Aumentare le celle anziché “svuotarle”. Il bluff dell’edilizia penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2025 Durante la recente conferenza stampa di inizio anno, la presidente Giorgia Meloni lo ha ribadito: “Nessuna misura deflattiva, ma edilizia penitenziaria per risolvere il sovraffollamento”. Quindi, nulla di nuovo, ma la solita vecchia ricetta fallimentare. Come sappiamo, recentemente è stato nominato Marco Doglio come nuovo commissario straordinario, con il compito di risolvere il problema entro fine 2025. Anche qui, un precedente: l’esperienza dell’Ufficio del Commissario straordinario avviata nel 2013 si chiuse con un misero bilancio e strascichi giudiziari. Nel frattempo, però, sono stati fatti pochi passi in avanti. La costruzione di nuove carceri e la riconversione di ex caserme, idea spesso riproposta, non risultano più fattibili dallo stesso Ministero. Come evidenziato dal ventesimo rapporto di Antigone e dalla Relazione del Ministero della Giustizia 2023, emerge che “a causa di problematiche nella pianificazione e progettazione, l’unico intervento attuato riguarda la caserma Barbetti”. Le ex caserme si riducono quindi a una sola, quella di Grosseto. Eppure, anche il progetto di un nuovo carcere in questa città è in discussione dagli anni Novanta. Lo scenario appare complesso, considerata l’estensione dell’area (circa 154.000 mq) e la presenza di numerosi edifici. Promesse impossibili - Per quanto riguarda la costruzione di nuove carceri, la stessa relazione gela gli entusiasmi. Unica eccezione è il riferimento al “nuovo istituto di Pordenone in località San Vito al Tagliamento”, che viene però collocato “in un orizzonte temporale più ampio (che si ritiene poter circoscrivere nell’ambito di un quinquennio)”. Di questo progetto si parla già dagli anni Novanta, con gare d’appalto finite davanti al Tar e assegnazioni dei lavori poi revocate. Un’operazione che forse, prima o poi, andrà in porto, ma che certo non ha nulla a che fare con la risposta all’emergenza sovraffollamento. Rimane quindi la realizzazione dei nuovi padiglioni, che secondo il governo è la soluzione al problema. Sempre Antigone rivela però il bluff. Nella relazione del ministero, si spiega che “sono in corso di completamento le attività di collaudo tecnico- amministrativo, a cura del competente Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, del nuovo padiglione da 92 posti destinato al regime 41-bis presso la Casa circondariale di Cagliari e del padiglione da 200 posti della Casa di reclusione di Sulmona”. Ma anche su questi due interventi, il recente rapporto di Antigone ritiene utile sapere qualcosa in più. A Cagliari, la nuova Casa Circondariale di Uta, inaugurata nel 2014, includeva fin dall’origine un padiglione dedicato al regime del 41- bis. Tuttavia, questo non era stato completato a causa del fallimento dell’impresa costruttrice. Non si tratta, dunque, di realizzare un nuovo padiglione, ma di portare a termine una struttura i cui lavori, come si evince dalla Relazione dell’Ufficio Tecnico per l’Edilizia Penitenziaria e Residenziale del 2008, avrebbero dovuto concludersi nel 2009. Quanto a Sulmona, nella Relazione sullo stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria per l’anno 2015 si legge che “rispetto ai nuovi padiglioni la cui realizzazione era stata prevista dal Piano Carceri, il Commissario Straordinario del Governo per le Infrastrutture Carcerarie ha avviato le procedure per la costruzione di due nuovi padiglioni da 400 posti presso gli istituti penitenziari di Milano Opera e Roma Rebibbia, oltre a undici padiglioni da 200 posti ciascuno destinati agli istituti di Vicenza, Bologna, Ferrara, Parma, Sulmona, Lecce, Taranto, Trani, Caltagirone, Siracusa e Trapani, per un totale complessivo di 3.000 posti detentivi”. Perché aumentare la capienza non è una vera soluzione - Molti padiglioni, come quelli di Parma e Trani, sono stati inaugurati tra le forti resistenze della polizia penitenziaria, che denunciava la mancanza di personale adeguato per garantirne la gestione. Dalla Relazione del 2023 si apprende, inoltre, che “entro il 2025 dovrebbero essere ultimati il nuovo padiglione da 200 posti dell’istituto di Bologna”, anch’esso inserito nel Piano Ionta fin dal 2009, e che il padiglione di Ferrara è stato persino inserito nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con il decreto- legge n. 59 del 2021. La Relazione prosegue elencando una serie di nuovi padiglioni da realizzare, per lo più legati al PNRR. Ma basterebbe riflettere su ciò che è avvenuto in passato, per rendersi conto dei tempi lunghissimi e delle difficoltà già riscontrate nella realizzazione di nuove infrastrutture. Tempi e complessità che, nei decenni necessari per completare le opere, fanno sì che queste vengano ripetutamente presentate come l’imminente soluzione alla più recente emergenza del momento. Il nuovo commissario straordinario non potrà fare miracoli. E se anche dovesse realizzare qualche padiglione, la logica più spesso evocata dagli organismi internazionali come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene inumane o degradanti è semplicemente questa: se in un contenitore mettiamo in una unità di tempo più “cose” di quelle che nella stessa unità di tempo togliamo, il contenitore prima o poi si riempirà. Se è più grande, ci metterà più tempo a riempirsi, ma se il carcere dovesse rispettare la logica del nostro esempio, il sovraffollamento sarebbe comunque inevitabile. Che fare, dunque? - I soldi per l’edilizia carceraria servono eccome. Ma per rendere vivibile l’esistente. Basterebbe leggere il report di fine anno di Antigone. Le carceri risultano sempre più fatiscenti e intrappolate nel passato. Più di un terzo degli istituti visitati, precisamente il 35,6%, è stato costruito prima del 1950, e di questi, il 23% risale addirittura a prima del 1900. Un’eredità architettonica che spesso non riesce a soddisfare le esigenze moderne. In alcune di queste strutture, il disagio è tangibile. Nel 10,3% delle carceri non tutte le celle sono dotate di riscaldamento, lasciando i detenuti esposti al freddo nei mesi invernali. Ancora più critica è la situazione dell’approvvigionamento idrico: nel 48,3% degli istituti non è garantita acqua calda in ogni momento dell’anno, una mancanza che incide profondamente sulla dignità e sulle condizioni igienico- sanitarie. Nel 55,2% delle carceri visitate, le celle non dispongono di docce, costringendo i detenuti a utilizzare strutture comuni che spesso sono insufficienti per la popolazione carceraria. Infine, nel 25,3% degli istituti mancano del tutto spazi adeguati perle attività lavorative, privando i detenuti di opportunità di reinserimento e formazione. Questi dati dipingono un quadro allarmante, sottolineando l’urgenza di interventi strutturali. Ma che siano accompagnate da leggi che puntano alla decarcerazione, visto il sovraffollamento giunto al 133%. Eppure le proposte in campo ci sono. Dalla proposta di Roberto Giachetti di Italia Viva sulla liberazione speciale anticipata, fino all’amnistia e indulto, proposte che sono state rinnovate durante il recente convegno svolto presso la Camera dei deputati e promosso dall’onorevole Alessia Ambrosi di Fratelli d’Italia. Carceri. A quando l’applicazione del dettato costituzionale? di Paola Cigarini* adista.it, 18 gennaio 2025 Si è svolta a Modena il 1° gennaio scorso, Giornata mondiale della Pace, la 1° marcia per la pace “Fuori la guerra dalla storia”, per rimarcare l’urgenza della pace fondata sulla giustizia. in Piazza Grande, oltre al sindaco di Modena Massimo Mezzetti e a mons. Erio Castellucci, arcivescovo di ModenaNonantola e vescovo di Carpi, che ha presentato il messaggio di papa Francesco “Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace”, sono intervenuti Claudio Baraldi (Università di Modena e Reggio Emilia, delegato del rettore alla Rete delle Università per la Pace); don Mattia Ferrari (cappellano Mediterranea Saving Humans); Paola Cigarini (Gruppo Carcere&Città - Progetto Peter Pan) e Fausto Gianelli (Associazione Europea Avvocati per la Democrazia e i Diritti umani). Di seguito riportiamo l’intervento di Paola Cigarini. Oggi, sebbene le notizie delle morti violente ormai si leggano distrattamente e ci si chiuda sempre di più nel nostro quotidiano di relazioni e cose, ecco che i numeri delle persone (persone detenute e agenti di polizia penitenziaria) che cercano con il suicidio la soluzione alla loro disperazione nelle carceri italiane ci costringono a porci delle domande e ci chiedono una presa di responsabilità. Anche il nostro carcere, la nostra città, ha pianto nei giorni scorsi la morte di un giovane ospite e ieri lo ha fatto Piacenza. In media quest’anno ogni quattro giorni un detenuto si è tolto la vita. E il dato è verosimilmente sottostimato, perché vi sono stati nel 2024 altri 20 decessi in carcere “per cause da accertare”. I tentati suicidi sono stati 2.035 (179 in più rispetto al 2023), gli atti di autolesionismo 12.544 (483 in più rispetto al 2023). Credo che, anche per la sensibilità che state mostrando nell’essere qui, molte informazioni sulla pena in carcere siano da voi conosciute (nel carcere di Modena presenti 570 persone su una disponibilità di 357 posti). Possiamo sapere dalle statistiche presenti in rete quante di queste persone sono stranieri, di quali etnie, quanti sono malati, senza dimora, che età hanno. E molti altri numeri potrebbero essere presentati e soprattutto analizzati. Dietro a quei numeri però, lo sapete, ci sono persone che con loro storie ci rovesciano davanti agli occhi i problemi irrisolti della nostra società. Per rimanere solo ai problemi del carcere questi numeri palesano la necessità e l’urgenza di interventi normativi e di amministrazione attiva, volti a rendere più umana l’esecuzione penale. Penso non solo al sovraffollamento carcerario, ma a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a garantire il rispetto dei loro diritti, anche sotto il fondamentale profilo dell’assistenza medica, psichiatrica e psicologica. Il carcere è l’istituzione di cui abbiamo meno conoscenze dirette, è una realtà complessa, difficile, dove si vivono equilibri delicatissimi sia per le persone detenute, sia per chi vi lavora. C’è tanta attenzione adesso nei media, nell’opinione pubblica, per questi problemi, forse come mai prima, ma il tentativo di convincere il legislatore che un problema strutturale come quello della illegalità delle carceri italiane oggi debba esser affrontato con proposte radicali, strutturali, che vadano al cuore del problema - amnistia, indulto, depenalizzazione e decarcerizzazione - sistematicamente fallisce. Ricordo che la nostra Costituzione parla di pene, non di carcere, e che esistono oltre 40 possibilità di esecuzione della pena (e qui si aprirebbero altri discorsi che il tempo non ci consente di fare). È però al carcere, la pena per eccellenza, che viene affidata la difesa incerta di una società in crisi di valori e di identità. Il carcere è considerato infatti dai nostri politici e da buona parte della pubblica opinione come l’unica punizione “vera”, il castigo che deve diventare insegnamento attraverso l’afflizione, con il sapore, spesso non tanto nascosto, della vendetta. E le carceri si riempiono come non mai, anche senza che ci sia uno spazio adeguato e umano per accogliere tutti questi nuovi giunti, molti dei quali giovani o giovanissimi. Il risultato è quello che abbiamo descritto prima: solo contenimento. Carceri piene negli spazi, ma vuote come il tempo dei detenuti che scorre inutilmente. Non si vuole vedere come il carcere sia oggi un istituto che genera violenza, sia criminogeno e non riesca a proteggere né le persone detenute, né le persone in divisa, né quindi, in ultima analisi, la società. È a questa pena che affidiamo la nostra sicurezza? Davanti a una situazione straordinaria diventata però tristemente ordinaria, costellata da rivolte, suicidi, insofferenze, stati patologici non curati, non appare possibile cercare di risolvere gli annosi problemi che gravano sulla realtà penitenziaria italiana in modo agile, semplicistico. Occorre una riforma organica, completa, che sappia toccare ogni ingranaggio difettoso, ogni polmone in apnea dell’intero circuito penitenziario. Non si può più aspettare. Dobbiamo crederlo, chiederlo, pretenderlo noi, cittadini e voi politici. E non è un discorso di clemenza, umanità o buonismo, ma di coraggio per la nostra sicurezza, per la nostra comunità perché possa essere capace di seminare segni di speranza per tutti, oltre il pessimismo, la rassegnazione, la stanchezza che spesso incontriamo anche in noi stessi. Il volontariato ha sempre sostenuto l’idea del carcere come “extrema ratio” per chi non può essere fermato in altro modo, e siè espresso a favore di una giustizia di Comunità con pene conciliative o riconciliative che possano coinvolgere anche la vittima del reato nell’incontro e non solo attraverso risarcimenti in denaro. Pene che facciano leva sulla capacità delle persone di fare scelte diverse da quelle che le hanno portate a delinquere. Ora noi volontari siamo costretti solo a medicare le ferite di una Istituzione che non è capace neppure di dare ai suoi ospiti un bagno schiuma o un dentifricio. Ci sono tra i firmatari, tra le adesioni a questa marcia molte associazioni di volontariato. Non è un caso. C’è nella mano tesa verso l’altro, nel sorriso che illumina gli occhi di chi coglie uno sguardo, nell’accompagnamento e nel sostegno di chi rischia di cadere, un grande, importante gesto di Pace. È l’incontro che può far cambiare il percorso di un cammino verso l’illegalità. I volontari appaiono come compagni di strada che aiutano la persona sola quando è al fine pena, che aiutano a vincere la paura del prima e del dopo. Così come il volontariato che opera nei Paesi lontani dove la sofferenza e la miseria portano a sperare, sognare un “meglio” lontano. L’azione del volontario è un seme che può far germogliare una terra arida dove tutto si tenta di risolvere con azioni di forza, con conflitti che durano nel tempo, con inimicizie e rancori, dove tutto è appiattito sulla dimensione economica. È azione di prevenzione, è azione di pace. È allora dal nostro essere cittadini/volontari che mentre tendono la mano guardano oltre, all’origine del bisogno incontrato e ne cercano le cause e si fanno sentire con una voce autonoma, responsabile perché si possa andare nella direzione di una comunità pacificata, che ripudia ogni guerra, che cerca una giustizia che ha il compito di ricomporre le fratture che il reato ha prodotto, non solo di punire. * Gruppo Carcere - Città di Modena Tanta indignazione per le carceri di Teheran, zero per le nostre. Ma l’Italia è una democrazia di Giuseppe Dacquì* L’Unità, 18 gennaio 2025 L’affaire Sala, conclusosi nel migliore dei modi, offre lo spunto per diverse riflessioni sulle condizioni delle carceri, sul rispetto delle convenzioni internazionali in tema di diritti fondamentali dell’uomo, sulle pene, sulla rieducazione del condannato, sul perdono, sull’amnistia, sulla concezione del diritto penale. Le società moderne pensano a un modello organizzativo della vita sociale improntato sulla tutela dell’ordine politico, sociale ed economico. Alcune di esse tendono a tutelare e conservare l’ordine attraverso norme rigorose, rigide che prevedono sanzioni sempre più elevate in ipotesi di trasgressioni più frequenti e che destano allarme sociale; altre, invece, mirano a una politica criminale meno repressiva. L’area del punibile, a mò di fisarmonica, si allarga e si restringe a seconda del tipo di direttore d’orchestra: vendetta o perdono. Vendetta, intesa come stessa pena o più grave di quella subita; perdono, inteso come sanzione mirata alla rieducazione del colpevole e come freno inibitorio del pericolo di reiterazione dell’illecito. Nella categoria dell’area rigida, il tutore dell’ordine tende a reagire con fare normativo aggressivo e repressivo, istituendo nuove fattispecie di reato, elevando i minimi e massimi edittali delle pene, restringendo o vietando benefici premiali, istituendo carceri di alta sicurezza, normativizzando condizioni carcerarie inumane introdotte già in periodi emergenziali, cosicché l’istinto diventa istituzione, tanto per richiamare il pensiero di David Hume. Nella seconda categoria, senza alcuna astensione dalla punizione, quest’ultima è applicata nel modo di restringere al massimo l’area del punibile, allargando gli spazi delle misure alternative alla carcerazione. Dunque, se il direttore di orchestra appartiene alla prima categoria i condannati, i reclusi saranno considerati “vite di scarto” che occorre solo imprigionare, isolare dal resto della società e, in taluni ordinamenti, perfino eliminare con l’impiccagione, l’iniezione letale, la sedia elettrica. Se appartiene alla seconda categoria, il carcerato potrà sperare in un percorso punitivo e rieducativo privo di barbarie trattamentali. Il bene giuridico che il diritto penale deve tutelare è anche il diritto del condannato a essere sostenuto durante il periodo, breve o lungo che sia, della carcerazione. L’esecutivo italiano attuale non pare che mostri i segni di perdono nei confronti dei condannati per come sollecitato dal Sommo Pontefice. Vi è in atto un’idea di giustizia lontana da trattamenti preventivi e rieducativi. Si è cristiani e giusti a modo nostro. Non fu ascoltato Papa Giovanni Paolo II, non sarà ascoltato Papa Francesco. È più redditizio elettoralmente accanirsi nei confronti dei malvagi piuttosto che avere un atteggiamento di speranza e indulgenza nei loro confronti. Da qui il conflitto tra il diritto penale minimo e il diritto penale del nemico. Quanti magistrati, politici, operatori del diritto conoscono la realtà, le condizioni delle nostre carceri? Se già la privazione la libertà è una afflizione, il luogo in cui si sconta la pena, è un’ulteriore sofferenza. Ripugna alla coscienza civile universale la condizione di ostaggio e di segregazione in cui è stata tenuta la giornalista Sala in Iran, in barba ai più elementari diritti fondamentali dell’uomo; ma ripugna altrettanto alla coscienza la condizione carceraria italiana poiché, diversamente dall’Iran, il nostro è un paese democratico. Dio, secondo il racconto biblico ha protetto Caino “segnandolo” perché l’assassino non diventasse preda della vendetta e dell’odio. La violenza genera violenza e questo il dio degli ebrei non lo tollera e non lo vuole. Nessuna ritorsione è ammessa e la società non può certo porgere l’altra guancia, deve tutelare la vittima e al contempo garantire al colpevole che sia celebrato un giusto processo e applicata una pena che sia espiata in termini di rieducazione. Il difensore di Abele non può trasformarsi in un altro Caino. L’esaltazione o l’esagerazione della pena segnala la presenza del sentimento della vendetta: l’omicida è punito con la pena capitale e ciò, purtroppo, avviene anche negli ordinamenti democratici. Nella teoria del diritto penale del nemico, ai nemici non vengono garantiti i diritti o vengono limitati in quanto non sono riconosciuti quali consociati, e sono considerati soggetti pericolosi da eliminare tout court. Viene così considerato inefficace, secondo il comune sentire, un sistema giuridico che non è in grado di punire severamente, e ciò senza fare i conti che la repressione nella lunga storia dell’uomo non ha mai eliminato il delitto anche il meno efferato. *Avvocato Ddl Sicurezza, la lettera nel cassetto di Meloni di Leonardo Fiorentini L’Unità, 18 gennaio 2025 Un documento Onu che denuncia il rischio violazione delle convenzioni sui diritti umani, civili e politici. Proprio nei giorni in cui la mobilitazione contro il DdL sicurezza si diffonde per il paese con le manifestazioni della rete “A Pieno Regime” nelle maggiori città è spuntata fuori una lettera che è nel cassetto della Presidente Meloni dal 19 dicembre. Si tratta di un documento firmato da ben sei relatori speciali dell’alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che analizza il provvedimento ora in discussione in commissione al Senato, evidenziando le norme in contrasto con le convenzioni internazionali. Come sottolinea Susanna Ronconi, responsabile internazionale di Forum Droghe, “vengono richiamati sette articoli della convenzione sui Diritti Umani a rischio violazione: l’articolo 9 sul diritto alla libertà e contro l’arbitraria detenzione, il 12 sulla libertà di movimento, il 14 sul giusto processo, il 17 sul diritto alla privacy, il 19 sul diritto all’espressione e all’opinione, il 21 sul diritto a riunirsi in assemblea pubblica e a manifestare e il 22 sul diritto all’associazione tra cittadini. Inoltre - continua Ronconi - ci sono rischi di violazione di altre singole convenzioni come la Convenzione sui Diritti Civili e Politici, quella contro la Discriminazione Razziale e quella di Aarhus, la Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione e la giustizia in materia ambientale”. Per gli esperti dell’ONU la vaghezza delle previsioni e le pene sproporzionate rappresentano una minaccia diretta ai principi fondamentali di equità e giustizia. Impedire proteste pacifiche vicino a infrastrutture pubbliche e considerare blocchi stradali alla stregua di atti violenti è configurabile quindi un attacco diretto alla libertà di espressione, così come tutelato dal diritto internazionale. Così come rendere indifferente ai fini della sanzione partecipare ad una rivolta violenta in carcere, o disobbedire ad un ordine in modo passivo, rivela l’intento meramente repressivo del provvedimento fortemente voluto dalla destra italiana al governo. La revoca poi della cittadinanza per alcuni reati è una misura che viola le norme internazionali che prevengono l’apolidia, mettendo a rischio uno dei diritti essenziali di un individuo, l’appartenenza a una nazione, da cui discendono molti altri. Senza dimenticare, a proposito di sproporzione e irragionevolezza delle norme, le norme che colpiscono il settore della canapa industriale, equiparandolo alla cannabis psicotropa. Una scelta puramente ideologica, miope e punitiva. I relatori delle Nazioni Unite non hanno fatto altro che mettere nero su bianco quello che hanno denunciato le voci che si sono levate in questi mesi contro il DdL Sicurezza. La grande manifestazione del 14 dicembre scorso a Roma ha reso evidente che esiste un movimento diffuso che non vuole stare a guardare mentre vengono minati i diritti fondamentali. Che questo DdL venga approvato così com’è o modificato per eliminare le norme più controverse, una cosa è certa: il cambiamento non arriverà se non ci sarà dal basso una mobilitazione di una società civile forte e unita. È tempo di alzare la voce per difendere la democrazia, i diritti umani e il rispetto delle convenzioni internazionali. E al Presidente della Repubblica va chiesto con forza di vigilare e intervenire, perché l’Italia non tradisca non solo i suoi principi fondanti scritti nella Costituzione ma anche quelli ribaditi nelle convenzioni internazionali che ha sottoscritto. Oltre il buio del Ddl Sicurezza. Le fiaccole illuminano la piazza di Giuliano Santoro Il Manifesto, 18 gennaio 2025 Centinaia di persone a Roma e in altre città. Non si ferma la mobilitazione per il diritto al dissenso. Piazza Sant’Andrea della Valle è il dente di asfalto che si incunea verso corso Rinascimento, dove affaccia Palazzo Madama. È qui che si ritrovano in centinaia, con tanto di fiaccole e cartelli, per protestare contro il Ddl sicurezza. L’idea l’ha lanciata Amnesty International e raccolta dalla rete “A Pieno Regime”, organizzazione di scopo, composita e plurale che dopo la grande manifestazione dello scorso 14 dicembre continua a mobilitarsi per fermare il disegno di legge che ormai anche diversi organismi internazionali (Ocse, Consiglio d’Europa e Nazioni unite) considerano al di là delle normali garanzie offerte dai sistemi liberaldemocratici. “Siamo di fronte a una svolta autoritaria pericolosa e dobbiamo fermarla - esordisce Luca Blasi, uno dei portavoce della rete - Il governo Meloni sta esasperando gli animi e continua a provocare la piazza”. Dopo di lui Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, spiega: “Questo provvedimento preoccupa noi e preoccupa molte organizzazioni internazionali perché dietro la parola ‘sicurezza’ si cela un disegno repressivo di alcuni diritti fondamentali. Uno tra i più importanti quello di protesta pacifica, cioè di esprimere in piazza dissenso o pensiero critico in forma pacifica. Il Ddl aumenterà la popolazione carceraria, perché prevede nuovi reati, aggravanti, passaggi da sanzioni amministrative a reato penale. E tenderà a colpire le vulnerabilità, le marginalità, forme di resistenza assolutamente non violenta. Insomma un provvedimento contrario ai diritti umani. Noi chiediamo che ci sia un ripensamento complessivo su questo provvedimento, perché così come scritto lederà gravemente i diritti umani”. In piazza rimbalzano le notizie sulle modifiche al Ddl e sul rischio che accanto ad esse la destra provi ad accelerare e allo stesso tempo soffiare sul fuoco delle emergenze sociali trasformandole in allarmi per l’ordine pubblico. “La richiesta generale è che c’è poco da emendare - il segretario generale della Cgil di Roma e del Lazio, Natale Di Cola - Il Ddl va rifiutato. Continueremo a mobilitarci, fino a quando il governo non fermerà questo provvedimento sbagliato”. Dalla piazza di Napoli, il suo omologo Nicola Ricci conferma: “La sicurezza che vuole il governo è la sicurezza di reprimere, di discriminare, di fare cittadini di serie A e di serie B - fa sapere il segretario generale Cgil Napoli e Campania - il paese si deve rendere conto che questo provvedimento prevede settanta nuovi reati penali e pene rafforzate. Limita il diritto al dissenso, a manifestare, a rivendicare e protestare per difendere i diritti sociali e civili”. Il ping pong tra le piazze della mobilitazione diffusa crea lo scambio con le manifestazioni in giro per l’Italia: arrivano messaggi da Empoli, Reggio Emilia, Asti. “C’è un Paese che non si rassegna - dice il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, che ha partecipato alla manifestazione bolognese - Non si rassegna all’idea che dissentire diventi un reato, che manifestare diventi impossibile e che l’unico strumento per gestire i conflitti, i bisogni in questo paese sia l’implementazione dei dispositivi penali e punitivi, naturalmente sempre e solo nei confronti dei più deboli”. Per Cecilia D’Elia, senatrice del Pd, “è molto importante che ci sia un’opposizione nella società, di associazioni, organizzazioni, sindacati, perché questo ddl in realtà non tratta della sicurezza dei cittadini, ma è un decreto che mette fortemente in discussione l’agibilità democratica, la possibilità di manifestare, la resistenza non violenta. E quindi è una misura pericoloso per chi è impegnato e per quei cittadini senza potere che vogliono manifestare la loro opinione, per far arrivare i loro problemi nel dibattito pubblico”. Per il Movimento 5 Stelle a Roma ci sono i parlamentari europei Carolina Morace e Dario Tamburrano. Prima di loro, Giuseppe Conte da Montecitorio ribadisce l’impegno dei suoi. E a chi gli chiede della presenza in piazza risponde: “Attueremo qualsiasi misura volta a contrastare la deriva reazionaria di questa maggioranza. Adesso questa battaglia è ancora in corso in parlamento. Ma non rinunciamo a nessuno strumento per contrastare questa azione di governo e queste misure inaccettabili”. “Non vogliamo scudi penali, ma lavorare in sicurezza”, i sindacati di polizia contro l’impunità di Alice Dominese Il Domani, 18 gennaio 2025 “I poliziotti chiedono semplicemente delle garanzie di lavoro operative serene, oltre una fruibile e adeguata tutela legale, al pari di quelle che stanno chiedendo i medici nei pronto soccorso e i professori aggrediti in classe” dice il segretario Siap. Il ministero dell’Interno ha di recente fatto circolare dei dati che rilevano un aumento sostanziale delle manifestazioni e dei feriti tra gli agenti di polizia in Italia. Nel 2024 sarebbero state organizzate 12.302 manifestazioni (una media di circa 34 al giorno, in crescita di quasi il 10 per cento rispetto al 2023), con 273 poliziotti feriti. Il ministro Piantedosi ha parlato delle aggressioni nei confronti delle forze di polizia come di un fenomeno “ricorrente” e comunicato che la percentuale degli agenti feriti è cresciuta del 127,5 per cento. I numeri forniti non sono al momento consultabili, ma Giuseppe Tiani, segretario generale del Sindacato italiano appartenenti polizia (Siap), tra le principali formazioni di rappresentanza del personale di polizia a livello nazionale, conferma a Domani che “la violenza nelle manifestazioni di piazza è aumentata in maniera esponenziale, lo attestano i referti medici dei nostri feriti e le segnalazioni che riceviamo dai colleghi”. Gli eventi critici, dice il Viminale, sono stati 322, in calo di circa il 19 per cento. Secondo Tiani “anche se gli scontri si sono ridotti, le manifestazioni fatte dal cosiddetto mondo antagonista e anarchico sono diventate molto violente”. Mentre il governo introduce il ddl Sicurezza aumentando i controlli, i reati e le sanzioni nei confronti di chi protesta, l’ipotesi di ampliare la tutela penale per gli agenti in servizio ha portato i sindacati a fare fronte comune esprimendosi contro l’idea di impunità e immunità delle forze dell’ordine. “I poliziotti chiedono semplicemente delle garanzie di lavoro operative serene, oltre una fruibile e adeguata tutela legale, al pari di quelle che stanno chiedendo i medici nei pronto soccorso e i professori aggrediti in classe”, dice il segretario Siap. Per il Sindacato italiano lavoratori di polizia della Cgil non è attraverso l’approccio punitivo nei confronti di chi protesta, né con nuove forme di protezione giuridica, che gli agenti di polizia potranno essere maggiormente salvaguardati. Secondo Nicola Rossiello, responsabile nazionale del dipartimento Sicurezza sul lavoro di Silp Cgil, il problema di fondo è che la normativa per garantire la sicurezza degli agenti non viene applicata. “L’amministrazione della Polizia di stato è particolarmente inadempiente e il problema è culturale: per le forze di polizia non si ritiene che la sicurezza sia centrale, ma si pensa che il rischio faccia parte del mestiere”, sostiene Rossiello. “Per questo devo dire che incidenti e infortuni sono da addebitarsi in gran parte a una scarsa o difforme applicazione della normativa che esiste per mitigare i rischi sul lavoro”. La necessità di compiere valutazioni della sicurezza più adeguate nel corso di manifestazioni e altri interventi programmati da parte delle forze dell’ordine è una visione condivisa tra gli addetti ai lavori, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di mezzi difensivi. “I casi di funzionari finiti al pronto soccorso perché non indossavano il casco o la maschera per proteggersi dalle esalazioni sono comuni. Ma questo è incomprensibile”, aggiunge Rossiello, “perché l’obbligo parla chiaro”. A mancare è anche un organismo di vigilanza che permetta di monitorare il modo in cui le forze di polizia applicano le dovute tutele nei confronti dei propri lavoratori. “Attualmente questa attività ispettiva è interna all’apparato di polizia. Quindi se un lavoratore vuole segnalare una mancanza grave in termini di salute e sicurezza, la segnala allo stesso soggetto che viola la norma”, spiega Rossiello. Se i dati ministeriali raccontano una violenza nei confronti delle forze dell’ordine sulla cui origine i sindacati sembrano non essere del tutto concordi, Amnesty International Italia, si concentra sulla polarizzazione radicata tra chi scende in piazza. “Anche un solo agente di polizia ferito, così come anche un solo manifestante, è una sconfitta per lo stato di diritto, in cui un rapporto di fiducia e rispetto reciproci tra forze di polizia e chi manifesta è fondamentale”. Separazione delle carriere. L’Anm protesta contro la riforma di Marco Iasevoli Avvenire, 18 gennaio 2025 Previste mobilitazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica che culmineranno con le due giornate dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Non è escluso lo sciopero. Via tutti quando parla il rappresentante del ministro Carlo Nordio. Oppure con cartelli in mano a difesa della Costituzione. O magari presentarsi compatti in toga. Al Comitato direttivo centrale dell’Anm di questa mattina sono in discussione le possibili modalità di protesta dei magistrati contro la riforma costituzionale che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pm in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, venerdì prossimo in Cassazione e il giorno dopo nelle Corti d’appello. La separazione delle carriere - è la posizione dell’Associazione messa nera su bianco nell’assemblea straordinaria dello scorso 15 dicembre - “non risponde ad alcuna esigenza di miglioramento del servizio giustizia, ma determina l’isolamento del pubblico ministero, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo ad una logica securitaria, nonché ponendo le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo”. L’Anm ha quindi promosso una serie di mobilitazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema che culmineranno proprio con le due giornate dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2025. Magistratura democratica ha proposto che in quell’occasione “i magistrati, con toga indosso e copia della Costituzione alla mano, abbandonino l’aula, in forma composta, nel momento in cui il rappresentante del ministro prenderà la parola”. Il Comitato centrale ha discusso delle possibili forme che potrà assumere la protesta. Non escluso che - oltre che nelle Corti d’appello il 25 gennaio - le iniziative delle toghe coinvolgano anche la giornata del 24 in Cassazione, quando sarà presente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E più in là potrebbe anche esserci uno sciopero della categoria. “Quello che più stupisce - ha detto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - è che si sia voluto blindare, impedire una discussione parlamentare su una riforma costituzionale di così delicato profilo come quella della riforma del potere giudiziario che tocca l’equilibrio dei poteri. Spero che si recupererà uno spazio di confronto, di dialogo e di discussione sul contenuto in vista del referendum. E noi lì ci saremo”. Sulle barricate anche l’opposizione. “La separazione delle carriere - secondo Nicola Fratoianni di Avs - serve a limitare l’autonomia della magistratura e ad assoggettarla al potere politico. Insomma il sogno di Berlusconi che si avvera ma un passo indietro per la qualità della giustizia per i cittadini in questo Paese”. Il governo, da parte sua, tira dritto. “Mi sembra difficile - ha osservato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto - pensare a una magistratura, soggetto di rilevanza costituzionale, che protesta contro un percorso parlamentare, quale quello della riforma. Protestare contro il Parlamento, ora che c’è stata un’approvazione in prima lettura, non è più un’iniziativa culturale, ma è una protesta sterile contro un legislatore che ha deciso, a grandi voti, di andare avanti su una riforma prevista dalla Costituzione”. Con la quale, ha sottolineato, “il giudice sarà finalmente diverso rispetto a chi accusa, superando l’attuale identità per genesi e formazione culturale. Ed è impossibile accettare che chi giudica abbia ‘parentele’ con chi accusa, salvo minare la fiducia dei cittadini nella giustizia”. Intanto, quello di stamattina - all’ordine del giorno della seduta anche iniziative per il malfunzionamento della App per il processo penale telematico - è l’ultimo Comitato dell’Anm presieduto da Santalucia. Il 26, 27 e 28 gennaio si terranno le elezioni che decideranno il nuovo vertice dell’Associazione. La separazione delle carriere non migliora la giustizia per i cittadini di Giulia Merlo Il Domani, 18 gennaio 2025 L’Anm medita manifestazioni in vista dell’apertura dell’anno giudiziario. La modifica costituzionale non produrrà effetti concreti sulle persone. Barbara Berlusconi: “È un primo passo ma ha un grande significato”. La strada è ancora lunga perché la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri possa entrare in vigore, ma il primo via libera della Camera ha già enfatizzato l’effetto di contrapposizione tra governo e magistratura in corso da mesi. Da un lato il centrodestra ha esultato, con Forza Italia che ha dedicato il sì al defunto Silvio Berlusconi (la figlia Barbara, al Tg1, ha detto che “è solo un primo passo, ma ha un grande significato simbolico. Lo avrebbe certamente per mio padre che si è battuto tutta la vita per una magistratura imparziale e meno politicizzata”) e il ministro della Giustizia Carlo Nordio che - con tanto di immagine evocativa con giudici imparruccati e stendardi tricolori - ha pubblicato sul sito del ministero la frase: “Rivendico il copyright, ne parlavo dal 1997”. Dall’altro i magistrati di tutti i gruppi associativi e sensibilità hanno definito la riforma “una vendetta punitiva” per la categoria e stigmatizzato la scelta del governo di far arrivare in aula un testo blindato, impermeabile anche davanti al parere tecnico negativo approvato dal Consiglio superiore della magistratura. Sarà questo il clima in cui si celebrerà l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2025, prevista per il 24 gennaio in Cassazione con le alte cariche dello stato e il 25 gennaio in tutte e 26 le Corti d’appello. Una “mobilitazione ci sarà”, promettono le toghe, ma i modi non sono ancora chiari e verranno decisi oggi durante il direttivo dell’Associazione nazionale magistrati. Le toghe progressiste, a partire da Magistratura democratica, propongono gesti eclatanti: “I magistrati, con toga indosso e copia della Costituzione alla mano, abbandonino l’aula, in forma composta, nel momento in cui il rappresentante del ministro prenderà la parola”. I conservatori di Magistratura indipendente invece vorrebbero evitare quelle che vengono definite “sceneggiate” durante un momento solenne. Tuttavia, qualcosa accadrà e - soprattutto - comincerà a strutturarsi la mobilitazione per il no alla riforma in vista del quasi certo referendum costituzionale che, se i tempi di approvazione annunciati verranno rispettati, dovrebbe celebrarsi nel 2026. Nessun effetto. Al netto dello scontro politico e del dibattito sulla qualità della riforma costituzionale, una cosa è certa: si tratta di una riforma che non riguarda la giustizia ma l’ordinamento giudiziario, ovvero come viene gestita la vita professionale delle toghe. Dunque non impatta sull’amministrazione della giustizia quotidiana e non avrà alcun riverbero pratico sul cittadino che chiede giustizia. Il disegno di legge separa in modo netto il giudice dal pubblico ministero, che ora hanno in comune lo stesso concorso in ingresso e possono passare da una funzione all’altra una volta in carriera entro i primi 10 anni. Nel 2023, ragionando in numeri, a farlo sono stati in 34 su circa novemila magistrati. Scorpora anche il Consiglio superiore della magistratura creandone due con uno per i giudici e uno per i pm e crea una Alta corte con funzione disciplinare (che oggi è gestita dal Csm). Infine, prevede il sorteggio puro per scegliere i consiglieri togati. Secondo il centrodestra, come ha spiegato il viceministro Francesco Paolo Sisto, l’impatto sui cittadini riguarderà un cambio di “percezione della giustizia: il giudice sarà finalmente diverso rispetto a chi accusa, superando l’attuale identità per genesi e formazione culturale. Ed è impossibile accettare che chi giudica abbia parentele con chi accusa, salvo minare la fiducia dei cittadini nella giustizia”. Una questione di percezione esiste, soprattutto nella fase del processo. In concreto, tuttavia, separare giudici e pm non produrrà alcun effetto né sui tempi della giustizia né tantomeno sull’efficienza nell’amministrazione dei tribunali. Certamente, invece, alimenterà lo scontro tra politica e magistratura di cui entrambe le categorie si sono nutrite in questi anni, con alterni successi. Contribuendo - questo sì - a trascinare la giustizia in un agone mediatico che poco gioverà alla fiducia nel sistema. Sempre riflettendo sugli effetti indiretti della riforma, una è la principale paura dei contrari, così espressa nel parere del Csm: “La creazione di un corpo separato di pubblici funzionali numericamente ridotto e altamente specializzato, deputato alla direzione della polizia giudiziari a e all’esercizio dell’azione penale; un corpo essenzialmente autoreferenziale in quanto sottratto, in sede di amministrazione del proprio ordine, ad una qualsiasi forma di confronto e di controllo con la magistratura giudicante”. Il rischio della creazione di un “superpoliziotto”, dunque, che potrebbe finire sotto l’influenza dell’esecutivo. Lontane sono invece le emergenze concrete - ma meno roboanti - che la giustizia quotidiana deve affrontare. Quella più recente: il fallimento della digitalizzazione a cui il Pnrr lega il versamento dei fondi europei all’Italia, con l’applicativo per gestire il processo penale telematico fermo dopo pochi giorni di utilizzo a causa di malfunzionamenti. Quella più stratificata: la carenza di organico in tutti gli uffici, che determina ritardi e arretrato, con la progressiva devoluzione ai giudici di pace civili di sempre maggiori competenze. Dal 31 ottobre prossimo si occuperanno di controversie per un ammontare fino a 50mila euro. Questioni che non polarizzano il dibattito ma che fanno perdere al cittadino fiducia nella giustizia. Non quella urlata dello scontro tra opposte fazioni che si confronteranno anche con il voto referendario, ma quella praticata quotidianamente da avvocati e magistrati. Separazione delle carriere. Il Cav, fantasma evocato dall’Anm che Nordio inizia a “rinnegare” di Errico Novi Il Dubbio, 18 gennaio 2025 Carriere separate, oggi le toghe definiscono il piano: possibili proteste-choc per drammatizzare la riforma. Si dovrebbe partire da Berlusconi. O dalla sua iperbole: le toghe rosse. Che non erano così a sinistra neppure all’epoca in cui il Cav se le trovò tutte contro. Però è vero che giovedì, dopo il sì della Camera al ddl Nordio, è stata la “rossa” Md a chiamare alle armi. La corrente guidata da Stefano Musolino prefigura uno scenario da democrazia sotto assedio: “Alle inaugurazioni dell’anno giudiziario nelle Corti d’appello, i magistrati, con toga indosso e copia della Costituzione alla mano, abbandonino l’aula, in forma composta, nel momento in cui il rappresentante del ministro prenderà la parola”. Iperbole uguale e contraria a quella d’antan del Cavaliere. Come se il ddl di Nordio che ora sarà esaminato a Palazzo Madama - e, con l’intervallo di tre mesi previsto dalla Carta, di nuovo da entrambi i rami del Parlamento - non avesse rigorosamente rispettato il perimetro dell’articolo 138, il passaggio in cui la Costituzione italiana sancisce la procedura da seguire perché la si possa modificare. Carlo Nordio dovrà misurare con attenzione ogni tappa del percorso. Da qui fino al giorno in cui gli italiani saranno chiamati, con ogni probabilità, a confermare o bocciare la separazione delle carriere col referendum. Magistratura democratica, intanto, sottoporrà la propria clamorosa ipotesi proprio oggi alle altre correnti, nel “parlamentino” delle toghe, al secolo Comitato direttivo centrale dell’Anm (definizione solenne che nessun partito vero oggi si consentirebbe). È il primo step: il “sindacato” dei magistrati decide se adottare l’estremismo di “Md”, se assecondare altre soluzioni da assemblearismo movimentista come la maglietta anti-Nordio con cui vorrebbe presentarsi alle cerimonie inaugurali Stefano Celli, pm dell’altro gruppo progressista “Area”, o virare verso forme meno clamorose come proverà a suggerire, con ogni probabilità, il progressista ma moderato presidente uscente Giuseppe Santalucia. In ogni caso l’armamentario sfoderato, seppur solo a parole, dice molto: andarsene Costituzione in pugno dalle inaugurazioni nelle Corti d’appello previste per sabato (il giorno prima si celebra l’anno giudiziario in Cassazione) è appunto un modo per attribuire alla riforma Nordio intenzioni “eversive” che in realtà non vi sono contemplate. Una mistificazione. Che però serve. Perché la tecnica è suggestionare gli elettori con l’idea terribile secondo cui la magistratura, e dunque la democrazia, sarebbero sotto attacco esattamente come lo sarebbero state fino a una quindicina d’anni fa sotto quel “manigoldo” di Berlusconi. Solo così, col fantasma del Cav accompagnato da quello più remoto ma ancora più inquietante di Licio Gelli (già evocato dal Pd), l’Anm può vincere il referendum: con la suggestione angosciante di una destra che lancia l’assalto alla civiltà. Ed ecco che le iperboli, gli allarmi apocalittici, servono. E non saranno solo le correnti Anm a inscenarli. Il ministro della Giustizia dovrebbe saperlo. Mercoledì prossimo si presenterà in Parlamento (di mattina al Senato, nel pomeriggio alla Camera) per la relazione sullo stato della giustizia. Almeno parte dell’opposizione replicherà all’intervento del guardasigilli con anatemi pari a quello a cui “Md” implicitamente allude per giustificare l’affronto della “fuga” dalle cerimonie inaugurali. E sabato, nelle Corti d’appello, qualche procuratore capo potrebbe rilanciare parole di fuoco contro il ministro e la premier Giorgia Meloni. Pronti, diranno, a indebolire la magistratura a vantaggio della politica. È la tesi sostenuta da un’altra ala estrema dell’opposizione politico-giudiziaria, il deputato 5S ed ex pm antimafia Federico Cafiero de Raho in un’intervista alla Stampa di ieri. E ne ha parlato anche, in chiave certo analitica ma con toni gravi, una delle intelligenze migliori di cui l’Anm disponga, il presidente del Tribunale di Paleremo Piergiorgio Morosini, in una conversazione post-voto con l’Adnkronos. Pochi minuti dopo il sì di Montecitorio ma anche nell’intervista al Corriere della Sera di ieri, Nordio ha rivendicato che certo, si realizza il sogno di Silvio Berlusconi, ma ha anche detto che lui quel sogno lo coltiva da prima, da trent’anni. Sembra un innocente, veniale vezzo narcisistico. È in realtà la strategia che il governo, il centrodestra e innanzitutto il guardasigilli dovranno adottare di qui in avanti, appunto: affrancare la separazione delle carriere dalla mitologia del berlusconismo. Rivendicare la riforma come propria. Perché più il divorzio giudici-pm sarà associato agli anni in cui, col Cavaliere in campo, l’Italia era divisa in due tifoserie equivalenti - da una parte gli elettori di centrosinistra favorevoli ai pm, dall’altra il “popolo della libertà” nemico delle Procure - e più la vittoria del sì al referendum sarà in pericolo. Nel ventennio berlusconiano l’equilibrio nei consensi c’era e, nel segreto dell’urna referendaria, il ritorno prepotente di quella suggestione rischierebbe di regalare a Meloni e Nordio un’amara sorpresa. Così la separazione delle carriere fa diventare i pm come poliziotti di Mario Di Vito Il Manifesto, 18 gennaio 2025 Nei Paesi che dividono i giudici, il Governo controlla sempre l’esercizio dell’azione penale. Separazione delle carriere e garantismo hanno tra loro lo stesso rapporto che c’è tra due rette parallele nella geometria euclidea: non si incontrano mai. Basta guardare come funzionano i sistemi giudiziari che separano la figura del magistrato requirente da quella del magistrato giudicante per accorgersene. Al di là degli squilli del governo e dei suoi propagandisti - che definiscono la riforma come luminoso esempio di rispetto delle garanzie processuali e un po’ litigano sul copyright: Forza Italia dice che questo era “il sogno di Berlusconi”, Nordio sostiene di parlare del tema nientemeno che dal 1997 -, il risultato più ovvio della svolta che si vorrebbe dare alla giurisdizione italiana consisterà nella trasformazione del pm in un agente di polizia con la laurea in legge in tasca e la toga addosso, perché il suo unico compito sarà quello di individuare, perseguitare e reprimere i cattivi soggetti. Lo sanno bene in Spagna, dove la figura del giudice è separata integralmente da quella del procuratore dai tempi di Francisco Franco. Alla caduta del regime, però, ci si accorse che al vertice degli uffici inquirenti era rimasto un cospicuo numero di nostalgici del regime e, onde evitare guai seri, la soluzione escogitata fu di mettere la pubblica accusa in rapporto diretto e subordinato rispetto al ministero della Giustizia, che esercita in questo modo un controllo politico sull’azione penale. In Francia pure le carriere sono formalmente divise, con il pubblico ministero che ha un rapporto diretto col governo, ma i passaggi di funzione sono possibili e l’organo costituzionale di governo autonomo della magistratura è unico. La Gran Bretagna, che spesso viene citata da Nordio come modello, non solo è un paese di common law, ma non ha nel suo ordinamento la figura del pm così come la possiamo intendere in Italia. Esiste il Crown Prosecution Service, che detiene e coordina l’iniziativa penale in tutto il paese. Chiaramente la grande visibilità che questo ruolo offre può aprire molte strade agli uomini di legge che hanno voglia di fare carriera politica, tant’è vero che l’attuale primo ministro, il laburista Keir Starmer, è stato tra il 2008 e il 2013 direttore della pubblica accusa per l’Inghilterra e il Galles. Diversa ancora la situazione negli Usa, dove le carriere sono divise, i passaggi di funzione possibili ma le cariche sono elettive. E le campagne elettorali per diventare procuratori distrettuali sono di solito gare a chi promette maggiore inflessibilità nella lotta al crimine. Al di là delle abitudini giurisdizionali di ciascun paese, è del tutto evidente che là dove la figura del giudice è completamente separata da quella del procuratore, il secondo ha sempre e per forza il ruolo dell’accusatore. In Italia, da quando nel 1989 è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale, il meccanismo con cui si cerca di fare giustizia consiste sostanzialmente nel controllo costante di un giudice sulla validità delle tesi espresse dalla procura: prima un gip può concedere (o no) il rinvio a giudizio sulla base di una “ragionevole previsione di condanna”, poi c’è il primo grado, poi c’è l’appello e infine c’è la Cassazione. Non sono affatto infrequenti i casi in cui i giudici giungono a conclusioni diverse rispetto ai pubblici ministeri: basti pensare al proscioglimento di Renzi per il caso Open o all’assoluzione “perché il fatto non sussiste” di Salvini a Palermo per la vicenda Open Arms, tanto per restare su vicende celebri e piuttosto recenti, senza la necessità di addentrarsi nella cronaca giudiziaria di minor calibro, che vede quasi ogni giorno uscire sentenze che non ricalcano alla lettera quanto proposto dai requirenti e che anzi spesso se ne distanziano in maniera netta. Ma se la separazione delle carriere è il fulcro della riforma Nordio, che il piano generale del governo consista più in generale nel ridimensionamento del potere giudiziario è testimoniato anche dalla volontà di sdoppiare il Csm - che vuol dire dimezzarne la forza -, di creare una Alta corte ad hoc per dirimere le faccende disciplinari (un modo per mutilare il concetto stesso di governo autonomo della magistratura) e di nominare i membri di questi due organi per sorteggio, andando così a distruggere il ruolo costituzionale delle correnti. Cosa tutto questo c’entri col garantismo resta un mistero. Sarà che parliamo di una parola intraducibile nelle altre lingue europee. E il cui significato forse è poco chiaro anche in italiano: abbiamo un governo che si definisce “garantista” ma che dal suo insediamento non ha fatto che introdurre nuovi reati, sanzioni, aggravanti, aumenti di pena. Solo col ddl Sicurezza si mette mano al codice penale più di trenta volte. E sempre per renderlo più pesante. Musolino (Md). “Le toghe non sono un’istituzione servente: legittimo dissentire” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 gennaio 2025 Approvato in prima lettura il ddl sulla separazione delle carriere. Ne parliamo con Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica. La maggioranza parlamentare ha esultato dicendo: “Si realizza il sogno di Silvio Berlusconi”. Lei che ha pensato? Che si realizza il sogno di un uomo ricco e potente che percepiva l’autonomia della magistratura come un intralcio alle sue attività e il rispetto delle regole come un impaccio all’espansione dei suoi interessi. Un sogno molto distante da quello dei comuni cittadini i cui diritti sono tutelati solo dal rispetto delle regole e da una magistratura autonoma e indipendente. Voi lamentate che il testo sia stato blindato però anche voi nella mozione del Congresso di Palermo avete scritto che “l’unicità della magistratura è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”... La contrapposizione è reale ed è netta. La blindatura del testo, nelle intenzioni di chi l’ha proposta, manifesta l’indispensabilità della riforma. La verità è che questa riforma non migliora l’efficienza del servizio giustizia e rende più deboli e indifesi i cittadini nella fase delle indagini preliminari. Perché? Il pm avrà una capacità sempre minore di valutare la prova fornita dalla polizia giudiziaria, perderà la sensibilità del giudice e con questa la capacità di intuire le possibili contro- spiegazioni formulate dalla difesa. Sarà sempre meno parte imparziale che si prende cura anche dei diritti e delle prospettive dell’indagato e sempre di più avvocato della polizia giudiziaria. Ed è incredibile che, in tempi in cui si evocano gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni, non si comprenda che sottrarre il pm dal rapporto con il giudice indebolirà il percorso di formazione della prova, generando un aumento degli errori, ben oltre il dato fisiologico. Per questo noi proponiamo che il pm prima di assumere le funzioni, svolga per almeno tre anni il ruolo di giudice. Altro che separazione delle carriere, è stato già un grave errore, separare le funzioni. Al contrario l’onorevole Costa di Fi parla di una e vera forma di tanatosi del gip davanti al pm, pronto a concedergli tutto. Per questo andate separati... L’onorevole Costa dovrebbe spiegare perché tale patologia affliggerebbe solo i gip e non i giudici nei gradi successivi. Le statistiche restituiscono, infatti, tassi di assoluzione che escludono qualunque narcosi dei giudici dei gradi successivi. Insomma, una banale verifica dimostra come quella dell’on. Costa sia una sonora sciocchezza. La verità è che nella fase delle indagini il gip “vede” solo le prove che gli propone il pm. Per questo è necessario che il pm condivida la stessa cultura e sensibilità del giudice, capace di valutare la prova non solo dalla prospettiva della polizia giudiziaria, ma sottoponendo anche a verifica le possibili contro- spiegazioni dell’indagato. Migliore sarà questa verifica, più basso l’indice di errore. La maggioranza immagina, invece, un pm avvocato della polizia giudiziaria che è l’antitesi di questo modello. Oggi il parlamentino dell’Anm deciderà che forme di protesta attuare durante le inaugurazioni dell’Anno giudiziario... I nostri candidati alle prossime elezioni al Cdc ANM hanno proposto che i magistrati, con toga indosso e copia della Costituzione alla mano, abbandonino l’aula, in forma composta, nel momento in cui il rappresentante del ministro prenderà la parola. L’idea di fondo è che il sistema giustizia è segnato da inefficienze catastrofiche (logistica e risorse tra molte), aggravate da una frettolosa e non testata digitalizzazione del processo penale. Il Ministro, invece di farsene carico e intervenire efficacemente per porvi rimedio, scarica la responsabilità sui magistrati e si fa promotore di una riforma che non serve affatto a migliorare l’efficienza del sistema. Per contrastare tutto ciò occorrono gesti sobri, ma visibili. Queste vostre iniziative di proteste vengono giudicate eversive. Ieri il Ministro Tajani ha detto: “Non credo che un servitore dello Stato debba protestare nei confronti del Parlamento; è come se i Carabinieri abbandonassero il servizio perché non sono d’accordo con una decisione del governo” ... Ancora una volta, ministri del governo tendono a equipararci a istituzioni serventi le maggioranze di governo contingenti, senza comprendere che non è questo il ruolo della magistratura. Noi siamo un organo di garanzia, chiamato dalla Costituzione a tutelare i diritti. Perciò, è fisiologico che la magistratura faccia sentire la sua voce prima che le riforme che la riguardano siano approvate. Poi saranno i cittadini a decidere se questa riforma serve davvero a rendere più efficiente la giustizia o a tutelare meglio i potenti come Berlusconi e Musk. Noi non stiamo difendendo un nostro interesse corporativo, ma l’interesse dei cittadini ad avere una migliore tutela dei loro diritti. La separazione delle carriere rafforzerà ancora di più il pm, ma proprio di questo potere eccessivo, noi pm per primi siamo preoccupati. I sostenitori della riforma sostengono che il sorteggio serva a spezzare il potere delle correnti. Addirittura si parla di metodo dell’amichettismo adesso al Csm per le nomine, oltre a quello dei soliti inciuci... Le correnti sono l’espressione di diverse sensibilità culturali che stanno dentro la magistratura, nessuna delle quali da sola basta a sé stessa. Il Csm e il Cdc sono luoghi di sintesi di queste diverse sensibilità che rappresentano una ricchezza per la magistratura. Se ciò si trasforma, come hanno dimostrato le vicende dell’Hotel Champagne, in uno strumento di aggregazione del consenso allora il sistema degenera. Ma vale lo stesso per il Parlamento e tutti i luoghi di rappresentanza. Ma questa degenerazione esiste ancora oppure no? La magistratura, i gruppi associati non sono più quelli dei tempi di Palamara; tuttavia, il CSM ha bisogno di rendere sempre più trasparenti e comprensibili le sue decisioni. Per questo ci siamo battuti per ottenere una riforma diversa dall’attuale del Testo unico sulla dirigenza. Abbiamo perso, ma è su quella linea che immaginiamo debba proseguire una vera auto- riforma della magistratura, nella quale i gruppi associati avranno meno potere e saranno laboratori di idee, confronti e iniziative culturali. Si sa che voi magistrati non siete bravi comunicatori. Credete comunque di vincere il referendum? Certo che ci crediamo! Le nostre buone ragioni avranno la meglio sulle nostre cattive capacità di comunicazione. Giulia Bongiorno: “Garantita la parità difesa-accusa. E ora le toghe recupereranno prestigio” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 gennaio 2025 La senatrice della Lega soddisfatta per il lavoro fatto in questi mesi: “La riforma era necessaria. Indipendenza e terzietà dei giudici sono le cose che stanno più a cuore a chi finisce a processo”. La senatrice Giulia Bongiorno, avvocato famoso e responsabile Giustizia della Lega, è stata una delle protagoniste silenti della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. Ci aveva provato già nel 2022, quando convinse Matteo Salvini a promuovere un pacchetto di referendum in tema, tra cui uno che chiedeva appunto la separazione delle carriere. Ora finalmente è soddisfatta perché ha partecipato a tutti i vertici di maggioranza, contribuito a scrivere i testi, discusso fin sulle virgole, e ha temuto lo scorrere della legislatura. Perciò dice: “Questa riforma garantisce parità effettiva tra accusa e difesa nel processo penale. E il tema è più concreto di quanto si creda”. La separazione delle carriere ha superato il primo step. Perché come centrodestra ritenete che sia tanto importante questa separazione, considerando che la riforma Cartabia aveva già limitato al massimo il cambio di funzioni nella carriera di un magistrato? “Mentre la Cartabia aveva solo attenuato il problema, questa riforma lo affronta di petto, e lo risolve garantendo parità effettiva tra accusa e difesa nel processo penale. Forse sfugge che chi entra in un’aula di giustizia per essere processato, colpevole o innocente che sia, affronta un’esperienza dolorosissima. Il potere del giudice è enorme e l’imputato deve avere la certezza che chi deciderà sulla sua libertà personale, sul suo patrimonio o sulla sua reputazione sia davvero equidistante da pm e difensore. Il tema perciò è più concreto e generale di quanto si creda”. Questa riforma avrà un valore tangibile sul concreto esercizio della giustizia? Se sì, come? “La riforma mira non solo alla terzietà dei giudici, ma anche a garantirne l’assoluta indipendenza. E terzietà e indipendenza sono ciò che più sta a cuore a quanti sono coinvolti in un processo. Quando si sostiene che non era una riforma necessaria, credo si dimentichi quanto emerso con lo scandalo Palamara: un inaccettabile sistema di spartizione di incarichi, davanti al quale non c’erano state risposte adeguate. Anche se è pacifico che la maggior parte dei magistrati svolge le proprie funzioni in autonomia, la degenerazione delle correnti ha sbarrato per troppo tempo la strada a chi, pur meritando, non gode di spinte correntizie”. Separazione delle carriere, Barbara Berlusconi: “Mio padre si è battuto tutta la vita per una magistratura imparziale” Ritiene più importante, nella riforma, lo sdoppiamento dei Consigli superiori oppure l’istituzione di una Alta corte? “La separazione delle carriere richiede una duplicazione del Csm, uno per i magistrati giudicanti e uno per i requirenti che si occupino delle loro carriere. La nuova Alta Corte avrà funzioni delicatissime e il suo corretto funzionamento sarà decisivo per un reale cambiamento del sistema”. E quanto peso avrà il sorteggio nella scelta dei membri dei futuri Csm? Pensa che le correnti organizzate scompariranno come neve al sole? “Nessuno punta ad annientare le correnti, l’obiettivo è piuttosto combatterne le degenerazioni. Con il sorteggio si recide il legame di gratitudine che lega l’eletto e la corrente che lo elegge. So bene che gli accordi tra correnti potrebbero avvenire anche dopo i sorteggi, ma di certo sarà garantito il merito dei singoli magistrati anziché loro appartenenza correntizia”. A partire dal fatidico processo di Palermo a Salvini, e poi via via con il proscioglimento di Matteo Renzi e altri casi eccellenti, molte procure hanno perso in dibattimento. Non è, in fondo, la prova di una intrinseca indipendenza dei giudici rispetto ai loro colleghi inquirenti? “Quando si fanno le riforme, parlare dei processi a personaggi famosi può essere fuorviante. Potrei risponderle agevolmente che Salvini è stato assolto due volte, ma un giudice lo ha rinviato a giudizio. La riforma, però, non riguarda imputati famosi. Sa quante volte mi sono sentita chiedere perché durante le pause dell’udienza il giudice dà del tu solo al pm e non anche agli avvocati? Lo chiedono tutti gli imputati. Per loro non è affatto secondario che il giudice mostri di avere una confidenza particolare con l’accusatore”. Come prevedibile, la magistratura associata protesta. Lo avevate messo nel conto? “Certo, ma in realtà riceviamo manifestazioni di sostegno anche da parte della magistratura. Magari da coloro che non hanno mai fatto carriera perché tagliati fuori dal sistema correntizio”. Sostengono i magistrati che non ora, ma in prospettiva, la separazione delle carriere porterà inevitabilmente alla sottomissione del pm all’Esecutivo. Lei che ne pensa di questa eventualità futura? “La magistratura deve restare indipendente, sempre. I pm non devono essere controllati dall’esecutivo”. Salta agli occhi che la protesta dei magistrati sia trasversale, e mobilita tutte le correnti, anche le più conservatrici. Come spiega una così totale avversione? “Alcuni motivano le critiche sostenendo che la riforma svilisce la magistratura: forse svilisce le ambizioni personali di qualcuno, ma di certo restituirà prestigio all’intera categoria nel momento storico di minor credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. Solo se il cittadino crede alla terzietà del giudice tornerà a credere nella giustizia”. Giustizia, separazione delle carriere: il primo sì della Camera Si parla molto di un possibile “scudo penale” per le forze di polizia. È immaginabile una corsia preferenziale per le indagini su chi veste una divisa oppure, come lascia balenare Nordio, occorre riscrivere il codice di procedura penale relativamente all’iscrizione al registro degli indagati? “L’obiettivo indicato da Nordio è condivisibile, ma per capire meglio occorre attendere il testo. Aggiungo che sono molte le norme del codice di procedura che richiedono un importante intervento”. In conclusione, si deve temere una nuova stagione di scontro tra politica e giustizia? “È successo in passato, ma oggi nessuno può accusare governo o maggioranza di fare leggi ad personam o di voler punire la magistratura. È giunto il momento di una svolta effettivamente garantista del processo penale, al pari di quanto accade nelle democrazie di più antica tradizione liberale”. La separazione delle carriere era ineludibile. Ma il sorteggio è inaccettabile di Cataldo Intrieri Il Domani, 18 gennaio 2025 È bene specificare che non di vera cesura delle carriere si tratta, in quanto il pm resta nell’indipendente e autonomo ordinamento giudiziario con tutte le garanzie previste e con un suo proprio Consiglio superiore che lo tutelerà. Chi si strappa i capelli lamentando un presunto controllo del governo sulle procure mente o non ha capito nulla (percentuali simili). La Camera ha approvato con ampia maggioranza una legge che solo fino a qualche anno fa sembrava una pura utopia per ogni garantista: la separazione delle carriere. Intendiamoci, per evitare una truffa delle etichette è bene specificare che non di vera cesura delle carriere si tratta, in quanto il pm resta nell’indipendente e autonomo ordinamento giudiziario con tutte le garanzie previste e con un suo proprio Consiglio superiore che lo tutelerà ma che non sarà più il suo giudice disciplinare, compito delegato a una nuova Alta corte che come il Consiglio sarà composta prevalentemente da suoi colleghi. Chi si strappa i capelli lamentando un presunto controllo del governo sulle procure mente o non ha capito nulla (percentuali simili). Per capire quanto fosse ineludibile la divisione netta dei percorsi basta analizzare l’intervento di un membro togato del Csm per sostenere la candidatura di un collega pm alla Dna nei confronti di un altro candidato: il primo aveva fatto arrestare e mandare al 41 bis centinaia di mafiosi (presunti o reali poco importa), al contrario del secondo (pm apprezzato per equilibrio, competenza e pacatezza di toni) che dunque era meno “idoneo”. Se questi debbono essere i criteri di valutazione di un inquirente, la separazione è financo tardiva e si è già consumata da un pezzo nelle teste degli stessi magistrati, sin da quando, col nuovo codice, si è posta la polizia giudiziaria formalmente alle dipendenze del pm, in realtà consentendo alla prima di contaminare la funzione del secondo. Il sorteggio - Va detto che la legge è modellata sul progetto di iniziativa popolare promosso con una raccolta delle firme nel 2017 dagli avvocati dell’Unione delle camere penali che avevano a loro volta ripreso il modello istituzionale che da mezzo secolo si applica in Portogallo con reciproca soddisfazione di politica e magistrati. Ristabilita la verità va detto che ogni onesto garantista deve comunque provare serio imbarazzo per le modalità con cui la legge è stata portata all’approvazione senza possibilità di discussione e dibattito parlamentare. La normativa contiene una parte inaccettabile, relativa all’introduzione del sorteggio integrale per i membri togati: tale innovazione senza precedenti nasce con il dichiarato scopo di far fuori le correnti dei magistrati. Ora immaginate che qualcuno proponga di estrarre a sorte i parlamentari sul presupposto di eliminare il potere dei leader politici. Il vero bersaglio è il principio di rappresentanza cardine di una democrazia e lo scopo quello di ridurre i Csm a organi di ordinaria amministrazione e non di necessaria voce di una istituzione cardine dello stato di diritto. Non si può impedire a nessuno la libertà di opinione. L’esempio di ciò che si è fatto in Polonia, Ungheria e finanche in Israele dove il parlamento in mano alla maggioranza può disapplicare le sentenze della Corte costituzionale deve far pensare sul fine ultimo di tali politiche. È necessario dunque si apra un dibattito nel passaggio al Senato della legge. Contemporaneamente il vulcanico Carlo Nordio ha preannunciato una nuova legge che taluno ha definito come “scudo penale” per le forze dell’ordine. Oscuramente si fa trapelare che essa dovrebbe garantire addirittura una sorta di totale immunità financo dagli avvisi di garanzia per gli agenti che dovessero essere sospettati di abusi, ponendo una inaccettabile discriminazione incostituzionale. Chi abbia una minima infarinatura di diritto penale sa che lo “scudo” esiste già con l’articolo 51 codice penale che rende non punibili eventuali atti illeciti commessi in adempimento di un dovere e dunque le azioni di ordine pubblico sono già integralmente tutelate. A che pro la trovata di uno scudo? Forse per concedere immunità speciali in previsione di prossime proteste? Forse per tutelare chi dovesse commettere possibili abusi su detenuti e fermati? Ci si preoccupi piuttosto di fornire alle forze dell’ordine adeguata tutela legale sgravandole dai costi della difesa o fornendo copertura assicurativa. È legittimo temere un disegno complessivo di restringimento delle garanzie tramite il rafforzamento del potere governativo. Un’ultima cosa ai miei colleghi oggi giustamente in festa dopo una lunga battaglia: dieci anni fa al congresso dell’Unione a Genova ci siamo commossi ed emozionati davanti alle immagini dei colleghi turchi in toga caricati dalla polizia di Recep Tayyip Erdo?an mentre occupavano per protesta le loro aule. Difendevano lo stato di diritto che vedevano sfiorire: nessuno di noi pensava potesse capitare qui, allora. Il sorteggio per i laici al Csm è l’ultima scelta tafazziana della politica. Parla Guzzetta di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 gennaio 2025 L’estrazione a sorte al Csm, ideata per contrastare il correntismo, viene prevista dalla riforma Nordio non solo per i membri togati, ma anche per quelli laici. Così il Parlamento perde una delle sue funzioni fondamentali. “Non c’è obbligo di parallelismo. Da una parte si può fare il sorteggio e dall’altra no”, dice il costituzionalista Guzzetta. E’ veramente singolare la capacità della classe politica di autoindebolire sempre i propri poteri al cospetto della magistratura. Questa tendenza tafazzista si manifesta persino nella riforma della separazione delle carriere, approvata in prima battuta alla Camera. Si era partiti con l’idea di introdurre il sorteggio come metodo di elezione dei componenti togati del Csm (che diventeranno due, uno per i giudici, uno per i pm) a fronte delle note degenerazioni correntizie. Si è finiti con introdurre il sorteggio non solo per i togati, ma pure per i membri laici di espressione parlamentare. “Una scelta assolutamente non obbligata sul piano della legittimità costituzionale”, spiega al Foglio il costituzionalista Giovanni Guzzetta. La riforma costituzionale che giovedì ha ricevuto il primo via libera alla Camera prevede la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, con la conseguente istituzione di due diversi Consigli superiori della magistratura, uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri. Il testo lascia intatta la composizione attuale per ciascun Consiglio, costituito per due terzi da membri togati e per un terzo da membri laici, espressione del Parlamento. Vengono modificate, però, le modalità di scelta dei componenti. Per i togati viene introdotto il sorteggio secco, “nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge” attuativa. L’ipotesi del sorteggio ha cominciato a farsi strada in seguito allo scandalo Palamara del 2019, che ha messo in luce le manovre delle correnti togate sulle nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Persino il ministro della Giustizia grillino, Alfonso Bonafede, inizialmente disse che “sul sorteggio non si può tornare indietro” per “togliere la magistratura dalle grinfie delle correnti”, prima di cambiare idea e proporre una riforma poi mai approvata. I partiti di maggioranza e il ministro Nordio hanno scelto questo metodo per cercare di ridurre il peso dei condizionamenti correntizi sull’elezione dei membri togati. Incredibilmente, però, la riforma introduce lo stesso metodo - l’estrazione a sorte - anche per l’elezione dei membri laici, seppur in forma attenuata: i laici (professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio) verranno sorteggiati da un elenco che il Parlamento in seduta comune compilerà entro sei mesi dall’insediamento dei Csm. Ma se la ragione alla base della scelta del sorteggio era costituita dalla necessità di contrastare il correntismo fra le toghe, non si comprende perché la politica debba sottrarre al Parlamento il potere di eleggere i membri laici con le modalità normali, usate fin dall’istituzione del Csm nel 1958. Come se la politica non potesse mai riformare la magistratura senza comunque pagare un pegno. “Si tratta di una scelta puramente politica. Se la scelta fosse diversa, e quindi si decidesse di lasciare il metodo tradizionale di elezione per i membri laici e per i giudici il metodo del sorteggio, non ci sarebbero criticità sul piano costituzionale”, afferma Giovanni Guzzetta, professore di Diritto costituzionale all’Università Tor Vergata di Roma, specificando comunque di non avere una posizione favorevole all’una o all’altra scelta. “Si tratta di due scelte ugualmente legittime”, ribadisce. Alcuni però hanno sostenuto che l’introduzione del sorteggio per i membri togati imporrebbe di introdurre lo stesso metodo, anche se attenuato, per i laici. “No, non c’è un obbligo di parallelismo. Da una parte si può fare il sorteggio e dall’altra no”, replica Guzzetta. “Sono due corpi che appartengono a circuiti completamente diversi: uno è il circuito democratico (il Parlamento), l’altro potremmo definirlo professionale. Le due modalità di designazione quindi non devono necessariamente essere le stesse”. Pur dichiarandosi favorevole alla separazione delle carriere, Italia viva si è astenuta alla prima votazione sulla riforma Nordio anche in polemica con la scelta del sorteggio per i laici. Nel corso della discussione parlamentare, persino Forza Italia aveva presentato una serie di emendamenti che miravano a ripristinare il normale metodo di elezione, prima però di ritirarli di fronte alla blindatura del testo da parte di Nordio. Le perplessità, però, sono rimaste. “Il sorteggio per i laici è una stupidaggine colossale”, afferma al Foglio un esponente forzista. Chissà se al Senato questi ripensamenti faranno breccia e porteranno a modificare il provvedimento. Morte di Ramy, i pm: dagli agenti nessun illecito di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 gennaio 2025 Indiscrezioni sulle indagini: non esisterebbero protocolli operativi su quando e come inseguire le persone ritenute sospette. Dalle indagini della procura di Milano sarebbe emerso che i carabinieri che il 24 novembre scorso hanno inseguito lo scooter su cui viaggiavano Fares Bouzidi e Ramy Elgaml, morto dopo che il mezzo è finito a terra, non hanno commesso violazioni o illeciti. La notizia è stata data ieri sera dall’agenzia Agi, secondo la quale i pm impegnati nell’inchiesta avrebbero rilevato che non esistono protocolli operativi su quando e come inseguire le persone ritenute sospette. Per gli inquirenti questa attività farebbe riferimento soltanto all’articolo 55 del codice penale che dice: “La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”. L’indiscrezione, in attesa di conferme ufficiali, arriva a sorpresa: sul tavolo della procura devono ancora essere presentate tre consulenze sulle fasi finali dell’inseguimento mortale. Una è stata chiesta dagli stessi pm, una dalla legale di Bouzidi e una dagli avvocati della famiglia di Ramy. Mancano anche riscontri dal cellulare di un testimone oculare a cui i militari avrebbero intimato di cancellare il video che ritraeva la caduta. Per il momento nel registro degli indagati sono stati iscritti il carabiniere alla guida di una delle tre gazzelle con l’ipotesi di omicidio stradale, Bouzidi per concorso nello stesso reato e altri due agenti per frode processuale, depistaggio e favoreggiamento. Nei giorni scorsi erano stati pubblicati dei video che mostravano le volanti inseguire il T-Max con gli audio degli agenti: “Vaffanculo non è caduto”, “Chiudilo chiudilo che cade, nooo... merda non è caduto”. In seguito alla loro diffusione ci sono state proteste a Milano, Torino, Bologna e Roma con scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Giudizio abbreviato non ammesso per i delitti puniti con l’ergastolo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2025 La Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2025 depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, co. 1-bis, del Cpp. La Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2025 depositata oggi, conferma l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Sono state infatti dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 438, co. 1-bis, del Cpp, come introdotto dall’articolo 1, co. 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, dalla Corte di assise di Cassino. La Corte rimettente era chiamata a giudicare della responsabilità dell’imputato per il delitto di omicidio aggravato dall’aver agito per motivi abietti e futili, per il quale è prevista la pena dell’ergastolo. A seguito della notifica del decreto di giudizio immediato, l’imputato aveva chiesto il rito abbreviato. Il Gip, tuttavia, ha dichiarato la richiesta inammissibile, dal momento che il delitto rientrava nella previsione dell’articolo 438, co. 1-bis, Cpp., secondo il quale “[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”. Secondo l’ordinanza di rimessione ciò contrasterebbe con gli articoli 3 e 27 Cost., accomunando fattispecie autonome di reato punite con la pena dell’ergastolo (a esempio il delitto di strage) con altre che pervengono a tale sanzione - come nel caso di cui al giudizio a quo - unicamente in ragione della contestazione di circostanze aggravanti. La Consulta richiama un proprio precedente (ordinanza n. 163 del 1992) per ribadire che “l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee”. Inoltre, la scelta legislativa di far dipendere l’accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza di una circostanza a effetto speciale “esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna” (sentenza n. 260 del 2020). La Consulta richiama poi il principio di proporzionalità della pena particolarmente pregnante nel caso del trattamento sanzionatorio del delitto di omicidio, i quanto esso può essere connotato, nei casi concreti, da “livelli di gravità notevolmente differenziati”, che possono aver riguardo tanto al profilo oggettivo - in relazione, in particolare, alla tipologia e alle modalità della condotta - quanto a quelli soggettivi, attinenti al diverso grado di manifestazione dell’intento omicidiario. Infine, se è vero che l’accesso ai riti alternativi - quando legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni - costituisce “parte integrante del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.”, non se ne può però dedurre un diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, come invece parrebbe, erroneamente, presupporre il giudice a quo. Modena. Incendio in carcere: gravissimo per le ustioni un 24enne di Cesena corriereromagna.it, 18 gennaio 2025 La cella dove era detenuto all’improvviso è andata a fuoco. Un incendio sulle cui origini e cause sono in corso indagini. Unica certezza per ora è che Y.K., origini marocchine ma da sempre residente a Cesena, per le ferite riportate nel rogo è ricoverato in gravissime condizioni, intubato ed in prognosi riservata, con i medici che ad ora non possono sbilanciarsi sulle sue possibilità di sopravvivenza. Il rogo risale a due pomeriggi fa nel carcere Sant’Anna di Modena. Una struttura che nel 2020 era stata protagonista di una rivolta dei detenuti finita nel sangue. Detenuti che lamentavano le condizioni precarie in cui scontano la pena. La settimana scorsa, un 49enne, in carcere per il terribile omicidio della moglie, si è tolto la vita inalando il gas di una bomboletta usata per scaldare cibo e bevande in cella. Stessa “sorte” toccata nei giorni precedenti e con le stesse modalità ad altri due detenuti del penitenziario modenese. I questo caso le ipotesi di un tentativo “di rivolta” del cesenate in cella con un unico compagno di detenzione 24enne appaiono poco plausibili. Ancor meno, agli occhi dei parenti, che i due abbiano tentato di suicidarsi. Sta di fatto però che in qualche maniera l’incendio è scattato all’improvviso nella loro cella due pomeriggi fa. Ed il 24 enne, che normalmente vive sulle colline del cesenate nella zona tra Borello e Mercato Saraceno, è rimasto ustionato in maniera serissima ed ora lotta per la vita nel Centro Ustioni dell’ospedale Maggiore di Parma. Sul momento erano stati ricoverati d’urgenza in ospedale a Modena anche il suo compagno di cella e 9 guardie carcerarie, intervenute queste ultime per i soccorsi e per carcere di domare il rogo. Tutti avevano riportato danni da inalazione da fumo. E tutti sono stati dimessi dal nosocomio modenese dove erano ricoverati o si trovavano semplicemente sotto osservazione, senza aver riportato gravi danni nell’accaduto. Y.K. in passato, era comparso sulle cronache del cesenate per micro furti e reati legati al consumo ed allo spaccio di stupefacenti. Doveva scontare 2 anni e 6 mesi di una condanna definitiva. Era stato in cella prima a Forlì e poi a Ferrara. Di appena un mese fa il trasferimento al carcere di Modena dove la sua pena sarebbe terminata a luglio 2027. “I suoi genitori sono sconvolti per l’accaduto - spiega l’avvocato Gianluca Betti che li tutela e che è stato nominato a difesa del 24enne cesenate ferito - Non hanno alcun conto di cosa possa essere successo, Escludono possa aver tentato di uccidersi ma di fatto sanno soltanto che ha gravi ustioni in più punti del corpo. E che è in prognosi riservata in ospedale senza che nemmeno possano andarlo a trovare. Visto che si tratta di un detenuto”. Aspettando gli esiti delle investigazioni in corso, nelle prossime ore verrà depositata una richiesta al giudice affinché i genitori del 24enne possano almeno andare ad assisterlo nella degenza ospedaliera in corso. Modena. Rivolta al carcere Sant’Anna. Un altro detenuto denuncia torture di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 18 gennaio 2025 Depositato in Procura un esposto per presunte violenze subite nel corso della sommossa del 2020 “Non c’entravo niente con le proteste. Gli agenti mi hanno ammanettato, picchiato e buttato per terra”. “Mi hanno ammanettato e buttato a terra. Poi mi hanno picchiato con calci e pugni. Qualcuno mi ha colpito alla testa e ho perso conoscenza”. È stato depositato ieri un nuovo esposto in Procura per le presunte violenze subite da un detenuto da parte di agenti di custodia nel corso della maxi rivolta nel carcere Sant’Anna l’8 marzo del 2020. Una rivolta in cui morirono, lo ricordiamo, nove detenuti e a seguito della quale alcuni carcerati denunciarono presunte torture. L’esposto si aggiunge alle denunce presentate da altri reclusi e per le quali pende un procedimento penale avanti alla Procura, dopo che il Gip ha respinto la richiesta di archiviazione, imponendo nuove indagini. I termini scadono tra un mese e probabilmente l’odierno esposto sarà inglobato nel procedimento in questione. A presentare denuncia attraverso il proprio legale, avvocato professore Alessandro Gamberini è stato un marocchino di 37 anni, all’epoca in carcere per questioni di spaccio e oggi uomo libero. “La persona che presenta l’esposto, vale sottolinearlo, nulla aveva a che vedere con le proteste violente che erano scoppiate nel carcere di Modena il 9 marzo 2020 e le lesioni subite sono state documentate clinicamente, dopo che, in occasione del suo trasferimento al carcere di Sollicciano, fu espressamente richiesta da quel carcere la visita medica per le condizioni visibili in cui versava”, sottolinea l’avvocato. Questa denuncia “segue coerentemente alla richiesta del gip di acquisire, tra l’altro, tutte le cartelle cliniche per avere un quadro esatto degli avvenimenti. Il carcere di Modena è tristemente famoso tuttora visto i tre suicidi che si sono susseguiti dall’inizio dell’anno e il drammatico avvenimento di giovedì”, conclude. Il gip aveva disposto nuovi accertamenti sulle presunte torture ai danni di detenuti durante la rivolta di cinque anni fa. L’indagine condotta dalla mobile aveva portato ad iscrivere nel registro degli indagati 120 agenti di polizia penitenziaria ma per venti è stata ottenuta l’archiviazione. Per quanto riguarda il nuovo esposto, il detenuto ha sporto denuncia una volta uscito dal carcere e ora il legale chiede l’acquisizione delle cartelle cliniche, che riportano lesioni per 10 giorni di prognosi. Secondo il 37enne, quel giorno, fu costretto ad uscire dalla propria cella data alle fiamme. Raggiunto da agenti, sarebbe stato ammanettato, picchiato, collocato in una sala grande vicino all’ufficio matricola e qui costretto a stendersi a terra ammanettato per poi essere trasferito in una stanza dalle dimensioni più ridotte. Qui gli agenti - secondo l’uomo - lo avrebbero preso a calci e pugni per poi colpirlo al capo con un grosso bastone. L’uomo sarebbe svenuto. Non dimentichiamo che, quel giorno, gli agenti si trovarono ad operare in condizioni di estrema pericolosità ed emergenza, come hanno sottolineato i legali difensori nelle diverse memorie depositate, così come la procura nel chiedere l’archiviazione. Solo giovedì, durante una protesta due detenuti hanno dato fuoco alla propria cella restando gravemente ustionati: in particolare uno di loro, ancora oggi in rianimazione. Se non fosse stato per l’intervento di dodici agenti che hanno rischiato la propria vita per trarli in salvo, forse i due giovani carcerati non sarebbero riusciti ad uscire vivi dalla cella. Sul tema intervengono i sindacati, col segretario regionale Sappe, Francesco Campobasso: “La professionalità degli agenti è stata determinante per evitare conseguenze drammatiche”. I parlamentari Pd a seguito della situazione del carcere lanciano un appello alla cooperazione e alle imprese modenesi perché “possano prendere in via straordinaria persone a lavorare fuori dal Sant’Anna”, e più in generale a tutta la comunità: “serve la disponibilità per lavori socialmente utili, volontariato, assunzioni”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Detenuto aggredito in carcere, grave un 32enne salernitano positanonews.it, 18 gennaio 2025 Un episodio dai contorni ancora poco chiari si è verificato all’interno della casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, dove un detenuto di 32 anni originario di Salerno, Antonio Novelli, è stato vittima di una violenta aggressione. Attualmente ricoverato presso l’ospedale “Ruggi” di Salerno, Novelli ha riportato gravi ferite, tra cui la frattura di tibia e perone, che hanno reso necessario un intervento chirurgico. Secondo quanto riferito dal suo legale, l’avvocato Salvatore Aiello, l’aggressione sarebbe avvenuta mentre il detenuto si trovava nei corridoi del carcere. Le circostanze esatte dell’accaduto sono ancora oggetto di indagine, ma sembra che Novelli sia stato brutalmente picchiato, tanto da perdere i sensi e richiedere l’immediato intervento del 118. Dopo un primo soccorso sul posto, le sue condizioni hanno reso necessario il trasferimento presso l’ospedale “San Francesco” di Oliveto Citra. Tuttavia, la gravità delle ferite ha spinto i medici a disporre un ulteriore trasferimento al “Ruggi” di Salerno, dove è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico. Le autorità sanitarie mantengono sotto stretta osservazione le condizioni di Novelli, che fortunatamente non versa in pericolo di vita. Nel frattempo, le indagini sull’aggressione sono in corso per fare luce su quanto accaduto. L’avvocato Aiello ha espresso la volontà di valutare attentamente l’operato della polizia penitenziaria e ha annunciato un imminente colloquio con il suo assistito. Da questo incontro si spera di ottenere maggiori dettagli che possano contribuire a chiarire la dinamica dell’aggressione e individuare eventuali responsabilità. Milano. Pochi spazi e celle stracolme. Ecco dove dormono i detenuti del Beccaria di Manuela D’Alessandro agi.it, 18 gennaio 2025 Il Garante Francesco Maisto ha concluso l’ispezione nel carcere minorile di Milano, struttura segnata da rivolte, tentativi di fughe, incendi e sconvolta dall’inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti della Polizia penitenziaria. I giovani reclusi nel carcere minorile ‘Beccaria’ di Milano sono “spesso costretti a mettere i materassi per terra” dove dormire per mancanza di spazi. Lo riferisce all’AGI il garante dei detenuti Francesco Maisto raccontando gli esiti dell’ispezione effettuata nei giorni scorsi nella struttura che vive una stagione molto complessa attraversata da rivolte, tentativi di fughe, incendi e sconvolta dall’inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria ai quali è stata contestata anche l’ipotesi di reato di tortura. I letti, è emerso dall’ispezione a cui ha partecipato anche la direttrice reggente Raffaella Messina, “sono ancorati sul pavimento con una colata di cemento armato poiché essendo di ferro, i ragazzi li utilizzano per sfondare i muri”. La mancanza di spazi è determinata dall’alto tasso di sovraffollamento, spiega Maisto. “Ci sono 69 ragazzi presenti a fronte di una capienza regolamentare di 48 posti collocati nel nuovo padiglione. Attualmente sono funzionanti solo le sezioni prima, terza e quinta poiché in seguito ad alcuni eventi critici e a comportamenti distruttivi dei ragazzi, le restanti sezioni sono in ristrutturazione”. La situazione ‘ambientale’ appare molto difficile soprattutto nelle camere di isolamento. “Servono per ragioni sanitarie ma spesso sono utilizzate per motivi disciplinari. Sono celle lisce, prive di qualsiasi mobilio e sono sempre piene perché i provvedimenti disciplinari sono frequenti e quindi anche gli isolamenti. Durante le ispezioni le camere erano vuote ma visibilmente abitate. In una c’era solo un letto con gli effetti personali del ragazzo, in un’altra c’era un solo letto e due materassi per terra privi di lenzuola, circondati da sporcizia, merendine, patatine, succhi di frutta”. La buona notizia è che “non ci sono attualmente grandi disordini ma i litigi, piccoli incendi di materassi, la distruzione di oggetti e arredi sono all’ordine del giorno” dopo un’estate che però è stata attraversata da continue turbolenze. “Il periodo estivo è stato molto difficile, confuso, mai visto - dichiara il Garante -. Dopo gli arresti, la Polizia Penitenziaria temeva di intervenire di fronte ai dinieghi dei ragazzi i quali prendevano il sopravvento e, se decidevano che non volevano fare una cosa, non la facevano, come ad esempio non andare in comunità. Il 30 agosto 2024 e 1’8 settembre 2024 ci sono state due evasioni ma i ragazzi sono stati ritrovati. In seguito, hanno ricevuto la visita del Capo Dipartimento che avrebbe incoraggiato a intervenire in situazioni di difficoltà con gli strumenti previsti dall’ordinamento”. Dopo gli arresti, sono arrivati nuovi agenti. “Ci sono in più 20 unità in missione dal Dipartimento che forniscono grande supporto non solo nella turnistica ma soprattutto nell’affiancamento delle nuove leve. Sono arrivate 40 nuove unità provenienti dalla scuola ma sono estremamente giovani e inesperte”. I ragazzi, osserva ancora Maisto, “spesso soffrono di disturbi psichiatrici non diagnosticati e sono dipendenti da sostanze stupefacenti. Ci sono perplessità sull’età di alcuni ragazzi stranieri che appaiono molto più grandi di quanto stabilito dal Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense. Di frequente accade che gli stessi ragazzi confessino di essere maggiorenni ma sui documenti risultano minorenni”. Torino. Il Garante: “Quei ragazzi per terra al Ferrante Aporti come Cecilia Sala in Iran” di Caterina Stamin La Stampa, 18 gennaio 2025 Mario Serio sul caso del carcere minorile: “Così sono spogliati completamente della loro dignità”. “Si potrebbero equiparare le condizioni dei detenuti che dormono per terra alle carceri iraniane, come dimostra la triste esperienza di Cecilia Sala”. Sul caso dei ragazzi che riposano su un materasso appoggiato direttamente al pavimento nel carcere minorile Ferrante Aporti, interviene il Garante nazionale dei detenuti Mario Serio. E dice: “Quei ragazzi sono spogliati completamente della loro dignità”. Qual è la situazione dentro l’istituto di Torino? “I dati che cita il garante del Piemonte, Bruno Mellano, parlano di un sovraffollamento di 8 unità: su 46 posti disponibili ne sono occupati 54. Ed è particolarmente grave proprio perché riguardano un istituto penitenziario minorile”. Sono gli otto detenuti che dormirebbero sui materassi appoggiati a terra. “Sì, e non è più solo un problema di sovraffollamento ma di condizione degradante della persona. È inaccettabile”. Viste le condizioni dovremmo temere un’altra rivolta, dopo quella di agosto? “Purtroppo è inevitabile. La successione di queste condizioni materiali e psicologiche è talmente gravosa che può eccitare gli animi e costituire la scintilla che può far scoppiare l’incendio. Bisogna prevenire azioni violente, che impegnano anche la polizia penitenziaria in un compito delicato e talvolta rischioso. Voglio sottolineare un fatto”. Quale? “La denuncia sulle condizioni del Ferrante Aporti è arrivata anche da un sindacato che rappresenta la polizia penitenziaria, il che implica che a soffrire delle carenze carcerarie siano i detenuti ma anche gli agenti costretti ad agire in circostanze estreme, che possono mettere a repentaglio la loro stessa incolumità. È fondamentale ascoltare anche la loro voce”. Si sta facendo troppo poco? “Sì, ed è interesse dello Stato non tollerare la situazione di cui stiamo parlando. Ma al momento non percepiamo nessuna avvisaglia che lascia intendere che potrà cambiare”. È un appello al ministero della Giustizia? “Naturalmente, e anche al Parlamento: per ridurre sovraffollamento e rendere vivibili le condizioni carcerarie occorrono interventi da parte dei titolari di responsabilità”. Per il Ministero le brandine venivano “rotte dai detenuti” e “l’utilizzo di letti più rigidi ma non fissati al suolo avrebbe potuto creare problemi di sicurezza”. Cosa ne pensa? “È una risposta che ha il pregio della sincerità perché rappresenta le cose come stanno. Ma fa anche impallidire: è una dichiarazione di impotenza dell’amministrazione penitenziaria rispetto al problema della dignità in carcere”. L’annunciata apertura di nuove strutture a Rovigo e Lecce potrebbero essere una soluzione al sovraffollamento? “È una notizia incoraggiante, ma il dato di fatto è che occorre trovare risposte immediate per il tempo che intercorre tra l’oggi e il giorno di apertura e di concreto funzionamento di queste carceri. Non si può immaginare che la situazione attuale si protragga ancora”. Quali misure si potrebbero adottare nel breve termine? “Prima che venisse approvato il provvedimento “svuota carceri” - che non sembra affatto aver raggiunto gli obiettivi che si proponeva - era in discussone la proposta di legge Giachetti, che indicava proposte concrete volte alla decongestione. Riprendere in esame quel disegno consentirebbe di riaprire la discussione per trovare risposte non più rinviabili, tra cui i provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto. Ovviamente non si tratterebbe di una misura di carattere generale e indiscriminato, ma ragionata per non turbare la sicurezza sociale né per dare la falsa impressione che lo Stato non sia in grado di assicurare l’effettività della pena”. Potrebbe aiutare anche trasferire alcuni detenuti? “Se non peggiorassero però le condizioni delle carceri in cui il trasferimento si dovrebbe attuare. E poi non bisognerebbe turbare gli equilibri psicologici e familiari dei detenuti, che potrebbero soffrire dell’allontanamento dalle residenze proprie e dei propri familiari”. Il carcere nella sua funzione rieducativa ha fallito? “Ci sono istituti dove non viene assolta, ma esistono anche realtà attente alla crescita, anche professionale, dei detenuti. Il mio auspicio è che queste iniziative si moltiplichino”. Da dove ripartire? “Dalla sinergia tra istituzioni, governo e Parlamento, e gli enti del terzo settore. Non dobbiamo cedere alla rassegnazione, all’inerzia e al fatalismo”. Roma. Criticità dell’Ipm di Casal del Marmo: la lettera dei Garanti e la risposta del DGMC garantedetenutilazio.it, 18 gennaio 2025 Anastasia e Calderone: “Le numerose proteste sono il sintomo di una situazione gravemente problematica”. Lo scorso 27 dicembre, il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, hanno inviato una lettera al Capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, per evidenziare le crescenti criticità riscontrate nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, a Roma, esprimendo preoccupazione per la sicurezza e il benessere dei minori detenuti. “Le numerose proteste - scrivono i Garanti - i danneggiamenti e le aggressioni tra gruppi di ragazzi e nei confronti del personale di polizia penitenziaria sono il sintomo, a nostro avviso - di una situazione gravemente problematica che si protrae ormai da tempo”. Durante una visita nell’istituto, avvenuta il 18 dicembre 2024, Anastasia e Calderone hanno riscontrato un aumento significativo del numero di detenuti: 56 ragazzi e 13 ragazze, con una capienza ben oltre i limiti consentiti, soprattutto nelle palazzine maschili, e aggravata dall’inagibilità di cinque stanze. I Garanti hanno inoltre sottolineato le difficoltà organizzative causate dalla grave carenza di personale di polizia penitenziaria, che non arriva al 50% delle previsioni organiche, tra cui l’annullamento last minute di attività educative e scolastiche, la scarsa partecipazione degli internati a tali progetti e la gestione problematica della scuola, con frequenze ridotte e ritardi nell’accompagnamento degli studenti. La situazione ha generato un ambiente di frustrazione e aggressività tra i ragazzi, che si trovano a fronteggiare una sostanziale inattività quotidiana. A tal proposito, i Garanti hanno chiesto a Sangermano quali iniziative il dipartimento intenda assumere, per garantire la continuità e l’efficacia delle attività educative all’interno dell’istituto, riconoscendo che tali attività sono cruciali per il trattamento dei minori detenuti. La risposta di Sangermano non si è fatta attendere. Dopo aver esaminato il quadro della situazione nazionale, ha annunciato l’apertura di due nuove comunità socio-educative ad alta integrazione sanitaria nel Lazio, grazie al comune progetto condiviso con la Regione, e un ampio piano di assunzione che mira a rafforzare le figure professionali, in particolare quelle sociali e pedagogiche, sia nel settore minorile che nell’esecuzione penale esterna. In riferimento all’istituto di Casal del Marmo, Sangermano ha sottolineato che a breve prenderà servizio un nuovo comandante di reparto, così come da un anno ha preso servizio un direttore stabile, dopo anni di incertezze organizzative. Il Dipartimento ha inoltre avviato importanti collaborazioni con enti esterni, come la Comunità di Sant’Egidio e il Centro Alletti, per la realizzazione di laboratori creativi e attività didattiche. Sangermano ha anche annunciato che la prossima pubblicazione di un avviso pubblico per la realizzazione di interventi di formazione professionale, grazie alla Regione Lazio. Nonostante queste iniziative, Sangermano riconosce che il problema principale resta nell’area della sicurezza, aggravata dalle assenze per malattia del personale di polizia penitenziaria. Ha quindi garantito che saranno adottate misure concrete per assicurare il rispetto degli orari scolastici e la sicurezza generale all’interno dell’istituto. Infine, Sangermano ha sostenuto che molte delle criticità segnalate dai Garanti derivano da problemi preesistenti legati alla gestione dell’istituto, come la volatilità degli incarichi dirigenziali e una valorizzazione insufficiente dei percorsi educativi. e ha confermato l’impegno del Dipartimento nel migliorare le condizioni dell’istituto di Casal del Marmo. Bologna. “Affamati di amicizia e amore. Ecco chi sono i giovani in carcere” di Micaela Romagnoli Corriere di Bologna, 18 gennaio 2025 Don Cambareri, parroco del Pratello: spesso mi auguro delinquano, così non stanno in strada. “Dentro l’Istituto penale minorile ci sono bisogni infiniti. Io cerco di esserci il più possibile perché tutti gli adolescenti, ma loro ancora di più, hanno bisogno di adulti che ci siano, che condividano tempo, spazi, disagi”. Don Domenico Cambareri, parroco a San Giovanni Battista di Trebbo di Reno, dal 2020 è anche cappellano del Pratello. “Prete di galera”, come si descrive nel sottotitolo del suo libro “Ti sogno fuori”, uno scambio epistolare con uno dei giovani incontrato al di là delle sbarre. Chi sono questi ragazzi? “All’Istituto penale minorile abbiamo ragazzi italiani figli di italiani che hanno commesso reati, ragazzi figli di immigrati, di seconda generazione, responsabili di reati soprattutto contro il patrimonio, di spaccio. E ora anche tanti stranieri minori non accompagnati. Ragazzi che si sono abituati a non essere visti, a non importare ed essere messi da parte”. Da chi non sono visti? “Dalle famiglie e dalle altre agenzie educative. Sono adottati dalla strada, che siano le strade del centro di Bologna, della periferia, della Tunisia; poi sedotti dai social, abituati a condividere in branco le loro emozioni. Fanno parte di una generazione di giovani che ci sta rifiutando, rifiuta il nostro sistema di valori, in ansia per il futuro. Sono ragazzi che ormai hanno soltanto l’oggi, un oggi che spesso non è fatto di adulti”. Si raccontano? “Hanno una voglia enorme di trovare adulti che li ascoltino. Tante volte mi dicono: “d’accordo don, mi comporto bene, non vado più a spacciare, ma tu mi aiuti?”. Di fronte a quella richiesta mi trovo a dover ammettere di non avere strumenti a sufficienza, così quel patto fiduciario tra istituzione e ragazzi viene meno. Sono ragazzi complessi, con le loro fragilità”. Quali? “Fragilità sentimentale, faticano a vivere e leggere la complessità delle loro emozioni, che non siano solo la rabbia o la paura. Sono affettivamente poveri e quindi affamati di affetto, di amicizia, di amore”. E se sono finiti già all’Istituto penale minorile recuperarli è più complicato… “Il carcere minorile è spesso un moltiplicatore di violenza. Un luogo dove si concentrano abbandoni e rabbie non può che moltiplicarle. La vera pena dovrebbe essere infliggere l’educazione, abituarsi al rispetto, allo studio, a meritarsi le cose, a chiedere scusa. Non dovrebbe essere un mero contenitore burocratico. Incarcerare un adolescente dovrebbe essere l’extrema ratio, non una soluzione. Eppure alle volte arrivo ad augurarmi che delinquano”. Come è possibile? “Viviamo una situazione scandalosa che tocca i minori non accompagnati. Se sono minorenni hanno una copertura assistenziale che decade non appena compiono 18 anni. Oggi mi trovo nella condizione tragica di augurarmi che vengano beccati a rubare qualcosa, pur di non finire sulla strada. Almeno qui hanno un tetto, qualcosa da mangiare, la scuola. Sono impegnato nella ricerca di una casa per poter ospitare questi ragazzi, che altrimenti sono abbandonati”. Qual è la via? “La soluzione immediata è investire sugli Istituti penali minorili, perché non siano uno spazio di dolore vendicativo ma di faticosa opportunità di ricostruzione. È anche essenziale lavorare per la nascita di comunità etiche sui territori, dove i ragazzi in difficoltà vengano intercettati, accolti, con l’aiuto delle scuole, delle parrocchie, delle società sportive. Loro hanno bisogno di adulti credibili che gli mostrino la possibilità di vivere una vita significativa”. Le hanno fatto vedere le cose da un altro punto di vista? “Molti ragazzi di seconda generazione sentono ancora l’Italia come un avversario. Loro mi hanno educato a vedere il sottile razzismo che c’è a Bologna. Spesso prendo alc uni i n per messo co n me, ospito uno di loro in libertà vigilata, e osservo gli occhi della gente quando entrano in un bar o salgono in bus. C’è un razzismo latente sul quale tutti dovremmo impegnarci a lavorare, per un vero patto educativo”. Roma. Poli universitari penitenziari, rinnovato accordo Dap-Sapienza di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 18 gennaio 2025 Prosegue il percorso per garantire il diritto allo studio universitario delle persone detenute nei penitenziari della Capitale e di altre Regioni. È stato infatti rinnovato l’accordo sul polo della Sapienza, siglato dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Giacinto Siciliano, dal garante regionale delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, e dalla rettrice dell’ateneo romano, Antonella Polimeni. Il nuovo protocollo garantisce l’incontro docenti-studenti, anche per via telematica, e fissa a non meno di tre i colloqui prima di sostenere gli esami. Assicurati, inoltre, gli incontri per la preparazione della tesi finale. Il provveditorato, si legge nell’accordo, si impegna a offrire spazi idonei allo studio all’interno delle carceri, con “l’assegnazione, ove possibile, in camere e reparti adeguati” e la possibilità di “accesso ai canali di informazione bibliografica, di elaborazione e calcolo che si rivelino utili ai fini della predisposizione della tesi finale”. La Conferenza nazionale dei poli universitari penitenziari (Cnupp) ha censito nei tre atenei di Roma - Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre - 231 studenti per l’anno accademico 2023-2024. La Sapienza ne conta 53. I poli servono diversi penitenziari di Lazio, Abruzzo e Molise, fino alla Campania. Le attività del polo della Sapienza sono iniziate nel 2021, in attuazione di un protocollo d’intesa siglato nel settembre 2019 tra il Dap e la Cnupp. Con il rinnovo, le attività proseguono fino all’anno accademico 2026-2027. Ad oggi, la Conferenza conta oltre 40 atenei che erogano offerte didattiche per i detenuti. Pavia. Quattro lezioni di filosofia per i detenuti di M. Grazia Piccaluga La Provincia Pavese, 18 gennaio 2025 È partito ieri il progetto di Gianni Francioni e Costantino Leanti a Torre del Gallo: “L’uomo non è il suo delitto”. Milano 1764. Il giovane filosofo illuminista Cesare Beccaria fa appello a una “giustizia giusta”. Sono trascorsi più di due secoli e mezzo il quadro della giustizia italiana è invece ancora più fosco. La battaglia del sociologo ed ex parlamentare Luigi Manconi per “un atto di clemenza nelle carceri” stenta a decollare. “Si ha la sensazione di un imbarbarimento della società, si è perso il rispetto e la gente pare incattivita soprattutto verso i più deboli: i migranti e i detenuti” riflette Gianni Francioni, professore emerito di Storia della Filosofia, tra i maggiori esperti dell’Illuminismo lombardo e autore di numerosi contributi tra cui La prima redazione del “Dei delitti e delle pene” nel 1981. Ed è proprio da qui, dal celebre trattato di Beccaria, che Francioni ha pensato di partire nel costruire, insieme a Costantino Leanti, un primo ciclo di incontri per i detenuti della casa circondariale di Torre del Gallo: quattro lezioni, da gennaio ad aprile, sui libri più importanti della filosofia. La rassegna si intitola I filosofi raccontati e prende avvio oggi in carcere a Pavia: Beccaria, Gramsci, Platone e Avicenna. Alla proposta di Francioni hanno subito aderito altri studiosi: Giuseppe Cospito, Federico Casella e Tommaso Alpina. “Le lezioni sono rivolte ai detenuti e pensate per loro con un linguaggio semplice - spiega Francioni - Teniamo anche conto del fatto che un buon numero di ascoltatori sarà costituito da extracomunitari che devono superare anche la barriera linguistica”. Serve un cambio culturale - Lo scopo, condiviso con la direzione della casa circondariale che ha dato grande disponibilità, è “far loro conoscere libri che nella vita possono servire - spiega il filosofo - ma anche dimostrare che c’è, su alcuni temi sensibili, una cultura, una letteratura che aveva fornito degli strumenti. Invece oggi i governi sembrano andare nella direzione opposta”. La filosofia per stimolare il pensiero critico, la consapevolezza. E diversi studenti-detenuti a Pavia si sono anche laureati in questa disciplina di recente. “C’è un crescente imbarbarimento della società. Ma i diritti non vanno negati” - Moderno ma dimenticato. Beccaria costruiva il suo trattato su pilastri che, oggi, si pensa debbano essere scontati: l’abolizione della tortura giudiziaria e della pena di morte, la presunzione dell’innocenza, leggi chiare e semplici, il ricorso alla carcerazione preventiva solo per il tempo necessario a istruire il processo, la rapidità dei giudizi e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. “L’uomo non è il suo delitto - chiarisce Francioni - Non si possono negare l’identità e la dignità di una persona. Chi delinque va punito, ma resta un cittadino che ha dei diritti. Purtroppo abbiamo perso quello che la cultura moderna aveva conquistato con l’Illuminismo”. Invece le carceri sono sovraffollate, “come possono stare dignitosamente cinque persone in una piccola cella? - incalza Francioni - C’è un accanimento fisico in questo. I processi durano un tempo infinito e i giovani si mettono una corda attorno al collo perché non reggono di fronte a un futuro nebuloso. Stanno aumentando i suicidi. In Italia ci sono 20 detenute con i figli piccoli, che reato hanno commesso questi ultimi? C’è forse un’insensibilità politica ma non può essercene una culturale”. Forlì. Il dentista dei detenuti va in pensione dopo 41 anni di Davide Soattin Corriere di Bologna, 18 gennaio 2025 “I primi denti tolti in uno sgabuzzino senza badare alle cure: avevo un agente come assistente”. Enrico Agostini, 69 anni, lascia il carcere di Forlì dove è stato in servizio dal 1983: “Quando ho cominciato lavoravo con una poltrona da barbiere anni 50. Ho salutato i carcerati con un verso di Dante”. I versi del ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante come “monito” ai pazienti che saranno assistiti da chi verrà dopo di lui. È così che il dentista 69enne Enrico Agostini, lo scorso 31 dicembre, ha salutato il carcere di Forlì, andando in pensione dopo quarantuno anni di servizio dentro al penitenziario romagnolo. Il medico comunque continuerà a operare nello suo studio professionale privato a Meldola, dove abita. Quanto le dispiace dover lasciare dopo 41 anni di servizio? “Molto. Sono molto dispiaciuto. Quarantuno anni sono una vita. Tutto è iniziato nel maggio 1983. È inutile dire che ho tanti bei ricordi”. In che modo è iniziata la sua storia dentro al carcere? “Ci sono arrivato nelle vesti di tirocinante. Lo ero al servizio Odontoiatria dell’ospedale “Morgagni-Pierantoni” di Forlì e, mentre ero lì, ci dissero che si era liberato un posto in carcere. Eravamo io e un altro collega, che però era di San Mauro Pascoli, e quindi, a causa della distanza, rifiutò. Accettai pensando che si sarebbe trattato di qualche mese oppure di qualche anno. E invece ci sono rimasto una vita”. Se lo ricorda il primo giorno? “Sì. Me lo ricordo bene perché all’epoca c’era un direttore di origini calabresi che, quando arrivai, mi disse ‘dottore, lei scippi, scippi’. Inizialmente non capivo cosa volesse dirmi. Poi scoprii che ‘scippare’ in dialetto calabrese voleva dire togliere. Insomma, voleva dirmi di fare le estrazioni che erano necessarie, senza badare alle cure”. Quali difficoltà ha incontrato in questi anni? “Inizialmente operative. Quando iniziai, lavoravo in uno sgabuzzino in cui era stata messa una poltrona da barbiere anni Cinquanta. Come assistente avevo un agente penitenziario e operavo col minimo indispensabile. Da circa venti anni, invece, abbiamo attrezzature molto più congrue e, oltre alle estrazioni, abbiamo anche iniziato a fare le cure. Oggi però c’è un altro tipo di difficoltà, quella linguistica. Negli anni Ottanta, i detenuti erano nove italiani e uno straniero. Ora è il contrario. L’importante è comunque approcciarsi in maniera giusta e adeguata. Poi il resto viene da sé”. Differenze ce ne sono tra i pazienti che assiste nel suo studio e quelli in carcere? “Teoricamente non dovrebbero esserci. Si cerca sempre di guardare non il detenuto, ma il paziente. Poi, ovviamente, succedeva che si veniva a conoscenza per vie traverse del reato commesso da questo o quel detenuto e si rimaneva un po’ lì. Ma non ci sono mai stati dei problemi. Anche perché nel carcere di Forlì ci sono prevalentemente persone in attesa di giudizio e quindi tutto è ancora da verificare”. Quale insegnamento si porta dietro come bagaglio dopo questi anni? “Sicuramente la sofferenza di queste persone, che alla fine ti segna. Che siano colpevoli o non lo siano, soffrono per la loro libertà, che è un qualcosa di importante. Ti rimane dentro tutto ciò”. Un ricordo particolare? “Avevo come paziente una detenuta accusata di omicidio, a cui, in un primo momento, era difficile approcciarsi. Poi piano piano si sciolse e mi regalò un disegno, che mi è rimasto impresso, raffigurante un branco di lupi. Mi fece capire tante cose. Ancora oggi è nello studio dentistico in carcere. Ho voluto lasciarlo lì perché credo non sia solo per me, ma per tutti quelli che passeranno”. Quale messaggio lascia ai detenuti e a chi verrà dopo di lei? “Ho lasciato un bigliettino con scritto ‘Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza’. Sta a significare che dentro di noi, qualcosa di buono lo abbiamo sempre. E io sono convinto che loro qualcosa di buono possono farlo”. Firenze. Calcio, nasce la “Solliccianese”: la squadra dei detenuti giocherà in un campionato Uisp di David Allegranti La Nazione, 18 gennaio 2025 L’iniziativa presentata nell’ambito di “UsciRAI giocando”, che ha visto confrontarsi la squadra degli stessi giornalisti della redazione Rai della Toscana contro la squadra coordinata da Uisp Firenze che schierava una selezione dei detenuti dell’istituto di pena. Nasce ufficialmente la squadra di calcio dei detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano: si chiamerà Solliccianese e dovrebbe partecipare a un vero e proprio campionato Uisp che comincerà a settembre. L’occasione per la presentazione della Solliccianese è stata data da “UsciRAI giocando” l’evento calcistico all’interno dell’istituto di pena carceraria di Sollicciano, fortemente voluto da Uisp Firenze e TGR Toscana, la redazione regionale della Rai, che ha visto confrontarsi la squadra degli stessi giornalisti della redazione Rai della Toscana contro la squadra coordinata da Uisp Firenze che schierava una selezione dei detenuti dell’istituto di pena. Tante le personalità intervenute all’iniziativa che è stata preceduta da una tavola rotonda con le riflessioni dei presenti che ne ha spiegato la finalità. Alessandro Ferrari, direttore generale della Fiorentina che ha donato il pallone autografato dai giocatori della rosa della prima squadra. Per la cronaca la partita è terminata 5-3 per la Solliccianese ma va detto che la squadra dei giornalisti già nel corso del primo tempo è stata rinforzata da atleti del team avversario, e questo a sottolineare con ancora più forza il valore simbolico e sociale dell’iniziativa. Durante la gara cronaca in diretta a cura di Sara Meini, radiocronista di “Tutto il calcio Minuto per Minuto”, e Katia Serra, commentatrice tecnica Rai oltre che scrittrice, che era stata seconda voce in telecronaca anche della finale dell’Europeo vinto dall’Italia a Wembley. La squadra dei detenuti della struttura carceraria di Sollicciano è nata nell’ambito di un progetto portato avanti da circa 15 anni da Uisp Firenze e finanziato dal Comune di Firenze, ex progetto Sport e Libertà. “Vogliamo dare a questi ragazzi - spiega Marco Ceccantini, presidente di Uisp Firenze - la possibilità di disputare un vero e proprio campionato portando a giocare all’interno del carcere le squadre iscritte ai campionati Uisp. La valenza educativa è importante: l’entrare in contatto anche col mondo esterno attraverso lo sport significa per i detenuti la possibilità e la necessità di imparare a rispettare le regole, il rispetto per gli avversari e per i compagni. Il tutto per favorire il progetto di riabilitazione, che poi, come abbiamo detto anche in altre occasioni, è e deve essere il vero scopo del carcere”. Meno poteri ai pm. Un appello da sinistra di Carlo Nordio e Giuliano Pisapia Il Foglio, 18 gennaio 2025 “Sbaglia chi sostiene che l’obiettivo della separazione delle carriere sia indebolire l’indipendenza della magistratura”. Il libro di Giuliano Pisapia, in dialogo con Carlo Nordio. Pubblichiamo l’estratto di un capitolo scritto nel 2009 da Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, e Giuliano Pisapia, avvocato, ex sindaco di Milano, ex parlamentare di Rifondazione comunista ed ex europarlamentare del Pd. Il libro si chiama “In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili” (edizioni Guerini e Associati). Carlo Nordio. I magistrati sono terrorizzati dal sospetto che la separazione delle carriere sia l’anticamera della soggezione del pm al potere esecutivo. In teoria questo timore è infondato, perché non vi è alcuna consequenzialità logica tra le due proposizioni. I pubblici ministeri possono benissimo essere svincolati dai giudici e godere lo stesso di indipendenza, così come i giudici possono essere separati dai pm pur essendo di nomina squisitamente politica, come lo sono i membri della Corte suprema americana, chiamati dal Presidente. In realtà il timore è reale - o è vissuto come reale -, perché la necessità della separazione non è mai stata prospettata nei suoi razionali termini sistematici, come naturale attributo del processo accusatorio, ma è sempre stata evocata in occasione di processi ad alta valenza politica. Se a questa significativa coincidenza si aggiungono le aggressioni che, nella sostanza e nella forma, la magistratura ha subito negli ultimi anni, è logico che anche le sue componenti meno aggressive e più disponibili al dialogo abbiano sentito puzza di bruciato. Ritengo che sia stata colpevole miopia non comprendere che, su argomenti così delicati, si deve dialogare in punta di fioretto e non entrare con la clava nella cristalleria. Detto questo, aggiungo che sono stato uno dei primi magistrati a pronunciarmi a favore della separazione delle carriere. Dico a pronunciarmi, perché molti colleghi condividono la mia opinione, ma esitano a manifestarla per paura di esser fulminati dai vertici dell’Associazione, che a sua volta governa il Csm. Noi siamo molto indipendenti, coraggiosi e polemici verso il potere politico, semplicemente perché non può farci nulla. Ma siamo timidi e verecondi davanti al Csm, che ha in pugno le nostre promozioni, i trasferimenti, e i destini disciplinari. Dato che ritengo di avere buone credenziali di dissidenza anticorporativa, posso dire che oggi la separazione delle carriere è in realtà un problema secondario, che non merita di invelenire ulteriormente i rapporti tra Parlamento, avvocati e magistrati. Questo perché l’urgenza più immediata è ridare alla giustizia un minimo di efficienza, prima ancora di realizzare la parità tra le parti processuali. Mi spiego meglio. L’efficienza della giustizia è, sotto il profilo logico, prioritaria rispetto alla sua equità. Una giustizia efficiente può anche essere ingiusta, come hanno dimostrato i regimi assoluti; ma una giustizia inefficiente è sempre ingiusta, come qui abbiamo ripetutamente dimostrato. Quindi, l’efficienza è condizione necessaria, anche se non sufficiente, a una giustizia giusta. Orbene, la separazione delle carriere non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con il funzionamento celere e incisivo della macchina giudiziaria. Giuliano Pisapia. Le riconosco il coraggio di aver ammesso, da magistrato, come dietro la chiusura della sua categoria alla separazione delle carriere ci siano anche questioni di vantaggi pratici, non solo granitiche convinzioni ideali. E anch’io le confesserò qualcosa. Da uomo politicamente schierato, so che è stata proprio la mia posizione su quest’argomento a spingere le correnti “di sinistra” della magistratura, soprattutto a livello di vertice, ad attaccarmi politicamente e ad accusarmi di fare “il gioco del nemico”. Non per questo, ovviamente, ho cambiato opinione, convinto come sono che la qualità e l’equità di qualsiasi processo presupponga necessariamente la terzietà del giudice. La separazione delle carriere (chiamiamola anche in altro modo, l’importante è il risultato) è necessaria anche per creare una maggiore fiducia dei cittadini nelle decisioni di chi ha il difficile, e delicato, compito di giudicare altri uomini, perché “la moglie di Cesare deve anche apparire, oltre che essere, al di sopra di ogni sospetto”. E anche un bambino capisce che l’arbitro non può una volta indossare la casacca nera e l’altra la divisa del giocatore. La questione dovrebbe essere evidente per chi non guardi attraverso lenti deformanti ed è anche dannatamente seria e sostanziale, in quanto investe aspetti che vanno dalla parità delle parti alla separazione dei poteri. Se il giudice ha il potere-dovere di giudicare; se il pubblico ministero ha il potere-dovere di svolgere indagini e (se ve ne sono i presupposti) sostenere l’accusa nel processo, non può che derivarne, conseguentemente, che chi ha il compito di accusare non può avere anche quello di giudicare. Non dubito dell’onestà intellettuale e della soggettiva imparzialità dei singoli giudici; il fatto è che solo l’effettiva terzietà di chi deve decidere tra tesi diverse, e spesso contrapposte, può dare ai cittadini la necessaria fiducia che chi giudica sia effettivamente al di sopra delle parti. Voci autorevoli nei lavori della Costituente hanno sostenuto questa tesi, condivisa, in tempi non sospetti, da giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia non solo nel nostro Paese. Da Montesquieu - che considerava un vero e proprio abuso il fatto che gli stessi soggetti potessero essere juge et accusateur - a Tocqueville, fino a Calamandrei, il quale riteneva necessario evitare “un pubblico ministero totalmente privo di controllo”. Anche Giovanni Falcone ha riconosciuto che, siccome il nuovo Codice (quello che chiamiamo ancora nuovo, anche se ha vent’anni) attribuiva un ruolo di parte al pm, sarebbe stato necessario adattarsi “al nuovo ruolo di non giudice”. Consapevole delle difficoltà, sosteneva comunque che “bisogna arrivare” alla separazione delle carriere, perché “la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni, e quindi le attitudini, l’habitus mentale, e le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi”. Cito ancora Giovanni Falcone: “Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura”. Tra i tanti giuristi autorevoli che si sono espressi a favore della separazione delle carriere voglio ricordare Giuliano Vassalli, partigiano durante la Resistenza, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale e Giovanni Conso, già vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale e attualmente presidente dell’Accademia dei Lincei. Recentemente ha preso posizione a favore della separazione delle carriere l’Associazione tra gli studiosi del processo penale, che riunisce i professori ordinari di procedura penale. Potrei continuare, ma è indispensabile fare chiarezza: separazione delle carriere non significa affatto dipendenza del pm dall’esecutivo. Anzi chi è per la separazione delle carriere sarebbe tra i primi a contrastare qualsiasi tentativo di limitare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura. Ecco perché sbaglia, o non conosce la materia, chi sostiene che l’obiettivo sia quello di indebolire, se non addirittura cancellare, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; mentre è in mala fede chi fa risalire tale proposta a Licio Gelli o alla P2, accusando gli attuali sostenitori della separazione delle carriere di portare avanti il programma della loggia massonica segreta. Da uomo di sinistra mi è difficile capire perché si è lasciata al centrodestra una simile battaglia, sostenuta, in passato, dai più autorevoli giuristi democratici. La parità delle parti, il diritto di difesa, il diritto a un giudizio equo sono state da sempre bandiere, oggi purtroppo spesso ammainate, della sinistra. È ora di uscire dalla logica delle contrapposizioni frontali che impediscono qualsiasi cambiamento e di guardare con metodo laico anche a quanto avviene all’estero: in Spagna e in Portogallo le carriere di giudici e inquirenti sono separate e chi conosce quella realtà sa bene che la giustizia funziona meglio che da noi; in Germania, la formazione di giudici, pubblici ministeri e avvocati è unica, la separazione avviene quando si incominciano ad esercitare le diverse funzioni: eppure il funzionamento della giustizia in quel Paese è, sempre di più, preso come esempio da molti. Piuttosto, è incontestabile che la separazione delle carriere è uno dei presupposti della parità delle parti, sancita dall’art. 111 della Costituzione. Solo un giudice equidistante può garantire un reale contraddittorio e verificare, senza pregiudizi, la validità della diverse tesi prospettate dall’accusa e dalla difesa. Una soluzione potrebbe essere quella di una formazione comune, post-laurea, per chi intende entrare in magistratura oppure esercitare la professione di avvocato. Una formazione comune sarebbe preziosa, indipendentemente dalla strada che poi si sceglierà, e sarebbe anche utile a indirizzare chi ancora non ha fatto una precisa scelta. Ma, poi, le strade debbono separarsi, le carriere anche. Non è possibile che chi giudica sia collega di una delle due parti che si confrontano e si scontrano nel processo. Diversi sono i ruoli, diversa la professionalità. (…) Quelli che potrebbero fare qualche cosa - i giuristi, gli avvocati e i magistrati che non difendono interessi corporativi, i parlamentari che non sono succubi di Berlusconi o quelli che, al contrario, non hanno costruito sull’antiberlusconismo la loro carriera politica - devono abbandonare la rigidità delle rispettive posizioni e aprirsi al dialogo. Devono uscire da una logica che li rende impermeabili a qualsiasi positiva proposta concreta, prigionieri del pregiudizio per cui, se la proposta proviene da destra accettarla vuol dire prepararsi all’”inciucio” e, se viene da sinistra, è considerata minata alle fondamenta dall’obiettivo di far fuori per via giudiziaria il capo del governo. Bisogna dirlo con chiarezza: la giustizia non è né dei magistrati, né degli avvocati; né di destra né di sinistra, anche se, spesso, magistrati e avvocati, destra e sinistra propongono ricette profondamente diverse. Eppure sono convinto, anche sulla base della mia esperienza, che vi sono riforme sulle quali è possibile trovare un ampio consenso se si riuscirà a emarginare chi strumentalizza la giustizia per fini che, con la giustizia, nulla hanno a che vedere. So bene che la strada è stretta. Ma se ci si mettesse intorno a un tavolo, isolando sia chi usa il Parlamento per fini personali, sia chi urla, strepita, insulta, ma nulla fa di concreto, molte di queste riforme potrebbero diventare realtà. Certo, per poterci arrivare bisogna essere capaci di fare alcuni passi indietro rispetto a proprie posizioni sclerotizzate e cercare, nelle proposte di altri, spunti che si possano condividere. Un solo paletto deve essere posto come condizione irrinunciabile: nessuna legge per favorire qualcuno, tutte le leggi nell’interesse dei cittadini. La “prima lezione sulla giustizia penale” di Giostra è una lezione sul diritto di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 18 gennaio 2025 Laterza ripubblica il volume del giurista, processual-penalista emerito da sempre attento ai nessi che corrono fra le norme del rito e l’evoluzione della modernità. Occorre avere una encomiabile forza morale ed una misteriosa virtù per coltivare nei tempi correnti l’arte del giurista. Per credere che, nell’epoca della disintermediazione e del farsi giustizia da sé, regole, procedure e principi possano essere ancora il viatico del buon cittadino. Che quello processuale possa essere l’orizzonte condiviso e rassicurante della polis posta davanti al dramma del delitto. Lo fa Glauco Giostra, processual-penalista emerito, da sempre attento ai nessi che corrono fra le norme del rito e l’evoluzione della modernità, il quale pubblica per Laterza una seconda edizione della sua “Prima lezione sulla giustizia penale”. Una pretesa, quella di proporre anche al grande pubblico gli strumenti del processo penale, apparentemente velleitaria, in un contesto nel quale sembra essersi dissolta quell’alleanza necessaria fra legge e pulsione che costituisce la base stipulativa della nostra stessa convivenza civile. Quell’ “animale privo di istinto” e conseguentemente “aperto al mondo”, che è l’essere umano - come lo definisce Arnold Gehlen - è mosso, per sopravvivere, da una brama di tessere regole ed istituti. Diviene un facitore di norme, che sa di poter violare tanto quanto di voler osservare. Ogni legge sa di nascere al tempo stesso dalle aspirazioni della ragione e dal fondo oscuro di una pulsione: la sua forza si basa su quell’equilibrio precario. Nel volgere di una generazione, la fiducia nelle norme può declinare nel suo contrario. E mai come ora la crisi della giustizia penale e delle norme che la regolano fa sentire i suoi effetti sulla tenuta delle nostre democrazie. La disintermediazione populista ha spazzato via, non solo gli strumenti tecnici del sapere giudiziario - come inutili intralci al sapere istintivo del popolo e al suo sentimento di giustizia - ma anche il valore del processo. Le regole della conoscenza del giudice sono oramai decadute a vezzi illuministici e sono intese come inauditi e insopportabili vantaggi garantisitici offerti ai malandrini. È dunque questo lo straordinario valore politico, oltre che culturale, del testo, quello di saper recuperare la necessità controintuitiva delle regole ai fini di giustizia, ribaltando l’idea che ciò che è intuitivo è corretto. Fondamentali, dunque, le pagine sul valore epistemologico del contraddittorio, che nonostante i suoi limiti e i suoi possibili sviamenti resta antidoto ineguagliabile all’arbitrio dell’inquisitorio. E di particolare interesse le riflessioni su quella “scelta epistemologicamente rivoluzionaria” che segnò il passaggio, con il nuovo codice del 1988, al modello accusatorio nella formazione della prova e sulle inevitabili resistenze, interne al sintema, che condussero alla costituzionalizzazione di quel modello con la riforma dell’art. 111 Cost. Perno fondamentale di ogni futura riforma. Nel lungo percorso che va dalle indagini preliminari, alle impugnazioni e alla formazione del giudicato, sono da approfondire con interesse, per la loro connessione ai più controversi profili dell’attualità, le pagine sulla “giustizia nello specchio deformante dei media”, che “non si limita a riflettere le vicende processuali raccontate” ma troppo spesso ne rimanda una “immagine distorta”. “L’attenzione dei media - ricorda l’Autore - puntata soltanto sui primi atti del procedimento finisce con il caricarli di un significato probatorio ‘improprio’ e di un’attendibilità che non dovrebbero avere”. Non solo questo meccanismo compromette la cosiddetta verginità cognitiva del futuro giudice, ma condiziona anche, di fatto, gli equilibri complessivi della giurisdizione. Si tratta di temi il cui sviluppo lascia inevitabilmente aperte le domande su come sia possibile che “la giustizia penale sia assistita sì dalla pubblicità, ma anche protetta dai suoi effetti perversi e distorsivi” (“divieto di pubblicazione e diritto di cronaca”) e come si possa infine “riattivare”, nell’ambito del processo penale, quel “moto circolare che esprime la vitalità democratica e civile di un Paese”. Ne esce un quadro inevitabilmente critico sullo stato attuale del nostro processo penale, ma anche una riflessione che ci riconduce alla premessa circa la necessità di tornare a credere nelle regole del giudizio e nella forza che spontaneamente le porterà a riguadagnare il terreno perduto, perché come ricorda Glauco Giostra, il processo penale, con le sue regole apparentemente lontane e oscure, è l’unico strumento che abbiamo per salvaguardare le nostre vite da “quell’intollerabile realtà di soprusi, di discriminazioni, di repressione del dissenso, di emarginazione di minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, di repressione rivoluzionaria che, troppo spesso, in tutte le epoche della storia, e a tutte le latitudini della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia”. *Presidente Ucpi Il referendum sulla cittadinanza è ammissibile: la decisione della Consulta per una battaglia di civiltà di Gianfranco Schiavone L’Unità, 18 gennaio 2025 Lunedì la Corte valuterà la proposta sul dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di cittadinanza degli stranieri extra Ue. Iniziativa di enorme importanza e giuridicamente del tutto fondata. Il 20 gennaio 2025 la Corte Costituzionale deciderà in merito all’ammissibilità della proposta di referendum sul “dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana” promosso da una vasta rete di organizzazioni della società civile e che ha raccolto in poche settimane 637mila firme. Si tratta di una proposta di referendum di enorme importanza per il nostro Paese per le ragioni che avevo già espresso su queste pagine il 18 settembre 2024; la stessa natura democratica di uno Stato viene compromessa se una parte cospicua della popolazione che in tale Stato vive stabilmente contribuendo alla sua crescita economica, sociale e culturale, non gode dello stesso trattamento degli altri cittadini anche sotto il profilo dell’accesso ai diritti politici. Ritengo sia questo il caso attuale dell’Italia che negli ultimi decenni è diventata Paese di immigrazione, con oltre 5 milioni di stranieri legalmente residenti, molti dei quali nati in Italia, a cui però la vigente legge sulla cittadinanza italiana ostacola il diritto a partecipare pienamente alla vita pubblica prevedendo tempi irragionevolmente lunghi per la concessione della cittadinanza per “naturalizzazione”, ovvero per lunga permanenza ed inserimento sociale nella comunità nazionale. Prescindendo comunque da ogni altra considerazione sul valore del quesito referendario mi permetto di evidenziare di seguito alcune delle ragioni giuridiche che a mio modesto parere rendono il quesito referendario perfettamente ammissibile da parte della Corte Costituzionale. Innanzitutto è pacifico che l’oggetto del referendum, ovvero l’abbreviazione dei tempi di concessione della cittadinanza per naturalizzazione costituisca un’espressione della sovranità statale senza che intervenga sul punto alcun vincolo derivante dall’ordinamento internazionale o dal diritto dell’Unione Europea (diversamente il referendum non sarebbe ammissibile). I quesiti referendari sono, come noto, due: il primo contiene una richiesta di abrogazione totale della lett. f) del comma 1 della L. 5.2.1992 n. 91 che prevede che siano decorsi 10 anni di residenza legale in Italia per inoltrare la richiesta di concessione della cittadinanza italiana ai cittadini di Stati non appartenenti all’UE. Il secondo quesito contiene la richiesta di abrogazione parziale della lett. b) del medesimo comma 1 in modo tale che il requisito dei cinque anni di residenza legale in Italia per presentare richiesta di naturalizzazione ricomprenda tutti i cittadini maggiorenni di Stati non appartenenti all’UE, e non solo coloro che sono stati adottati da cittadini italiani. I due quesiti sono strettamente connessi tra di loro, e sono pienamente rispondenti al requisito della giurisprudenza costituzionale che impone piena non ambiguità al quesito in modo che il corpo elettorale abbia “la possibilità di una scelta chiara” (sent. n. 39/1997). In caso di vittoria del referendum la nuova disposizione normativa che ne scaturirebbe è infatti immediatamente auto applicativa, ovvero non si crea alcun vuoto normativo nella materia della cittadinanza. La giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dello strumento referendario ha sempre evidenziato come “abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente” (sent. n. 15/2008) ed è pacificamente ammissibile un quesito referendario la cui approvazione abbia “come effetto naturale e spontaneo la ricomposizione del tessuto normativo rimanente” (sent. n. 15/2008). Il quesito referendario non mira affatto ad introdurre nell’ordinamento una normativa estranea al presente tessuto normativo (ciò sarebbe in contrasto con la inderogabile natura abrogativa del referendum nell’ordinamento giuridico italiano) bensì la normativa sulla cittadinanza che deriverebbe dalla vittoria referendaria non farebbe altro che inserirsi pienamente nel perimetro di scelte già operate dal legislatore attraverso una sorta di ri-espansione di una disposizione (quella sugli anni necessari ad accedere alla procedura di naturalizzazione) che è già presente nell’ordinamento ma la cui applicazione è stata limitata solo ad alcune categorie di persone; già oggi, infatti, la legge prevede il diritto di chiedere la naturalizzazione dopo cinque anni di residenza per i maggiorenni adottati da cittadini italiani, per i titolari dello status di rifugiato e per gli apolidi, oltre a prevedere il termine di quattro anni per i cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea. In un Paese dalla scarsa memoria storica come l’Italia sono molti coloro che dimenticano (o fingono di farlo) che il periodo di cinque anni di residenza per chiedere la naturalizzazione da parte del cittadino straniero è stato per lunghissimo tempo il termine ordinario previsto dall’ordinamento per tutti gli stranieri; per la precisione così è stato dal lontano 1912 fino al 1992 (oltre 80 anni) quando, con scelta assai criticabile, la l. 91/92 operò una differenziazione tra categorie di stranieri. Attraverso l’abrogazione parziale voluta dal quesito referendario verrebbe ristabilita parità di trattamento senza alcun pregiudizio nei confronti di quelle categorie di stranieri non cittadini di uno Stato UE per i quali tale termine è già valido oggi. La fondatezza della tesi che la modifica voluta dal quesito referendario non determina alcun assetto normativo radicalmente nuovo emerge anche dal fatto che tutti gli altri profili e requisiti previsti dalla legge vigente connessi all’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione non sono affatto oggetto del quesito referendario; in particolare la natura concessoria del procedimento, le condizioni e i requisiti necessari (reddituali, di conoscenza della lingua italiana, di assenza di precedenti penali ostativi, adempimento degli obblighi fiscali). Ritornando ora in conclusione ad una personale valutazione sul valore di questo referendum, evidenzio come portando a cinque anni il periodo richiesto per attivare la procedura di concessione della cittadinanza per i cittadini di Stati non appartenenti alla UE l’Italia si allineerebbe a quanto oggi già previsto nei paesi europei più aperti e dinamici come la Francia, la Germania, il Regno Unito (quando già faceva parte dell’UE) il Belgio, i Paesi Bassi, il Portogallo, il Lussemburgo, la Svezia. La modifica normativa permetterebbe anche di superare in gran parte il viziato dibattito sulla concessione della cittadinanza ai minori figli di stranieri, ma la cui vita è profondamente radicata in Italia (quasi 900.000 sono gli studenti stranieri nelle nostre scuole, nonostante il 65% di loro sia nato in Italia secondo i dati del Ministero dell’Istruzione). Per effetto della velocizzazione dell’acquisizione della cittadinanza ottenuta dai loro genitori in tempi più brevi, se il quesito referendario vincerà, tanti minori, oggi forzatamente stranieri, diventerebbero automaticamente italiani come è giusto (ed utile al Paese) che sia. Studenti “stranieri”: si può (e si deve evitare) il rischio marginalità di Maurizio Ambrosini Avvenire, 18 gennaio 2025 Stanno formandosi anche in Italia le banlieue abitate da una popolazione di giovani di origine immigrata emarginati e ribelli? Un brivido sta facendo fibrillare le cronache e inquieta l’opinione pubblica in questo inizio del 2025: stanno formandosi anche in Italia delle banlieues abitate da una popolazione di giovani di origine immigrata emarginati e ribelli? Dal caso Ramy alla cosiddetta “gang dei Navigli” sale l’allarme per furti, scippi, risse, atti di vandalismo. Si sta imponendo persino un neologismo, non esattamente benevolo, per etichettare i nuovi protagonisti negativi delle notti metropolitane: i “maranza”. Il punto da cui partire è che un patto d’integrazione subalterna è stato sostanzialmente accettato dai genitori immigrati, ma va stretto a molti dei loro figli. I genitori hanno sopportato un inserimento lavorativo nei livelli più bassi del mercato del lavoro (2,4 milioni di occupati regolari), come addetti - quasi sempre - a lavori manuali con scarse opportunità di avanzamento. I figli invece, cresciuti in Italia, tendono ad assumere i gusti e le aspirazioni dei loro coetanei di origine italiana. Serpeggia fra loro non una mancanza d’integrazione ma un’integrazione illusoria: molto avanzata negli stili di vita e di consumo, ma non sostenuta da risorse adeguate. A livello urbano, confinati nei quartieri poveri, in abitazioni anguste e di bassa qualità, vedono le vetrine scintillanti del centro città come una fiera dei desideri che difficilmente potranno realizzare. Milano è l’esempio paradigmatico di città disuguale: è la città italiana con le più marcate differenze di reddito tra quartieri benestanti e quartieri marginali. Qualche dato relativo alla scuola può illustrare la portata del problema. Dei 915.000 ragazzi con cittadinanza non italiana (2022-2023) quasi i due terzi sono nati qui (65,4%). Questo fatto ha migliorato i risultati scolastici, ma persistono seri problemi. Nella secondaria di secondo grado gli studenti “stranieri” in ritardo sono il 48,0%, contro il 16,0% per gli “italiani”. Fino a 16 anni rimangono a scuola (94%), ma poi crescono gli abbandoni. Nell’ultimo biennio scendono al 74,8%, contro 81,6% per gli studenti “italiani”. I maschi incontrano maggiori difficoltà: a 18 anni, il 59% è in ritardo scolastico, contro il 47,4% per le ragazze. Ne discende un preoccupante fenomeno: nel 2021-2022, gli “Elet” (Early Leaving from Education and Training, i ragazzi che abbandonano precocemente i percorsi scolastici e non si inseriscono nel lavoro) tra i giovani non italiani sono più di uno su tre: 35,4%, a fronte di una media nazionale del 13,1%, ed è il tasso il più alto in Europa. Da ultimo, persiste, pur calando, una canalizzazione nei rami meno prestigiosi dell’istruzione superiore: mentre tra gli studenti “italiani” uno su due frequenta un liceo, tra gli studenti “stranieri” il dato si colloca poco sopra il 30%, pur raggiungendo il 36,6% per i nati in Italia, il 43,2% per le ragazze, il 49,1% per le ragazze nate in Italia. I successi educativi non mancano: 28.300 hanno ottenuto il diploma di maturità nel 2021/2022, e il 38,5% è passato all’università. Si tratta però del 5% circa del totale dei diplomati, e il tasso di prosecuzione degli studi è decisamente inferiore a quello degli studenti “italiani”, che supera il 50%. Possiamo chiederci quali siano le possibili traiettorie di uscita dalla condizione di marginalità sociale in cui questi giovani rischiano di rimanere intrappolati. C’è il rischio che una frangia sperimenti una stentata sopravvivenza, tra lavori precari, devianza predatoria, ribellismo senza sbocchi. C’è l’alternativa dell’investimento educativo, con i dati che abbiamo ricordato. Ma va notato che circa il 20% degli italiani espatriati negli ultimi due anni sono naturalizzati: ex immigrati che cercano miglior fortuna all’estero grazie al passaporto italiano. Significa che qui non hanno trovato ciò che cercavano. Il governo sta preparando un nuovo pacchetto sicurezza, anche per rispondere al presunto rischio banlieues. Sia permesso di sognare, per rispondere davvero alla sfida che abbiamo davanti, di vedere prima o poi un serio dibattito su un ambizioso pacchetto integrazione. “Confusi e impauriti, i figli degli immigrati vogliono essere considerati italiani” di Micaela Romagnoli Corriere di Bologna, 18 gennaio 2025 Andrea Lado, docente di Lettere all’istituto tecnico Rosa Luxemburg, racconta i suoi studenti di seconda generazione: “Vivono un’ambivalenza. Guai disprezzarli, genera aggressività”. “Arrivano confusi, hanno paura di non essere accettati, di avere l’etichetta di cittadino straniero addosso, mentre loro vogliono essere considerati italiani. Per questo vanno ascoltati, rassicurati e non bastano le parole per farlo”. “Abbiamo un’alta concentrazione di ragazzi e ragazze nati in Italia con genitori stranieri, alcuni in questo Paese da talmente tanto tempo che potremmo quasi dire di terza generazione”. Parla di loro anche come tutor per il benessere scolastico, figura che la scuola di via della Volta ha introdotto da due anni. “Se un ragazzo sta bene a scuola, allora va bene a scuola e sta bene nella vita - spiega. Alcuni non stanno bene a scuola e non vedono l’ora di andare a lavorare, ma è una falsa dichiarazione, perché l’ambiente giusto per un adolescente è la scuola. Il benessere scolastico è dato dal fatto di trovarsi bene in classe, accettati, non discriminati e in caso di difficoltà, dal poter essere aiutati”. Come stanno questi ragazzi? “Si trovano spesso a vivere un’ambivalenza: in casa la cultura del Paese d’origine, anche nelle modalità educative, è ancora forte, c’è un aspetto conservatore; fuori vivono la società italiana e i suoi cambiamenti. Questo li rende confusi. In particolare, ci sono alcune etnie che tendono a stare isolate tra loro e quando cercano di integrarsi prevale una certa aggressività, come se la via giusta per essere accettati fosse quella di alzare la voce”. Quali disagi le riferiscono? Quali paure e fragilità? “La paura di non vivere un’adolescenza positiva, di non andare bene a scuola, di non avere un gruppo di amici, la paura dell’insuccesso, lo smarrimento di fronte al futuro. Conoscono le fatiche dei loro genitori, dovute a storie di immigrazione spesso difficili, temono di doverle ripetere, ritrovarsi a fare da grandi lavori impegnativi e poco gratificanti. Allora vanno incoraggiati. Li aiuto nel coordinare gli studi, nel farli studiare in gruppo. Un risultato scolastico positivo può dare loro sicurezza, farli sentire vincenti e quando accade decollano”. Nota aggressività? “Le persone che manifestano particolare aggressività o non vanno a scuola o ci vanno senza nessun risultato. Quando i ragazzi vengono ascoltati, invece, decresce l’aggressività. Un ragazzo arrabbiato, che arriva a usare la violenza, ha comunque del buono dentro di sé. E se si ha l’umiltà di accorgersene, di ascoltare, valorizzare quel che di buono emerge, dall’altra parte c’è stupore. Il disprezzo invece genera aggressività. Cerchiamo di lavorare molto sull’autostima”. Una storia di successo? “Ricordo bene un ragazzo moldavo, faceva danni in giro, convinto che comportandosi così sarebbe stato rispettato. Era molto in crisi, stava per ritirarsi, abbiamo lavorato tanto sul concetto di rispetto. Era sensibile e aveva una situazione familiare impegnativa, con il padre che gli aveva insegnato che scusarsi fosse da deboli. Abbiamo dovuto ribaltare questo concetto. Pian piano ha trovato fiducia in sé stesso, si è integrato con ragazzi di varie classi e ha iniziato a girare a testa alta a scuola, non più a testa bassa. Poi si è iscritto anche all’università”. Quanto c’è ancora da fare secondo lei? “Molto. Anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca, possono aumentare la paura e l’intolleranza. È una situazione da spezzare. Gran parte del nostro lavoro è proprio rivolto alla creazione di un’atmosfera di classe e poi di scuola, di scuola di vita. L’integrazione è la principale missione della scuola oggi. È un’urgenza. E l’ascolto è alla base. Giro molto nei corridoi, saluto, chiamo i ragazzi e le ragazze per nome, vanno valorizzati come persone. Questa è la via”. Venezuela. Cooperante italiano detenuto a Caracas, Tajani manda il console in visita al carcere di Eugenio Pendolini La Nuova Venezia, 18 gennaio 2025 La Farnesina applica la strategia usata in altri casi analoghi. Raccolte 17.500 firme per la liberazione del connazionale. Alberto Trentini voleva dimettersi dal lavoro nella Ong. La diplomazia si è messa in moto per ottenere, quanto prima, la liberazione di Alberto Trentini. La strategia della Farnesina per arrivare alla scarcerazione del 45enne cooperante veneziano, arrestato il 15 novembre scorso, è la stessa messa in campo nei recenti casi di Alessia Piperno e Cecilia Sala, entrambe detenute nel carcere di Evin a Teheran. L’auspicio è che, come per i casi della travel blogger e della giornalista, la soluzione possa arrivare in tempi rapidi. Anche se i rapporti ormai logori tra Venezuela e Italia, dopo il mancato riconoscimento della vittoria del presidente Maduro accusata di brogli elettorali, rendono la strada impervia. Il console in vista in carcere - Il 16 gennaio il ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, ha ufficialmente chiesto una visita consolare nel carcere dove è detenuto Trentini, così da poter monitorare da vicino le condizioni di prigionia e di salute. “L’Italia sta lavorando sin dall’arresto per la liberazione di Trentini”, le parole di Tajani alle agenzie durante un punto stampa alla Farnesina, “ci sono altri italo-venezuelani nelle carceri del Paese, otto in tutto”. Mercoledì 15, intanto, nell’incontro con l’incaricato d’affari di Caracas i rappresentanti della diplomazia italiano hanno ribadito “la richiesta di liberazione del nostro concittadino e di tutti gli altri prigionieri politici”: “Ci è stato confermato che è detenuto”, aggiunge il responsabile della Farnesina, “abbiamo chiesto che venga trattato nel rispetto delle regole e abbiamo chiesto una visita consolare. Lavoriamo in tutti i modi per venire a capo di questa situazione”. Governo al lavoro - Come già avvenuto nel caso della giornalista Cecilia Sala, il governo continua a lavorare sotto traccia “senza clamore e polemiche” per Alberto Trentini, “con la determinazione necessaria per raggiungere questo obiettivo, prima per verificare le condizioni di salute e poi fare in modo che possa essere liberato”: “Come abbiamo chiesto discrezione e moderazione per Piperno e Sala, la chiediamo anche per questo caso”, conclude Tajani. Con il passare delle ore, però, l’angoscia di familiari e conoscenti per l’incolumità del cooperante si fa sempre più insopportabile. Chiusi nel loro appartamento di Città Giardino, quartiere residenziale del Lido di Venezia, i genitori in questi giorni hanno ricevuto telefonate di vicinanza e solidarietà da parte della comunità isolana. Tajani sul caso Trentini: “Il Venezuela conferma che è detenuto” - Il ministro sul cooperante veneto che non dà notizie da due mesi: “Abbiamo chiesto che venga trattato nel rispetto delle regole. In questa fase chiediamo discrezione e moderazione, come è stato con Cecilia Sala” Firme per la liberazione - Nei social e su internet aumenta di giorni in giorno il numero di testimonianze a sostegno di Trentini, così come le firme (siamo a 17. 500) raccolte online dagli amici più stretti a favore della sua liberazione e gli appelli rilanciati, quotidianamente, dall’associazione Articolo 21. La speranza è che, una volta diventata di dominio pubblico, la vicenda possa sbrogliarsi in tempi rapidi. La cautela, però, è ancora indispensabile. E come suggerito dalla Farnesina, la famiglia (rappresentata dall’avvocato Alessandra Ballerini) continua a evitare di esporsi. Ufficialmente, del resto, nessuna comunicazione ufficiale né capo d’accusa è arrivata dalla Procura di Caracas. Il 45enne cooperante veneziano - con alle spalle anni di lavoro umanitario in giro per il mondo - si trovava in Venezuela dal 17 ottobre 2024 per una missione con la Ong francese Humanity e Inclusion, che si occupa di portare aiuti umanitari alle persone in situazioni di povertà, esclusione, conflitto e disastri. Fin da subito, aveva raccontato alla sua compagna di aver incontrato ostilità in ogni aeroporto quando viaggiava tra l’Amazzonia e Caracas. Un giorno prima dell’arresto, con un messaggio su WhatsApp, le aveva detto che intendeva dimettersi dalla ong per cui lavorava. Il giorno dopo, l’arresto a Guasdualito, al confine con la Colombia, nello stato meridionale di Apure, regione dalla quale provengono diversi detenuti stranieri che lavorano per ong accusati di essere spie o mercenari (tra cui un altro detenuto straniero del Danish Refugees Council, presso il quale Trentini aveva lavorato in passato). A nulla è valso il regolare permesso di lavoro umanitario di Trentini prodotto dalla ong Humanity and Inclusion.