Umanizzare le carceri: sempre più voci per l’amnistia contro il sovraffollamento di Thomas Cardinali lospecialegiornale.it, 16 gennaio 2025 Alla Camera dei Deputati si è svolto il convegno “Umanizzare le carceri, come farlo. Proposte al Ministro Nordio”, promosso dall’onorevole Alessia Ambrosi di Fratelli d’Italia dove il tema centrale è stata la discussione su amnistia e sovraffollamento. L’evento ha riunito esponenti politici, giuristi, accademici e rappresentanti della società civile per discutere le criticità del sistema penitenziario italiano, con l’obiettivo di individuare soluzioni concrete per garantire dignità, sicurezza e rieducazione ai detenuti, migliorando al contempo le condizioni di lavoro del personale carcerario. Al centro del dibattito il rapporto tra suicidi e sovraffollamento con la proposta dell’amnistia che sta trovando man mano sempre più voci a suo favore da tutte le parti della politica e società civile. Sovraffollamento carceri, Fabio Torriero: “Sono ingovernabili” - Fabio Torriero, professore alla Lumsa e direttore de Lo Speciale, ha aperto i lavori tracciando un quadro drammatico della situazione: “La realtà delle carceri italiane è drammatica, invivibile non solo per i detenuti ma anche per la polizia penitenziaria. L’articolo 27 della Costituzione parla chiaro: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Torriero ha ricordato l’importanza delle parole di Papa Francesco, che, aprendo la Seconda Porta Santa alla casa circondariale di Rebibbia, ha ribadito la dignità di ogni detenuto: “Non bisogna perdere la speranza, nemmeno per chi ha sbagliato”. Ha inoltre citato il Presidente Mattarella, che nel suo ultimo messaggio di fine anno ha posto l’accento sul rispetto dei diritti di ogni persona, anche di chi si trova dietro le sbarre: “Il carcere non può essere un luogo di vendetta, ma un’opportunità per il recupero e la reintegrazione sociale.” On. Alessia Ambrosi (Fratelli d’Italia): “Non possiamo più aspettare” - L’onorevole Alessia Ambrosi di Fratelli d’Italia ha sottolineato l’urgenza di affrontare il tema con serietà e trasversalità politica: “L’umanizzazione delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri non è più rinviabile. È un dovere costituzionale e morale che tocca valori fondamentali come giustizia, dignità e umanità. Non possiamo ignorare i fatti di cronaca e il grido di aiuto che proviene da detenuti e agenti penitenziari.” Ambrosi ha ricordato le recenti dichiarazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha dichiarato: “La rieducazione deve assumere un ruolo centrale accanto alla pena.” Ha inoltre sottolineato l’importanza di collaborare con tutte le forze politiche per trovare soluzioni concrete: “Dobbiamo lavorare insieme, unendo le nostre idee, per rispettare i principi del nostro ordinamento giuridico e offrire risposte che siano nell’interesse della collettività.” Vincenzo Scotti: “La politica deve intervenire” - Vincenzo Scotti, già Ministro degli Interni, ha evidenziato la marginalizzazione del tema carcerario nell’agenda politica: “Chi si occupa di queste questioni è visto come un anomalo. Le carceri sono un tema scomodo, che scompare dal dibattito pubblico, ma le questioni reali restano irrisolte.” Scotti ha criticato l’approccio che divide la società in “buoni” e “cattivi”: “Non possiamo continuare a etichettare i detenuti, in particolare gli stranieri, come una minaccia per la società. È una narrativa tossica che alimenta divisioni e impedisce soluzioni concrete.” Ha poi aggiunto: “Il carcere deve essere un luogo di recupero, ma spesso si limita a essere una discarica sociale per chi non ha voce e strumenti per difendersi. La politica deve affrontare il problema in modo serio e strutturale.” Donato Santoro: “Un’amnistia è necessaria” - L’avvocato penalista Donato Santoro ha avanzato una proposta forte e pragmatica: un’amnistia per i reati con pene residue inferiori a tre anni: “Dal 1990 il Parlamento non emana un atto di clemenza simile. È tempo di dare un segnale di civiltà. Un’amnistia ridurrebbe immediatamente il sovraffollamento di 23.000 detenuti, permettendo di avviare una vera riforma del sistema penitenziario.” Santoro ha denunciato il trattamento inadeguato riservato a tossicodipendenti e malati psichiatrici: “Queste persone non devono stare in carcere. Ci vogliono strutture dedicate per garantire loro un percorso di cura e reinserimento sociale.” Inoltre, ha posto l’accento sull’elevato costo di mantenimento dei detenuti: “Un detenuto costa 159 euro al giorno, pari a 57.000 euro all’anno. Questi fondi potrebbero essere investiti in programmi di riabilitazione e infrastrutture migliori.” Piero Sansonetti direttore de L’Unità: “Il 41-bis è incostituzionale” - Il direttore de L’Unità, Piero Sansonetti, ha affrontato un tema particolarmente controverso, il regime 41-bis: “È una regola inumana e contraria alla Costituzione. Non si può tenere un detenuto in condizioni disumane e poi parlare di rieducazione. Recentemente, a un detenuto è stato negato il permesso di acquistare farina e lievito per prepararsi una pizza per Natale. Questo non è giustizia, è sadismo.” Sansonetti ha criticato l’atteggiamento della politica, troppo silente di fronte a casi di abuso e ingiustizia: “La politica deve essere garantista e difendere i diritti di tutti, anche dei propri esponenti accusati ingiustamente. Non possiamo accettare un sistema che umilia le persone e le priva della loro dignità.” Ha concluso con una riflessione etica: “Un detenuto non perde la sua umanità. La gerarchia umana è uguale per tutti, indipendentemente dai reati commessi.” Padre Vittorio di Regina Coeli: “Rieducazione e dignità devono essere centrali” - Padre Vittorio, cappellano del Regina Coeli, ha portato la sua esperienza diretta all’interno delle carceri, esortando a ripensare il sistema: “Il carcere non può essere solo punizione, deve essere uno strumento di reintegrazione sociale. La dignità e la rieducazione sono principi fondamentali che devono guidare ogni riforma.” Ha inoltre proposto un gesto simbolico per l’Anno Santo: “Un atto di clemenza potrebbe segnare una svolta e sensibilizzare la società sull’importanza del recupero umano.” In prima fila anche Fini - Il convegno ha evidenziato un’esigenza chiara e condivisa da tutte le parti al tavolo: riformare il sistema penitenziario per restituire dignità e speranza a chi si trova in carcere. Per citare le parole di Gianfranco Fini, presente in prima fila e autore della prefazione del libro “I giovani e la politica, sì grazie”, scritto dall’avvocato Donato Santoro: “Una società civile è quella che, pur rispettando la giustizia, non dimentica mai l’umanità di chi è condannato.” Le proposte emerse, dall’amnistia al lavoro rieducativo, rappresentano passi concreti verso un cambiamento necessario. Tuttavia, la sfida più grande resta culturale: superare pregiudizi e stereotipi per costruire un sistema penitenziario che sia davvero giusto e umano, capace di conciliare sicurezza e rieducazione. Umanizzare le condizioni per detenuti e lavoratori nei penitenziari di Lino Sasso L’Identità, 16 gennaio 2025 Quella delle condizioni dei detenuti è una questione annosa, al punto da poter essere considerata perennemente di attualità. Negli anni se ne sono occupati a più riprese sia il Parlamento che i vari governi che si sono susseguiti. Il problema è stato richiamato anche dal Quirinale, pure in questo caso in più di un’occasione. Lo ha recentemente fatto il Presidente Sergio Mattarella e, prima ancora, ai tempi della sentenza Torreggiani, a richiamare l’urgenza di intervenire sulla questione del sovraffollamento fu il suo predecessore Giorgio Napolitano. L’allora inquilino del Colle si avvalse addirittura dello strumento costituzionale del messaggio alle Camere per stimolare un intervento del Parlamento sulla situazione drammatica che si vive all’interno delle carceri, sia sul fronte dei detenuti che su quello della polizia e del personale penitenziario. La questione però, vista la sua complessità e vastità, resta all’ordine del giorno e continua a investire la politica. Su iniziativa della deputata di Fratelli d’Italia Alessia Ambrosi, ieri la Sala stampa di Montecitorio, alla presenza dell’ex Presidente della Camera Gianfranco Fini, ha infatti ospitato la conferenza dal titolo conferenza dal titolo “Umanizzare le Carceri, come farlo. Proposte per il Ministro della Giustizia Nordio”. La promotrice dell’evento ha posto l’accento sulla circostanza per la quale “l’umanizzazione delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri non è più rinviabile. È un dovere costituzionale e morale che tocca valori fondamentali come giustizia, dignità e umanità”. “Non possiamo ignorare i fatti di cronaca e il grido di aiuto che proviene da detenuti e agenti penitenziari. Dobbiamo lavorare insieme, unendo le nostre idee, per rispettare i principi del nostro ordinamento giuridico e offrire risposte che siano nell’interesse della collettività”, ha aggiunto Ambrosi che ha poi ricordato i provvedimenti del governo sul potenziamento degli organici di polizia penitenziaria e sull’istituzione del commissario straordinario dell’edilizia penitenziaria, passi importanti per migliorare le condizioni carcerarie, sulle quali il sovraffollamento incide in maniera determinante. Sull’ipotesi di un’amnistia si è invece soffermato l’avvocato Donato Santoro che ha ricordato come “dal 1990 il Parlamento non emana un atto di clemenza simile. È tempo di dare un segnale di civiltà. Un’amnistia ridurrebbe immediatamente il sovraffollamento di 23.000 detenuti, permettendo di avviare una vera riforma del sistema penitenziario”. Il penalista ha poi evidenziato come alcune particolari categorie di detenuti non dovrebbero stare in carcere, ma in “strutture dedicate per garantire loro un percorso di cura e reinserimento sociale”. Radio Carcere, la preghiera laica di Riccardo Arena: “Le 90 vite spezzate, nelle mani dello Stato” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 16 gennaio 2025 “Ancona, 5 gennaio 2024, Matteo Concetti di 23 anni si impicca in una cella di isolamento nel carcere di Montacuto. Matteo soffriva da tempo di gravi problemi psichiatrici”. Comincia così l’interminabile preghiera laica di Riccardo Arena, pubblicata il 9 gennaio durante “Radio carcere” su Radio Radicale. Trentacinque minuti dopo finisce con questa frase: “Novanta vite spezzate, nelle mani dello Stato”. Novanta nomi, ridiventati persone, novanta “compagni e compagne” che ha deciso di ricordare con una lunga e dolorosa Spoon River, recitata con pathos e affanno sulle note cupe del Requiem di Mozart. Trentacinque minuti che andrebbero trasmessi a reti unificate, perché meglio di molti saggi e articoli raccontano il baratro di invisibilità nel quale precipitano, anche da morti, i reclusi delle carceri italiane. Fantasmi, che si uccidono nei modi più strazianti: impiccandosi con le lenzuola, annodate alle sbarre della finestra, ma persino al termosifone; stringendosi il collo con i lacci delle scarpe o la cintura (che non potrebbero avere); inalando il gas dei fornelletti da cucina; ingoiando chiodi, pile, carta igienica. Arena ha una storia particolare. Avvocato, esercita nello studio Siracusano, Siniscalchi e Bovio fino a 34 anni. Poi decide di smettere, finisce a Radio Radicale e lì inventa una trasmissione - Radio Carcere - che scrive, conduce, monta e manda in onda, il martedì e il giovedì, ormai da 24 anni. One man show. Uno dei pochi, dei pochissimi, che si occupano a tempo pieno dei temi della giustizia e del carcere. Con lui parliamo della sua storia ma soprattutto proviamo a ragionare sullo stato disastroso dei nostri istituti e sulle condizioni dei detenuti. Lasciare la professione non deve essere stata una scelta facile... “No, è stato doloroso. Lo studio era un ambiente molto bello e anche dal punto di vista economico non ci ho guadagnato ad andarmene. Ho sempre vissuto questo abbandono come una cosa temporanea, una sospensione. Ho mantenuto la mentalità da avvocato. Direi che oggi sono un meticcio, un po’ legale e un po’ giornalista”. Come è venuta l’idea di Radio Carcere? “Parlando con i colleghi, davanti a una birra. Ci siamo detti che mancava un programma del genere. Io ero finito a fare l’archivista a Radio Radicale. Un giorno salgo su da Bordin e lui mi dice: “A Ricca’, che stai a fa’ qua?”. Gli spiego l’idea. Massimo, come ci manca, è stato il primo a capire la logica del programma e ad appoggiarlo. Ne abbiamo parlato a Marco Pannella, che ha dato il via libera”. L’idea era quella di un programma garantista? “La parola non ci è mai piaciuta. Ne parlai a lungo in trasmissione proprio con Bordin, che poi ne scrisse, citando Sciascia: “Mi ripugna quando mi sento dire che sono un garantista. Io non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella giustizia”“. A un certo punto di quella straordinaria “preghiera laica”, lei dice che servirebbe una giornata della memoria per i detenuti... “Sì, se non fossero un po’ stucchevoli e non ce ne fossero già troppe, bisognerebbe istituire una Giornata nazionale dei suicidi in carcere. Ma non solo dei suicidi”. Perché? “Perché la pena disumana e degradante rovina la vita anche a chi non si suicida. Sembra una cosa desueta, ma lo Stato è responsabile di queste vite. È l’abc: puoi togliere la libertà, ma deve essere garantito il diritto alla salute, all’alimentazione, alla dignità. C’è gente che finisce in carcere dopo 15 anni dalla commissione del reato e intanto si è rifatta una vita. Lo sa chi sono i liberi sospesi?”. Ce lo spieghi... “Sono quelli che essendo stati condannati a una pena entro i quattro anni hanno chiesto una misura alternativa e non ottengono una risposta, per anni. Sei in libertà ma la tua vita è sospesa. Da un momento all’altro il magistrato può rispondere no e finisci in carcere. Nel nostro Paese, calcoli del ministro Nordio, sono 96 mila. Ma probabilmente sono molti di più”. La certezza della pena... “Un equivoco. La prima certezza che hai è quella dei trattamenti disumani e degradanti. La seconda considerazione è che la certezza della pena viene declinata di solito come certezza del carcere. Ma la Costituzione non parla mai di prigione, parla di “pene”. Lo capirebbe anche un bambino che la pena si deve scontare. Non c’è bisogno che diventi uno slogan”. E poi, perché resti viva la speranza, che in carcere è l’unico farmaco salvavita, occorre che la pena sia dinamica... “Esatto. Non può essere statica, ma cambiare in relazione al comportamento dei detenuti. Ma il sistema è così ingolfato che non si riesce più a operare nessuna distinzione. E così continuiamo in una situazione di paralisi che spreca una montagna di soldi. Sa quanti?”. Quanti? “Ogni anno lo Stato spende per le carceri e i detenuti tre miliardi e mezzo di euro”. Quest’anno festeggeremo i 50 anni dell’Ordinamento penitenziario... “C’è poco da festeggiare, mi sembra più un funerale. È un’ottima legge, sacrosanta, ma applicata solo all’uno per cento. La Spagna ce l’ha copiata, ma l’ha anche applicata. E ora le loro carceri, magari non saranno come quelle danesi, ma sono molto migliori delle nostre. Perché prevedono un trattamento individuale, personalizzato”. La premier, come soluzione, pensa di costruire 7 mila posti in tre anni. Che, peraltro, non bastano già ora, visto che il sovraffollamento è a quota 15 mila... “Una soluzione che non risolve nulla. Il sovraffollamento è importante ma ci sono altri fattori: il personale, gli educatori, la tipologia del trattamento, l’organizzazione, le attività”. La sinistra ha più sensibilità? “A sinistra hanno responsabilità enormi su questo fronte. Nel 2006 si fece l’indulto e non l’amnistia. I giudici erano costretti a fare processi con una pena già indultata. Anna Finocchiaro mi chiamava disperata, dicendo: i miei non mi seguono. Gli stati generali di Orlando del 2019 non furono approvati perché, come fece capire Gentiloni in tv, altrimenti il Pd avrebbe perso le elezioni”. In carcere, si dice spesso, regna l’impunità... “Non paga mai nessuno. C’è una responsabilità frammentata, come dice il professor Tullio Padovani. Come succedeva con i nazisti, che rispondevano: io mi limitavo a far scendere gli ebrei dal treno, io facevo la manutenzione dei campi, io solo le visite mediche”. Com’è cambiato il carcere da quando ha iniziato a condurre il suo programma? “Non è cambiato. È rimasto duro, disumano, degradante. Sono cambiati i detenuti. Prima c’erano i mafiosi, i terroristi, i banditi. Li potevi sbattere in cella e non gli faceva un baffo. Ora entra più fragilità che criminalità. Un carcere così rappresenta un colpo di grazia per chi è in difficoltà. Così mi spiego l’aumento dei suicidi”. Il carcere come “discarica sociale”... “Ha notato che non si parla più di welfare? È una parola passata di moda. Prima c’era persino un ministero con quel nome. L’abbandono delle politiche sociali ci sta facendo tornare al carcere seicentesco, quando c’erano rinchiusi malati di mente, gente senza casa, disperati. Proprio come oggi”. Perché il carcere sembra non interessare a nessuno? Né ai politici, né alla gente comune? “C’è stato un lento corrodere delle coscienze collettive. Come una ruggine che si è formata già 30 anni fa. Con Mani Pulite ci si è accorti per la prima volta del carcere, perché c’erano finiti i colletti bianchi. C’è stato un declino delle coscienze, favorito dai politici e anche dai giornalisti”. Si riponevano molte speranze nell’arrivo di Nordio come Guardasigilli. Com’è andata? “Molto male, ha disatteso tutte le aspettative. Ricordo che poco prima di salire al Quirinale dava interviste spiegando che era per la depenalizzazione. Il suo primo atto è stato l’istituzione di un nuovo reato, il rave, primo di tanti”. O cambiava lui o lui cambiava il Governo... “Evidentemente ha deciso di cambiare lui. Forse l’ambizione di diventare ministro e il prestigio del ruolo lo hanno agevolato in questa metamorfosi. Lo conosco da tanti anni e per questo lo dico con affetto e tristezza. Mi sembra un ministro arreso, che ha abdicato al suo ruolo”. Lei riceve molte lettere dai detenuti... “Ho sei piani di faldoni pieni di lettere. In una delle ultime mi ha scritto una donna che è stata in carcere con il suo bimbo. Mi raccontava che non solo piangeva, quando si chiudeva il blindo, ma che ha imparato il gergo carcerario. Ora non dice più alla mamma: usciamo. Le dice: portami all’aria. È terribile”. È incredibile che ci siano ancora bambini in carcere. Con la nuova legge, anche le donne incinte possono restarci... “È una vergogna che ci trasciniamo da 20 anni. C’è la vergogna della detenzione e poi quella della separazione. A tre anni i bambini devono uscire: quindi devono abbandonare la madre e non capiscono. Danno la colpa a lei per la separazione”. Cosa si può fare? “I bambini non devono entrarci in carcere. La soluzione alternativa l’ha trovata Luigi Pagano, l’ex direttore, che si è inventato l’Icam: una sezione di San Vittore fuori dal carcere, in un appartamento. Lo chiamai “il miracolo a Milano”. Altri l’hanno seguito, ma restano molte le donne con bambini rinchiusi in cella”. Nessuno sembra volere l’amnistia. È una soluzione vera? “Non capisco l’ostilità. Serve un patto trasversale tra i partiti sull’esecuzione penale. Bisogna agire su due piani, quello immediato del sovraffollamento, attraverso l’amnistia e l’indulto, e quello delle riforme a medio e lungo termine. Solo così se ne esce”. Siamo a un anno dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività e alla sessualità. Cos’è successo da allora? “Niente. Non si è mossa una paglia. A Rebibbia ci sarebbe un luogo per fare colloqui, la casetta rossa costruita da Renzo Piano. Ma non fanno nulla, perché dicono che serve un’uniformità di trattamento. La Corte, invece, parlava di gradualità. E invece niente, non si muove nulla”. Suicidi in carcere, conseguenza diretta di un problematico sistema detentivo in Italia di Pietro Minervini Panorama, 16 gennaio 2025 L’elevato numero di suicidi che negli ultimi anni stanno avvenendo nei penitenziari italiani è un aspetto da non sottovalutare, soprattutto in un Paese civile come il nostro. “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione, che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Questo è quanto ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno andato in onda il 31 dicembre 2024. A dirla tutta queste parole pronunciate dal garante della carta costituzionale appaiono, alla luce dei dati relativi ai suicidi nei penitenziari italiani, come frasi fatte e prive di applicazione in senso pratico. Basti pensare che dal primo gennaio ad oggi già 8 detenuti si sono tolti la vita. Ma questo numero è tristemente destinato a crescere. Eppure il problema dei reclusi che decidono di porre fine alla loro sofferenza, nella maniera più estrema, è noto da tantissimo tempo. Infatti dai dati pubblicati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (GNPL) si nota che negli ultimi anni, ma in particolar modo dal 2021, c’è stata un’impennata dei suicidi e tentati suicidi nelle carceri italiane. Secondo lo studio effettuato per l’anno 2024 da Giovanni Suriano, componente del GNPL, sono più gli uomini che decidono di togliersi la vita rispetto alle donne, con una più alta tendenza al suicidio nell’età che va dai 26 ai 39 anni. Un dato allarmante è quello che riguarda la posizione giuridica delle persone che decidono di suicidarsi. Infatti, quasi la metà dei suicidi avvenuti l’anno scorso sono stati commessi da detenuti in attesa di primo giudizio, in carcere dunque non perché giudicati colpevoli, ma perché sottoposti alla più severa misura cautelare: la custodia cautelare in carcere. Quest’ultimo dato apre un ulteriore problema, cioè quello dell’eccessivo utilizzo di questa misura cautelare al fine di impedire la fuga dell’imputato, l’inquinamento delle prove o la reiterazione del reato. Un uso più parsimonioso della custodia cautelare in carcere porterebbe ad un abbassamento dei possibili casi di suicidi o tentati suicidi negli istituti penitenziari. Ma aldilà di tutto è necessario porre l’attenzione sul fine primario che la carcerazione deve avere, cioè la rieducazione del reo. Tuttavia pensare che i detenuti, scontata la loro pena, possano essere riabilitati nella società sulla base del periodo trascorso in carcere, non solo appare puramente utopistico ma anche completamente impossibile. Certo, anche il sovraffollamento carcerario gioca un ruolo fondamentale sulla condizione di stress psicologico a cui i detenuti sono sottoposti. E nonostante l’Italia, nel lontano 2013, sia stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le disumane condizioni dei suoi penitenziari, la situazione non è migliorata. Anzi, di anno in anno va sempre peggio. È evidente che delle galere meno affollate, con dei veri percorsi rieducativi e riabilitativi per i detenuti, potrebbero rappresentare un valido deterrente per coloro i quali, trovandosi in una condizione di restrizione della propria libertà personale, decidono di togliersi la vita. E questo vale non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di Polizia Penitenziaria, poiché anche tra di essi avvengono casi di suicidi legati, nella maggior parte dei casi, alle condizioni in cui sono costretti a svolgere la propria attività lavorativa. Ma siamo un Paese nel quale molte persone si auspicano la reintroduzione della pena di morte. Dunque non possiamo meravigliarci se le carceri sono solo dei ghetti e non delle strutture per punire ma anche rieducare i detenuti. Giubileo, appelli dei Papi per atti di clemenza per i carcerati di Amedeo Lomonaco vaticannews.va, 16 gennaio 2025 La celebrazione dell’Anno Santo è un tempo per leggere la giustizia alla luce del Vangelo e in occasione dei Giubilei numerosi sono stati gli appelli dei Pontefici ai governanti di tutto il mondo per la liberazione dei prigionieri o la riduzione delle pene. Il Giubileo è una occasione per ottenere l’indulgenza che, come si legge nel Codice di Diritto Canonico, consiste nella “remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa”. Il termine indulgenza ha la stessa radice di un’altra parola collegata all’Anno Santo. Si tratta del termine indulto, dal latino indultum, che indica una concessione o un privilegio accordato, per grazia o per benevolenza, da parte di un’autorità superiore. Nel diritto penale con questo vocabolo si definisce un provvedimento di clemenza che porta all’estinzione della pena inflitta al condannato. Indulgenza e indulto liberano l’uomo dalle catene, dalle conseguenze del peccato o di una colpa, per concedergli una ripartenza, un’occasione di riscatto e di vita nuova. Il duplice volto della grazia - Io spettro semantico del termine indulto si collega poi ad altre parole connesse alla virtù “giubilare” del perdono, come grazia, clemenza e amnistia. Ognuno di questi provvedimenti ha la sua specifica applicazione. Da un punto di vista giuridico, amnistia e indulto si differenziano per un aspetto sostanziale. Mentre l’amnistia estingue il reato, l’indulto cancella la pena. Con l’amnistia lo Stato rinuncia dunque all’applicazione della pena, mentre con l’indulto si limita a condonare, in tutto o in parte, la pena inflitta senza però cancellare il reato. C’è poi un’altra parola che merita particolare attenzione. Si tratta della grazia, che si inquadra in una cornice leggibile in un duplice livello. È l’atto del capo dello Stato nei confronti di un singolo condannato, con cui la pena inflitta viene condonata in tutto o in parte o viene commutata in altra specie di pena stabilita dalla legge. Nella prospettiva cristiana la parola grazia ha una rilevanza primaria. Nel catechismo della Chiesa Cattolica è “il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà perché rispondiamo al suo invito: diventare figli di Dio, figli adottivi, partecipi della natura divina, della vita eterna”. L’attenzione della Chiesa ai carcerati - L’attenzione della Chiesa verso i fratelli detenuti si esprime in opere di misericordia in risposta all’antico precetto: “Visitare i carcerati”. Nel Vangelo Gesù si identifica nel prigioniero: “Ero carcerato e mi avete visitato”. Nel contesto dell’Anno Giubilare questa costante attenzione si traduce anche in un accorato appello da parte dei Pontefici. Soffermandosi sul magistero dei Papi nella storia recente della Chiesa, si deve citare innanzitutto la bolla “Spes non confundit”. Papa Francesco chiede ai governi di concedere ai detenuti, durante questo Giubileo della speranza, il condono delle pene. “Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza”. Il respiro della speranza - Si può essere perdonati sempre da Dio. Nelle pagine del Vangelo emerge, in particolare, la figura del buon ladrone che sulla croce si pente delle proprie colpe. È l’unico santo canonizzato direttamente da Gesù. “Oggi sarai con me in Paradiso”, ha gli ha detto infatti Cristo sulla Croce. Invocando per gli uomini e, soprattutto per quelli privati della libertà, il respiro della speranza, Papa Francesco ricorda che la richiesta di atti di clemenza “è un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio”. Anche i suoi predecessori, specialmente in occasione dell’Anno Santo, hanno chiesto forme di condono della pena per i carcerati. Pio XII e il Giubileo del 1950 - Quello del 1950, come sottolinea Papa Pio XII nel radiomessaggio in occasione del Natale del 1949, è “l’anno del gran perdono”. Il Pontefice si rivolge a generazioni colpite dalla tragedia della guerra. “Sfilano, come in lugubre rassegna dinanzi ai Nostri occhi, i volti addolorati degli orfani, delle vedove, delle madri in attesa di un ritorno che forse non verrà, dei perseguitati per la giustizia e per la religione, dei prigionieri, dei profughi, degli esuli forzati, dei detenuti; dei disoccupati, degli oppressi, dei sofferenti nello spirito e nella carne, delle vittime di ogni ingiustizia”. L’auspicio del Pontefice è che sia seppellito “con un sincero pentimento tutto il passato”. “Chi vuol essere sinceramente cristiano - afferma Papa Pacelli - deve saper perdonare”. Indulto e amnistia nel periodo del Giubileo del 1950 - La seconda guerra mondiale ha inferto profonde ferite nel tessuto sociale di diversi Paesi. In vari Stati, dopo quel conflitto, sono stati adottati provvedimenti di clemenza. In Italia ad esempio, poco prima dell’apertura dell’Anno Santo del 1950, sono stati concessi l’amnistia e l’indulto. Sono state condonate, nella misura di due anni, le pene detentive inferiori a cinque anni inflitte o da infliggere. Nel 1953, sempre in Italia, è stata poi concessa l’amnistia per ogni reato, non militare o finanziario, per il quale è stata stabilita una pena detentiva non superiore, al massimo, a quattro anni. È stato inoltre concesso l’indulto reati politici e inerenti a fatti bellici, commessi da coloro che abbiano fatto parte di formazioni armate. Nel 1975 Paolo VI invoca atti di clemenza - L’Anno Santo del 1975 è dedicato alla riconciliazione. Nella bolla di indizione “Apostolorum Limina” Papa Paolo VI chiede che, secondo la tradizione dei passati giubilei, “le competenti autorità dei vari Paesi considerino la possibilità di concedere, seguendo i suggerimenti della loro saggezza, un indulto ispirato a clemenza ed equità, specialmente in favore di prigionieri che abbiano dato sufficiente prova di riabilitazione morale e civile, o che siano vittime di situazioni di disordine politico e sociale troppo più grandi di loro, perché se ne possano ritenere pienamente responsabili”. Papa Montini esprime inoltre la propria gratitudine “per tutti coloro che si adopereranno perché questo messaggio di carità, di socialità e di libertà che la Chiesa rivolge a tutti, con la viva speranza di essere capita ed ascoltata, sia accolto e tradotto in realtà di ordine politico e sociale”. 1983, il perdono del Papa ad Alì Agca - Pochi anni dopo l’appello di Paolo VI, la Chiesa vive un altro Giubileo. Nel 1983 si apre l’Anno Santo della Redenzione, nel 1950.mo anniversario della morte e risurrezione di Gesù. Questo Anno Santo è anche il cotesto di un incontro speciale: quello tra un Pontefice e la persona che ha cercato di ucciderlo. Papa Giovanni Paolo II ricorda questo evento rivolgendo un discorso, il 27 dicembre del 1983, ai detenuti del carcere romano di Rebibbia: “ho potuto incontrare anche la persona, che voi tutti conoscete, di nome Alì Agca, che nell’anno 1981, il 13 maggio, ha attentato alla mia vita, ma la Provvidenza ha condotto le cose in una sua maniera, direi, eccezionale, direi anche, meravigliosa. Oggi, dopo più di due anni, ho potuto incontrare il mio attentatore e ho potuto anche ripetergli il mio perdono che ho concesso subito dopo l’attentato e poi ho anche dichiarato pubblicamente, quando era possibile per me, dall’ospedale. Penso che anche l’incontro di oggi, nel contesto, nella cornice dell’Anno della Redenzione, è provvidenziale”. “Tutte le vicende della nostra vita - ha spiegato in quella occasione Papa Giovanni Paolo II - devono confermare quella fratellanza che proviene dal fatto che Dio è nostro Padre e che noi tutti siamo suoi figli in Gesù Cristo”. Nel 2000 Giovanni Paolo II chiede riduzioni delle pene - Il grande Giubileo che apre il terzo millennio si inserisce nella tradizione degli anni giubilari che lo hanno preceduto. Nel messaggio per il Giubileo delle carceri Papa Giovanni Paolo II sottolinea che meritano di essere incoraggiati “quegli Stati e quei governi che abbiano in corso o intendano intraprendere revisioni del loro sistema carcerario, per adeguarlo maggiormente alle esigenze della persona umana”. Papa Wojty?a si rivolge ai responsabili degli Stati per invocare un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: “una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione, che non mancherebbe di suscitare echi favorevoli nei loro animi, incoraggiandoli nell’impegno del pentimento per il male fatto e sollecitandone il personale ravvedimento”. L’indulto nel 2006 in Italia - La richiesta di una riduzione della pena, lanciata da Papa Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 e reiterata nel 2002 a senatori e deputati in occasione della visita al Parlamento italiano, ha trovato alcuni anni dopo una risposta concreta da parte della politica. Il 29 luglio del 2006 è stata infatti approvata in Italia, con un’ampia maggioranza trasversale, la legge che ha introdotto l’indulto per i reati commessi fino al 2 maggio di quell’anno, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e con una decurtazione al massimo di 10.000 euro per quelle pecuniarie. Sono stati esclusi da questo provvedimento, che ha portato alla scarcerazione anticipata di quasi 25 mila persone, i reati di maggiore allarme sociale quali ad esempio associazioni sovversive, sequestro di persona e atti di terrorismo. Francesco nel 2015: giunga la misericordia del Padre - Nel 2015 inizia il Giubileo straordinario della misericordia. Nella lettera con la quale si concede l’indulgenza in occasione di quell’Anno Santo, il pensiero di Papa Francesco va anche ai carcerati, “che sperimentano la limitazione della loro libertà”. “Il Giubileo - scrive il Papa - ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto”. “A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono”. Il 6 novembre del 2016 un grande numero di detenuti provenienti da varie parti d’Italia e di altri Paesi, sono presenti nella basilica di San Pietro per vivere il proprio Giubileo con Papa Francesco: “la privazione della libertà - sottolinea il Pontefice nell’omelia - è la forma più pesante della pena che si sconta, perché tocca la persona nel suo nucleo più intimo. Eppure, la speranza non può venire meno”. Nel 2016 provvedimenti di amnistia e indulto - Nel 2016 le autorità cubane hanno deciso di concedere l’amnistia a 787 prigionieri, tra cui donne, minori e ammalati in risposta all’appello del Papa lanciato in occasione dell’Anno Santo della Misericordia. Sono state escluse da questo provvedimento - come ha ricordato il quotidiano Granma - le persone condannate per “omicidio, corruzione di minori, stupro e traffico di droga”. L’appello di Francesco per i carcerati, nell’ambito del Giubileo della Misericordia, è stato accolto anche in Paraguay. È stato infatti concesso l’indulto a 22 prigioniere della “Casa del Buon Pastore”. Sempre nel 2016, il presidente del Mozambico Filipe Nyusi - come ricorda anche “Mondo e Missione”, la rivista mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere - ha annunciato l’indulto per mille detenuti condannati per reati comuni. Aprire le porte - Anche in occasione dell’Anno Santo del 2025 Papa Francesco, nella bolla di indizione, richiede espressamente “forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Per la prima volta, poi, un Pontefice apre una Porta Santa all’interno di un penitenziario. Il Papa nell’omelia, lo scorso 26 dicembre nella Casa Circondariale di Rebibbia, pronuncia queste parole: “Ho voluto spalancare la Porta, oggi, qui. La prima l’ho aperta a San Pietro, la seconda è vostra. È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte. Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza”. Clemenza da Cuba e Stati Uniti - La grazia del Giubileo è aprire le porte, spalancare i cuori alla speranza. In questo Anno Santo, appena iniziato, si registrano già atti di clemenza. Il ministero degli Esteri di Cuba ha diffuso un comunicato in cui si annuncia la decisione di liberare 553 persone, “condannate per vari reati”. Il provvedimento è stato preso nell’ambito di una mediazione con la Chiesa cattolica. La notizia è arrivata poche ore dopo l’annuncio, da parte dell’amministrazione statunitense, di rimuovere Cuba dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo. Un altro gesto di clemenza arriva dagli Stati Uniti. Lo scorso mese di dicembre il presidente Joe Biden ha annunciato che i condannati alla pena capitale nelle carceri federali vedranno le loro condanne riclassificate da esecuzione a ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Papa Francesco, che aveva avuto un colloquio telefonico con il presidente americano, aveva lanciato un appello a pregare per i detenuti nel braccio della morte negli Stati Uniti. Testimoni del perdono - Ci sono tempi in cui la speranza riesce ad aprirsi un varco nel cuore dell’uomo. In occasione dei giochi olimpici è risuonato, ad esempio, l’appello dei Pontefici per una tregua olimpica, nel solco di quanto avveniva nell’antichità. Una tradizione che è diventata un costante richiamo, nella storia, a far tacere le armi in ogni regione del pianeta durante le Olimpiadi. Anche la richiesta, da Parte dei Papi, del condono delle pene durante il Giubileo è un seme di speranza per il mondo. Non sono numerose ma non mancano, come anche la storia testimonia, concrete risposte da parte della politica a richieste di clemenza. Del resto, soffermandosi sui termini indulgenza e indulto, si tratta di dare fiducia all’uomo che è inciampato lungo il cammino della vita. Spetta poi alla persona vivere il tempo della grazia ed essere testimone della forza del perdono. Ddl Sicurezza, Nordio: “Nessuno scudo penale per gli agenti” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 16 gennaio 2025 Il Guardasigilli cerca la sintesi tra Lega e Fratelli d’Italia, da un lato, e Forza Italia, dall’altro: azzurri contrari all’impunità per gli agenti. Non intende mollare di un centimetro la Lega di Matteo Salvini sul ddl Sicurezza, con il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari che spinge perché il provvedimento “sia approvato così com’è” e “il più rapidamente possibile”. E per non lasciare la questione in mano al Carroccio, ecco che Fratelli d’Italia ha lanciato una petizione per dire “basta alle aggressioni contro le forze dell’ordine” e più in generale per tutelarle di fronte alla possibilità di finire sotto indagine. “Nelle ultime settimane stiamo assistendo a gravi attacchi alle forze dell’ordine - sottolinea il responsabile organizzazione del partito, Giovanni Donzelli - da un lato c’è una evidente e sempre più preoccupante escalation di violenza; dall’altro le forze dell’ordine finiscono spesso ingiustamente sotto accusa. Fratelli d’Italia, da sempre schierato dalla loro parte, è impegnato in tutte le sedi in azioni per garantire maggiori tutele”. La petizione, si legge in una nota di via della Scrofa, sostiene le proposte di FdI “per l’inasprimento delle pene per resistenza, violenza, minaccia e lesioni al pubblico ufficiale, per la creazione del reato di rivolta in carcere e per l’implementazione degli strumenti di difesa e di tutela legale”. Con tanto di “iniziative nei mercati e nei centri storici delle principali città italiane per la sottoscrizione della raccolta” nel prossimo weekend. Nella corsa alla difesa delle forze dell’ordine ha messo i puntini sulle i il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo il quale “non si è mai parlato di scudo penale”. Per il Guardasigilli, intercettato dai cronisti in Transatlantico, “le maggiori tutele che riguardano tutti i cittadini derivano da una distonia tra l’istituzione dell’informazione di garanzia e del registro degli indagati, che dovrebbe servire a garantire la difesa di chi è sottoposto a un’indagine e che, invece, si sono trasformati in un marchio di infamia, in una condanna anticipata e talvolta addirittura in una preclusione all’assunzione di cariche pubbliche”. Specificando quindi che “di scudo penale inteso come impunità per forze di polizia, per medici non si è mai parlato” e che in ogni caso la norma non riguarda il ddl Sicurezza. “Valutiamo di inserirlo in un provvedimento ad hoc - ha chiarito il titolare di via Arenula - La forma la troveremo ma non nel decreto sicurezza”. Argomento affrontato nelle stesse ore anche dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nel corso del question time alla Camera. “Noi siamo convinti che l’azione delle Forze di polizia e della magistratura possa essere ulteriormente rafforzata, grazie alle misure contenute nel disegno di legge per la sicurezza pubblica, già approvato da questa Camera”. E rispondendo poi ai giornalisti a margine dell’intervento, spiegando che sullo scudo penale “il Parlamento è libero e sovrano”. E a chi gli chiedeva poi se firmerà la petizione lanciata da FdI a sostegno delle forze dell’ordine, ha aggiunto: “Ministro dell’Interno, prefetto della Repubblica, ex vicecapo della polizia, secondo voi la firma con il cuore non è già lì?”. Su un’altra lunghezza d’onda è Forza Italia, i cui esponenti da ore stanno esprimendo più di una perplessità su un provvedimento che, a detta del portavoce nazionale azzurro, Raffaele Nevi, “non deve assolutamente permettere l’impunità a chi commette reati, anche se appartengono alle forze dell’ordine”. A gettare acqua sul fuoco è il leader di Noi moderati, Maurizio Lupi, secondo il quale “garantire la sicurezza delle persone e tutelare le forze dell’ordine nello svolgimento del proprio lavoro è una priorità, sono servitori dello Stato che rischiano la vita per la sicurezza di tutti”. E per questo, ha aggiunto, “lo faremo, come sempre, trovando un accordo nel Centrodestra, nel rispetto delle diverse sensibilità e dei principi costituzionali” e “lo stesso vale per il ddl Sicurezza, disegno di legge fondamentale, che si può migliorare ulteriormente in tempi brevissimi al Senato per poi essere approvato rapidamente”. E se dall’opposizione si grida alla “deriva securitaria”, con il segretario di Più Europa Riccardo Magi, secondo il quale “questi decreti con torsioni penalistiche non reggeranno”, a esprimersi è anche Francesco Petrelli, presidente dell’Unione camere penali. “Uno Stato di diritto è tale non solo se ha il monopolio esclusivo della forza ma anche se pone dei limiti insuperabili al suo utilizzo - spiega Petrelli - Laddove questi limiti vengano superati, proprio la disponibilità a processare sé stesso senza interporre ostacoli e privilegi caratterizza uno Stato di diritto”. Scudo penale, Nordio nega e frena la norma: “Non sarà nel ddl Sicurezza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 gennaio 2025 Il pacchetto tornerà alla Camera in terza lettura con le correzioni del Colle. Fd’I gioca su due sponde con una petizione per le divise. Elly Schlein: “La legge è uguale per tutti e tanto più lo deve essere per chi ha il potere di farla rispettare”. “Scudo penale” per le forze dell’ordine? Il governo si tira indietro e lascia la palla “al parlamento sovrano”, almeno secondo quanto assicurato ieri dai ministri Nordio e Piantedosi cui si deve, insieme a Crosetto, la prima stesura del ddl Sicurezza attualmente in esame al Senato. Ma nel frattempo i Fratelli di Giorgia Meloni lavorano in competizione con l’agguerrita Lega per aggiudicarsi il primato di partito più vicino a polizia e carabinieri, arrivando addirittura ieri a lanciare una raccolta firme “a sostegno degli uomini e delle donne in divisa” per giustificare alcune delle norme del pacchetto Sicurezza più criticate e maggiormente a rischio di incostituzionalità, come indicato dal presidente della Repubblica. A Mattarella il governo ha promesso di correggere cinque punti, anche se la Lega sta facendo di tutto per evitare un nuovo passaggio alla Camera in terza lettura. “Non si è mai parlato di scudo penale per forze di polizia inteso come impunità”, ha chiarito ieri il titolare di via Arenula ricevendo per questo il plauso di Forza Italia. “Ci sono problemi tecnici del processo penale che si sono rivelati pieni di criticità e stiamo studiando la possibilità di intervenire a vari livelli. C’è una distonia tra l’istituzione dell’informazione di garanzia e del registro degli indagati che dovrebbe servire a garantire la difesa di chi è sottoposto ad un’indagine e che invece si è trasformato in un marchio d’infamia, di condanna anticipata e talvolta addirittura in una preclusione all’assunzione di cariche pubbliche”, ha spiegato Carlo Nordio assicurando che comunque la norma su cui si sta discutendo anche con toni aspri a Palazzo Chigi “sarà messa in un provvedimento a parte, sicuramente non adesso nel ddl Sicurezza”. Più dubbioso il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che, a chi gli chiede se lo “scudo penale” possa trovare spazio nel ddl Sicurezza, ribatte: “Dovete chiedere al Parlamento, che è libero e sovrano”. D’altronde per il titolare del Viminale il ddl di iniziativa governativa su cui stanno lavorando le commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato già contiene norme che possono “ulteriormente rafforzare le forze di polizia e la magistratura”. COSÌ, MENTRE le due forze di estrema destra del governo litigano e si contendono un pezzetto di elettorato, il portavoce nazionale di FI Raffaele Nevi si rallegra della decisione di Nordio e sulla nuova norma mette un punto fermo: “Non deve assolutamente essere un provvedimento che permette l’impunità a chi commette reati, anche se appartengono alle forze dell’ordine”. Mentre Maurizio Lupi (Noi moderati), incoraggia “il centrodestra” a trovare un accordo “nel rispetto delle diverse sensibilità e dei principi costituzionali”, sia per lo “scudo penale” che per “il ddl Sicurezza che si può migliorare ulteriormente in tempi brevissimi al Senato per poi essere approvato rapidamente”. Come detto, cinque sono i punti da modificare nel testo perché in evidente contrasto con i diritti costituzionali, secondo le indicazioni del Colle che naturalmente si esprimerà a tempo debito sull’eventuale “scudo penale”: il divieto di vendita di carte telefoniche Sim ai migranti privi di permesso di soggiorno (articolo 32), l’eliminazione dell’obbligo di differimento pena per le donne incinte o con bambini piccoli (art.15), le aggravanti per violenza minaccia e resistenza a un pubblico ufficiale che surclassano le circostanze attenuanti (art. 19), il nuovo reato di rivolta in carcere e nei Cpr quando si realizza tramite resistenza passiva a un ordine (art. 26), e le aggravanti per chi protesta contro le opere strategiche (art. 19). In più, secondo i tecnici del Quirinale, l’elenco delle opere contro le quali sarebbe vietato manifestare dovrebbe essere contenuto in un ddl parlamentare e non in un decreto ministeriale. A questo punto Giorgia Meloni si trova nella delicata situazione di inseguire un aplomb istituzionale cercando di non tradire la sua vocazione barricadera. Ecco perché proprio ieri il suo partito ha lanciato una raccolta firme al grido “Basta aggressioni contro le forze dell’ordine” che, come spiega il responsabile organizzazione Giovanni Donzelli, “sostiene le proposte di Fratelli d’Italia per l’inasprimento delle pene per resistenza, violenza, minaccia e lesioni al pubblico ufficiale, per la creazione del reato di rivolta in carcere e per l’implementazione degli strumenti di difesa e di tutela legale”. La protesta si solleva in coro da tutte le forze di opposizione. “Non si usa il codice penale per inviare segnali”, ammonisce Riccardo Magi (+Europa). Per Nicola Fratoianni (Avs) lo “scudo penale” è una “bestialità istituzionale”. “Fortemente contrario” il Pd di Elly Schlein perché “la legge è uguale per tutti e tanto più lo deve essere per chi ha il potere di farla rispettare. Sarebbe pericoloso un quadro in cui si creasse un’impunità generalizzata”. L’ordinario di diritto penale Gatta: “La Costituzione è chiara: nessuno è sopra la legge” di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 gennaio 2025 Il docente della Statale di Milano sulla recente proposta di scudo per gli agenti di polizia. “Non esiste un problema di tutele ridotte per le forze dell’ordine”, afferma. Gian Luigi Gatta è professore ordinario di Diritto penale all’università Statale di Milano. Ci aiuta a fare chiarezza sull’ipotesi di “scudo penale” per gli agenti di polizia prefigurata dal Governo. Al momento si tratta solo di dichiarazioni politiche, anche contrastanti. Quali sono le possibilità concrete a livello giuridico? I limiti sono molto stretti perché c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. In presenza di una denuncia o se il pm ha una notizia di reato non può decidere: deve procedere come “atto dovuto”. I costituenti hanno introdotto questo principio per garantire l’uguaglianza, evitando disparità di trattamento. In ogni caso bisogna vedere come la proposta di scudo sarà formulata. Siamo nel campo delle ipotesi, ma già emergono profili di incostituzionalità. Questa dovrebbe essere accertata dalla Consulta con dei tempi lunghi in cui comunque la norma sarebbe in vigore? Sì. I tempi della Corte costituzionale sono lunghi, ma potrebbe intervenire il Colle nella fase della promulgazione o della firma. Da parte del presidente della Repubblica c’è comunque una verifica preliminare di eventuali profili di evidente incostituzionalità. Potrebbero esserci? Sì, per l’obbligatorietà dell’azione penale, per il principio di uguaglianza e per la tutela effettiva ed efficace dei diritti fondamentali. Per esempio in caso di omicidio, tortura o lesioni. Si pensi ai procedimenti che riguardano le carceri, come quelli su Santa Maria Capua Vetere. Le forze dell’ordine sono autorizzate a usare la forza ma entro certi limiti. Se la nuova disciplina affievolisse la tutela delle vittime ci sarebbero profili di incostituzionalità e possibili violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Vedo un paradosso: da un lato un disegno di legge costituzionale per introdurre la tutela della vittima nella Carta, dall’altro norme che potrebbero limitarla. Pensiamo al G8 o ai casi Cucchi e Aldrovandi: lo scudo sarebbe stato altamente problematico. Per Nordio non si parla di garantire l’impunità, ma di evitare condanne anticipate per mezzo dell’informazione di garanzia o dell’iscrizione nel registro degli indagati. Vogliono modificare il codice di procedura penale invece del codice penale? Credo che la proposta sia quella. Ma la presunzione di non colpevolezza è già un principio costituzionale che vale per tutti, comprese le forze dell’ordine. La riforma Cartabia ha anche introdotto un principio importante nel codice di procedura secondo cui il solo fatto di essere sottoposti a indagine non deve comportare effetti pregiudizievoli di natura extra penale (civili, amministrativi o disciplinari). Esiste un problema di tutele ridotte per le forze di polizia? Direi di no. Anzi il pacchetto sicurezza prevede che lo Stato paghi l’avvocato di fiducia degli agenti per i fatti commessi nell’esercizio delle funzioni fino a 10mila euro per grado di giudizio. È qualcosa di straordinario, i difensori degli imputati che accedono al patrocinio a spese dello Stato non ricevono cifre così elevate. Già qui c’è una disparità di trattamento. Basti pensare che i rimborsi per i difensori degli immigrati dei centri in Albania prevedono per decreto ministeriale massimo 500 euro. Comunque il punto importante è che indagini e processi non servono a dichiarare colpevoli le forze dell’ordine ma ad accertare, nel loro interesse, se sussistono cause di giustificazione. Come aver agito nell’adempimento di un dovere o aver usato legittimamente le armi. Il codice penale prevede queste due cause di giustificazione, ma per accertare se il fatto non è punibile servono indagine e processo. Ci sono scudi in altre professioni? Un articolo del codice penale esclude la responsabilità del medico per la morte o lesione del paziente se ha osservato linee guida e buone pratiche sanitarie. E c’è una norma temporanea per situazioni eccezionali di carenza di personale. Ma non viene escluso o ritardato l’avvio di un procedimento penale. Si esclude invece, in presenza di determinate condizioni, la punibilità all’esito dell’accertamento. Lo stesso avviene già per le forze dell’ordine se hanno adempiuto al dovere o usato legittimamente le armi. Con la pandemia da Covid-19 si era posto il tema di non iniziare i procedimenti contro i medici: non è stato possibile per i nostri principi costituzionali. Nella questura di Brescia alcune ecoattiviste sono state costrette a denudarsi e fare dei piegamenti. È una prassi legittima? Esistono regole precise che le forze dell’ordine devono seguire per perquisizioni e ispezioni. Ma non si possono dare giudizi affrettati o condanne anticipate. Bisogna accertare i fatti. Magistratura e processo servono a questo. Nessuno può essere immune dalla legge perché altrimenti si rischia di abbassare la guardia a scapito del lavoro della polizia e della tutela dei diritti di tutti noi. Montecitorio dice sì alla separazione delle carriere. Bocciate le modifiche delle opposizioni di Davide Varì Il Dubbio, 16 gennaio 2025 Approvati ieri dalla Camera tutti gli 8 articoli del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Oggi si voteranno gli ordini del giorno e poi dichiarazioni di voto finale. L’approvazione definitiva del testo tra stasera e domani. Dunque il Governo e la maggioranza hanno accelerato e bocciando tutti gli emendamenti delle opposizioni sono quasi arrivati al primo importante traguardo. La giornata si era aperta con la protesta delle opposizioni che reclamavano la presenza del Ministro Nordio vista la discussione su un provvedimento così importante. “Il fatto che il ministro non sia in Aula non è solo un dispiacere per noi, ma è anche una brutta figura per il Parlamento”, ha affermato la responsabile Giustizia dem, Debora Serracchiani. Il Guardasigilli arriva allora alle 13: “Il rammarico è anche mio di non aver potuto partecipare” a tutte le sedute. Poi ha precisato: “Pascal diceva che è orribile parlare di sé stessi, ma di una cosa non mi si può accusare: di avere cambiato le mie idee. Da 27 anni patrocino la riforma per la separazione delle carriere, il sorteggio del Csm e l’Alta Corte disciplinare. Ciò che contiene questa riforma è stato scritto da me in un libro nel 1997”. Poi ha replicato ai detrattori della riforma: “La ragione della separazione delle carriere è tecnica, sistematica e dogmatica. Che da qui si dica che si intende sottoporre il Pm all’esecutivo è un processo alle intenzioni che non fa onore a chi lo espone”. E rivolto all’Anm: “Non c’è nessuna lesione di maestà, non c’è nessuna blasfemia. La separazione delle carriere esiste nei Paesi dove è nata la democrazia, il sorteggio è consustanziale al nostro sistema giudiziario”. Ma comunque resta la polemica. Infatti se le opposizioni si sono divise sulla riforma Pd, M5S e Avs sono contrari, mentre Iv, Azione e + Europa sono favorevoli - tutte si sono mostrate anche ieri compatte nella netta critica al governo sull’impossibilità di modificare il testo. Federico Gianassi del Pd ha sottolineato, in riferimento alle iniziali parole di Nordio che ha rivendicato di aver sostenuto da sempre la separazione, che “la coerenza per un ministro dovrebbe valere per tutte le battaglie storiche: se lei continua a sottoscrivere provvedimenti che mandano bimbi di sei mesi in galera la coerenza non può rivendicarla. Lei ha detto che la riforma non ha un intento punitivo, ma Salvini dice che i magistrati di sinistra fanno politica e allora si candidino ed è per questo che ci vuole la separazione delle carriere. Il vicepremier fa parte del governo in cui anche lei siede e dichiara trasparentemente che c’è un intento punitivo”. Anche per Filiberto Zaratti di Avs “le dichiarazioni del ministro sono difformi rispetto a quelle di altri ministri del governo di cui fa parte e della sua maggioranza”. Roberto Giachetti di Iv ha puntato il dito contro il fatto “molto grave che non consentite un vero dibattito sulla riforma e che in prima lettura il provvedimento arrivi blindato”. Benedetto Della Vedova di + Europa ha accolto con favore le parole del ministro che, però, “non colmano il vuoto drammatico di assenza di confronto sulla riforma ma lo rende più inquietante. Sono favorevole alla separazione delle carriere, ma votiamo con sofferenza per tutto quello che fate in tema di giustizia”. Infine, Elena Bonetti di Azione: “Siamo a favore ma evidenziamo alcune criticità. Vorrei fare appello alla sensibilità istituzionale, al dovere di aprire un dialogo parlamentare sulle riforme costituzionali, non è accettabile che arrivi una riforma del governo di tale importanza e la si porti blindata in aula in prima lettura”. Poi bagarre e toni accesi sulla figura di Silvio Berlusconi, difeso a spada tratta da Pietro Pittalis di Forza Italia, che interviene e, con un tono della voce sempre più alto, ha accusato le opposizioni e, in particolare Avs, di pronunciare “maldicenze e pattume”. Marco Grimaldi di Avs aveva infatti detto: “Il ministro Nordio lo ha detto esplicitamente: la separazione delle carriere e’ un tributo a Silvio Berlusconi. Di certo, questa proposta sulla giustizia non esisterebbe se non fosse esistito Berlusconi o, meglio, se non fossero esistiti i problemi di Berlusconi con la giustizia che scelse, ad esempio, come uomo chiave della sua ascesa economica e politica Marcello Dell’Utri, condannato a 20 anni per rapporti accertati con la mafia e che a 83 anni è ancora indagato come mandate esterno per le stragi del 1993 e 1994”. Al Ministro Nordio ha replicato anche il segretario di AreaDg, Giovanni Zaccaro: il Guardasigilli ha sostenuto che il sorteggio “‘ rappresenta il momento più alto della giurisdizione: la pena più alta, l’ergastolo, viene irrogata dalla Corte di assise dove i giudici sono sorteggiati, il tribunale dei ministri è sorteggiato, l’Alta corte di giustizia prevede il sorteggio”. Dunque, per Zaccaro, “niente più studio per avvocati e magistrati, niente più motivazione, giochiamocela ai dadi. Lo aveva già pensato Rabelais nel ‘ 500, ma era un romanzo satirico e non un dibattito parlamentare in una moderna Repubblica democratica”. Corte costituzionale: niente accordo, slitta al 23 gennaio l’elezione dei quattro giudici di Kaspar Hauser Il Manifesto, 16 gennaio 2025 Forza Italia bloccata per il veto ai suo candidati parlamentati. Tajani prova a tenere i nomi coperti per impedire la controffensiva delle correnti forziste. Con solo undici componenti, è a rischio la camera di consiglio del 20 sui referendum. Il Parlamento in seduta comune (per eleggere quattro giudici costituzionali) si riunirà giovedì 23 gennaio dopo il nulla di fatto di martedì scorso. Fallisce dunque il tentativo di eleggere i giudici in tempo per consentire loro di prendere parte alla camera di consiglio della Corte del 20 gennaio, nella quale si deciderà sull’ammissibilità dei referendum sull’autonomia differenziata, sul jobs act e sulla legge sulla cittadinanza. Un fallimento non del Parlamento - rimasto esautorato dalle trattative per la scelta dei quattro giudici - bensì del centrodestra, e in particolare di Fi. Martedì scorso la seduta del Parlamento si era conclusa con una nuova fumata nera. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, aveva convocato per ieri mattina alle 9 la conferenza dei capigruppo per comunicare la prossima seduta. Martedì si era parlato del fine settimana, per consentire ai quattro neo eletti di partecipare alla camera di consiglio del 20. Fontana ieri mattina ha tuttavia comunicato che la seduta si terrà solo il 23. Quindi lunedì la Corte costituzionale si riunirà a ranghi ridotti, anzi ridottissimi: i giudici saranno 11, il minimo legale. Se uno di loro sarà colpito da influenza la Corte dovrà soprassedere, nonostante il 20 sia l’ultimo giorno utile per la delibera. Uno scenario statisticamente possibile, visto che stiamo attraversando il picco di influenza. Perché dunque il rinvio al 23? Le ragioni sono sostanzialmente due. Innanzi tutto la difficoltà a trovare un’intesa da portare in Aula blindata, senza rischi di impallinamento; in secondo luogo l’inopportunità di mandare i quattro neo eletti in camera di consiglio il 20 gennaio con alle spalle solo poche ore per studiare e riflettere sulle questioni in ballo. Ma vediamo il primo aspetto. Come questo giornale ha riferito ieri, l’impasse è stata creata da Fi, che alla riunione di martedì mattina con i leader dei due poli ha detto di aver scelto la personalità da proporre, ma di volerne tenere “coperto” il nome. Ebbene questa estrema “riservatezza” va raccontata. Gli aspiranti giudici per Fi erano due senatori, il viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto, pugliese, e Pierantonio Zanettin, veneto, ognuno con un curriculum con adeguate medaglie di fedeltà a Silvio Berlusconi. Tuttavia la scelta di uno dei due, avrebbe scontentato la corrente a cui appartiene l’altro; altrettanto dicasi se la scelta di Antonio Tajani fosse caduta su un terzo nome, estraneo alla politica (era stato ipotizzato il giurista Andrea Di Porto, che era stato avvocato di Berlusconi). Il nome del prescelto doveva dunque rimanere “coperto” fino al momento di entrare in Aula, quando sarebbe stato consegnato ai parlamentari il foglietto con i quattro nomi. In questo modo la corrente o le correnti scontente non avrebbero fatto in tempo a organizzare una fronda contro la decisione di Tajani. E ad aggravare le ambasce del ministro degli Esteri ci ha pensato anche la premier Meloni, la quale ha arricciato il naso su tutti e tre i nomi, non ultimo quello più gradito alla Famiglia. Gratteri: “Giustizia sempre più lenta, a rischio un processo su due. Le riforme? Pietosa bugia” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 16 gennaio 2025 Il procuratore capo di Napoli: “Sul darkweb arriveranno le ami della guerra in Ucraina”. Di fronte alle nuove sfide per il contrasto alla criminalità (il dark web, le truffe informatiche, i criptotelefoni), le riforme della giustizia portate avanti in questi anni non sono che una “pietosa bugia” all’Europa che le ha finanziate. Il capo della Procura di Napoli, Nicola Gratteri, parla per due ore in commissione antimafia e, come nel suo stile, non usa giri di parole. Procuratore, sarebbe facile dire oggi, con gli uffici giudiziari bloccati, che il processo telematico non funziona. Ma, come ha detto in commissione, c’era da aspettarselo... “Si sono spesi milioni di euro per complicare il lavoro dei pm e rallentare il sistema che si voleva velocizzare. Un progetto nato male e che copre oggi solo le archiviazioni, ossia l’equivalente di pochi metri su un percorso di chilometri che va dalla fase preliminare al dibattimento. Oggi il 50 per cento dei processi in primo grado rischia l’improcedibilità, dato che non verrà definito nei tempi imposti dalla Cartabia. Magari la Corte dei conti potrebbe approfondire quanto ci costano questi ritardi”. Parlando di riforme lei ha insistito molto sulla dotazione di uomini e mezzi. Basta questo in un sistema così complesso? “Questa è la base. A Napoli ad esempio manca il 20 per cento del personale amministrativo ma il ministero dice che verrà equiparata in tutte le Procure una scopertura del 10 per cento. Si può mettere sullo stesso piano Napoli e Bassano del Grappa? E servirebbero investimenti per nuove carceri, almeno tre da 15 mila posti dedicati ai detenuti al 41bis — un regime che oggi di fatto è inapplicato — in Rems e centri di recupero per svuotare le celle da chi ha problemi psichici e di tossicodipendenza”. E sul piano della procedura penale? “Serve un ragionamento meno schizofrenico sull’intero sistema, non interventi spot su singoli aspetti, sennò si fa solo confusione. La velocità dei processi non può essere a scapito della tutela delle parti offese. Per citare un caso attuale: le truffe telefoniche e online sono procedibili solo su denuncia di parte. Se la vede una persona anziana che viene ad esporsi raccontando quello che ha subito?”. Sui “percorsi” sempre meno tradizionali della criminalità ha insistito molto. “Parlavamo di riforme: gli uffici delle Procure avrebbero bisogno di ingegneri informatici che sappiano stare dietro a tutte le novità tecnologiche per aiutare noi magistrati a contrastarle. Ma se vengono loro offerti contratti da 1.500 euro al mese, sceglieranno sempre il settore privato”. Quanto è serio l’allarme per il dark web? “Serissimo, tutto si muove in quel mondo in un modo che stupisce anche me. Ho personalmente ascoltato la trattativa per l’acquisto di 2 mila chili di cocaina; qui vengono reclutati killer; adesso arriverà il traffico delle armi della guerra in Ucraina. Un missile Stinger costa 30 mila euro, lo immagina in mano alla criminalità?”. Ritorna il tema delle intercettazioni. “Il ministro Nordio ne fa una questione economica e basterebbero i dati per dargli torto: a Napoli, in un anno, ho speso 5 milioni per ascoltare i criminali e questo ha permesso di sequestrare, quindi di ridare allo Stato, 600 milioni. In due mesi ho recuperato 35 milioni in Bitcoin. Intercettare conviene. L’altro falso mito è quello delle intercettazioni “a strascico”, che non esistono. Ogni ascolto va autorizzato e, anzi, spesso, pur davanti a parole chiare, non si può procedere perché non c’è una “notizia di reato”. E quando finiscono sui giornali conversazioni private? “Se ci sono abusi, va punito chi li commette. Non va vietato lo strumento”. Anche le ordinanze non saranno più pubblicabili. “Un’altra riforma di cui non c’era bisogno, un’involuzione democratica”. Ha detto: dopo il caso Palamara, il Csm doveva dimettersi in blocco. “Per una questione di credibilità, al di là dei fatti poi accertati. Per dare un segnale di trasparenza e ripartenza anche all’esterno e per non permettere alla politica di sparare a zero contro la categoria. Sono favorevole al sorteggio nelle nomine al Csm anche per i membri laici (escludendo chi ha pendenze penali o altre incompatibilità)”. E sullo scudo penale alle forze dell’ordine? “Una tutela legale serve. Nel merito non ho ancora analizzato la proposta di cui si parla”. Immigrati, il Tribunale non può bloccare il trasferimento nello Stato membro che ha negato l’asilo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2025 Le Sezioni unite, sentenza n. 935 depositata ieri, hanno accolto il ricorso del Ministero dell’Interno favorevole al trasferimento di un cittadino Pakistano in Austria dopo il diniego dell’asilo. Uno Stato membro non può negare il trasferimento di un extracomunitario presso lo Stato membro competente che ha negato la protezione internazionale a meno di comprovate carenze nella procedura e nelle condizioni di accoglienza. Le Sezioni unite, sentenza n. 935 depositata oggi, accogliendo il ricorso del ministero dell’Interno, affermano un principio di diritto alla luce della sentenza della Corte Ue del 30/11/2023 ponendo dei limiti ben precisi nella valutazione del rischio di violazione del principio di “non refoulement” da parte del giudice nazionale. Il caso era quello di un cittadino del Pakistan che aveva impugnato il provvedimento del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione che aveva disposto il suo trasferimento in Austria. Il Paese che ne aveva respinto il ricorso e che dunque l’avrebbe rimpatriato col pericolo, sosteneva il ricorrente, di essere esposto a un grave pericolo. Il Tribunale di Firenze gli ha dato ragione affermando che la situazione pakistana, in particolare quella della città di provenienza Parachinar e più in generale del distretto di Kurram, era tale da esporre il ricorrente a pericolo di grave danno di trattamenti inumani e degradanti e di esposizione a una situazione di violenza generalizzata. Per le S.U. però il dictum della Corte europea è inequivoco nel negare ai giudici degli Stati membri il potere di sindacare l’esercizio della clausola discrezionale dell’art.17 del Regolamento Dublino III da parte dell’Autorità competente del loro Stato allo scopo di tutelare il richiedente asilo dal rischio di refoulement indiretto, in assenza di carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza nel Paese altrimenti ordinariamente competente, sul presupposto di una diversa valutazione dei rischi connessi al rimpatrio nel Paese di provenienza. Del resto, prosegue la decisione, il riconoscimento della protezione internazionale nei Paesi dell’Unione è basato su un sistema comune di asilo (art. 78 T.F.U.E.), che postula un principio generale di reciproca fiducia tra i sistemi di asilo nazionali e il mutuo riconoscimento delle decisioni emesse dalle singole autorità nazionali, che si fonda su di un sistema comune di valori e di regole che li incarnano e che tutti gli Stati membri sono chiamati a rispettare. La Cassazione, nella lunga dissertazione di 58 pagine ricorda tutti i principi messi nero su bianco dai giudici europei, affermando che il provvedimento di Firenze non è allineato. Il Tribunale, infatti, senza accertare alcuna forma di carenza sistemica nel sistema di esame delle domande e di accoglienza austriaco, si è avvalso della clausola di discrezionalità, per formulare proprio quella valutazione che il diritto europeo, come chiarito dalla sentenza “Ministero dell’Interno” della Corte di Giustizia del 30.11.2023, non consente: ossia delibare un rischio di respingimento indiretto in un Paese di origine (il Pakistan) sulla base di una differente valutazione del livello di protezione di cui può beneficiare colà il richiedente, ignorando la regola della fiducia reciproca e la soggezione di tutti i Paesi membri al principio di non respingimento. La Seconda Sezione della Corte di Giustizia (decidendo sulle cause riunite C-228/21, C-254/21, C297/21, C-315/21, C-328/21), ricorda la Suprema corte, in ordine alla clausola discrezionale: ha ribadito la natura facoltativa della clausola discrezionale e ha ripetuto che spetta allo Stato membro interessato determinare le circostanze in cui intende far uso della facoltà conferita; ha precisato che il giudice dello Stato membro non può obbligare lo Stato membro ad applicare la clausola discrezionale per il motivo che esisterebbe, nello Stato membro richiesto, un rischio di violazione del principio di non-refoulement; infine, ha chiarito che, se le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dovessero essere acclarate, la competenza dello Stato membro richiedente si fonderebbe sull’art. 2, par. 2 del Regolamento, cosicché non sarebbe necessario, per lo Stato membro richiedente, ricorrere all’art. 17, par. 1, del medesimo Regolamento. La sentenza “Ministero dell’Interno” dunque esclude che il giudice dello Stato membro possa imporre al suo Stato l’impiego della clausola discrezionale per scongiurare il rischio di non- refoulement che a suo parere si delineerebbe nello Stato membro destinatario del trasferimento: e ciò perché siffatta decisione infrangerebbe il fondamentale principio di fiducia reciproca fra gli Stati membri. Per queste ragioni il decreto impugnato è stato cassato con rinvio della causa al Tribunale di Firenze in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto: “Nel procedimento di impugnazione delle decisioni di trasferimento dei richiedenti asilo (ex art.27 del Regolamento UE n. 604 del 26.6.2013, nonché ex art.3 del d.lgs. 28.1.2008 n.25, e s.m.i. e ex art.3, lettera e-bis del d.l. 17.2.2017 n. 13, convertito con modifiche in legge 13.4.2017 n. 46), il giudice adito non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o in conseguenza di questo, sulla base di divergenze di opinioni in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale, a meno che non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale”. Il giudice italiano di fronte al diritto Ue, l’equilibrio tra soluzioni nazionali e cooperazione di Bartolo Conratter Il Riformista , 16 gennaio 2025 Il sistema di tutele integrate non è un ostacolo: garantisce il pieno rispetto del diritto eurounitario. Mentre siamo in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia (CGUE) sul concetto di “Paese sicuro” e sulla sua operatività - e nel frattempo che, come si spera, calino i picchi glicemici post natalizi - può forse essere utile chiarire i meccanismi che regolano i rapporti tra la CGUE e il giudice ordinario italiano. Perché questo è il tema. Del resto, è anche un segno dei tempi: non bastano più, per orientarsi nella quotidianità, poche nozioni sedimentate, localizzate, indigene. La globalità ci porta costantemente in una dimensione di indagine, almeno europea. La possibilità di acquisire nozioni sicure in argomento ci viene offerta da due sentenze della Corte Costituzionale che - interessandosi di eterogenee questioni ad essa proposte - si legano sulla chiarificazione delle regole (per così dire) di “ingaggio” tra giudice nazionale e diritto europeo. Con la prima (19 dicembre 2024 n. 210) si è attestato che la Corte Costituzionale non può in alcun modo - testualmente - “ostacolare” o limitare il potere dei giudici comuni dinanzi a una legge statale incompatibile con il diritto dell’Unione. La Corte è tornata sull’argomento nell’iniziale pronuncia del 2025 (3 gennaio 2025 n. 1). Implementando le nozioni già offerte, la sentenza ha esplicitato che il giudice - ove ravvisi l’incompatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’Unione, dotato di efficacia diretta - è abilitato a non applicare la normativa interna, all’occorrenza previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (art. 267 TFUE). Ovvero a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, e dell’art. 11 Cost. In quest’ultima evenienza, la Corte Costituzionale non potrà esimersi dal rispondere - con gli strumenti che le sono propri e che comprendono una vasta gamma di tecniche decisorie - alle censure che investono la violazione di una norma europea (contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nei Trattati o anche di diritto derivato) che presenti un nesso con interessi o princìpi di rilievo costituzionale. Così da assicurare il “tono costituzionale” della questione sollevata. In un sistema improntato a un concorso di rimedi (destinato ad assicurare la piena effettività del diritto dell’Unione e, per definizione, a escludere ogni preclusione), il sindacato accentrato di costituzionalità - ha affermato la Corte - non si pone in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo, ma con esso coopera nella costruzione di tutele sempre più integrate. Sara?, dunque, il giudice a individuare il rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame. L’interlocuzione con la Corte Costituzionale, chiamata a rendere una pronuncia erga omnes, si dimostra - come viene sottolineato - particolarmente proficua qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze; o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa; o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto; oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra princìpi di carattere costituzionale. Chi ha resistito alla lettura, sappia che quanto sopra vale per l’Europa. Al fine di dotarsi di una qualche attrezzatura giuridica, quale base interpretativa per la decifrazione di intrighi internazionali (tipo l’attuale cortocircuito Iran-Italia-Usa), serve ben altro. Il riferimento è al sofisticato procedimento per l’estradizione. Ma questa è un’altra storia che va riservata al prosieguo. Asti. Detenuto muore in carcere, la famiglia denuncia presunto caso di malasanità internapoli.it, 16 gennaio 2025 Mario Schiavone, 58 anni, è morto in carcere. L’uomo era il cognato di Francesco Schiavone poiché aveva sposato la sorella di Giuseppina Nappa, moglie del boss dei Casalesi Sandokan. La notizia è stata data in anticipo dalla giornalista Marilena Natale. Lo scorso 9 gennaio i familiari del ras della camorra di Ponticelli hanno presentato una denuncia per un presunto caso di malasanità. Le condizioni del detenuto si sarebbero aggravate nelle ultime ore tanto da rendere necessario il trasporto in ospedale, struttura che l’uomo non sarebbe riuscito a raggiungere visto il sopraggiungere del decesso. L’avvocato Paolo Gallina ha dichiarato: “Da quanto trapelato sinora sembrerebbe che il detenuto abbia avvertito sbalzi di pressione e un generale stato di salute oltre modo precario da oltre quattro giorni prima del suo decesso. Parrebbe che persino durante i colloqui familiari lamentasse poca capacità cognitiva e assenza di forze. In questo momento fare delle esternazioni risulterebbe precoce ma faremo tutto quanto nelle nostre possibilità per accertare se vi siano stati ritardi nei soccorsi e se vi sia una linearità tra quanto sostenuto dai presidi medici all’interno dell’istituto e dal personale della polizia penitenziaria con quanto scritto nei verbali di pronto soccorso del personale medico intervenuto”. Sulmona (Aq). La Garante dà lo stop al nuovo padiglione: “Prima risolvere i problemi strutturali” ilgerme.it, 16 gennaio 2025 “Ritengo che sia quanto mai necessario e opportuno, prima di riempire con altri detenuti il nuovo padiglione, trasferirvi la popolazione carceraria già esistente a Sulmona, in modo da poter effettuare gli interventi necessari sulle strutture più obsolete. In questo frangente sarebbe utile evitare di incrementare il numero dei reclusi per il tempo necessario a ultimare i lavori”. Queste le parole della Garante dei detenuti della Regione Abruzzo Monia Scalera in visita ieri nella struttura carceraria di Sulmona dove si è recata per verificare personalmente la situazione e confrontarsi con il personale e i detenuti. Questi ultimi attualmente 450, di cui circa 140 in esubero, reclusi all’interno di padiglioni “inidonei ad ospitare i detenuti” ha dichiarato la stessa Scalera evidenziando la necessità di “importanti interventi di manutenzione” per risolvere le diverse criticità, dall’usura strutturale alla mancanza di docce, dalle infiltrazioni alle “pessime condizioni degli spazi dedicati agli agenti di polizia penitenziaria”. Dopo aver accompagnato un detenuto in infermeria dove ha esaminato le condizioni di lavoro del personale medico, non solo della polizia penitenziaria, Monia Scalera ha sottolineato come il suo ruolo sia di garanzia non solo per i detenuti ma per tutto il personale. Una visita che ha consentito alla Garante, accompagnata durante la visita dalla comandante Alessandra Costantini, di confrontarsi a lungo con il direttore del carcere di Sulmona Stefano Liberatore e con il vicesegretario del sindacato di polizia penitenziaria Mauro Nardella che da tempo solleva l’attenzione sulle problematiche esistenti all’interno dell’istituto peligno. “Sono convinta che in una struttura dove regna un clima virtuoso tutti ne traggono giovamento”, ha concluso Monia Scalera annunciando il suo ritorno a Sulmona il prossimo 6 febbraio. Monza. Roberto Rampi è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti primamonza.it, 16 gennaio 2025 È Roberto Rampi, vimercatese, ex amministratore ed ex vicesindaco, il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà a Monza. La Giunta Comunale ha effettuato la nomina ieri, in base all’accordo siglato a luglio 2024 con Provincia MB e Casa Circondariale per istituire e regolare il funzionamento di tale figura. L’intesa prevedeva, appunto, che fosse il Comune a nominare la figura di Garante “a seguito di una selezione tramite avviso pubblico, scegliendo fra persone di prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e delle attività sociali”. Roberto Rampi è stato nominato Garante dei detenuti in quanto individuato dall’Amministrazione Comunale tra le candidature pervenute, sentito il Presidente della Provincia MB. Volto conosciuto nel territorio per la significativa esperienza amministrativa maturata, Rampi è stato eletto nel 2018 quale rappresentante italiano presso l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con il ruolo di Vicepresidente della Commissione Cultura Scienza Educazione e Media; è stato inoltre membro onorario del Global Committee for the Rule of Law dal 2022 e già deputato e senatore della Repubblica. Dal 2021 è anche nel Consiglio Direttivo generale di “Nessuno tocchi Caino” e da dicembre nella prima segreteria nazionale. La sede - Rampi avvierà il suo incarico nelle prossime settimane, secondo quanto previsto dal Regolamento e resterà in carica fino alla scadenza del mandato del Sindaco di Monza. Il Garante svolgerà la propria attività presso la sede provinciale di via Tommaso Grossi 9, dove la Provincia MB assegnerà spazi adeguati per lo svolgimento della funzione. Non riceverà compenso alcuno, data la natura onorifica della sua figura. Il ruolo - Il Garante delle persone private della libertà personale, istituito nel 2013 a livello nazionale, nella sua declinazione locale ha lo scopo di vegliare sulle condizioni di vita dei detenuti e sull’eventuale mancato rispetto dei diritti individuali, sul rispetto della Costituzione in merito alla pena inflitta, coordinandosi con l’Istituzione carceraria per assicurarsi che il periodo detentivo dei carcerati sia effettivamente volto alla riabilitazione e a preparare le persone al ritorno alla comunità. “Tra le candidature pervenute, quella di Roberto Rampi è risultata essere quella maggiormente in linea con gli obiettivi che le due amministrazioni si erano proposte, in particolar modo garantire un alto e continuo livello di attenzione rispetto alle condizioni dei detenuti del territorio, ma anche stimolare una maggiore conoscenza diffusa di queste tematiche, spesso non sufficientemente valorizzate nel dibattito pubblico. Porto i migliori auguri da parte della Provincia MB al dott. Rampi, che accoglieremo presto negli spazi provinciali di via Grossi” - commenta il Presidente della Provincia di Monza e della Brianza, Luca Santambrogio. “Questa importante nomina - osserva il Sindaco Paolo Pilotto - è divenuta possibile grazie alla leale collaborazione tra Istituzioni e all’impulso dei Consigli Comunali, con l’obiettivo comune di fornire ai detenuti un mezzo di garanzia del rispetto dei loro diritti e di assicurare un’ulteriore fonte di continuo e attento monitoraggio delle situazioni di detenzione, in stretta collaborazione con la dirigenza della Casa Circondariale”. Busto Arsizio. I detenuti e il laboratorio di abiti in carcere, sognando di diventare sarti di Rosella Formenti Il Giorno, 16 gennaio 2025 L’accordo con l’azienda tessile Grassi di Lonate Pozzolo e l’Amministrazione penitenziaria ha come obiettivo, oltre a quello della formazione, anche di calmare la situazione all’interno di una delle prigioni più sovraffollate e problematiche d’Italia. Detenuti pronti a diventare sarti o, chissà, anche futuri stilisti (mai mettere limiti alle possibilità). Gli altri riceveranno comunque un attestato di partecipazione che potranno spendere quando una volta usciti dal carcere si cercheranno un’occupazione o comunque intraprenderanno un percorso riabilitativo. Tutti per il momento hanno imparato a usare macchine da cucire e altri macchinari impiegati per la produzione di abiti grazie a un accordo fra l’amministrazione penitenziaria e l’azienda tessile Grassi, storica impresa di Lonate Pozzolo specializzata da oltre un secolo nella produzione di abbigliamento tecnico, professionale, per le forze dell’ordine e sportivo. Sono 12 i detenuti del carcere di Busto Arsizio che prima di Natale hanno iniziato, ed entro fine febbraio termineranno, un corso di formazione di 140 ore per imparare il mestiere di operatore dell’abbigliamento. Di questi, almeno due verranno appunti assunti. Entro febbraio, sempre con la collaborazione dei dirigenti della Grassi, all’interno del carcere sarà aperto un laboratorio di confezionamento. Alla regia del progetto ci sono Confindustria Varese e la Prefettura del capoluogo. “Dati statistici mettono in evidenza come il rischio di recidiva tra i detenuti non coinvolti in percorsi di reinserimento lavorativo sia pari a circa il 70% - spiega la direttrice del carcere Maria Pitaniello -. Percentuale che crolla al 2% nelle persone a cui vengono offerte concrete opportunità di formazione e impiego. Formazione e lavoro costituiscono il principale strumento per restituire dignità e offrire opportunità di riscatto alle persone detenute”. Ad oggi, a fronte di circa 400 detenuti, sono circa 140 quelli impegnati in attività lavorative alle dipendenze dell’Amministrazione o di datori di lavoro esterni come la cioccolateria, “Nel 2024 - continua Pitaniello - abbiamo organizzato 23 corsi di formazione con un impegno di 225 detenuti che hanno potuto acquisire una competenza che, in questo caso in particolare, in quanto certificata, sarà spendibile nel mondo del lavoro al momento della dimissione dall’Istituto”. L’azienda Grassi coinvolta è quella di cui è titolare il presidente di Confindustria Varese Grassi. Al quale rende merito, per essersi reso disponibile a questa iniziativa, il prefetto di Varese Salvatore Pasquariello: “Il presidente di Confindustria Varese ha dato un grande esempio con la sua azienda, attraverso la sottoscrizione della convenzione insieme al direttore del carcere”. Il corso di formazione, attivato anche grazie all’utilizzo di fondi regionali, è stato dato in gestione ad Acof Olga Fiorini ed è partito con le prime lezioni dedicate alle tematiche della sicurezza sul lavoro. Da qui si è passati alla teoria con i primi incontri introduttivi sulla conoscenza delle macchine, il corretto utilizzo dei macchinari e la gestione dei tessuti. Infine, la parte pratica con le esercitazioni nella realizzazione di shopper bag, la costruzione di pantaloni, il riutilizzo di lenzuola e federe di cuscini. La formazione terminerà verso la fine di febbraio, dopo di che si aprirà la fase di selezione con i colloqui volti all’individuazione di almeno 2 prime assunzioni che la Grassi Spa effettuerà con l’applicazione del contratto Nazionale di settore e la possibilità di accedere ai benefici della Legge Smuraglia: fino a 520 euro mensili erogati come crediti d’imposta e la riduzione del 95% di aliquota contributiva. Nel frattempo, il laboratorio è stato dotato, attraverso investimenti della Grassi Spa, di tutta l’attrezzatura necessaria, tra cui 6 macchine da cucire, altri 3 macchinari e tavoli per il taglio. Allo studio c’è anche la realizzazione di una linea di abbigliamento come primo kit per i detenuti che arrivano senza cambio indumenti. Non delle divise carcerarie, ma veri e propri abiti casual realizzati attraverso il riutilizzo di tessuti della Grassi. Napoli. Riscatto e reinserimento per i detenuti, nasce l’Associazione “Terra Dorea” ansa.it, 16 gennaio 2025 Trasformare il futuro di numerosi detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie: è questo l’obiettivo dell’associazione “Terra Dorea” guida dall’avvocato Claudia Majolo, da tempo impegnata nella difesa dei diritti umani e nel reinserimento sociale. L’associazione - spiega una nota - intende offrire una concreta opportunità di cambiamento e si distingue per il suo approccio umano e integrato, mettendo al centro la persona e il suo percorso di reintegrazione nella società. Terra Dorea, in sostanza, si propone come un ponte tra il carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una reale trasformazione sociale e culturale. “Per affrontare in maniera efficace le problematiche legate alla detenzione e al reinserimento sociale, - si legge ancora nella nota - è necessario un impegno coordinato a livello istituzionale. Per questo motivo, Terra Dorea chiede con urgenza l’istituzione di un tavolo tecnico di discussione, chiedendo la partecipazione del Presidente della Repubblica, del Ministro della Giustizia e della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni”. Nei mesi di ottobre e novembre 2024, Terra Dorea ha già avviato incontri significativi con il capo dipartimento del DAP e con il capo dipartimento della Comunità San Germano, “durante i quali si è avviato un confronto costruttivo”. “La conclusione di questi incontri - viene ancora spiegato - ha portato alla definizione di una collaborazione, grazie al riconoscimento della genuina intenzione di Terra Dorea di promuovere un vero cambiamento per il sovraffollamento delle carceri”. “La situazione emergenziale che riguarda il sistema penitenziario e il reinserimento dei detenuti - conclude l’associazione - richiede soluzioni immediate e efficaci, in grado di promuovere un cambiamento reale e duraturo”. Roma. Il 13 e 14 febbraio un convegno per i 50 anni dell’ordinamento penitenziario antigone.it, 16 gennaio 2025 Copia di isolamento 1Due giorni di riflessioni culturali, giuridiche, politiche e sociali sul carcere. A 50 anni dall’approvazione della legge penitenziaria in vigore, questo evento rappresenta un’occasione per fare il punto su un aspetto cruciale del nostro sistema giuridico e sociale. Il focus principale sarà comprendere il percorso che ha attraversato la legge nel corso di mezzo secolo, analizzando in profondità le sue criticità e i suoi punti di forza. La legge penitenziaria, che ha segnato una tappa fondamentale nella riforma del sistema carcerario italiano, ha introdotto importanti principi di umanizzazione e di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Tuttavia, è emerso nel tempo un dibattito acceso sulle sue reali applicazioni, sulle difficoltà operative e sull’efficacia nel rispondere alle necessità di una società in continua evoluzione. Questo incontro offrirà un’opportunità per discutere non solo i risultati ottenuti, ma anche le problematiche irrisolte, come il sovraffollamento delle carceri, le condizioni di vita dei detenuti e le opportunità di reinserimento sociale. Gli studiosi e gli esperti coinvolti nell’incontro esamineranno la legge in una prospettiva che spazia dal passato, per comprendere come e perché furono adottate certe scelte, al presente, analizzando la sua applicazione concreta, verso il futuro, con uno sguardo attento alle possibili riforme e alle evoluzioni necessarie per rispondere alle sfide odierne. Un’analisi che non si limiterà a una dimensione giuridica, ma che abbraccerà anche gli aspetti politici, sociali e culturali, cercando di tracciare un percorso che vada oltre le parole della legge, affrontando le sue implicazioni quotidiane nella vita delle persone coinvolte nel sistema penitenziario. Catanzaro. “Trasformare il dolore in speranza”, concluso il progetto “Fumettando” lametino.it, 16 gennaio 2025 Un racconto che nasce dall’arte del fumetto per trasformare il dolore in speranza e il passato in un nuovo inizio. Si è da poco concluso “Fumettando”, il progetto promosso dal Centro Calabrese di Solidarietà ETS - in collaborazione con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria e con la Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro come partner di progetto - che ha anche finanziato l’iniziativa. Questo percorso ha coinvolto 40 detenuti della Casa Circondariale di Catanzaro in quattro corsi di fumetto, ciascuno della durata di 100 ore. Attraverso il linguaggio visivo del fumetto, i partecipanti hanno raccontato le proprie esperienze personali, dando forma a emozioni, ricordi e storie che spesso rimangono celati. Il progetto rappresenta una vera e propria “rivoluzione culturale” che il Centro Calabrese di Solidarietà ETS ha implementato all’interno della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro. Il risultato è una pubblicazione che rappresenta molto più di un semplice volume di disegni: è una raccolta di “diari visivi” che riflettono un percorso di introspezione e desiderio di cambiamento. “Fumettando”, grazie anche a una preziosa sinergia interistituzionale tra pubblico e privato, si è posto obiettivi ambiziosi come: fornire ai detenuti un modo per trascorrere tempo di qualità, unendo formazione e sostegno psicologico; dare una voce e una forma a coloro che spesso rimangono invisibili; portare l’attenzione sulle criticità del sistema carcerario, offrendo una prospettiva umana e profonda. Le tavole realizzate dai detenuti raccontano storie di dolore, crescita e redenzione, mostrando la forza dell’arte come strumento di riconciliazione e speranza. Anche se il tratto dei disegni può apparire semplice, ogni linea trasmette stati d’animo profondi: speranze, rimpianti, amori e sofferenze. I balloons con i dialoghi, spesso lasciati nel linguaggio originale dei partecipanti, conferiscono un’autenticità che amplifica l’impatto emotivo delle narrazioni. Il volume è arricchito da approfondimenti psicologici che esplorano le dinamiche cognitive e culturali dei contesti di deprivazione, offrendo al lettore una chiave per comprendere meglio il mondo penitenziario. La pubblicazione non solo rappresenta le storie dei detenuti, ma invita a riflettere sulla complessità delle loro vite e sull’importanza di offrire opportunità di riscatto. “Fumettando” dimostra, quindi, come l’arte possa essere un ponte tra mondi diversi, offrendo una possibilità di cambiamento e una nuova prospettiva di vita. Ogni pagina del fumetto è una testimonianza di coraggio, un invito a non banalizzare la sofferenza e a non assuefarsi all’orrore. Dietro ogni storia c’è una persona e, dietro ogni errore, la possibilità di un nuovo inizio. La pubblicazione può essere scaricata dal sito del Centro calabrese di solidarietà Ets nella sezione “Pubblicazioni”. “In Italia troppi diritti fondamentali sono a rischio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2025 Dalla salute mentale alla violenza di genere, dal carcere all’immigrazione: sono alcuni dei diritti fondamentali in Italia che mostrano segnali di forte criticità. È quanto emerge dal Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, presentato ieri mattina alla Camera dall’associazione “A Buon Diritto Onlus”, presieduta da Luigi Manconi. Il documento, giunto alla sua decima edizione e realizzato grazie al contributo dell’8x1000 Valdese, offre un’analisi dettagliata del biennio 2023-2024, tracciando luci e ombre nel riconoscimento di 17 diritti fondamentali nel nostro Paese. Alla presentazione, moderata da Alessandra Trotta della Tavola Valdese, hanno partecipato esponenti politici come Nicola Fratoianni (AVS), Cecilia D’Elia (Pd), Rachele Scarpa (Pd), Riccardo Magi (+ Europa) e Gilda Sportiello (M5S), con l’obiettivo di sensibilizzare il Parlamento. Il Rapporto si distingue per il suo approccio scientifico e politico, offrendo una panoramica dei diritti in Italia attraverso capitoli tematici corredati da grafici, storie e linee temporali. Tra le tematiche trattate figurano: libertà di espressione, diritto all’abitare, salute, ambiente, migrazioni, autodeterminazione femminile, diritti Lgbtqia+, minoranze etniche, salute mentale e condizioni carcerarie. Secondo Camilla Siliotti di “A Buon Diritto”, la situazione appare adesolante e preoccupante”, con la necessità di interventi strutturali nel welfare e nelle politiche pubbliche, evidenziando come l’inasprimento normativo e i tagli sociali stiano aggravando le disuguaglianze. In tema di immigrazione, il Rapporto denuncia l’effetto restrittivo del cosiddetto “Decreto Piantedosi” e delle nuove normative sui paesi di origine sicura, che hanno limitato il diritto d’asilo. Il Mediterraneo Centrale si conferma come una delle rotte migratorie più letali al mondo, con oltre 30.000 vittime negli ultimi dieci anni. Per quanto riguarda la libertà di stampa, l’Italia è scesa dal 41° al 46° posto nella classifica mondiale, con un aumento dei casi di querele intimidatorie (Slapp) e 20 giornalisti sotto scorta. Sul fronte della salute mentale, il 48% degli italiani si sente solo, mentre il 52% dichiara di subire gli effetti negativi della guerra sulla propria psiche. La violenza di genere rimane una piaga strutturale: 109 donne sono state vittime di violenza patriarcale nel 2024, con un aumento rispetto al 2023. L’occupazione femminile, invece, continua a essere penalizzata, con un gap salariale di circa 7.922 euro rispetto agli uomini e un alto tasso di obiezione di coscienza che limita l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in alcune regioni. Non manca il capitolo dal titolo “prigionieri”, dove si mette in rilievo la crisi profonda che sta attraversando il sistema penitenziario. A fine 2024, a popolazione detenuta ha raggiunto quota 62.464 unità, segnando un incremento del 3,8% rispetto all’anno precedente. Un dato allarmante che si accompagna al record storico di suicidi in carcere: 88 persone nel 2024, superando il precedente picco di 84 del 2022. L’aumento della popolazione carceraria non corrisponde a un incremento della criminalità. Al contrario, i dati mostrano una diminuzione del 5,5% dei delitti commessi. La causa va ricercata piuttosto nelle recenti politiche penali “carcerocentriche”: nei primi due anni dell’attuale legislatura sono state introdotte circa ventisette nuove fattispecie di reato o significativi inasprimenti di sanzioni già previste. Solo il 33,3% dei detenuti è impegnato in attività lavorative, un dato che evidenzia la distanza tra l’obiettivo costituzionale della rieducazione e la realtà quotidiana. Gli stranieri costituiscono il 32% della popolazione carceraria, spesso per reati contro il patrimonio di lieve entità. Un segnale positivo è arrivato dalla sentenza n. 10/ 2024 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari. Una decisione che arriva dopo più di dieci anni di attesa e che riconosce finalmente il diritto all’affettività in carcere. Un diritto che però l’amministrazione penitenziaria ancora non sta rispettando. La situazione disastrosa ha spinto esponenti del mondo istituzionale, politico e intellettuale a lanciare un appello per l’adozione di un provvedimento di amnistia e indulto che potrebbe riguardare circa 16.000 persone, attualmente detenute per reati con residui pena fino a due anni. Preoccupa anche la situazione dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, dove il trattenimento amministrativo si rivela inefficace nel 50,6% dei casi. Non va meglio nelle Rems, dove il piano terapeutico riabilitativo risulta definito solo per il 46% dei pazienti definitivi. Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, ha espresso perplessità sul recente ddl sicurezza, che prevede ulteriori inasprimenti, inclusa l’introduzione del reato di rivolta in carcere applicabile anche in caso di protesta non violenta. A undici anni dalla sentenza Torreggiani della Cedu, che condannò l’Italia per il sovraffollamento carcerario, il sistema penitenziario italiano sembra non aver risolto le sue criticità strutturali, nonostante alcune riforme positive come la legge 67 del 2014 e la più recente riforma Cartabia. Le soluzioni proposte da “A Buon Diritto” per affrontare questa emergenza sono articolate e strutturali. In primo luogo, appare necessaria una profonda revisione del regime del 41- bis, ridefinendone con precisione ambito di applicazione e presupposti, per evitarne un utilizzo estensivo che rischia di andare oltre le originarie finalità di contrasto alla criminalità organizzata. Centrale è anche la questione del reinserimento sociale: il tempo della detenzione non può continuare a essere “vuoto”. È indispensabile potenziare le attività lavorative e formative, trasformando il periodo di reclusione in un’opportunità concreta di riabilitazione e di acquisizione di competenze spendibili una volta tornati in libertà. Sul fronte dell’immigrazione, il rapporto evidenzia l’urgenza di ripensare completamente il sistema dei Cpr. Il trattenimento amministrativo dei migranti, oltre a sollevare serie questioni di diritti umani, si è dimostrato inefficace persino rispetto al suo obiettivo dichiarato: garantire i rimpatri. Una forma di detenzione senza reato che richiede un ripensamento radicale. Infine, per quanto riguarda le Rems, è necessario superare l’attuale sistema delle liste d’attesa basate sulla mera cronologia delle richieste. Servono invece criteri di priorità basati sulla gravità dei casi e sull’urgenza del trattamento terapeutico, accompagnati da un monitoraggio rigoroso dei presupposti di assegnazione. Si tratta di riforme complesse ma necessarie per ricondurre il sistema penitenziario italiano entro i binari costituzionali della dignità umana e della funzione rieducativa della pena. L’alternativa è il persistere di una situazione che, come dimostrano i numeri drammatici dei suicidi, sta diventando sempre più insostenibile. Il rapporto sui diritti: “L’Italia stava male ma ora sta peggio” di Angela Stella L’Unità, 16 gennaio 2025 Il rapporto di A Buon Diritto, Manconi: “Due anni di governo Meloni hanno incrementato il deficit di protezione sociale. Più deboli le tutele individuali”. Il nostro paese perde posizioni anche sulla libertà di stampa, record di querele per intimidire i giornalisti. Presentato ieri alla Camera il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia curato da A Buon Diritto - Onlus presieduta da Luigi Manconi che ha esordito: “In Italia il sistema dei diritti e delle garanzie è da sempre assai arretrato. Oltre due anni di governo Meloni lo hanno ulteriormente indebolito, incrementando il deficit di protezione sociale e rendendo ancora più fragili le tutele individuali”. Giunto quest’anno al suo X anniversario, il monitoraggio su 17 diversi diritti riporta le principali novità normative, evidenzia gli eventuali arretramenti riscontrati nel loro riconoscimento e suggerisce delle raccomandazioni. Il Rapporto evidenzia come in materia di asilo e immigrazione sono numerose le modifiche legislative avanzate in senso restrittivo: dal cosiddetto “Decreto Piantedosi” che ha introdotto limitazioni e sanzioni volte a ostacolare le attività di search and rescue delle ONG che operano nel Mediterraneo, ai due decreti interministeriali di aggiornamento della cosiddetta “lista dei Paesi di origine sicura”, che ha portato a limitare ulteriormente l’esercizio del diritto di asilo. La lista dei Paesi sicuri ritorna anche nel Protocollo Italia Albania, che ha sollevato un forte scontro tra Governo e Magistratura. Il Mediterraneo Centrale resta una delle rotte migratorie più letali: nel 2023 oltre 3.105 persone hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa, oltre 2.500 morti in più rispetto al 2022. Più di 30.000 le persone morte nel Mediterraneo centrale negli ultimi 10 anni. Tra le raccomandazioni quella di chiudere le strutture di trattenimento e detenzione amministrativa delle persone straniere richiedenti asilo o prive di un titolo di soggiorno, sia quelle presenti sul territorio italiano, sia quelle extraterritoriali in Albania. In generale nel 2023 si è registrato un aumento delle persone private di libertà nelle carceri italiane, nonostante una riduzione dei reati (-5,5% rispetto al 2022). L’aumento non corrisponde a un incremento del numero dei reati commessi, ma è legato principalmente all’ampliamento delle fattispecie penali e l’inasprimento delle leggi. Le persone detenute oggi nelle carceri italiane sono principalmente accusate di reati contro il patrimonio (34.126 persone), reati contro la persona (26.211 persone) e reati legati alle droghe (20.566 persone). Il 32% dei detenuti sono stranieri. C’è un enorme tema di sovraffollamento e di mancanza di progetti di formazione e reinserimento sociale. Solo il 33,3% dei detenuti è coinvolto in attività lavorative. Il numero di suicidi in carcere nelle carceri Italiane è e rimane elevato: circa 18 volte superiore al tasso di suicidi extramurari. Nel 2023, si è registrato un numero preoccupante di suicidi, spesso da parte di detenuti giovani. Nel 2024 si è raggiunto il numero record di 88 suicidi. Si raccomanda, tra l’altro, di adottare un provvedimento di amnistia e indulto che potrebbe riguardare circa 16.000 persone attualmente tenute a scontare reati e residui pena fino a due anni e di ripensare radicalmente la disciplina del regime penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., circoscrivendone ambito e presupposti di applicazione. In materia di minori, il Decreto Caivano ha avuto l’effetto di condurre in carcere molti minori. Già il 30 aprile 2024, 7 su 17 istituti penitenziari minorili ospitavano minori per un numero superiore ai posti disponibili. Per quanto concerne i Rom e i Sinti, il sistema penale italiano ha contribuito in modo significativo alla marginalizzazione delle loro comunità, con una sovra-rappresentazione nelle carceri. Questo fenomeno è stato particolarmente evidente tra le donne e i minori rom, con una percentuale di detenuti rom molto superiore rispetto alla loro incidenza nella popolazione generale. Inoltre le condizioni di vita rimangono critiche, con famiglie che vivono in insediamenti informali e in condizioni precarie, lontane dai servizi essenziali. Si suggerisce di garantire che le comunità rom e sinte abbiano accesso a alloggi dignitosi e sicuri, con politiche che prevengano discriminazioni e supportino la ricerca di alloggi (sussidi, edilizia popolare), e di riconoscere giuridicamente lo status di minoranza delle comunità rom e sinte, con leggi contro la discriminazione e la creazione di organismi per monitorare i diritti e le violazioni. In tema di libertà d’espressione, l’Italia scende dal 41° al 46° posto nella classifica sulla libertà di stampa: il nostro è il Paese con il più alto numero di querele per intimidire i giornalisti. Si registrano 98 i casi di intimidazioni ai giornalisti nel 2023, 20 giornalisti sotto scorta nel 2024. Alla presentazione, con la volontà di portare il tema all’attenzione parlamentare, sono intervenuti anche la Tavola Valdese Alessandra Trotta - l’On. Nicola Fratoianni (AVS), On. Cecilia D’Elia (PD), On. Rachele Scarpa (PD), On. Riccardo Magi (+Europa), On. Gilda Sportiello (M5S). Medio Oriente. Tregua, non pace. Eppure questo germoglio va protetto a tutti i costi di Riccardo Redaelli Avvenire, 16 gennaio 2025 Una tregua firmata più per sfinimento che per convinzione, ma quanto mai necessaria per permettere la liberazione di alcuni ostaggi e per dare un minimo di respiro alla martoriata popolazione palestinese. Senza tuttavia che vi siano grandi speranze sul fatto che da questo accordo temporaneo si avvii un vero processo di pace in Terra Santa. Dopo sedici mesi di un conflitto che ha fatto di Gaza una immane e vergognosa catastrofe umanitaria, le pressioni perché tanto il governo di ultra-destra israeliano, quanto ciò che rimane della dirigenza di Hamas accettassero l’ennesima bozza di accordo per una tregua si erano fatte sempre più pressanti. Il presidente Biden voleva lasciare la Casa Bianca con un successo da esibire, dopo che la sua amministrazione si era inutilmente spesa per far fermare i terribili bombardamenti israeliani e per far tornare a casa gli ostaggi rapiti il 7 ottobre di due anni fa. Ma anche il subentrante Donald Trump, pur se schierato totalmente con Israele, voleva che si fermassero le armi e per un duplice motivo: da un lato, non vuole rimanere invischiato in un conflitto fin dall’inizio del suo mandato, dopo aver sbandierato che avrebbe risolto le guerre in corso “in 24 ore”. Dall’altro lato, non vuole neppure vedere la sua firma su un accordo con Hamas, osteggiato dalla destra estrema di Israele a cui lui sembra legatissimo. Di una tregua hanno bisogno anche i Paesi arabi moderati - e in particolare le monarchie arabe del Golfo - vicini a Israele ma con le proprie opinioni pubbliche sempre più indignate dai massacri indiscriminati di civili perpetrati dalle forze armate israeliane. Ma un accordo serve anche a Hamas e allo stesso Israele: il movimento islamista è stato sconfitto militarmente, privato dei suoi leader, disarticolato; insomma ha pagato un prezzo altissimo per il suo criminale attacco contro i civili israeliani del 7 ottobre 2023. E in fondo anche Israele non può pensare di condurre una guerra permanente contro Gaza e i palestinesi: i costi umani ed economici sono pesanti. Lo scorso anno il numero di emigrati da Israele è stato superiore agli ebrei immigrati, un segnale da non sottovalutare che indica il disagio di parte della popolazione per l’estremismo, velato da idee aggressive e razziste, del governo di Tel Aviv. Ecco, quindi, che la tregua tanto a lungo annunciata e sempre rinviata sembra prendere forma. Ma le speranze che da qui nasca una pace vera, che rimuova le radici profonde del conflitto fra i due popoli, sono molto limitate. Il governo di Netanyahu non solo è diviso già sull’offrire una tregua temporanea, ma ha come suo obiettivo l’occupazione progressiva di ulteriori porzioni della Cisgiordania, con una politica di sostegno alla creazione di nuove colonie israeliane nei Territori Occupati, in flagrante violazione delle risoluzioni Onu. Soprattutto, esso si culla ancora nell’idea irrealistica di “distruggere” per sempre Hamas, nonostante sia evidente che la strage di civili palestinesi di questi due anni non farà altro che dare nuova linfa alle ideologie più estreme: Hamas non si distrugge per via militare, ma la si sconfigge solo con una politica coraggiosa di dialogo con i palestinesi. Da parte sua, l’Autorità Nazionale Palestinese sembra oggi ridotta a un vuoto simulacro di pura gestione del potere (per di più inefficiente e corrotta): il presidente Mahmoud Abbas, ormai novantenne, non ha saputo costruire una nuova classe dirigente. L’unico personaggio palestinese che avrebbe forse la capacità di ricomporre le fratture e le ostilità che caratterizzano i movimenti politici palestinesi, ossia Marwan Barghouti, è rinchiuso a vita in una prigione israeliana, e non vi sembra essere alcuno spiraglio di rilascio per lui. Eppure, ogni goccia d’acqua in un deserto è sempre benedetta e certo questo fragile germoglio fra le rovine di Gaza deve essere tutelato e protetto da parte di tutta la comunità internazionale. Nelle prossime settimane ogni attore locale, regionale e internazionale dovrà dare il proprio contributo affinché, muovendo da una tregua temporanea, si giunga a fermare definitivamente le armi e si inizi un cammino serio di ricostruzione e di dialogo. Senza troppe illusioni, ma senza rinunciare a dare una speranza a questa terra tanto martoriata quanto amata. Medio Oriente. Il testo dell’accordo è lo stesso naufragato 8 mesi fa. Cosa è cambiato? di Nello Scavo Avvenire, 16 gennaio 2025 Lo scenario internazionale, i sabotaggi interni, i retroscena: ecco come e perché si è arrivati finalmente a una tregua. Tolti alcuni dettagli, l’accordo tra Israele e Hamas non sembra molto diverso dalla “quasi intesa” di otto mesi fa, quando i miliziani sostenevano di avere accettato la proposta americana accusando Tel Aviv di aver prima tergiversato e poi voltato le spalle ai mediatori. La leadership israeliana aveva risposto muovendo ad Hamas le stesse accuse: “I terroristi non mantengono la parola e pongono sempre nuove e non concordate condizioni”. Oltre a domandarsi chi avesse sabotato gli accordi, occorre chiedersi cosa è cambiato in questi lunghi mesi di guerra? Gli ostaggi sono rimasti nelle mani dei terroristi, ed è probabile che un certo numero di loro nel frattempo sia stato deliberatamente ucciso, mentre altri hanno perso la vita a causa delle dure condizioni della prigionia e dei martellanti bombardamenti che già avevano decimato l’originario numero di civili e militari tenuti in catene da Hamas e dalle altre fazioni combattenti nella Striscia. Il numero di morti a Gaza non ha conosciuto alcuna tregua. Secondo le autorità di Hamas, che ancora controllano quel che rimane delle istituzioni palestinesi nella Striscia, si è oramai vicini ai 50mila morti, in buona parte civili disarmati, e tra essi migliaia di donne e bambini. Molti di più sono i mutilati mentre quasi nessuno a Gaza è rimasto a casa propria per tutto il tempo del conflitto, trasformando la lingua di terra palestinese tra Israele ed Egitto in un immenso campo profughi senza vere aree sicure dove trovare riparo alla larga dal fuoco incrociato. Organizzazioni umanitarie e centri studi per analisi forensi, basandosi su immagini satellitari e informazioni sul terreno, preconizzano una mattanza superiore ai pur contestati (da Israele) numeri forniti da Hamas. Sui media transitano le voci degli immancabili dietrologi che si domandano se per caso non vi fosse da tempo un accordo sotterraneo tra Netanyahu e Trump perché Israele potesse continuare a combattere senza troppi bastoni tra le ruote. Del perché ci siano voluti altri 250 giorni per concludere un negoziato, circolano varie ipotesi. A cominciare dall’imminente arrivo di Trump alla Casa Bianca. Nel frattempo si era aperta la crisi militare con il Libano, ci sono stati almeno due scontri militari a distanza con l’Iran, le operazioni dell’intelligence israeliana contro Hezbollah, Hamas e Iran, infine la caduta di Assad in Siria. C’è però una voce non smentita, giunta dall’interno del governo israeliano, che rivendica di aver a lungo sabotato l’intesa. È quella del ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, esponente dell’estrema destra israeliana. “Nell’ultimo anno, attraverso il nostro potere politico, siamo riusciti a impedire, ripetutamente, che questo accordo venisse portato a termine”. Ben Gvir, che neanche stavolta ha approvato l’intesa, è rimasto al governo per tutto questo tempo. Chi è stato allontanato è Yoav Gallant, fino a pochi mesi fa ministro della difesa e coindagato con Netanyahu nell’inchiesta sui presunti crimini israeliani (separata ma parallela all’indagine sui crimini di Hamas) condotta dalla Corte penale internazionale. Dopo essere stato cacciato, Gallant aveva dichiarato che Israele già in luglio aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi a Gaza, rimproverando l’ostinazione di Netanyahu. Mesi di detenzione per gli ostaggi e di stragi per i palestinesi di Gaza che si sarebbero potuti evitare. Non è un caso che in queste ore all’Aja guardino anche a quello che succede in Italia. Dove il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar, che tra gli altri ha incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sarebbe venuto a chiedere un salvacondotto per Netanyahu, ricercato in campo internazionale, nel caso in cui si recasse nella città che ha dato il nome all’atto costitutivo del tribunale internazionale: lo “Statuto di Roma”. Svizzera. Tragedia nel carcere di San Gallo: detenuto italiano di 50 anni trovato morto moneymag.ch, 16 gennaio 2025 Le indagini indagano le cause del decesso e sollevano preoccupazioni sulla sicurezza e il benessere dei detenuti. Un recente episodio all’interno del carcere di San Gallo ha scosso la comunità locale e ha portato alla luce questioni importanti legate alla sicurezza e al benessere dei detenuti. Un uomo di 50 anni, di nazionalità italiana, è stato trovato senza vita da un dipendente della struttura penitenziaria, poco prima delle 7 del mattino. La Polizia Cantonale di San Gallo ha comunicato l’accaduto, sollevando preoccupazioni e domande sulla gestione interna degli istituti penitenziari e sulle condizioni di vita dei detenuti. L’uomo, un cittadino italiano di 50 anni, era detenuto nel carcere di San Gallo dal 2023. Era stato arrestato per una serie di reati che, sebbene non specificati nel comunicato ufficiale, indicano una carriera giudiziaria complessa. Solo in questi ultimi anni, il sistema penitenziario svizzero ha affrontato le problematiche legate alla gestione dei detenuti e alla loro salute mentale. Questo episodio riaccende il dibattito sull’efficacia delle misure preventive all’interno degli istituti penitenziari. Indagini in corso e reazioni - Dopo la scoperta del corpo, le autorità hanno avviato un’indagine approfondita per determinare le cause del decesso. Si sta cercando di capire se si tratti di un suicidio o se vi siano stati fattori esterni coinvolti. La Polizia Cantonale ha rassicurato la comunità che ogni aspetto dell’accaduto sarà analizzato con la massima serietà. Le indagini riguardano non solo le condizioni in cui viveva l’uomo, ma anche il monitoraggio della salute mentale degli altri detenuti e le misure di sicurezza adottate dalla struttura. Un appellativo di sicurezza - Questo tragico evento ha riacceso il dibattito sulla sicurezza nelle carceri, non solo in Svizzera, ma a livello globale. Molti esperti del settore penitenziario mettono in guardia riguardo alla necessità di migliorare l’assistenza psicologica per i detenuti, in particolare per coloro che hanno storie di reati complessi. La comunità di San Gallo e le autorità locali sono unite in un appello affinché vengano implementate riforme per garantire un ambiente sicuro e dignitoso per tutti i detenuti. A fronte di questo episodio drammatico, le speranze sono riposte in un futuro di maggiore attenzione e cura nei confronti di una popolazione spesso dimenticata. Venezuela. Il cooperante italiano Alberto Trentini inghiottito dalle carceri di Maduro di Antonella Napoli L’Espresso, 16 gennaio 2025 Era arrivato in Venezuela con una ong francese. Arrestato il 15 novembre, di lui si è persa ogni traccia. “Dal 15 novembre, mentre si recava in missione da Caracas a Guasdalito ed è stato fermato ad un posto di blocco insieme all’autista della ong Humanity e Inclusion, a parte scarse e informali informazioni nessuna notizia ufficiale ci è mai stata comunicata dalle autorità del Venezuela, né italiane. Di fatto, da quasi due mesi nulla sappiamo sulle sorti di Alberto. Siamo molto preoccupati, soprattutto tenendo conto che soffre di problemi di salute e non ha con sé le medicine né alcun genere di prima necessità”. Con questo appello, affidato all’associazione Articolo 21, la famiglia di Alberto Trentini, un cooperante italiano che operava nel Paese sudamericano dall’ottobre 2024, ha rotto il silenzio sul suo arresto. Trentini, originario di Venezia Lido, è scomparso nel nulla, suscitando una crescente preoccupazione tra i suoi familiari, amici e colleghi. Impegnato nel sociale e stimato per il suo lavoro in favore delle persone con disabilità, il nostro connazionale era arrivato in Venezuela il 17 ottobre dove lavorava per un’organizzazione non governativa francese. Secondo le poche notizie filtrate finora dal Paese, il fermo è avvenuto a un checkpoint, dove era stato bloccato mentre si recava a Guasdalito, città situata nello Stato di Apure a ottocento chilometri dalla capitale venezuelana Caracas. Da quel momento, non sono state fornite informazioni ufficiali sulle accuse che hanno portato alla sua detenzione, contrariamente alle normali pratiche che richiederebbero la formulazione di un’imputazione formale. Secondo indiscrezioni fornite da oppositori del regime di Maduro, si tratterebbe di accuse per “attentato alla sicurezza del Paese”. Sul suo cellulare la polizia militare avrebbe trovato prove dell’appoggio all’opposizione che contesta il rieletto presidente Maduro. Dopo l’arresto Trentini è stato trasferito a Caracas, dove è attualmente “prigioniero” in una struttura di detenzione per dissidenti. L’assenza assoluta di notizie e di comunicazioni, persino da parte dell’ambasciata italiana, ha reso la situazione ancora più inquietante. Solo nelle ultime ore il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha fatto sapere via social che ha fatto convocare per oggi (ndr 15 gennaio) l’incaricato d’affari del Venezuela per protestare con forza per la mancanza di informazioni sulla detenzione di Trentini e “per contestare l’espulsione di tre nostri diplomatici da Caracas. L’Italia continuerà a chiedere al Venezuela di rispettare leggi internazionali e volontà democratica del suo popolo” la sua rassicurazione. I familiari di Trentini e l’avvocato Alessandra Ballerini, che lo assiste legalmente, attraverso l’appello al governo italiano chiedono che si compia ogni sforzo diplomatico necessario per garantire il rientro in sicurezza del loro congiunto. “Dal suo arresto, e cioè dal 15 novembre ad oggi, a quanto sappiamo nessuno è riuscito a vederlo, né a parlargli. Neppure il nostro ambasciatore è riuscito a comunicare con lui né ad avere sue notizie nonostante plurimi tentativi” sostiene la famiglia Trentini, chiaramente molto angosciata per questa drammatica vicenda, sottolineando che “fin dal primo giorno, è stato chiesto di poter comunicare con Alberto, di essere rassicurata sul suo stato di salute, sulla tutela dei suoi diritti fondamentali e che possa fare rientro in Italia il prima possibile”. Ma, ad oggi, nulla di tutto ciò è accaduto e nessuna notizia circa il destino di Alberto è stata riferita ai suoi genitori e al loro avvocato. “Questa assenza di informazioni non fa che accrescere le nostre preoccupazioni. È inaccettabile che cittadini italiani che si trovano a lavorare o visitare altri Paesi con l’unica finalità di contribuire a migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti, si trovino privati delle libertà e dei diritti fondamentali senza poter ricevere nessuna tutela effettiva dal proprio Paese. Confidiamo che la presidente del Consiglio e i ministri interessati, si adoperino con lo stesso impegno e dedizione recentemente dimostrati a tutela di una nostra connazionale, per riportare presto, incolume, Alberto in Italia” lo sfogo finale dei familiari del cooperante”. Anche in Parlamento si sono attivati per Trentini. Alcuni deputati del Partito democratico, tra cui Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo, hanno sollevato la questione con un’interrogazione al ministro degli Esteri Tajani evidenziando “l’urgenza della situazione” e chiedendo che il governo prenda immediate misure per “attivare” il dialogo con le autorità venezuelane e garantire che siano rispettati i diritti fondamentali di “un cittadino italiano che stava svolgendo un’importante missione umanitaria” come si legge nell’atto depositato a Montecitorio. La famiglia di Trentini è particolarmente preoccupata per le condizioni fisiche di Alberto. Il cooperante soffre di problemi di salute e non ha accesso alle sue medicine, fatto che aumenta il timore per il suo benessere. Nel contesto venezuelano, dove molte persone rischiano la loro libertà e la sicurezza per aiutare la popolazione in difficoltà, la storia di Alberto Trentini è una conferma di quanto sia fragile la tutela per i cittadini stranieri nell’instabile Paese sudamericano. A fronte di ciò, appare fondamentale il supporto delle istituzioni nazionali per garantire la loro salvaguardia. È inaccettabile che un operatore umanitario, il cui unico scopo era quello di migliorare le condizioni di vita di persone vulnerabili, si trovi privato dei diritti più essenziali senza alcuna risposta da parte dei governi coinvolti. La comunità italiana e le organizzazioni per i diritti umani seguono con attenzione questa vicenda, auspicando che il governo italiano agisca con urgenza e determinazione. La situazione è resa complicata dalla tensione tra i due Paesi. Venerdì scorso, nel giorno del controverso insediamento del presidente venezuelano, accusato di aver rubato con i brogli la vittoria alle elezioni di luglio e di soffocare con la violenza le proteste (finora 28 morti 200 feriti e 2.400 arresti), la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che “non riconosciamo la proclamata vittoria elettorale e Intendiamo continuare a lavorare per una transizione democratica e pacifica”. A queste parole, il giorno dopo, è seguita l’espulsione di tre diplomatici italiani. E il silenzio su Trentini continua. Venezuela. La cooperazione italiana si mobilita a sostegno di Alberto Trentini Corriere della Sera, 16 gennaio 2025 Si trovava in missione con l’ong Humanity and Inclusion per portare aiuti umanitari alle persone con disabilità. Da quasi due mesi non si hanno più notizie ufficiali sulla sua sorte. C’è grande preoccupazione nelle reti di organizzazioni della società civile AOI, CINI e Link2007 per la sorte del cooperante italiano Alberto Trentini, fermato dalle autorità del Venezuela lo scorso 15 novembre mentre si trovava in missione con l’ONG Humanity and Inclusion per portare aiuti umanitari alle persone con disabilità. Da allora, da quasi due mesi, non si hanno più notizie ufficiali sulla sua sorte. Come riportato dalla famiglia di Alberto, “dal suo arresto e cioè dal 15 novembre ad oggi, a quanto sappiamo, nessuno - scrivono le ong - è riuscito a vederlo, né a parlargli. Neppure il nostro Ambasciatore è riuscito a comunicare con lui né ad avere sue notizie nonostante plurimi tentativi”. La famiglia Trentini ha chiaramente espresso la propria angoscia, chiedendo di poter comunicare con Alberto, di essere rassicurata sul suo stato di salute e di garantire la tutela dei suoi diritti fondamentali. Purtroppo, fino ad oggi, nessuna delle richieste è stata esaudita. Intensificare gli sforzi diplomatici - “Questa assenza di informazioni non fa che accrescere le nostre preoccupazioni”, affermano le organizzazioni, sottolineando anche che Alberto soffre di problemi di salute e non ha con sé le necessarie medicine e beni di prima necessità. AOI, CINI e Link2007 si uniscono alla richiesta della famiglia Trentini di fare appello al Governo italiano affinché intensifichi gli sforzi diplomatici per riportare Alberto in Italia e garantirne l’incolumità. Le organizzazioni ribadiscono che è “inaccettabile che cittadini italiani, impegnati a lavorare all’estero per migliorare le condizioni di vita delle persone, si trovino privati dei loro diritti fondamentali senza poter ricevere alcuna tutela effettiva dal nostro Paese”. E confidano che “le istituzioni italiane, in particolare la Presidente del Consiglio e i Ministri competenti, agiscano con la massima urgenza e determinazione per porre fine a questa situazione, attivando un dialogo diretto con le controparti venezuelane, per garantire la rapida liberazione di Alberto Trentini”.