Le carceri gridano. E l’unico sordo è il ministro Nordio di Franco Corleone L’Espresso, 17 gennaio 2025 Il Papa e Mattarella invocano azioni contro la catastrofe penitenziaria. Il Guardasigilli non batte un colpo. Il 2024 per il carcere si è confermato un anno orribile con il record di 89 detenuti suicidi e con il sovraffollamento che ha toccato le 63 mila presenze. Di fronte a questa catastrofe umanitaria, aggravata dalle scelte panpenalistiche del governo, si sono levate due voci autorevoli a denunciare le condizioni di vita inammissibili e a suggerire soluzioni coraggiose per la dignità dei reclusi: quelle di papa Francesco e del presidente Sergio Mattarella. Con la scelta di aprire la seconda Porta santa del Giubileo nel carcere di Rebibbia, il Papa ha colpito al cuore i sepolcri imbiancati dell’ipocrisia, gli uomini senza fede e senza religione laica. In tale straordinaria occasione ha rivolto un invito a farsi carico di una giustizia che non sia vendetta, ma sia aperta al cambiamento: occorre “essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, a partire dai detenuti che, “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Esplicita la sua proposta alla politica: nell’anno del Giubileo “si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Speranza, rispetto, condono: parole chiave decisamente controcorrente e assolutamente necessarie, se si vuole che le carceri cessino di essere lazzaretti e depositi di vite a perdere. Parole che ricordano e richiamano gli stessi concetti su cui insisteva il compianto cardinale Carlo Maria Martini, che aveva posto “il tema del superamento della centralità del carcere nell’ambito penale”, ripensando quest’istituzione totale nei suoi fondamenti e nelle sue finalità. Sino a esortare alla radicalità e al coraggio di “pensare a un’alternativa alla pena, non solo a pene alternative”. Da parte sua, nel messaggio di fine anno, il presidente della Repubblica ha invitato al rispetto della dignità (altra parola chiave) di ogni persona e dei suoi diritti, che valgono anche per chi si trova in carcere. Compreso il diritto a respirare che il sottosegretario Andrea Delmastro vorrebbe negargli. “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”, ha detto Mattarella, richiamando poi al “dovere di osservare la Costituzione, che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Insomma, anche senza richiamare espressamente lo strumento della clemenza, ha indicato l’urgenza di un superamento della realtà penitenziaria attuale, di un ammassamento dei corpi paragonabile alla tortura. A tali alte considerazioni ed esortazioni qualche, pur timido, riscontro è venuto dal vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, dal presidente del Cnel, Renato Brunetta, e dal presidente del Senato, Ignazio La Russa. Solo il Guardasigilli Carlo Nordio pare tetragono nella sordità in nome della ragion di Stato, forse perché troppo occupato a licenziare o a costringere alle dimissioni due capi del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in due anni. In questo 2025 auguriamoci di liberarci della sua presenza al ministero. Ci sarebbe un’esplosione di gioia nelle celle e davanti alle carceri. Carenze e squilibri territoriali, agenti ed educatori in affanno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2025 La condizione lavorativa del personale penitenziario, dagli agenti di polizia penitenziaria ai funzionari giuridico- pedagogici, è caratterizzata da un profondo squilibrio. Secondo un’accurata analisi di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, la carenza di personale e, soprattutto, la marcata disomogeneità tra le diverse carceri costituiscono un problema strutturale che incide negativamente sia sulle condizioni lavorative degli operatori sia sui percorsi di reinserimento sociale dei detenuti. Nel suo documento analitico, Nessuno Tocchi Caino evidenzia la particolare complessità del lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria, sottolineando come questi operatori siano sottoposti a condizioni lavorative caratterizzate da elevati livelli di stress e frequenti situazioni di pericolo. Gli agenti rappresentano l’unica figura professionale in costante contatto con una popolazione carceraria sempre più complessa, che include un numero crescente di detenuti con problematiche psichiatriche e dipendenze da sostanze stupefacenti. A differenza di altre figure professionali come educatori, psicologi, medici, assistenti sociali o mediatori culturali - che i detenuti incontrano solo sporadicamente - gli agenti costituiscono il punto di riferimento quotidiano per ogni necessità della vita carceraria. Le loro mansioni spaziano dalle più basilari esigenze dei detenuti - come l&# 39; accesso alle docce esterne alla cella o la fornitura di carta igienica - fino alla gestione di situazioni più complesse, come l’organizzazione di telefonate straordinarie o i contatti con gli avvocati. Sono loro a gestire l’apertura e la chiusura delle celle, a mediare nelle dispute tra detenuti e ad accompagnarli nelle varie attività, dalla scuola al lavoro, dall’ora d’aria alle attività sportive. Durante le numerose visite effettuate nelle carceri, Nessuno Tocchi Caino ha raccolto testimonianze allarmanti sulla carenza di personale. Particolarmente critica risulta la situazione dopo le 17, quando gli agenti rimangono l’unica presenza professionale nell’istituto fino al mattino seguente. Durante il turno notturno, non è infrequente che un singolo agente debba supervisionare tra i cento e i centocinquanta detenuti, distribuiti su più piani. D’altronde, i dati del Garante Nazionale delle persone private della libertà per il 2024 dipingono un quadro drammatico: gli agenti hanno dovuto gestire 5.532 atti di aggressione, 12.544 casi di autolesionismo, 14.509 emergenze con ricovero ospedaliero, 1.436 proteste collettive, 12.706 proteste individuali, 2.035 tentativi di suicidio e 2.098 aggressioni fisiche nei loro confronti. Il bilancio più tragico del 2024 riguarda i decessi: 246 morti tra i detenuti, di cui 89 suicidi - il numero più alto mai registrato - e 7 suicidi tra gli stessi agenti della polizia penitenziaria. Nessuno Tocchi Caino sottolinea come queste condizioni di lavoro “umilianti” degli agenti siano il riflesso di un sistema carcerario dove la condizione della popolazione detenuta è essa stessa “disumana, degradata e degradante”. Il decreto Nordio del 12 luglio 2023 stabilisce una dotazione organica di 37.389 agenti per i 189 istituti penitenziari italiani, ma la realtà è ben diversa. Al 31 dicembre 2024, le unità effettivamente assegnate erano solo 31.091, con un deficit di 6.298 unità rispetto alla previsione organica. Questa carenza, evidenza Nessuno Tocchi Caino, si traduce in un rapporto medio nazionale di 1 agente per 1,99 detenuti, ben al di sotto del rapporto ottimale di 1 agente per 1,62 detenuti stabilito dal decreto. La situazione è ulteriormente aggravata da disparità regionali: ad esempio, nella Casa Circondariale di Rieti, il rapporto è di un agente per 3,80 detenuti, mentre a Regina Coeli a Roma si arriva a un agente ogni 3,03 detenuti. All’estremo opposto, strutture come quella di Sciacca presentano un rapporto di un agente ogni 0,49 detenuti. L’analisi, quindi, cristallizza un quadro molto disomogeneo della distribuzione. Questi squilibri si riflettono in un sovraccarico di lavoro e in condizioni operative difficili per gli agenti, spesso costretti a gestire turni notturni in solitudine, con un solo agente responsabile di più piani detentivi. Nessuno Tocchi Caino sottolinea come sia necessario ripensare completamente l’approccio all’esecuzione penale, considerando il carcere come extrema ratio e potenziando le pene e le misure alternative. In questa prospettiva, occorrerebbe riparametrare tutti gli organici delle figure professionali che operano nelle carceri. La situazione attuale è ulteriormente aggravata dal sovraffollamento strutturale degli istituti e da un’impostazione sempre più orientata alla sicurezza, che rischia di compromettere gli obiettivi di reinserimento sociale dei detenuti. Funzionari pedagogici: risorsa inadeguata - In questo contesto, gli educatori, in particolare, si trovano a dover gestire un carico di lavoro eccessivo che include l’organizzazione delle attività trattamentali, l’osservazione della personalità e la preparazione delle relazioni per la magistratura di sorveglianza. Negli istituti penitenziari, il loro ruolo è fondamentale per garantire percorsi di rieducazione e reinserimento sociale ai detenuti. Eppure, la loro presenza è cronicamente insufficiente, nonostante un lieve miglioramento recente grazie alle assunzioni derivanti dagli ultimi concorsi. Eppure, questo passo avanti si rivela marginale di fronte alle esigenze di una popolazione detenuta in costante aumento e alle numerose responsabilità affidate a queste figure. È attraverso il loro lavoro che i magistrati di sorveglianza possono valutare l’accesso ai benefici penitenziari, comprese le misure alternative alla detenzione. Ma nel documento, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino rivela che la realtà raccontata dagli stessi detenuti è ben diversa: molti lamentano contatti sporadici o inesistenti con il proprio educatore di riferimento. I numeri confermano questa percezione. A fronte di una pianta organica che prevede 1.001 educatori per i 189 istituti penitenziari italiani, al 31 dicembre 2024 solo 983 erano effettivamente in servizio. La media nazionale, già di per sé critica, è di un educatore per 63 detenuti. Ma ciò che colpisce maggiormente nello studio dell’associazione, è anche in questo caso la disomogeneità nella distribuzione. In istituti come Regina Coeli a Roma, Verona e Bergamo, ogni educatore deve occuparsi di circa 150 detenuti, un compito al limite dell’impossibile. Al contrario, realtà come Sciacca, con un rapporto di 1 educatore per 11 detenuti, rappresentano eccezioni rare e non significative rispetto al quadro generale. Questa situazione, oltre a compromettere la qualità del trattamento rieducativo, si inserisce in un contesto lavorativo già gravoso. Gli educatori, diversamente da altre figure professionali che operano in carcere, non hanno possibilità di avanzamento di carriera, un’anomalia che aggiunge frustrazione a una condizione professionale precaria. Inoltre, le assenze legittime per ferie, malattia, maternità e altre motivazioni riducono ulteriormente il numero di operatori effettivamente disponibili, aggravando il carico di lavoro su chi rimane. Questi problemi sono particolarmente evidenti nei grandi istituti sovraffollati, dove il numero di educatori è drammaticamente insufficiente rispetto alle necessità. A Regina Coeli, per esempio, sette educatori devono seguire oltre mille detenuti. In altre realtà, come Verona e Bergamo, i numeri non sono meno impressionanti, con rapporti che si avvicinano a 1 educatore per 150 detenuti. Dagli agenti penitenziari agli educatori, non è solo una questione di numeri, ma è necessario ripensare l’intero sistema di distribuzione e organizzazione delle risorse, adattandolo alle esigenze reali dei singoli istituti. Ma per far ciò, bisogna risolvere il sovraffollamento. Amnistia dopo la separazione delle carriere, Meloni tolga il veto e accolga l’appello del Papa di Piero Sansonetti L’Unità, 17 gennaio 2025 Se Giorgia Meloni togliesse il veto (staccandosi da Salvini) farebbe un passo notevolissimo (molto più importante dell’eventuale rimozione della fiamma dal simbolo del suo partito…). Dal giorno nel quale il governo Meloni si è insediato sono stati pubblicati (se non ho sbagliato i calcoli) circa 700 numeri dell’Unità. Credo che in ciascuno di questi numeri ci siano state delle critiche (meritatissime) al governo Meloni. E mi pare che in nessuno di questi numeri siano stati pubblicati complimenti. Oggi andiamo controcorrente. L’arrivo del voto a favore della separazione delle carriere merita un applauso. La Camera ha approvato la legge di riforma costituzionale che stabilisce che Pm e giudici non saranno più colleghi. Questo vuol dire che il rappresentante dell’accusa non sarà più inquadrato nella stessa casella, e nello stesso ufficio, dove sta il giudice che dovrà poi decidere se dare ragione all’accusa o alla difesa. Si tratta di una riforma della Costituzione che si rende necessaria per attuare un articolo della stessa Costituzione, il 111, il quale stabilisce che il giudice deve essere imparziale e “terzo” rispetto alla difesa e all’accusa. La parola “terzo” è inequivocabile. La Costituzione non si limita a chiedere l’imparzialità del giudice, ma pretende la sua terzietà, cioè l’equidistanza tra difesa e accusa, condizione irrealizzabile se giudice e accusa sono colleghi di ufficio. È una riforma molto importante. Se ne discute da anni. Furono i radicali e i socialisti i primi a chiederla, ai tempi di Craxi, ma finora l’opposizione prima del Pci e poi del Pd, insieme a quella dei grillini e a quella ancora più robusta delle Procure, l’aveva resa impossibile. Diciamo che il ministro Nordio, dopo aver avallato in questi mesi una quantità industriale di provvedimenti giustizialisti, finalmente ha mandato in corsia d’arrivo una riforma buona, in linea con lo Stato di diritto, che mette un freno alle sopraffazioni di alcune Procure. A questo punto però andiamo avanti. Nordio ha rispettato una delle sue promesse. Era sempre stato favorevole alla separazione delle carriere. Ora può promuovere un altro provvedimento al quale, in passato, si è sempre dichiarato favorevole: l’amnistia. È l’unica misura ragionevole e concreta che permetterebbe lo sblocco della paralisi delle procure e dei tribunali, e la fine del sovraffollamento delle carceri che sta raggiungendo limiti assolutamente intollerabili, incivili e in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Amnistia e indulto. Con una asticella la più alta possibile (diciamo a 5 o 6 anni di pena) chiesta, implorata dal papa e alla quale è favorevole anche il capo dello Stato. L’altro giorno ho partecipato a una conferenza stampa promossa dalla deputata di Fratelli d’Italia, Alessia Ambrosi. Tutti i partecipanti, compreso padre Vittorio, cappellano di Regina Coeli, si sono dichiarati favorevoli all’amnistia. L’on. Ambrosi non l’ha detto in modo del tutto esplicito (credo per rispetto alla disciplina di partito) ma ha lasciato capire che a lei sembrerebbe una misura ragionevole. Se Giorgia Meloni togliesse il veto (staccandosi da Salvini) farebbe un passo notevolissimo (molto più importante dell’eventuale rimozione della fiamma dal simbolo del suo partito…). Aboliamo queste carceri. Ecco perché punire non serve di Daniel Lumera Corriere della Sera, 17 gennaio 2025 Nel nostro Paese ci sono all’incirca 62.000 detenuti per 48.000 posti realmente disponibili. Un sovraffollamento che ci pone ai vertici delle statistiche europee e che crea situazioni incompatibili con la dignità umana. È più folle l’idea di abolire le carceri, così come sono, o quella di continuare a fare quanto stiamo facendo? “Facciamoli marcire lì dentro. Si meritano questo e anche peggio. Gettiamo via le chiavi”. Uno dei modi di pensare più inconsapevole e controproducente che conosca. Ma vi assicuro che la mia non è una posizione ideologica. E vi spiego perché. Partiamo da due dati oggettivi: il costo del sistema carcerario e la sua (mancata) efficacia. Ogni detenuto costa allo Stato più o meno 150 euro al giorno, per cui, facendo i conti con i numeri di persone detenute, la popolazione carceraria italiana grava ad oggi (su tutti noi) per oltre 3,3 miliardi di euro all’anno (provenienti direttamente dalle nostre tasche). Ragionando secondo logiche di convenienza, appare evidente come sia di gran lunga più vantaggioso recuperare queste persone. Tuttavia, negli ultimi due anni sono state create 24 nuove fattispecie di reato, aumentando i motivi per cui si può finire in carcere e aggravando una situazione già esplosiva, di cui una gran parte è rappresentata da persone con disturbi psichiatrici gravi e/o da tossicodipendenti, categorie che necessiterebbero di trattamenti e strutture specifiche. Ciò riguarda anche i minorenni e i giovani, per i quali, peraltro, il carcere può fungere da “scuola di delinquenza”. Nel nostro Paese ci sono all’incirca 62.000 detenuti per 48.000 posti realmente disponibili. Un sovraffollamento che ci pone ai vertici delle statistiche europee e che crea situazioni incompatibili con la dignità umana, per le quali la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha sanzionati. Un ulteriore costo, finanziario e morale. Parlando di etica, poi, va ricordato che nel 2024 le persone morte in carcere sono state 221. L’anno peggiore di sempre. Un primato atroce, per il quale qualcuno, magari, starà provando un sottile piacere. Di queste morti circa 80 sono suicidi. E, sempre lo scorso anno, ben 1.800 persone hanno cercato di togliersi la vita in carcere, salvate in extremis dai propri compagni o dalla polizia penitenziaria. Un problema serio che, come dimostrano i numeri, non viene risolto dal nostro sistema incentrato sulla pena e sulla punizione, ma, anzi, esasperato. A fare le spese delle condizioni disumane delle carceri, tra l’altro, è anche chi ci lavora: ancora nel 2024 contiamo 7 suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro riporta che il tasso di recidiva in Italia è del 68,7%: vuol dire che sette detenuti su dieci, al termine di una pena meramente detentiva, tornano a commettere reato. L’esperienza del carcere punitivo non è dunque demotivante, come da anni sostengono voci autorevoli che analizzano le statistiche, tra cui quella di Gherardo Colombo. E neanche la pena di morte è un deterrente, basti osservare Paesi come gli Stati Uniti che ancora la applicano, senza per questo riuscire a ridurre la criminalità. Lavorare affinché la popolazione carceraria diminuisca e venga reinserita costruttivamente nella società conviene a tutti, sia dal punto di vista della sicurezza che da quello economico. Eppure, a livello politico c’è ancora chi vende ai cittadini la promessa di una società più sicura aumentando il numero di poliziotti e “mettendo dentro” il numero più alto possibile di “cattivi”. Questo approccio è semplicemente un’illusione che fa leva sul giustizialismo, sulla rabbia e sulla frustrazione dilaganti. Cosa funziona? Per chi durante la detenzione viene inserito in percorsi educativi e formativi e attività professionalizzanti la recidiva crolla drasticamente fino ad arrivare al 2%! È da questi dati che la politica dovrebbe partire per una riforma radicale dell’approccio alla giustizia e alle carceri. I dati fino ad ora a nostra disposizione sembrano chiari: educare alla consapevolezza e recuperare conviene di gran lunga, anziché punire e basta. Per questa ragione diversi anni fa abbiamo creato un’associazione di volontariato che collabora con numerosi istituti penitenziari per realizzare percorsi riabilitativi che lavorino sulla consapevolezza interiore delle persone e sul senso di responsabilità: gestione di rabbia, stress e aggressività, presa di coscienza di sé e della possibilità di trasformare la propria vita, elaborazione del passato, creazione di relazioni sane. Tra gli strumenti utilizzati spicca la pratica della meditazione, i cui benefici su questi e altri aspetti, attestati dalla scienza, sono di grande importanza in un contesto come quello carcerario (per avere un’idea vi invito a vedere questo video https://youtu.be/u3ZXbfz5YCo). Con questo intento, dopo anni di esperienza in vari istituti penali, circa un anno fa è nata la prima Stanza della Meditazione permanente in un carcere italiano. Realtà che ha fin da subito evidenziato un positivo impatto sui partecipanti. Lo ripeto: non si tratta di una posizione ideologica, ma di una visione umana e di salvaguardia della sicurezza pubblica, efficace in termini pratici ed efficiente in termini economici, nonché espressione del monito dei nostri Padri costituenti. Nell’Articolo 27 della Costituzione, infatti, essi ci indicano che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Quando una persona finisce in carcere il fallimento è di tutti noi, della società e del sistema educativo. La responsabilità è anche collettiva, che vogliamo ammetterlo o no. La forza di questo Stato e il suo obiettivo non dovrebbero essere quelli di “non far respirare chi entra nelle carceri”, anche se si tratta del peggiore degli assassini, ma di trovare il modo di guarire quella persona e tutta la società da quell’odio. Scudo penale per agenti, il pm decide se indagare di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 gennaio 2025 L’ufficio tecnico del ministero di Giustizia lavora alacremente in queste ore all’emendamento correttivo del Ddl Sicurezza - almeno sui punti indicati dal Quirinale come irricevibili - che dovrebbe essere varato la prossima settimana dal Consiglio dei ministri. In quell’occasione sul tavolo del governo dovrebbe arrivare anche la bozza del provvedimento a tutela delle forze dell’ordine, indagate durante l’esercizio delle proprie funzioni, che i giuristi di Via Arenula stanno preparando con grande sforzo di fantasia. Vietato chiamarlo “scudo penale”, però, perché sia il ministro della Giustizia Carlo Nordio, da parte del governo, sia Fratelli d’Italia che si è accreditato come partito promotore dell’iniziativa (parola del capogruppo dei deputati Galeazzo Bignami), malgrado non si sappia ancora quale forma prenderà il provvedimento (ddl parlamentare, ddl governativo o decreto legge?) negano di aver mai pensato a una sorta di impunità per polizia e carabinieri. Solo ulteriori “tutele e garanzie” per agenti e carabinieri, come ha spiegato il sottosegretario Andrea Delmastro (Fd’I) anticipando qualcosa del documento che sarebbe “allo studio in fase preliminare”: “Non ci sarà l’obbligo per il pm dell’iscrizione nel registro degli indagati, che è un’onta per chi fa il proprio dovere come ha fatto quel carabiniere”, ha detto ad Affaritaliani.it riferendosi al maresciallo Luciano Masini, indagato per aver ucciso l’attentatore di Villa Verucchio e insignito di un “encomio solenne” dal ministro Crosetto. Ed è il Guardasigilli, durante il question time al Senato, a chiarire i motivi per i quali non è ancora esclusa la forma del decreto legge, affinché il provvedimento possa trovare una via preferenziale: “Se un carabiniere spara è automatica l’iscrizione nel registro degli indagati, perché ha il diritto di essere assistito in un’eventuale autopsia o perizia balistica. Ma - ha spiegato Nordio - essendo iscritto nel registro degli indagati reca con sé questo marchio di infamia”. Il ministro insiste sul concetto e, a riprova che “la divisa è sacra”, come giura, porta un esempio non proprio felice: “Nella patria dove è nata la democrazia, cioè la Gran Bretagna, finché esisteva la pena di morte - che per fortuna ora è stata abolita - c’era un caso in cui veniva applicata de plano ed era l’aggressione di un poliziotto”. A via Arenula, riferisce il Guardasigilli, si sta pensando a come “coniugare le garanzie di una persona ad avere interesse ad essere assistito in una eventuale indagine senza essere iscritto in nessun registro degli indagati”. In che modo concretamente si possa fare senza violare altre norme, rispettando i tempi tecnici delle indagini e mantenendo un carattere di generalità della legge è ancora tutto da vedere, malgrado, spiega Nordio, questo sia un suo vecchio pallino. In più, la discrezionalità dell’azione penale in taluni casi potrebbe cozzare gravemente con il nostro ordinamento giuridico. In serata anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rafforza il concetto: “Nessuno pensa sia un’impunità, e certe definizioni sono state respinte in maniera unanime dalle organizzazioni sindacali di Polizia. Si sta discutendo - spiega alle telecamere di Dritto e Rovescio su Rete4 - di offrire garanzie di partecipazione al processo senza passare nella condizione di indagato, questo non vuol dire immunità, ma semplicemente consentire ad appartenenti delle Forze di Polizia di poter evitare quella fase un po’ complicata dell’essere assoggettati alla condizione di indagato, sempre a discrezione del magistrato”. A nome di Forza Italia, che sul tema tiene un basso profilo, parla il senatore Maurizio Gasparri precisando che “le Forze dell’ordine necessitano di un maggiore supporto e di leggi che le proteggano”. Proprio ora. Chissà se è semplicemente perché l’Italia è da qualche anno finalmente dotata di una legge contro la tortura. Primo via libera della Camera alla separazione delle carriere dei magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2025 Nordio: “Giornata storica ma percorso ancora complesso con un esito finale che secondo me spetterà al popolo con il referendum”. La Camera ha approvato, in prima deliberazione, con 174 voti a favore, 92 voti contrari e 5 astenuti la cd. “separazione delle carriere”, il disegno di legge costituzionale: “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” (C. 1917). Il provvedimento passa ora al Senato. È il primo dei passaggi parlamentari necessari per l’ok al disegno di legge costituzionale. Si modifica, infatti, il titolo IV della Costituzione con l’obiettivo di separare le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti. A tal fine, vengono previsti due Csm: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente. Ulteriori novità sono i componenti dei Csm estratti a sorte e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare. In Aula durante il voto il ministro Carlo Nordio. “Il primo sì alla riforma per la separazione delle carriere realizza il sogno di Berlusconi? Sì, ma anche quello di Vassalli e il mio”, ha commentato il Guardasigilli parlando in Transatlantico. “Non è per togliere nulla - aggiunge divertito il Ministro - ma era il sogno mio da 30 anni”. “Una giornata storica? Personalmente sì - prosegue -. È un percorso ancora complesso perché così vuole la Costituzione, con un esito finale che secondo me spetterà al popolo con il referendum, sia per ragion pratica perché non vi saranno penso i due terzi, sia per la ragion pura, perché per una materia così complessa delicata e di grande sensibilità politica è bene che si pronunci il popolo”. Anche per il presidente dei penalisti Francesco Petrelli si tratta di un “risultato straordinario al cui raggiungimento l’Unione delle Camere Penali ha dato un contributo importantissimo”. “Basti ricordare - aggiunge - che all’origine di questa riforma c’è il testo redatto da UCPI nel 2017 contenente l’idea dei due Csm, con la raccolta di firme di 72.000 cittadini e con il deposito in Parlamento di quella prima proposta di riforma costituzionale della magistratura di iniziativa popolare. Un plauso a tutti coloro che hanno contribuito a questo primo passo e un invito a portare a termine con determinazione questa riforma necessaria alla realizzazione del giudice terzo e di un nuovo equilibrio all’interno del processo penale”. Sulla stessa lunghezza d’onda l’Ocf. “Oggi è una bella giornata per la Giustizia italiana. Si tratta di una riforma soft, come da noi stesso suggerito, senza incidere sull’azione penale, che comunque restituisce centralità al giudice nella sua terzietà e imparzialità”. Lo dichiara il Coordinatore di Ocf Mario Scialla. Il disegno di legge costituzionale n.1917 sancisce la nascita del Consiglio superiore della magistratura “giudicante” e del Consiglio superiore della magistratura “requirente”, entrambi presieduti dal presidente della Repubblica. “Ne fanno parte di diritto, rispettivamente, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione - si legge nel testo -. Gli altri componenti sono estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge”. I consiglieri durano in carica quattro anni e “non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva”. Per sanzionare gli errori dei magistrati arriva l’Alta Corte di giustizia composta da magistrati, avvocati e professori. “L’Alta Corte è composta da quindici giudici - recita il ddl - tre dei quali nominati dal presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”. L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal presidente della Repubblica o quelli estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni e l’incarico non può essere rinnovato. Il ministro della Giustizia punta a chiudere prima della pausa estiva il percorso parlamentare della riforma costituzionale, che prevede due passaggi obbligatori in ognuno dei due rami del Parlamento. Seguirà il referendum confermativo se, come è probabile, il ddl non sarà approvato con una maggioranza dei due terzi da entrambe le Camere. Primo sì alla separazione delle carriere. I selfie di Nordio e l’assalto dell’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 gennaio 2025 Via libera della Camera alla riforma costituzionale della magistratura. La maggioranza (incluso il ministro) festeggia. L’Associazione nazionale magistrati annuncia battaglia. Incassato il primo, storico, via libera della Camera alla riforma costituzionale della magistratura, che include la separazione delle carriere tra pm e giudici, interpellato dal Foglio il Guardasigilli Carlo Nordio non nasconde la sua soddisfazione: “Tutto ciò che è contenuto nella riforma è stato da me scritto per la prima volta in un libro nel 1997. Aggiungo un aneddoto. All’epoca il libro venne presentato in un incontro con un autorevole magistrato, Piero Vigna, e uno storico esponente del Partito comunista, Emanuele Macaluso, entrambi in gran parte d’accordo con le mie proposte”. “Parliamo di Macaluso eh…”, ripete il ministro, come a evidenziare il paradosso del “no” del centrosinistra alla riforma. Il testo di riforma costituzionale ha ottenuto oggi alla Camera 174 voti a favore, 92 voti contrari e 5 astenuti. Compatta la maggioranza. Hanno votato a favore anche Azione e Più Europa. Contrari Pd, M5s e Avs, mentre Italia viva si è astenuta. Vista l’importanza dell’evento, il ministro Nordio ha voluto essere presente alla Camera, intervenendo anche durante la discussione per smentire gli ennesimi allarmi sull’indipendenza dei pubblici ministeri. “La riforma costituzionale che noi proponiamo è di una semplicità elementare. C’è scritto tutto”, ha detto Nordio. “L’indipendenza della magistratura, giudicante e requirente, è inserita nella proposta di riforma. Tutto il resto, come direbbe Shakespeare, è silenzio”. Più che silenzio, come ha aggiunto dopo lo stesso Guardasigilli, si tratta di “processo alle intenzioni”. Che offende, sul piano personale, il ministro: “Ho scelto di fare il pm 47 anni fa proprio perché ritenevo che fosse e dovesse essere indipendente da qualsiasi forma di potere: esecutivo, mediatico, correntizio”. La maggioranza ha accolto il primo via libera alla riforma in maniera trionfale. “Abbiamo vinto”, dice a tutti Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Nordio viene subito placcato all’uscita dell’Aula di Montecitorio da colleghe e colleghi per un selfie-ricordo. Dopo l’iniziale imbarazzo, a un certo punto ci prende gusto pure lui: “Vieni anche tu!”, dice Nordio a un deputato, invitandolo a mettersi in posa. Scene di festa, mentre il forzista Alessandro Cattaneo si lascia andare: “Questo è anche per Silvio!”, riferendosi ovviamente a Berlusconi. Sul piano pratico, la riforma modifica il titolo IV della Costituzione, prevedendo la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti, l’istituzione di due diversi Consigli superiori della magistratura (entrambi posti sotto la presidenza del capo dello stato), il sorteggio per l’elezione dei membri dei Csm e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, chiamata a emettere le sentenze disciplinari nei confronti dei magistrati di entrambe le funzioni. Il testo ora passerà al Senato. In caso di approvazione, dovrà essere approvato un’altra volta da ciascuna Camera, dopo una pausa di tre mesi. Poi la quasi certezza del referendum, vista la mancanza di una maggioranza pari a due terzi dei componenti. Insomma, il percorso è ancora lungo, ma è la prima riforma istituzionale proposta dal governo a iniziare a concretizzarsi. Dopo due ore dall’ok della Camera arriva puntuale la nota dell’Associazione nazionale magistrati: “Ribadiamo la nostra profonda preoccupazione per una riforma costituzionale che mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Una riforma sbagliata che non migliora sotto alcun punto di vista il servizio giustizia ma che agisce solamente sulla magistratura e toglie garanzie a tutti i cittadini italiani”. E pensare che, pochi minuti prima, proprio Nordio aveva auspicato un “dibattito razionale” sulla riforma. Una riforma che ribadisce esplicitamente i princìpi di autonomia e indipendenza della magistratura nel suo insieme. L’Anm ha però deciso da tempo di giocare la sua battaglia sul “pericolo che verrà”. Non si sa come, né quando, né per mano di chi. Cercasi una giustizia anti populista. Lezioni contro la Repubblica fondata sulle Procure di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 gennaio 2025 Nuovo Csm e carriere separate. La riforma Nordio rafforza la terzietà della magistratura e non indebolisce la democrazia. Lo dice la logica e pure alcuni campioni della sinistra. Per chiunque abbia a cuore la necessità montesquieuiana di riequilibrare lo squilibrio che esiste in Italia tra potere giudiziario e potere legislativo e per chiunque abbia a cuore la necessità di combattere la deriva di un paese che negli anni ha scelto in modo pericoloso di lasciare spazio a una democrazia fondata sempre meno sul lavoro e sempre più sullo strapotere della repubblica delle procure, la notizia arrivata ieri è semplicemente entusiasmante: in Parlamento, come sapete, i deputati della maggioranza, e qualcuno dell’opposizione, hanno finalmente approvato in prima lettura la riforma della giustizia, con annessa separazione delle carriere, sorteggio del Csm, istituzione dell’alta Corte disciplinare. La riforma, come è noto, modifica alcuni passaggi della Costituzione, richiede dunque tempi lunghi, tre letture alla Camera e tre al Senato e come era lecito aspettarsi i grandi nemici della riforma, in primis l’Associazione nazionale dei magistrati (Anm) e una delle principali correnti della magistratura (Md), ieri hanno utilizzato tre argomenti per provare a mostrare la pericolosità della riforma. Questa riforma, si è detto, è un pericolo per la tenuta della Costituzione, è un pericolo per il futuro della democrazia ed è un pericolo per l’indipendenza della magistratura. Le tre critiche, in verità, sono facilmente smontabili, con argomentazioni persino elementari. La riforma della giustizia non è un pericolo per la Costituzione perché separando le carriere si rafforza la terzietà del giudice, ottemperando dunque a un articolo della Costituzione che i difensori della Costituzione più bella del mondo spesso si dimenticano di citare (l’articolo 111, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”). Non è un pericolo per la democrazia perché, creando un Csm sorteggiato in cui le correnti pesano meno, si depotenzia la magistratura ideologizzata e si pone un freno alle esondazioni dei pubblici ministeri (meno i magistrati faranno carriera grazie alle correnti e meno tentazioni vi saranno di costruire inchieste ideologiche contro una parte politica per avere carriere più veloci). E non è un pericolo per l’indipendenza della magistratura per le ragioni, spiegate anni fa, da un famoso avvocato di sinistra, già sindaco di Milano, di nome Giuliano Pisapia. “Sulla separazione delle carriere - scrisse Pisapia nel 2009 - bisogna sgombrare il campo da equivoci e strumentalizzazioni. Ogni posizione è legittima, ma è assolutamente falso che la separazione delle carriere incida sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura. Montesquieu, considerava un abuso gravissimo il fatto che gli stessi soggetti potessero essere ‘juge et accusateur’. E anche Calamandrei, in vari interventi, si è dichiarato favorevole alla separazione tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti. Alle tre grandi critiche rivolte alla riforma della giustizia in queste ore l’opposizione poi aggiunge una critica in più, tra il lunare e il surreale, ed è una critica secondo la quale la riforma oltre a essere dannosa è inutile. Non si capisce come faccia una riforma a essere inutile se è dannosa (se è dannosa, per l’opposizione, vuol dire che qualcosa fa). Ma per rispondere a questa argomentazione rimandiamo a un testo firmato da diversi attuali parlamentari del 2019, ai tempi della mozione congressuale di Maurizio Martina, mozione che sul tema della giustizia chiedeva con urgenza la seguente riforma: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Né dannosa, né inutile: semplicemente ineludibile, per avere una giustizia più indipendente, meno ideologizzata, più imparziale, meno minacciosa per la democrazia. Per i nemici del populismo, quello vero, quella di ieri è una bella giornata. Separazione delle carriere, Nordio: “Renderemo i magistrati indipendenti dalle correnti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 17 gennaio 2025 Il ministro della Giustizia: “I magistrati finora erano indipendenti dalla politica, ma non da se stessi e dalle correnti. Ho voluto recidere questo vincolo”. Il primo sì alla separazione delle carriere lo ha portato a casa. La maggioranza festeggia, l’Anm protesta. Ministro Nordio con che animo andrà all’inaugurazione dell’anno giudiziario? “Con la serenità di chi ha fatto il suo dovere di ministro adempiendo al mandato elettorale”. PUBBLICITÀ I suoi vecchi colleghi le ricorderanno la Costituzione... “Risponderò con la Costituzione che all’articolo 138 prevede la possibilità di essere modificata”. L’Anm però è in allarme perché la riforma “toglie garanzie ai cittadini”. “Ce ne saranno di più. L’indipendenza della magistratura è nella Costituzione. I magistrati finora erano indipendenti dalla politica, ma non da se stessi e dalle correnti della magistratura. Ho voluto recidere questo vincolo”. A chi teme sia il primo passo per sottoporre il pm all’esecutivo lei dice che è un processo alle intenzioni. Ma chi avrà l’intenzione non sarà facilitato? “No. Un’eventuale modifica, che io non auspico, dovrebbe essere sottoposta alla stessa revisione costituzionale. E un’altra maggioranza potrebbe evitarlo, ma anche retrocedere allo stato attuale”. Ha realizzato il sogno di Berlusconi... “Rivendico il copyright. Lo dicevo prima di lui. Appena introdotto il codice Vassalli l’ho scritto in riviste giuridiche. E dal ‘95 in articoli e nei miei libri. Non lo diceva nessuno. A parte Falcone e naturalmente Vassalli. È la logica”. Che cosa c’entra la logica? “Se introduci il processo accusatorio il giudice terzo e imparziale non può appartenere alla stessa consorteria del pm”. Non crede che così si creeranno giudici burocrati e pm superpoliziotti? “Il pm è già un superpoliziotto. Dirige le indagini e talvolta ne crea per clonazione: trattenendo una parte del fascicolo inviato al gip e aprendone un altro. In numerosissimi casi si sono inventate indagini lunghe e costosissime senza alcun controllo. La separazione allontana l’inquisitore dal giudice imparziale”. Berlusconi non la voleva ministro. Nell’incontro famoso parlaste di questo? “Credo che volesse uno del suo partito. Io non ero iscritto e le mie idee erano note”. È la rivalsa della politica contro la magistratura? “Non rivalsa, riequilibrio dei poteri. Ho visto molte interferenze con pesanti giudizi politici. Non dell’Anm (che ha diritto di dire ciò che vuole), ma di magistrati che poi pronunciano sentenze”. A chi si riferisce? “Esempio. Un magistrato dice che il presidente del Consiglio è pericoloso non può essere giudicato da persone che lui ha eletto, e gli sono vincolate da debiti correntizi, ma da un’Alta corte indipendente”. Quest’Alta Corte non avrà un potere enorme? “Io avrei preferito fosse fatta solo di magistrati. Ma sarà sempre la procura generale a iniziare l’azione disciplinare o il ministero attraverso essa”. Non crede che il sorteggio di componenti di organi costituzionali come il Csm sia improprio? “C’era ad Atene e anche nella mia Venezia. Non esistono sistemi perfetti. Solo sistemi coerenti”. La riforma era nel Piano di rinascita di Gelli... “Anche lui può essere inciampato una volta nella verità”. L’opposizione parla di svolta autoritaria: perché non ha accolto gli ordini del giorno sull’indipendenza dei magistrati e contro interferenze esterne? “Erano polvere negli occhi. Anche un po’ ingenui. La disposizione della legge costituzionale è di per sé sufficiente in quanto norma primaria. Ogni aggiunta, da fonte terziaria o quaternaria sarebbe superflua e dannosa”. E sulle pari opportunità? “Esiste già l’articolo 51 e saranno disciplinate con legge ordinaria”. Citando Shakespeare ha detto che ci sono buone ragioni contro la riforma, superate da migliori. Quali? “Allontanare il pm dall’esperienza giurisdizionale può affievolirne il suo ruolo di parte imparziale, perché deve cercare prove anche a favore dell’indagato”. Lei ha sempre detto di no? “C’è il rischio, bisogna stare attenti. Noi lo saremo. Ma le ragioni del sì sono superiori”. Lei auspica il referendum. Non sarà magistratura contro politica? “È materia delicata va sottoposta a referendum perché la sovranità appartiene al popolo e per fugare il sospetto di sotterranee baratterie politiche. Ma auspico che non si personalizzi. Non deve essere un referendum contro governo o contro i magistrati. Spero nell’informazione”. Blindare la riforma non è stato uno schiaffo al Parlamento? “Sono due anni che in ambito parlamentare si discute di questa riforma e ho sempre ricevuto dei niet. Così come ne ho avuti dall’Anm”. Davvero non prepara uno scudo penale per le forze dell’ordine? “Davvero. Non so chi l’abbia inventato. Stiamo piuttosto studiando un rimedio alla snaturazione dell’istituto del registro degli indagati e dell’informazione di garanzia”. Allora a cosa pensate? “Strumenti di tutela per tutti i cittadini per far sì che si consenta a chi abbia interessi a partecipare a certi atti di indagine a farlo, senza però subire il marchio di infamia di essere indagato”. Santalucia: “Non c’è stato dibattito sulla riforma, ma la fermeremo con il referendum” di Mario Di Vito Il Manifesto, 17 gennaio 2025 Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, la riforma della giustizia avanza con una certa velocità. La Camera ha detto molto velocemente il suo primo sì e la strada sembra ormai spianata. “È una cosa che mi colpisce molto. C’è stata una blindatura del testo che definirei anomala e, di fatto, non è stata consentita alcuna discussione. Spero che in futuro ci sia tempo per farla, soprattutto quando si entrerà nella fase referendaria: lì non ci tireremo indietro e saremo protagonisti della discussione”. Non teme che così si parlerà ancora di più di politicizzazione della magistratura e di invasione di campo da parte dei giudici? Noi magistrati non facciamo politica, ma esercitiamo un diritto civile che per noi è anche un dovere. Vogliamo aumentare le nostre capacità comunicative proprio perché vogliamo essere in grado di intervenire con incisività. Parliamo di argomenti che incidono sulla vita democratica del paese e la magistratura non può certo sottrarsi. Il suo mandato alla guida dell’Anm scadrà tra un paio di settimane. Il prossimo segretario dovrà gestire proprio questa fase... Faccio già da adesso i migliori in bocca al lupo a chi sarà il prossimo o la prossima presidente. In ogni caso l’Anm, alla quale è iscritto circa il 96% dei magistrati italiani, ha una linea molto chiara sulla riforma della giustizia. Le discussioni interne ci sono, ovvio, ma quando si parla della cornice costituzionale le vedute sono sempre unitarie. Del resto questa riforma è il risultato di un disegno che va avanti da anni. Ho sentito parlamentari della maggioranza dedicare il provvedimento alla memoria di Berlusconi. Significa tornare a uno scontro durissimo che dovremmo solo metterci alle spalle. L’obiettivo comune dovrebbe essere quello di migliorare il servizio giustizia, lasciando perdere le dinamiche e le relazioni di potere. Ecco, a guardare i sondaggi d’opinione i giudici non sono le figure istituzionali che godono di maggiore simpatia, diciamo così. Come intendete affrontare un referendum che verrà presentato come un quesito pro o contro la magistratura? Non dobbiamo fare l’errore di cadere in questo tranello, anzi deve essere chiaro che parliamo di un referendum costituzionale e non di un sondaggio di gradimento sulla magistratura. Avremo il compito di spiegare che in gioco ci sono i diritti fondamentali delle persone. Dall’altra parte il governo sta già cominciando a presentare il referendum come un voto su se stesso, però... Capisco bene qual è il gioco. Ma anche qui dobbiamo dire che la verità è un’altra: c’è un continuo tentativo di scaricare sulla magistratura le inefficienze dell’amministrazione della giustizia, che dipendono dal ministero. Quando la settimana prossima le Corti d’appello apriranno il loro anno giudiziario, i presidenti spiegheranno con molta chiarezza quali sono i problemi e da dove arrivano. Penso ad esempio al processo telematico… Basta leggere i documenti ufficiali per capire di chi siano le responsabilità. Ora, con il ddl sicurezza, tra le altre cose, il carico di lavoro sui magistrati è destinato ad aumentare in virtù di un certo numero di nuovi reati che verranno creati... Certo, se parliamo di uffici ingolfati le cose non sono destinate a migliorare. Con questo decreto c’è un’incontrollabile moltiplicazione di reati, fattispecie, pene, aggravanti… Ci si illude che così facendo aumenti la sicurezza, ma qualunque tecnico del diritto sa che la strada non è quella giusta. Dicevamo che il suo mandato è ormai in scadenza. Guardando indietro, c’è qualcosa che non rifarebbe? I miei difetti sarebbe meglio che li indicassero gli altri, io rischierei di essere troppo indulgente. Posso dire che durante il mio mandato l’Anm ha mantenuto sempre un’impostazione istituzionale, leale e rispettosa di tutti. Non abbiamo mai voluto scontrarci con nessuno, semplicemente sosteniamo delle posizioni nella speranza che siano utili al dibattito democratico. Sciopero dei magistrati. Sì o no? Siamo in un momento in cui gli scioperi vengono demonizzati. Noi pensiamo allo sciopero come strumento per comunicare meglio le nostre ragioni ai cittadini, non per fare un dispetto a chicchessia. Galoppi (Mi): “Perplessi sullo scudo penale. Separazione carriere? Il Governo si sta vendicando” di Giulia Merlo Il Manifesto, 17 gennaio 2025 Il leader delle toghe conservatrici: “La riforma della giustizia è ipocrita e punitiva”. Il ddl Sicurezza introduce nuovi reati, ma “non è un metodo per risolvere i problemi”. “Fortemente discutibili dal punto di vista tecnico” è la valutazione di Claudio Galoppi, segretario nazionale del gruppo conservatore di Magistratura indipendente e giudice della corte d’appello di Milano. I toni sono pacati, ma la posizione è netta su tutte le riforme in discussione in questo momento, dall’ipotesi di scudo penale fino alla separazione delle carriere, che giovedì 16 gennaio è stata approvata dalla Camera in prima lettura e che il governo punta ad approvare entro il 2026. Il ministro Nordio sta elaborando una modifica al Codice di procedura penale che prevede uno scudo per le forze dell’ordine, che dovrebbe ritardarne o escluderne l’iscrizione nel registro degli indagati. Da tecnico, è una via percorribile? Per cultura sono liberale e garantista, dunque ho sempre molte perplessità quando si parla di deroghe ai principi generali dell’ordinamento, come in questo caso l’uguaglianza davanti alla legge. Dico chiaramente che bisogna essere molto cauti, perché toccare questi pilastri può determinare conseguenze imprevedibili. L’origine dell’iniziativa di riforma è la tesi secondo cui le forze dell’ordine si sentirebbero limitate negli interventi a causa di eventuali procedimenti penali... Sicuramente le forze dell’ordine devono essere messe in condizione di svolgere il lavoro con serenità, ma dentro le regole stabilite dalla legge. Sono molto chiaro: eventuali indagini per abusi devono essere svolte senza pregiudizi e con obiettività, ma dentro il perimetro attuale dell’ordinamento. Ecco, mi piacerebbe che questo dibattito venisse ricondotto a principi liberali e democratici. L’altro dossier che interessa la giustizia è il ddl Sicurezza, che contiene l’introduzione di una ventina di nuovi reati. Necessari? Io non credo che la soluzione ai problemi della sicurezza sia quella di ricorrere al panpenalismo, ovvero all’introduzione di nuovi reati. Sono rispettoso della volontà del parlamento che è sovrano e delle scelte del governo e non mi compete giudicare, ma l’esperienza ci ha insegnato che la repressione penale non è il metodo più efficace per risolvere le emergenze. Infine la riforma costituzionale della separazione delle carriere, che stravolge la magistratura e ha già ottenuto il primo via libera. Voi, come del resto tutti i gruppi associativi, siete fortemente critici. Perché? Perché la separazione prevista da questa riforma è ipocrita e discutibile dal punto di vista delle soluzioni scelte. Ipocrita perché a oggi i magistrati che cambiano funzione sono l’1 per cento del totale e la riforma Cartabia ha ridotto la possibilità di farlo a una volta in carriera. Discutibile perché crea un corpo di pm totalmente separato dalla funzione giudicante e governato da un Csm distinto che rischia di accentuarne il carattere di corporazione, rendendoli autoreferenziali. L’effetto è quello di un’eterogenesi dei fini: così si accrescerà il potere dei pm. L’altro tassello è quello del sorteggio per scegliere i consiglieri togati. Secondo il governo, solo così si ridurrà lo strapotere delle correnti... L’eliminazione dell’elettorato attivo con il sorteggio è totalmente incompatibile con qualsiasi logica meritocratica e di rappresentatività. Ha una sola spiegazione razionale: una sfiducia costituzionalmente manifestata nei confronti della magistratura. Ecco perché, nella sua globalità, questa è una riforma discutibile dal punto di vista tecnico ed espressione di una volontà di vendetta punitiva del governo nei confronti della magistratura. Cosa non sta facendo il governo? Sta perdendo l’occasione di affrontare i veri problemi che impattano sui cittadini: l’efficienza e la qualità. Questo doveva essere al centro dell’attenzione del legislatore, e noi come gruppo abbiamo avanzato molte proposte per far funzionare meglio gli uffici, come la stabilizzazione dell’ufficio del processo. Con il Pnrr sono stati introdotti strumenti che si stanno rivelando molto utili, ma il governo, invece di lavorare per stabilizzarli, sta sconquassando il sistema. Di qui la nostra forte perplessità. L’Anm sta valutando di manifestare il dissenso durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Condivide? No, Magistratura indipendente è contraria. L’apertura dell’anno giudiziario è un momento di solennità istituzionale che non va trasformato in una manifestazione di piazza in cui fare sceneggiate. A fine mese si insedierà il nuovo comitato direttivo centrale, e il nostro contributo sarà quello di favorire una riflessione unitaria per manifestare pubblicamente il nostro dissenso motivato, ma nelle forme corrette. Voi e il gruppo progressista di Area avete trovato inedite convergenze dentro il Csm. Sarà così anche in vista della nuova Anm? Noi non siamo ideologici e siamo convinti che i punti di incontro si costruiscono sui contenuti. Ci confronteremo sulle priorità della giustizia e delle riforme, e, se i saranno le condizioni per una gestione unitaria della prossima giunta, noi siamo assolutamente disponibili. Ci confrontiamo con lealtà con il governo, a maggior ragione lo facciamo dentro la nostra categoria. Caiazza: “Le toghe mettono bocca sulle riforme solo contro la separazione delle carriere” di Angela Stella L’Unità, 17 gennaio 2025 L’ex leader dei penalisti commenta il primo sì della Camera alla separazione delle carriere: “I pm diventeranno squadroni della morte senza controllo? Una bufala. Sono controllati dal giudice. Separato o no, il pm è un magistrato e deve rispettare le leggi”. L’Aula della Camera ha approvato in prima lettura il ddl costituzionale a favore della separazione delle carriere. Ne parliamo con Gian Domenico Caiazza, già presidente dell’Unione Camere Penali. Sperava in questo risultato, in questo momento? Ero pessimista perché le condizioni erano diverse: fino a qualche mese fa la priorità era la riforma costituzionale relativa al premierato. E quindi era facile immaginare che sarebbe stato difficile portare avanti due riforme costituzionali. Poi la riforma del premierato è stata accantonata e il Governo e la maggioranza hanno capito che l’unica riforma con possibilità di successo sarebbe stata quella della separazione delle carriere. Nordio ha detto che preferisce la legittimazione popolare con il referendum invece che l’approvazione parlamentare perché la seconda potrebbe essere percepita dai cittadini come un inciucio politico. Che ne pensa? È un’idea rispettabile. Ma io penso che un Parlamento che approvi con i numeri necessari una riforma costituzionale non ha bisogno di consenso popolare perché quel voto sarebbe la massima rappresentanza della volontà popolare. Tra l’altro la separazione delle carriere è stata oggetto della campagna politica del centrodestra. Però capisco il ragionamento del Ministro e in un momento di delegittimazione del Parlamento e della politica può avere anche un senso. Certamente io credo che se c’è un referendum popolare da non temere è proprio quello sull’ordinamento giudiziario. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia in una intervista al Dubbio ha detto che vinceranno i no perché “Il popolo italiano saprà apprezzare il fatto che questa Costituzione ha dato tanto e ha molto da dare, non si farà ingannare da una semplificazione quella sì pericolosa per cui il referendum potrebbe essere una sorta di sondaggio di gradimento sulla magistratura”... Io ho stima e considerazione del dottor Santalucia come magistrato, come persona, ma quello da lui usato è proprio un linguaggio di un capo-partito, diciamolo con chiarezza. Penso pure che gli ultimi scettici debbano prendere atto di questa unicità mondiale: io vorrei che qualcuno mi raccontasse in quale altro Paese del mondo, quando si mette mano ad una riforma della giustizia, quale che essa sia, la magistratura mette bocca attraverso i suoi organismi di rappresentanza politica. Altra cosa è se vengono chiamati come tecnici nelle audizioni parlamentari. Poi mi chiedo… Cosa? Per l’Anm ogni riforma costituzionale sarebbe un tradimento della Costituzione? Perché non abbiamo sentito la voce della magistratura nelle precedenti riforme costituzionali che ci sono state? È la Costituzione che prevede la possibilità di riformarsi. Va aggiunta un’altra considerazione. Prego… L’aspetto più grave del ragionamento della magistratura è non dire che la Costituzione sul processo penale è stata già modificata, con l’articolo 111 che ha introdotto il processo accusatorio e quindi le parti con pari armi davanti al giudice terzo. Questa è la nuova Costituzione ed è la ragione per la quale si rende indispensabile la separazione delle carriere, come in tutti i Paesi che hanno i sistemi processuali accusatori. L’Anm sta valutando diverse forme di protesta contro la riforma da tenere durante le inaugurazioni dell’anno giudiziario. Alcuni esponenti politici della destra giudicano questo atteggiamento ‘eversivo’. Lei condivide? Le parole hanno un senso. L’eversione è un termine molto preciso che non mi sembra il caso di spendere in questo caso. Certo, se fossero messi in atto sarebbero comportamenti molto gravi perché, ripeto, disvelano la natura di partito politico della rappresentanza della magistratura e rivendicano per le toghe un ruolo di interdizione politica delle decisioni del Parlamento democraticamente eletto. Eviterei però di definirla una azione eversiva per non alzare una palla per fare del vittimismo. Lei prima parlava di ‘delegittimazione del Parlamento’. Le opposizioni hanno rilevato più volte che questa potreb be essere la prima volta in cui viene approvato un testo di riforma costituzionale così come uscito dal Consiglio dei Ministri. In più sono stati respinti tutti gli emendamenti delle opposizioni. Non crede che questo atteggiamento del Governo e della maggioranza indebolisca fortemente il ruolo di Camera e Senato? Sì, ma questo non riguarda solo questa riforma, ma il funzionamento del Parlamento. Ormai tutti i provvedimenti, anche di minima importanza, sono adottati dal governo e convertiti dal Parlamento più o meno senza discussione. Ma infatti i partiti di minoranza criticano questo fatto per la maggioranza dei provvedimenti... Lei ricorderà certamente che con la mia presidenza abbiamo pressato duramente il governo affinché si portasse avanti il testo di riforma di iniziativa popolare su cui avevamo raccolto le firme. Ho chiesto spesso al Ministro Nordio di far camminare quel testo ma si è preferito mandare avanti quello governativo. Ci veniva detto che così la norma avrebbe avuto più forza, in realtà, come detto all’inizio di questa intervista, non rappresentava la priorità. Però nella vostra proposta non era previsto il sorteggio per i membri laici e togati del Csm. Molti avvocati sono scettici su questo punto... Io invece dissento fortemente dall’idea di un sorteggio di un organo di rilevanza costituzionale. Avrei compreso un sorteggio secondario, dopo un’elezione di un certo numero di magistrati. Invece questo sorteggio pure per le toghe è un’idea grillina e antipolitica che francamente non la condivido. Non è farina del nostro sacco. Tuttavia non condivido l’eventualità di far naufragare la riforma della separazione per la questione del sorteggio. In futuro si potranno fare altre riflessioni. L’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, in un dibattito organizzato dalla Camera penale di Grosseto ha detto che con due Csm separati, i pm diverranno sempre più magistrati di scopo e non di garanzia. Non ci prendiamo in giro: il Pubblico Ministero è un magistrato di scopo, lo è da sempre. Ma veramente vogliamo vedere nella realtà cose che non esistono? Tralasciando la questione della cultura della giurisdizione che nessuno bene sa cosa sia, quello che è certo è che l’unica cultura che deve ispirare i magistrati è quella della legalità e i pubblici ministeri devono, anche da separati, rispettare la legge. È incredibile questa bufala che viene diffusa, per cui i pm diventeranno delle specie di squadroni della morte perché non saranno più controllati da nessuno. Sono controllati dal giudice. Il pm, come sappiamo bene, non può muovere un passo, non può chiedere un sequestro, non può fare un’intercettazione telefonica, non può arrestare, se non glielo consente un giudice. Il pm è un magistrato e deve rispettare le leggi, mancherebbe altro che non accada questo solo perché è separato. Per quanto riguarda l’equilibrio nell’esercizio dell’azione penale, c’è il giudice nel sistema accusatorio che è la garanzia dei suoi atti. Però come ricordava il consigliere togato del Csm, Marcello Basilico, “I dati ci dicono che in Italia la percentuale di archiviazioni dei procedimenti pendenti nelle Procure è circa del 75%, mentre quella delle assoluzioni al dibattimento è vicina al 50%”. Allora perché separare? Il dato del 50% delle assoluzioni è un elemento che, come si suol dire, prova troppo. Più ci si allontana dalla sfera indebita di influenza del pubblico ministero sulla giurisdizione e più si recupera terzietà. Questo è certamente vero, ma il problema della separazione delle carriere e la esigenza vitale di ottenerla si misura esattamente rispetto alla fase del controllo giurisdizionale delle indagini. Quello che è fallito a causa della carriera unica nel processo penale italiano è l’assenza, il naufragio del controllo dei gip e del gup sull’azione penale. È il pm che controlla il gip e il gup e non viceversa. E la ragione principale è che entrambe le figure sono fortemente condizionate dalle richieste della magistratura requirente. Ci spieghi meglio… Mettiamoci nei panni di un giovane gip di 31 anni di fronte a una richiesta di arresti di 200 persone da parte di un super procuratore: possiamo immaginare che riesca a rimanere forte ed indipendente? Questa cosa non funziona e lo dimostra il 50% di assoluzioni, perché questo - più l’appello - significa che il 50% dei processi non doveva neanche iniziare, o perlomeno non in modo così automatico. E questo cosa significa? Che è fallita tutta la fase del controllo del giudice sulle indagini preliminari. E quando parlano di 75% di archiviazioni? Ma il 75% di archiviazioni è fisiologico perché noi sappiamo come funziona. Chiunque può presentare un esposto dicendo che il vicino vuole assassinarlo e l’obbligatorietà dell’azione penale fa iscrivere la notizia di reato. Quindi loro vogliono portare a sostegno del funzionamento del sistema le centinaia di migliaia di denunce di furto d’auto che dopo 8 giorni vengono praticamente archiviate automaticamente? Devo dire la verità: io sono stupito da questo giocare con i numeri come a un tavolo del casinò. Errori giudiziari, che calvario per ottenere il risarcimento di Antonio Mastrapasqua* Il Riformista, 17 gennaio 2025 Tempi lunghi, importi insufficienti e difficoltà burocratiche: il sistema non va Bisogna riconoscere subito un assegno mensile a chi ha avuto la vita distrutta. Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, ma non di fronte all’amministrazione della giustizia. Non si spiega altrimenti che un cittadino come Beniamino Zuncheddu, ingiustamente condannato e proclamato innocente dopo 32 anni di carcere, per provare ad accelerare - per sé e per quel migliaio di persone che come lui ogni anno sono “vittime della giustizia” - promuova una legge di iniziativa popolare per avere un indennizzo da parte dello Stato. Si dirà che la legge c’è già. Vero. Peccato che i tempi e i modi per erogare l’indennizzo per le vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione non siano adeguati a un paese civile. Se sbagliare è umano - anche da parte di uno o più giudici - perseverare è diabolico. E liquidare l’indennizzo a chi ha avuto la vita distrutta da indagini sbagliate o da sentenze errate può richiedere anni. Molti anni. Non solo: la stessa erogazione dell’indennizzo è sottoposta a regole e a quantificazioni che sono semplicemente scandalose. E allora si comprende la ragione per cui c’è chi ha promosso questa legge di iniziativa popolare - presentata in Cassazione e in cerca di almeno 50mila firme - perché nell’attesa della liquidazione del “dovuto” venga riconosciuto subito un assegno mensile a chi ha avuto la vita personale e professionale distrutta, e di fatto privata anche delle più essenziali forme di sussistenza sociale ed economica. La stessa iniziativa popolare per una legge “tappabuchi” è la conferma di un’indecente asimmetria tra Stato e cittadini. Dovrebbe essere dovere dell’istituzione provvedere a un percorso amministrativo efficiente, efficace e rapido. Ma, visto che per esperienza lo Stato non provvede, i cittadini cercano di difendersi in qualche modo. E dovrebbe essere compito del legislatore “ordinario” impegnarsi per correggere le tante evidenti inadeguatezze della normativa italiana vigente, che ancora non recepisce integralmente il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione così come sancito dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici. L’errore giudiziario tecnicamente si consuma solo con una sentenza definitiva. Tanto che c’è chi recentemente ha avuto l’ardire di dire che il “caso Tortora” non sia stato un errore giudiziario perché, dopo 3 anni di detenzione e una sentenza di primo grado, Enzo Tortora è stato giudicato innocente in appello. Peccato che nel caso suo e in quello di molti altri che hanno subìto detenzioni preventive ingiuste - si parla non di errore giudiziario, ma di “ingiusta detenzione”: la vita viene comunque distrutta, la reputazione infangata, la capacità di lavoro compromessa, con danni economici quantificabili ma raramente “riconosciuti”. Il risarcimento per ingiusta detenzione è una forma di compensazione economica ammessa per chi è stato sottoposto ingiustamente a custodia cautelare, sia in carcere sia agli arresti domiciliari, o a chi ha subìto una condanna poi risultata errata. Questa misura è regolamentata dalla legge n. 447 del 1988, che prevede la possibilità per la vittima di richiedere un indennizzo dopo l’emissione di una sentenza di proscioglimento, dimostrando così l’ingiustizia della detenzione subita. Il processo - un altro processo, sottoposto a una nuova discrezionalità di un altro giudice - per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione richiede che la vittima presenti domanda alla Corte d’Appello competente. Ciò deve avvenire entro 2 anni dalla sentenza di proscioglimento definitiva. E l’importo del risarcimento viene calcolato su un criterio aritmetico che prevede per ogni giorno di detenzione ingiusta circa 117 euro. Ma non è così per tutti. È capitato che per un magistrato ingiustamente detenuto siano stati riconosciuti - a tempo di record - 800 euro di risarcimento per ogni giorno di libertà perduta. Dal 2018 al 2023 lo Stato ha risarcito 4.368 persone ingiustamente arrestate, per un totale di 193 milioni di euro: 44mila euro in media di risarcimento (per chi ci arriva). Una somma congrua per chi ha sofferto la privazione della libertà, un pregiudizio quasi insanabile della propria reputazione, un danno economico diretto e indiretto per la mancata attività di lavoro nei giorni della ingiusta detenzione e in quelli successivi, vista la compromessa reputazione e lo stigma sociale conseguente? E le responsabilità interne al sistema giudiziario restano per lo più impunite: su 87 azioni disciplinari avviate tra il 2017 e il 2023, si sono concluse con 44 archiviazioni, 27 assoluzioni, 8 censure e solo 1 ammonimento. In pratica, sanzioni disciplinari sono state applicate ai giudici che hanno sbagliato solo nello 0,2% dei casi. Non basta. C’è dell’altro in questo percorso asimmetrico, capzioso e fondamentalmente partigiano per chi accusa: per ottenere il risarcimento, la vittima non deve aver contribuito all’errore giudiziario con dolo o colpa grave, una condizione che ha portato a interpretazioni giurisprudenziali controverse. Fino alla non ammissione del risarcimento per chi si sia avvalso della facoltà di non rispondere al Gip per la fase preliminare di convalida dell’arresto. Si badi bene che si tratta di una facoltà prevista e ammessa a garanzia dell’imputato, cui si fa ricorso spesso per un’oggettiva impossibilità di rispondere, avendo ricevuto magari ordinanze con migliaia di fogli la cui lettura richiede molto più delle 48 ore previste. Ben venga il coraggio di Zuncheddu e degli altri promotori della legge. Ma forse molti - al vertice di molte istituzioni del paese e di molti esercizi di rappresentanza - dovrebbero arrossire, almeno, per l’indifferenza in cui si consuma questa indegna dimostrazione di vita dello Stato italiano. *Ex presidente Inps Le Camere penali scrivono la Carta dei Valori per usare l’intelligenza artificiale in ambito forense di Matteo Bonetti Il Domani, 17 gennaio 2025 L’utilizzo dell’AI avrà un grandissimo impatto per tutti gli operatori del diritto ma resterà fondamentale fissare il focus sulle garanzie dell’equo processo e sul rispetto delle libertà individuali. Con l’entrata in vigore del AI Act si stanno aprendo nuove sfide per la professione legale: diventerà fondamentale la supervisione di quanto previsto dalla normativa europea per il rispetto delle garanzie e delle libertà individuali. L’Osservatorio dell’Unione Camere Penali Italiane ha organizzato nell’ambito dei sistemi di Ai un convegno che si terrà sabato 17 gennaio, alle ore 10,30, presso la sede di Ucpi di Roma, intitolato “ Giustizia penale, scienza e intelligenza artificiale; La Carta dei valori dell’Unione delle Camere penali italiane”. Durante la giornata di studio verrà presentato il documento denominato “La Carta dei Valori”: la Magna Charta per l’uso consapevole dei sistemi di AI in ambito forense. Il documento di Ucpi, articolato in articolato in 21 punti e distinto in premesse, principi, metodi e obiettivi, avrà l’ambiziosa finalità di rappresentare la “bussola” volta ad orientare la disamina delle fonti di produzione normativa (europea e nazionale) e dell’elaborazione del pensiero giuridico nell’ambito che qui interessa. Il documento, approvato dalla Giunta di Unione Camere Penali Italiane, è stato redatto con l’ausilio dell’Osservatorio “Scienza, processo e intelligenza artificiale”, recentemente istituito in seno a Ucpi stessa. “L’avvento dell’intelligenza artificiale ha portato con sé un mutamento di paradigma. Il giurista, oggi, non può più fare a meno di avere un approccio multidisciplinare - dice l’avvocato Alessandro Sarti, responsabile nazionale dell’Osservatorio “Scienza, processo e intelligenza artificiale” - si ha bisogno di una conoscenza che sappia articolare i saperi, sappia legarli e renderli complementari”. L’uso dell’intelligenza artificiale come strumento di supporto del lavoro degli operatori del diritto e dei tribunali è ancora in uso sperimentale su tutto il territorio europeo. L’utilizzo dell’AI avrà un grandissimo impatto per tutti gli operatori del diritto: per i magistrati, per gli avvocati ma anche per il personale della polizia di stato. Per gli operatori del diritto, resterà fondamentale fissare il focus sulle garanzie dell’equo processo e sul rispetto delle libertà individuali. “L’intelligenza artificiale e l’evoluzione degli studi scientifici sulla limitata razionalità umana ci impongono nuove sfide. Dobbiamo guardare al futuro con fiducia e lavorare per trovare un punto di equilibrio che consenta di utilizzare l’intelligenza artificiale salvaguardando i diritti fondamentali dell’uomo e i valori costituzionali del giusto processo. Per questo motivo si è sentita la necessità di elaborare “La Carta dei Valori” dell’Unione delle Camere Penali Italiane che ha lo scopo di costituire una “bussola” per orientare le scelte future in tema di giustizia penale, scienza e intelligenza artificiale e per evitare che prevalga una “giustizia esatta” a discapito di una giustizia giusta”, spiega Sarti. I depistaggi su Ramy: la fiducia che manca tra carabinieri e ufficiali di Nello Trocchia Il Manifesto, 17 gennaio 2025 Dopo l’incidente di Milano il numero uno dell’Arma ha scritto una lettera dove ringrazia i suoi uomini. Ma esorta vertici e militari a “rispettare le procedure”. Ecco cosa vuol dire. “Nei secoli fedele” è il motto araldico dei Carabinieri, ma il rischio è che la fiducia scricchioli nel cuore del corpo, nel rapporto tra sottoposti e gerarchie, un cedimento che comprometterebbe la solidità dell’Arma che rappresenta un riferimento per il paese, un presidio diffuso e garanzia di sicurezza. A pesare sono i casi che, in questi anni, hanno appannato la credibilità, preoccupato la pubblica opinione, ma soprattutto sfilacciato la solidità interna. C’è una traccia di questa preoccupazione nella composta e accorata lettera che Salvatore Luongo, neo comandante dell’Arma dei carabinieri, ha inviato al corpo dopo la vicenda Ramy. Dopo aver omaggiato “la dedizione e il coraggio di voi carabinieri anche in momenti difficili” e ricordato “la vicinanza” che il corpo dimostra di sapere esprimere nei confronti della cittadinanza, Luongo esorta però i militari “a improntare sempre la Vostra condotta sulle procedure operative alle quali siete addestrati, che costituiscono la linea d’azione per intervenire tutelando sé stessi e ogni altra persona”. Il pensiero corre veloce a quanto accaduto a Milano, nel quartiere Corvetto, la sera del 24 novembre scorso. Il diciannovenne Ramy Elgaml, inseguito da una gazzella dei carabinieri, è morto dopo che la moto sulla quale viaggiava con un amico si è schiantata tragicamente. Per i militari è stato un incidente, per familiari e amici bisogna fare al più presto chiarezza individuando le responsabilità per quello che appare ai loro occhi come uno speronamento volontario. La procura indaga un carabiniere per omicidio stradale, altre immagini sono all’attenzione dei magistrati inquirenti e dovrebbero chiarire ogni aspetto allontanando sospetti e cattivi pensieri. L’irritazione del comandante Luongo, risulta a Domani, non riguarderebbe la dinamica dell’incidente: saranno i pm ad avere l’ultima parola. Ma la scelta dei carabinieri di cancellare i video dai cellulari di alcuni testimoni, mossa che ha fatto gridare all’insabbiamento e che ha scatenato i sospetti sull’inseguimento. Un comportamento che però forse tradisce una preoccupazione, un timore profondo. La paura da parte dei carabinieri di essere abbandonati dagli ufficiali e dalle gerarchie superiori. Un problema che Luongo vuole evidenziare, per provare - nei tre anni del suo mandato - a risolverlo. Il testimone - Fares Bouzidi, che guidava la moto su cui si trovava Elgaml, ha dichiarato che l’intervento dei carabinieri sarebbe la causa della caduta. Ad assistere alla scena sul marciapiede c’era anche un’altra persona che stava filmando l’accaduto e che avrebbe confermato la versione di Bouzidi. Il suo video, però, è stato cancellato: sarebbero stati i carabinieri a dirgli di eliminare il filmato. Proprio per questo intervento ci sono ora due militari indagati per frode processuale, depistaggio e favoreggiamento. Ora i carabinieri - se le immagini al vaglio della procura dovessero dimostrare la loro innocenza - avrebbero potuto acquisire quel video, consegnandolo agli inquirenti come prova di quanto accaduto. Cancellarlo - ritengono i vertici - è stato invece un errore madornale: ha solo aumentato i sospetti, ha inasprito gli animi e infuocato il clima, sia in piazza sia nei palazzi. Quel comportamento non può solo essere addebitato ai militari in servizio di pattuglia. Ma tradisce rapporti da anni difficili tra la “base” dell’Arma e i vertici del corpo, accusati di essere lontani da chi svolge il lavoro operativo: paga chi è in strada, si salvano le gerarchie. Una mancanza di fiducia che - al netto delle responsabilità penali che sono sempre personali - si è già manifestata in vicende drammatiche che hanno scosso l’Arma, dal caso di Stefano Cucchi, morto di incuria, abbandono e botte (con seguito di depistaggio), a quello della caserma degli orrori di Piacenza. La lettera di Luongo, ovviamente, inizia con un lungo e doveroso encomio ai carabinieri che tutelano la comunità. “La nostra professionalità”, scrive, “è la risposta migliore anche a inopinati commenti che sono ingiustamente apparsi su alcuni organi di informazione in questi giorni. Sono quindi certo che proseguirete nel vostro lavoro, come sempre, con entusiasmo e senso del dovere (...) la vostra determinazione e il vostro coraggio sono la forza di questa istituzione”. Ma quelle righe sulle “procedure” da rispettare sempre contengono un programma chiaro: gli errori non sono solo del singolo, ma anche di chi - in alto - ha la responsabilità di creare rapporti di fiducia e di rispetto con i suoi sottoposti. Verona. Il carcere di Montorio trabocca. E c’è lo spettro del ddl sicurezza di Angiola Petronio Corriere di Verona, 17 gennaio 2025 Tra i 620 e i 630 detenuti, con celle in cui vivono anche 4 detenuti. È la casa circondariale di Montorio, il cui sovraffollamento è stato ricordato nell’incontro di martedì organizzato dal comitato veronese contro il disegno di legge sicurezza a cui ha aderito anche il Pd locale. Ddl che prevede nuovi reati e pene più severe e che rischia di portare al collasso le strutture carcerarie. “Più siamo, meglio è”. Quattro parole in cui è racchiusa la formula di un’adesione. Quella della federazione provinciale del Pd al comitato unitario veronese contro il disegno di legge Sicurezza, “che noi chiamiamo “decreto paura”“, precisa il segretario Dem Franco Bonfante. Adesione arrivata dopo un incontro, martedì sera, promosso dalla trentina di associazioni cristiane e laiche e da Rifondazione Comunista, Movimento 5 Stelle, Verona Radicale e Cgil che di quel comitato sono l’ossatura. Una protesta, quella contro il ddl Sicurezza, che va ampliando le proprie fila. “Avevamo già fatto una riunione con l’esecutivo per chiedere il parere dei vari nostri esponenti e c’è stata sostanzialmente un’unanimità sul dire che questo decreto è inaccettabile in alcune parti ed è la solita politica del forte con il debole e debole con i forti. Crediamo quindi che sia giusto contrastarlo, per quello che si può, sapendo benissimo che il governo ha un’ampia maggioranza e approverà quello che deve approvare”, le parole di Bonfante. Incontro, quello di martedì a cui ha partecipato un centinaio di persone e durante il quale il presidente dell’associazione Sulle Orme, don Paolo Pasetto ha spiegato come “questo disegno di legge non nasce dal nulla, ma da un approccio repressivo e discriminatorio”. Con il professor Ivan Salvadori, docente di diritto penale all’università che ha messo in luce il “panpenalismo” - vale a dire l’ossessione di punire qualunque comportamento deviante con anni di galera - e i vari aspetti di incostituzionalità che ammantano il decreto. Incontro che ha una ricaduta politica “laterale”, che riguarda la maggioranza che governa la città, con la consigliera comunale di Sinistra Italiana Jessica Cugini che ha chiesto che “venga rapidamente modificato il regolamento di polizia urbana dell’era Tosi”. E con una ricaduta che quel disegno di legge avrà su un luogo ammalorato della città. Quella casa circondariale di Montorio appestata dal sovraffollamento che ammorba tutte le carceri italiane. Ne ha parlato il garante dei detenuti don Carlo Vinco, di quelle possibili ricadute. “Andrebbe analizzato più profondamente il tema delle pene, di quali pene realmente servano, della loro quantità e della loro qualità”. Racconta, don Vinco, il caso di un detenuto condannato 11 anl’incontro ni per una rissa su un campo sportivo. Undici anni in cui questa persona “si è sistemata, ha trovato un lavoro, conduce una vita normale. Ma adesso è a Montorio, per scontare una pena di 6 mesi. Per una cosa così bisogna metterla in galera una persona? Non ci sono altri modi?”. Quel garante che alha espresso “la preoccupazione che l’attuazione di un decreto così, visto l’ampliamento delle pene per vari tipi di reato, venga a gravare ulteriormente sulla situazione delle carceri che sono in una situazione sempre più penosa per il sovraffollamento e per gli organici che devono gestirlo. Alcuni giorni fa a Montorio eravamo tra le 620 e le 630 presenze”. In una casa circondariale dove, per dei lavori di ristrutturazione, una delle due sezioni femminili al momento non viene utilizzata e nell’altra ci sono almeno tre detenute per cella. “O l’infermeria - continua don Vinco - dove in questo momento ci sono stanze con 4 persone. E delle celle con 4 persone non possono essere stanze di cura. Questo decreto purtroppo rischia di aumentare questa situazione, non certo di sollevarla. Senza contare il carico di situazioni psichiatriche che c’è e che non sono gestibili dal carcere. C’è bisogno di pene diverse per una persona psichiatrica. Non è chiudendola con 4 persone in cella che risolviamo”. Con il segretario dem Bonfante che non demorde: “ovviamente la battaglia per riportare la normativa al buonsenso rimarrà anche dopo l’approvazione del decreto”, annuncia. Quello che prevede 14 nuovi reati e 9 tipi di aggravanti e che come ha sottolineato il professor Salvadori non solo sovraffollerà ulteriormente le carceri, ma intaserà anche i tribunali, scenario già paventato dal procuratore capo Raffaele Tito. Modena. Incendio in carcere: detenuto gravemente ustionato, un altro ferito e 9 agenti intossicati Gazzetta di Modena, 17 gennaio 2025 Altro grave episodio in carcere a Modena, a testimonianza della situazione sempre più difficile che si vive all’interno, dopo i tre suicidi in una settimana tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Un detenuto gravemente ustionato, un altro ferito e 9 agenti di polizia penitenziaria. È il bilancio di un incendio scoppiato in una cella del carcere di Modena nel pomeriggio di oggi, giovedì 16 gennaio, un altro grave episodio che testimonia la situazione sempre più difficile vissuta al Sant’Anna. Intorno alle 16.30 la centrale operativa del 118 è stata allertata per soccorrere due detenuti rimasti feriti dopo che uno di loro - stando alle prime ricostruzioni - aveva appiccato un incendio nella cella. Al Sant’Anna sono arrivate ambulanza e automedica, che hanno trasportato i due detenuti in ospedale: uno di loro, un 25enne di origine straniera, è stato portato prima a Baggiovara e successivamente trasferito al Centro grandi ustionati di Parma, l’altro invece è ricoverato al Policlinico di Modena con ferite di media gravità. In pronto soccorso si sono poi presentati in maniera autonoma anche 9 agenti di polizia penitenziaria rimasti lievemente intossicati durante l’intervento. I tre suicidi in una settimana - L’episodio di oggi segue quelli ancora più drammatici a cavallo tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo, legati alle tre morti in per suicidio al Sant’Anna. L’ultima in ordine di tempo è quella del 49enne Andrea Paltrinieri, in carcere per il femminicidio dell’ex moglie Anna Sviridenko commesso il 10 giugno 2024: il 7 gennaio è stato trovato morto in cella dopo aver inalato gas in cella dal fornello che i detenuti hanno in dotazione. Prima di lui, martedì 31 dicembre era stato trovato privo di vita un 37enne macedone, anche in questo caso in seguito all’inalazione di gas, mentre sabato 4 gennaio era morto un giovane marocchino nemmeno trentenne che si trovava ricoverato all’ospedale di Baggiovara dopo aver tentato il suicidio ferendosi in modo gravissimo. Firenze. Una struttura per ospitare le detenute fragili, incinte o a fine pena di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 17 gennaio 2025 L’annuncio dell’assessore Paulesu: la casa di accoglienza in un edificio della Caritas. Una struttura di accoglienza per ospitare detenute fragili, a fine pena e incinte pronta per poter ospitare 4/6 ospiti sarà inaugurata a breve. Nascerà in una struttura della Caritas, l’annuncio è stato dato dall’assessore Paulesu. Una struttura di accoglienza per ospitare detenute fragili, a fine pena e incinte. È il progetto a cui sta lavorando il Comune attraverso l’assessorato alle politiche sociali. La struttura, individuata grazie alla collaborazione tra Comune (che pagherà il costo dell’ospitalità) e Caritas (che mette a disposizione un suo immobile), è praticamente pronta per poter ospitare 4/6 ospiti e sarà inaugurata a breve. A darne notizia è stato ieri mattina l’assessore al welfare Nicola Paulesu parlando ai microfoni di Novaradio. La struttura destinata alle donne è nei fatti l’evoluzione dell’originario progetto Icam (Istituto custodia attenuata per madri): previsto già dal 2008 per dare concretezza al divieto di detenzione di giovani madri e donne incinte, mai realizzato e ora superato a favore di un modello più simile ad una “casa di accoglienza” che a una struttura detentiva vera e propria. Inizialmente la struttura dell’Icam si sarebbe dovuta realizzare nell’immobile della Madonnina del Grappa in via Fanfani. Firenze si era candidata a fare da apripista sulle case per le madri detenute, con un protocollo firmato a gennaio 2010 da ministero della Giustizia, Regione (che stanziò 400 mila euro, poi diventati 700 mila), il tribunale di Sorveglianza, l’Istituto degli Innocenti e la Madonnina del Grappa. Dunque, il Comune ci riprova da un’altra parte, anche se niente esclude che l’Icam originario non possa realizzarsi: “Nel prossimo anno - fa sapere Paulesu - dovrebbero terminare i lavori di riqualificazione dell’immobile. A quel punto, si dovrà pensare l’applicazione di un modello coerente con le necessità e le priorità attuali”. La nuova struttura andrà ad aggiungersi a quelle già presenti da tempo a Firenze, come il Samaritano e Casanova (24 posti, destinati agli uomini in detenzione domiciliare o affidati ai servizi sociali), e a quelle più recentemente attivate: Casa Mimosa (gestita dalla Caritas) che prevede 2 posti destinati a persone a fine pena che non hanno la possibilità di altro tipo di accoglienza, seguiti da un educatore, e al centro di un percorso personalizzato che prevede accoglienza, orientamento ai servizi del territorio, la ricerca di un lavoro e di un alloggio, l’assistenza per i documenti, in collaborazione con avvocati e servizi sociali. E la Casa del Melograno (gestita dalla Diaconia Valdese) che offre a 6 uomini maggiorenni in esecuzione penale ed ex detenuti un percorso individualizzato che comprende alloggio, tirocini, inserimenti lavorativi e attività di volontariato. Parlando di carcere, l’assessore sottolinea le “condizioni inaccettabili di vita dei detenuti di Sollicciano” evidenziate anche dal recente sopralluogo della commissione sociale di Palazzo Vecchio, che “rendono difficile portare avanti gli obiettivi di rieducazione e reinserimento sociale”. Per questo, ha spiegato l’assessore, il Comune sta lavorando in particolar modo sul fronte dei percorsi di sostegno al reinserimento e di assistenza socio-sanitaria. Torino. Ancora materassi sul pavimento all’Ipm Ferrante Aporti. “È il peggiore d’Italia” di Alberto Giulini Corriere di Torino, 17 gennaio 2025 Mellano: “Sovraffollamento preoccupante, come quando c’è stata la rivolta”. Non sono passati nemmeno sei mesi dalla violenta rivolta che ha scosso il carcere minorile di Torino. Una notte, quella tra l’1 e il 2 agosto, in cui una cinquantina di detenuti avevano cercato di prendere il controllo dell’istituto, tra incendi e danneggiamenti vari. Al Ferrante Aporti si continua ancora oggi a fare i conti con una situazione complicata e ricca di tensioni quotidiane, frutto anche del sovraffollamento. A fronte di una capienza complessiva di 46 posti letto, infatti, sono 53 i detenuti all’interno dell’istituto. Lo ha constato anche il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, che ieri mattina, assieme ai garanti di Campania e Lazio, Samuele Ciambriello e Stefano Anastasia, a Torino per un convegno sulla situazione delle carceri italiane, ha visitato l’istituto di via Berruti e Ferrero. “Abbiamo constatato, come capita sempre più spesso, una situazione di sovraffollamento - racconta Mellano -. C’erano ragazzi che dormivano per terra, su materassi buttati per terra o brandine da spiaggia. Una situazione che, per certi versi, ricorda quella della scorsa estate, quando ci fu la violenta rivolta che rese parzialmente inagibile la struttura. Mi auguro che l’epilogo non sia lo stesso, ma chiederò l’immediato intervento del dipartimento di giustizia minorile. Il ferrante non può più accogliere altri detenuti, che devono essere “ripartiti”, in base alle disponibilità nelle altre strutture” Una situazione che ha spinto all’adozione di soluzioni improvvisate, come denunciato dall’osapp, sindacato di polizia penitenziaria: “Da alcuni giorni 4 detenuti dormono con il materasso sul pavimento e altri due su una brandina da spiaggia”. Leo Beneduci,segretario generale dell’organizzazione sindacale non usa mezzi termini: “Il Ferrante Aporti è uno dei peggiori due poliziotte in servizio nel carcere minorile di Torino e sui quali il Servizio di vigilanza cercherà di fare luce. “Un’agente incinta è stata impiegata in servizio operativo con cinturone e pistola d’ordinanza per poi negare questa circostanza, nonostante le evidenti prove di cui siamo in possesso - conclude Beneduci -. Chiediamo quindi al sottosegretario Ostellari e al ministro Nordio di fare piena luce sulla gravità di quello che sta accadendo al Ferrante Aporti di Torino. La situazione è gestita in maniera del tutto inadeguata e si deve provvedere, se necessario, alla sostituzione del capo del dipartimento della giustizia minorile e di comunità”. Lauro (Av). Nel carcere degli innocenti, i “bambini dentro” con le madri di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2025 La vita di cinque figli di detenute per droga, reati connessi all’immigrazione o furti. Una giornata nell’istituto. Rilievi del Quirinale sulla stretta del ddl sicurezza per le donne in cella con minori C’è Daniele che quando vede un mazzo di chiavi si tappa le orecchie per non sentire le mandate. E c’è Michele che quando va dalla nonna chiede: “a che ora si chiude la porta?”. C’è Cristina che ricorda alla mamma di “fare la domandina per comprare i quaderni”. E poi c’è Angela che dorme, col ciuccio in bocca, nel passeggino. Aperta la porta blindata, sotto lo sguardo vigile di Mary Poppins, entriamo nel carcere degli innocenti per definizione. Bambini di pochi mesi o pochi anni, che condividono con le madri condanne che non hanno potuto scontare fuori. Bambini che tra questi corridoi cominciano a camminare e parlare. Bambini che imparano ad osservare il mondo da dietro grate e cancelli, per quanto camuffati tra le magie della babysitter più famosa al mondo, trai denti della balena di Pinocchio, nella barba dei sette nani o nella criniera di Re Leone. Ma questa dei “bambini dentro” è una fiaba in partenza senza lieto fine. Per quanto qui - nell’Icam di Lauro (Avellino), il principale istituto a custodia attenuata per madri detenute al Sud-non si respiri l’aria ferma del carcere. Ci sono ancora tracce dei regali di Natale quando entriamo in questo edificio che fin dai colori pastello della facciata vorrebbe far dimenticare la sua natura. Spalancato il cancello, incontriamo storie di vite ai margini, di reati talora gravi e sensi di colpa ancor maggiori; storie di “generosi operatori”, per usare le parole del Presidente della Repubblica; ma vediamo anche il lungo cammino normativo alla ricerca di un bilanciamento tra il diritto del figlio a non essere privato del legame materno neiprimi anni di vita e la domanda di sicurezza della collettività. Oggi per una donna incinta o con un figlio di pochi mesi esiste il differimento obbligatorio della pena. Il disegno di legge sicurezza, in discussione in Parlamento, punta ad eliminarlo, ma il testo è di fatto ancora in evoluzione, dopo i rilievi del Quirinale proprio su questo punto - la stretta per le detenute-madri - e altri. Quando arriviamo in questo lembo della provincia di Avellino, l’Icam è al minimo delle presenze, pur rimanendo il più pieno dei cinque istituti speciali introdotti in Italia dal 2 oli. Quattro le donne ospiti a Lauro, provenienti da più regioni del centrosud, con 5 figli. Dodici in totale i bimbi contati a fine dicembre nelle strutture di Milano (2); Torino (1) e Venezia (3). L’Icam di Cagliari di fatto non è operativo, mentre una madre col figlio è nel carcere femminile di Rebibbia a Roma (uno dei 19 con un asilo nido). Secondo gli operatori, si ripetono tre profili di detenute (italiane e non): donne condannate per droga; quelle a cui si contesta lo sfruttamento della prostituzione o la tratta di esseri umani; e quelle arrestate per furti o rapine, comprese le borseggiatrici da cui gli annunci nelle metropolitane mettono in guardia. Come in ogni casa con figli piccoli, sono loro a scandire l’organizzazione della giornata: alle 7.30 i più grandi vengono accompagnati dalle madri fino al cancello, dove il pulmino della scuola fa la sua prima tappa (“per non far vedere agli altri scolari dove vive”, spiegano gli operatori, anche se poi sono i più piccoli a chiamare le cose col loro nome: “mi porti in carcere?”). La mattina anche le madri straniere partecipano a corsi di alfabetizzazione (“spesso fanno fatica anche a compilare la domandina”, spiegano, il modulo cioè che dietro il diminutivo cela la via obbligata per ogni richiesta); o lavorano nelle pulizie o in cucina. O lavano la biancheria dei bilocali dove ciascuna vive coni figli, quando i numeri bassi delle presenze lo consentono: zona giorno con tavolo e angolo cottura; bagno dignitoso e zona notte, con letto per la mamma e quello per i figli o la culla. Sul muro il televisore. Solo le grate, coperte da tende colorate, ricordano che quello non è un condominio qualsiasi, come lascerebbero pensare le porte semplicemente in legno o la (non) presenza di telecamere, perfettamente camuffate. Una delle tante cautele che si ripetono nell’assenza di uniforme per gli agenti della polizia penitenziaria o nell’uso di un’auto senza scritte o lampeggianti (“anche sei bambini si divertono tantissimo quando li vedono”). Sì, perché se un bimbo sta male a scuola è al carcere che chiamano; se deve essere sottoposto alla visita di uno specialista, il carcere attiva il servizio piantonamento. Come avviene per accompagnare in ospedale ogni detenuto. E se è invitato ad una festa di compleanno o coinvolto in un’attività sportiva? “Noi facciamo un po’ tutto e ci affidiamo a volontari, che conosciamo e che avranno già conquistato la fiducia della madre”. “I nostri bambini - come li chiamano agenti, educatori, dirigenti- partecipano quanto più è possibile alle iniziative esterne, come i campi estivi della Croce Rossa; e vanno alle feste degli amici; al contrario gli altri bimbi - raccontano - non sono stati mai invitati qui. Servirebbero autorizzazioni”. E questo resta un carcere. Con le sue regole, benché tutto venga interpretato all’insegna del “buon senso e dell’equilibrio”, sintetizza Mariarosaria Casaburo, direttrice della Casa circondariale di Avellino, da cui dipende l’Icam di Lauro. Parole d’ordine con cui interpretare le norme anche sugli aspetti non definiti. Come avviene d’altra parte nelle realtà penitenziarie più complesse, dove il gigantismo dei numeri, come a Poggioreale, fa ombra ai quotidiani sforzi. Così con “buon senso ed equilibrio” la direttrice si interroga pure sulle preoccupazioni delle altre madri che incontra: “le detenute con figli in casa famiglia o all’estero; quelle con figli adolescenti, che avrebbero bisogno di essere seguiti come questi bimbi”. Una madre resta tale anche quando il bimbo avrà superato i in anni, limite per restare in un Icam (in caso di condanna definitiva della donna; sei per la custodia cautelare). Dietro le porte di questo Icam, non vivono le madri delle favole raccontate nei corridoi, che conducono anche all’area azzurra per padri (“ma non è mai capitato”). Ci sono donne con vite drammatiche, come Bevo o Belinda, nomi di fantasia come tutti quelli citati- entrambe nigeriane, entrambe arrestate per reati connessi alla tratta di esseri umani. Ci sono donne, come Sabrina, che dopo la chiusura dell’osteria dove lavorava cominciò a spacciare “consapevole di ciò a cui andavo incontro, ma ero in difficoltà. Fui arrestata dieci giorni prima del parto del mio primo figlio”. Andò ai domiciliari, poi è entrata nell’Icam - anche con la seconda bimba - per evasione. Ci sono poi figli, come Elsa che ha raccontato all’Icam di “essere rimasta giorni nella roulotte del campo rom” e ci sono quelli che vengono mandati ad intercedere presso gli operatori. “Vengono i bambini a dirmi: mamma piange, le puoi dare una sigaretta?”, racconta uno di loro. Quelle che incontriamo sono madri consumate dal senso di colpa. “Alfonso mi continua a ripetere, torniamo a casa! Capisce benissimo dove si trova e quando vede il cancello piange. Spesso non mangia e ha problemi di logopedia”, racconta Sabrina. Belinda si interroga sulle terapie perii figlio di 7 anni (in carcere da 4) che ha un problema alla gamba: oggi non è a scuola e gioca nei corridoi dove tutto resta aperto fino alle 22. Beka, invece, da 5 anni dentro e con altri 6 da scontare, viene consolata dalla figlia: “se mi vede giù mi dice: dai, tra poco andiamo in permesso”. Con un ribaltamento dei ruoli, è lei a ripetere alla madre: “se fai la brava, usciamo prima”. E proprio come hanno fatto i genitori, l’educatore ha aiutato i piccoli scolari durante la pandemia con la didattica a distanza, dopo la donazione a tempi record di pc da parte di un territorio che ha abbracciato le sorti di questi bimbi. Carcere e bambini: tutto qui sembra un ossimoro. Ma tutto qui parla anche di futuro, come la sala giochi piena di palle o il giardino con altalene, scivoli e panche. Come in un pic-nic della domenica. Ma qui non ci sono famiglie da pubblicità e per i protagonisti di questa storia nessuno si sente di prevedere che “vissero felici e contenti”. Roma. “Favori ai detenuti”: perquisito il cappellano di Rebibbia Lucio Boldrin di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 17 gennaio 2025 Padre Lucio Boldrin, il cappellano di Rebibbia, è indagato per favoreggiamento dai pm Stefano Pizza e Antonio Verdi. Ieri mattina ha subito una lunga perquisizione da parte degli agenti della Polizia penitenziaria. Secondo prime ricostruzioni avrebbe aiutato alcuni detenuti (in particolare quelli in attesa di processo) a comunicare con l’esterno. Un testo manoscritto, tra le altre cose, è stato sottoposto a sequestro dagli agenti che procedevano nelle operazioni. L’inchiesta nasce da un altro filone riguardante i maltrattamenti in famiglia di un detenuto. La perquisizione è solo un primo passo verso l’acquisizione di indizi. Padre Boldrin svolgerebbe un ruolo di cerniera tra esterno e interno del penitenziario. Le perquisizioni sono avvenute nel suo studio e nella sua abitazione. Inchieste su accessori informatici ma soprattutto droga introdotta surrettiziamente a Rebibbia sono state già affrontate. In realtà l’allarme su carceri-colabrodo sotto questo profilo è stato lanciato anche da figure autorevoli, quali procuratori capo e investigatori decorati. Il punto è capire se effettivamente padre Boldrin abbia violato il codice penale o semplicemente abbia commesso una leggerezza nello svolgimento di un ruolo oggettivamente delicato come il suo. Padre Boldrin è (temporaneamente) interdetto dalla sua attività quotidiana e non potrà entrare a Rebibbia. Foggia. “Cantare in libertà” per riabilitare i detenuti, il progetto sbarca in Senato immediato.net, 17 gennaio 2025 Presentata nella Capitale l’iniziativa “Cantare in libertà”, su iniziativa del senatore Costanzo Della Porta e il sostegno del senatore Paolo Marcheschi. Presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato si è svolta la presentazione del progetto avviato nelle carceri di Foggia, “Cantare in libertà”, su iniziativa del senatore Costanzo Della Porta e il sostegno del senatore Paolo Marcheschi che sono intervenuti. Il progetto realizzato in collaborazione con Chiesa Valdese di Foggia, il Csv (Centro Servizi Volontariato) di Foggia, l’Ulepe, la casa circondariale di Foggia nella figura della direttrice Giulia Magliulo, l’area comportamentale diretta da Giovanna Valentini e del comandante della Polizia Penitenziaria Claudio Ronci, si è svolto dal giugno 2023 al dicembre scorso. Il laboratorio, unendo arte e riabilitazione, nasce dal desiderio di Valerio Zelli, coautore ed interprete degli Oro, di mettere a disposizione degli altri la musica e la sua forza nel diventare dono e cura. Il progetto ora, grazie alle etichette discografiche MRI e Maqueta Records, diventerà un disco con una nuova versione incisa con i detenuti di Padre Nostro, successo degli Oro a Sanremo 1997 e Angeli e Demòni, l’inedito scritto da Valerio Zelli tra le mura della casa circondariale di Foggia. “Cantare in Libertà - afferma Zelli - è stato un viaggio introspettivo ed emozionale; un’opportunità per riflettere profondamente sulle scelte di vita fatte e sulle condotte che hanno portato alla condizione di detenzione. Attraverso il canto, i detenuti hanno avuto modo di esplorare le proprie emozioni, superare barriere culturali e caratteriali, coltivando la speranza di nuove prospettive future. La voce, intesa come strumento di espressione e libertà, è divenuta strumento per stimolare un cambiamento personale e per immaginare un reinserimento positivo nel tessuto sociale. A dicembre si è svolto in carcere lo spettacolo conclusivo in cui i detenuti hanno cantato alcuni dei più grandi successi degli Oro, Padre Nostro (Sanremo 1997), Vivo per lei, Quando ti senti sola, Rose rosse e caffè, oltre che una cover scelta liberamente da ognuno di loro. Un momento importante che ci ha confermato come l’arte, in questo caso il canto, possa essere un potente veicolo di trasformazione e consapevolezza, grazie al quale i partecipanti hanno vissuto un’esperienza unica, capace di lasciare un segno profondo nel loro percorso personale. Un esempio concreto di come la collaborazione tra istituzioni, associazioni e artisti possa dare vita a progetti di grande impatto sociale, contribuendo al miglioramento della vita delle persone e al rafforzamento della comunità. Ringrazio il senatore Costanzo Della Porta per l’occasione, il privilegio che mi ha concesso di essere qui a presentare il nostro progetto. Ringrazio il senatore Paolo Marcheschi, per l’attenzione ed il sostegno”. Il senatore Costanzo Della Porta ha commentato: “Ho conosciuto Valerio, nel mio Comune di residenza dove esercito ancora la funzione di Sindaco, quando venne a cantare. Quando mi ha spiegato quello che fa nelle carceri, ho avuto solo conferma di quello che già avevo intuito sentendolo cantare. Ci siamo messi in moto per organizzare questa conferenza stampa, il cui merito è tuo, Valerio. Noi Senatoridella Repubblica dobbiamo ascoltare ed accogliere le istanze che arrivano dal territorio, soprattutto quando sono intelligenti e fatte col cuore. Questa è un’occasione giusta, noi siamo qui a dimostrazione del fatto che le istituzioni devono essere vicino a tutti, senza distinzione alcuna, quando i progetti sono buoni e meritevoli. Speriamo di poter dare una mano magari a portare anche in altre realtà questa iniziativa, nella speranza che possa alleviare la pena e grazie al tuo contributo, modificare il loro percorso di vita una volta fuori. Grazie per quello che fai”. Il senatore Paolo Marcheschi ha portato il suo saluto chiosando: “Sono felice di portare un sentito saluto, per un progetto davvero nobile di un autore, un cantante di successo, che ha messo a disposizione di chi ha sbagliato ed è privato della libertà, la sua arte. Il lato umano della proposta ci ha convinti e i risultati ottenuti, in un momento in cui le carceri stanno attraversando un momento complicato, per svariati motivi, di sovraffollamento e problemi strutturali, sono speranza e richiamo a non sottovalutare l’aspetto umano. Un obiettivo che si pone anche la Costituzione, con il recupero che dovrebbe essere la finalità della detenzione. L’elemento topico è rappresentato proprio da queste iniziative, che possono migliorare sicuramente lo stato della vita all’interno del carcere e favorirne il recupero. Un recupero non solo sociale ma anche di umanità. Sono progetti che si portano avanti con difficoltà perché purtroppo ci sono problematiche ben più urgenti e grandi nelle carceri, ma queste iniziative sono comunque fondamentali”. Rovigo. “Libertà vo cercando”, convention del Centro Francescano di Ascolto Ristretti Orizzonti, 17 gennaio 2025 La 37^ Convention del Centro Francescano di Ascolto-Odv si tiene domenica mattina 26 gennaio, presso la Sala Conferenze del Seminario Vescovile di Rovigo, dal titolo “Libertà vo cercando - riprendiamola in mano, riprendiamola intera, riprendiamoci la vita, la terra…”, con la presenza di Giulio Cainelli, presidente della Scuola di Economia e Scienze Politiche dell’Università di Padova; Flavio Lotti, presidente della Fondazione Perugia Assisi per la cultura della pace e organizzatore della Marcia per la pace Perugia-Assisi; Livio Ferrari, fondatore e presidente del Centro Francescano di Ascolto e portavoce del Movimento No Prison. Afferma Ferrari “La nostra società è condizionata dalla complessità e frammentazione del vivere di questo periodo storico che rischia di farci perder di vista uno degli elementi essenziali dell’esistenza: la libertà, che è un fattore fondamentale per vivere in un mondo di pace! Alcuni argomentano che, soprattutto nei paesi occidentali, siamo più liberi di quanto siano stati i nostri predecessori, scambiando probabilmente per libertà l’attuale schizofrenia del muoversi collettivo, dello spostarsi in continuazione attraverso qualsiasi mezzo possibile, dall’auto ai treni, dai pullman agli aerei, etc. Questa visione ci allontana dalla realtà dei fatti al punto che non scorgiamo come alla libertà si stia sempre più contrapponendo l’arbitrio del più forte, il livore ha messo da parte la tolleranza, che è necessaria per una pacifica convivenza, e a tutto questo si stanno sommando le perdite delle conquiste sociali, che sono i cardini per corroborare la libertà. Dobbiamo essere oltremodo coscienti che, purtroppo, ogni conquista e libertà, nel corso del tempo, può essere persa, ma anche e soprattutto che adesso si tratta di riprendersela”. Carlo Lucarelli racconta cos’è la diversità di Renato Franco Corriere della Sera, 17 gennaio 2025 Su Sky arriva la docuserie “La nave dei folli. Oltre la ragione” che, attraverso le incredibili vite di sei personaggi del passato, analizza lo stigma della diversità nel corso della storia. “Una nave è un ottimo mezzo con cui viaggiare, in mare aperto, con lo sguardo che spazia all’orizzonte, può accadere di tutto lungo il viaggio e approdi ad un porto che magari è molto diverso da quello che ti aspettavi. Ecco, una Nave dei Folli è ancora migliore. Il mare in cui navighi è privo di punti di riferimento e l’orizzonte è ancora più largo, il porto ancora più imprevedibile. E magari scopri che quello che pensavi fosse soltanto follia è invece genio, modernità, trasgressione e futuro. È quello che mi è successo con questo programma. Già sapevo che Nerone, Giovanna la Pazza, Tolstoj o Camille Claudel erano molto di più che semplici pazzi. Adesso so che erano anche molto, molto altro ancora”. Carlo Lucarelli presenta così La nave dei folli. Oltre la ragione, la nuova docuserie Sky che attraverso le incredibili vite di sei personaggi del passato (gli altri sono Madeleine Pelletier e Cesare Lombroso) racconta lo stigma della diversità nel corso della storia. E grazie al racconto dello scrittore e all’intreccio di fatti storici con le testimonianze di esperti sugli studi psichiatrici più recenti, cerca di porre nuove domande scavando a fondo nella dimensione umana di personaggi del passato che forse appartenevano già al futuro. Persone così differenti le cui storie meritano di essere raccontate di nuovo, forse riabilitate, almeno comprese. La violenza maschile esce dalle case e fa irruzione nella vita pubblica di Lea Melandri Il Manifesto, 17 gennaio 2025 La violenza di genere è oggi al centro del dibattito pubblico, giudiziario e politico. Se ne parla in trasmissioni radiofoniche, televisive, giornalistiche, con attenzione a vicende anche non recenti in relazione ai processi che vi hanno fatto seguito. Da caso di cronaca, patologia del singolo, vicenda “privata”, la problematica che ruota intorno al rapporto tra i sessi, nei suoi aspetti di violenza manifesta, si è notevolmente estesa, fino ad arrivare alla presidenza degli Stati Uniti, nella persona del nuovo eletto: Donald Trump. Mi sono chiesta quale legame ci può essere tra fatti che hanno come elemento comune donne che sono state uccise, violentate, aggredite sessualmente, sottoposte a controlli polizieschi umilianti, o soltanto molestate, ma che si scostano per la prima volta dalla semplice richiesta di protezione per le vittime e carcerazione più pesante per gli aggressori. Penso al processo con cui Trump è stato riconosciuto colpevole di “aggressione sessuale” nei riguardi della scrittrice Jean Carrol, poi licenziata dalla rivista Elle, a cui il caso sembra aver fatto perdere molti lettori e lettrici, alle ragazze belghe che nella notte di Capodanno in piazza Duomo a Milano sono state fatto oggetto di violenza di gruppo, alle attiviste di Extinction Rellion, Ultima Generazione, che arrestate dopo una pacifica manifestazione davanti al gruppo industriale Leonardo a Brescia sono state costrette a denudarsi e a fare flessioni, un trattamento di controllo riservato solo a loro e non ai maschi. E penso ai due processi, ritornati al centro dell’attenzione mediatica per le sentenze discutibili con cui si sono chiusi recentemente: il caso dell’imprenditore Salvatore Montefusco, che due anni e mezzo fa ha ucciso la moglie e la figlia di lei, e a cui la Corte di Assise di Modena ha commutato l’ergastolo in trenta anni di carcere, riconoscendo come attenuante del suo gesto “motivi umanamente comprensibili”; a quello di Alex Cotia che ha ucciso il padre dopo aver assistito per anni alle violenze contro la madre, e che in Appello è stato assolto per “legittima difesa”. La novità e la ragione del rilievo che ha preso una violenza rimasta per secoli all’interno delle case, nella privatezza in cui il dominio maschile ha confinato la sessualità, le relazioni di coppia, i ruoli familiari, è che a esserne scopertamente investite oggi sono istituzioni di primo piano, come le Corti di Appello, la Polizia di Stato, e, nel caso Trump, la Presidenza di quella che è ancora la prima potenza mondiale. Tutto ciò che è rimasto ambiguo e impresentabile del legame perverso tra amore e potere nel rapporto tra i sessi viene allo scoperto nei luoghi che sono parsi finora più lontani ed estranei. Che il sessismo, o se si preferisce la cultura patriarcale, non sia mai stata assente dai poteri e saperi della vita pubblica è una di quelle “evidenze invisibili” che ancora aspettavano di venire portate a consapevolezza, e forse ad abbattere un tabù così duraturo non poteva che essere la violenza contro le donne nel suo aspetto più feroce ed arcaico: il potere maschile di vita e di morte sul sesso che è stato considerato e per ciò stesso asservito, come “natura inferiore”. Nel suo libro “Il dominio maschile” (Feltrinelli 1998) Pierre Bourdieu sottolinea il fatto che il sessismo è inscritto nelle istituzioni ma anche “nell’oscurità dei corpi”: “La divisione tra i sessi sembra rientrare nell’”ordine delle cose”, come si dice talvolta per parlare di ciò che è normale, naturale, al punto da risultare inevitabile. Essa è presente, allo stato oggettivato, nelle cose (ad esempio nella casa, le cui parti sono “sessuate”) in tutto il mondo sociale e, allo stato incorporato, nei corpi, negli habitus degli agenti, dove funziona come sistema di schemi, di percezione, di pensiero e di azione”. Riconoscere l’aspetto “oggettivo” della rappresentazione maschile del mondo, il suo radicamento considerato la “normalità” di ogni ordine sociale, oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, non è più separabile da vissuti, pregiudizi, sentimenti, costruzioni mentali, che si accompagnano all’atto violento e che, nell’immediato, sembrano spiegarne la ragione. L’assillo ossessivo e doloroso della “gelosia”, per l’abbandono da parte di una moglie, di un’amante, di una fidanzata, la “rabbia e l’odio”, così come la “paura” di un figlio si è trovato per anni ad assistere alla violenza contro la madre da parte di un genitore violento, non si può negare che siano “umanamente comprensibili” e che possano produrre un “black out emozionale ed esistenziale”. Allo stesso modo, si può restare sorpresi e indignati che sia una corte giudiziaria a parlare del rapporto conflittuale all’interno di una coppia, delle “frustrazioni” subite a sua volta da un coniuge violento, e ad assumerle come “attenuanti” in un processo di duplice femminicidio, come nel caso di Salvatore Montefusco. Negare la complessità, le ambiguità, l’annodamento perverso di passioni contrastanti, come potere e amore, desiderio e respingimento, che sono all’origine della durata millenaria del dominio maschile, vuol dire sottrarsi alla consapevolezza del suo aspetto del tutto particolare, che è la confusione con le esperienze più intime dell’umano. Quello che mantiene viva l’attenzione dei media e l’indignazione che passa attraverso i social e le voci di tante ascoltatrici e ascoltatori delle radio è, giustamente, l’uso che consapevolmente o meno viene fatto del risvolto “soggettivo”, “esperienziale” del gesto violento per coprire ancora una volta la realtà storica di un fenomeno, che come tale, pur senza misconoscere la responsabilità del singolo, parla del condizionamento che lo anticipa e lo sovrasta. Da ciò si dovrebbe dedurre che non è con l’aumento delle pene che si può arginare o prevenire la violenza di genere, in qualsiasi forma si manifesti, ma con un processo educativo che investa la scuola, fin dall’educazione primaria, ma anche la società nelle sue strutture portanti, politiche, culturali, economiche, giudiziarie e informative. Migranti. A Potenza va a processo il “sistema Cpr” di Nicola Datena Il Manifesto, 17 gennaio 2025 Si è svolta presso il Tribunale di Potenza l’udienza preliminare del processo penale sul “sistema” del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Palazzo San Gervasio che vede sul banco degli imputati avvocati, medici, agenti di polizia dell’ufficio immigrazione della questura di Potenza nonché il direttore del centro e la società che lo gestiva su appalto della prefettura. I reati contestati dalla procura riguardano tutte le figure professionali chiamate a intervenire per la gestione e il funzionamento del centro di detenzione. L’indagine farebbe emergere un sistema criminale che aveva lo scopo di massimizzare i profitti dalla filiera delle deportazioni. Gli stranieri detenuti, grazie alla compiacenza degli agenti di polizia e degli operatori del centro, venivano costretti a nominare avvocati “amici” che si preoccupavano di restituire il favore con denaro o altri doni. La detenzione avveniva in assenza dei servizi minimi che avrebbero dovuto essere garantiti dall’ente gestore come previsto dal contratto di appalto del valore di centinaia di migliaia di euro. Meno servizi si offrono, minore è la spesa per la gestione, maggiore è il margine di guadagno per il privato. Tutto questo sarebbe accaduto in una struttura che molti descrivono simile a “un pollaio” o a “un canile” composto da un ampio cortile sterrato dove si affacciano le gabbie in cui sono ristrette le persone in attesa del rimpatrio. Come unica forma di comunicazione i detenuti hanno quella di gridare le proprie esigenze e sperare che l’operatore di passaggio nel cortile capisca la loro lingua e raccolga la richiesta. L’assenza di servizi, gli abusi, il cibo scadente, a Palazzo San Gervasio come negli altri Cpr d’Italia, hanno provocato e provocano rivolte e proteste represse con interventi della polizia in tenuta anti sommossa, fiumi di psicofarmaci e sedativi prescritti dai medici del centro e somministrati anche con la forza. Proprio per un tale episodio alcuni agenti di polizia in servizio nel Cpr sarebbero indagati per maltrattamenti e tortura. Un quadro raccapricciante ai danni di persone in condizione di vulnerabilità, prive di permesso di soggiorno, recluse in un paese straniero. Situazione denunciata da anni da associazioni e movimenti e che sarebbe comune a tutti i centri di detenzione, da Gradisca di Isonzo a Caltanissetta. Al di là delle gravi responsabilità penali che dovranno essere accertate dai Tribunali in lunghi e complessi processi, quello che emerge è che il Cpr sono non-luoghi criminogeni e patogeni per chiunque li attraversi. Lo scopo dei centri di permanenza per il rimpatrio è quello di detenere le persone in attesa di un probabile rimpatrio verso il paese di origine, nessuno sa quando e se avverrà il rimpatrio. Questa condizione di per sé è disumana. È una pena detentiva senza delitto e senza processo. All’udienza di ieri celebratasi a Potenza il giudice dell’udienza preliminare ha ammesso le associazioni Asgi, Le Carbet, Spazi circolari e Cild che hanno chiesto di costituirsi parti civili in quanto enti esponenziali dei diritti dei migranti. Il procedimento, che vede 27 imputati per 27 capi d’imputazione, è solo all’inizio e continuerà ancora a lungo. È evidente però che ad essere sotto accusa, non solo a Potenza ma in tutti Italia, è il “sistema Cpr” che disumanizza non solo le persone detenute ma chiunque vi entri in contatto, avvocati, agenti di polizia, sanitari e mediatori compresi. È ormai accertato che i centri per il rimpatrio, introdotti nell’ordinamento italiano nel 1998, producono violenza, reati, traumi e patologie. I procedimenti penali sui Cpr che si stanno celebrando a Potenza, Milano e Torino suggeriscono che l’Italia e l’Europa si trovano ad un bivio importante: decidere di adattare gli ordinamenti giudiziari per “legalizzare” la disumanità dei Cpr o accettare che la libertà di movimento è un diritto fondamentale che non può e non deve essere limitato e quindi che i centri di detenzione per le persone prive di permesso di soggiorno non hanno senso di esistere. Se il Governo ignora il diritto internazionale di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 17 gennaio 2025 Nello stesso giorno in cui una tregua pare raggiunta nella tragica guerra di Gaza, dal Governo italiano esce la notizia che esso non darebbe esecuzione all’ordine della Corte internazionale di giustizia di arresto di Netanyahu ove il capo del Governo israeliano dovesse venire in Italia. La circostanza spinge a riflettere sul ruolo della Corte, sulle intenzioni e speranze che ne hanno accompagnato l’istituzione e sulla sua crisi. Una crisi che ha un carattere del tutto particolare nel quadro generale di quella che investe il diritto internazionale e le Corti incaricate di assicurarne l’osservanza. Nel preambolo dello Statuto della Corte penale, adottato a Roma nel 1998 e ratificato dall’Italia l’anno successivo, si legge che si è valuto porre termine all’impunità degli autori dei più gravi crimini, contribuendo in tal modo, “nell’interesse delle generazioni presenti e future”, alla prevenzione di nuovi crimini contro l’umanità, crimini di guerra, genocidi e aggressioni internazionali. Il trattato istitutivo della Corte stabilisce all’articolo 27 che esso “si applica a tutti in modo uguale senza qualsivoglia distinzione basata sulla qualifica ufficiale. In particolare, la qualifica ufficiale di capo di Stato o di governo, di membro di un governo odi un parlamento, di rappresentante eletto odi agente di uno Stato non esenta in alcun caso una persona dalla sua responsabilità penale per quanto concerne il presente Statuto e non costituisce di per sé motivo di riduzione della pena”. E “le immunità o le regole di procedura speciali eventualmente inerenti alla qualifica ufficiale di una persona in forza del diritto interno o del diritto internazionale non impediscono alla Corte di esercitare la propria giurisdizione nei confronti di tale persona”. Il senso proprio delle parole, la logica dello Statuto e l’intenzione dei suoi autori sembra non lasciare spazio a dubbi: per i crimini per i quali è stata istituita la Corte penale internazionale non vale alcuna immunità, nemmeno quelle assicurate ai capi di Stato, capi di governo e ministri degli Esteri da una consuetudine generale del diritto internazionale. Essa cede rispetto alla disposizione specifica dello Statuto della Corte penale internazionale: nell’interpretazione del diritto la norma specifica prevale su quella generale. Qui la specificità della disposizione dello Statuto della Corte deriva sia per i casi considerati (quei crimini), sia per la autorità che procede (la Corte internazionale). Infatti nella prassi abbiamo visto, senza troppo dibattito pubblico, l’arresto o, in sua mancanza, la latitanza di capi di Stato (africani) perseguiti dalla Corte. La Corte penale internazionale ha recentemente emesso ordini di arresto contro Putin, presidente russo, Netanyahu capo del governo e Gallant ministro della difesa d’Israele (oltre ad alcuni capi di Hamas). Diversi sono i fatti loro contestati, ma tutti costitutivi dei crimini per cui è competente Corte penale internazionale. Israele e la Russia non hanno ratificato lo Statuto della Corte, ma i fatti sono stati commessi in territori in cui esso si applica. Le reazioni sono state virulente e così le accuse alla Corte. Sull’onda del caso Netanyahu il Congresso degli Stati Uniti ha in corso di approvazione una legge (“Illegitimate Court Counteraction Act”) per punire tutti coloro che collaborano con la Corte penale internazionale nell’indagare la condotta di americani o di cittadini di Paesi alleati. Si tratta di un’iniziativa in linea con la politica di contrasto alla Corte da sempre attuata dai governi degli Stati Uniti. Da parte sua la Russia ha addirittura emesso ordini di arresto dei giudici della Corte che hanno ordinato l’arresto di Putin. E, più o meno esplicitamente, molti Stati, anche membri del sistema della Corte penale interazionale, hanno fatto sapere che non eseguiranno gli ordini di arresto emessi dalla Corte. È chiaro che in tal modo la Corte internazionale è resa inoperante o - peggio - è destinata ai piccoli impotenti ed impedita quando si tratta dei potenti. Tutto ciò dà ragione a chi se ne rammarica e protesta. Ma tra chi invece dubita e si interroga vi è anche chi è ben lontano dall’accettazione o addirittura dalla connivenza con la politica di governanti che commettono crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidi o invadono il territorio di altri Stati. L’alternativa - l’incompatibilità e reciproca concorrenza - tra lo strumento della repressione criminale internazionale e quelli tipici della diplomazia ha sempre accompagnato la discussione sulla scelta dei metodi cui ricorrere. Vi sono domande cui è necessario dar risposta. Quale è in concreto il rapporto tra pace e giustizia? È stato efficacemente chiesto: non può esserci pace senza giustizia, ma può esserci giustizia senza pace? Che cosa ha influito sul raggiungimento della sospensione delle ostilità a Gaza? La composizione almeno temporanea degli interessi degli attori politici e militari o l’ordine di arresto emesso dalla Corte penale internazionale? Gli automatismi della giustizia penale, oppure la duttilità dei rapporti tra le parti in causa, con le pressioni, le attese, le offerte pubbliche e quelle segrete, le minacce? Il diffuso rifiuto di considerare la Corte obbliga a riprendere la discussione, se non sull’esistenza della Corte, almeno sulle regole stabilite per il suo funzionamento. Stati Uniti. Guantánamo: il buco nero dei diritti, 23 anni dopo di Luciano Bertozzi focusonafrica.info, 17 gennaio 2025 Secondo il New York Times, i cittadini statunitensi avrebbero pagato per mantenere Guantánamo almeno 540 milioni di dollari l’anno. Il carcere di Guantánamo compie 23 anni. Era l’11 gennaio 2002, quando venne resa operativa la prigione statunitense, nella base navale USA a Cuba e, da allora, continuano a perpetrarsi gravi violazioni dei diritti umani. Il luogo di detenzione è, infatti, uno dei frutti avvelenati della guerra globale al terrore. “In tutto il mondo, Guantánamo rimane uno dei simboli più duraturi dell’ingiustizia - ha affermato Human Right Watch - degli abusi e del disprezzo per lo stato di diritto che gli Stati Uniti hanno scatenato in risposta agli attacchi dell’11 settembre.” Il Presidente Obama cercò, inutilmente di chiudere il carcere ma senza riuscirci per le resistenze del Congresso. Anche il Presidente Biden (Vice Presidente con Barack Obama) si era detto favorevole alla chiusura del carcere, ma ciò non è avvenuto. A questo punto è indispensabile chiudere subito, questo luogo di sofferenze, ma soprattutto è necessario portare i responsabili in tribunale. I due citati Presidenti hanno ridotto notevolmente il numero dei detenuti, siglando accordi per il trasferimento all’estero di numerosi reclusi. Il 7 gennaio di quest’anno, Washington ha annunciato, infatti, il trasferimento in Oman di 11 detenuti, nei cui confronti non è mai stata formalizzata alcuna accusa. La notizia è stata accolta con favore da Amnesty International. Daphne Eviatar, direttrice del programma di sicurezza e diritti umani della citata Associazione USA ha dichiarato: “Ci congratuliamo con il presidente Biden per aver compiuto questo passo prima di lasciare il suo incarico, chiedendogli di porre definitivamente fine alla deplorevole pratica degli Stati Uniti di detenere persone senza incriminazione né processo a Guantánamo, trasferendo tutti i prigionieri privi di accuse”. La ONG ha chiesto al presidente uscente Biden il trasferimento di tutti i detenuti, prima del 20 gennaio, cioè prima dell’insediamento di Trump. Il nuovo Presidente, infatti, durante il suo primo mandato ne ordinò la prosecuzione. Il 30 dicembre scorso gli Usa hanno liberato e rimpatriato il tunisino Ridah Bin Saleh al-Yazidi, detenuto fin dall’apertura del carcere, nonostante non sia stato formalmente di alcun reato. arrestato in Pakistan, vicino al confine con l’Afghanistan, nel 2001. Questo carcere rappresenta una macchia evidente e duratura nel bilancio dei diritti umani degli Stati Uniti d’America. Da 2002 vi sono state rinchiuse quasi ottocento persone, tutti uomini di religione musulmana - alcuni dei quali minorenni - per essere state sospettate di atti di terrorismo commessi in molti Stati. Attualmente i detenuti sono quindici, sei dei quali non sono mai stati accusati di alcun crimine. “Trasferimenti segreti, interrogatori in regime di isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame - affermava Amnesty in un rapporto del 2021 - torture, sparizioni forzate, totale diniego del diritto a un giusto processo. Questo è quello che perpetuano da 20 anni le autorità degli Stati Uniti.” Le organizzazioni internazionali e non governative hanno denunciato ripetutamente la drammatica situazione, accusando gli Stati Uniti di sevizie e di altri trattamenti inumani e degradanti in violazione del diritto internazionale. La risposta a tutti questi appelli? Il più assordante dei silenzi. Nel febbraio 2023 la Relatrice speciale Onu sulla promozione dei diritti umani delle libertà fondamentali nella lotta per il terrorismo per il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, l’irlandese Fionnuala Ni Aolain, forse l’unica esperta indipendente che abbia potuto visitare il carcere e parlare con i detenuti, ha definito le condizioni di detenzione “inumane e degradanti”. I carcerati provenivano, per lo più, da Paesi arabi ed africani (Yemen, Arabia Saudita, Algeria, Tunisia, Pakistan, Malaysia, Afghanistan, Libia, Kenya e Indonesia) e sono stati presi in custodia in dieci Paesi: Afghanistan, Egitto, Georgia, Gibuti, Iran, Kenya, Pakistan, Tailandia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Almeno 24 di loro, prima di arrivare a Guantánamo sono stati sottoposti a sparizioni forzate e detenuti in luoghi segreti, per un periodo variabile, da uno a sei mesi o anche oltre, ad opera della CIA. Amnesty ha reso noto l’eclatante caso di Abu Zubaydah (Zayn al Abidin Muhammad Husayn), un palestinese detenuto a Guantánamo da 19 anni, detenuto in base alla legge di guerra e incarcerato in località segrete per oltre 1.600 giorni, cioè quasi 5 anni! La sua storia, con la lunga lista di sevizie cui è stato sottoposto è emblematica, prima di arrivare a Guantánamo è stato sottoposto a soffocamento con l’acqua, a nudità prolungata, costretto in posizione stressante, privato del sonno, del cibo, sottoposto ad attacchi psicologici, a reclusione in un box. Le autorità Usa hanno dichiarato che il rilascio di questo carcerato avrebbe potuto creare un grave rischio per la sicurezza nazionale. L’inutilità del carcere, nella punizione dei colpevoli degli attentati dell’11 settembre è anche evidenziata dai dati: solo otto sono stati condannati dalle Commissioni militari, cui spettava il compito di processarli. Secondo The Dark Side di Jane Mayer, il Maggior Generale in pensione Michael Dunlavey, un ex comandante operativo a Guantánamo, stimò che almeno la metà dei prigionieri fosse stata trattenuta per errore. Un ulteriore conferma, in tal senso, viene da uno studio della Seton Hall University Law School secondo cui almeno il 55 per cento dei prigionieri detenuti a Guantánamo non ha mai compiuto atti ostili contro gli Stati Uniti e solo l’8 per cento ha avuto rapporti con Al Qaeda. Il fallimento dell’accertamento delle responsabilità degli attentati si accompagna anche ai notevolissimi costi della struttura. I cittadini statunitensi avrebbero pagato per mantenere Guantánamo - secondo il New York Times - ben 540 milioni di dollari l’anno. Questa stima tuttavia, potrebbero essere di gran lunga inferiore ai costi effettivi per motivi di segretezza.