Nelle nostre carceri ci sono 62mila detenuti: il sovraffollamento è al 132% di Marco Birolini Avvenire, 15 gennaio 2025 Il report del Garante nazionale segnala un quadro in continuo peggioramento per altissima densità di presenze nella quasi totalità degli istituti penitenziari italiani. Sei suicidi in 12 giorni, più altri due ancora da confermare. Il 2025 si apre malissimo nelle carceri italiane, proseguendo la striscia nera dell’anno scorso, con ben 90 detenuti che si erano tolti la vita. Un triste record mai toccato in precedenza e che rischia di ripetersi, se non addirittura di peggiorare, vista la drammatica fotografia scattata dal report presentato ieri dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “Si tratta di un dato elevato rispetto allo stesso periodo di gennaio 2024, 2023 e 2022 in cui si registrò un numero inferiore di suicidi”, rileva infatti il Garante. Tra i 6 suicidi accertati è compreso anche quello avvenuto nel penitenziario di Modena il 31 dicembre scorso, registrato dal Dap il primo gennaio. Ma la sostanza cambia poco. L’emergenza è ormai quotidiana e i suicidi sono la tragica punta dell’iceberg di un disagio profondo e diffuso, che tocca in modo trasversale tutti i detenuti, a prescindere da origini, reati commessi e percorso giudiziario. Lo dimostrano i dati più recenti: dei 6 detenuti morti a gennaio, tutti erano di sesso maschile, 2 erano italiani e 4 stranieri, provenienti da 4 diversi Paesi, 3 di età compresa tra i 26 e i 39 anni e altrettante tra i 40 e i 55 anni. Per quanto riguarda la loro posizione giuridica, 2 erano stati condannati in via definitiva, mentre 3 erano in attesa di primo giudizio. Uno, invece, era in attesa del processo d’appello. Avevano insomma poco in comune, se non la disperazione che assale dietro le sbarre. Colpa anche di un sovraffollamento che ormai ha ampiamente superato i livelli di guardia: sono 61.852 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 46.839 posti disponibili, con un divario di 4.473 posti rispetto alla capienza regolamentare di 51.312, legato all’attuale inagibilità di tante celle e, in alcuni casi, di intere sezioni detentive. A livello nazionale, l’indice di sovraffollamento è arrivato al 132,05%. Il “massimo primato”, sottolinea il Garante, spetta ancora a Milano San Vittore, dove l’indice di sovraffollamento tocca addirittura il 218,3%. Sono 148 (pari al 77,90%) gli istituti penitenziari con un indice di affollamento superiore al consentito, mentre in 59 (31,05%) risulta pari e superiore al 150%. L’altissima densità di detenuti trasforma i penitenziari italiani in polveriere, dove praticamente ogni giorno si registrano episodi di violenza e tensione. L’ultimo, lunedì a Terni. “Dopo una rissa tra detenuti del reparto comuni e quelli del circuito Alta Sicurezza protetti, uno di questi ultimi, di origini campane, già autore in passato di numerose aggressioni e sopraffazioni con modalità violente nei confronti di altri detenuti, ha sequestrato un assistente capo di polizia penitenziaria che era intervenuto per dare supporto al personale di sezione, minacciandolo al collo con una lunga lama di una forbice venendo aiutato da altri 3 detenuti dello stesso circuito”. A darne notizia è stato il segretario umbro del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Fabrizio Bonino. L’agente è stato liberato grazie al pronto intervento dei colleghi, che hanno anche disarmato e immobilizzato l’aggressore. Il Sappe parla di “clima da far west” e lancia per l’ennesima volta l’allarme sulle condizioni della casa circondariale umbra, purtroppo molto simili a quelle di tanti altri istituti correttivi italiani. “I dati del garante confermano il continuo aumento dei reclusi e della sovrappopolazione carceraria, che arriva a San Vittore a registrare più di due persone per ogni posto disponibile. A ciò si aggiungono i suicidi in continuo aumento. Di fronte a questi dati e ai richiami del Presidente della Repubblica il governo non fa nulla” sottolinea Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo Pd al Senato. Ieri il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha annunciato che il 24 gennaio sarà inaugurato un nuovo reparto nel carcere di Padova. Ma rischia di essere una goccia nel mare. Rems, la reazione è in agguato di Franco Corleone Il Manifesto, 15 gennaio 2025 Ho denunciato da tempo il rischio che la nostalgia del manicomio si materializzasse in proposte concrete e non mi ha sorpreso la lettera inviata dal capo di gabinetto del ministero della salute ai presidenti delle Regioni il 23 dicembre scorso, sulla tutela della salute mentale e sul destino delle “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems). Davvero un regalo avvelenato sotto l’albero di Natale. Infatti, il dottor Marco Mattei affronta con spericolata leggerezza nodi delicati come il giudizio sulla sentenza numero 22 del gennaio 2022 della Corte Costituzionale e sulle indicazioni da questa offerte al parlamento per superare alcune criticità della legge 81 del 2014. Soprattutto, nella lettera è assunto come assodato un numero alto e insostenibile di persone in lista d’attesa per l’ingresso in Rems, ma non vengono forniti dati puntuali sulle presenze attuali nelle singole strutture (in alcune Rems vi sono posti vuoti) e sulla situazione nelle diverse regioni; non viene detto se queste persone sono abbandonate a se stesse o sono accolte in altre strutture assistenziali o terapeutiche (poiché in tal caso è superata la necessità di internamento in Rems). Erroneamente è citato un ricorso inappropriato alla detenzione in carcere, quando invece il problema nasce per il cambiamento della condizione di un soggetto che per decisione del magistrato si trasforma da detenuto a internato e si pone quindi il problema della individuazione di un posto in Rems: le quali, per funzionare correttamente, devono rispondere ad alcuni requisiti, come la territorialità e il numero chiuso. Nessun accenno alla bulimia delle perizie per stabilire la incapacità totale o parziale a intendere e volere degli imputati, che i magistrati sollecitano e fanno proprie (tranne nei casi mediatici in cui l’eventuale giudizio di vizio di mente provocherebbe la sollevazione dell’opinione pubblica, vedi il recente processo Turetta). Addirittura, viene censurata la misura di sicurezza non detentiva, della libertà vigilata, disposta dal magistrato di sorveglianza che in molti casi è opportuna e meno invasiva. Un vero pasticcio concettuale. Per non parlare della strumentalizzazione del contenzioso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. La minacciosa conclusione annuncia la predisposizione di una riforma del sistema, più per stravolgerlo che per risolvere criticità che inevitabilmente esistono quando si compie una rivoluzione come la chiusura degli Opg, la più complessa delle istituzioni totali. La pretesa soluzione consisterebbe nel costituire quattro diverse strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza; l’unica chiara ed esplicita è la creazione di una Rems di primo livello caratterizzata dalla “massima intensità di cura e dalla alta sicurezza” (sic!): insomma un piccolo manicomio. Le Regioni daranno una risposta adeguata a questa provocazione? Appare sempre più evidente l’opportunità di una soluzione radicale, superando il doppio binario del Codice Rocco con l’eliminazione del proscioglimento “per incapacità di intendere e volere al momento del fatto criminoso”. Sul tappeto vi è la proposta elaborata dalla “società della Ragione” con il sostegno di tanti psichiatri, giuristi e esponenti del movimento dei diritti, depositata alla camera dei deputati da Riccardo Magi con il numero 1119. Di questo tema si è discusso nella Conferenza nazionale autogestita sulla salute mentale che si è svolta a Roma il 6 e 7 dicembre con la partecipazione di centinaia di operatori. In quella sede è stata contestata anche la proposta di legge (numero 1179) di Fratelli d’Italia, partito a cui fa riferimento il ministro della salute, che stravolge requisiti e durata del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), prevede di effettuare il Tso in ambito detentivo, e crea piccoli manicomi nelle prigioni. C’è del metodo in questa follia, occorre una risposta adeguata. Che pm antimafia sei, se non hai sbattuto centinaia di persone al 41bis? di Angela Stella L’Unità, 15 gennaio 2025 Carcere duro, isolamento, ergastoli: sono le medaglie da esibire nel curriculum per una toga che punta a entrare nella Dna. Durante l’esame delle candidature da parte del Csm, l’ex leader dell’Anm Albamonte è stato accusato di non averne conquistate abbastanza. Se si vuole andare a lavorare alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo occorre scrivere un corposo curriculum in cui elencare quanti più arresti si è conquistati, quante più persone si è spedite al 41 bis, quante più ergastoli ottenuti. Altrimenti sarà molto difficile ottenere quella poltrona. E poi devi avere alle spalle anni in antimafia: in caso contrario il corpo di élite delle Dda ti guarderà dall’alto in basso. Ma facciamo un passo indietro. Durante un dibattito organizzato dalla Camera Penale di Grosseto sulla separazione delle carriere tra il Presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli, e l’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, quest’ultimo, per criticare la previsione contenuta nel ddl Nordio di due Csm distinti - uno per i giudicanti, l’altro per i requirenti - ha detto: “Io stesso recentemente sono stato valutato dal Csm per una procedura che mi riguardava e, rispetto ad altri candidati che concorrevano per quel posto, alcuni erano fortemente attratti dalla necessità di valutare il fatto che avessero fatto procedimenti verso centinaia di persone e ottenuto altrettante centinaia di condanne come se il numero di indagati e condannati fosse un termine di valore” che “però tradisce una delle componenti culturali presenti anche nella magistratura requirente che in quel momento parlava in quell’aula del Csm. Cosa accadrà in futuro quando i pm parleranno tra di loro in un unico Csm, avranno la loro scuola di formazione che non sarà comune all’avvocatura, come a me piacerebbe, ma neanche a quella dei giudici?”. Il riferimento di Albamonte è alla procedura per la selezione da poco effettuata di sette nuovi sostituti procuratori alla Dnaa, presieduta da Giovanni Melillo. Albamonte andrà a via Giulia, seppur tra alcune polemiche, per le nuove competenze richieste nell’antiterrorismo e nel contrasto al cybercrime ma, durante la discussione in plenum, il consigliere togato di Unicost Marco Bisogni, pm con esperienza in Dda, per contrastare la sua candidatura e caldeggiare invece quella del collega antimafia Giovanni Musarò (anche lui uscito vincente), ha sottolineato che Albamonte non è riuscito a mandare in carcere abbastanza gente, quindi non avrebbe meritato quel posto, e invece l’altro sì: “se vado a vedere le imputazioni e i risultati processuali del collega Musarò - ha detto Bisogni - c’è qualcosa che non mi torna. Processo Crimine: 161 imputati, 121 condanne in abbreviato, 36 in dibattimento. Processo Cosa mia: rinvio a giudizio per 73 imputati, 24 condanne in abbreviato, 47 in ordinario” e con enfasi (risentire su Radio radicale) “cinque ergastoli”. E infine “21 collaboratori e 32 detenuti in 41 bis”. Effettivamente tra i risultati positivi per la selezione c’era quello di far riuscire ad applicare e confermare il 41 bis, vedersi accogliere le richieste di misure cautelari, gestire quanti più pentiti possibili, ottenere ergastoli, meglio se con isolamento diurno. Se si vanno a leggere le autovalutazioni dei candidati è un profluvio di quanto sopra elencato. Chissà se quando le hanno scritte provavano una sorta di vanto. Comunque i criteri sono anche questi: nulla quaestio. Musarò e gli altri hanno vinto con merito. Tuttavia la domanda è: non dovremmo preoccuparci se esiste un corpo della magistratura che come fine lavorativo persegue sempre più la figura di un pubblico ministero di scopo anziché di un pubblico ministero di garanzia? Carceri. È ora di premere play di Claudio Bottan vocididentro.it, 15 gennaio 2025 Da anni ormai, la gestione della nostra vita è ben localizzata. È tutto nelle nostre mani. Basta tirare fuori lo smartphone e le soluzioni sono a portata di click. Identità, gestione delle proprie finanze, comunicazioni. Tutto quello per cui prima dovevamo investire tempo ed energie, oggi lo possiamo fare tranquillamente dal divano di casa, ai tavolini di un bar o alla banchina di una metropolitana. Un centro di controllo tascabile che ha - impossibile sostenere il contrario - rivoluzionato le nostre vite, semplificandole. Col tempo anche i più nostalgici si sono dovuti ricredere, e dare al digital quello che è del digital: la forza del progresso, quello che volenti o nolenti, tutti abbiamo dovuto abbracciare, a costo di accettare l’idea poco filosofica di condurre un’esistenza alle dipendenze di aggeggi senz’anima, sacrificando parte di quel serbatoio umano che resta materiale prezioso ma funzionale solo in forma ridotta. Eppure c’è un luogo, quel solito, occulto luogo, dove l’upgrade non è mai arrivato, uno spaccato arcaico ai margini della società. Sì, il carcere. Un luogo dove il tempo pare essersi fermato, dove ancora oggi, nel 2025, i residenti devono compilare le loro legittime richieste scrivendo su fogli bianchi che prendono il nome di “domandine”, che passano di mano in mano prima di raggiungere la scrivania di chi dovrà dare le “rispostine”. Un luogo dove la corrispondenza tra familiari e detenuti, salvo rare eccezioni, è ancora e unicamente epistolare, dove i cancelli si aprono solo con le chiavi - e di cancelli, in carcere, ce n’è uno ogni 10 metri - e i sistemi di sorveglianza sono rimasti fermi ai primi messi sul mercato. Insomma, un luogo dove il tempo ha schiacciato pausa da qualche decennio, senza più ripremere play. E nessuno sembra voler fare un passo avanti, neanche per sbaglio. Chi entra in carcere costantemente, come i volontari di Voci di dentro, ha l’impressione di essere catapultato in un mondo che fuori non esiste più. Dove la tecnologia si limita a televisioni e radio, come avveniva nelle nostre case oltre trent’anni fa. Dove tutto si muove attraverso carta e penna. Un mondo in cui l’ufficio matricola trasmette documenti via fax, ormai un oggetto di modernariato che molti studi legali sono costretti a mantenere attivo per comunicare con l’amministrazione penitenziaria. Un mondo di carta che viaggia sulle gambe del “camminatore”, così è definito l’agente incaricato di fare il giro delle sezioni per vuotare la cassetta della posta nella quale il giorno precedente sono state imbucate lettere e domandine. In ogni ufficio tutto è archiviato in voluminosi registri ottocenteschi sui quali l’amanuense annota ogni istanza. E cumuli di carta da smistare, con le famigerate domandine che spesso si perdono lungo il tragitto causando l’inevitabile innalzamento della tensione nell’equilibrio precario in cui sono costrette a vivere le persone recluse, fatto di attese infinite e di tempi che non si compiono mai. Carcere e tecnologia sembrano un ossimoro. Qualche spiraglio di innovazione pareva aprirsi quando, con la circolare del 2 novembre 2015 “Possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dettava le linee guida sull’utilizzo dei personal computer e della connessione internet per motivi di studio, formazione e aggiornamento professionale negli istituti penitenziari da parte dei detenuti, che avrebbero potuto navigare su siti di una white list. Una conquista non da poco, considerato il contesto di cui sopra. Ma soprattutto, la silenziosa testimonianza di un’apertura delle istituzioni verso la tecnologia applicata al carcere, nel tentativo di accorciare la distanza dagli istituti di pena più moderni e all’avanguardia che, manco a dirlo, si trovano fuori dai nostri confini. Avrebbe potuto essere lo spartiacque per portare l’innovazione nel sistema più conservatore, una scelta che avrebbe favorito il diritto allo studio e all’affettività. A un decennio di distanza, come al solito, sono rimasti solo buoni propositi. Poi è arrivata la pandemia di Covid-19 che, con tutte le sue chiusure, aveva portato a un’apertura: quella del carcere alla tecnologia. All’indomani del primo lockdown nel marzo 2020 e delle proteste delle persone detenute in decine di istituti penitenziari, arrivarono centinaia di telefoni e tablet e si aprì la possibilità di fare videochiamate attraverso Skype o whatsapp, con un minutaggio molto più ampio dei dieci minuti a settimana previsti da norme e regolamenti, anche per far fronte alla chiusura dei colloqui visivi. Tuttavia quell’apertura, nonostante l’auspicio che fosse definitiva, è durata poco e alla fine della pandemia si sono fatti passi indietro. In moltissime carceri le telefonate sono tornate a dieci minuti a settimana e solo con i classici apparecchi telefonici. Le video chiamate resistono solo in sostituzione dei colloqui in presenza. Quando si affronta il tema della tecnologia in carcere, solitamente ci si imbatte in resistenze e chiusure relative a questioni legate alla sicurezza. Ma è proprio la positiva esperienza sull’uso di telefonini e tablet che dovrebbe aver contribuito a decostruire queste preoccupazioni. La questione dell’assenza di tecnologia in carcere è molto più seria di quanto si potrebbe pensare. Costantemente sentiamo parlare di digital divide e di quanto ciò rappresenti una criticità enorme in un mondo che sempre più spesso, e per alcune cose ormai quasi esclusivamente, passa attraverso tecnologie digitali. Di quanto un gap da questo punto di vista possa precludere la fruizione di servizi, l’accesso alle informazioni, le opportunità di lavoro, impattando direttamente non solo sulla sfera relazionale delle persone, ma anche sul godimento di alcuni diritti inalienabili. Il divario digitale può rappresentare una forma di disuguaglianza e un grave fattore di esclusione sociale, che colpisce in particolar modo ceti sociali che già vivono in situazioni marginali e svantaggiate. Per questo, da tempo, le istituzioni governative sono impegnate nel tentare di colmare questo gap. Ovunque, tranne in carcere, dove invece questo divario viene ulteriormente ampliato. Garantire l’accesso alle tecnologie e la navigazione in Internet nelle carceri, dovrebbe essere parte integrante del trattamento e non una questione secondaria o problematica. Da questi aspetti dipendono tanti dei nostri diritti di cittadini e tante delle nostre future possibilità lavorative. E quindi anche tanto del percorso di reinserimento sociale. La domanda che dovremmo porci è la seguente: come possiamo sperare che, persone detenute che vogliano impegnarsi a seguire un percorso di rieducazione e preparazione alla vita lavorativa, non siano spaventate al punto da avere paura della libertà, se non diamo loro gli strumenti per affrontarla? Fuori i cambiamenti sono continui, rapidi e radicali. Le nuove tecnologie stanno cambiando il modo di pensare, interagire e lavorare; perdere qualche puntata di questa evoluzione significa dover rincorrere il mondo per colmare la distanza, qualche volta incolmabile. Qualcuno tra gli ospiti delle patrie galere vi ha fatto ingresso quando per orientarsi durante un viaggio si consultavano le cartine di “Tutto città” e si telefonava a gettoni dalle cabine. Come dovrebbe trovarsi di fronte a strumenti ormai indispensabili quali l’identità digitale e i pagamenti con lo smartphone? Esiste pertanto un divario tra la realtà del mondo libero e ciò che la struttura carceraria può offrire, una condizione in cui si rischia di rimettere in libertà dei disadattati, impreparati ed incapaci di confrontarsi con la nuova realtà. Il detenuto prima o poi diventerà ex detenuto, una “qualifica” che non perderà mai e di certo non rappresenta un vantaggio. Per gareggiare ad armi pari nella difficile rincorsa al lavoro, deve avere una marcia in più, un plus, un valore aggiunto che gli consenta di annientare l’handicap; l’offerta trattamentale adottata dagli istituti di pena deve tenere conto di questa esigenza, altrimenti sforneranno “prodotti” invendibili perché fuori mercato. Evidentemente la prigione è un mondo che non ci appartiene, non siamo culturalmente evoluti e pronti per premere CTRL + ALT + CANC - un comando semplice per sbloccare la mente e riavviare funzioni dimenticate - ma quantomeno dovremmo fare un aggiornamento di un sistema che si è impallato e non gira più. È ora di premere play. Cambia il ddl Sicurezza, il centrodestra di spacca di Errico Novi Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Sì di Fratelli d’Italia e Forza Italia alle modifiche, auspicate anche dal Colle, la Lega insorge. Decreto ad hoc per lo scudo agli agenti. Sul ddl Sicurezza si procede a colpi di sedute notturne. Ieri si sono fatte le ore piccole. Stasera sarà lo stesso. E a dispetto del complicatissimo cortociruito politico innescato nella maggioranza, il motivo è semplice: bisogna fiaccare l’ostruzionismo delle opposizioni. Esame congiunto del provvedimento affidato alle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato. Uno sforzo inconsueto, ma necessario. Non solo per i 1.500 emendamenti opposti da Pd, M5S e Avs come i sacchi di sabbia in una battaglia primonovecentesca: Fratelli d’Italia, ma anche Forza Italia, sono pronte a modificare il testo. Ad accogliere almeno in parte i rilievi, e ad ascoltare certamente gli auspici arrivati persino dal presidente Sergio Mattarella. Ma la Lega non vuol saperne. Contrario anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il che basta a descrivere un quadro politicamente pesantissimo. In ballo ci sono alcune parti del provvedimento urticanti per lo Stato di diritto: il divieto per gli immigrati clandestini financo di intestarsi la sim di un cellulare, la stretta sulle madri detenute, la formulazione pericolosissima della norma sulla resistenza passiva, che rischia di trasformare in reati le pur minime e disperate proteste nelle carceri, come la “battitura” delle stoviglie. Tutti aspetti che suscitano la forte preoccupazione del Quirinale: nel messaggio di fine anno il Capo dello Stato aveva parlato di dignità anche per i reclusi. Proibire, viceversa, persino di lamentarsi per le celle pollaio configurerebbe piuttosto una forma di tortura, altro che rispetto della dignità. Ma se sul piano giuridico e costituzionale l’insostenibilità di alcune norme del ddl Sicurezza è visibile a occhio nudo, sul piano politico “può succedere veramente di tutto”, come commenta una fonte di maggioranza. Ed è vero: è difficile immaginare cosa potrà accadere nelle prossime ore. Al momento di chiudere questa edizione del giornale, la “congiunta” delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali è appena iniziata. Matteo Salvini e Matteo Piantedosi non vogliono sapere di ritocchi al testo: il ddl è una delle poche leggi bandiera che il Carroccio ancora spera di poter sventolare. Nessuna apertura ad attenuare la norma sulle madri detenute, per le quali il differimento della pena in caso di gravidanza, o quando i figli sono neonati, non sarebbe più un obbligo, per il giudice, ma un beneficio puramente discrezionale. La spaccatura è dietro l’angolo. Forza Italia, sul punto delle recluse con figli neonati, aveva tentato, durante la prima lettura della legge, l’ottobre scorso alla Camera, di mitigare fino all’ultimo il testo. Finì per arrendersi. Ora vuol riprovarci. Ma Maurizio Gasparri, capogruppo di FI al Senato, fa capire molto chiaramente che la strada per un restyling del ddl Sicurezza passa per una “disponibilità delle opposizioni a collaborare, e a smetterla una volta per tutte con l’ostruzionismo. Se si tratta solo di perdere tempo, allora le modifiche diventano impossibili”. In altre parole, si procede anche con un dialogo fra centrodestra e gruppi di minoranza solo se questi ultimi rinunciano ai 1500 emendamenti consegnati ad Alberto Balboni, il senatore di FdI che presiede la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama e conduce i lavori. È una condizione in effetti ineludibile, quella a cui pensa Gasparri, anche considerato che, almeno su alcuni degli aspetti controversi, la Lega potrebbe votare contro le modifiche. È chiaro come uno scenario simile rischia di portare a una frattura più profonda di quanto si potesse immaginare, nella maggioranza. “Il testo va approvato senza modifiche”, insiste il capo dell’altro gruppo parlamentare leghista, il deputato Riccardo Molinari. La pensa così ovviamente il suo omologo del Senato Massimiliano Romeo. Ma intanto da Palazzo Chigi, e in particolare dal sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, l’indicazione ai parlamentari meloniani arriva chiara e nitida: alcune modifiche sono necessarie. Si fanno due ipotesi, che andranno messe in pratica al più tardi nella serata di oggi, quando è prevista l’altra congiunta in notturna: emendare le parti controverse, con l’impegno di arrivare all’inevitabile terza lettura di Montecitorio con tempistiche velocissime, o addirittura stralciare gli articoli più delicati e trasferirli in un decreto legge, in modo che il resto del ddl Sicurezza non abbia bisogno di tornare alla Camera e possa essere licenziato di qui a pochi giorni dall’aula del Senato. L’ipotesi dello stralcio e del riassorbimento di alcune norme, rivedute e corrette, in un altro vettore legislativo è, da una parte, così indigesta per Salvini da apparire lunare. Sarebbe d’altra parte molto “pratica”, in virtù di un dettaglio non trascurabile: gli uffici di Carlo Nordio, ministro della Giustizia, sono già all’opera sul cosiddetto (impropriamente) scudo penale per le forze dell’ordine. Si tratta delle tutele processuali invocate dalla stressa premier Giorgia Meloni dopo il caso del maresciallo Luciano Masini, accusato di eccesso colposo di legittima difesa per aver ucciso a Rimini un egiziano che aveva appena accoltellato quattro persone. La soluzione tecnico-giuridica, molto complessa e ritenuta anzi ad alto rischio di incostituzionalità da diversi studiosi, consisterebbe nel prevedere che quando la condotta di un agente è manifestamente connessa all’esercizio delle funzioni, l’inchiesta sia aperta a carico di ignoti, in modo da non iscrivere nel registro degli indagati il carabiniere o il poliziotto, che in casi del genere rischiano la sospensione dal servizio. Fonti di governo ieri hanno esplicitamente confermato che il tentativo si farà, e hanno anche ribadito come non sia certo questa la materia che tiene in sospeso il ddl Sicurezza: lo “scudo” sarà oggetto, appunto, di un decreto a parte. Lì potrebbero finire, in teoria, pure gli stralci della legge cara a Salvini e a Piantedosi. Ma se andasse così, potrebbe aprirsi, nel governo, una crisi politica mai vista prima. Ddl sicurezza e scudo penale, le destre litigano di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 gennaio 2025 Proposte della Lega per gli agenti. Il pacchetto verso il ritorno alla Camera per accogliere solo i rilievi del Colle. Il Ddl Sicurezza potrebbe tornare alla Camera per una terza lettura “veloce” delle sole correzioni al testo suggerite dal Quirinale (schede telefoniche vietate ai migranti e detenute madri). È quanto trapela da fonti di Palazzo Chigi mentre si apprende che il governo sta lavorando, insieme ai tecnici del ministero di Giustizia, per capire come e dove inserire uno “scudo penale” speciale per le forze dell’ordine, iniziativa che mette d’accordo tutti nella maggioranza litigiosa e che prende a pretesto i recenti fatti di cronaca. Nel frattempo la Lega ieri ha presentato alla Camera una proposta di legge che supera di fatto l’articolo 22 del ddl Sicurezza: al posto del rimborso delle spese legali per gli appartenenti alle forze dell’ordine sottoposti a procedimenti penali contenuto nel pacchetto sicurezza, la nuova pdl prevede direttamente il gratuito patrocinio, ossia un avvocato d’ufficio a spese dello Stato, per tutte le divise “ad ordinamento civile e militare oggetto di indagini e procedimenti per atti compiuti nell’esecuzione del proprio lavoro”, “a prescindere dal reddito posseduto”. D’altronde, Matteo Salvini prosegue ogni giorno la sua personale sfida al legittimo inquilino del Viminale. Il campo è sempre quello dell’ossequio alle forze dell’ordine, quasi un’icona della destra sovranista. Il provvedimento è a sé e non interrompe l’iter del ddl Sicurezza al Senato, dove ieri le commissioni Affari costituzionali e Giustizia riunite hanno ripreso l’esame degli emendamenti. Perché, come ha spiegato il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari presentando la nuova proposta di legge, “la nostra posizione è diversa da Fd’I: noi riteniamo che il ddl Sicurezza vada approvato senza modifiche”. La pdl è composta di un unico articolo di legge che mette insieme le forze dell’ordine con “le persone offese dai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” tra i destinatari del gratuito patrocinio. Intanto a Palazzo Chigi si discute e si cerca una strada per uno “scudo penale” da introdurre in un ddl ad hoc, con tanto di corsia preferenziale, oppure in un decreto legge. L’idea iniziale era di lasciare che a gestire i procedimenti a carico delle forze dell’ordine fosse solo la Procura generale presso le corti d’Appello, con la speranza di rendere più facile l’archiviazione dei fascicoli riguardanti agenti e carabinieri. E contemporaneamente - proposta già ventilata in passato sia dal ministro Nordio che dal sottosegretario leghista Ostellari - ampliare le maglie dell’articolo 51 del codice penale che ascrive l’adempimento del proprio dovere e l’obbedienza a un ordine tra le cause di esclusione della punibilità di un pubblico ufficiale, adeguandolo anche alle forze dell’ordine. Ma, come lasciano trapelare da Palazzo Chigi, si potrebbe anche intervenire sul codice di procedura penale, “immaginando forme di non immediata iscrizione nel registro degli indagati quando è evidente che l’appartenente alle forze dell’ordine ha usato l’arma di ordinanza nell’esercizio delle sue funzioni”, in modo da non intervenire “sul diritto sostanziale”. Difficile però trovare una soluzione che non cozzi contro la Costituzione. Tutti i partiti di opposizione protestano, mentre alcuni sindacati di polizia penitenziaria alzano la voce affinché lo scudo penale copra anche “l’uso legittimo della forza in carcere”. Secondo l’associazione Antigone, “ogni forma di protezione penale o di immunità di qualunque professione è ingiustificata. Così si dà un orribile messaggio di legittimazione di abusi attraverso una protezione legale. La stragrande maggioranza dei poliziotti non ha bisogno di scudi penali perché si comporta in maniera conforme alla legge. E ad oggi si sono già tutti gli strumenti legislativi nel codice penale e nel testo unico di polizia per fronteggiare gli eventuali reati commessi nelle piazze”. Lo scudo di Meloni per gli agenti e l’allerta del Colle. La Lega prova lo strappo di Simone Canettieri Il Foglio, 15 gennaio 2025 La premier vuole evitare l’iscrizione del registro degli indagati per atto dovuto, Salvini spinge per un decreto ma l’ipotesi più plausibile è quella del Disegno di legge ad hoc. I timori del Quirinale. Siccome il frontale con il Colle è dietro l’angolo, alle 18.57 Palazzo Chigi modifica la rotta sullo scudo penale per i poliziotti. Non lo chiama scudo. Ma per estratto - non esiste un testo e nemmeno una bozza - si ragiona su un meccanismo in base al quale in casi come quello del carabiniere Luciano Masini (che a Capodanno è intervenuto uccidendo un uomo che aveva accoltellato quattro persone) non ci sia l’iscrizione automatica nel registro degli indagati. La vicenda sta a cuore a Giorgia Meloni, che ha citato Masini in conferenza stampa. Sono al lavoro il sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ieri sera la vicenda è deflagrata all’interno della maggioranza perché non c’è intesa sul veicolo del provvedimento. E poi anche nel merito Forza Italia è abbastanza cauta. La Lega vorrebbe che passasse con un decreto legge senza agganciare sotto forma di emendamento il ddl Sicurezza, ancora in conversione e destinato alla terza lettura per raccogliere i “suggerimenti” del Quirinale. Il partito di Matto Salvini - ieri irreperibile, in un’altra giornata no per i trasporti italiani - non vorrebbe nemmeno la terza lettura del Ddl Sicurezza. Ma anche l’idea di un decreto del governo in assenza dei requisiti d’urgenza rischia di essere un azzardo per Palazzo Chigi nei confronti del Quirinale. Il Colle è dubbioso. Non ha visionato testi, ma chi frequenta i corridoi del capo dello stato Sergio Mattarella è molto cauto. In maniera accademica e senza scomodare costituzionalisti trapelano ragionamenti di buon senso, Carta alla mano, come il principio fondamentale di tutti gli ordinamenti che “la legge è uguale per tutti”. Il 2025 rischia dunque di aprirsi con il botto sull’asse Colle-Chigi? Al Quirinale confidano nelle capacità dei giuristi del governo. Insomma, l’esecutivo sembra avvisato. Al momento, salvo forzature, questa norma potrebbe essere contenuta in un ddl ad hoc, magari con una corsia privilegiata in Parlamento per evitare che finisca su un binario morto. Ma cosa contiene? Galeazzo Bignami capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera la spiega così: “Stiamo riflettendo sull’ipotesi di introdurre la possibilità di svolgere accertamenti preliminari, come esami balistici o perizie di vario tipo, senza necessariamente iscrivere nel registro degli indagati chi ha compiuto un uso legittimo delle armi, come previsto dall’articolo 53 del codice penale”. In Via Arenula il gabinetto di Nordio ragiona - è tutto embrionale - sul registro delle non notizie di reato “per evitare lo stigma dell’inchiesta”. Dal Quirinale davanti a questi scenari, che al momento non fanno testo, ricordano comunque che alcuni aspetti possono essere risolti per via amministrativa e che sono già contenuti nella legge Cartabia. Sarà un provvedimento complicato anche per le possibili ripercussioni. Anche perché si innesta nel clima di proteste e violenze a Roma e a Bologna, per la morte di Ramy a Milano. Le opposizioni, tutte, sono sulle barricate contro uno provvedimento che considerano “inaccettabile”. La parola “incostituzionale” rimbalza con forza. Il tutto si mischia con il Ddl Sicurezza che, sempre secondo il Colle, deve recepire alcune modifiche. Da qui la terza lettura. Segnali che riguarderebbero l’iniziale stretta sulle sim per i telefonini in possesso dei migranti, ad esempio. Oppure il passaggio che prevede la carcerazione delle donne incinte. Una norma pensata per fermare il fenomeno delle borseggiatrici che utilizzerebbero la gravidanza per evitare la detenzione. Un criterio che sarebbe ritenuto troppo onnicomprensivo. Stesso discorso vale anche per le pene previste per la resistenza passiva in carcere equiparate agli atti di violenta rivolta. Le stesse perplessità del Quirinale riguarderebbero anche l’elenco delle opere pubbliche di interesse nazionale per cui vale il divieto di manifestare: l’elenco può essere modificato solo dal Parlamento. Infine, la questione delle attenuanti cancellate a fronte delle aggravanti nei casi di violenza contro le forze di polizia. Anche su questo punto il Colle è contrario. Un lento braccio di ferro dunque è già iniziato. Anche perché Salvini vorrebbe spingere sull’acceleratore del Ddl Sicurezza senza un’altra lettura. Tuttavia in questa battaglia la Lega è sola contro Fratelli d’Italia e Forza Italia pronti ad aprire alle modifiche necessarie. Sullo sfondo c’è la vicenda dello “scudo” per gli agenti. Un argomento su cui Meloni non vuole cedere pronta a cavalcare la svolta securitaria come primo tema di politica interna di questo 2025. La “legislazione del nemico” non dà sicurezza: alimenta ostilità ed esclusione di Nicola Canestrini Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Negli ultimi anni, in molti ordinamenti democratici anche europei, si è assistito a un incremento dell’adozione di misure legislative che privilegiano un approccio securitario e populista, attribuendo un potere crescente alle forze dell’ordine e al contempo restringendo diritti e libertà fondamentali. In Italia, la legislatura attuale ha consolidato questa tendenza con l’introduzione di nuove fattispecie penali, l’inasprimento delle pene e la marginalizzazione di specifiche categorie sociali. Il concetto di “legislazione del nemico”, teorizzato da Gunther Jakobs, si basa sull’idea che alcuni individui, a causa della loro percepita pericolosità, perdano la loro qualifica di soggetti di diritto e vengano trattati esclusivamente come oggetti di prevenzione o repressione. Nel caso italiano, questa logica ha trovato un esempio paradigmatico nel cd. Decreto anti-rave (dl 162/ 2022). La norma, originariamente presentata per contrastare i rave party, definisce in termini ampi e vaghi le situazioni che configurano il reato, rendendo possibile la sua applicazione a manifestazioni politiche e sociali e criticata da giuristi e organizzazioni per i diritti umani per la sua potenziale incompatibilità con il diritto alla libertà di riunione (art. 17 Cost.). Il decreto non solo amplia il controllo dello Stato su eventi privati, ma legittima un approccio punitivo a scapito di soluzioni preventive e dialogiche e senza affrontare i problemi sottesi, che vengono semplicemente rimossi (recte: risolti tramite criminalizzazione). La preoccupante tendenza emerge in maniera ancora più evidente in alcune norme dell’ennesimo decreto cd. Sicurezza, che accentuano la criminalizzazione di determinate categorie sociali. Queste norme, più che garantire la sicurezza, alimentano un senso di esclusione e ostilità nei confronti di chi già vive ai margini della società. Un esempio? Le zone rosse, ultima iniziativa d’effetto per limitare l’accesso a determinate aree urbane a individui “con atteggiamenti” (?) pericolosi o molesti, violano palesemente il diritto alla libertà di circolazione sancito dall’articolo 16 della Costituzione italiana. Queste misure non sono basate su condanne penali, ma su mere segnalazioni o peggio ipotesi predittive, lasciando ampi margini di discrezionalità alle autorità di polizia. Il ddl 1160 - come altre norme, annunciate o varate - prevede un significativo rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine, in un contesto che già vede un crescente squilibrio tra le autorità statali e i diritti dei cittadini. Tra le norme più controverse ricorderei il porto d’armi senza licenza anche fuori servizio, che rischia di aumentare il rischio di abusi/incidenti, o le tutele legali rafforzate, che - soprattutto se unite ai ricorrenti proclami sull’abolizione del reato di tortura - rischiano di favorire un senso di impunità in assenza di adeguati meccanismi di controllo. L’incremento dei poteri discrezionali delle forze dell’ordine si traduce in una crescente asimmetria tra Stato e cittadini, minando il principio di uguaglianza davanti alla legge. Una delle caratteristiche distintive della “legislazione del nemico” è la criminalizzazione del dissenso politico e sociale. Si è addirittura pensato di concepire un reato di “rivolta negli istituti penitenziari e nei centri di detenzione per migranti” punendo anche la resistenza passiva (!) con pene fino a 5 anni di reclusione, tralasciando invece completamente le cause delle proteste (senza curarsi nemmeno dei numeri drammatici di suicidi fra detenuti e personale penitenziario). Si tratta di disposizioni solo apparentemente giustificate da ragioni di ordine pubblico, che invece limitano de facto diritti costituzionali, ivi compreso quello di manifestazione del pensiero, definito nel 1969 “pietra angolare del sistema democratico” dalla Corte costituzionale, riducendo lo spazio per il dissenso e intimidendo i cittadini che intendono esercitare i propri diritti costituzionali. L’introduzione di misure straordinarie, spesso giustificate da emergenze reali o percepite, mina i principi fondamentali dello stato di diritto, come la presunzione di innocenza, la separazione dei poteri e il diritto a un equo processo. Inoltre, la creazione di nuove fattispecie penali e l’inasprimento delle pene, senza un adeguato bilanciamento con politiche di inclusione e prevenzione, rischiano di trasformare il sistema penale in uno strumento di controllo sociale, piuttosto che di giustizia. Per contrastare la crescente tendenza alla deriva autoritaria, è necessario riaffermare i principi di proporzionalità, uguaglianza e giustizia sociale, promuovendo politiche che affrontino le cause profonde del disagio sociale e della criminalità, piuttosto che limitarsi a reprimerne gli effetti. Solo attraverso un rafforzamento delle garanzie costituzionali e dei diritti fondamentali, con un ritorno a una visione inclusiva della società, sarà possibile preservare la coesione sociale e la dignità di ogni individuo. Si scrive scudo penale, si legge immunità: agenti al di sopra della legge di Fabio Anselmo* Il Domani, 15 gennaio 2025 Letteralmente lo scudo per gli agenti è uno strumento di difesa. Da chi? Viene spontaneo chiedersi. La risposta è altrettanto ovvia: dallo stato di cui fa parte, come potere funzionale giudiziario, il pm. Scudo penale agli agenti che possa difenderli dalle indagini anche per omicidio? La propaganda non ha più limiti, se mai ne avesse davvero avuti negli ultimi decenni. Il processo penale è oramai quotidiano terreno di scontro politico e, quel che è peggio, di sconclusionati provvedimenti legislativi che intervengono su giudici, pm e cittadini di singole vicende giudiziarie. È la promozione a sistema delle leggi cosiddette ad personam, ispirate da questo o quel fatto di cronaca nera che può essere utile alla propaganda politica o da questo o quel procedimento giudiziario che, sempre rigorosamente sullo stesso piano, può viceversa essere imbarazzante o, peggio, nocivo, danneggiando l’immagine patinata e “rassicurante” a tutti costi inseguita dal governo. “Scudo penale” cosa significa? - Letteralmente lo scudo è uno strumento di difesa. “Da chi?”, viene spontaneo chiedersi. La risposta è altrettanto ovvia: dallo Stato di cui fa parte, come potere funzionale giudiziario, il pm. Quindi si ritiene non solo logico, ma addirittura necessario, che gli organi di polizia del nostro Paese, nel cui nome e per il quale operano, si debbano, a prescindere, difendere da quello stesso Stato, che sarebbe, pertanto, loro ingiustamente nemico. Si tratta di una vera e propria legge-caos che trasformerà il nostro paese in un vero e proprio Far West ove vige sempre e incontrastabile la legge del più forte. In uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza. Sempre in quello Stato democratico esse ne devono avere la responsabilità. Mi pare ovvio. A meno che non si decida che il loro agire deve essere sempre ritenuto legittimo, a prescindere. A meno che non si voglia una vera e propria immunità per la quale si dovrebbe presumere in modo assoluto la giustezza del loro operato, qualsiasi cosa accada o sia accaduta. Un vero e proprio status sociale di privilegio sui cittadini per i quali le forze dell’ordine dovrebbero operare, che le posiziona al di sopra della legge che esse stesse dovrebbero esser chiamate ad applicare. Un sistema di assetti di potere nel quale i magistrati che esercitano la funzione giudiziaria sono soggetti alla legge mentre gli agenti no. Il caos, appunto. La fine dello Stato democratico. La responsabilità degli agenti, cosi come delineata dalla Costituzione e applicata dalla magistratura, non piace a questo governo. Deve esser compressa e limitata il più possibile. L’esigenza apertamente dichiarata, come si legge sulle agenzie di stampa, è quella di “difendere gli agenti” dalle indagini che la magistratura inquirente ritiene di dover avviare in caso di sospetti abusi che potrebbero esser stati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, anche nelle ipotesi di omicidio. Non devono essere indagati quando i fatti sono da chiarire, no. Per loro l’iscrizione come atto dovuto deve sparire. Ci deve pensare il ministro dell’Interno a stabilire quando si può fare l’iscrizione, secondo proprio giudizio. E poi, qualora il ministro lo consenta, la “patata bollente” deve passare di mano ai magistrati ritenuti più “accomodanti”: niente pm, ma le corti d’appello. Chi parla in questo modo, da quel che leggo, non conosce lo stato di diritto. Il ministro dell’Interno sarebbe chiamato a svolgere una funzione giudiziaria, sia pure in tema di accertamento della sufficienza di elementi per iscrivere l’agente “sospettato” di abusi nel registro degli indagati. È organo politico dell’esecutivo ma non fa nulla. La separazione dei poteri e delle funzioni e l’indipendenza di quelli giudiziari sono un inutile orpello della nostra invadente Costituzione. Ci penseranno i nuovi prossimi giudici che a breve verranno nominati a risolvere il problema. Sulla morte di Ramy Elgaml il ministro dell’Interno “in pectore” Salvini si è già espresso anticipando tutti: ha proclamato la assoluta correttezza dell’operato dei carabinieri coinvolti nella vicenda, quindi male farebbe a procedere con indagati già iscritti la procura di Milano, qualora fosse già operativo “lo scudo”. La grande dignità e profonda civiltà espresse dal padre di quel povero ragazzo hanno messo in difficoltà il sottosegretario Delmastro, che è stato costretto ad affermare pubblicamente che deve essere compito della magistratura fare chiarezza sui fatti, smentendo il suo collega di governo Salvini. Ci siamo già da tempo abituati a sentire i politici parlare a vanvera in tema di Giustizia. Difficile sarà abituarsi a sentirli esprimersi allo stesso modo nella primissima fase delle indagini preliminari in fatti simili a quello che ha visto morire oggi Ramy, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi ieri. Per quanto riguarda Stefano, in realtà, ci fu chi nell’immediatezza della morte si espresse in modo netto e perentorio sulla vicenda: l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa giurò sulla correttezza dell’operato dei carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi. Seguirono 6 anni di indagini e processi sbagliati contro gli agenti della Penitenziaria. Poi sappiamo come è andata. Al di là di queste amare considerazioni, quel di cui non ci si rende conto (o si fa finta) è che l’iscrizione dell’agente sospettato nel registro degli indagati è un atto di garanzia di difesa e non di accusa! Dunque, qual è il reale scopo dello Scudo? Immunità. Fine del fondamentale criterio giuridico espresso dal concetto di responsabilità. La legge non è uguale per tutti. Questo è certo. *Avvocato Scudo penale per gli agenti, Aldrovandi e gli altri casi che non sarebbero iniziati di Paolo Frosina, Marco Grasso e Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2025 La notte di Capodanno a Villa Verucchio, provincia di Rimini, il luogotenente dei carabinieri Luciano Masini uccide un giovane egiziano di 23 anni, Muhammad Sitta. Sitta ha appena aggredito a coltellate quattro persone: Masini gli intima di fermarsi, finché, poco prima di essere aggredito, gli spara. La Procura apre un’inchiesta per eccesso colposo di legittima difesa, un “atto dovuto”, spiegano i pm. Da questa vicenda il Governo ha preso spunto per proporre una legge già molto discussa, nonostante i contorni ancora poco chiari: uno scudo penale per le forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Peccato che l’unico strumento per chiarire se la difesa è legittima o meno sia proprio quello che l’esecutivo vorrebbe abolire: l’indagine di una Procura. E a dimostrarlo è una decisione di questi giorni. Lunedì la Corte d’Appello di Genova ha ribaltato la sentenza nei confronti di quattro poliziotti accusati di aver picchiato il giornalista di Repubblica Stefano Origone, che nel 2019 stava coprendo un corteo contro CasaPound quando venne travolto da una carica. Nei primi due gradi gli agenti furono condannati a una pena mite, 2 mesi, per lesioni colpose. Dopo una durissima sentenza di annullamento della Cassazione il fatto è però stato rivalutato: le lesioni sono diventate dolose e le pene salite a un anno. Non era, insomma, un eccesso di legittima difesa. Ma con la nuova norma in discussione non sarebbe stato possibile accertarlo. Il rischio, in definitiva, è che il confine tra un abuso di potere delle forze dell’ordine e una legittima difesa diventi difficile da distinguere. Questo tema è stato al centro dei processi su due omicidi commessi negli anni scorsi da uomini in divisa. Il più noto è quello di Federico Aldrovandi, 18enne ferrarese ucciso nel 2005 durante un intervento di polizia, schiacciato sull’asfalto dagli uomini della volante fino a soffocare mentre era già immobilizzato a terra. I quattro agenti responsabili sono stati condannati in via definitiva a tre anni e mezzo per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”: con uno scudo come quello immaginato dal governo, probabilmente, non sarebbero stati nemmeno indagati. Idem per i tre poliziotti condannati a sei mesi per l’omicidio colposo di Riccardo Rasman, 34enne triestino affetto da disabilità psichica, anche lui pestato, ammanettato e ucciso per asfissia dagli agenti intervenuti in casa sua dopo che aveva dato in escandescenze. Ma anche la cronaca recente offre spunti che potremmo non leggere più: ad esempio l’indagine a carico di dieci poliziotti accusati di eccesso colposo di legittima difesa per le cariche sugli studenti a Pisa, lo scorso 23 febbraio, durante un corteo pro-Palestina. Oppure l’apertura di un fascicolo a Verona per accertare eventuali responsabilità per la morte di Moussa Diarra, 26enne migrante del Mali ucciso da un agente della Polizia ferroviaria che stava minacciando con un coltello. Se l’idea del governo, come sembra, è quella di affidare a indagini interne gli accertamenti preliminari, va ricordata l’alta incidenza di falsi nei verbali d’arresto emersi proprio nelle situazioni in cui occorreva coprire delle violenze. Reati spesso commessi per insabbiare e giustificare ex post un intervento illegittimo: accuse simili compaiono nei più importanti processi in corso a carico di appartenenti alle forze dell’ordine, dai pestaggi in questura a Verona a quello sulla morte di Hasib Omerovic, 39enne di etnia rom precipitato dalla finestra della propria abitazione durante un controllo, passando per il caso Cucchi e le violenze del G8 di Genova del 2001. Separazione delle carriere, alla Camera passa l’articolo 1 di Valentina Stella Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Con 186 voti favorevoli e 106 contrari, è stato approvato ieri sera alle 19 alla Camera dei deputati, alla presenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio, l’articolo 1 del disegno di legge di modifica costituzionale che porta il suo nome, “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Azione e Italia Viva hanno votato con la maggioranza. Come si legge nella relazione, “con l’articolo 1 si apporta una modifica al decimo comma dell’articolo 87 della Costituzione. La disposizione risulta necessaria in ragione della riorganizzazione dell’assetto della magistratura con l’istituzione di due distinti Consigli superiori, uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente”. La norma, tuttavia, “preserva integre le attuali funzioni del Presidente della Repubblica, al quale viene attribuita la presidenza sia del Consiglio superiore della magistratura giudicante sia del Consiglio superiore della magistratura requirente”. La discussione, iniziata alle 17, ha raccolto le dichiarazioni solo delle opposizioni che hanno presentato i loro emendamenti che, con parere negativo del Governo, sono stati tutti respinti. Compreso anche quello che avrebbe voluto modificare l’articolo 101 della Costituzione - “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge” - aggiungendovi “ed esercitano le loro funzioni in modo equo, obiettivo ed imparziale”. Le opposizioni hanno sostenuto che così la maggioranza conferma di voler effettuare un controllo politico sulla magistratura, limitando la sua autonomia. L’auspicio del Partito democratico, del Movimento 5 Stelle, di Alleanza verdi e sinistra e di Italia Viva era quello di veder approvato almeno quello sulla parità di genere all’interno del Csm, ma dopo giorni di riflessione uno dei tre relatori del provvedimento, il forzista Nazario Pagano, ha annunciato che verrà presentato un ordine del giorno sul tema. E sappiamo bene che questo tipo di atto non ha alcuna forza vincolante. Per il resto il dibattito, a tratti animato ed interrotto da brusii di entrambe le parti, è stato un copia ed incolla dei discorsi già sentiti nei giorni precedenti, con i partiti di minoranza che hanno stigmatizzato il fatto di essere stati imbavagliati, che il testo sia stato blindato, come se fosse stata posta la fiducia, che questo provvedimento era un obiettivo della P2 di Licio Gelli e il sogno di Berlusconi, che la norma ha lo scopo di indebolire la magistratura e le indagini nei confronti dei potenti. “Mai prima d’ora - ha dichiarato il dem Federico Gianassi una riforma costituzionale era stata approvata dal Parlamento senza alcuna condivisione con le opposizioni né modifica. È il segno di un Parlamento ridotto a semplice passacarte delle decisioni di Palazzo Chigi”. Il Movimento 5 Stelle, invece, si è scoperto improvvisamente garantista, dopo anni in cui ha cavalcato l’onda del populismo penale: “Se vogliamo sempre più un pm garantista che sappia cercare anche prove a favore dell’indagato, come l’ordinamento già oggi gli impone, non si capisce perché staccarlo dalla magistratura giudicante, quando invece servirebbe una maggiore contaminazione tra tutti i settori che operano nella giustizia”, ha detto la deputata Enrica Alifano. La seduta è terminata alle ore 20 con la bocciatura di tutti gli emendamenti all’articolo 2. Si riprenderà stamattina alle 9.30. Giovedì dovrebbero esserci le dichiarazioni di voto finale e poi entro venerdì l’approvazione definitiva del provvedimento. Sull’iter della discussione non peserà il fatto che bisognerà rivedere stamattina in una capigruppo convocata alle 9 l’ordine dei lavori parlamentari per l’elezione dei giudici costituzionali. Forza Italia assicura e rassicura che questa settimana sarà quella in cui si avrà in prima lettura l’approvazione della separazione delle carriere, la “madre di tutte le riforme”, come sostenuto dal Guardasigilli. Il che farà alzare i toni all’Anm che non esclude un imminente sciopero: “Il percorso della riforma costituzionale è lungo, - ha dichiarato il presidente Giuseppe Santalucia - vedremo se e quando farlo ma non è per niente escluso”. Quanto alla tempistica dell’eventuale astensione, magari dopo la prima lettura o il via libera di Camera e Senato, per Santalucia “è una possibilità, deciderà chiaramente il direttivo dell’Associazione ma lo sciopero è uno strumento non di protesta ma di comunicazione per dare ancora più voce alle ragioni della nostra contrarietà alla riforma nell’opinione pubblica”. A distanza aveva replicato il suo naturale contrappositore, il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Il presidente dell’Anm Santalucia ogni giorno ci somministra la sua ricetta in una visione che io definisco eversiva. Perché? Perché ritiene che la separazione dei poteri giudiziario, legislativo e esecutivo non esista più e che quindi l’Anm, Santalucia e il nuovo “Santo” che verrà dopo Santalucia, ci dirà quello che dobbiamo fare nel Parlamento o nel governo. Noi dobbiamo rivendicare la sovranità legislativa del Parlamento in materia di giustizia”. Consulta, corsa contro il tempo per i 4 nomi di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Mancava solo il gol, fumata nera, condizioni non mature. Sono tanti i modi di dire utilizzati ieri per descrivere l’ennesimo tentativo, andato a vuoto, di eleggere i quattro giudici mancanti della Corte costituzionale da parte del Parlamento. Un Parlamento che si è riunito in seduta comune per la tredicesima volta ma che non è ancora riuscito a trovare la quadra, viste le 377 schede bianche, 15 nulle e 9 disperse. Tuttavia da più parti, sia nella maggioranza che nell’opposizione, si giura che ormai ci siamo, che è una questione di giorni, che già domani o al massimo martedì sarà riconvocata l’Aula, e che stavolta si andrà fino in fondo. Già lunedì c’erano state delle avvisaglie sul fatto che ieri poteva non essere ancora la volta buona, soprattutto per le difficoltà di Forza Italia di trovare un nome che andasse bene ad alleati e avversari da aggiungere a quelli di Francesco Saverio Marini, prescelto dal centrodestra, e di Massimo Luciani, nome messo sul tavolo dalle opposizioni e pronto a essere votato anche dai partiti al governo. Ma oltre al dibattito interno agli azzurri, con il viceministro Francesco Paolo Sisto e il capogruppo in commissione Giustizia al Senato, Pierantonio Zanettin, che sembrano destinati a rimanere ai loroposti, si ragiona anche sul quarto giudice, un nome “tecnico” condiviso dall’intero arco parlamentare. “La valutazione va fatta con molto discernimento, a lungo l’opposizione non ha nemmeno votato, ora siamo nella fase finale: la prossima volta ci siamo - ha detto il capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan - Mancava poco, siamo “vicini al gol”. Se si voterà giovedì? O giovedì o martedì, io ovviamente spero giovedì. Venerdì non penso, mi sembra più verosimile il giorno prima”. Ma proprio sulle date si rischia lo stallo, visto che la Consulta dovrebbe tornare a riunirsi lunedì per la decisione, già rinviata, sull’ammissibilità dei referendum, compreso quello sull’Autonomia. Dopo la nomina parlamentare dei giudici costituzionali, ci sono infatti una serie di passaggi formali ed obbligati da effettuare prima della assunzione delle funzioni da parte dei neoeletti e quindi prima della loro possibilità di partecipare alla Camera di consiglio di lunedì. “Se i parlamentari eleggessero i 4 giudici domani, i neo eletti potrebbero fare in tempo, giurando al Quirinale venerdì 17, anche se non porta bene”, ha spiegato l’ex vice presidente della Corte costituzionale Giulio Prosperetti, secondo il quale la verifica di requisiti e non incompatibilità degli eletti che dovrà effettuare la Corte immediatamente dopo l’elezione infatti “è una formalità, molto rapida perché le persone sono conosciute” e che si espleta in tempi celeri “attraverso la nomina di un relatore che riferisce sui titoli dei neo eletti”. In ogni caso almeno fino a ieri sera le polemiche non accennavano a spegnersi, e la quadra sui nomi non era ancora stata trovata. “Da tempo vanno nominati i nuovi giudici della Corte Costituzionale, queste però sono interlocuzioni che ci sono ai vertici dei partiti tra la maggioranza e l’opposizione - il ragionamento di Riccardo Molinari, capogruppo della Lega a Montecitorio - Bisogna trovare una rosa di nomi che dia rappresentanza, tanto la maggioranza quanto l’opposizione, e soprattutto che tenga conto della qualità dei candidati che verranno scelti”. Più duro il suo omologo forzista, Paolo Barelli. “Il tema è il quarto nome, che deve essere concordato con l’opposizione, che non è una forza sola - è la linea di Barelli - La maggioranza, al suo interno, l’intesa la trova”. Pronta la risposta della responsabile Giustizia del Pd, Deborah Serracchiani, secondo la quale “sulla mancata elezione noi non c’entriamo nulla e anzi sono felicemente impressionata dal fatto che su questo tema tutta l’opposizione sia unita”. Tuttavia, sottolinea l’esponente dem, “non siamo lontani dal trovare un accordo” e “su quattro giudici non può non esserci una donna, mi sembra il minimo”. Smentendo di fatto Barelli, visto che l’accordo sul nome di una donna era stato trovato, e corrispondeva a quello dell’avvocata generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli. Nome tecnico, che ributta dunque la palla nel campo di Fi. Vittime in Costituzione, al Senato primo ok al ddl costituzionale di Valentina Stella Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Sì dell’Aula al testo che modifica l’articolo 24 della Carta. Rallenta, invece, l’iter per l’istituzione della Giornata nazionale delle vittime di errori giudiziari. Al Senato primo via libera al disegno di legge costituzionale che inserisce la tutela delle vittime di reati nella Carta costituzionale. L’aula lo ha approvato con 149 sì e un astenuto. Il testo recita: “All’articolo 24 della Costituzione, dopo il secondo comma, è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato”“. È il primo dei quattro voti richiesti dalla riforma costituzionale. Il 10 dicembre era stato dato parere positivo dalla Commissione giustizia di Palazzo Madama al nuovo testo unificato che punta ad inserire in Costituzione la tutela delle vittime di reato. La novità è che, mentre il primo testo unificato predisposto per i quattro disegni di legge in esame (Antonio Iannone di Fratelli d’Italia, Bruno Marton del Movimento 5 Stelle, Dario Parrini del Partito democratico, Peppe De Cristofaro di Alleanza Verdi e Sinistra) prevedeva modifiche all’articolo 111 della Carta costituzionale, il nuovo ha modificato l’articolo 24. Durante la discussione è intervenuto il capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia di Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin, che ha ricordato l’iter del provvedimento sia formale che sostanziale: il disegno di legge costituzionale sulla tutela delle vittime di reato “in una prima fase era stato approvato all’unanimità dalla commissione Affari costituzionali, forse un po’ frettolosamente. Una volta arrivato in commissione Giustizia per il parere, ci siamo accorti che rischiava di produrre nell’ambito del processo penale uno sbilanciamento tra la pretesa statuale di erogare una pena e il diritto del cittadino a un processo giusto, con le dovute garanzie”. Tuttavia, ha aggiunto, “il regolamento del Senato ha impedito alla Commissione Giustizia di approfondire quegli aspetti attraverso le audizioni. Grazie alla collaborazione leale tra commissioni siamo riusciti a risolvere il problema, ma credo che quella norma del regolamento che prevede che le riforme costituzionali siano assegnate solo alla Prima Commissione sia sbagliata ed è il caso di avviare una riflessione anche in vista dell’arrivo della riforma sulla separazione delle carriere”. Il senatore ha poi concluso: “Siamo tutti d’accordo che le vittime dei reati meritano tutela, ma questa tutela può non necessariamente avvenire all’interno del processo. A prescindere che venga individuato un responsabile, le vittime meritano una tutela dell’ordinamento”. Sarebbe invece dovuta arrivare nell’Aula della Camera il 20 gennaio la norma che prevede l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari, tuttavia è tutto rimandato dopo uno stop in Commissione Giustizia. Ora, come ha comunicato il presidente Ciro Maschio, è emerso che “non si sono ancora concluse le opportune interlocuzioni tra i gruppi per procedere all’esame delle proposte emendative riferite al testo unificato. Occorre quindi prendere atto che non vi sono le condizioni per concludere tempestivamente l’esame in sede referente del provvedimento, attualmente iscritto nel calendario dell’Assemblea a partire da lunedì 20 gennaio prossimo. In tale sede si è convenuto all’unanimità di avanzare la richiesta di posticipare l’avvio della discussione in Assemblea al prossimo calendario dei lavori”. Inoltre non sono arrivati i pareri del Governo sugli emendamenti, quindi i deputati si sono dovuti fermare. Il 3 dicembre era stato adottato un testo base che ha riunito le proposte dei deputati Davide Faraone (Iv), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (Forza Italia). Secondo il provvedimento, la giornata dovrebbe essere quella del 17 giugno, giorno dell’arresto del conduttore televisivo Enzo Tortora. Ogni anno le scuole dovrebbero organizzare giornate di sensibilizzazione sul valore del giusto processo - “quale unico strumento volto a garantire, entro tempi ragionevoli, l’accertamento della responsabilità penale in contraddittorio tra le parti e davanti a un giudice terzo ed equidistante tra accusa e difesa” - e su quello “della libertà, della dignità personale, della presunzione di non colpevolezza, quale regola di giudizio oltreché quale regola di trattamento, di coloro che sono ristretti in custodia cautelare prima e durante lo svolgimento del processo”. Durante il dibattito in Commissione, la maggioranza aveva votato a favore del testo base, il Movimento 5 Stelle aveva espresso voto contrario, Alleanza Verdi e Sinistra insieme al Partito democratico si erano astenuti. Come ci ha spiegato il deputato forzista Pietro Pittalis, l’obiettivo è quello approvare emendamenti per allargare il perimetro anche al concetto di ingiusta detenzione e per implementare maggiormente la conoscenza del fenomeno, rendendo noti nella giornata dedicata alle vittime in questione anche i dati della Relazione al Parlamento su ingiuste detenzioni e, appunto, errori giudiziari. Il problema, ci dicono altre forze di maggioranza, è che mentre il Partito democratico e Avs hanno un atteggiamento più aperturista e dialogante sul tema, bisogna registrare l’ostruzionismo del Movimento 5 Stelle, che si oppone alla istituzione della Giornata con motivazioni simili a quelle espresse dall’Anm in audizione. Così il sensazionalismo uccide la complessità della giustizia di Simona Musco Il Dubbio, 15 gennaio 2025 La sentenza sul femminicidio di Modena non manifesta nessuna empatia per il killer, ma ricostruisce un contesto di maltrattamenti reciproci e dinamiche familiari tossiche. È un grande classico quello di estrapolare una frase ad effetto, virgolettarla, tralasciare il contesto e crearci attorno un titolo. Obiettivo: indignare, scioccare, provocare la reazione di un pubblico che non desidera altro che un’occasione per sfogare i propri istinti. Un pubblico abituato a ricevere verità a spizzichi e bocconi e che si accontenta, dunque, di semplificazioni. Il caso è quello dell’omicidio di Gabriela Renata Trandafir (47 anni) e della figlia Renata Alexandra (22 anni) per mano di Salvatore Montefusco, una vicenda familiare complessa, intrisa di dinamiche tossiche e profonde lacerazioni, che si è conclusa tragicamente il 13 giugno 2022. In 213 pagine, la Corte di Assise di Modena ha ricostruito in maniera minuziosa “un sistema di vita di relazione doloroso e avvilente”, sviluppatosi in contesto di maltrattamenti reciproci e culminato nel peggiore dei gesti. Maltrattamenti subiti anche dall’omicida e che hanno spinto la giudice Ester Russo a parlare di “comprensibilità umana dei motivi” che lo hanno spinto a commettere il reato. Parole che hanno fatto gridare allo scandalo, ma a scatola chiusa. Perché anche se sicuramente formulabili in maniera “esteticamente” più accettabile, a renderle più abiette è quel taglia e cuci che ha fatto finire sui giornali solo tre passaggi, offerti al pubblico senza dare conto dell’enorme mole di prove che testimoniano un fatto: una situazione invivibile in cui tutti vessavano tutti. Basterebbe leggere la drammatica testimonianza del figlio superstite, testimone oculare di quella tragedia, per avere un quadro di una situazione familiare disastrata. Niente giustifica l’omicidio, questo è chiaro. Ma nella sentenza oggi oggetto di scandalo non c’è nessun cedimento empatico da parte dei giudici nei confronti di Montefusco, che pure viene punito con 30 anni di carcere, non certo assolto. Non sarà un ergastolo, ma nel caso di un uomo di 72 anni la differenza è puramente semantica. E simbolica, per chi forse vorrebbe che a decidere una sentenza fosse un algoritmo, senza alcuna valutazione del contesto, pure necessario per bilanciare aggravanti ed attenuanti, come se nelle aule ci fosse già quel giudice robot a cui tutti guardano con orrore. Leggere la sentenza è un esercizio interessante. Perché si scopre, in primo luogo, che non c’è la connotazione tipica del femminicidio, non essendoci, nel gesto di Montefusco, “un anacronistico senso di possesso per l’essere (reputato inferiore) donna nonché la incapacità di accettare una scelta di rottura ed il successivo abbandono”. Non era la separazione ciò che l’uomo non accettava, ma “essere obbligato a lasciare la casa che aveva costruito con le sue mani ed in cui aveva chiesto di poter restare per poter continuare a partecipare alla vita del figlio, per poterlo assistere, per poter stare accanto a lui, in un frangente in cui lo stesso, prima e incolpevole vittima della atroce conflittualità familiare, ne avrebbe pure avuto estremo bisogno”. Una casa maledetta che l’uomo aveva intestato alla figliastra e al figlio. E dalla quale le due vittime, stando alle molteplici testimonianze, volevano buttarlo fuori, cercando anche di convincere il minore dei figli a vendere la propria quota. Emerge inoltre, stando a prove e testimonianze, che Montefusco non aveva segregato e isolato le donne, come le stesse avevano denunciato ripetutamente, e non le aveva private dei mezzi di sostentamento, almeno fino a “qualche mese prima dei tragici fatti ed esclusivamente perché il Montefusco, indispettito dalla loro condotta, aveva deciso di non acquistare più per loro generi alimentari e prodotti per la pulizia, continuando a farlo solo per il figlio”. Ed era stato lo stesso figlio a riferire le violenze delle vittime su quello che poi sarebbe stato il loro carnefice, come impedirgli “di dormire nel proprio letto, di utilizzare i bagni della propria abitazione, di prendere un caffè, di muoversi liberamente nella propria casa le cui camere venivano chiuse a chiave e persino di orinare nel water; di essere costantemente ripreso con le videocamere dei telefoni cellulare; di essere usualmente minacciato e invitato a lasciare la propria abitazione; di essere aggredito anche fisicamente riportandone le lesioni refertate come in atti, di essere infine sottoposto a continue e reiterate denunce ed all’intervento ormai abituale dei carabinieri presso l’abitazione”. Anche quelli di Montefusco, precisa la sentenza, erano maltrattanti: aveva spiato i movimenti delle donne tramite un investigatore e un Gps installato sull’auto della moglie, le aveva minacciate “con formule generiche” e aveva appunto negato, negli ultimi mesi, “il proprio apporto economico”, tant’è che le vittime, “per tale motivo, avevano intrapreso, entrambe, sia pur precarie attività lavorative”. Ma, scrivono i giudici, “Montefusco, arrivato incensurato fino all’età di 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate tra gli abitanti della villa della Casona, ed all’esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà. Pertanto, le attenuanti generiche dovranno essere valutate equivalenti alle residue aggravanti contestate al Montefusco, in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato”. Siamo a pagina 205, l’unica ritenuta di interesse pubblico. Pubblico che non ha potuto leggere, sui giornali, tutti quei “fattori ambientali che hanno senz’altro condizionato l’insorgenza della condotta criminosa”. Una condotta che non può essere - e di certo non viene - minimizzata, ma punita gravemente con una condanna pesante, che però tiene conto della complessità della situazione, al di là di una singola frase. I femminicidi di Modena: “Il problema non è la pena, ma il linguaggio usato” di Marika Ikonomu Il Domani, 15 gennaio 2025 La Corte di assise ha condannato a 30 anni, invece che all’ergastolo, l’assassino. Manente (Differenza Donna): “Emerge un quadro di violenze sminuite”. La violenza maschile contro le donne è un fatto sociale, ma viene spesso relegato a fatto privato. Lo suggeriscono, ancora una volta, le argomentazioni usate nella sentenza della Corte di assise di Modena, che il 13 gennaio ha condannato a 30 anni di reclusione Salvatore Montefusco, per il duplice femminicidio della moglie, Gabriela Trandafir, e della figlia della donna, avvenuto in presenza del figlio nato dalla relazione tra di due, Salvatore Junior, all’epoca minorenne. È stato lui a chiamare il 112 e a mettersi davanti alla madre per provare a impedire al padre di ucciderla. La procura aveva chiesto l’ergastolo. Una sentenza che Teresa Manente, avvocata penalista che con l’associazione Differenza donna da anni si occupa di contrasto alla violenza di genere, ritiene “inaccettabile”, non per l’entità della pena. “La condanna a 30 anni o all’ergastolo poco cambia per un uomo di 70, ma è inaccettabile per le motivazioni scritte”, spiega Manente, considerandole un “vero e proprio documento che mostra come non vengano credute le donne vittime di maltrattamenti gravi ed efferati”. La Corte non ha accolto la richiesta della procura perché ha ritenuto equivalenti le attenuanti generiche alle aggravanti, “in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto di reato”. Spiega Manente: “È prevalsa l’argomentazione che l’uomo sia stato preso dal raptus - che in questa sentenza chiamano “black out emotivo” - per il fatto di dover lasciare la casa alla donna, che aveva chiesto la separazione”. Per i giudici la prospettiva di dover lasciare l’abitazione e “l’insopportabile timore che la moglie avrebbe potuto portare in casa un altro uomo” avrebbero costituito la “personale percezione di aver subito una profonda e immeritata ingiustizia”. Si parla della proprietà della casa invece di approfondire i crimini “gravissimi che Trandafir aveva raccontato nelle sue denunce”, sottolinea l’avvocata. La sottrazione della casa - “costruita con le sue mani”, insiste la Corte - giustificherebbe dunque la sua reazione. Tra le attenuanti, i giudici hanno considerato l’incensuratezza dell’uomo, arrivato all’età di 70 anni, ma “gli autori di femminicidio sono quasi sempre incensurati”, spiega l’esperta. La sentenza della Corte, di oltre 200 pagine, raccoglie le denunce e segnalazioni fatte dalla donna un anno prima del femminicidio, le informazioni dalla figlia e dalla sorella. Quello che emerge è un quadro fatto di violenze psicologiche, economiche, fisiche. E la situazione in casa è peggiorata dopo la denuncia, quando l’uomo ha deciso, dopo aver impedito che la donna avesse un’indipendenza economica, di “far mancare i mezzi di sostentamento sia a me che ai nostri figli”, raccontava Trandafir ai carabinieri. “Tutti i fatti denunciati”, commenta l’avvocata, “sono stati minimizzati e non è stata emessa alcuna misura cautelare”, se non il sequestro delle armi, in tutto 14 tra pistole, fucili, doppiette e carabine. “Ho ritrovato la storia di tante donne che vivono questa escalation di violenza, soprattutto dopo aver denunciato”, aggiunge. Formazione. “Litigi”, “forte conflitto”, “problemi di convivenza”, “rapporto disfunzionale”: sono le parole scelte dai giudici per descrivere i fatti, “ma la donna”, fa notare Manente, “ha raccontato di aggressioni fisiche e violenze sessuali che era costretta a subire. Non si tratta di un rapporto disfunzionale, è violenza”. Di fronte alla controdenuncia di Montefusco, fatta mesi dopo la querela della donna, occorre chiedersi “cosa è successo prima?”. Manente ha preso parte ai lavori della commissione d’inchiesta del Senato sui femminicidi, nella scorsa legislatura, che ha pubblicato uno studio, dopo un’analisi di oltre 200 sentenze: “Emergeva in maniera evidente la sottovalutazione delle violenze denunciate e l’uso di un linguaggio che non rappresenta il giusto contesto”. E aggiunge: “I fatti devono essere nominati per quello che sono. È un linguaggio che non riesce a rappresentare la verità”. Per questo è necessaria la formazione di tutti gli operatori della giustizia che, pur essendo obbligatoria, non è in grado di permettere di raggiungere gli obiettivi posti dalle convenzioni internazionali, “anche perché non c’è la copertura economica”, spiega Manente. La formazione degli operatori della giustizia è “inadeguata” - emergeva dalla relazione della commissione - e “non sempre in grado di riconoscere la violenza nella sua cornice globale, ridimensionandola a mero conflitto”. Argomentazioni che possono avere conseguenze molto gravi: per le donne che si trovano in situazioni di violenza e vogliono denunciare, e “percepiscono invece una legittimazione alla giustificazione della violenza maschile”, conclude Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna. Ma anche “per le nuove generazioni e per la collettività”, che non vede una reale possibilità di giustizia in caso di femminicidio. Se volete solo ergastoli cambiate la Costituzione di Filippo Facci Il Giornale, 15 gennaio 2025 Questa classe politica e questo Paese dovrebbero decidere, una volta per tutte, se vogliono mantenere l’articolo 27 della Costituzione oppure no. Non c’è retorica nel chiederlo, dovrebbero decidere e basta, e lo si scrive, ora, a margine dell’indignazione bipartisan che ha accompagnato la condanna “solo” a 30 anni e quindi non all’ergastolo per Salvatore Montefusco, autore del duplice omicidio di due donne (sua moglie e la figlia di lei) con motivazioni “choc” ritenute “offensive” o addirittura “un vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento”. Questo, praticamente, a opinione dell’intero arco parlamentare: e ci limitiamo a citare il ministro Eugenia Roccella, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini di Noi moderati, Laura Ravetto della Lega, Maria Elena Boschi di Italia viva, Valeria Valente del Partito democratico, Marilena Grassadonia di Alleanza verdi e sinistra e, infine, Carolina Morace dei Cinque Stelle: otto donne, e sia detto che c’è qualcosa di culturalmente stucchevole nel fatto che a parlare siano state solo loro, e non, significativamente, degli uomini: decida il lettore se c’è un errore da qualche parte, se ci sia un troppo il silenzio oppure, dall’altra, una forma di sindacalismo che impone di dover dire qualcosa a tutti i costi. Ricominciamo da capo. In Italia, una condanna a 30 anni oppure a un ergastolo ordinario corrispondono quasi alla stessa cosa, visto che l’ergastolo corrisponde proprio a 30 anni di carcere (e non a “fine pena mai”) in virtù dell’articolo 27 della Costituzione secondo il quale la pena “deve tendere alla rieducazione del condannato”. Non piace? Basta cambiare l’articolo 27. In entrambi i casi, 30 anni o ergastolo, si prevede che il detenuto lascerà il carcere con anticipo e questo per via delle varie buone condotte, semilibertà, condizionali e permessi premio che a loro volta sono inseriti nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, che beninteso, basta cambiarlo. Stiamo dicendo, non fosse chiaro, che prendersi l’ergastolo oppure 30 anni in pratica è la stessa cosa, soprattutto se di anni se ne hanno 72 come il condannato per duplice omicidio: il quale, bene che vada, dovrebbe uscire di galera poco meno che centenne. Non solo: è un assassino che era incensurato, che ha confessato e che ha avuto un certo contegno processuale: e questa, per i codici, è sostanza, non parole, non fanno parte di un giudizio morale come quello emesso in coro sulla sentenza: poi possono non piacerne le motivazioni, o il modo in cui sono state scritte, ma non c’è decisione o condanna che nei tribunali non corrisponda a una regola, a un comma, a un’attenuante o a un’aggravante o a un’esimente; la legge è questa cosa qui, non è qualcosa che debba corrispondere alla “evoluzione culturale necessaria” come ha detto forse la più autorevole delle commentatrici citate, secondo la quale serve una lotta contro “la cultura patriarcale”. Le sentenze non devono essere educative: sono le pene che devono esserlo, e se non piace (o non funziona) basta cambiare l’articolo 27 e trasformare la funzione del carcere in “retributiva”, com’è negli Stati Uniti, dove non ha senso prevedere indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari: ma basta dirlo, e allora ditelo. La nostra legge e la nostra Costituzione (sempre lui, l’articolo 27) dicono che il carcere sarebbe teso a scoraggiare le recidive, cioè a convincere che di delinquere non valga la pena: se non piace, basta trasformare la galera in una punizione o in un impedimento fisico a delinquere (all’americana, appunto) e farla finita con indulti e semilibertà e condizionali e permessi vari, e non si deve andare per il sottile neanche con le perizie psichiatriche. Infine, a proposito di arretramenti o progressi culturali, va fatto sull’espressione “femminicidio”; se andate su un qualsiasi motore di ricerca, scoprirete che un sacco di gente si chiede a quanto ammonti la pena per femminicidio: considerarla una battaglia vinta, beninteso solo “culturale”. Como. Manca il braccialetto elettronico, in due restano in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 gennaio 2025 Un nuovo capitolo si aggiunge alla saga dei braccialetti elettronici, uno strumento utile come alternativa alla custodia cautelare, ma che, troppo spesso, si rivela un’illusione. A denunciarlo è l’avvocata Annalisa Abate del foro di Como, che in una lettera al nostro giornale ha raccontato la vicenda dei suoi due assistiti. Entrambi i giovani, imputati in procedimenti differenti, hanno visto sostituire la custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, una misura ritenuta dal giudice più adeguata alla gravità dei fatti contestati. Tuttavia, le attese per l’installazione del dispositivo si sono protratte per settimane. “Situazione già di per sé inaccettabile”, scrive l’avvocata Abate, sottolineando come la libertà personale di due persone meritevoli di una misura meno afflittiva sia stata sacrificata per inefficienze tecniche. L’avvocata aggiunge che, dopo un’attesa di tre settimane, si è consumata l’ennesima beffa: i due imputati sono stati trasferiti presso le loro abitazioni dalle forze dell’ordine solo per scoprire che l’installazione del braccialetto non era possibile “per motivi logistici”. E così “dopo aver assaporato per un istante il ritorno tra le mura domestiche, i miei assistiti sono stati immediatamente ricondotti nelle carceri di provenienza”, prosegue l’avvocata. Un’esperienza destabilizzante che, oltre a prolungare ingiustamente la detenzione, umilia profondamente coloro che si trovano già in una condizione di fragilità. Il caso evidenzia non solo l’inadeguatezza del sistema dei braccialetti elettronici ma anche una preoccupante indifferenza verso i diritti fondamentali dei detenuti. La società incaricata della fornitura dei dispositivi, vincitrice della gara d’appalto, non ha ancora comunicato una nuova data per l’installazione, lasciando i due giovani in un limbo giudiziario. L’avvocata Abate chiede un intervento immediato delle autorità competenti per risolvere questa situazione paradossale, sottolineando come la libertà personale non possa essere “ostaggio di problematiche tecniche o logistiche”. Il caso solleva interrogativi più ampi sulla gestione delle misure alternative alla detenzione e sull’efficienza del sistema giudiziario italiano nel suo complesso. La vicenda mette in luce come il principio del minor sacrificio necessario della libertà personale, cardine del nostro sistema costituzionale, rischi di essere compromesso da inefficienze amministrative e tecniche che potrebbero e dovrebbero essere evitate con una migliore organizzazione del servizio. Uno dei passaggi fondamentali verso un maggiore uso dei braccialetti elettronici è stata la legge 47 del 2015, che ha disposto che le procedure elettroniche di controllo venissero sempre applicate, salvo nei casi in cui il giudice non le ritenga necessarie. Prima del 2015 il braccialetto elettronico era quindi considerato un’eccezione, da quel momento avrebbe dovuto diventare la norma. Fino a qualche anno fa, ci sono stati numerosi problemi anche legati al ritardo della procedura della gara d’appalto, come segnalò Il Dubbio, e a seguire, altri problemi legati alla scarsità dei braccialetti elettronici (questione che non dipese in realtà da Fastweb, la ditta vincente, ma dal Ministero degli Interni), fino ad arrivare nel 2020 con il decreto Cura Italia che aumentò la richiesta di attivazione. Il 28 dicembre 2022, l’Amministrazione dell’Interno ha stipulato il contratto numero 30092, in vigore dal 1° gennaio 2023, per un servizio di “monitoraggio di soggetti mediante l’utilizzo di strumenti di sorveglianza elettronici, con servizi di monitoraggio, manutenzione correttiva ed evolutiva, nonché formazione, per un periodo di 45 mesi”, al costo di 15.599.125 euro esclusa IVA. Durante la durata del contratto, l’Amministrazione non assume la proprietà dei dispositivi, ma paga un compenso per l’utilizzo singolo, fissato a 139 euro esclusa IVA. In linea con il precedente accordo (stipulato il 14 dicembre 2017 dall’Amministrazione dell’Interno con un Raggruppamento Temporaneo di Imprese - RTI composto da Fastweb e Vitrociset, prorogato fino alla fine del 2022), il nuovo contratto prevede l’attivazione di 1.000 dispositivi al mese, con la possibilità di utilizzarne fino al 20% in più, per un totale di 1.200 dispositivi. Va sottolineato che per utilizzo si intende l’intero ciclo di vita di un braccialetto associato a un soggetto destinatario del provvedimento giudiziario, comprensivo dell’approvvigionamento, la distribuzione, l’attivazione, la manutenzione e la disattivazione del dispositivo. Ora però, il caso segnalato dall’avvocata Annalisa solleva altri interrogativi, evidenziando come la mancata installazione del braccialetto elettronico non debba essere liquidata come un episodio isolato o, peggio, come una prassi ricorrente. Padova. Criminalità, il prefetto: “Istituiamo le zone rosse”. È la prima città in Veneto di Davide D’Attino Corriere del Veneto, 15 gennaio 2025 Il prefetto Forlenza: “Dossier al questore”. Si tratta di applicare le nuove norme volute da ministro dell’Interno Piantedosi. Il sindaco Giordani: “Si decide insieme”. Se nei giorni scorsi i suoi colleghi di Venezia (Darco Pellos) e di Treviso (Angelo Sidoti) avevano mostrato una certa prudenza, uno valutandone l’adozione soltanto in determinati periodi dell’anno e l’altro preferendo parlare di aree “ad alta sorveglianza”, il prefetto di Padova, Giuseppe Forlenza, è andato subito al punto, di fatto annunciando l’istituzione delle cosiddette zone rosse. Cioè quei luoghi cittadini in cui, su indicazione del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, può essere disposto il divieto di accesso a soggetti ritenuti “pericolosi” o che risultano denunciati o condannati (anche con sentenza non definitiva) per reati contro la persona o il patrimonio. Aree, insomma, in cui è prevista un’applicazione più tempestiva e severa del Daspo urbano, strumento che, proprio a Padova, è già in vigore da più di sei anni all’interno delle mura cinquecentesche. Malgrado nove giorni fa, in un’intervista al nostro giornale, avesse definito il provvedimento “non necessario”, martedì 14 gennaio il prefetto Forlenza ha appunto chiesto al questore Marco Odorisio “di individuare e delimitare le aree più adatte e più bisognose di interventi eccezionali - si legge nella nota diffusa da Palazzo Santo Stefano - partendo da quelle già da mesi oggetto di sistematici controlli interforze”. Quindi, “i risultati dell’istruttoria e l’individuazione delle aree saranno oggetto di analisi condivisa in sede di Cosp (il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, ndr), anche alla presenza dei rappresentanti degli enti locali interessati dagli eventuali provvedimenti istitutivi delle cosiddette zone rosse”. “Il ministero dell’Interno - ha poi commentato lo stesso Forlenza - ci ha dotato di un nuovo e utile strumento col quale incidere nelle aree maggiormente esposte ai fenomeni di criminalità diffusa. E dunque all’esito delle analisi delle forze di polizia e dopo aver condiviso i risultati dell’istruttoria con gli enti locali interessati - ha spiegato il prefetto di Padova, in carica da poco più di tre mesi - si valuterà l’adozione dei provvedimenti necessari a istituire le cosiddette zone rosse. È infatti nostro dovere supportare l’eccellente lavoro delle forze di polizia con ogni strumento, al fine di migliorare il senso di sicurezza dei cittadini”. In sostanza, a meno d’imprevedibili dietrofront, Padova si appresta a diventare la prima città del Veneto in cui troveranno applicazione le nuove misure introdotte dal ministro Piantedosi. Già, ma dove potrebbero essere istituite queste zone rosse? Di certo nell’area della stazione ferroviaria, cioè il comparto delimitato dal cavalcavia Borgomagno, via Gozzi, via Trieste e viale Codalunga, poi nei quartieri Arcella, Stanga e Guizza, poi ancora nelle tre principali piazze del centro storico (Erbe, Frutti e Signori) e dopo nel rione universitario del Portello e lungo gli argini del canale Piovego. Bene, e il sindaco Sergio Giordani (al timone da sette anni e mezzo a capo di una coalizione di centrosinistra) che ne pensa? “Il prefetto - si è limitato a dire, facendo forse trasparire una certa sorpresa - ha correttamente annunciato un Cosp. E quindi, in quella sede avremo modo di capire meglio lo strumento e portare il nostro contributo”. Di tutt’altro avviso, invece, il senatore leghista padovano Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia: “Appoggio la decisione del prefetto, ogni iniziativa che punta ad aumentare la sicurezza delle persone e facilitare il lavoro delle forze dell’ordine è benvenuta”. Per la cronaca, negli ultimi tre mesi, nelle sole quattro città in cui le zone rosse sono già in vigore (Milano, Bologna, Firenze e Napoli), sono stati complessivamente controllati quasi 25 mila soggetti ed emessi circa 230 ordini di allontanamento. Vasto (Ch). Scuola e carcere: partito il progetto a Torre Sinello chietitoday.it, 15 gennaio 2025 Al via a Vasto il progetto “La scuola entra in carcere” per abbattere pregiudizi e promuovere la legalità, iniziativa promossa dal polo liceale “Pantini-Pudente” in collaborazione con l’associazione Libera e l’assessorato alle Politiche Giovanili e Istruzione. Si tratta di un percorso educativo volto a promuovere la cultura della legalità e la consapevolezza sociale tra li studenti e le studentesse. Il progetto è partito nella mattinata di ieri, 14 gennaio, nella Casa Lavoro in contrada Torre Sinello dove sono state consegnate delle copie del libro di Michela Murgia dal titolo “Stai zitta” donate dal progetto Giovani rappresentato da Pierluigi Garone e Giorgia Berardi. Una parete all’interno del carcere sarà arricchita da alcune frasi del libro, che saranno opportunamente selezionate dagli studenti e dalle studentesse insieme agli internati della Casa Lavoro. Inoltre, lo spazio sarà arricchito da una panchina. Il programma prevede incontri con i detenuti, volontari e professionisti del settore, laboratori di scrittura e arti visive ed un confronto diretto con le realtà che orbitano intorno al sistema carcerario per approfondire le tante problematiche legate alla detenzione. Un’attenzione particolare sarà dedicata ai temi della criminalità organizzata, dei femminicidi e del reinserimento post-detenzione. “Un’opportunità - dichiara il sindaco Francesco Menna per rafforzare il legame tra scuola e comunità, promuovendo una riflessione profonda sui valori della giustizia, dell’inclusione e della solidarietà. Educare le nuove generazioni alla legalità significa costruire le basi per una società più consapevole e responsabile, capace di superare pregiudizi e favorire il reinserimento di chi purtroppo ha commesso errori”. “Questa esperienza - secondo l’assessora alle Politiche Giovanili e all’Istruzione Paola Cianci - propone di sensibilizzare le nuove generazioni sul valore della legalità e della responsabilità personale, stimolando il dialogo tra scuola, istituzioni e comunità carceraria per un cambiamento culturale concreto e duraturo. Sarà un lavoro di approfondimento e riflessione sui temi della giustizia, della devianza e del reinserimento sociale, superando stereotipi e luoghi comuni”. Pavia. Il cappellano del carcere minorile Beccaria: “I ragazzi in crisi vanno ascoltati” La Provincia Pavese, 15 gennaio 2025 L’incontro organizzato al Sacro Cuore con il direttore Caritas don Tassone. “Quando i ragazzi si sentono ascoltati davvero e capiscono che non li si vuole ingannare, ma anzi li si vuole aiutare a rileggere insieme la loro storia, si risveglia in loro una coscienza. Da lì nasce la capacità di scegliere il bene e di cambiare”. Lo ha sottolineato don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano, intervenendo a Pavia a un incontro organizzato in occasione della festa di San Mauro. L’evento, ospitato alla cappella del Sacro Cuore, si intitolava “Non esistono ragazzi cattivi, Come accompagnare i giovani nel cammino verso il compimento della loro umanità”. Don Burgio, fondatore della comunità Kayros, dialogando con il direttore della Caritas di Pavia don Franco Tassone, ha offerto uno sguardo sul mondo dei giovani che affollano il carcere minorile Beccaria. Nell’incontro moderato dal professor Paolo Ceroni ha descritto una realtà complessa e variegata: da minori stranieri non accompagnati con progetti migratori fragili, a ragazzi di seconda e terza generazione, spesso in bilico tra origini culturali e integrazione italiana. Non mancano giovani provenienti da contesti agiati, che manifestano un disagio esistenziale legato alla mancanza di senso e prospettive per il futuro. Don Burgio ha sottolineato come molti giovani siano emotivamente fragili e incapaci di affrontare temi fondamentali come il dolore e la morte, che spesso emergono in modo drammatico attraverso comportamenti criminali. Ha anche messo in dubbio l’efficacia delle pene severe come deterrente, affermando che molti ragazzi finiscono in carcere in totale incoscienza, senza la capacità di valutare le conseguenze delle loro azioni. La soluzione, secondo don Burgio, non risiede nel mero inasprimento delle norme, ma in un approccio basato sull’ascolto profondo e sul dialogo. Cremona. Gli studenti incontrano don Musa, cappellano del carcere mantovauno.it, 15 gennaio 2025 “Un racconto di una profondità straordinaria”. “Indimenticabile testimonianza”. Sono alcuni dei commenti a caldo raccolti dai ragazzi che, lo scorso venerdì 10 gennaio, presso l’Aula Magna della scuola secondaria di I grado di Bozzolo, hanno partecipato all’incontro con don Roberto Musa, cappellano del carcere di Cremona da 15 anni. Ad attenderlo, insieme alla Dirigente Scolastica, Elena Rizzardelli e al vicario del paese, don Francesco Cortellini, era tutta la redazione di Increscendo, il magazine online, interamente realizzato dagli alunni, che - da ormai un decennio - costituisce uno degli architravi progettuali dell’Offerta Formativa dell’Istituto Comprensivo “Scipione Gonzaga”. Una compagine di oltre venti alunni appartenenti alle tre classi della secondaria che, a partire dai loro direttori di quest’anno, Ginevra Ravagna e Alessandro Micheloni, avevano fortemente voluto quest’incontro. Un’esigenza, la loro, scaturita da appassionati dibattiti nati e sviluppatisi nelle riunioni settimanali del magazine, a seguito della lettura e discussione di diversi articoli di cronaca: l’ergastolo a Turetta, la detenzione di Cecilia Sala in un carcere iraniano, i tanti casi di devianza giovanile, i troppi suicidi nelle carceri italiane, molti dei quali riguardanti giovani e giovanissimi. Più in generale, riflessioni legate alle idee di pena e di giustizia, di detenzione come periodo utile alla riabilitazione della persona ma anche come possibile ansa di rancore e di irriducibile solitudine. Quasi due ore di scambio, di condivisione di una pellicola esistenziale che il sacerdote cremonese - incalzato dai tanti spunti e domande rivoltegli dai ragazzi - ha srotolato con grande sincerità, offrendone dettagli e soffermandosi su frammenti particolarmente significativi. La chiamata del vescovo a ricoprire il ruolo, l’impatto con la realtà carceraria, la bellezza e la complessità dei tanti incontri con le persone gravitanti attorno alala dimensione del carcere, dai detenuti ai famigliari al personale addetto. L’intervista completa sarà pubblicata sul primo numero annuale del magazine, a cui la redazione sta lavorando in vista della conferenza stampa attesa nell’ultima settimana di febbraio, come sempre alla presenza di rappresentanti delle testate giornalistiche locali, sindaci, assessori, genitori e compagni. Foggia. Presentazione del progetto musicale che coinvolge i detenuti della Casa circondariale di Erika Szilagyi chiesavaldese.org, 15 gennaio 2025 Il 15 gennaio il progetto “Cantare in libertà” della Chiesa valdese di Foggia sarà presentato al Senato della Repubblica. Il progetto vede il coinvolgimento diretto dei detenuti della Casa Circondariale di Foggia e nasce dalla visione del canto come strumento di liberazione e crescita personale, una disciplina che facilita un percorso di sviluppo emotivo e rieducativo. Durante le sessioni settimanali, infatti, i partecipanti hanno l’opportunità di esplorare ed esprimere le proprie emozioni attraverso il corpo e la voce. Il progetto è nato ispirandosi ai principi di solidarietà del Vangelo di Matteo (Mt. 25: 35 - 36), che da tempo interrogano la comunità, la quale ha sempre sostenuto progetti diaconali per la raccolta e distribuzione di beni di prima necessità ai bisognosi. Tuttavia, affrontare il tema del carcere è stato più complesso, sollevando domande e giudizi sul concetto di giustizia e punizione. “Nel gennaio 2020 - raccontano gli organizzatori - il Consiglio di chiesa, con il pastore Francesco Marfè, decise di approfondire il tema della giustizia riparativa includendo nel suo progetto culturale, finanziato con fondi dell’Otto per Mille della Chiesa valdese, una conferenza pubblica. In questa occasione conoscemmo Annalisa Graziano, autrice del libro “Colpevoli”, responsabile della promozione del volontariato penitenziario del Centro di servizio al volontariato (CSV) di Foggia e successivamente la dottoressa Valentini, responsabile dell’area rieducativa della Casa Circondariale di Foggia a cui nel febbraio del 2023 presentammo la bozza del nostro progetto di diaconia comunitaria. Nel giugno 2023 il progetto si concretizzò grazie alla sinergia di diverse realtà locali (CSV Foggia, Ufficio esecuzione esterna di Foggia, il cantante e formatore Valerio Zelli, frontman della storica band ORO, e l’etichetta discografica Music Records Italy). Il successo è stato possibile grazie al forte sostegno della Casa Circondariale, a partire dalla direttrice Giulia Magliuolo; ma vanno nominati, fra gli altri, anche il capoarea Maria Giovanna Valentini e il poliziotto penitenziario Michele Giorgio oltre, naturalmente, l’entusiasmo dei detenuti stessi. Dopo il successo iniziale, è nato un secondo progetto con nuovi partner, come la Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, che ha portato alla creazione di uno studio di registrazione all’interno del carcere e all’incisione di due brani musicali. Visitare un carcere è un’esperienza molto profonda, è un vero esercizio spirituale. Bisogna lasciare oltre i cancelli non solo i nostri oggetti personali ma soprattutto tutti nostri pregiudizi e superando gli otto cancelli (perché per arrivare fino al teatro ce ne sono otto) incontrare i detenuti con uno sguardo compassionevole e con un cuore aperto all’ascolto. La musica si è rivelata uno strumento potente, offrendo ai detenuti due ore settimanali di libertà oltre le sbarre. Questa esperienza per la comunità valdese di Foggia, oggi guidata dal pastore Maliq Meda, continuerà a essere la testimonianza all’Evangelo del Signore. Otto cancelli possono limitare la libertà del corpo, non dell’anima”. Genova. Il documentario su carcere e rieducazione “Qui è altrove” al cinema Sivori genovatoday.it, 15 gennaio 2025 Il carcere e la rieducazione delle persone detenute, principio indicato nell’articolo 27 della Costituzione, sono al centro del film “Qui è altrove: buchi nella realtà” che mercoledì 15 gennaio 2025, alle ore 21, è in proiezione al cinema Sivori (salita S. Caterina 54 r., tel. 010 55320564) di Genova. A presentarlo sono il regista Gianfranco Pannone e Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza che quel principio di rieducazione mette in pratica da 35 anni nel carcere di Volterra. Modera l’incontro Andrea Porcheddu drammaturgo del Teatro Nazionale di Genova. Presenti alla proiezione anche Cinzia de Felice de La Compagnia della Fortezza, Mirella Cannata e Carlo Imparato di Teatro Necessario, compagnia attiva a Genova, fondatrice del Teatro dell’Arca “Sandro Baldacci” nella Casa Circondariale di Genova Marassi. Il documentario, presentato al 65° Festival dei Popoli di Firenze, documenta l’esperienza civile e artistica della Compagnia della Fortezza. Pannone ha seguito le prove di Punzo con i suoi attori nel carcere di Volterra fino al debutto di “Atlantis cap. 1 - La permanenza”. Lo spettacolo si inserisce nel più ampio progetto “Per Aspera ad Astra”, che riunisce i registi provenienti da altre esperienze di teatro-carcere attivi in Italia, nel segno di un’utopia possibile. “Qui è altrove - dichiara Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per gli agenti di polizia penitenziaria. L’esperienza di Volterra, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: un altro carcere è possibile”. “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili - spiega Armando Punzo - raggiungere la luce di un’utopia concreta, che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di Teatro in Carcere. Eppure è ormai evidente che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. È una visione di speranza concreta. Trovo straordinario che il film di Gianfranco Pannone, “Qui è altrove”, provi a darne precisa e poetica testimonianza”. Sicurezza, il vecchio e il nuovo vaglio del Quirinale di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2025 Su un piano ci sono le discussioni e le scelte della maggioranza, su un altro le osservazioni del Quirinale. Appunti che, per la verità, risalgono a prima di Natale e su cui era stata trovata un’intesa con Palazzo Chigi ma i recenti fatti di cronaca hanno dato nuovo impulso riportando in primo piano il Ddl sicurezza. In realtà, l’impulso si starebbe traducendo anche in alcune novità di una certa rilevanza come lo scudo penale per le forze dell’ordine a cui starebbe pensando il Governo e pure il gratuito patrocinio (per atti svolti durante l’esercizio delle proprie funzioni) proposto dalla Lega. Al Colle non sono ancora arrivate le norme ma di certo - dopo il vecchio esame - se ne aprirebbe uno nuovo. E particolarmente scrupoloso visto che - come è noto - la legge è uguale per tutti. Ecco, come si concilia questo cardine giuridico con la creazione di una categoria speciale? Dubbi che evidentemente sono circolati se ieri sera da Chigi hanno fatto sapere che non si tratterebbe di uno scudo ma di evitare l’automatica iscrizione nel registro degli indagati se il poliziotto usa l’arma nell’esercizio delle sue funzioni. Tra l’altro non entrerà nel Ddl. Comunque sia, la norma dovrà essere concepita con particolare perizia per evitare di creare corsie speciali per le forze dell’ordine rispetto ad altri lavoratori pubblici come i medici, per esempio. Evidente che le proposte sono il segno della competizione che Lega e FdI giocano sulla sicurezza. Se ne capisce, quindi, la ragione politica soprattutto da parte di Salvini. È così che è spuntato il gratuito patrocinio ma si vedrà come arriverà il testo visto che - pure qui - il vaglio del Colle sarà piuttosto approfondito dopo i dubbi già sollevati in ambienti giuridici. Sembra, insomma, che il cantiere sul Ddl e dintorni resti aperto mentre quello vecchio era stato chiuso con un accordo sui 5 paletti messi dal Colle. Dal “no” a negare le sim telefoniche ai migranti sbarcati; al carcere per le donne incinta così come il reato per la resistenza passiva in carcere mentre atti di protesta non violenti possono essere sanzionati solo se c’è un pericolo imminente di sicurezza come le rivolte o le evasioni. Infine altre due misure erano finite sotto la lente del Quirinale: la lista delle opere pubbliche strategiche contro cui diventa reato manifestare che deve essere stilata dal Parlamento e non da un organo amministrativo; in ultimo, non si possono cancellare le attenuanti lasciando solo le aggravanti in caso di violenze contro la polizia. A quanto pare, però, la maggioranza sta scrivendo una pagina nuova. Il Governo non dimentichi il dovere della legalità di Flavia Perina La Stampa, 15 gennaio 2025 Dice una manifestante: noi ragazze costrette a spogliarci, a togliere gli slip e a fare piegamenti. Dice la Questura di Brescia: “Corrette procedure operative”, quel tipo di perquisizione estrema c’è stata ma è legittima e - sembra di capire - ha riguardato tutti, anche i fermati maschi, al fine di “rinvenire eventuali oggetti pericolosi”. E tuttavia sarebbe meglio chiarire (dovrà comunque farlo il ministro Matteo Piantedosi, piovono interrogazioni parlamentari) se davvero c’erano esigenze di sicurezza nel denudare i dimostranti, pratica normalmente riservata agli spacciatori di droga, o se quel surplus di zelo non configuri un indebito atto di umiliazione. Meglio per le forze dell’ordine, meglio per il Governo, meglio soprattutto per la destra. Meglio perché, mentre si prepara l’ultimo passaggio parlamentare del disegno di legge sicurezza (trenta tra nuovi reati e aggravanti) e si lavora all’idea di non iscrivere al registro degli indagati gli agenti sospettati di abusi, sarebbe bene evitare il sospetto di un “liberi tutti” nella repressione del dissenso non autorizzato, sgradito, gruppettaro. E evidente che questo tipo di protesta sta crescendo e forse cerca l’escalation, come dimostrano scontri e devastazioni nelle recenti manifestazioni per Ramy Elgaml, il ragazzo di 19 anni morto durante un inseguimento con i carabinieri a Milano. Ma la risposta di uno Stato serio e deciso a evitare una spirale violenta può essere solo un’operazione di verità rapida, ampia, convincente, su ogni episodio che chiami in causa il monopolio nell’uso della forza. Chi lo detiene non deve, mai, avere la tentazione di abusarne. Ed è la politica a dover creare le condizioni perché quella tentazione sia cancellata e il privilegio di poter legittimamente fermare, trattenere, perquisire, denunciare, inseguire, non si trasformi in ritorsione o gratuita violenza. È un’avvertenza che la destra dovrebbe avere ben presente. Ne restò gravemente scottata al G8 di Genova, la “macelleria messicana” che ha oscurato per anni il racconto legge e ordine del mondo conservatore e ha portato uomini dello Stato sul banco degli imputati con accuse degradanti per un Paese democratico. Anche lì agì l’idea che sarebbe stato tollerato l’attraversamento del confine tra ordine pubblico e sopruso, con conseguenze gravissime per la credibilità delle istituzioni. Oggi non sono più quei tempi, non c’è più la temperie dei grandi eventi di massa, i black bloc, l’assalto organizzato alle linee rosse e alle forze dell’ordine, e anche per questo: un modello di gestione della protesta, anche estrema, di sicuro può essere trovato senza sfidare i limiti dello Stato di diritto e senza contribuire all’escalation della rabbia. Alla manifestazione di Bologna davanti alla fabbrica Leonardo, la ex Breda, hanno partecipato una ventina di persone. Sette si sono incatenate ai cancelli. Una si è arrampicata sul palo e ha sostituito la bandiera dell’azienda con quella palestinese. Un’altra ha scritto sul muro Palestina Libera. Nessuno era armato. È stato spiegato uno striscione. Ventidue dimostranti sono stati pacificamente identificati, fermati e trattenuti per circa sette ore in Questura. Nulla di preoccupante per l’ordine pubblico, ordinaria amministrazione in ogni Paese democratico. Sarebbe bene riconoscerlo pubblicamente: abbiamo tutti gli strumenti per sanzionare l’illegalità senza inutili eccessi, senza neanche sfiorare il limite che separa l’applicazione della legge dall’abuso di potere. La censura è un alibi: così Zuckerberg aiuta la disinformazione di Vitalba Azzollini* Il Domani, 15 gennaio 2025 Secondo il ceo di Meta, che ha annunciato la cessazione dei programmi di fact-checking sulle sue piattaforme, in Ue le leggi istituzionalizzano la censura, obbligando i social a prevenire la diffusione di contenuti che promuovono odio e disinformazione. Parole che necessitano di essere inquadrate sul piano del diritto. Mark Zuckerberg ha annunciato la cessazione dei programmi di fact-checking, cioè di verifica dei contenuti, su Facebook e Instagram. La decisione riguarda per ora solo gli Stati Uniti, anche se è probabile che alcuni post non più sottoposti a un vaglio in Usa arrivino comunque in Europa. La delimitazione geografica, quando si parla di contenuti virtuali, non è effettivamente praticabile. Secondo Zuckerberg, in Ue le leggi istituzionalizzano la censura, obbligando le piattaforme social a prevenire la diffusione di contenuti che promuovono odio e disinformazione. Le parole del ceo di Meta necessitano di essere inquadrate sul piano del diritto. Il Regolamento europeo sui servizi digitali, Digital Service Act (Dsa), impone obblighi a tutte le piattaforme che offrono servizi online. In particolare, quelle di più grandi dimensioni devono identificare, analizzare e valutare i rischi sistemici legati ai loro servizi, con riguardo, tra l’altro, alla diffusione di disinformazione e di contenuti illegali, che possono mettere in pericolo valori quali la libertà di espressione, il pluralismo dei media, la sicurezza pubblica, il corretto svolgimento dei processi elettorali, la protezione dei minori. Una volta individuati i rischi e comunicati alla Commissione, le piattaforme sono tenute a realizzare “misure di attenuazione ragionevoli, proporzionate ed efficaci, adattate ai rischi sistemici specifici”. Il Dsa non “istituzionalizza la censura”, come dice Zuckerberg, ma impone trasparenza sugli strumenti di moderazione dei contenuti e sulla loro adeguatezza. Se Meta vuole dismettere il fact-checking e “affidarsi completamente alle note della comunità, può farlo”, come ha affermato Thomas Regnier, portavoce della Commissione Ue. La piattaforma è libera di scegliere il sistema da usare, purché esso sia “efficace”. Va detto che, nell’aprile 2024, in vista delle elezioni europee, la Commissione europea ha avviato un’indagine contro Meta per sospette violazioni del Dsa, tra l’altro per presunte carenze nel contrasto alla disinformazione e nei meccanismi di segnalazione. La piattaforma avrebbe violato il regolamento europeo, con riguardo agli obblighi di trasparenza e di mitigazione dei rischi per il dibattito pubblico e i processi elettorali. Non solo a Meta non è imposta alcuna censura, ma anzi dal 2016 l’azienda si è volontariamente dotata di un programma di verifica dei contenuti, affidandolo a organizzazioni indipendenti e quotidiani accreditati dall’International Fact-Checking Network. Nel 2018, in attuazione di una comunicazione dell’Ue sulla disinformazione, rappresentanti delle piattaforme online, inclusa Meta, hanno elaborato e sottoscritto un codice di autoregolamentazione sul medesimo tema, che prevede ad esempio la trasparenza dei messaggi pubblicitari di natura politica e il contrasto a profili falsi e “bot”. Nel 2022 il codice è stato “rafforzato” con una gamma più ampia di impegni e misure, lasciando ai firmatari la scelta di quelli cui aderire. Dunque, il tutto si è basato sulla volontarietà. Anche il Dsa, come detto, rimette al gestore della piattaforma la scelta degli strumenti da adottare. Non c’è alcuna censura calata dall’alto. Le note della comunità possono essere efficaci per contrastare la disinformazione? Una risposta in concreto è offerta dal funzionamento delle stesse su X, già Twitter, che le adotta da tempo. In occasione delle elezioni statunitensi del 2024, Poynter ha rilevato che le community notes di X avevano un effetto oltremodo marginale; l’organizzazione Science Feedback, membro dell’Efcsn, associazione indipendente di organizzazioni europee di verifica dei fatti, ha reso noto che la maggior parte dei contenuti su X che i fact-checker avevano qualificato come falsi o fuorvianti non presentava segni visibili di moderazione. Nel dicembre 2023 la Commissione Ue ha aperto un’indagine su X, avente a oggetto, tra l’altro, “l’efficacia delle misure adottate per contrastare la manipolazione delle informazioni”, e in particolare il “sistema di note della collettività”. Il vertice di Meta avrebbe fatto meglio ad attendere il responso della Commissione. Zuckerberg ha pure dismesso l’uso di programmi per favorire inclusività e diversità, in quanto “antiquati” rispetto ai “nuovi scenari”. Si tratta di cambiamenti che avvengono in nome del free speech, ma - come spiegato su queste pagine - evidentemente la ragione politica, oltre a quella economica, conta più di tutto il resto. Il bilanciamento tra libertà di espressione e tutela di altri diritti e libertà si sta squilibrando in modo preoccupante. *Giurista La polizia recluta gli studenti in classe. “A scuola c’è il bacino delle vocazioni” di Valerio Cuccaroni Il Domani, 15 gennaio 2025 L’annuncio del capo della Polizia Vittorio Pisani: nelle superiori c’è un “bacino delle vocazioni”. E annuncia l’avvio di “percorsi formativi”. Per la segretaria della Flc Cgil l’obiettivo è sostituire il lavoro dei docenti sull’educazione civica con soggetti esterni. Continua la propaganda militarista e securitaria all’interno delle scuole. Vittorio Pisani, nominato capo della Polizia dal governo Meloni nel maggio 2023, ha annunciato l’assunzione di 20mila agenti entro il 2028, precisando che il reclutamento punterà sulle scuole, con l’organizzazione di “percorsi formativi”. Durante il discorso di inizio anno, tenuto alla questura di Napoli e in collegamento con tutte le altre sedi italiane della polizia, Pisani ha detto a chiare lettere: “La nostra attenzione è focalizzata sui giovani e fin dalle scuole medie superiori lavoreremo per ampliare il bacino delle vocazioni attraverso percorsi formativi”. “Dunque riflettori accesi sulle scuole”, ha concluso, “non solo per sostenere i ragazzi su percorsi di legalità ma per cercare i poliziotti del futuro”. L’annuncio ha il sapore di un’operazione di propaganda, come dimostra la situazione specifica del corpo di polizia, il cui contratto di lavoro è stato siglato “con un ritardo di oltre mille giorni, con aumenti salariali di appena il 5,78%”, scrive il segretario del sindacato di polizia Silp Cgil Pietro Colapietro in un comunicato del 7 gennaio, “in un contesto in cui il costo della vita è un 17% più alto rispetto al 2021, dopo non aver messo un euro per le assunzioni straordinarie mentre quelle ordinarie non compensano il turn over, dopo aver lasciato irrisolti i temi delle pensioni e degli alloggi, dopo aver addirittura ridotto le risorse destinate nel 2025 al vestiario, alla logistica e agli strumenti operativi”. Dunque, si annunciano assunzioni di poliziotti mentre si tagliano o non si destinano risorse sufficienti per la polizia. Ma quel che importa in questo caso è che la propaganda militarista che strumentalizza studenti minorenni, usando termini e concetti che rinviano alla sfera del sacro, per cui la scuola è concepita come un “bacino delle vocazioni”, con una formazione in classe “per mandare dei messaggi sul nostro lavoro”. Diventare poliziotti, però, non equivale a ordinarsi sacerdoti: non c’è nessuna chiamata dall’alto, nessuna missione di evangelizzazione da compiere. “Le ali della pace” - Una mistificazione che rientra all’interno di una campagna di militarizzazione delle scuole, con decine di esempi di cui Domani ha più volte scritto, e che non teme il paradosso: dal concorso intitolato “L’Italia ripudia la guerra” in cui però si deve esaltare il ruolo del Militare italiano “a tutela della pace”, a sempre nuove iniziative come le conferenze di orientamento proposte per il 2024-2025 dal Comando militare esercito (Cme) della Toscana, che mira a reclutare giovani fanti nelle scuole, indirizzandoli già dopo il biennio alle scuole militari di Napoli e Milano; dall’agenzia di formazione Nissolino Corsi che a studenti e diplomati under 25 ha proposto l’iniziativa “Una divisa sotto l’albero” per ottenere un corso gratuito per entrare in Polizia o nelle Forze Armate; fino al Comando dell’Aeronautica militare di Capodichino “Ugo Niutta” di Napoli che ha intitolato “Le ali della pace” un incontro con gli studenti, previsto per il 24 gennaio prossimo, che coinvolgerà alunni delle scuole primarie e studenti di istituti superiori di Napoli. “Non si può fare a meno di sottolineare come appaia mistificante già dal titolo, “Le ali della pace”, una manifestazione che intende portare scolaresche in visita ad un Comando dell’Aeronautica, col dichiarato intento di far riflettere questi minori sulla “convivenza pacifica fra i popoli”, ma, paradossalmente, in una struttura di natura bellica al servizio della difesa aeronavale non solo italiana ma anche Usa e Nato”, dice Ermete Ferraro, presidente del Movimento Internazionale della Riconciliazione (Mir) e responsabile del Mir Napoli. Il Mir è la più antica organizzazione italiana per la pace e la nonviolenza, fondata in Gran Bretagna nel 1919 come International Fellowship of Reconciliation (Ifor) e introdotta in Italia nel 1952 ad opera dei valdesi Tullio Vinay e Carlo Lupo, insieme ai quaccheri Ruth e Mario Tassoni, da subito in collegamento con Gandhi. “Approccio securitario” - “È da oltre un anno che denunciamo la progressiva militarizzazione nelle scuole e in generale nei luoghi della conoscenza”, conferma la segretaria del sindacato della scuola Flc Cgil, Gianna Fracassi, che precisa: “Abbiamo assistito nel corso degli ultimi mesi a visite guidate fin dalla scuola primaria alle industrie belliche, alternanza scuola/lavoro nelle aziende produttrici di armi, campi estivi con gli Alpini o reparti di élite della Marina, studio della lingua inglese con Marines Usa e protocolli vari di singoli Uffici scolastici regionali con le forze armate”. Per Fracassi, invece, “la scuola è un luogo di pace e deve educare alla pace perché su questo la nostra Costituzione è indiscutibile. La seconda questione è la progressiva svolta autoritaria che si nutre di parole d’ordine e di ossessioni, come quella sulla sicurezza, che è incarnata da tante iniziative del governo e del ministro Valditara”. “L’obiettivo - secondo la segretaria di Flc - è sostituire il lavoro dei docenti sui temi dell’educazione civica con soggetti esterni, sprovvisti di capacità educativa, e soprattutto avulsi dal curricolo formativo delle singole scuole. Lo trovo profondamente sbagliato ed è un’ulteriore conferma del tentativo di imporre ideologicamente un approccio securitario oltre che un profondo atto di disistima nei confronti dei docenti”. Da educazione all’affettività a corsi contro l’infertilità: un’altra occasione persa di Laura Onofri* Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2025 Nell’ultima manovra erano stati trovati 500mila euro, grazie a un emendamento di Riccardo Magi di +Europa, passato con il voto delle opposizioni, destinati all’educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole. Finalmente, abbiamo pensato, qualcosa si sta muovendo dopo le tante parole del ministero dell’Istruzione Valditara, spese anche nell’incontro con Gino Cecchettin per la firma del protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione e la Fondazione Giulia Cecchettin, con l’obiettivo di avviare percorsi educativi nelle scuole per prevenire la violenza contro le donne. Ma la fobia di questa destra per il “gender” ha prevalso ancora una volta e così il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, durante il question time alla Camera, ha spiegato che quei 500mila euro stanziati dalla Legge di Bilancio per promuovere corsi di educazione sessuale e affettiva saranno utilizzati per formare gli insegnanti delle scuole medie e superiori sui temi della prevenzione dell’infertilità. Questo non è il primo provvedimento di una crociata anti gender, che parte da lontano e che la destra, e in particolare la Lega, porta avanti da anni non riuscendo però neanche a esplicitare cosa sia esattamente la cosiddetta “cultura gender” che viene accusata delle più infami nefandezze. Che cosa significa letteralmente gender? Il termine è inglese - la sua traduzione è “genere”. Per Treccani è un “termine introdotto nel contesto delle scienze umane e sociali per designare i molti e complessi modi in cui le differenze tra i sessi acquistano significato e diventano fattori strutturali nell’organizzazione della vita sociale”. Sta quindi ad indicare l’appartenenza di un individuo ad un sesso o ad un altro non tanto sulla base delle differenze di natura biologica, quanto su componenti di natura sociale, culturale e comportamentale, affermando che ogni individuo ha una propria identità di genere che può anche essere differente dal sesso perché è definita dalla percezione che ogni individuo ha di se stesso come maschio o femmina (identità di genere) e il sistema socialmente costruito intorno a quelle identità (ruolo di genere). Ci può quindi non essere corrispondenza tra il corpo in cui si nasce e il modo in cui ci si percepisce e quello in cui ci percepiscono gli altri. Negli ambienti cattolici e dei movimenti antiabortisti e, di conseguenza, delle forze politiche che li sostengono, dietro questa teoria o ideologia del gender ci sarebbe la volontà di distruggere la famiglia tradizionale e di condizionare i ragazzi e le ragazze attraverso i corsi di educazione all’affettività e alla salute sessuale. Si parte da lontano: è dal 2013 che un centinaio di organizzazioni contro i diritti umani, contro i diritti LGBTQ+ provenienti da oltre 30 paesi europei hanno congiuntamente attivato una strategia, Agenda Europa, che include anche l’opposizione alla cosiddetta teoria gender, prima sottotraccia, poi man mano sempre più apertamente. In Italia al Congresso mondiale delle famiglie tenutosi a Verona nel 2019 i fondamentalisti sono venuti allo scoperto, forti del fatto che per la prima volta la conferenza è stata ospitata da un paese fondatore dell’Unione Europea con il patrocinio di una consistente ala dell’allora governo gialloverde. In quel consesso la loro strategia per salvaguardare i valori familiari di stampo conservatore e fare opposizione all’aborto, al divorzio e all’omosessualità, e appunto alla teoria gender, nel corso degli anni ha assunto un valore sempre più politico. Un lavoro di lobby portato avanti con determinazione in questi anni: newsletter, petizioni, mail a deputati, senatori e membri del governo, una advocacy costruita mediante incontri tra esponenti di questi movimenti e i decisori politici sino ad arrivare a sostenere alle elezioni e invitare a votare quei candidati e candidate che avessero sottoscritto il loro manifesto di impegni valoriali che aveva come focus la difesa della vita umana e quindi il contrasto all’aborto, la promozione della libertà educativa dei genitori e l’opposizione all’ideologia gender e all’agenda Lgbtqia+, in particolare nelle scuole. Negli ultimi anni, con l’avvento al governo della destra, l’assalto di questi movimenti antiabortisti contro i diritti di scelta si è fatto sempre più aggressivo e senza pudore. A settembre di quest’anno la maggioranza ha approvato in Commissione Cultura alla Camera, la risoluzione più volte annunciata dalla Lega contro la “propaganda gender nelle scuole” al grido di “Noi difendiamo i bambini”. A dare manforte a marzo era stato anche il Papa che parlando al Convegno internazionale “Uomo-Donna immagine di Dio” aveva definito “l’ideologia gender” come “il pericolo più brutto che annulla le differenze e rende tutto uguale”. In che cosa poi esattamente consista questa risoluzione ancora non si è ben capito: sappiamo sicuramente che è il primo documento ufficiale del Parlamento italiano che fa uso del termine “ideologia gender” che peraltro non trova riscontro in alcuna teoria scientifica o accademica e che vuole, di fatto, limitare ogni forma di educazione e discussione sulle questioni di genere e sugli stereotipi strumentalizzando l’argomento e ostacolando progetti che sono alla base del contrasto alla violenza contro le donne. Vengono invece accreditati e dati fondi a organizzazioni vicine ai movimenti antiabortisti che nelle scuole pubbliche tengono corsi di educazione sessuale e affettiva di matrice cattolica che danno informazioni sulla contraccezione prive di fondamenta scientifiche, come ci evidenzia Maria Cristina Valsecchi in questo interessante articolo, con l’unico obiettivo di promuovere l’astinenza sessuale. Non stupisce quindi l’ultimo “blitz” della destra di destinare mezzo milione di euro, anziché a corsi rivolti a studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado sulla salute sessuale e sull’educazione sessuale e affettiva, alla formazione degli insegnanti prioritariamente sulle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione dell’infertilità. Il ministro ha peraltro ribadito che le decisioni del governo sono conformi alle deliberazioni parlamentari, come se parlare di educazione all’affettività e alla sessualità fosse uguale che parlare di come prevenire l’infertilità! Insomma come dice Elisa Ercoli di Differenza donna, che da anni aiuta le donne vittime di violenza “Non hanno idea. Questa situazione è la dimostrazione di quanto anche i ministri e le ministre abbiano bisogno di formazione e di spazi di riflessione su questi temi”. Ancora una volta si è persa un’occasione per realizzare in concreto quello che ad ogni 25 novembre sentiamo ripetere nei convegni, nelle cerimonie di celebrazione della “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” e cioè che il primo pilastro, previsto anche dalla convenzione di Istanbul, una delle famose 3 P è proprio la prevenzione che si sostanzia con l’educazione all’affettività e alla sessualità e che certo niente ha a che fare con la fertilità. *Attivista e Femminista Venezuela. Chi è Alberto Trentini, l’italiano arrestato. Due mesi senza notizie Il Giorno, 15 gennaio 2025 Il cooperante veneziano è detenuto dallo scorso 15 novembre. L’appello della famiglia al governo italiano: “Ha bisogno di farmaci”. Il Pd presenta un’interrogazione parlamentare. Articolo21 chiama in causa Cecilia Sala: “Pare esserci un doppio standard”. Il Pd insieme all’associazione Articolo 21 chiede di accendere i riflettori sul caso di Alberto Trentini, cittadino italiano, nato a Venezia, arrestato in Venezuela il 15 novembre scorso. Da quel giorno di lui non si è saputo più nulla. Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo hanno presentato un’interrogazione parlamentare, insieme ai colleghi Fabio Porta, Enzo Amendola, Lia Quartapelle e Laura Boldrini, in cui si domanda al governo che iniziative stia prendendo per garantire al connazionale che i suoi “diritti processuali e di detenzione siano garantiti” e per sollecitare l’immediato rientro in Italia. Un appello è stato lanciato al governo italiano anche dalla famiglia tramite l’avvocata Alessandra Ballerini, affinché vengano “posti in essere tutti gli sforzi diplomatici possibili e necessari, aprendo un dialogo costruttivo con le istituzioni venezuelane, per riportare a casa Alberto e garantirne l’incolumità”. L’arresto - Alberto Trentini lavorava in Venezuela come cooperante per una Ong francese ‘Humanity e Inclusion’ che si occupa di assistere disabili. Era arrivato a Caracas il 17 ottobre 2024. Secondo quanto risulta, sarebbe stato fermato a un posto di blocco mentre viaggiava in missione verso Guasdalito il 15 novembre. Sarebbe stato trattenuto e trasferito nella capitale. Oggi, ci risulta “prigioniero” in una “struttura di detenzione - fa sapere la famiglia - senza che gli sia mai stata contestata formalmente nessuna imputazione”. La vicenda di Trentini è sul tavolo della Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh), che il 7 gennaio ha emesso una risoluzione urgente, con la quale si chiede al Venezuela di fornire informazioni immediate sulle condizioni di detenzione di Trentini. L’ong francese H&I ha detto di avere fatto il possibile per la liberazione. In Venezuela vige un regime di privazione dei diritti, come dimostra la raffica di arresti compiuti negli ultimi mesi dal governo di Nicolas Maduro, insediatosi per il terzo mandato dopo elezioni farsa. Formalmente i detenuti sono accusati di terrorismo. Da aggiungere che l’Italia non gode della benevolenza di Caracas che ha tagliato il numero di diplomatici accreditabili presso l’ambasciata italiana, a causa della risposta “ostile” di Roma a Maduro. Veneziano, Alberto Trentini ha una esperienza decennale nella cooperazione internazionale. Laureato alla Ca’ Foscari di Venezia si è poi specializzato all’estero in assistenza umanitaria. In Inghilterra ha preso un master in ingegneria delle acque e della salute: ha lavorato in Sud America, Ethiopia, Nepal, Grecia e Libano con ruoli anche manageriali per varie organizzazioni. La famiglia: “Ha bisogno di farmaci” - La famiglia è preoccupata per lo stato di salute di Trentini, che soffre di ipertensione. Non c’è nessuna garanzia che stia ricevendo la terapia necessaria. “Nessuna notizia ufficiale è mai stata comunicata da nessuna autorità Venezuelana né Italiana e di fatto, da quasi due mesi, nulla sappiamo sulle sorti di Alberto - si legge ancora nella nota della famiglia - tenuto anche conto che soffre di problemi di salute e non ha con sé le medicine né alcun genere di prima necessità. Dal suo arresto ad oggi, a quanto sappiamo, nessuno è riuscito a vederlo, né a parlargli. Neppure il nostro Ambasciatore è riuscito a comunicare con lui né ad avere sue notizie nonostante plurimi tentativi”. Per i familiari “è inaccettabile che cittadini italiani che si trovano a lavorare o visitare altri Paesi con l’unica finalità di contribuire a migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti, si trovino privati delle libertà e dei diritti fondamentali senza poter ricevere nessuna tutela effettiva dal nostro Paese. Confidiamo che la Presidente del Consiglio ed i Ministri interessati, si adoperino con lo stesso impegno e dedizione recentemente dimostrati a tutela di una nostra connazionale, per riportare presto, incolume, Alberto in Italia”. Articolo21: “Trentini e Sala, doppio standard” - Chiede di “rompere il silenzio” su Alberto Trentini anche Beppe Giulietti, il presidente dell’Associazione Articolo21 - fondata tra gli altri dall’ex presidente del Parlamento Europeo Davide Sassoli - che chiama in causa il caso di Cecilia Sala. “Pare esserci un doppio standard - polemizza il giornalista ed ex deputato - Ci appelliamo al governo perché faccia come ha fatto con l’Iran e si occupi di riportare a casa Trentini. L’Ambasciata d’Italia e il Consolato Generale a Caracas, in stretto raccordo con la Farnesina, starebbero seguendo il caso con “richieste urgenti” fatte alle autorità venezuelane attraverso diversi canali. Iran. Salviamo Pakhshan dalla forca di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 15 gennaio 2025 Curda, 40 anni, è stata condannata a morte per aver aiutato donne e bambini sfollati per colpa dello Stato islamico. Anche lei è rinchiusa a Evin. Il caso della nostra connazionale, che si è concluso positivamente, non può esimerci dal denunciare ciò che accade in Iran, dove l’anno scorso si sono contate 1000 esecuzioni. Il ricorso alla Corta Suprema è stato respinto. Pakhshan Azizi è condannata a morte in via definitiva dopo essere stata ritenuta colpevole di “ribellione”. La sua colpa? La donna curda di 40 anni avrebbe aiutato donne e bambini sfollati per colpa dello Stato Islamico e ospitati in campi nel nord-est della Siria e nella regione del Kurdistan iracheno. Dopo l’arresto, avvenuto nell’agosto del 2023, Pakhshan era stata sottoposta a torture e maltrattamenti durante gli interrogatori per indurla a “confessare” legami con gruppi di opposizione curdi, da lei ha ripetutamente negati. È detenuta nell’ala femminile del carcere Evin di Teheran, lo stesso dove è stata rinchiusa Cecilia Sala. La positiva conclusione della sua vicenda non può esimerci dal denunciare le tremende condizioni in cui versano le carceri iraniane né può distrarci dal fatto che in Iran le esecuzioni capitali hanno toccato la cifra impressionante di quasi 1.000 giustiziati nel 2024! Né dal pretendere che il nostro Paese, che in quattro e quattr’otto ha liberato una sua cittadina, liberi anche i cittadini iraniani detenuti in Iran, vittime della repubblica islamica della forca! A partire da Pakhshan Azizi che rischia di aggiungersi alla lunga lista di donne impiccate, con il numero record nel 2024, secondo il monitoraggio di Nessuno tocchi Caino, di cui 28 giustiziate in segreto. C’è una sorta di tabù nel mondo nell’eseguire sentenze di morte nei confronti del genere femminile. Ma l’Iran non conosce tabù. Il record di esecuzioni di donne è la cifra della considerazione che questo regime ha delle donne, soggetti vulnerabili in un sistema giudiziario ingiusto e particolarmente crudele nei confronti di quelle che esprimono istanze di libertà. In soli 4 anni, il numero delle donne giustiziate in Iran è raddoppiato rispetto alle 17 del 2021. Le esecuzioni compiute nel 2024 sono state quasi 1.000: 993 secondo Iran Human Rights Monitor (IHRM), 967 secondo Nessuno tocchi Caino. Di rilievo è anche la cifra della vergogna che lo stesso regime prova per questa mattanza, le esecuzioni tenute segrete: 915 su 993, vale a dire il 91,2%. Solo 78 (8,8%) quelle rese pubbliche dal regime. Note sono di sicuro le 4 esecuzioni effettuate in pubblico quale spettacolo volto a scoraggiare il dissenso e sopprimere ogni opposizione. Non ci sono solo le donne, nel calcolo complessivo, andrebbe inserito il numero dei 6 minorenni (8 secondo Nessuno tocchi Caino) tutti giustiziati in segreto. Incalcolabile è inoltre la disumanità insita nel lasciare all’oscuro le famiglie fino a che l’esecuzione è compiuta e nel convocare le madri a recuperare i corpi dei loro figli, quando il collo gli è ormai già stato tirato. Al numero dei minorenni si dovrebbe aggiungere quello dei 14 detenuti politici che sono stati impiccati dal regime, la metà in segreto. Almeno 61 sono quelli che sarebbero stati condannati a morte nell’anno appena concluso. Alla terribilità delle esecuzioni capitali si somma l’orrore del ricorso alla tortura come metodo per estorcere confessioni e punire il dissenso e l’orrore delle conseguenze a lungo termine sulla salute fisica e mentale anche a fronte di una sistematica mancanza di cure. Una prassi che colpisce in particolare i detenuti politici. Conosco personalmente le storie strazianti di alcuni di loro, quelle degli appartenenti alla resistenza iraniana guidato proprio da una donna, Maryam Rajavi, il cui movimento ha pagato il prezzo più alto in termini di vite umane nella sua lunga storia di opposizione al regime, in particolare con l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo iraniano subendo massacri e carcerazioni. Il 7 gennaio scorso sono state confermate le condanna a morte di due di loro: Behrouz Ehsani, 69 anni, prigioniero politico dagli anni ‘80, riarrestato a Teheran nel dicembre 2022 e Mehdi Hassani, 48 anni, arrestato a Zanjan nell’ottobre 2022. Entrambi sono stati trasferiti nel reparto 209 della prigione di Evin, dove sono stati sottoposti a torture fisiche e psicologiche. Fanno parte di quel gruppo di condannati a morte iraniani che danno corpo, ormai quasi da un anno, ogni martedì alla campagna contro le esecuzioni con un giorno di sciopero della fame. Dal luogo più buio che esista, il braccio della morte dell’Iran, sono riusciti a diffondere e far crescere l’adesione all’iniziativa nonviolenta dentro e fuori il Paese. Io stessa ogni martedì sciopero con loro e per loro e sarebbe bene che lo facessimo in tanti. A riprova della forza che, oltre ogni brutalità e violenza propria degli apparati militare e di potere, promana dalla coscienza orientata ai diritti umani fondamentali. Quella stessa coscienza che, nel dicembre scorso, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha fatto lievitare il numero dei Paesi favorevoli alla Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Perché la soluzione al problema Iran risiede nella coscienza, che resta l’organo di conoscenza più potente e che ci orienta verso gli ultimi, i dimenticati nelle carceri da cui non basta salvarne uno o una come nel caso di Cecilia Sala ma occorre salvarli tutti. Per salvare noi stessi. Iran. L’appello di Djalali: “Da 3.185 giorni in una cella orribile, sono stato dimenticato” La Stampa, 15 gennaio 2025 Il messaggio nel giorno del suo 53esimo compleanno. Amnesty: anche l’Italia agisca per liberarlo. Ahmadreza Djalali, il medico e docente con doppia cittadinanza svedese e iraniana, per anni presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, arrestato nel 2016 e condannato a morte per “spionaggio”, ha inviato quello che appare il suo più disperato appello dal carcere di Evin, in cui accusa il governo di Stoccolma di considerarlo un “cittadino di serie B” e di averlo dimenticato nel braccio della morte. “Sono passati otto anni e nove mesi da quando sono stato rinchiuso a Evin, 3.185 giorni senza nessuna pausa in una cella orribile”, ricorda lo stesso Djalali in un messaggio audio in inglese dal carcere, diffuso da Amnesty International Italia nel giorno del suo compleanno. “In questi anni terribili mi sono ammalato di diverse malattie, tra cui la bradicardia (una aritmia del cuore caratterizzata da una frequenza cardiaca bassa, ndr) che mette a rischio la mia vita”, riferisce Djalali. Dopo l’appello dal carcere di Evin del medico e docente con cittadinanza svedese e iraniana, Ahmadreza Djalali, che rischia ogni momento di essere giustiziato, Amnesty International Italia si rivolge anche al governo italiano per chiederne la liberazione. “Non dimentichiamo che Ahmadreza Djalali ha vissuto e lavorato a lungo in Italia. Chiamo anche al governo Meloni di agire”, è l’appello del portavoce di Amnesty in Italia, Riccardo Noury. Con doppia cittadinanza svedese e iraniana, Djalali ha lavorato per anni presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara; è stato arrestato in Iran nel 2016 e condannato a morte l’anno dopo per “spionaggio” con accuse che gli attivisti per i diritti umani e la famiglia ritengono fabbricate ad arte. Detenuto senza interruzioni nel carcere di Evin, a Teheran, è gravemente malato. A giugno scorso, è stato escluso dallo scambio di detenuti portato a termine tra Svezia e Iran. Oggi, in un messaggio audio dalla prigione, Djalali ha denunciato che Stoccolma lo considera un “cittadino di serie B” ed è tornato a chiedere alle autorità svedesi di fare di tutto per liberarlo. Svizzera. Il CPT: preoccupazione per le pratiche della polizia e il sovraffollamento delle carceri coe.int, 15 gennaio 2025 In un nuovo rapporto, il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa ha espresso una serie di preoccupazioni riguardanti il trattamento delle persone private della libertà da parte della polizia e il sovraffollamento delle carceri. Il rapporto fa seguito a una visita condotta dal CPT dal 19 al 28 marzo 2024, incentrata sulla polizia e sulla custodia cautelare in quattro cantoni francofoni della Svizzera: Ginevra, Friburgo, Vallese e Vaud. In relazione al trattamento delle persone private della libertà da parte della polizia, il CPT ha ascoltato ancora una volta accuse di maltrattamento fisico e uso eccessivo della forza, tra cui morsi da parte dei cani poliziotto, colpi di manganello, testate, pugni e calci, nonché violenti bloccaggi a terra. Queste accuse sono state mosse da cittadini stranieri, soprattutto in relazione al momento dell’arresto da parte della polizia nei cantoni di Ginevra, Vallese e Vaud. Il preoccupante numero di accuse di maltrattamenti deliberati, soprattutto nel cantone di Ginevra, lascia pensare che la violenza da parte della polizia sia una pratica persistente. È necessario adottare misure decise per migliorare la prevenzione di questo fenomeno e combatterlo in modo efficace. Il Comitato esprime rammarico per la mancata attuazione di raccomandazioni di lunga data in materia di garanzie contro i maltrattamenti al momento dell’arresto. Nel rapporto, il CPT raccomanda inoltre di prendere misure efficaci per perseguire i funzionari di polizia implicati in atti di maltrattamento, rivedere i metodi degli interrogatori di polizia, compresa la creazione di registrazioni audiovisive, e impedire l’uso della contenzione in un contesto di polizia. Il sovraffollamento delle carceri rimane un grande problema nelle strutture visitate nella Svizzera francofona, in particolar modo nei cantoni di Ginevra e Vaud. Al momento della visita, il tasso di occupazione nel carcere di Bois-Mermet aveva raggiunto il 166%, mentre quello nel carcere di Champ-Dollon era del 132%. Gli effetti del sovraffollamento sono deplorevoli e hanno un impatto sia sulle condizioni di detenzione delle persone in custodia cautelare sia sulle condizioni di lavoro del personale. Dovrebbe essere attuata una strategia globale che riduca la popolazione carceraria e coinvolga tutti gli attori della catena penale. Il Comitato chiede nuovamente alle autorità svizzere di rivedere le regole che disciplinano le restrizioni drastiche dei contatti con il mondo esterno e la mancanza di attività per i detenuti in custodia cautelare, che spesso passano fino a 23 ore al giorno nelle loro celle. I cantoni di Friburgo, Vallese e Vaud devono inoltre rivedere le regole che stabiliscono la durata massima dell’isolamento disciplinare.