Carriere separate, l’Anm: sciopero il 27 febbraio. Santalucia: “Ribellismo? No, fedeltà alla Repubblica” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 gennaio 2025 Separazione delle carriere, il presidente del sindacato delle toghe: “In corso una partita che si gioca da 30 anni tra politica e giurisdizione, che non ha voluto allentare il controllo di legalità sulla politica. Oggi ci fanno pagare il prezzo per questo”. 27 febbraio: è il giorno deliberato dal parlamentino dell’Anm per lo sciopero contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere. La proposta lanciata da Stefano Celli di Magistratura democratica è stata accolta all’unanimità. L’obiettivo adesso è raccogliere tutte le forze per organizzare la giornata di astensione ad un mese esatto dell’elezione del nuovo Comitato direttivo centrale e con l’incertezza di aver già eletto anche il nuovo presidente. Un elemento non da poco dal punto di vista di chi dovrà spiegarlo e legittimarlo nelle sedi pubbliche e comunicative. Anche tra chi ha votato a favore non si nasconde una certa perplessità: se c’era necessità di uscire uniti dalla riunione del parlamentino e rispettare il deliberato dell’assemblea del 15 dicembre scorso, c’è comunque chi, fuori dai microfoni, sostiene che la mossa di convocare lo sciopero così subito sia una scelta azzardata e fatta solo in chiave elettorale in vista delle elezioni del 26, 27, 28 gennaio. Nella mozione approvata a fine giornata (nessun contrario e 5 astensioni) si è deciso anche di adottare alcune iniziative per l’inaugurazione dell’anno giudiziario il prossimo 25 gennaio nei 26 distretti di Corte di Appello. Sempre su iniziativa di Silvia Albano, presidente di Md, è stata approvata la proposta di abbandonare le Aule quando parlerà il ministro Nordio a Napoli e gli altri rappresentanti del Governo. Su questo punto all’inizio della discussione il Cdc sembrava spaccato. Da una parte Magistratura democratica e Area pronti ad abbandonare le aule, Unicost, Magistratura indipendente e CentoUno più moderati nel proporre di indossare la toga, agitare la Costituzione o fogli con su scritto articoli della Carta o frasi dei padri costituenti. Alla fine è prevalsa l’unità: non si poteva uscire con un deliberato non unanime per non apparire divisi agli occhi della maggioranza e del governo. Approvata infatti una mozione in cui si prevede, tra l’altro che i magistrati, prima dell’inizio della cerimonia, si raccolgano all’esterno, mostrando cartelli, sui quali saranno trascritte frasi tratte da un testo significativo sul valore della Costituzione, che saranno individuate dalla Gec e trasmesse successivamente alle Ges; che i presidenti delle Ges locali, che interverranno tutti alle cerimonie inaugurali prendendo la parola, daranno lettura di quelle stesse frasi all’inizio dei loro interventi programmati e ne spiegheranno pubblicamente in sintesi il senso, illustrando le ragioni della protesta e della presenza in toga. Quella di oggi è stata l’ultima riunione dell’attuale Cdc e della presidenza di Giuseppe Santalucia. L’unico della maggioranza a commentare al momento è stato il deputato di Forza Italia Enrico Costa: “Oggi abbiamo assistito ad un film già visto tante volte. Le correnti dell’Anm che si scagliano contro le decisioni del Parlamento per difendere i loro interessi corporativi e per non perdere il potere accumulato negli anni. Spaventano i cittadini inventando falsi effetti della riforma come il pm soggetto all’esecutivo o un freno alle inchieste nei confronti dei politici. È solo un assaggio degli attacchi che si riserveranno nei prossimi mesi. Quella di oggi peraltro è solo l’ultima delle innumerevoli levate di scudi dell’Anm che terrorizza sistematicamente l’opinione pubblica contro le scelte del Parlamento”. La giornata - “Non usiamo toni apocalittici” ma “ribadiamo che la riforma sulla separazione delle carriere è un pericolo per l’indipendenza e autonomia della magistratura” e “non migliora affatto il servizio giustizia”. Così stamattina il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha risposto indirettamente durante il Cdc in corso in Cassazione alla premier Meloni che durante la conferenza stampa di qualche giorno fa si era detta “sorpresa dai toni apocalittici” usati dalla magistratura quando si propongono delle riforme che la riguarda. Per Santalucia quella in corso “è una partita che si gioca da 30 anni tra politica e giurisdizione che non ha voluto allentare il controllo di legalità sulla politica e oggi ci fanno pagare il prezzo per questo”. Per il leader del “sindacato” delle toghe “è inaccettabile aver blindato il testo”. Ammette che per l’Anm “il testo è inemendabile” tuttavia “ciò non significa che il Parlamento non debba occuparsene”. “Siamo servitori dello Stato che servono secondo le funzioni che sono proprie. Documenti del Consiglio d’Europa richiamano i magistrati al diritto-dovere di prendere la parola su riforme che possono mettere in discussione la loro autonomia”, ha poi risposto durante il punto stampa quando Il Dubbio gli ha chiesto come commentava le dichiarazioni del vice premier Tajani (“non credo che un servitore dello Stato debba protestare nei confronti del Parlamento. È come se i Carabinieri abbandonassero il servizio”). Infatti, al termine della giornata di oggi il “parlamentino” del sindacato delle toghe deciderà le modalità di protesta da mettere in atto durante le inaugurazioni dell’anno giudiziario contro la riforma della separazione delle carriere e quando fare uno sciopero. “Non c’è nessuna forma di ribellismo illegale o istituzionalmente incompatibile - ha spiegato ancora Santalucia - ma si tratta di rendere palese alla cittadinanza, e il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è importantissimo, le ragioni per cui riteniamo che questo ddl non vada nel segno di un miglioramento della giustizia e un rafforzamento delle garanzie di autonomia e indipendenza. Abbiamo il dovere di dirlo. Siamo assolutamente fedeli alla Repubblica ed è per questo - ha concluso - che facciamo ciò che ci accingiamo a fare, per fedeltà massima alla Repubblica”. Separazione delle carriere? Il vero obiettivo è colpire i magistrati di Gian Carlo Caselli La Stampa, 19 gennaio 2025 La riforma della “separazione delle carriere” tra Pm e giudici sembra arrivata all’ultimo miglio (per altro ancora piuttosto lungo), grazie alla tenace ossessione di gran parte degli avvocati e all’irriducibile dedizione alla causa dei politici di centro-destra. Tra questi primeggia il ministro Nordio, sempre pronto a rivendicare per le sue idee un marchio Doc, perché lui “sa” in quanto vecchio pubblico ministero. “Sa” e garantisce, chiedendo un atto di fede, che non si avranno quelle ricadute negative sull’indipendenza del Pm che molti invece - a partire dal Consiglio superiore della magistratura - ritengono inevitabili. Mentre non a caso la separazione delle carriere fra Pm e giudici era nel programma di Licio Gelli e Silvio Berlusconi. Rispetto alle altre democrazie europee il nostro Paese costituisce un “caso” per il concorso di alcuni specifici fattori: la resilienza della corruzione, capace di sopravvivere e riemergere anche dopo durissimi colpi (di qui la formula “corruzione sistemica”); la storica collusione con la mafia di pezzi consistenti della politica e del mondo degli affari; la pretesa, da parte di molti politici, di sottrarsi alla giustizia comune in forza del consenso ricevuto (nel momento stesso in cui la responsabilità politica e quella morale sono diventate ferri vecchi da relegare in soffitta); la sistematica delegittimazione dei magistrati che si ostinano a voler applicare la legge in maniera uguale per tutti, compresi i ricchi, i potenti e i politici. È in questo quadro che va inserito il dibattito sulla “separazione delle carriere” fra Pm e giudici. Così si potrà capire che nel nostro Paese essa non è altro che il culmine della strategia di mortificazione della magistratura in atto da anni: perché il libero esercizio della giurisdizione sia alla fine sterilizzato subordinando il Pm al potere esecutivo, felice di intervenire soprattutto quando si tratta di imputati “eccellenti” che impunità van cercando. Vi è chi sostiene che Falcone fosse a favore della separazione delle carriere: tra questi Marcello Sorgi su La Stampa del 17/01/25. Per parte mia (pur rispettando - ci mancherebbe - l’opinione di Sorgi) mi permetto di dissentire nella misura che risulta da un mio articolo, sempre su questo giornale, in data 05/11/24; nel quale (al di là della esegesi delle parole di Falcone che molti ritengono di dover riferire alla separazione delle funzioni e non delle carriere) ricordavo “il fatto decisivo che egli parlava in un’epoca stellarmene diversa da oggi”. Chi vuole la separazione delle carriere fa leva soprattutto sul rapporto di “colleganza” fra Pm e giudici comporterebbe uno squilibrio fra accusa e difesa nel processo. Ma al di là della propaganda illusoria, ragionando sulla situazione di fatto non è difficile vedere che lo squilibrio ha poco o nulla a che fare con la separazione delle carriere. Sono infatti i meccanismi di concreto funzionamento del processo che incidono sulla parità tra accusa e difesa. Mentre ruoli e figure professionali restano diversi al di là dei collegamenti derivanti da una carriera comune e dagli stessi rapporti individuali: un controllore resta controllore e un giudice resta giudice anche se prende un caffè col Pm. Qui vorrei concentrarmi su un particolare aspetto del problema, utile per poterne scorgere in filigrana la reale portata. Separare le carriere di Pm e giudici comporta - in concreto - uno sdoppiamento dei rispettivi percorsi professionali. Quindi: 2 concorsi di assunzione; 2 Csm; 2 regolamenti per nomina dei dirigenti, trasferimenti etc. Ora, volendo seguire criteri di stretto rigore, si dovrebbe imboccare - per coerenza - la strada che porta a rescindere anche i rapporti fra i giudici delle indagini preliminari e i giudici di primo grado, fa questi e i giudici d’Appello e poi di Cassazione. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra Pm e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo. In pratica avremmo non 2 concorsi e 2 Csm, ma 5 concorsi e 5 Csm. Ma è una strada senza via d’uscita e nessuno può seriamente pensare di proporla e men che mai di sostenerla. Tuttavia essa consente - in linea di principio - un’osservazione importante : limitare la separazione a un unico segmento della complessiva linea di “colleganza”, equivale ad ammettere che la riforma non è coerente con le sue premesse teoriche, il che conferma quanto postulato all’inizio: e cioè che la separazione non è un problema di “giusto processo” ma rientra nella strategia di sterilizzazione del Pm che voglia essere “troppo” indipendente. In ogni caso, spacciare la separazione come riforma della giustizia è come il gioco delle tre carte: perché è solo fuffa (chiacchera senza fondamento) tutto ciò che non incide sul problema dei problemi, vale a dire la vergognosa interminabile durata dei processi: offrendo finalmente al cittadino, che ne ha diritto, un servizio giustizia degno di questo nome, invece che - come oggi accade - un miscuglio di norme mal assortite che troppo spesso si risolve nell’insopportabile scherno di una denegata giustizia. Silvia Albano: “Pm meno indipendenti. Con la riforma sarà il Viminale a guidare l’azione penale” di Grazia Longo La Stampa, 19 gennaio 2025 La presidente di Magistratura democratica: “Una legge cara a Gelli. Rischioso affidare a un organo esterno al Csm la funzione disciplinare”. Silvia Albano, tra i primi giudici a non convalidare il trattenimento nel centro migranti in Albania, è la presidente di Magistratura democratica. Perché siete contrari alla separazione delle carriere? “Intitolare la riforma in questo modo è fuorviante perché contiene molto altro. La separazione delle funzioni c’è già: con la riforma Cartabia si può cambiare funzione tra giudice e pubblico ministero una sola volta nei primi 9 anni di carriera e non succede quasi mai. Dobbiamo quindi domandarci qual è il fine di questa riforma. È stato chiaro nella votazione alla Camera, in cui si è respinta la richiesta di impegnare la maggioranza di governo a non fare riforme che sottraggano la polizia giudiziaria alle direttive del pm. In questo modo sarà la polizia giudiziaria a decidere quali indagini fare, quali reati perseguire”. Ma al momento questo non è previsto... “Sì, però il governo non si è impegnato a non portare avanti questa ipotesi. C’è quindi il rischio che di fatto sarà il ministero dell’Interno, che controlla e dà le direttive alla polizia, a gestire l’esercizio dell’azione penale”. In molti, non solo in Forza Italia, hanno esultato perché la separazione delle carriere era cara a Silvio Berlusconi. “Non solo a Berlusconi, è nel piano di rinascita democratica di Licio Gelli. Però alcune cose di questa riforma nell’idea di Berlusconi non c’erano. E non si era in una situazione come quella di adesso in cui la separazione delle funzioni in effetti c’è. E non si parlava di due Csm, non si parlava di un’alta corte disciplinare”. A proposito dell’alta corte disciplinare, perché la considera negativa? “È molto rischioso mettere la giustizia disciplinare fuori dall’autogoverno della magistratura, cioè dall’organo che dovrebbe garantire l’indipendenza della magistratura, perché è chiaro che attraverso le azioni disciplinari si può influire grandemente sull’indipendenza del singolo giudice, la si può usare come strumento di pressione”. Il governo è convinto che con il sorteggio dei membri del Csm spariranno le correnti. “Non è affatto vero che ciò avverrà. Ci sono state delle degenerazioni nella vita dei gruppi associativi, ma i gruppi associativi della magistratura sono stati un fattore di grande crescita democratica e di partecipazione dei magistrati all’autogoverno e all’Anm. Sono un luogo dove si elaborano proposte, una visione della giustizia, una visione dell’essere magistrato. Il sorteggiato avrà sempre degli amici, sarà comunque appartenente a qualche corrente e quindi cosa cambia? La stragrande maggioranza dei magistrati è iscritto ai gruppi associativi, non cambia nulla, se non in peggio, favorendo rapporti non trasparenti. Togliendo l’elezione, poi, si elimina anche la responsabilità politica del gruppo a cui quell’eletto appartiene”. State organizzando una protesta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Come valuta le parole del ministro Tajani per cui non potete ribellarvi perché siete un organo istituzionale? “È una presa di posizione contraria a ciò che hanno sempre detto la Corte costituzionale e la Corte europea dei Diritti umani. I magistrati, quando si tratta di riforme che colpiscono al cuore l’ordinamento giudiziario come noi l’abbiamo sempre conosciuto e come l’hanno pensato i costituenti, hanno il dovere di intervenire nel dibattito pubblico, hanno il dovere di rappresentare ai cittadini quali saranno le conseguenze di queste scelte” Che protesta farete? “Come Magistratura democratica abbiamo pensato di uscire dall’aula quando parla il rappresentante del ministero. Non per una questione di sgarbo istituzionale, ma quello non è il luogo del dialogo e dell’ascolto: quello che è successo in questi mesi dimostra che non c’è nessuna voglia di dialogo. Inoltre dobbiamo anche indire lo sciopero per metà febbraio e ci dovranno essere diversi scioperi per ogni lettura alle Camere. Il giorno dello sciopero i magistrati dovrebbero uscire dai tribunali e andare nei luoghi dove la gente c’è, a parlare con i cittadini, quindi magari andare a distribuire un opuscolo davanti alle scuole oppure nelle università, nei mercati”. Crede che vincerete al referendum? “Non lo so, il percorso è lungo. Intanto bisogna convincere la gente ad andare a votare”. Cosa pensa dei disagi per le App nel processo penale? “Io faccio il civile dove il processo telematico ha avuto dieci anni di sperimentazione con tribunali pilota. Invece ora nel penale non c’è stata sperimentazione. Non sono disperati solo i giudici, ma anche gli avvocati. Hanno creato una serie di intoppi infiniti, invece che un’accelerazione del lavoro”. Colombo “Scudo penale incostituzionale e dannoso. La forza non dà sicurezza, serve curare le periferie” di Zita Dazzi La Repubblica, 19 gennaio 2025 Ci vogliono progetti di educazione alla legalità per i ragazzi che commettono reati da Daspo e occorre garantire condizioni di vita dignitosa. Bisogna includere i giovani stranieri nati in Italia e questo comporta anche l’accettazione delle diversità senza creare discriminazioni Ho fortissimi dubbi sulle misure del governo per le forze di polizia: possono alimentare la rabbia sociale e ritorcersi contro gli stessi agenti. Gherardo Colombo, lunga carriera di magistrato, protagonista di una stagione di inchieste giudiziarie che hanno segnato il Paese, dalla Loggia P2 a Mani Pulite, oggi scrive saggi sulla legalità e parla ogni anno davanti a migliaia di studenti per spiegare i valori sui quali ha fondato il suo lavoro. Le “zone rosse” hanno creato polemiche e, nel caso dei festeggiamenti di Capodanno a Milano, non hanno garantito l’ordine pubblico. Che ne pensa? “Secondo me la valutazione di misure simili dipende da come si pensa che sia giusto organizzare la società. Se si sta insieme, cioè, secondo un criterio di supremazia, oppure di condivisione. Il primo ha come conseguenza che chi sta in alto comanda e costringe chi sta in basso a obbedire; il secondo si basa sul riconoscimento dell’altro e delle sue idee e sul dialogo attraverso cui ricercare punti di incontro. Mentre per la prima visione del mondo i problemi si risolvono con l’imposizione, per la seconda con l’educazione alla convivenza. La nostra Costituzione ha scelto la seconda alternativa”. Può bastare per assicurare un livello di sicurezza accettabile? “È necessario molto d’altro: dal punto di vista dello sviluppo della persona è ovvia l’importanza dell’educazione. Ma attenzione, dell’educazione a diventare capaci di gestire la propria libertà, e non si educa alla libertà attraverso la richiesta di obbedienza. Ma perché l’educazione possa incidere, sono necessari tanti altri interventi. Il tema è quello del rispetto dell’altro, e anche per i ragazzi che commettono trasgressioni gravi, come quelle passibili di Daspo, è necessario garantire condizioni di vita dignitosa. In tante realtà urbane esistono troppe disparità sociali, persone che vivono sotto la soglia della povertà. Le periferie da dove vengono i ragazzi che hanno creato problemi sono spesso abbandonate”. Si sta riproducendo un fenomeno simile a quello delle banlieue francesi? “Potremmo evitare una deriva simile con un progetto di coesione sociale serio, partendo non solo dal piano educativo ma anche dal tema della giustizia sociale. È certamente un argomento molto ampio, ma garantire condizioni di vita, di lavoro più stabile, di salario più equo, servirebbe molto a ridurre quella rabbia, quell’invidia, quella negatività nelle relazioni tra le persone, che in certi casi ha un peso determinante”. I provvedimenti coercitivi non bastano se è il disagio sociale a determinare certi comportamenti violenti e trasgressivi? “L’uso degli strumenti coercitivi a volte è indispensabile. Se una persona ne sta ammazzando un’altra, è ovvio che le forze dell’ordine devono impedirglielo anche con l’uso della forza. Però è rigorosamente necessario usare la forza solo ed esclusivamente quando essa serve ad evitare che sia usata contro terzi una violenza di pari consistenza, e rispettando rigorosamente la proporzione tra il rischio e il rimedio. Detto questo, l’intervento delle forze dell’ordine, la mera repressione dei comportamenti illeciti, non risolve il problema alla radice, non elimina dalla società quel che scatena la rabbia, che sta alla base delle motivazioni di chi commette reati, piccoli o grandi che siano”. È possibile coinvolgere i ragazzi stranieri nati in Italia, in un discorso di rispetto per istituzioni e legalità? “Ovviamente sì. Si tratta di decidere se vogliamo escludere o includere, e questo comporta anche l’accettazione delle diversità. Come dice la nostra Costituzione, tutti noi siamo “uguali davanti alla legge” senza che le nostre diversità (di genere, etnia, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) possano creare discriminazione. Perché la discriminazione sia bandita è necessario riconoscere nell’altro una dignità pari alla propria, come dice la Costituzione. È necessario riconoscere effettivamente a tutti i diritti fondamentali, perché tutti si possano coinvolgere”. I dati dei reati sono in calo, ma la percezione dei cittadini resta di crescente insicurezza… “Giusto parlare di “percezione”. Vedo un clima in cui alcuni episodi generano la sensazione di vivere costantemente in un contesto molto più pericoloso del passato, anche se nella generalità della vita quotidiana la realtà è diversa”. Magari le persone si sentono più garantite se ci sono i divieti… “Qualcuno si sente più garantito, qualcuno meno libero. Però vorrei parlare anche dell’utilità di certe misure: una volta messe le regole, si controlla che vengano rispettate? Se quando si impone un comportamento non si è capaci di ottenerne l’ottemperanza, il risultato è l’opposto di quello che si vorrebbe”. Dopo la morte del giovane Ramy Elgaml, al termine dell’inseguimento da parte dei carabinieri, c’è stata tensione al Corvetto e in tutta Italia… “Non conosco a sufficienza i fatti. L’episodio ovviamente mi ha colpito e capisco possa diventare un pericoloso detonatore di altre tensioni sociali”. Cosa pensa dello scudo penale? “Certamente l’effetto sull’opinione pubblica potrà essere pesante. Ho fortissimi dubbi sulla costituzionalità della misura, che credo possa aumentare la rabbia sociale ed esporre gli operatori della sicurezza a pesanti reazioni nell’esercizio delle loro funzioni”. Morte di Ramy Elgaml, un drone per gli accertamenti in via Ripamonti di Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 19 gennaio 2025 Dall’urto alla caduta, i punti da chiarire. Il consulente della procura, l’ingegnere Domenico Romaniello, sabato mattina ha effettuato un sopralluogo sul punto dell’incidente. Si cerca di recuperare il video cancellato. Anche un drone in cielo per registrare le immagini dall’alto dell’angolo tra via Ripamonti e via Quaranta a Milano. Misurazioni accurate, dalla carreggiata all’altezza del marciapiedi, alla ricerca di dettagli che possano ricostruire finalmente cosa è successo la notte del 24 novembre quando Ramy Elgaml è morto dopo un inseguimento con i carabinieri. Il consulente della procura, l’ingegnere Domenico Romaniello, sabato mattina ha effettuato un sopralluogo sul punto dell’incidente accompagnato dagli agenti della polizia locale. La sua consulenza dovrà chiarire le responsabilità dietro l’incidente e accertare se ci sia stato o meno un urto - successivo a quello laterale che si verifica poco prima dell’incrocio - tra il Tmax guidato da Fares Bouzidi e la pattuglia “Volpe 40” del Radiomobile che possa aver provocato la caduta. O se, invece, quell’impatto laterale precedente possa aver avuto un ruolo nella successiva perdita di controllo di Fares. I video dalla telecamera all’angolo con via Solaroli non aiutano, a causa della prospettiva e della posizione dei due mezzi. Inoltre la prima relazione tecnica della polizia locale non ha messo in luce un altro contatto tra Tmax e Giulietta dopo quello prima dell’incrocio. E i danni rilevati sullo scooter non fanno pensare a un impatto così rovinoso come appare da una visione ad occhio nudo delle immagini. Per questo saranno fondamentali le misurazioni tecniche. I pm Marco Cirigliano e Giancarla Serafini (che indagano Fares e il vice brigadiere per omicidio stradale) avranno le prime conclusioni a breve. Ma i fronti non si chiudono. Perché c’è un secondo filone d’indagine per depistaggio e favoreggiamento sulla cancellazione dei video dal telefono del testimone Omar E. e che vede due militari indagati. Anche qui tutto è affidato a una consulenza dell’esperto informatico Marco Tinti. Le prime indiscrezioni dicono che il video non è stato recuperato. Ma l’uso di nuovi software potrebbe cambiare le cose. Nel filone si inseriscono anche gli accertamenti sui filmati della bodycam di un militare (non indagato) mostrati da “Dritto e rovescio” che non erano agli atti: non sono stati consegnati dolosamente ai magistrati o si è trattato di un errore tecnico? Le indagini proseguono. Intanto la destra attacca il sindaco Sala dopo che la procura ha parlato di un inseguimento eseguito nel rispetto dei regolamenti e del codice penale. “Attendiamo le reazioni di certa vergognosa sinistra che preferisce giustificare chi delinque anziché difendere le forze dell’ordine”, le parole di Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier. A Porta Nuova, tre mesi dopo “Per Moussa e gli altri come lui” Di Angiola Petronio Corriere di Verona, 19 gennaio 2025 Oggi un presidio collegato al caso di Ramy. Il nodo delle telecamere. Il tratto in comune. “Verona-Milano-Verucchio. Lo stesso razzismo omicida”. Le differenze: le immagini. Quelle che sono state mostrate e che continuano a uscire, il caso di Ramy. Quelle di cui ancora non si sa nulla, come per Moussa. È questo il solco nel quale si muoverà domani, alle 16, il presidio organizzato davanti alla stazione per “Moussa, Ramy, Fares e Muhammad”. Quello nato sotto l’egida del “pretendere Giustizia e Verità per Moussa” e che vedrà la partecipazione di persone e collettivi da Milano, del Magazzini 47 di Brescia, Onda Studentesca, Associazione Diritti per tutti e collettivo Gardesano autonomo. Un mantra che risuona da novanta giorni quello del comitato “Verità e Giustizia per Moussa”. I tre mesi trascorsi da quando, lo scorso 20 ottobre, Moussa Diarra, 26enne maliano - con un contratto di lavoro e regolarmente in Italia in preda a una crisi psicotica, è stato ucciso da uno dei tre colpi sparati da un agente della polizia ferroviaria su quel piazzale dove il presidio si animerà. Tre mesi da quando il corpo di Moussa è all’istituto di Medicina Legale di Borgo Roma senza che nessuno - tranne i periti della procura e nemmeno quelli nominati dalle avvocate della famiglia di Diarra - lo abbia potuto vedere. Come non sono stati visti i coltelli che Moussa avrebbe avuto con sé, uno dei quali avrebbe utilizzato per minacciare il poliziotto indagato per eccesso colposo di legittima difesa - che gli ha sparato. Novanta giorni in cui non si è ancora dipanato il gomitolo su quelle “numerose telecamere presenti nella zona” le cui immagini, stando a procura e questura, in un comunicato congiunto diramato subito dopo il fatto, erano “al vaglio”, con l’indagine che “potrà quindi avvalersi di riscontri oggettivi che saranno fondamentali per una ricostruzione completa e imparziale di quanto accaduto”. Con il procuratore capo Raffaele Tito che a poco meno di due mesi da quel 20 ottobre, in un altro comunicato ha precisato che “esistono tre sole telecamere che riprendono e hanno ripreso l’esterno della stazione”. Una, verso il piazzale, che “ha potuto documentare uno dei tre colpi esplosi”. Le altre due che, più lontane, “hanno ripreso e registrato il momento degli spari e la caduta a terra del ragazzo”. E quelle interne alla stazione che avrebbero dovuto riprendere la supposta aggressione di Moussa - di cui una sola “pur apparentemente funzionando non ha però registrato immagini”. Con quelle esistenti che sono state inviate alla polizia scientifica di Padova per “un elaborato più completo e definitivo”, ma del quale ancora non si sa nulla. Novanta giorni in cui sono intercorse una interrogazione parlamentare - quella di Ilaria Cucchi - e una segnalazione al Consiglio Superiore della Magistratura. Novanta giorni in cui neanche il perito balistico della famiglia di Diarra ha potuto accedere al materiale repertato. Novanta giorni in cui Trenitalia prima ha negato di aver inviato una mail ai propri dipendenti in cui veniva ribadito “di non rilasciare dichiarazioni o fornire informazioni o nominativi” su quanto eventualmente visto quella domenica mattina in stazione, per poi chiarire che era stata inviata. Novanta giorni durante i quali il comitato ha inondato la stazione con manifesti per la ricerca dei testimoni, regolarmente ridotti a brandelli. Da qui il presidio di oggi “contro un sistema - scrivono gli organizzatori - che sostituisce la cura con la repressione e trasforma fragilità e problemi sociali in questioni di ordine pubblico”, ma anche per “dire no al ddl repressione, no a una sicurezza che è difesa del privilegio, che è violenza razzista e di classe”. In questi novanta giorni in cui il luogo dove è morto Moussa è diventato un altare laico. Quello dove si continuano a deporre fiori, quello dove continuano ad accendersi candele. E dove da novanta giorni c’è un uomo che non smette di piangere. Djamagan, il fratello di Moussa. Se la destra ha fretta di chiudere il caso Ramy di Luciana Cimino e Roberto Maggioni Il Manifesto, 19 gennaio 2025 Nessuna svolta della Procura ma il ministro Piantedosi giustifica gli agenti: “Fermarsi all’alt è meglio che rischiare di perdere la vita”. Non c’è nessuna reale novità sul caso di Ramy Elgaml, morto dopo un inseguimento con la polizia la notte del 24 novembre 2024, se non che la destra ha già stabilito innocenti e colpevoli. Alcune indiscrezioni di stampa, secondo le quali la procura di Milano non avrebbe rilevato infrazioni da parte delle forze dell’ordine nelle modalità del tallonamento, sono state sufficienti ai partiti di maggioranza per gridare all’innocenza dei carabinieri e attaccare chi ha sollevato dubbi sui fatti di quella notte. L’indagine però è di fatto congelata in attesa dei risultati sulla perizia del cellulare del testimone e dell’analisi cinematica delle fasi finali dell’inseguimento allo scooter guidato da Fares Bouzidi. Si saprà qualcosa i primi giorni di febbraio. Quanto fatto filtrare ieri dalla procura di Milano ha più le sembianze di un intervento nel dibattito pubblico che di una svolta nell’inchiesta che gli stessi inquirenti ribadiscono essere centrata sulla dinamica della caduta della moto e sui possibili depistaggi dei carabinieri, non sull’inseguimento in sé. Non è la prima volta che i magistrati milanesi devono intervenire per stoppare indiscrezioni filtrate dal palazzo. Era successo anche con il capo d’accusa (omicidio stradale oppure volontario) dopo che il Tg3 aveva mostrato frammenti del video dell’inseguimento e soprattutto fatto ascoltare gli audio dai quali emergeva la volontà, da parte di almeno una delle gazzelle, di fare cadere i due. Il dibattito pubblico si era infuocato, dalla Tv alle piazze, e la procura era dovuta intervenire per ribadire che il capo di accusa rimaneva quello di omicidio stradale. Di certo però le indiscrezioni sono arrivate come una manna dal cielo per il governo e la maggioranza, impegnati a portare a casa il ddl Sicurezza presto e con poche modifiche. E la destra ha avuto buon gioco nell’usarle come grimaldello contro l’opposizione (accusata di aver lanciato campagne d’odio contro le forze dell’ordine) e come prova della necessità del contestato scudo penale per gli agenti. In mezzo ci è finito anche l’ex capo della polizia Gabrielli, oggi delegato alla sicurezza del comune di Milano, colpevole prima di aver contestato il dispositivo delle zone rosse e poi di aver sostenuto che l’inseguimento dello scooter su cui viaggiava Ramy non fosse corretto, soprattutto in base al principio di proporzionalità. Le dichiarazioni della destra sono state perlopiù sulla falsariga di quella del forzista Maurizio Gasparri: “Il pessimo Gabrielli si dovrebbe dimettere, che incarico svolge a Milano? Chi lo paga? Si vergogni insieme a Sala. Noi siamo con le divise”. Toni ancora più accesi dalla Lega e Fdi che si contendono il ruolo di “partito più amico della polizia” e la paternità delle leggi securitarie. “Attendiamo le reazioni di certa vergognosa sinistra che preferisce giustificare chi delinque anziché difendere le nostre forze dell’ordine” dice Salvini, seguito dal capogruppo meloniano alla Camera, Galeazzo Bignami, che accusa la sinistra di aver “alimentato un clima di odio e violenza nei confronti delle nostre forze dell’ordine”. Per poi sottolineare: “È anche per questo che FdI sostiene l’approvazione del ddl Sicurezza”. A dare manforte sull’ineluttabilità delle “garanzie” per gli agenti e del disegno di legge, contestato anche dall’Onu, c’è anche il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, che ieri ha rilasciato due interviste, al Messaggero e Qn, nelle quali per quanto si sforzi di sembrare democristiano (con tanto di citazione della sua passione per De Gasperi) esprime concetti scivolosi: “All’alt bisogna fermarsi, qualunque conseguenza eventuale è meglio che rischiare di perdere la vita”. Una dichiarazione che fa il paio con quella relativa al caso dei presunti abusi in questura a Brescia denunciati dalle attiviste di Extinction Rebellion, costrette a spogliarsi e a piegarsi. Anche in quella circostanza, secondo il ministro degli Interni, gli agenti hanno agito “in piena regolarità”: “Si tratta di una pratica operativa che in determinate circostanze è consentita e anche prescritta”. Poi teorizza un “network tra gruppi antagonisti” che utilizzerebbero temi come l’ambientalismo, la scuola, il massacro della popolazione di Gaza e la contrarietà al Ponte sullo Stretto o alla Tav per alzare “il livello di tecnica di aggressione alle forze dell’ordine: dalle bombe carta agli artifizi urticanti, una vera forma di guerriglia”. Tutto questo per Piantedosi giustifica la “fretta” sul ddl: “Ci sono una serie di normative importanti, come la tutela legale nei confronti delle forze dell’ordine, con il pagamento delle spese legali” Firenze. Non è il cemento che potrà ridare al carcere di Sollicciano il senso di umanità di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 19 gennaio 2025 Marco Carrai ha proposto di farsi promotore di una ricerca di fondi “per aiutare il Comune, lo Stato e l’amministrazione giudiziaria” con il fine di costruire un nuovo carcere a Firenze. Lo ha fatto qualche giorno fa in un commento, pubblicato dal quotidiano La Nazione, in cui si firma “imprenditore e manager”. La ragione è semplice, spiega Carrai: dacché chi ha avuto la fortuna di nascere in questa splendida città (Firenze, ndr) “non sa molte volte che esiste una struttura carceraria che non ha nulla di umano” e non si accorge “che quella scintilla riflesso di luce di quel Dio che ognuno porta dentro di sé lì viene spenta per sempre”. Il riflesso per lui è automatico: un nuovo carcere (Sic!). Sarebbe fin troppo facile (e ingiusto) ironizzare sull’aulica prosa di Carrai, ma non posso non notare che il suo ragionare contiene una evidente aporia logica. Se la questione principale è l’umanità carceraria, sostenere la necessità di un nuovo carcere annulla automaticamente la premessa. È una strada senza uscita. Tra raccolta fondi, localizzazione, burocrazie varie e costruzione dell’edificio si potrebbero calcolare, anche a correre, circa venti anni da oggi per la realizzazione “eventuale” di un nuovo istituto penitenziario a Firenze. L’aporia di Carrai si risolve e dissolve all’interno di una semplice domanda: Carrai, e nel frattempo? Si accetta, quindi, la disumanità di quel carcere attendendo tempi migliori? No, non è costruendo un nuovo carcere “modello” che si risolve il dramma attuale della disumanizzazione carceraria. Qualsiasi metodologia politica laica e non demagogica deve riconoscere in maniera esplicita, al momento stesso del suo porsi, la sua ontologica fallibilità. La disumanizzazione nei nostri penitenziari è un modello antico di concepire la funzione della pena. Un modello che possiede una moderna valenza culturale, che implica accettare l’ambiguità del mondo e dell’esistenza. Non è il cemento a fare la differenza tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Il dispositivo del potere è in quello che il cemento contiene e chiude a doppia mandata. La concezione ancora fisica della pena eseguita attraverso la sofferenza del reo. La punizione legale maturata all’interno di un riconoscimento sociale. Carrai sbaglia anche nel non dire che il carcere di Sollicciano andrebbe immediatamente chiuso. Non farlo addolcisce l’aporia: mantenere attuale la disumanità di Sollicciano in vista dell’umanità futura. Dirlo avrebbe contraddetto la teoria: la disumanità oggi è dunque il male minore. Carrai conclude il suo commento citando un concetto lapiriano. Bisogna “sollevare la nostra coscienza” e “dire che Firenze non è stata costruita invano a immagine della Gerusalemme celeste”. Carrai, la Gerusalemme celeste che immagini altro non è che una banale experience dell’industria turistica, con assaggini di lampredotto e ribollita compresi nel prezzo. Non spariamo banalità un tanto al chilo. L’argomento è serio: il carcere di Sollicciano va semplicemente chiuso, prima possibile. Modena. L’inchiesta per torture: “Gli agenti sono sereni, operato ineccepibile” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 19 gennaio 2025 “Il tema riguardante la vivibilità in carcere non deve essere in alcun modo confuso e accomunato con il procedimento penale che vede coinvolti i nostri assistiti. Noi stessi - quali difensori di numerosi agenti della polizia penitenziaria - abbiamo evidenziato le note difficoltà di vita dei detenuti e degli agenti che, quotidianamente, lavorano e proteggono gli stessi detenuti”. Così gli avvocati Cosimo Zaccaria (nella foto) e Alessia Massari che rappresentano diversi dei cento agenti di polizia penitenziaria indagati per le presunte torture ai detenuti durante la sanguinaria rivolta dell’8 marzo 2020. Come noto nell’udienza di opposizione all’archiviazione il gip aveva disposto altri accertamenti sulle presunte torture ai danni di detenuti ma ora è stato presentato un nuovo esposto da parte di un altro detenuto che denuncia di aver subito a sua volta pestaggi e torture. “Quanto al procedimento penale - affermano gli avvocati - siamo sereni: gli atti tutti ad oggi assunti dimostrano un operato ineccepibile dei nostri assistiti. Ripeto, parliamo di dati di fatto e non di congetture. Prendiamo atto della diffusione della notizia di un nuovo esposto a mesi di distanza dall’ultima udienza e ad anni - lo sottolineiamo - ad anni di distanza dai fatti”. Secondo il detenuto, un 37enne marocchino quel giorno lo stesso fu costretto ad uscire dalla propria cella essendo stata data alle fiamme. Raggiunto da agenti, sarebbe stato ammanettato, picchiato, collocato in una sala e qui costretto a stendersi a terra con le mani ammanettate per poi essere trasferito in una stanza dalle dimensioni più ridotte. Nel locale gli agenti - secondo l’uomo - lo avrebbero anche colpito al capo con un grosso bastone. Sicuramente il nuovo esposto sarà unificato al fascicolo già presente in procura. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Detenuto pestato: “Colpito dagli agenti durante un controllo” di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 19 gennaio 2025 La denuncia: “Si sono fermati solo quando ho perso sangue dalla bocca”. Ma il sindacato smentisce: “Aveva dosi di droga”. Il detenuto salernitano Antonio Novelli si procurato da solo le lesioni o sono stati gli agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi a causargliele? A fare luce sulla vicenda accaduta giovedì nel penitenziario irpino sarà ora la Procura di Avellino, alla quale Novelli si è rivolto raccontando la sua verità. La denuncia del detenuto - Il 32enne detenuto salernitano, in carcere per vicende legate agli stupefacenti, ha denunciato che, dopo un colloquio con un familiare, era stato invitato dagli agenti della polizia penitenziaria ad effettuare un controllo. Ma non con le solite modalità: Novelli, a suo dire, sarebbe stato portato in una stanza diversa da quella abituale - dove non ci sarebbero telecamere di videosorveglianza - e fatto svestire. Il detenuto avrebbe chiesto il perché di una perquisizione insolita, mentre sarebbero arrivati altri agenti della penitenziaria che gli avrebbero chiesto aggressivamente di mettersi a terra. “Il sottoscritto provava a sottrarsi alle richieste assurde effettuate dagli agenti della polizia penitenziaria - sostiene Novelli nella sua denuncia presentata nelle ultime ore -. Vista la resistenza, i medesimi agenti con forza scaraventavano lo scrivente a terra, con la pancia sul suolo, iniziandolo a colpire con calci”. Rovigo. Nuovo carcere minorile, in marzo i primi detenuti Corriere del Veneto, 19 gennaio 2025 Arriveranno 27 ragazzi anche da Treviso. Aprirà tra meno di due mesi il carcere minorile nell’ex Casa circondariale in via Verdi. I primi detenuti arriveranno nella struttura nel cuore della città tra marzo e aprile. Saranno trenta i minorenni ospitati con circa 40 agenti penitenziari. Nell’istituto penitenziario minorile di Treviso, che ora ospita 20 detenuti, è infatti previsto un progressivo svuotamento che dovrebbe terminare nel 2026. Proprio l’alto tasso di occupazione dell’attuale carcere minorile trevigiano dove una cella si trasforma in una doppia e la convivenza tra adolescenti si fa sempre più incandescente, ha convinto la Regione a realizzare in tempi celeri una nuova struttura dedicata a Rovigo, dove fino a poco fa c’era comunque un carcere. Nella Casa Circondariale, trasferita nel 2016 nella nuova struttura della Tangenziale Est, i lavori di sistemazione per la realizzazione del nuovo carcere minorile, dopo il via libera della Regione allo spostamento da Treviso, erano iniziati nel 2022. Nel 2020 il ministero per le Infrastrutture, con decreto, ha aggiudicato l’appalto per la realizzazione del carcere minorile per il Triveneto all’associazione temporanea d’imprese (Ati) “Nidaco costruzioni Srl-ici impresa costruzioni industriali Spa”. L’ati, con sede a Venafro (Isernia), si è aggiudicata l’appalto per un importo finale di 8 milioni e 615.276 euro. Il bando di gara per trasformare in istituto penale per minori i circa due ettari dell’ex carcere per adulti era da 11,2 milioni di euro. I lavori sono dunque iniziati a gennaio 2022 e si sono conclusi in questi giorni. Il nuovo carcere minorile è dunque pronto a partire. Cuneo. Le Acli provinciali prestano servizio nelle carceri cuneodice.it, 19 gennaio 2025 Il progetto in accordo con il Ministero della Giustizia, in collaborazione con la Regione Piemonte e con le Acli di Alessandria. “Da circa un anno, le Acli provinciali cuneesi hanno incrementato la loro pluriennale presenza nelle carceri della provincia (Fossano, Alba, Saluzzo e Cuneo) partecipando a un progetto volto a supportare le persone in stato di detenzione, offrendo assistenza sociale, per il disbrigo di varie pratiche burocratiche, ma anche per offrire un momento di ascolto e attenzione ai detenuti. Un impegno che assume un valore più significativo, in questo anno 2025, in cui Papa Francesco ha indetto il Giubileo, incentrato sulla speranza, fondamentale per tutti e, in particolare, per chi vive in carcere”. Così afferma il presidente provinciale delle Acli cuneesi, Elio Lingua, parlando del progetto realizzato esclusivamente delle Acli provinciali di Cuneo in accordo con il Ministero della Giustizia, in collaborazione con la Regione Piemonte e con le Acli di Alessandria. “Il progetto serve a orientare i detenuti verso i loro diritti, attraverso l’espletamento delle relative pratiche burocratiche - dice il coordinatore del Patronato Acli cuneesi, Ottaviano Diana -, ma anche di metterli nelle condizioni di essere in regola con i documenti, per evitare che, quando torneranno liberi, si debbano trovare in difficoltà ad usufruire, per esempio, di un’abitazione o di un lavoro: un inserimento educativo e anche normativo nell’ambito dei diritti del detenuto, anche quelli di cui forse lui stesso non è a conoscenza”. Il gruppo di operatori delle Acli che porta avanti questo progetto nelle carceri è costituito da circa 8 persone; di queste, alcune si spostano negli Istituti penitenziari per parlare direttamente con ciascun detenuto, per recepire quello di cui ha bisogno e capire le esigenze, anche quelle che magari non vengono dette; in questa fase si acquisiscono i dati necessari per istruire le varie pratiche di cui la persona ha bisogno e poi tutta la documentazione viene portata in sede Acli, dove ci sono dei dipendenti, opportunamente formati, che istruiscono le varie pratiche, che vanno dall’invalidità civile alla Naspi; dall’assistenza fiscale per la dichiarazione del 730 alle istanze ISEE; dalla richiesta di un aiuto familiare al rilascio della carta d’identità, al rinnovo della patente, ai permessi di soggiorno. Comunque si cerca sempre di andare anche oltre i cosiddetti servizi ordinari per raggiungere l’obiettivo di capire di che cosa abbia realmente bisogno il detenuto. “Dopo che le pratiche vengono istruite e completate in sede Acli - prosegue Diana - vengono riconsegnate al detenuto; la pratica non viene ritenuta comunque conclusa fino a quando non viene anche emesso il relativo provvedimento, per evitare il rischio che il detenuto non possa venirne in possesso”. In generale il servizio si svolge una volta al mese, però a volte si deve tornare magari anche ogni 15 giorni, se ci sono delle urgenze. “Questo progetto che offre un aiuto a chi si trova in stato di detenzione - dice il vice presidente del Patronato Acli cuneesi, Ferruccio Dallarovere - è in linea con le motivazioni morali delle Acli, da sempre impegnate nel sociale. Questa esperienza rappresenta anche un’opportunità per entrare in contatto con un mondo spesso sconosciuto, superando gli schemi preconfezionati e i luoghi comuni, per comprendere meglio le difficoltà quotidiane che chi è detenuto affronta, anche attraverso pratiche concrete. Nel nostro spirito, c’è sempre la volontà di affiancare chi è in difficoltà, in tutte le sue forme. Le Acli sono anche questo”. Per quanto riguarda l’attenzione alla persona che si trova in carcere, oltre a venire incontro alle esigenze personali, si cerca di promuovere le attività che si svolgono all’interno dell’Istituto penitenziario, per esempio facendo conoscere a chi si rivolge agli sportelli delle Acli, alcuni prodotti che vengono realizzati dai detenuti, come, per esempio, le confetture lavorate dalla cooperativa sociale Cascina Pensolato di Fossano, che dà lavoro a chi esce dal carcere o che può usufruire dell’ “articolo 21”, che permette al detenuto di lavorare all’esterno. Inoltre, nell’Istituto di Saluzzo, per esempio, c’è un laboratorio di pasticceria e presto, a Fossano, verrà aperto al pubblico un punto vendita dei prodotti dei detenuti. “A noi piace far conoscere queste attività - conclude Diana - perché si tratta di un percorso di inclusione e non solo di soddisfacimento dei diritti del carcerato, ma anche di promozione della persona che è alla base degli ideali della nostra associazione”. In questa ottica, le Acli provinciali di Cuneo hanno acquistato dei prodotti dolciari dal carcere di Saluzzo, per offrirli come dono natalizio a volontari, dipendenti e dirigenti. Alcuni di questi e altri prodotti, sono a disposizione in sede provinciale a Cuneo, presso il Patronato, e possono essere acquistati a fronte di un’offerta libera. Milano. Luca, Bessi e gli altri: con l’amicizia si superano sbarre e malattie mentali di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 19 gennaio 2025 Incontri tra detenuti e pazienti di Fondazione Sacra Famiglia. La terapia di Emozioni all’Opera nel carcere milanese. “Un aiuto reciproco a superare forme diverse di chiusura”. “Dei matti e dei carcerati che si incontrano”, sminuisce qualcuno con etichette sbrigative, oltre che improprie. Ma è ben più profondo il senso del progetto “Emozioni all’Opera” che per un anno ha fatto frequentare ogni settimana venti persone che vivono ristrette nel carcere di massima sicurezza di Opera e sei pazienti psichiatrici in cura al centro diurno della Fondazione Sacra Famiglia. “Il nocciolo - sintetizza per esempio Bessi, 40 anni e tanta vita passata in cella, ora a Opera con permesso di uscire per lavorare con l’articolo 21 - sta nella umanità e nella libertà che ognuno dei due gruppi riceve dall’altro. Siamo prigionieri tutti, noi e loro, ma loro non hanno nessuna colpa. Sono intrappolati nella loro stessa mente eppure sperimentano forme creative e libertà di pensiero che sono di ispirazione perché non hanno le inibizioni che a volte frenano noi dall’esprimere quello che sentiamo dentro”. Negli incontri si abbattono gli stereotipi legati a due mondi spesso tenuti ai margini della società, si superano le etichette attraverso lo scambio e il tempo passato insieme. Bessi ha stretto particolarmente con Luca Tornatora, 37 anni, persona con disagio psichico: “È terapia, così per gli uni come per gli altri”, afferma con convinzione. Lui è in cella da otto anni: “La possibilità di fare attività e conoscere persone è ovviamente molto limitata. Come associazione In Opera avevamo proposto di renderci utili andando una volta a settimana nelle Rsa (residenze per anziani) o nelle scuole ma non abbiamo avuto il permesso, non c’è la scorta disponibile a prendere un tale impegno; allora abbiamo controproposto di fare venire qualcuno ad incontrarci e sono arrivati loro”. Di Luca ha imparato a conoscere paure e fragilità, ma anche il grande spirito vitale che lo porta a rompere i vincoli inibitori in alcune situazioni. Eppure secondo Luca: “Sono più liberi loro di noi. La loro prigionia è solo di spazio, le nostre angosce sono legacci che stringono più delle sbarre”. Il suo amico Bessi è in carcere per reati legati a un grosso traffico di stupefacenti: “Le sostanze spesso fanno emergere forme di fragilità psichica che senza droghe non si manifestano”, dice Luca. “L’incontro con lui - risponde Bessi - mi ha fatto diventare più sensibile anche rispetto a questo tema, la mia voglia di riparare è massima. Non so quanti danni anche mentali ho provocato alle persone che hanno iniziato a farsi di droghe per colpa mia ma so che quando si inizia con l’eroina si perde completamente la libertà di scegliere”. Luca, dal canto suo, non può credere di essere stato “utile” a qualcuno. Lui va al Camaleonte (Centro psichiatrico di Sacra Famiglia) tre volte la settimana e frequenta i laboratori sulle emozioni, sulla comunicazione e sulla pittura e sugli incontri con i detenuti è stato girato anche un video che è su YouTube, “La cura improbabile”. “Al primo appuntamento al carcere di Opera - racconta - ero tesissimo perché sono restio a confrontarmi con chi non conosco e chiuso di carattere, sempre intimorito di fronte alle novità, sia belle sia brutte. Non avevo voglia di avere rapporti con persone che avevano fatto i delinquenti. Ma Bessi o Gianni sono diversi dall’idea che io avevo dei detenuti come di persone furbe, fin troppo sveglie, che ti vogliono fregare… loro sono calmi, tranquilli, con un carattere simile al mio. Mi hanno raccontato la loro storia, e mi riferisco non solo al passato ma il percorso di riparazione che hanno cominciato. Mi hanno giurato che non faranno mai più niente di male. Spero che siano sinceri, altrimenti rimarrei deluso. Ormai lo hanno detto a me, non possono rimangiarsi la parola data”. Esperienze - Alcune storie lasciano il segno: “Per esempio - ricorda ancora Bessi - mi ricordo di Gino, 74 anni, che pensava di essere un prete e aveva iniziato a dire messa davanti a tutti noi. Pian piano quella sua convinzione è diventato un rito, finché qualcuno ha cominciato a pregare davvero”. E ancora: “L’esperienza di questo progetto per me è unica. Ho imparato tante cose, ma la principale - dice - è che il pregiudizio che mi sono sempre sentito addosso non prevale, non deve prevalere quando incontri una persona. Non puoi giudicare un’altra persona, un ambiente, come per esempio i detenuti e l’ambiente del carcere. Non posso giudicarti se non ti conosco bene: questo io l’ho imparato incontrando i detenuti e me lo porto via anche riferito a me stesso. Gli altri devono guardarmi per quello che sono, senza pregiudizio, come io ho guardato i detenuti senza giudicarli prima di conoscerli”. Cremona. “Se le carceri sono come sono è perché a noi non importa” diocesidicremona.it, 19 gennaio 2025 Da Mazzolari all’Italia di oggi: una riflessione sulla giustizia con Gherardo Colombo e Omar Pedrini. “Mantenere la speranza, fiore della redenzione”. Con queste parole di don Primo Mazzolari, si è aperto l’incontro e il dibattito sulla giustizia e le carceri, promosso dalla Fondazione don Mazzolari, sabato pomeriggio 18 gennaio presso il Palazzo Comunale di Cremona. L’occasione è stata l’anniversario della nascita di don Primo (13 gennaio 1890) e il lancio del libro “Oltre le sbarre, il Fratello” curato dai sacerdoti cremonesi don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni, il primo postulatore e il secondo vicepostulatore della causa di beatificazione del parroco di Bozzolo. Ospiti dell’incontro e insieme protagonisti, l’ex magistrato Gherardo Colombo e il cantautore Omar Pedrini che, come ha ben chiarito don Bignami (che è anche direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei) hanno usato “linguaggi diversi per parlare della medesima questione”: quella di una giustizia che non deve trasformarsi in una punizione, ma in una fonte di speranza. Tema caro anche a Papa Francesco e che segna il cammino dell’anno giubilare in corso. In una sala della Consulta dove era difficile muoversi per il numero importante di persone sedute e in piedi, le note di “Sole spento”, canzone suonata e cantata da Pedrini, hanno suscitato forti emozioni. Di seguito la platea è rimasta calamitata dal tono pacato e deciso dell’ex magistrato Colombo che ha dichiarato: “Fino al 2000 pensavo che il carcere fosse educativo, una sofferenza necessaria. Ora ho cambiato idea, credo nella giustizia riparativa”. Un invito ad una riflessione profonda su quanto ciascuno può fare perché “se le carceri sono come sono è perché a noi non importa, altrimenti ci faremmo sentire”, ha aggiunto Colombo. A dare il là al pomeriggio intenso, per la verità, era stata la lettura di un brano scritto da don Mazzolari (ed inserito nel testo “Oltre le sbarre il fratello”). Da questo invito ad essere vicini a chi sta dietro le sbarre, perché “l’uomo misericordioso non ammette l’incurabilità”, erano partire le considerazioni del sindaco di Cremona, Andrea Virgilio. “Nella casa di tutti, il Comune - ha detto - si affrontano temi profondi come quello del carcere che è un tema di civiltà”. Da qui due paradossi: quello della giustizia talvolta pretesto legale per esercitare la violenza (spunto ripreso da Colombo) e quello del carcere come luogo dove dovrebbe avvenire un cambiamento e invece si trasforma in una punizione. Idee a cui si è collegato don Umberto Zanaboni, coautore del volume, che ha dichiarato le ragioni da cui è nata l’idea di pubblicare alcuni testi del parroco di Bozzolo. In primis perché “in occasione del Giubileo, il Papa chiede gesti giubilari come il disarmo, eliminare la pena di morte… e anche porre attenzione alle carceri”. Poi c’è la figura di don Primo, egli stesso detenuto nelle carceri fasciste e poi capace di stare accanto ai carcerati a cui faceva sentire la propria vicinanza e la misericordia del Vangelo con visite e lettere. In questa profondità di storia e di pensiero sono hanno quindi “fatto irruzione” le note e le parole di Sole Spento, canzone nata nel 2001 dalle parole di una lettera di un ragazzo del Beccaria e trasformate in note da Pedrini, che le carceri, le ha varcate per inondarle di musica. Quindi l’intervento di Colombo che ha invitato i presenti a mettersi in gioco perché “le iniziative per migliorare lo stato dei detenuti ci sono ma sono pochissime” e soprattutto l’invito a riflettere su un tipo di giustizia, quella riparativa, che lascia spazio alla speranza. In chiusura don Bignami ha acceso l’attenzione “sull’atteggiamento assurdo che ha la nostra società nell’abbandonare chi è nel bisogno”, perché davvero “nessuno è incurabile”. La chiave di volta sta nel curare le relazioni e “vedere la ricchezza umana” che si manifesta, anche dietro le sbarre. Roma. Rebibbia, la prevenzione libera tutte di Ilaria Dioguardi vita.it, 19 gennaio 2025 Un percorso di tutela della salute e di ascolto dei bisogni delle donne detenute. È il progetto “I Care”, promosso da Cittadinanzattiva, che si è concluso nell’istituto di pena romano. Antonio Chiacchio, direttore Uoc Salute penitenziaria Rebibbia: “La criticità maggiore è quando dobbiamo inviare i nostri assistiti fuori dagli istituti per fare esami diagnostici, per la mancanza di agenti che possano scortarli. E mancano gli specialisti”. Le testimonianze delle donne protagoniste del percorso. Si è concluso con un evento nel carcere femminile “Germana Stefanini” di Rebibbia il progetto “I care”, promosso da Cittadinanzattiva, terminato lo scorso dicembre dopo 12 mesi. Ha coinvolto 50 detenute e ha visto la collaborazione della Asl Roma 2, del garante regionale del Lazio e del garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, e di associazioni impegnate nella tutela di chi vive all’interno dei penitenziari. “I Care” tutela il diritto delle detenute a diagnosi tempestive del carcinoma mammario, la neoplasia più diagnosticata nelle donne, attraverso azioni di empowerment e capacity building per la diffusione delle pratiche di prevenzione, contribuisce all’emersione dei bisogni di salute delle detenute attraverso la ricerca-azione e si impegna in un’azione di advocacy per l’istituzione della Carta dei diritti di salute delle detenute. Nove “Raccomandazioni civiche” - “Questo progetto è parte di un percorso che speriamo abbia gettato un seme per altri progetti”, ha detto Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. “Con “I care” volevamo che le donne prendessero possesso del loro ruolo con la prevenzione e che si volessero bene”. L’associazione ha presentato le “Raccomandazioni civiche per il diritto alla salute e alla prevenzione oncologica delle donne detenute”, un documento che spiega nove diritti fondamentali, riconosciuti dalla normativa nazionale e sovranazionale, e numerose raccomandazioni specifiche per garantirli: diritto all’informazione e alla consapevolezza; diritto all’accesso ai servizi sanitari; diritto alla tempestività della diagnosi e dell’assistenza; diritto alla continuità delle cure e del trattamento; diritto ad una corretta alimentazione; diritto all’attività fisica; diritto ad un ambiente salubre; diritto al supporto psicologico; diritto all’ascolto e alla partecipazione. “La salubrità dell’ambiente in cui si vive è un diritto difficile da raggiungere nelle carceri, visto il sovraffollamento dei nostri istituti. La corretta alimentazione difficilmente si riesce a seguire, viste le grandi difficoltà con cui può entrare il cibo dall’esterno”, ha detto Valentina Calderone, garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma. “Spesso il carcere rappresenta il primo accesso delle persone al Servizio sanitario nazionale. La continuità delle cure, una volta terminata la pena, è difficile, anche l’origine delle persone incide. Dobbiamo capire insieme come colmare le disparità”. Il carcinoma mammario è un tumore che rappresenta circa un terzo delle malattie neoplastiche che colpiscono le donne: sono state 53.686 le nuove diagnosi nel 2024 (dati Rapporto Aiom, Associazione italiana oncologia medica). Le detenute sono il 4,36% del totale - Su 61.861 persone detenute nei penitenziari italiani a fine 2024, 2.698 sono donne, ossia il 4,36%. Facendo riferimento alle carceri femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Venezia Giudecca), il numero più alto di detenute, 378, si trova nel carcere “Germana Stefanini” di Rebibbia di Roma: qui il tasso di sovraffollamento è del 138%, superiore a quello generale delle carceri italiane già molto elevato, pari al 132,05% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili, dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al 10 gennaio 2025). Le testimonianze delle protagoniste del progetto - Le donne che hanno partecipato ad “I care” non sono state solo beneficiarie, ma vere protagoniste del progetto, sono state coinvolte direttamente e sono messaggere di prevenzione anche per altre persone. “Basta mezz’ora, il tempo di una visita, per poterci salvare la vita”, ha detto Stefania durante l’incontro. Anche Valentina ha lanciato un messaggio (il più accorato di tutti) alla prevenzione, affidando le sue parole ad una lettera perché le lacrime non le permettevano di parlare: “Ci sono passata e ci sto passando ancora. Nell’ultimo periodo sono stata un mese e mezzo in ospedale. Dico a tutte: ragazze, non trascuriamoci!”. “Faccio prevenzione perché voglio morire al tempo suo” - Nel video realizzato nell’ambito di “I care” (il link è qui sotto), le recluse invitano le donne a prendersi cura di loro stesse. “Io faccio prevenzione perché non voglio morire prima, voglio morire al tempo suo”, dice una delle donne che ha fatto parte del progetto. Un’altra afferma: “Prendersi cura del nostro corpo è molto importante perché è l’unico posto dove dobbiamo vivere”. Il progetto ha visto anche la realizzazione di una guida multilingue sul tumore della mammella, disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, rumeno. Difficoltà per gli esami diagnostici fuori e mancanza di specialisti - “Per quanto riguarda il lavoro di noi medici in carcere, la criticità maggiore è quando dobbiamo inviare i nostri assistiti (che per sono pazienti esattamente come tutti quelli all’esterno) fuori dagli istituti, per fare esami diagnostici”, ha detto a VITA Antonio Chiacchio, direttore Uoc Salute penitenziaria di Rebibbia. “Ad esempio, per far fare una tac occorre la scorta per andare in ospedale. Capita che questi esami saltino all’ultimo perché la priorità degli agenti di Polizia penitenziaria è data, in primis, ai processi e poi a tutto il resto. E questo è un grosso problema perché poi può passare un mese, o anche di più. Un altro problema con cui dobbiamo fare i conti”, ha aggiunto Chiacchio, “è la carenza di specialisti all’interno delle carceri. Molti medici degli istituti penitenziari, con una grande formazione, sono precari”. Una Casa della salute per i detenuti di Rebibbia - “Con il presidente della regione Lazio Francesco Rocca stiamo lavorando per realizzare una Casa della salute all’interno del carcere di Rebibbia, dove tutti i detenuti potranno accedere. La regione ha stanziato due milioni di euro e speriamo sia pronta entro un anno”, ha proseguito Chiacchio. “Avere nei luoghi di detenzione delle Case di comunità è importante, mi auguro che si possa andare avanti su questo”, ha concluso Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva, che punta alla replicabilità del progetto: “Chiedo di essere capofila del percorso in altre case circondariali”. Ancona. “Fiabe in Libertà”: il progetto arriva in biblioteca a Falconara di Giovanni Donnadio gnews.it, 19 gennaio 2025 La biblioteca comunale di Falconara si trasformerà in un luogo di incontro tra arte, comunità e inclusione sociale grazie al progetto editoriale “Fiabe in Libertà”. Realizzato con Fondazione Cariverona e l’associazione Radio Incredibile, il progetto ha visto detenuti ed ex detenuti della Casa circondariale di Montacuto collaborare alla creazione del racconto “Il piccolo Mino”, che esplora sogni, avventure e legami familiari. L’iniziativa, che include anche un podcast e manufatti artistici, invita i bambini a partecipare a letture animate e a un laboratorio creativo, in cui realizzeranno luoghi ispirati alla fiaba con materiali naturali. La biblioteca ospiterà inoltre una fotografia simbolo del progetto, ponte ideale tra la comunità e il carcere. Un’occasione per dimostrare come l’arte possa abbattere barriere e costruire nuove connessioni. Lo scontro delle identità di Antonio Polito Corriere della Sera, 19 gennaio 2025 Le “guerre culturali”, la presunzione di dividere e raggruppare gli esseri umani in base a etnia, genere, corpo, orientamento sessuale, discendenza, classe sociale, cioè l’opposto di quanto fecero le grandi rivoluzioni del Settecento, stanno frammentando un po’ alla volta la nostra società. Anche la destra è vittima di questa cultura che pure dichiara di aborrire. Ce n’è un segno evidente nel suo “panpenalismo”, l’ambizione cioè di governare la crescente complessità del reale con il codice penale, moltiplicando e spezzettando i reati, le fattispecie e le pene: nella sua legislazione si distingue la rivolta in carcere dalla rivolta in una stazione ferroviaria, una cosa è la sim comprata dal migrante senza permesso di soggiorno un’altra se l’acquista un migrante regolare, e la presunzione di innocenza dell’agente che usa un’arma deve essere maggiore di quella che la Costituzione già garantisce a ogni cittadino. E pensare che il ministro Nordio quando era solo un giurista diceva: “Le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite”. La destra riduce i diritti delle minoranze in nome delle maggioranze, e per questo è più popolare. Il mondo non deve più andare al contrario, è il messaggio che intende rivolgere al suo elettorato, del quale il generale Vannacci è la più radicale e scorretta espressione, al punto che vorrebbe distinguere anche tra omosessuali e “normali”, tra italiani e italiani dai tratti somatici non italiani, e così via. Però la democrazia è, tra le altre cose, protezione delle minoranze dal potere delle maggioranze. Dice la nostra Costituzione all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ogni volta che lo si dimentica si cede a una seduzione illiberale. La sinistra, che non è al governo, combatte invece le sue “guerre culturali” nelle forme della politica e della sociologia. Lo fa, al contrario della destra, in nome delle minoranze; il che, come sappiamo, è una posizione più scomoda perché meno popolare. Ma la complessità dei tempi che viviamo travolge anche la sua logica. Perché sempre più spesso i diritti di eguaglianza e di libertà per cui si è storicamente battuta sono messi in discussione delle stesse minoranze che oggi difende. Prendiamo il caso del taharrush gamea, questo rito di molestia collettiva alle donne, a quanto pare nato al Cairo durante le proteste di Piazza Tahir e arrivato insieme con le seconde generazioni dei migranti, via Colonia e Salisburgo, fino a piazza del Duomo a Milano. Non si può negare che si tratti di un atteggiamento culturale, non si può dunque contrastare senza sottoporre a critica aspetti cruciali della cultura araba e islamica; ma la sinistra più politicamente corretta esita a chiamarlo per nome e cognome e a condannarlo in questi termini, temendo di concedere al razzismo. Il cortocircuito mette così in competizione i diritti delle donne (e anche il diritto dei cittadini all’ordine pubblico) con quelli degli immigrati e dei loro figli, che nel frattempo si sono fatti adulti. Un altro esempio: le associazioni femministe, figlie di un tempo antico in cui ci si batteva per l’emancipazione e la libertà delle donne, protestano contro i testi misogini dei brani di Tony Effe. Ma tutte le giovani star della musica contemporanea si ribellano contro la “censura”, in nome della libertà di espressione. Si può essere abbastanza certi che non l’avrebbero fatto in difesa di testi sospettabili invece di omofobia o di transfobia. Al tempo delle battaglie identitarie anche i diritti cambiano, si sfrangiano e possono confliggere. La “cultura della vittima” ha preso il posto di ogni valutazione storica e sociale. Qualche giorno fa abbiamo tirato un respiro di sollievo perché è stato assolto per legittima difesa un giovane che ha ucciso con 34 coltellate il padre che maltrattava la madre. Ma nelle stesse ore ci siamo indignati perché è stato condannato a “soli” trent’anni di carcere, invece che all’ergastolo, un settantenne che aveva ucciso moglie e figlia (trenta più settanta fa cento, carcere comunque a vita). Il giudice ha scritto nella sentenza un’assurdità, e cioè che i motivi del gesto erano “umanamente comprensibili”. Ma dovremmo sapere che i processi non sono manifesti politici, non sono celebrati in nome dello spirito del tempo contro categorie di persone (in questo caso i maschi misogini e violenti); che ogni caso è a sé, e che il libero convincimento del giudice, così come le attenuanti di legge, si applicano a tutti indistintamente. La cronaca ci mette ogni giorno davanti a vicende che non dovremmo giudicare con il criterio dell’identità. Figlio di un migrante egiziano era il giovane morto a Milano su un motorino che non si è fermato all’alt dai carabinieri, alla fine di un drammatico inseguimento all’americana. Ma migrante di origine egiziana è anche il padre, che ha dato a tutti, destra e sinistra, legalitari e rivoltosi, forze di polizia e manifestanti di piazza, una grande lezione di educazione civica, basata sulla differenza tra i concetti di giustizia e vendetta. Il tempo dell’”identità” non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto. Povertà educativa, il Governo taglia i fondi di Daniela Fatarella* La Stampa, 19 gennaio 2025 Il 2025 si apre all’insegna di indicatori socioeconomici che fotografano un Paese che invecchia velocemente, in cui nascono sempre meno bambini e in cui le diseguaglianze si stanno sempre più allargando, andando a creare sfiducia e paura tra coloro che non riescono a vedere il proprio futuro. In Italia sono proprio i minorenni ad essere maggiormente colpiti dalla povertà e l’analisi impietosa dei numeri ci dice che negli ultimi dieci anni il tasso di povertà minorile ha raggiunto il livello più alto. I dati diffusi dall’Istat dimostrano che la povertà assoluta minorile è in aumento continuo: sono infatti 1, 29 milioni i minori in povertà assoluta. Dieci anni fa, Save the Children lanciò per la prima volta l’allarme sull’esistenza di una dimensione della povertà minorile meno visibile di quella materiale, ma gravissima nei suoi effetti di breve e lungo periodo: la “povertà educativa” che blocca sul nascere i talenti e le aspirazioni dei bambini. Nel 2016, con la Legge di Bilancio, Governo e Parlamento riconoscevano l’esistenza di questa specifica dimensione della povertà minorile e davano vita ad un fondo sperimentale per contrastarla, sotto forma di credito di imposta per le fondazioni di origine bancaria. Il fondo aveva l’obiettivo di sperimentare, in rete con le organizzazioni del terzo settore, le scuole, enti pubblici e privati, programmi per il contrasto alla povertà educativa e per la attivazione di “comunità educanti”: pratiche innovative da tradurre - una volta verificate nella loro efficacia - in politiche pubbliche da portare su scala. Nel corso di 8 anni, il fondo ha permesso l’avvio di oltre 800 progetti in tutta Italia, mettendo in rete oltre 9. 500 organizzazioni. Questa misura ha consentito non solo di sostenere concretamente fino ad oggi oltre mezzo milione di bambini e di ragazzi insieme alle loro famiglie, ma ha anche permesso di raccogliere un patrimonio di esperienze e di pratiche da tradurre in un investimento strutturale e strategico per il presente e il futuro dell’infanzia in Italia. Di fronte alla enormità del dramma della povertà educativa, certificato dai dati, è indispensabile fare questo deciso passo avanti e certamente non possiamo permetterci di fare passi indietro. Per questo motivo, preoccupa il fatto che per la prima volta dopo anni, nell’ultima legge di stabilità, il fondo di contrasto alla povertà educativa minorile non risulti rifinanziato. Nelle periferie sociali e educative del nostro Paese, c’è bisogno di alzare lo sguardo, di mettere in atto piani strategici che trasformino le condizioni di vita e di crescita delle nuove generazioni, contrastando le gravi disuguaglianze territoriali che oggi colpiscono l’Italia. Un Paese dove le opportunità educative - a partire dagli asili nido e dal tempo pieno nelle scuole - sono assenti proprio nei territori più colpiti dalla povertà, dove di queste opportunità c’è maggior bisogno. Per riequilibrare le disuguaglianze non servono interventi frammentari, ma una strategia di lungo periodo, associata ad un chiaro investimento di risorse. Di fronte a una povertà minorile che incede a passo sempre più veloce sul nostro Paese, non è certo il tempo di retrocedere, ma quello di agire con delle politiche che mettano al centro l’infanzia, partendo dalla valorizzazione degli interventi che hanno già dimostrato nei fatti un impatto concreto. Ecco perché è fondamentale che il fondo sia la base di partenza per sviluppare una strategia nazionale di contrasto alla povertà minorile e che la lotta alla povertà educativa divenga un riferimento centrale delle politiche pubbliche del nostro Paese. Il Parlamento ha l’occasione di poter ovviare all’errore fatto in Legge di Bilancio, dando continuità al percorso avviato nel 2016 e lavorando affinché questo investimento diventi strutturale, così come è strutturale da troppo tempo la povertà educativa nel nostro Paese. *Direttrice Generale di “Save the Children” Insegniamo la nostra storia multiculturale di Chiara Saraceno La Stampa, 19 gennaio 2025 In che cosa consiste l’identità italiana e quali sono i popoli italici la cui storia il ministro Valditara vuole mettere al centro della formazione nella scuola primaria? Altri, anche su questo giornale, hanno segnalato i rischi educativi di una chiusura al mondo, alle sue diversità e interrelazioni proprio in un periodo in cui queste irrompono, anche drammaticamente, nella nostra vita quotidiana e richiederebbero capacità di lettura ancora maggiori e anticipate rispetto a cinquant’anni fa. Qui mi interessa riflettere sui concetti stessi di identità e popoli italici che apparentemente il ministro e i suoi consulenti danno per scontati. Identità è un concetto impegnativo già quando si riferisce agli individui, come ha argomentato Remotti nel suo Contro l’identità, sulla base della ricerca antropologica, mostrandone l’inevitabile artificialità riduttiva della complessità. Figuriamoci quando si riferisce a collettività, addirittura ad una nazione. Nel caso dell’Italia, il “fare gli italiani” auspicato da D’Azeglio dopo l’unificazione, ha dovuto e deve fare i conti con tradizioni, lingue (i dialetti), culture locali, persino cibi e cucine anche molto diverse, che a loro volta derivano da storie politiche, economiche, migratorie, differenti. Premesso che anche i linguisti e gli storici non concordano su quali popolazioni possano essere identificate anticamente come “popoli italici” (solo quelli che parlavano le lingue osco-umbre o anche quelli che, pur non parlando una lingua indo-europea, come i liguri e gli etruschi, abitavano nella penisola), l’Italia è stata nei secoli attraversata e popolata anche da altre genti provenienti da paesi anche lontani, con le loro lingue, tradizioni, tratti somatici. Lo testimonia il mio stesso cognome. Un multiculturalismo e multilinguismo non sempre adeguatamente riflettuti ed elaborati sono una caratteristica persistente del comune essere italiani, dove neppure la lingua è diventata davvero comune come mezzo di espressione e comunicazione importante, stante che in molte zone d’Italia è il dialetto locale ancora oggi la lingua madre e l’italiano usato solo come lingua per gli “altri”, o per le comunicazioni ufficiali. Cancellare queste diversità in nome di una identità omogenea, oltre che una semplificazione, sarebbe un impoverimento. Al contrario, esplicitarle ed elaborarle consentirebbe di vedere come, appunto, l’appartenenza ad una comunità, ad una nazione, avvenga per incontri, incroci, integrazioni più o meno riuscite o forzate, modifiche reciproche. E perciò non è né rigida e monodimensionale, né immobile. Per questo la conoscenza della storia è importante, purché non venga contrabbandata come storia una narrazione di comodo unilineare e isolata da quanto succede nel resto del mondo. E purché la storia nazionale venga collocata nel contesto globale, come aveva a suo tempo indicato De Mauro come ministro dell’istruzione. Indicazioni progressivamente svuotate dai ministri che si sono succeduti, fino ad arrivare a queste ultime. Leggendo le dichiarazioni del ministro Valditara, invece, mi sembra di tornare alla mia esperienza di ragazza alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando per un anno frequentai una high school negli Stati Uniti. L’insegnamento della storia (ed anche della geografia) era non solo circoscritto a quella degli Stati Uniti, ma la distruzione e il confinamento delle popolazioni indigene erano raccontati in chiave di conquista dei territori da parte dei bianchi, la tratta dei neri e la schiavitù come fenomeni marginali, la diversa composizione e lo status sociale delle migrazioni europee ignorate. Benché gli Stati Uniti si gloriassero di essere una melting pot, i componenti effettivamente riconosciuti di quella mescolanza erano molto selezionati e le modalità in cui era avvenuta fortemente censurate. La reazione nota come cancel culture e le rivendicazioni di identità particolaristiche ha origine in quelle censure e cancellazioni. Il paradosso nostrano dell’evocazione dell’identità italiana e dei popoli italici è che proviene da un ministro che fa parte di un partito che con l’autonomia differenziata rivendica orgogliosamente l’esistenza di diversità culturali (quando non antropologiche) territoriali, cristallizzando non solo o tanto le differenze, quanto le diseguaglianze tra italiani sulla base dell’appartenenza territoriale. Non solo i bambini e le bambine stranieri, anche quelli italiani potrebbero avere difficoltà a percepirsi come inclusi in una appartenenza, non dico identità, comune se si sperimenteranno, come già succede, trattati come diversi ed avranno persino informazioni differenti sulla specificità della loro identità collettiva intesa come identità locale. Medio Oriente. A Gaza scatta la tregua, poi il rinvio di Nello Scavo Avvenire, 19 gennaio 2025 Le forze israeliane hanno cominciato a lasciare Rafah alle 3 del mattino. Le armi tacciono, mentre si attende il ritorno dei primi 3 ostaggi e la liberazione di 90 detenuti palestinesi. “Si stanno ritirando”, conferma alle 3 del mattino una fonte di Hamas a Gaza. La tregua che comincia prima dell’alba, appena dopo l’ultima raffica sparata per aprirsi la via del ripiegamento, nessuno può chiamarla ancora pace. Dapprima non si spara, come concordato. Ma il premier israeliano Netanyahu ha fatto sapere che il cessate il fuoco non inizierà finché Hamas non fornirà l’elenco degli ostaggi da rilasciare. E ricominciano i raid, in attesa che il gruppo estremista si decida a fornire la lista. E’ la riprova che niente è mai scritto davvero, e che incidenti e trappole possono far saltare i patti in ogni momento. Israele ha fatto la sua mossa, ma tocca ad Hamas e ai suoi affiliati mostrare di non voler sprecare l’opportunità. A dare per primi la notizia del riposizionamento israeliano verso le zone cuscinetto concordate, sono gli uomini di Hamas, il gruppo armato che il 7 ottobre 2023 ha massacrato oltre 1.200 israeliani e fatto più di 250 ostaggi. Da allora l’intero Medio Oriente è in fiamme, facendo di Gaza l’epicentro della reazione israeliana al ritmo di 100 morti al giorno, e di giorni ne sono passati 470, prima che le armi tacessero. Le forze di Tel Aviv in queste ore stanno lasciando il centro di Rafah, nel sud della Striscia lungo il confine con l’Egitto, e anche al Nord cominciano a mollare la presa. Prima dell’entrata in vigore del silenzio armato, sono stati segnalati bombardamenti a ridosso di un campo profughi, con almeno 4 morti, è il reiterato ordine dell’esercito israeliano di stare alla larga dalle colonne di uomini e mezzi mentre marciano verso le aree designate nei patti per il cessate il fuoco. Ora tocca proprio ad Hamas, che questo pomeriggio dovrà consegnare alla Croce rossa internazionale i primi 3 ostaggi del gruppo di 33 sequestrati da liberare entro i primi 42 giorni di cessate il fuoco. Ufficialmente la sospensione del conflitto sarebbe dovuta scattare alle 6.30, ma già nelle ore precedenti il fuoco incrociato ha smesso di tenere svegli i campi profughi. La prima fase durerà sei settimane, durante le quali 33 dei 98 ostaggi rimasti saranno liberati, in cambio di quasi 2.000 prigionieri e detenuti palestinesi. Secondo i patti, oggi verranno liberate tre donne e nelle stesse ore Israele rilascerà 90 detenuti. L’accordo prevede la consegna di altri 4 ostaggi dopo una settimana, seguiti dal rilascio di altri 3 ogni sette giorni. Durante la prima fase, l’esercito israeliano si ritirerà da alcune posizioni a Gaza e ai palestinesi sfollati dalle aree settentrionali della Striscia sarà permesso di tornare. “Non ci fermeremo finché non saranno tornati tutti”, avevano gridato fino a notte fonda centinaia di manifestanti a Gerusalemme. Contestano l’estrema destra di governo, che per 15 mesi ha ostacolato ogni ipotesi d’accordo e anche ieri ha votato contro l’intesa. Non di meno rimproverano a Netanyahu di aver voluto sacrificare la vita dei sequestrati per restare in sella. Secondo Joe Biden, la prima fase della tregua prevede anche il ritiro di Israele dalle aree densamente popolate di Gaza e un aumento degli aiuti umanitari per la Striscia, dove secondo le Nazioni Unite si sta rischiando la carestia. Le autorità egiziane hanno specificato che l’intesa assicura “l’ingresso di 600 camion di aiuti al giorno”. Le incognite e i rischi sono molti. Durante la prima fase di 6 settimane, verranno negoziati i termini della seconda fase, che dovrebbe portare al rilascio degli ultimi ostaggi, prima della terza e ultima dedicata alla ricostruzione di Gaza e alla restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia. Venezuela. Cooperante italiano detenuto: “Basta un post sui social e scatta l’arresto” di Eugenio Pendolini La Nuova Venezia, 19 gennaio 2025 Basta un post di critica al presidente Maduro o un commento non allineato al governo del Venezuela per finire nella rete dei perseguitati, nel mirino dei servizi segreti. O in carcere, a chi va peggio. Come successo ad Alberto Trentini, il cooperante veneziano arrestato il 15 novembre e di cui, da due mesi, si sono perse le tracce. Ma come è successo anche ad altri connazionali, almeno otto, finiti nelle prigioni del paese sudamericano. Chi, in questi mesi, ha seguito da vicino la vicenda degli italiani detenuti all’estero è il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Di Giuseppe. Residente a Miami ed eletto nella circoscrizione estero, Di Giuseppe nei mesi scorsi ha seguito in prima persona il caso di Chico Forti, condannato all’ergastolo negli Stati Uniti nel’98 e un anno fa rientrato in Italia per scontare il resto della sua pena nel carcere di Montorio, a Verona. “In giro per il mondo, oggi, ci sono circa 2.100 prigionieri italiani nelle carceri straniere, la metà dei quali in attesa di giudizio. Per molti di loro, le accuse sono assolutamente generiche”, spiega Di Giuseppe. E una delle situazioni più difficili, soprattutto alla luce dei rapporti ormai logori tra Caracas e Roma a causa del mancato riconoscimento del voto dello scorso luglio, è proprio quella del Venezuela. Di Giuseppe spiega di seguire da vicino anche l’evolversi della situazione legata a Trentini, ma in queste ore delicate non può entrare nel merito della vicenda: tutto è in mano alla Farnesina e al corpo diplomatico. Il suo ragionamento, però, punta ad accendere un faro sul contesto nel quale è scaturito l’arresto del 45enne originario del Lido di Venezia. E a capire quali possano essere state le motivazioni addotte dalle autorità locali. “La situazione in Venezuela è davvero complessa”, conferma Di Giuseppe, “lì ci sono 150 mila italiani e un milione di italovenezuelani. Chi si oppone al regime di Maduro viene perseguitato. Il modello di riferimento è la Russia, vige un sistema di intelligence molto efficace. Vengono tracciati gli oppositori di Maduro e portati via. In particolare, vengono sorvegliati i canali social o i messaggi di WhatsApp tramite sistemi di tracciamento. Mai come in questo momento è necessario mettere pressioni ai governi stranieri che trattano in questo modo chi la pensa diversamente al punto da finire in carcere, nella speranza di arrivare quanto prima a risolvere la situazione”. Di clima di ostilità da parte delle autorità venezuelane parlava lo stesso Trentini, alla compagna, qualche settimana prima dell’arresto. Dal 15 novembre, quando è stato prelevato Guasdualito, al confine con la Colombia, di lui non si hanno più notizie. Nel frattempo, sul fronte diplomatico non si registrano novità per la liberazione di Trentini. Il governo, come confermato in una nota di Palazzo Chigi, è al lavoro per una soluzione. Venerdì, nel corso di un consiglio dei ministri, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha chiamato la famiglia del 45enne veneziano, confermando l’impegno giorno e notte della diplomazia italiana. Stati Uniti. Trump lancia la “grande deportazione” dei migranti di Alberto Simoni La Stampa, 19 gennaio 2025 Subito una settimana di caccia straordinaria agli illegali, il via martedì. La promessa della “grande deportazione” inizierà a prendere forma 24 ore dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Da martedì circa 150 agenti dell’ICE (Immigration and Costums Enforcement) saranno impegnati a Chicago nell’Operation Salvaguard. Durerà circa una settimana durante la quale i federali cercheranno gli immigrati illegali per espellerli dal Paese. L’ICE conduce deportazioni di routine negli Stati Uniti, quello che però cambia la dinamica è che l’agenzia ha potenziato gli sforzi per questa operazione che è direttamente legata all’inaugurazione del presidente Trump e al suo messaggio anti-immigrati illegali su cui ha costruito la campagna elettorale. A dare la notizia della Operation Salvaguard è stato per primo il Wall Street Journal che sottolinea come il blitz di Chicago sarà poi ripetuto in altre città come Denver, New York e Miami. Sono città definite “santuario”, dove la polizia rifiuta di consegnare agli agenti federali dell’ICE gli immigrati in custodia. Al New York Times il portavoce della polizia di Chicago ha detto che il dipartimento “non interferirà con le operazioni degli agenti federali”, ma continuerà a non documentare “lo status migratorio e non condividerà informazioni con l’ICE”. Trump ha promesso di condurre “deportazioni di massa”. Nel mirino ci sono circa 11 milioni di immigrati illegali. Lo zar per l’immigrazione e già capo dell’ICE ai tempi di Barack Obama, Tom Homan, aveva anche detto che non esiterà a deportare i genitori di bambini nati negli USA che sono entrati illegalmente nel Paese e qui magari vivono da anni. L’operazione ha una evidente valenza “elettorale”. Più difficile, notano gli esperti, sarà per Trump continuare su questo percorso poiché ci sono ostacoli finanziari e logistici. A partire dalla mancanza di personale per individuare tutti gli illegali. Si pensi che nel 2019 Trump lanciò un blitz contro duemila persone per dimostrare la sua linea dura contro l’immigrazione, appena 35 vennero arrestati durante l’operazione. In totale nel 2019 l’ICE deportò 267mila persone, il picco nei quattro anni di Trump; ma un numero decisamente inferiore ai 400mila che in un solo anno furono espulsi durante l’Amministrazione Obama. Fra la raffica di decreti esecutivi che Trump firmerà il primo giorno da presidente - si stimano siano un centinaio fra nuove proposte e cancellazioni di alcune politiche di Biden, come lo stop alle trivellazioni in alcune zone dell’Oceano Atlantico - la maggior parte sarà legata all’immigrazione. A dimostrazione di quanto il tema è cruciale per la nuova Amministrazione, lunedì sarà approvato dal Senato il Laken Riley Act. È una legge - intitolata a Laken Riley, studentessa della Georgia uccisa da un immigrato illegale venezuelano - che obbliga gli agenti federali dell’Homeland Security ad arrestare i clandestini che non solo si macchiano di crimini violenti ma anche di furti e rapine. Gli Stati hanno la possibilità di fare causa al Dipartimento per la Sicurezza interna se non ottempererà ai nuovi obblighi. Venerdì il Senato ha approvato gli ultimi emendamenti con il voto di dieci democratici. La legge tornerà alla Camera - che l’aveva già approvata ma che ora deve rivederla alla luce delle modifiche. Era stato il precedente Congresso ad avviare l’iter, ma solo con il cambio di maggioranza dai democratici ai repubblicani c’è stata un’accelerazione. E la legge - ulteriore stretta contro i cittadini non americani - potrebbe essere quindi la prima che cade sotto il cielo della nuova Amministrazione repubblicana. Il fatto che dieci democratici si siano schierati con la maggioranza trova un riflesso in un sondaggio New York Times/Ipsos pubblicato sabato. Emerge che oltre la metà del Paese appoggia il piano di Trump per deportare chiunque viva negli Stati Uniti senza autorizzazione.