma a favorire un riconoscimento reciproco delle proprie responsabilità, restituendo valore là dove è stato smarrito o non c’è mai stato. Non si tratta di “risolvere” in senso immediato, ma di risanare la relazione, di guardarsi negli occhi e comprendere il peso delle proprie azioni. L’atto di responsabilità condivisa, infatti, spesso libera chi lo compie più di chi lo riceve, poiché consente di abbattere limiti interiori che impediscono di superare rancori e frustrazioni. Ciò che inizialmente potrebbe apparire come un gesto semplice - una parola, un’ammissione, un momento di vulnerabilità - possiede in realtà una forza straordinaria: quella di alleggerire il peso di emozioni che sono state a lungo represse. Nel caso dei ragazzi, ogni singolo passo di ascolto e di riconoscimento reciproco ha avuto la capacità di dissolvere un fardello che, fino a quel momento, sembrava impossibile da portare. Eppure, a volte basta davvero “poco” per sentirsi più leggeri. Il progetto sperimentale ha rappresentato un autentico trampolino di lancio: una volta concluse le attività previste, gli incontri di animazione della comunità e le iniziative di sensibilizzazione sulla giustizia riparativa sono proseguiti con rinnovato slancio. Questi interventi hanno continuato a coinvolgere attivamente scuole, parrocchie e anche il corpo di polizia penitenziaria operante all’interno degli istituti penitenziari. Coinvolgere quest’ultimo gruppo ha presentato non poche sfide: come inizio, solo una minoranza degli agenti ha preso parte con un atteggiamento ricettivo e propositivo. Tale resistenza ha, tuttavia, evidenziato la complessità del cambiamento culturale necessario, confermando l’assoluta importanza di mantenere vive le azioni. Parallelamente, i “Percorsi di responsabilizzazione” avviati all’interno delle Case circondariali di Sciacca e Agrigento hanno offerto ai partecipanti uno spazio prezioso di riflessione sulle conseguenze delle proprie azioni. L’iniziativa, articolata in sessioni di dialogo e laboratori di riconciliazione, ha riscosso un interesse tangibile e una partecipazione sentita. Attraverso piccoli gruppi di discussione e colloqui individuali, i partecipanti hanno potuto maturare una più profonda consapevolezza della propria responsabilità, tanto personale quanto collettiva. Questo percorso ha favorito, inoltre, l’acquisizione di strumenti per affrontare in modo costruttivo i conflitti che possono emergere quotidianamente in un contesto di detenzione. In conclusione, il progetto sperimentale nella Diocesi di Agrigento ha dimostrato che, nonostante le difficoltà iniziali e l’assenza di obiettivi predefiniti, è stato possibile costruire una cultura della giustizia riparativa anche in comunità inizialmente estranee a questo concetto. I risultati ottenuti sono stati inaspettati e molto positivi, con un numero crescente di persone che hanno abbracciato un nuovo modo di vivere e gestire i conflitti. Siamo pertanto incoraggiati a proseguire su questa strada, consapevoli che il cambiamento culturale richiede tempo, ma è possibile e reale. *Operatrice della Caritas diocesana di Agrigento Un’agenda 2025 con poesie e scritti dei detenuti ansa.it, 1 gennaio 2025 Raccolti i componimenti del Premio letterario Città di Castello. Un’agenda con poesie e scritti dal carcere, per 2025 scandito anche dalle riflessioni e i pensieri dei detenuti: l’edizione realizzata dalla casa editrice Luoghi Interiori ha infatti una particolarità: è la prima agenda in Italia - si chiama “Luoghi della Bellezza” - a contenere poesie e racconti brevi non solo di poeti e scrittori affermati, ma anche di reclusi e recluse dei penitenziari italiani. “Sfogliando le pagine del calendario settimanale che ci guiderà per tutto il 2025 - spiega il direttore editoriale Antonio Vella - sarà piacevole soffermarsi sui componimenti degli autori reclusi che hanno avuto una menzione speciale nel corso dell’edizione 2024 del Premio letterario Città di Castello e in particolare nella sezione speciale a loro riservata, ‘Destinazione Altrovè”. L’agenda è stata già donata prima di Natale ai reclusi e alle recluse delle carceri umbre di Perugia e Spoleto, e a inizio gennaio sono previste le donazioni in altri dieci penitenziari a partire da quello di Rebibbia a Roma. “Anche attraverso il Premio letterario Città di Castello - ha affermato Antonio Vella - vogliamo contribuire con tutte le nostre energie a supportare l’amministrazione penitenziaria a fare in modo che il percorso di recupero delle persone attualmente recluse sia utile per il loro migliore reinserimento nella società al termine del periodo di detenzione. Questo prodotto editoriale può diventare anche un grande veicolo di comunicazione ‘idealè tra gli stessi reclusi: ci auguriamo che leggendo gli scritti di speranza dei loro compagni molti di loro possano intravvedere la luce in fondo al tunnel”. Lo scorso ottobre Città di Castello aveva infatti tenuto a battesimo il primo concorso letterario in Italia rivolto alle persone recluse nei penitenziari. “Destinazione Altrove-La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, nuova sezione speciale permanente inserita nell’ambito del Premio letterario internazionale Città di Castello giunto alla 18/a edizione (ideato ed organizzato dall’Associazione Culturale “Tracciati Virtuali” e dalla Società Dante Alighieri, con il sostegno e patrocinio del comune, della Regione e Provincia di Perugia), ha assegnato il riconoscimento ai primi tre detenuti classificati ed iscritti al concorso assieme ad altri provenienti da 22 istituti penitenziari con poesie e racconti brevi. “Con questo ulteriore progetto editoriale di straordinaria valenza sociale ma non solo - hanno commentato in una nota del Comune il sindaco Luca Secondi e l’assessore alla Cultura, Michela Botteghi - il premio letterario che porta il nome della nostra città si connota sempre di più per il grande significato umano e valoriale: senza dubbio un vanto ed orgoglio per la comunità tifernate, per la sua storia e tradizione plurisecolare nel comparto della tipografia e grafica”. “Un caso di giustizia negata”, presentato libro di Doris Lo Moro ansa.it, 1 gennaio 2025 L’assassinio del padre e del fratello e l’agire per la legalità. “Un caso di giustizia negata ma anche un modo per evidenziare come l’indagine non sia stata portata avanti per minacce ad un parente di un magistrato di rango. Parlo di una vicenda caratterizzata da un’indagine sbrigativa e di un processo con assoluzioni in un contesto di errori. E lo dico anche da addetta ai lavori. Parlo di una vicenda che oltre ad essere personale, mi ha dato spunto per parlare anche di fatti violenti subiti da tanti in contesti mafiosi, casi di femminicidi, violenze di ogni di genere”. Lo ha detto Doris Lo Moro, in occasione della presentazione del libro “Forte come il dolore. Un caso di giustizia negata” scritto dall’ex parlamentare e assessore regionale alla Sanità, nonché magistrato e già sindaco di Lamezia Terme. Nel libro, edito da Grafichè e che ha una prefazione dell’ex presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante, è narrata l’esperienza personale di Doris Lo Moro, che ha subito la perdita tragica del padre, Giuseppe Lo Moro e del fratello, Giovanni, assassinati nel 1985 in un contesto di violenza mafiosa a Filadelfia nel Vibonese. Nonostante i processi avviati, nessuno è stato condannato per quei crimini. “Una vicenda - ha sostenuto Lo Moro - che per me ha significato anche impegnarsi nella vita sia da addetta ai lavori appunto come dicevo prima, sia nell’impegno politico e sociale. Quello che voglio dire con questo libro è affermare il principio che mi ha accompagnato nella vita e nelle mie esperienze di lavoro e politiche, ovvero agire sempre per l’affermazione della legalità. Un’esperienza questa, per dire che dal dolore si può avere la forza per combattere, rialzarsi e andare avanti. Era l’unico modo per sopravvivere dopo quanto accaduto”. “Sono passati 40 anni dalla tragedia che ha sconvolto la mia famiglia - ha sottolineato Lo Moro - e in questi 40 anni ho conosciuto tante vittime. Spesso, soprattutto negli impegni politici, sono stata vicina alle vittime di vario genere, ai fenomeni come il femminicidio, alle intimidazioni di amministratori, alle vittime di ‘ndrangheta, di mafia. Sono sempre stata dalla parte delle vittime e non è un caso. Ora era arrivato il momento di esserlo, anche di trasmettere un messaggio di comunanza. È importante capire quanto dolore c’è nella nostra società, ma non solo per un fatto così affettivo, sentimentale. Perché lo Stato e la comunità deve dare maggiori risposte. Quando succede un fatto di questo genere, la prima cosa che succede è che la vittima deve dare delle spiegazioni. Ma perché è successo? La ricerca di un motivo. C’è sempre questa ansia crescente che apparentemente è umana, ma che sostanzialmente allontana da sé la violenza. Perché chi si chiede cos’è successo, e l’ho pensato anche io tante volte quando ero più ragazza, a me non potrebbe succedere, non ci sono motivi, la cosa triste è che queste cose succedono anche senza un motivo e oggi ne vediamo tante cose che succedono, allora c’è bisogno che la comunità capisca fino in fondo che queste cose appartengono a tutti e che sia solidale nei fatti, che si diano risposte, una delle risposte che spesso non si dà è proprio quella che devono dare le istituzioni e cioè è la giustizia, le sentenze, spesso non ci sono proprio processi perché spesso si resta davanti ai responsabili non individuati”. “Altre volte, come nel nostro caso - ha detto Lo Moro - si sono individuati dei responsabili e non si arriva a sentenze di condanna. Io ho vissuto questa violenza, e l’ho vissuta anche in una vista particolare, da magistrato, da giudicante. So quanto ho sofferto e so quanto ho cercato di capire quanto è stato difficile restare dalla parte della giustizia, con la ‘G’ maiuscola, sapendo che i giudici possono e sono fallibili, possono sbagliare. Ma so anche che il messaggio che vorrei trasmettere ai miei ex colleghi, a partire da mia figlia, che è una giovane collega, è che non devono dormire tranquilli, devono fare il loro dovere, non devono disfarsi dei problemi. Non devono scegliere la strada più facile, che potrebbe essere quella dell’assoluzione”. Dalla prigione alla speranza: l’arte incontra il carcere di Ettore Costa spazio50.org, 1 gennaio 2025 In occasione del Giubileo 2025, la Chiesa promuove l’arte contemporanea nelle carceri. L’obiettivo è portare speranza ai detenuti, trasformando gli istituti penitenziari in luoghi di rinascita. In occasione dell’apertura dell’Anno Santo, il Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede annuncia il suo programma d’arte contemporanea. L’intento è mettere al centro della riflessione il rapporto tra ispirazione creativa e la Speranza, alla quale richiama Papa Francesco nella bolla d’indizione del Giubileo 2025, Spes non confundit. Il carcere è a volte considerato un luogo abbandonato dalla speranza, un luogo disperato. Aprire ai valori della speranza significa, per chi è dentro, indicare una meta, riproporre un progetto di vita. Rebibbia si illumina: un’opera d’arte per ricominciare - A Rebibbia, in occasione dell’apertura della seconda Porta Santa, Il Dicastero ha invitato l’artista Marinella Senatore a realizzare un progetto di arte partecipata. L’opera “Io contengo moltitudini”, una struttura verticale, alta circa 6 metri e dal diametro di 3 metri, composta da luminarie e elementi che riportano frasi in diverse lingue e dialetti. Tali frasi sono state scelte tra quelle scritte da detenuti della sezione maschile e femminile in seguito ad un workshop per circa 60 partecipanti, in cui l’artista e la curatrice hanno presentato il progetto, raccontando senso e obiettivi dell’installazione e introducendo il tema del Giubileo 2025, la Speranza. Resterà nel piazzale antistante la chiesa della Casa circondariale di Rebibbia, fino alla metà di febbraio, visibile a tutta la comunità dell’Istituto Penitenziario. Il barocco incontra il contemporaneo - Nella descrizione dell’Autrice, Io contengo moltitudini è un’istallazione luminosa creata in collaborazione con la comunità di Rebibbia. Nella sua forma evoca le macchine usate nei fuochi d’artificio delle festività barocche romane. Le sue opere, afferma, sono innanzitutto esperienze condivise e trasformative, riflesso dell’impegno continuo nella partecipazione attiva. Le frasi selezionate, raccolte insieme ai membri della comunità, esprimono speranza e si intrecciano in una narrazione comune attraverso cui l’opera diventa un luogo di incontro e condivisione. Le luminarie, ispirate alle tradizioni popolari del Sud Italia e realizzate in collaborazione con artigiani locali, diventano architetture effimere che creano occasioni di incontro e partecipazione. La luce ha la capacità di trasformare un luogo in uno spazio speciale dove possano accadere cose speciali. L’arte come chiave: le Porte della Speranza aprono le carceri alla società - Il linguaggio dell’arte accompagnerà durante il Giubileo i detenuti e le comunità delle carceri con un ulteriore progetto: Le porte della Speranza. In analogia con la porta artistica realizzata a Rebibbia, in diverse carceri in Italia e nel mondo saranno aperte alcune Porte della Speranza. Installazioni affidate ad altrettanti artisti di fama internazionale che in dialogo e in collaborazione con i detenuti realizzeranno queste opere da collocare fuori dai penitenziari, visibili in questo modo alla città e offerte non solo agli appassionati d’arte ma all’opinione pubblica. L’intento è ancora una volta quello di approfondire il dialogo tra la realtà del carcere e il mondo dell’arte contemporanea. La conversione dei cuori e dello sguardo, che la società ha sul carcere, da considerare sempre più come luogo di riabilitazione e non di punizione. Compito per l’anno nuovo: liberare l’umanità dal flagello della guerra, anziché normalizzarla di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 1 gennaio 2025 Mentre la guerra in Medioriente e il genocidio dei palestinesi sembrano non vedere la fine, le dichiarazioni del presidente ucraino Zelesnky al quotidiano Le parisienne lo scorso 18 dicembre paiono invece aprire una possibilità di pace per l’anno che si avvia nella guerra tra Russia e Ucraina. “L’Ucraina non ha la forza di riconquistare la Crimea e il Donbass” - ha riconosciuto Zelensky - “De facto, questi territori sono oggi controllati dai russi. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati”. Il Tavolo dei negoziati come unica possibilità di risoluzione razionale e definitiva dell’annoso conflitto fratricida in Europa è, esattamente, quanto i movimenti pacifisti e nonviolenti propongono da sempre, accusati di filo-putinismo da coloro che invece, irrazionalmente, incitano i governi a premere sull’acceleratore dell’invio di armi sempre più distruttive al governo di Kiev - con costosi pacchetti militari che ancora continuano, sia dagli Usa che dai governi Ue - per giungere non alla pace, ma all’impossibile “vittoria”. In una folle escalation che non solo, se non si arresta, porterà all’inevitabile confronto nucleare tra Russia e Nato, ma che nel frattempo ha provocato centinaia di migliaia di vittime nel cuore dell’Europa: un milione dicono le stime, fra morti e feriti, ucraini e russi. Giovani vite a perdere, ancora, nelle trincee 110 anni dopo quelle della Prima guerra mondiale. Com’è stato possibile questo abbaglio che ha trasformato governi democratici e media liberali in alfieri e propagandisti del più obsoleto bellicismo, anziché della ricerca di mediazioni possibili e durature? Non è certo un fenomeno nuovo, anzi - senza scomodare le falsità di guerra elencate dopo la Grande guerra da Lord Arthur Ponsonby - esso si era precedentemente manifestato nelle fanfare di guerra che hanno accompagnato le - a loro volta irrazionali e fallimentari - aggressioni di Usa e alleati “volenterosi” ad Afghanistan e Iraq nel primo ventennio di questo secolo. Le ricorda anche il filosofo Umberto Curi nel recente volume Padre e re. Filosofia della guerra (Castelvecchi, 2024), riconducendo la propaganda bellica a tre parole chiave: opportunismo, retorica, superficialità. Tra tutte, è utile riportare la descrizione che Curi fornisce della retorica di guerra messa in campo dai media, nella quale siamo tuttora immersi: “È quella che continua a lungo a dominare, soprattutto nei notiziari televisivi e nelle trasmissioni di approfondimento, facendo leva sulle emozioni, anziché favorire un approccio razionale, quanto più ancorato a valutazioni obiettive e all’analisi dei dati di fatto. Senza dimenticare le debite eccezioni, ciò che balza in evidenza è una competizione, tra le emittenti, guidata dal sensazionalismo e dall’ossessiva ricerca di qualche scoop, piuttosto che dal tentativo di contribuire ad un’adeguata comprensione della situazione”. Anzi oscurando e accusando di “fraternizzare con il nemico” - come i soldati delle trincee del Fronte occidentale nella notte di Natale del 1914 - le voci critiche che non si uniscono alle urla di battaglia. Perché questa scomposta propaganda di guerra che, mentre giustifica il trasferimento di enormi risorse pubbliche nelle casse delle industrie belliche, legittima la produzione di morte e distruzione, invece di promuovere strumenti alternativi alla guerra per risolvere i conflitti internazionali come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (le cui risorse per le attività di peacekeeping sono appena lo 0.3% di quanto si spende globalmente in armamenti!), oltre che dalla Costituzione italiana? Perché, dopo la breve parentesi di riduzione delle guerre e delle spese militari tra il 1991 e il 2001, il nuovo paradigma internazionale dominante è quello della guerra, e della sua preparazione, non come eccezione ma come stato permanente: non continuazione della politica con altri mezzi ma, a tutti gli effetti, sostituzione della politica (con garanzia del costante segno più davanti ai profitti bellici). Il compito per i movimenti pacifisti e nonviolenti per questo 2025 è dunque quello di continuare a costruire - pazientemente, ma tenacemente - le alternative all’affermarsi della “mentalità di guerra” (Mark Rutte, segretario della Nato) contemporaneamente su tutti i piani: culturale, promuovendo educazione, formazione e culture di pace; strutturale, con campagne di disarmo e costruzione di mezzi alternativi alla guerra per affrontare i conflitti, dai Corpi civili di pace alla Difesa civile non armata e nonviolenta; diretto, supportando obiettori di coscienza e disertori di tutte le guerre in corso. Il compito per l’anno che si apre - 80esimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki e della fine della Seconda guerra mondiale - è quello di impegnarsi a realizzare la chiamata dei popoli delle Nazioni Unite, fondate anch’esse ottanta anni fa: liberare l’umanità dal “flagello della guerra”. Anziché, follemente, normalizzarla e incrementarla. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza Debito dei Paesi poveri, questione di giustizia di Giorgio Bernardelli mondoemissione.it, 1 gennaio 2025 Venticinque anni dopo la campagna del Duemila, Papa Francesco rilancia l’appello del Giubileo a condonare i prestiti a chi non può restituirli. La denuncia dell’Onu: “Il Sud del mondo ha pagato il conto più salato delle crisi”. “Un invito accorato desidero rivolgerlo alle nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia”. Nell’appello alla speranza che Papa Francesco lancia al mondo con l’Anno Santo del 2025 appena iniziato, queste parole della bolla di indizione Spe non confundit tornano a porre con forza il tema del debito pubblico dei Paesi più poveri. E lo riprende anche il messaggio di quest’anno del pontefice per la Giornata mondiale della pace, intitolato “Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace”. Si tratta di un tema non nuovo per un Giubileo: già nel Duemila, Giovanni Paolo II aveva chiesto di fare propria quest’idea dalla radice biblica nel momento del passaggio da un millennio all’altro. Così 25 anni fa la remissione del debito diventò un tema importante anche per la società civile. Nel nostro Paese prese il volto di una campagna (sostenuta dalla Conferenza episcopale italiana) che portò alla cancellazione del debito bilaterale che due Paesi africani, la Zambia e la Guinea Conakry, avevano contratto con l’Italia e non erano più in grado di ripagare. Altri gesti - anche finanziariamente molto significativi - avvennero contemporaneamente in diversi Paesi. Perché ora Francesco sente il bisogno di rilanciare questo tema? Perché - soprattutto negli ultimi anni, per effetto della crisi globale innescata dalla pandemia e aggravata dalle ripercussioni del conflitto in Ucraina - in tanti Paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia la questione del debito pubblico è riesplosa in maniera molto dura. “Ci troviamo di fronte a una crisi che genera miseria e angoscia, privando milioni di persone della possibilità di un futuro dignitoso - dice Papa Francesco, dando loro voce -. Nessun governo può esigere moralmente che il suo popolo soffra di privazioni incompatibili con la dignità umana”. Qualcuno potrebbe domandarsi: ma se sono Pae­si poveri perché si indebitano? Ogni economia per finanziare i propri investimenti si fonda sul credito. Non a caso il Paese con la quota più alta di debito pubblico sono gli Stati Uniti, cioè la prima economia al mondo, seguiti (ma a molta distanza) dalla Cina. Tanto per dare le proporzioni: secondo alcuni dati rielaborati dall’Unctad - l’agenzia dell’Onu per il commercio e lo sviluppo - a fine 2023 il debito pubblico ha raggiunto a livello globale la cifra (record) di circa 97 mila miliardi di dollari. Di questi, però, oltre 33 mila miliardi di dollari sono debito Usa. L’intero debito pubblico italiano supera i 3 mila miliardi di dollari. Quello di tutti i Paesi dell’Africa considerati nel loro insieme supera di poco i 2 mila miliardi di dollari. Ma se in termini assoluti è relativamente piccolo, allora, perché il debito nei Paesi più poveri crea tanti problemi? Perché le condizioni per contrarlo non sono uguali per tutti. Proprio come accade a chi chiede un prestito in banca, anche i Paesi non sono trattati allo stesso modo dagli altri Stati, dagli organismi multilaterali (come il Fondo monetario internazionale, Fmi) o dai privati, i tre grandi soggetti che erogano crediti. Più un’economia è fragile e più i tassi di interesse da ripagare si alzano. A uno Stato africano la stessa cifra chiesta in prestito costa oggi 10 o 12 volte di più rispetto a quanto pagano la Germania o gli Stati Uniti. E proprio su questo divario la situazione negli ultimi anni si sta facendo sempre più insostenibile: i Paesi africani, per gli interessi sul loro debito, pagano attualmente 163 miliardi di dollari l’anno, contro i 61 che pagavano nel 2010. Si tratta di una zavorra sulle possibilità di sviluppo. Lo spiega bene proprio l’Unctad in un interessante rapporto intitolato “Un mondo di debito”, pubblicato alcuni mesi fa. Analizzando le vicende degli ultimi anni, emerge con chiarezza che il conto delle ripetute crisi che dalla pandemia in poi tutti abbiamo vissuto è stato pagato in maniera molto più salata dai Paesi poveri. “Quella del debito è una crisi nascosta - spiega Giovanni Valensisi, economista italiano dell’Unctad che è tra i curatori del rapporto -. Nel quadro complessivo le cifre che coinvolgono i Paesi in via di sviluppo sembrerebbero piccole. Ma se si guarda a che cosa provocano nelle loro società, l’impatto è enorme”. Oltre 3,3 miliardi di persone in Africa, America Latina e in Asia, per esempio, oggi vivono in Paesi che sono costretti a spendere più soldi per ripagare gli interessi sui debiti da loro contratti che per finanziare la sanità o l’istruzione. Nella metà dei Paesi in via di sviluppo, oltre il 6,3% di tutte le entrate generate dalle esportazioni sono destinate a ripagare i creditori. Una “tassa” iniqua sui Paesi poveri: l’Unctad ricorda che quando nel 1953 fu stipulato l’Accordo di Londra sul debito di guerra della Germania si stabilì che gli interessi pagati dai tedeschi non dovessero eccedere il 5% delle entrate generate dalle esportazioni, per non minarne la ripresa. Oggi però, per decine di Paesi del Sud del mondo, questo principio elementare di un’economia attenta al futuro non viene fatto valere. Ma durante la pandemia non erano stati previsti aiuti sul debito per i Paesi poveri? “Nel 2020 - risponde Valensisi - i Pae­si del G20 avevano congelato per due anni alle nazioni in via di sviluppo il pagamento degli interessi sul loro debito. Quella pausa, però, è finita proprio quando con la guerra in Ucraina la situazione si era fatta addirittura peggiore, perché le politiche monetarie adottate dagli stessi Paesi economicamente più forti per contenere l’inflazione avevano fatto schizzare alle stelle tutti i tassi di interesse”. A quel punto non sono arrivati nuovi interventi. E in un contesto in cui il 61% del debito dei Paesi in via di sviluppo, ormai, non è più prestato da Stati o creditori multilaterali, ma da privati (banche o investitori che acquistano particolari strumenti finanziari), c’è stato addirittura un effetto contrario: “Il problema è la volatilità di queste fonti di finanziamento - commenta l’economista dell’Unctad -. Appena nei Paesi più sviluppati i rendimenti dei titoli pubblici sono saliti, le scelte dei risparmiatori sono cambiate, abbandonando gli altri mercati. Così nel 2022 - proprio nel momento in cui avrebbero avuto più bisogno di risorse- i Paesi economicamente più fragili si sono ritrovati a dover versare in interessi a banche e investitori privati più soldi di quelli che ricevevano in nuovi prestiti”. C’è l’osservazione di questi meccanismi perversi, dunque, dietro l’appello di Papa Francesco a riportare sotto i riflettori il tema del debito in occasione di questo Giubileo. Con la consapevolezza, però, che oggi condonarne quote importanti è un’operazione più complessa rispetto a 25 anni fa. Perché il più ampio coinvolgimento di investitori privati moltiplica gli interlocutori con i quali occorrerà negoziare questo atto di giustizia. È il motivo per cui il Pontefice ha esortato anche a compiere un passo in più: immaginare “una nuova architettura finanziaria internazionale, che sia audace e creativa”. Per far sì che il peso delle crisi di domani non finisca di nuovo per scaricarsi sulle spalle dei poveri. Sul tavolo alcune idee esistono: “Un primo passo - spiega Valensisi - sarebbe affrontare il tema della rappresentatività: coinvolgere davvero e in maniera significativa i Paesi in via di sviluppo ai tavoli in cui vengono prese le decisioni. Ma si ragiona anche su meccanismi per affrontare il problema dei costi eccessivi del debito: un’ipotesi è potenziare le Banche multilaterali e regionali di sviluppo, sia in termini di capitalizzazione e di conseguente capacità di prestito, sia facendo in modo che siano loro ad ammortizzare parte dei rischi, emettendo una quota dei prestiti in valute locali. Soprattutto, però, occorre far crescere una sensibilità finanziaria nell’erogare crediti che privilegino nei Paesi poveri progetti che creano sviluppo a lungo termine”. Esempi di un percorso possibile. Perché - come nell’idea biblica del Giubileo - si possa ripartire davvero tutti insieme. Pace, giustizia sociale e sicurezza: il 2025 che vogliono gli italiani Enzo Risso Il Domani, 1 gennaio 2025 Dal punto di vista economico, per il 42 per cento l’Italia rischia la recessione, mentre per il 34 il 2025 sarà un anno di stagnazione. Solo il 24 per cento di italiani (soprattutto del ceto medio) prevede una ripresa economica. Il futuro, come diceva il sociologo Anthony Giddens, non lo possiamo prevedere, “ma possiamo generare scenari alternativi futuri e facendolo possiamo aiutare a dar forma al futuro”. Per concepire sguardi alternativi è necessario individuare le sensazioni che hanno le persone sul futuro e i fattori nemici di un domani più sereno. A livello globale i più ottimisti sull’anno appena iniziato sono i cittadini dell’Indonesia (per il 90 per cento il 2025 sarà migliore del 2024). Seguono colombiani (88), cinesi e filippini (87), peruviani (85), sudafricani e messicani (84). Tra gli europei la classifica è guidata da polacchi e ungheresi (72), seguiti da irlandesi e svizzeri (69), olandesi (67), svedesi e spagnoli (66), britannici (61). Gli italiani si collocano nella parte bassa della classifica con il 58 per cento di ottimisti, insieme ai tedeschi (56), ai belgi (51) e ai francesi (50). Integrando il quadro dei 33 paesi offerto da Ipsos global Advisor, con i dati dell’osservatorio Fragilitalia, del centro studi di Legacoop e Ipsos, possiamo completare la vision sul 2025 degli italiani. Dal punto di vista economico, per il 42 per cento l’Italia rischia la recessione, mentre per il 34 il 2025 sarà un anno di stagnazione. Solo il 24 per cento di italiani (soprattutto del ceto medio) prevede una ripresa economica. La maggioranza del paese (63 per cento), inoltre, paventa per il 2025 un ulteriore aumento del costo della vita. La speranza che quest’anno sia migliore di quello passato (quel 58 per cento che già colloca l’Italia con Germania e Francia in fondo alla classifica globale) è ulteriormente calmierata dalla sensazione, condivisa dal 61 per cento, che all’orizzonte non si vedono particolari spinte capaci di imprimere un miglioramento dello status quo. I nemici del futuro I principali killer del futuro sono molteplici, ma su tutti svetta il tema delle guerre (60 per cento). Per la stragrande maggioranza degli italiani i conflitti in corso e quelli che possono prendere corpo sono i veri fattori che possono distruggere il futuro. “La pace perpetua è il fine ultimo di tutto il diritto delle genti” diceva il filosofo Immanuel Kant oltre duecento anni fa. Gli esseri umani, però, hanno difficoltà a imparare dalla storia e tendono a ripetere gli errori e non le scelte giuste. Al secondo posto tra i killer del futuro ci sono i cambiamenti climatici (55), a dimostrazione della perdurante consapevolezza ambientale e del bisogno di agire in modo che le conseguenze siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra. Anche qui le sirene degli ultimi mesi non sembrano andare nella direzione di un rafforzamento della lotta al clima, ma sembrano aver imboccato la via di una stridente frenata. Al terzo posto tra i nemici del futuro c’è l’eccessiva quantità di ricchezza in mano a pochi (36). Un dato estremamente significativo che porta alla luce l’accrescersi, nell’opinione pubblica, della coscienza che lo sviluppo delle fratture sociali non porta nulla di buono alla società, anzi che il capitalismo neo liberista sta generando disuguaglianze arbitrarie e insostenibili. Nella classifica dei nemici per il futuro troviamo altri tre fattori tutti con più o meno lo stesso peso: l’inflazione (32), la corruzione (27) e la precarizzazione lavorativa (25). Tutti elementi generatori di ansia e sfiducia, produttori di uno stato di incertezza permanente, che porta le persone a non sapere che percorsi seguire, che scelte fare. Per generare scenari alternativi allo status quo attuale è utile zoomare su quale può essere il cammino per il futuro, attraverso le parole che lo identificano. Se la guerra è il primo nemico, la pace, secondo il 41 per cento degli italiani, è la prima pietra che deve lastricare la strada del futuro. Insieme ad essa le altre due pietre indispensabili per costruire la via del domani sono sicurezza (39) e giustizia sociale (38). Una triade tematica che ci ripropone il valore di una frase di Martin Luther King: “La vera pace non è semplicemente l’assenza di tensione: è la presenza della giustizia”. In un mondo sempre più imprevedibile e ondivago, questa triade è una delle principali forze motrici dei desideri e dell’agire delle persone. A supporto di questa triade intervengono altri fattori come il bisogno di una forte democrazia (35), il desiderio di uguaglianza (33), nonché la necessità di una spinta veramente ecologica (30). Serenità (27), benessere (26), economia circolare (18) e riduzione del consumismo (17), completano il quadro delle parole con cui dovrebbe essere lastricata la strada del futuro. Se le preoccupazioni per guerre, cambiamenti climatici e disuguaglianze economiche mostrano la consapevolezza dell’opinione pubblica delle interconnessioni globali e dei rischi sistemici che questi tre fattori portano con sé; le aspirazioni a pace, sicurezza e giustizia sociale indicano la profondità del forte desiderio di stabilità e equità. Un dualismo di paure e speranze emblema di una società in cui, come diceva Ulrich Beck, “la produzione di ricchezza è sistematicamente accompagnata dalla produzione sociale di rischi”. La presenza, inoltre, di concetti come ecologia, benessere, economia circolare e riduzione del consumismo mostrano la consapevolezza dell’urgenza di un impegno da parte di tutti, personale e concreto, verso una “politica della vita”, come la chiama Giddens, in cui le scelte di ognuno sono fondamentali per il futuro e determinano l’agire e, soprattutto, che società vogliamo essere. La sfida per il 2025 e per gli anni a venire non si gioca solo sull’urgenza di mettere la parola fine alla follia delle guerre e dei massacri, sulla volontà di non frenare la lotta al clima, sull’impellenza di intervenire sulle disuguaglianze sociali, ma si gioca anche sulla volontà di riprendere il cammino interrotto verso l’idea, come diceva Bauman, di “creare un’umanità comune, pienamente inclusiva, in un pianeta che tutti condividiamo”. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 1 gennaio 2025 Opponendosi ai tentativi di aggirare le norme sull’immigrazione tramite decreti che limitano i diritti dei rifugiati, la Cassazione ha riaffermato l’importanza del controllo giurisdizionale come garanzia fondamentale per i diritti umani, nonostante i propagandisti di maggioranza sostengano il contrario. Lo scorso fine settimana, l’agenzia Ansa ha pubblicato una agenzia intitolata “La Cassazione: “La valutazione dei Paesi sicuri spetta ai ministri”, una sintesi opinabile del contenuto di un’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile della Cassazione sulla delicata questione dell’immigrazione. L’ordinanza, in risposta a un ricorso del governo contro un decreto del tribunale di Roma che disapplicava la recente legge sui trattenimenti in Albania, ha portato la Suprema Corte a interpellare la Corte di giustizia europea sulla compatibilità delle normative governative con le direttive europee. Di fatto, la Cassazione ha confermato le recenti ordinanze dei giudici italiani che hanno rifiutato di convalidare i trattenimenti in Albania in risposta ai decreti legge del governo che designano Paesi “sicuri”, costringendo così al rientro dei migranti in Italia e interpellando a loro volta la Corte di giustizia. Una sintesi incompleta e un titolo fuorviante hanno alimentato una clamorosa manipolazione della realtà, favorendo la propaganda filo-governativa. I sostenitori dell’attuale maggioranza hanno celebrato una vittoria inesistente. Questa vicenda rivela molto sullo stato dell’informazione italiana, sulla cultura democratica dell’attuale governo (inclusi i sedicenti moderati) e sul preoccupante futuro dello Stato di diritto nel nostro Paese. Il titolo e il sunto dell’Ansa sono quantomeno “grossolanamente esagerati”, per usare le parole dello scrittore statunitense Mark Twain di fronte alla notizia della sua presunta morte. Considerando che il ricorso era stato presentato dal governo contro un provvedimento che respingeva la convalida di un trattenimento in Albania, era evidente che, se la Cassazione avesse voluto dare ragione all’esecutivo, avrebbe accolto il ricorso e annullato la decisione dei giudici. Ma ciò non è accaduto: il rigetto della detenzione in Albania resta valido, rendendo, di fatto, inapplicabile la legge sui trasferimenti dei migranti in territorio albanese. Ora bisognerà attendere la decisione della Corte di giustizia europea, prevista per fine febbraio ma attesa non prima di marzo. Tuttavia, difficilmente questa decisione risolverà il conflitto tra politica e magistratura. Il presidente della prima sezione civile della Cassazione, Alberto Giusti, giurista di grande spessore, ha colto l’occasione per riflettere ampiamente sull’attuale disciplina dell’immigrazione. In particolare, ha analizzato la controversa iniziativa del governo Meloni che prevede campi di detenzione gestiti da nazioni esterne, trasformati in veri e propri centri di smaltimento umano. Leggendo le complesse quaranta pagine dell’ordinanza, si comprende che la Cassazione ha fatto propri gli argomenti già espressi nella sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia. I giudici italiani hanno rifiutato di applicare passivamente la soluzione “albanese” proposta da Meloni, smascherando l’illusione di una procedura accelerata di rimpatrio. Il meccanismo si basa sulla creazione di una lista di Paesi sicuri che consentirebbe il rimpatrio automatico impedendo ai migranti, compresi i rifugiati politici, di entrare in Italia. Il governo affida a Paesi di seconda fascia il compito di gestire il problema, dietro compenso economico. Questa è la sostanza della nuova politica europea promossa dall’Italia, presentata a una Commissione europea ormai priva di autorevolezza. La Corte di giustizia difficilmente esprimerà un parere diverso da quello dei tribunali italiani e della Cassazione. Nessun elenco, nazionale o sovranazionale, può impedire a un giudice di ascoltare le richieste di protezione di chi si sente perseguitato o discriminato. Di fronte a un migrante che richiede protezione, il giudice ha il dovere di approfondire il caso. In tal modo, la procedura accelerata viene sospesa per il tempo necessario. Il migrante rimane nel Paese di soccorso per partecipare alla procedura. Resta da capire perché la Cassazione abbia ritenuto di esprimersi in attesa della decisione della Corte di giustizia. Non mancherà chi criticherà questa scelta come un’interferenza della giustizia italiana su quella europea. Probabilmente, ha influito la campagna di propaganda avviata dalla premier, che ha invitato i giudici europei a sostenere le politiche governative sull’immigrazione. Un intervento grave, ignorato da una stampa minacciata e compiacente. Di fronte a questa situazione, è comprensibile che la magistratura italiana cerchi il sostegno delle corti europee. Anche l’indipendenza dei giudici europei è ora sotto attacco da parte dei sovranisti, come indicano le dichiarazioni di Mateusz Morawiecki contro l’ingerenza della burocrazia giudiziaria europea. Questa è la battaglia in gioco: la difesa dei trattati e delle carte europee, che sanciscono i principi fondamentali dello Stato di diritto. La magistratura italiana deve comprendere che la difesa del diritto europeo è la grande battaglia per la democrazia, da combattere prima che sia troppo tardi. Iran. Cecilia Sala, le tappe per la liberazione di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 gennaio 2025 entro 10 giorni si decide sui domiciliari all’ingegnere iraniano che potrebbero sbloccare la trattativa. La sorte di Cecilia Sala arrestata e detenuta nella prigione di Evin è legata a quella dell’“uomo dei droni” catturato in Italia su richiesta degli Stati Uniti. Per lui Teheran ha già chiesto la liberazione. Appesa alla trattativa condotta dalla diplomazia e dall’intelligence, Cecilia Sala attende gli sviluppi del caso Mohamed Abedini Najafabadi, il cittadino iraniano arrestato a Malpensa che gli Usa vorrebbero fosse estradato e invece Teheran chiede che sia liberato ponendolo come condizione per la liberazione della giornalista italiana. Un negoziato che inevitabilmente passa proprio dalle prossime scadenze della vicenda giudiziaria che coinvolge Abedini, fermato il 16 dicembre a Milano in un’operazione della Digos concordata proprio con gli Stati Uniti. La fissazione dell’udienza - Entro il 2 gennaio 2025 la Corte d’Appello di Milano dovrà fissare l’udienza per decidere sulla richiesta di sostituire l’arresto in carcere con i domiciliari per Abedini. Il trentottenne iraniano è accusato di cospirazione per esportare componenti elettronici per droni dagli Stati Uniti all’Iran e di supporto materiale al Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica che ha portato alla morte di tre militari, uccisi in un attacco con un drone contro una base USA in Giordania. Una decisione complessa perché le autorità americane hanno segnalato il pericolo di fuga esattamente come fecero per Artem Uss, accusato di riciclaggio e di importazione di tecnologie militari Usa in Russia che, però, ottenuti i domiciliari, fece perdere le proprie tracce. La clausola di “garanzia” - Entro un massimo di dieci giorni la Corte d’Appello dovrà esprimersi sulla concessione dei domiciliari richiesti dal legale del cittadino iraniano. Nell’istanza è stata inserita una clausola “di garanzia” con la quale Abedini si impegna a rimanere nel luogo stabilito. L’udienza a Boston - Intanto il 2 gennaio, a Boston, è prevista l’udienza per l’altro “uomo dei droni” Mahdi Mohammed Sadeghi arrestato lo scorso 16 dicembre in contemporanea con Abedini dagli Stati Uniti. La richiesta già presentata dai suoi legali è di essere rilasciato su cauzione. I tempi per l’estradizione - Parallelamente va avanti il procedimento sulla richiesta di estradizione. La Corte d’appello di Milano deve decidere sulla base delle carte dell’accusa che al momento sono ancora incomplete. Al ministero della Giustizia, tramite il ministero degli Affari Esteri, infatti, sono arrivati solo i documenti che motivano la richiesta di arresto, già eseguito. Ma si attendono quelle che motivano la richiesta di estradizione. Quando le avrà ricevute il ministro avrà 30 giorni di tempo per esaminarle e inviarle, magari con eventuali rilievi, alla Corte d’appello che solo allora fisserà l’udienza per discutere la richiesta. Il collegio avrà 30 giorni di tempo per pronunciarsi. Dieci giorni per il ministro - A quel punto la palla passerà di nuovo al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che avrà altri 10 giorni di tempo per valutare se condivide la decisione o intende cambiarla. Può farlo anche sulla base di motivi politici. Biden a Roma - Ma è la strada diplomatica quella su cui il governo italiano lavora alacremente per arrivare a una soluzione. Il 9 gennaio saranno a Roma il presidente USA uscente Joe Biden e il segretario di Stato Anthony Blinken. È possibile che nel corso degli incontri con la presidente Giorgia Meloni e con il ministro degli Esteri Antonio Tajani venga affrontata la questione. L’era Trump - Quello del 9 gennaio è l’ultimo appuntamento con l’attuale amministrazione statunitense. Il 20 gennaio diventerà operativa l’elezione del nuovo presidente Donald Trump. Se entro quella data non sarà trovato un compromesso che consenta di chiudere la vicenda il governo italiano dovrà gestire il caso di Cecilia Sala con i nuovi interlocutori. Iran. Chi sono e quanti sono i giornalisti in carcere. Parla Jodie Ginsberg del Cpj di Maurizio Stefanini Il Foglio, 1 gennaio 2025 La presidente del Comitato per la protezione dei giornalisti ci racconta come è cambiata l’informazione a Teheran dal 2022. Non una data a caso. “Vorrei dire a Cecilia che stiamo pensando a lei. Sappiamo che viene trattata bene, come si può sperare. Vorremmo che sappia che non è sola e che molte organizzazioni stanno facendo tutto il possibile per garantire la sua liberazione. E so che molti dei suoi colleghi stanno pensando a lei, e non vedono l’ora di vederla quando verrà rilasciata”. Questo augurio viene rivolto a Cecilia Sala da Jodie Ginsberg: già giornalista di Reuters e Internews, e dal 2022 chief executive del Comitato per la protezione dei giornalisti, “un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro che fa campagne a favore dei giornalisti a rischio in tutto il mondo, e lo facciamo anche fornendo assistenza diretta ai giornalisti a rischio. Quindi possiamo fornire supporto di emergenza ai giornalisti in esilio”. “Documentiamo gli abusi ai danni dei giornalisti. E facciamo campagne a favore della libertà di stampa a livello globale”. La interpelliamo per avere il suo autorevole punto di vista, ma al sapere che il Foglio è proprio il giornale per cui Cecilia Sala scrive è lei che inizia a fare domande e offre anche il suo sostegno. “Se possiamo essere d’aiuto in qualche modo, fammelo sapere! Noi forniamo anche supporto e consigli alla famiglia, quindi se c’è qualcosa che possiamo fare, lo faremo!”. Grazie. Ma adesso proviamo a fare un’analisi. Come si inserisce il suo arresto nella situazione della stampa in Iran? “Purtroppo, si inserisce in uno schema di arresti di giornalisti, anche giornalisti stranieri, che in Iran va avanti da troppo tempo. Saprete che appena un paio di settimane fa in Iran un giornalista è stato condannato a dieci anni di prigione”. Reza Valizadeh “era un ex giornalista di Radio Farda, servizio in lingua farsi di Voice of America. Ed è stato dichiarato colpevole di collaborazione con il governo degli Stati Uniti. Sfortunatamente in Iran vediamo spesso arresti e la detenzione di giornalisti che tentano di riferire liberamente sull’Iran, compresi gli arresti di giornalisti stranieri”. I casi più gravi? “Ci sono decine e decine di giornalisti arrestati. Attualmente ci sono circa 26 giornalisti in carcere, inclusi i giornalisti curdi. Spesso i giornalisti ricevono condanne molto lunghe”. Reza Valizafeh, però, aveva doppia cittadinanza: iraniana e statunitense. In genere, sono i giornalisti con cittadinanza iraniana, esclusiva o compartita, ad essere a rischio. Cecilia invece ha solo la cittadinanza italiana. Cosa può essere successo? “Effettivamente, è più raro che i giornalisti stranieri che non hanno la doppia nazionalità vengano arrestati. Ciò lascia sperare che potrà essere più facile fare pressione sul governo iraniano per ottenere un suo rapido rilascio”. Ma, più in generale, c’è una evoluzione nella situazione della libertà di stampa in Iran? Sta migliorando, sta peggiorando o nel corso degli anni rimane sempre la stessa? “Direi che è peggiorata. Abbiamo assistito a un forte aumento degli arresti dal 2022, e il problema non è solo in Iran. Il problema è anche che abbiamo visto molte minacce extraterritoriali rivolte a giornalisti che vivono fuori dall’Iran. All’inizio di quest’anno è uscito un rapporto delle Nazioni Unite, redatto da esperti delle Nazioni Unite, secondo cui solo nel Regno Unito ci sono stati dal 2022 almeno 15 complotti iraniani per uccidere o rapire persone in territorio britannico. Per esempio, un giornalista di Iran International è stato accoltellato violentemente fuori casa sua a Londra, nel marzo 2024. Ci sono continui alti livelli di molestie nei confronti dei giornalisti che lavorano per le agenzie di stampa sull’Iran ma al di fuori dell’Iran, come Bbc News Persian, Deutsche Welle, Voice of America, Iran International. Quindi non è solo la situazione all’interno dell’Iran, che è incredibilmente repressiva, perché la maggior parte dei media nazionali è controllata dal regime. Ma è anche il fatto che i giornalisti indipendenti al di fuori dell’Iran che cercano di riferire sull’Iran affrontano minacce, comprese minacce alla loro vita”. Che tipo di pressione sarebbe dunque utile esercitare sull’Iran? “La pressione pubblica è importante, continua a essere importante. Quindi, è molto utile che l’Italia abbia un ruolo in questo. Speriamo che ciò possa produrre risultati. In passato, in alcuni casi i giornalisti sono stati rilasciati solo dopo uno scambio di prigionieri. È quello che è accaduto ad esempio a Jason Rezaian, il giornalista americano rilasciato nel 2016. Quindi dipende dal motivo per cui l’Iran ha effettuato questo arresto e se c’è qualcosa che vogliono in cambio e al momento non è chiaro. Molto di ciò riguarderà la pressione diplomatica che l’Italia e altri governi sono in grado di esercitare sull’Iran”. Per concludere, Jodie Ginsberg tiene però a sottolineare che se sono gli arresti di giornalisti stranieri quelli che fanno più rumore, “è importante sottolineare che ci sono anche molti giornalisti locali che non sono in grado di generare questo tipo di attenzione, perché è spesso pericoloso per le persone all’interno dell’Iran parlare a loro nome. Ma è importante ricordare che l’Iran in questo momento è il settimo peggior carcere di giornalisti al mondo”. Iran. Chi sono oggi le donne detenute nelle carceri di Carlotta Sisti elle.com, 1 gennaio 2025 Attiviste, difensori dei diritti umani e dissidenti, tra cui la premio Nobel Narges Mohammadi, sono incarcerate con accuse generiche di essere pericolose per la sicurezza nazionale. Il carcere di Evin, dove dal 19 dicembre si trova in cella di isolamento la giornalista Cecilia Sala, è forse uno dei simboli più noti della repressione politica in Iran. Costruito nel 1972 durante il regime dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, fu concepito inizialmente come struttura per la detenzione di prigionieri politici. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Evin è diventato il principale centro di incarcerazione per dissidenti, giornalisti, attivisti e membri di minoranze etniche e religiose. Secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani la prigione, che si stima ospiti circa 15.000 detenuti, è caratterizzata da condizioni di sovraffollamento e carenze igienico-sanitarie. Molte ong, tra cui Amnesty International, hanno denunciato l’uso sistematico della tortura, esecuzioni sommarie e il mancato accesso a cure mediche per i prigionieri. Le testimonianze parlano di celle sovraffollate, aree di isolamento e un controllo ferreo da parte delle autorità. A 2 anni dallo scoppio del movimento Donna, Vita, Libertà, gli attacchi e la repressione contro donne e ragazze in Iran sono all’ordine del giorno: decine di attiviste per i diritti umani, membri di minoranze etniche e religiose e dissidenti, tra cui la premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi, sono incarcerate con accuse generiche di essere pericolose per la sicurezza nazionale o stanno scontando condanne dopo processi sommari. Mohammadi, la voce più articolata e inflessibile del movimento iraniano per i diritti umani, si stima sia stata condannata 5 volte, arrestata 13 e condannata a un totale di 31 anni di prigione. Al marito Taghi Rahmani e ai due gemelli Kiana e Ali, esiliati in Francia, è stata vietata ogni comunicazione diretta per 18 mesi. In totale, i figli di Mohammadi sono stati separati dalla madre per quasi 6 anni. E sono stati proprio loro tre, la sua famiglia, a ritirare a nome suo il premio Nobel ad Oslo, dove la sedia della vincitrice era vuota ma il suo volto era presente, proiettato sulla parete del municipio della capitale norvegese. Nel suo libro White Torture, che esprime l’orrore dell’isolamento, Mohammadi descrive la paura e l’ansia sconvolgente ma anche il paradosso della dipendenza dal proprio carceriere, in una sorta di alienante sindrome di Stoccolma. Il libro prende la forma di interviste con altri prigionieri politici ed è stato scritto durante un breve periodo fuori dal carcere. “L’isolamento significa essere rinchiusi in uno spazio molto piccolo. Quattro mura e una porticina di ferro tutte dello stesso colore, spesso bianco. Non c’è luce naturale all’interno della cella. Non c’è aria fresca. Lì non si sente alcun suono e non è possibile parlare o associarsi con altri esseri umani”, si legge nel memoir. “Le notizie e le informazioni non ti arrivano. Non ci sono giornali, riviste, libri, carta o penne. Non hai niente lì dentro, tranne tre coperte sottili e logore, una camicia e dei pantaloni. Un secondino può permetterti di usare il bagno e la toilette, oppure no”. L’attivista ha descritto le minacce, le intimidazioni e le pressioni che facevano parte degli interrogatori. “I prigionieri sono sottoposti a false accuse e a pressioni psicologiche per estorcere false confessioni. Non ci sono contatti con familiari, amici o avvocati. Sei letteralmente isolato, passivo e solo”, ha scritto. “La solitudine e l’impotenza influenzano giorno dopo giorno la mente umana. A volte l’ansia e la paura, altre volte persino le illusioni dominano il prigioniero al punto che non è in grado di prendere decisioni o anche solo di pensare lucidamente”. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, la britannica iraniana con doppia cittadinanza che ha condiviso il carcere con Mohammadi a Teheran, ha detto al The Guardian: “È dura, resistente, gentile ed estremamente coraggiosa. È stata lontana dai suoi figli per molto tempo. Ha sacrificato la sua vita e la sua famiglia per il bene della gente del paese”. Stati Uniti. Liberato un uomo detenuto a Guantanamo da quando il carcere fu aperto ilpost.it, 1 gennaio 2025 Ridah Bin Saleh al-Yazidi era incarcerato dal 2002, senza che nei suoi confronti fosse mai stata formalizzata alcuna accusa. Il 30 dicembre gli Stati Uniti hanno liberato e rimpatriato in Tunisia Ridah Bin Saleh al-Yazidi, un uomo detenuto nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo dal 2002, nonostante nei suoi confronti non fosse mai stata formalizzata alcuna accusa. Yazidi, che ha 59 anni, era stato portato a Guantanamo (che si trova sull’isola di Cuba) il giorno in cui il carcere fu aperto, l’11 gennaio del 2002. Era stato arrestato nel dicembre del 2001 in Pakistan, vicino al confine con l’Afghanistan: faceva parte di un gruppo di circa 30 uomini sospettati di essere guardie del corpo di Osama Bin Laden, l’allora leader dell’organizzazione terroristica al Qaida. Nel 2010 l’amministrazione del presidente statunitense Barack Obama aveva inserito Yazidi in una lista di detenuti di Guantanamo che non potevano essere perseguiti per crimini di guerra e che potevano essere liberati e rimpatriati. In tutti questi anni però Stati Uniti e Tunisia non erano mai riusciti a trovare un accordo per il rimpatrio, e la liberazione di Yazidi era stata rimandata più volte. Il carcere di Guantanamo fu istituito dall’amministrazione del presidente Repubblicano George W. Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Negli anni la gestione del carcere è stata molto criticata, soprattutto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Per esempio ci sono stati casi di alimentazione forzata per coloro che avevano deciso di fare lo sciopero della fame e casi di soprusi e violenze contro i prigionieri. Per anni si è parlato della sua chiusura, ma il processo si è rivelato più lungo e complesso del previsto: per trasferire i detenuti, infatti, è necessario negoziare degli accordi con i paesi d’origine o con paesi terzi. Obama promise di chiudere Guantanamo ma non ci riuscì durante i suoi due mandati (rimase in carica tra il 2009 e il 2017). Il suo successore Donald Trump firmò un ordine esecutivo per mantenere aperta la struttura. A Guantanamo restano attualmente 26 detenuti, di cui 14 sono stati giudicati idonei alla liberazione. Negli anni in cui è stato più utilizzato il carcere ne ospitava alcune centinaia, perlopiù persone di religione musulmana arrestate in relazione agli attacchi dell’11 settembre, spesso senza che contro di loro venissero formulate delle accuse formali. Dopo la liberazione di Yazidi, a Guantanamo resta una sola persona incarcerata fin dal giorno dell’apertura della struttura: Ali Hamza al-Bahlul, condannato all’ergastolo per essere stato il capo della propaganda di al Qaida e responsabile della comunicazione di Osama Bin Laden.