Sistema carcerario al collasso di Ilaria Storti conquistedellavoro.it, 14 gennaio 2025 Le condizioni delle carceri italiane sono indegne. Tuttavia, nonostante gli allarmi lanciati da anni da sindacati e associazioni e nonostante il forte richiamo lanciato dal Papa in occasione del Giubileo, la politica continua a rinviare una riforma del sistema. Un sistema al collasso. Sindacati e associazione che si occupano del settore, come Antigone, ricordano che da inizio anno sono già 11 le persone detenute che si sono tolte la vita in carcere. A queste si aggiunge un’ulteriore persona suicidatasi in stato di privazione della libertà in una Rems e un operatore penitenziario del carcere di Paola. “Quattro di questi suicidi - ha sottolineato il presidente di Antigone, Gonnella - sono avvenuti a Modena, Firenze, Regina Coeli, carceri fortemente problematiche, che scontano situazioni di sovraffollamento molto gravi e uno stato delle strutture fortemente compromesso in più aree”. La scia di morti continua, dopo che nel 2024 89 persone si sono tolte la vita. Si tratta del dato più alto degli ultimi dieci anni. I detenuti sono attualmente 62.427, di cui (dato allarmante) quasi 10mila in attesa di primo giudizio. I posti disponibili, invece, sono solo 51mila. Di questi posti, però, 4.462 in effetti non erano disponibili, per inagibilità o manutenzioni, e dunque la capienza effettiva scende a circa 47.000 posti e il tasso di affollamento effettivo arriva al 132,6%. Il tasso di crescita della popolazione detenuta è ormai insostenibile. Un anno fa, alla fine del 2023, i detenuti erano 60.166, circa 2.000 in meno del 2024. Da allora, i posti detentivi effettivamente disponibili sono diminuiti significativamente. Negli anni passati, alcune misure adottate dalla politica, avevano consentito di ridurre il sovraffollamento ma la soglia dei 60mila reclusi è stata di nuovo superata nel 2023 e il trend di crescita continua, nonostante gli interventi messi in campo dal Governo negli ultimi mesi. Il sovraffollamento è ormai un problema anche degli istituti penali per minorenni, dove i reclusi al 30 novembre scorso erano 576. Di fatto, la popolazione carceraria scende in modo consistente solo a seguito di interventi straordinari, come amnistie o indulti. Poi torna a salire costantemente. Per questo le associazioni tornano a chiedere una riforma del sistema. E la chiedono anche i sindacati. “Negli ultimi giorni sono giunti appelli da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal Santo Padre Papa Francesco affinché sia affrontata quella che per le carceri italiane è ormai un vero e proprio stato di emergenza - sottolinea il segretario generale della Fns Cisl Massimo Vespia -. Il sovraffollamento detenuti è divenuto insopportabile e le aggressioni in danno del Personale, primo tra tutti quello di Polizia penitenziaria, sono all’ordine del giorno”. Il sindacalista ricorda come negli ultimi due anni siano stati messi in campo interventi “importanti dall’attuale Esecutivo, interventi che la politica non dedicava a questo settore della sicurezza da decenni”. “Ma - aggiunge - appare chiaro che non è sufficiente avere un Governo che finalmente attua provvedimenti ordinari ma servono ulteriori interventi straordinari. Serve che non solo il Governo ma l’intero Parlamento sostenga misure eccezionali non più rinviabili, a partire da un serio piano carceri”. Noterelle dal carcere: “Cose che succedono…” di Tazio Brusasco* volerelaluna.it, 14 gennaio 2025 Il carcere è, per la “società libera” un’isola sconosciuta: per disinteresse, per mancanza di informazioni da parte dei media, perché è una “istituzione totale” per eccellenza, priva di contatti con l’esterno. E poi perché, per i più, i suoi ospiti - i detenuti e le detenute - non meritano alcuna attenzione e anzi, dopo il loro ingresso in carcere, si dovrebbe semplicemente “buttare la chiave”. Neanche l’ormai interminabile sequenza di suicidi e di atti di autolesionismo basta a rompere l’isolamento di una realtà che accoglie e rinchiude, ogni giorno, 62.000 persone, in gran parte senza diritti e senza speranza. Per contribuire a uno sguardo diverso e alla considerazione del carcere come un “pezzo” della società ospitiamo (e lo faremo periodicamente) le noterelle di un insegnante in un istituto penitenziario del Paese, non importa quale. Sono affreschi di vita quotidiana finalizzati a restituire dignità e umanità a una condizione che spesso non ce l’ha. Qualche giorno fa un allievo di quinta non è venuto a lezione. Lo conosco da tre anni, è bravo, anche se talvolta mostra ancora qualche segno dell’arroganza acerba della sua età. Condanna lunga. La scuola il giusto investimento. A rischio. Come tutto qui: sa che quando uscirà non avrà vita facile, dovrà ripartire da zero, forse sfuggire ai richiami (sirene o minacce?) di vecchi sodalizi criminali. Comunque quella mattina non è venuto. Quando la collega della prima ora ha chiesto agli assistenti di farlo scendere dalla sezione detentiva al piano delle aule scolastiche, hanno traccheggiato. Dopo qualche sua rimostranza, le hanno detto: “Se proprio insiste…”. L’hanno chiamato e in breve le si è parato di fronte un volto livido, tumefatto. Lei ha sgranato gli occhi e chiesto cosa fosse capitato. Domanda ingenua: “Niente, prof., cose che succedono”. Sappiamo che non serve chiedergli spiegazioni, né di raccontare come stia o se oltre al dolore provi anche paura. Nel breve scambio, prima che tornasse in sezione, la collega ha notato che non si è mai ritratto come vittima, né ha considerato l’idea di appellarsi alla giustizia. Nel pomeriggio mi sono recato nel padiglione e ho parlato con un assistente di polizia penitenziaria. Ho saputo che gli aggressori sono stati posti in isolamento e, come spesso in questi casi, con ogni probabilità verranno trasferiti. Ne ho approfittato per chiedergli come mai chi subisce pestaggi in carcere non denunci. Ha risposto con una domanda eloquente: “Lei non è tanto che lavora in carcere, vero?”. No, pochi anni. Ma so di non sapere, o meglio, di non capire. É come se tutti, guardie e ladri, credessero davvero, fatalisticamente, che episodi simili possano talvolta verificarsi, rientrino nell’ordine delle cose. Se sei dentro, alla lunga probabilmente adotti o accetti questa mentalità, ma se sei un esterno, per quanto tu possa fingere di darla per scontata con il personale o con i ragazzi, ne percepisci le storture. Però è così. Universalmente. Irrecuperabilmente. Nei giorni seguenti ho provato a interrogare altri studenti per saperne di più: nonostante la mia circospezione - qualche cosa ho imparato - è il festival della reticenza: “Io non so un cazzo prof.; io non c’ero; ma è giorni fa, perché chiedi ancora?”. Chi vive qui, da una parte e dall’altra, accetta l’esistente. Ci si picchia per sgarbi, per il potere in sezione, molto spesso per debiti contratti. Ma il tempo passa, parlare non conviene e poi, presto, i lividi da blu divengono verdastri, giallognoli, fino a confondersi con le naturali cromie della pelle. Tutto passato. Se ci saranno vendette o ritorsioni, nuovi scontri o nuove gerarchie dipende dai singoli casi, mentre le dinamiche generali sono sempre le stesse. Così il carcere continua a pulsare, isolato, ignorato, dolente. Non c’è abbastanza personale di sicurezza, ce n’è risibilmente poco per quanto riguarda l’area educativa. Questo è il vero reato sociale, la causa politica di un sistema che non riesce a curare nemmeno se stesso. *Insegnante in carcere Carcere, è già emergenza suicidi. In due settimane 8 persone si sono tolte la vita di Alessia Candito La Repubblica, 14 gennaio 2025 Da Nord a Sud si contano sei casi accertati e due sospetti. A Modena sono due i detenuti che hanno deciso di farla finita nei primi giorni dell’anno. Inascoltato l’appello di Mattarella. Nelle carceri italiane ogni due giorni un detenuto si toglie la vita. E se si considerano anche le cosiddette “morti sospette” la percentuale cresce ulteriormente. A due settimane dall’inizio dell’anno, dietro le sbarre è già emergenza suicidi. Ufficialmente se ne contano sei in due settimane che diventano otto contando anche gli episodi su cui ancora si indaga, il doppio dei tre casi registrati nello stesso periodo del 2024, anni luce dal singolo caso di due anni fa. L’allarme del Garante Nazionale - “Se continua questo trend rischiamo di raddoppiare i numeri del 2024, che con 83 suicidi e 18 casi sospetti è stato l’annus horribilis le morti in carcere”, denuncia l’avvocato Mario Serio del Collegio del Garante nazionale per i detenuti. “Questo non è che la punta di un iceberg di una condizione di disagio e sofferenza presente in tutti gli istituti di pena italiani”. Che da Nord a Sud scoppiano, con buona pace degli asseriti propositi dell’ultima legge “svuotacarceri”, rivelatasi un totale fallimento. “Non rileviamo alcun apprezzabile decremento del numero di detenuti in nessuno degli istituti che abbiamo ispezionato”, conferma l’avvocato Serio. Sovraffollamento superiore al 59% in 59 istituti di pena - I dati aggiornati al 16 dicembre 2024 parlano di un affollamento medio effettivo arrivato al 132,6% (62.153 persone detenute, a fronte di una capienza effettiva di circa 47.000 posti), con picchi del 225% a Milano San Vittore, 205% a Brescia Canton Mombello, 200% a Como e a Lucca, 195% a Taranto e a Varese del 194%. Ormai sono gli 59 istituti con un tasso di affollamento superiore al 150%. Strapiene, spesso vetuste, senza operatori, progetti e servizi a sufficienza, di fatto “non luoghi” in cui non si può far altro che lasciare il tempo passare, le carceri sono sempre più delle semplici gabbie. E dentro ci si muore. L’appello inascoltato di Mattarella - A Paola, Roma, Firenze, Cagliari, Bologna, per due volte a Modena, l’emergenza va da Nord a Sud. Il primo è stato un 37enne moldavo. A poche ore dal discorso di Capodanno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha tuonato contro le “condizioni inammissibili” nelle carceri italiane, sottolineando che “abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione”, un uomo a Modena si è tolto la vita inalando gas da un fornelletto. Meno di ventiquattro ore dopo, un altro caso a Bologna: un quarantenne si accascia mentre cammina in corridoio. Il giorno dopo l’allarme scatta nel carcere di Sollicciano, a Firenze: un ragazzo egiziano, di 25 anni appena, si impicca in cella. Aveva già tentato di togliersi la vita o di ferirsi in passato, per questo era ricoverato nel reparto clinico. Eppure. Due suicidi in sette giorni nello stesso carcere - Quello che arriva dagli istituti di pena sembra un quotidiano bollettino di guerra, con tragedie che si ripetono uguali a se stesse: il 7 gennaio a Modena un altro detenuto, si è tolto la vita inalando gas da una bomboletta. C’è chi lo fa per stordirsi, altri per addormentarsi e non svegliarsi più. Ufficialmente, le indagini sono in corso, ma l’uomo, un cinquantenne italiano, non aveva né un presente, né un passato da tossicodipendente, dunque tutto fa pensare che l’intenzione fosse di farla finita. A Paola, nello stesso giorno, si sono tolti la vita a un detenuto, da giorni in isolamento, e un agente penitenziario. Nelle quarantotto ore successive, ancora due casi, a Roma e a Cagliari. Entrambi in passato avevano manifestato disagio, entrambi erano stati segnalati per atti di autolesionismo e tentativi di suicidio, entrambi sono rimasti dietro le sbarre. E lì sono morti. “Il ristretto che si è tolto la vita a Cagliari - denuncia il segretario della Uilpa, Gennarino De Fazio - pare fosse considerato a rischio suicidario, ciononostante sembra che non si sia potuto fare di meglio che allocarlo in cella con altri: siamo al paradosso per il quale i detenuti dovrebbero auto-sorvegliarsi, proprio perché mancano il personale, gli spazi, le strutture, gli equipaggiamenti e i servizi essenziali”. Dal Governo no a forme di amnistia e indulto - Ma al monito del presidente della Repubblica, il governo di Giorgia Meloni ha risposto solo con nuovi annunciati progetti di edilizia carceraria, mentre il ddl sicurezza che marcia verso l’approvazione promette di criminalizzare anche le forme di resistenza passiva. Con l’apertura della porta santa a Rebibbia e la bolla Spes non confundit, Papa Francesco ha fatto appello ai governi chiedendo “forme di amnistia” o “di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società”. Ma ancora una volta il governo ha detto no. E dal ministro Nordio arriva solo una nuova proposta di edilizia penitenziaria: condomini ghetto in cui far scontare i domiciliari agli stranieri senza fissa dimora. Un manifesto per la salute delle detenute di Anna Lisa Mandorino* Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Il progetto di Cittadinanzattiva. Sono 2.698 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 dicembre 2024, pari al 4,36% della popolazione detenuta totale. Facendo riferimento alle carceri esclusivamente femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Venezia Giudecca), il numero più alto di donne detenute, 378, si trova nel carcere Stefanini di Rebibbia di Roma: qui il tasso di sovraffollamento è del 138%, superiore a quello generale, già molto elevato e pari al 120%, delle carceri italiane. E nell’istituto penitenziario di Rebibbia è partito il progetto “I Care” con il quale nell’ultimo anno siamo entrati, una volta al mese circa, per condurre, assieme agli operatori e alle operatrici penitenziarie, ai referenti della Asl Roma 2, all’associazione culturale Masc - e soprattutto con il coinvolgimento diretto delle donne detenute - percorsi di formazione sanitaria e di peer education nonché laboratori creativi sul tema della salute e della prevenzione oncologica femminile. Il percorso si concluderà dopodomani, giovedì 16 gennaio, quando all’interno dello stesso carcere romano presenteremo un documento di raccomandazioni civiche per promuovere, attraverso un rafforzamento delle garanzie e dei principi riconosciuti dalla normativa nazionale e sovranazionale e una rinnovata collaborazione tra Servizio sanitario nazionale ed Amministrazione penitenziaria, il diritto alla salute femminile all’interno degli istituti penitenziari italiani. Un diritto che nella pratica quotidiana si scontra con numerosi ostacoli, spesso legati alla carenza di personale, a difficoltà burocratiche e organizzative, alla scarsa integrazione dei servizi resi dentro e fuori dal carcere; ma anche un diritto indebolito dalla particolare situazione di chi vive il carcere. La condizione sociale delle detenute, l’esposizione per tanti anni a una vita in cui sono state trascurate o inaccessibili le più elementari dimensioni di cura, rendono infatti le stesse “bisognose” di sostegno per maturare la consapevolezza e l’attitudine a prendersi cura di sé e della propria salute. Allo stesso tempo l’informazione sui temi della salute e in particolare sulla prevenzione del carcinoma mammario trovano ancora troppo poco spazio nei servizi loro rivolti e spesso si registra una difficoltà di accesso alle forme essenziali di assistenza. Siamo partiti da queste premesse e dalla volontà, che avvertiamo come urgente e parte integrante della nostra missione, di diffondere la salute in tutti i luoghi di vita a cominciare da quelli marginali come le carceri, per lavorare al percorso I Care. Il documento che presentiamo giovedì vuole riaffermare 9 diritti per la salute femminile in carcere e alcune raccomandazioni per renderli concretamente esigibili. Ci auguriamo che forte sia il sostegno delle istituzioni. *Segretaria generale Cittadinanzattiva La politica e quell’approccio alla giustizia che estremizza i conflitti di Massimo Franco Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Gli scontri con la magistratura riflettono una relazione tra poteri dello Stato in bilico da anni e mai riequilibrata in modo condiviso. Più che le singole polemiche, colpisce lo sfondo conflittuale nel quale si inseriscono. È come se con l’inizio del 2025 lo scontro tra il governo e la magistratura, invece di ridursi, preparasse una sorta di resa dei conti finale. E questo nonostante oggi il Parlamento possa forse concordare l’elezione dei quattro giudici che mancano alla Corte costituzionale: un esito non scontato ma atteso da tempo. Si tratti di femminicidi, immigrazione, violenze di piazza, sicurezza o riforma della giustizia, ogni occasione diventa pretesto per misurare il rispettivo potere. Il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è uno dei più spinosi, da sempre. E non può lasciare perplessi sia l’atteggiamento punitivo col quale una parte della coalizione di destra lo promuove, sia la minaccia della magistratura associativa di ricorrere a forme di protesta clamorose. La persistenza con la quale lo scontro prosegue, non solo con l’attuale esecutivo ma con molti di quelli degli ultimi trent’anni, pone un problema che va al di là degli schieramenti. E supera anche i contrasti all’interno di maggioranza e opposizioni. Mentre colpisce l’assenza di qualunque parola in appoggio al ministro leghista dei Trasporti, Matteo Salvini, dopo i disservizi ferroviari di questi giorni, FdI, FI e Lega sono compatte nel criticare l’Anm; e per difendere una riforma che è fortemente voluta dagli eredi politici di Silvio Berlusconi ma ha guadagnato il consenso di formazioni di destra storicamente “giustizialiste”. È il segno di un contesto che si è modificato; e di un ordine giudiziario che, secondo i critici, non è riuscito a preservare la credibilità e la popolarità ereditate dal passato. Può darsi. Certo, non giova il tentativo strumentale delle opposizioni di tirare la magistratura dalla propria parte. La radicalizzazione delle posizioni non aiuta. Tende anzi a far prevalere, nella politica e tra i giudici, un riflesso difensivo che premia soprattutto le minoranze inclini al conflitto. E riduce qualunque tentativo di riforma, o all’idea di una “punizione” pianificata dai governi per imbrigliare la giustizia; o a quella di un presunto complotto di frange politicizzate della magistratura per frustrare il rinnovamento. Inutile dire che si tratta di due letture viziate dal pregiudizio. Il problema è che rispecchiano un modo di percepirsi reciprocamente: con qualcuno interessato a fare in modo che l’approccio rimanga tale. Viene il sospetto che quanto accade rifletta una relazione tra poteri dello Stato in bilico da anni, e mai riequilibrata in modo condiviso tra politica e magistratura. Difficile prevedere come e quando si rimedierà a un’anomalia dannosa per tutti. Eppure, sarà sempre più una questione ineludibile. Dopo i cortei di Roma e Bologna il Governo accelera sul ddl Sicurezza di Nicoletta Tempera La Nazione, 14 gennaio 2025 Colosimo e Ferro (FdI): presto l’approvazione delle norme. Il ministro Piantedosi: esigenza condivisa da tutti. La violenza per la violenza. La rabbia dei giovanissimi che diventa strumento di devastazione nelle mani dei soliti professionisti del disordine. A Bologna come a Roma, Milano, Torino. Con il pretesto di chiedere giustizia per la morte di Ramy Elgaml. Danni, vandalismi e scontri con le forze dell’ordine, il cui comune denominatore è la presenza, al fianco di frange anarchiche e antagonisti, di tantissimi ragazzini di seconda generazione. Facce nuove della piazza, lontane dalla contestazione politica, intercettate da queste galassie un po’ per caso, un po’ per circostanza. Il tema, la morte del diciannovenne in un incidente in scooter, mentre era inseguito dai carabinieri, tocca le corde di molti giovanissimi soprattutto di origine straniera. Tuttavia, la memoria di Ramy è stata svilita, lasciando il posto al caos. Almeno a Bologna, senza neppure il tempo di un intervento al megafono. La conta dei danni è altissima, supera già i 70mila euro. Undici i feriti tra le forze dell’ordine, colpiti con spranghe, mattoni e pure sedie e tavolini. E gli eventi di sabato scorso costituiscono un motore anche per l’azione della maggioranza, che ieri da più parti ha chiesto un’accelerata all’approvazione del Ddl Sicurezza proprio come reazione agli scontri. “Rafforziamo la tutela delle forze dell’ordine - specifica la sottosegretria agli Interni, Wanda Ferro (FdI) -, con il Ddl sicurezza che verrà presto approvato”. Un’accelerazione condivisa anche dalla presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo (FdI). Appello all’urgenza rilanciato poi in serata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, in quota Lega, scatenando l’ira degli Sudenti che manifesteranno di nuovo il 17 gennaio proprio contro la legge. Le indagini di sabato intanto si annunciano lunghe e complesse. Due attivisti bolognesi sono stati denunciati già sabato sera dalla polizia. Altri due soggetti, armati di spranghe, sono stati fermati dai carabinieri dopo i roghi in zona universitaria, sempre a Bologna, e la loro posizione è al vaglio. Nel capoluogo emiliano Digos e Nucleo Informativo dell’Arma sono al lavoro su centinaia di filmati. Una trentina di partecipanti al presidio, volti noti dei collettivi e dei gruppi anarchici, sono già stati riconosciuti dalla polizia: adesso, però, bisognerà capire se abbiano avuto o meno un ruolo attivo nelle cinque ore in cui il centro è stato ostaggio dei facinorosi. Questo vuol dire comparare le foto e i video fatti prima del disastro con quelli dei violenti travisati con passamontagna, sciarpe e cappucci che hanno vandalizzato e imbrattato tutta la città. Compresa la Basilica di San Petronio. Anche a Roma, dove sono 18 gli operatori delle forze dell’ordine che dopo gli scontri hanno avuto bisogno di farsi refertare, sono stati identificati in trenta: si tratterebbe di persone vicine agli ambienti anarchici, a gruppi antagonisti e ai collettivi studenteschi. Non è escluso che a breve, nella Capitale, possano arrivare i primi denunciati. “Non siamo preoccupati, come io uso sempre dire, ma bisogna mantenere alta l’attenzione”, ha detto ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, intervistato da Francesco Giorgino su Rai Uno. “Gli analisti ci restituiscono degli identikit ben precisi di soggetti che partecipano ad alcuni centri sociali, ad alcune formazioni che diciamo variano i pretesti - la tav, i temi ambientali, la tragedia di Ramy - ma il tratto distintivo caratterizzante è quello di porre in essere, a mio modo di vedere in maniera strumentale, delle azioni di violenza e di attacco alle forze di polizia che non hanno nulla a che vedere con la nobiltà dei temi che loro dicono di voler rivendicare”. Per questo, Piantedosi, sul ddl sicurezza è certo: “Tutti condividono l’esigenza di arrivare al più presto a una definizione di un quadro normativo che porrà importanti tutele aggiuntive al lavoro complicato delle forze dell’ordine”. Corsa al ddl Sicurezza, clava di polizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 gennaio 2025 La maggioranza cerca una soluzione per soddisfare le critiche del Colle e contemporaneamente portare a casa la legge-bandiera. Piantedosi: “In un modo o nell’altro, vogliamo al più presto tutele aggiuntive per le forze dell’ordine”. È la strategia degli annunci. “Il Ddl Sicurezza va approvato subito”, ripete da alcuni giorni come un grido di battaglia la Lega a cui ieri si sono accodati Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia in Senato, e la sottosegretaria al ministero dell’Interno Wanda Ferro di FdI. E in serata anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi intervistato da Rai Uno ha sostenuto la necessità di arrivare al più presto al varo del disegno di legge spiegando che “tutti condividono, al di là di quali saranno le strade che verranno prescelte, l’esigenza di arrivare al più presto ad una definizione di un quadro normativo che sicuramente porrà anche delle importanti tutele aggiuntive a quello che è il lavoro complicato delle forze dell’ordine”. Ma, al di là delle parole, segnali concreti non ce ne sono, né in un verso né nel suo opposto. Perché se è vero che è stato lo stesso governo a “non escludere una terza lettura”, come annunciò a metà dicembre il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Criani (FdI) - preso atto dei dubbi sollevati informalmente dal Quirinale su un paio di punti del testo in evidente contrasto con la Carta costituzionale (divieto di vendita delle Sim ai migranti senza permesso di soggiorno e abolizione del differimento obbligatorio della pena in carcere per le detenute madri) -, a tutt’oggi però nessuna proposta di modifica al testo licenziato dalla Camera il 18 settembre è pervenuta da Palazzo Chigi alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato che se ne stanno occupando in sede referente. Cosicché i lavori sul Ddl “omnibus”, composto di 38 articoli che affrontano i temi penali più disparati, procedono senza scossoni. Pianificati dalla Capigruppo fino alla fine di febbraio, con l’obiettivo minimo di portare il testo in Aula al Senato non prima di marzo. Stasera e domani alle 20 le commissioni si riuniranno per riprendere l’esame degli emendamenti (1300, in tutto, quelli presentati dalle opposizioni), ripartendo dall’articolo 15 del testo. Contemporaneamente però sembra sempre più probabile che la maggioranza di governo possa cogliere l’occasione per introdurre altre norme che non vanno certo nella direzione indicata dall’Osce e dal Consiglio d’Europa quando, nei mesi scorsi, giudicarono il ddl a rischio di “minare i principi fondamentali del diritto penale e dello Stato di diritto”. In particolare, sfruttando l’opportunità offerta dai recenti fatti di cronaca e in seguito agli scontri del fine settimana a Roma e a Bologna durante i cortei per Ramy Elgaml, la strategia degli annunci ha scelto il terreno fertile delle forze dell’ordine. Salvini e la Lega si limitano a cercare di portare a casa nel più breve tempo possibile il Ddl Sicurezza - usato a mo’ di clava da servire ai sindacati più rissosi delle divise - pensando che possa far recuperare loro un qualche punto di gradimento. Tutti condividono, al di là di quali saranno le strade che verranno prescelte, l’esigenza di arrivare al più presto ad una definizione di un quadro normativo che sicuramente porrà anche delle importanti tutele aggiuntive a quello che è il lavoro complicato delle forze dell’ordine. Ma il ritorno d’immagine di cui ha bisogno in questo momento Giorgia Meloni è forse più istituzionale, e uno sgarbo al Colle come quello di accelerare sul testo criticato non giova certo. Motivo per il quale, secondo fonti giornalistiche, si starebbe pensando a un qualche scudo legale per evitare che si ripeta quanto accaduto al maresciallo dei carabinieri Luciano Masini, indagato per eccesso di legittima difesa (indagine dovuta) per aver sparato e ucciso l’attentatore di Villa Verucchio, nel riminese, la sera di Capodanno, e insignito dal ministro della Difesa Crosetto di un “encomio solenne”. Una norma, questa, che si aggiungerebbe alle tante altre che - a parole, perché di aiuti concreti ai corpi di polizia non ve n’è traccia - servirebbero per “difendere e tutelare in ogni modo gli appartenenti alle forze dell’ordine”, come ha affermato ieri la sottosegretaria Wanda Ferro chiedendo un’accelerazione sull’iter e puntando il dito contro la “violenza delle piazze”. Disordini, scoppiati a seguito dell’uccisione di Ramy, di cui ha parlato anche il ministro Piantedosi definendoli “pretestuosi”. Più prudente il deputato Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, che in piazza Montecitorio alle domande dei cronisti sulle possibili modifiche al Ddl firmato Nordio-Crosetto-Piantedosi ha risposto: “Vedremo, è una valutazione che sta facendo la maggioranza. Io l’ho votato così com’è e lo condivido così com’è, ma siamo sempre pronti a fare riflessioni per il bene della nazione”. Oltre alle due norme già citate, in bilico ci sono le aggravanti per i reati (qualsiasi reato) se commessi nelle stazioni o sui mezzi di trasporto pubblici, e l’articolo che confonde la cannabis light con la canapa industriale con il risultato che a mobilitarsi contro è stata tutta la filiera, comprese le associazioni di categoria più vicine alla destra. Più di recente, il mondo studentesco e universitario si sta mobilitando contro la norma che rende obbligatoria la collaborazione delle pubbliche amministrazioni con i servizi segreti, ove richiesta. Un altro obbrobrio dettato dalla furia illiberale. Ddl Sicurezza, uno “scudo” penale per gli agenti in servizio: spinta (e paletti) della Lega di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Allo studio del Governo. Romeo: votare subito, ma se si interviene allora regole più severe. Piantedosi: Salvini apprezza il mio lavoro. “Sono stati 273 - in aumento del 127,5% sull’anno precedente - gli operatori delle forze di polizia rimasti feriti nel corso delle oltre 12 mila manifestazioni che si sono tenute in Italia nel 2024”. Matteo Piantedosi interviene sul clima che si è creato dopo i recenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, causati anche dalla morte del giovane Ramy Elgaml, a Milano: “Una tragedia rispetto alla quale dobbiamo essere tutti commossi e partecipi del dolore dei genitori che peraltro stanno dando testimonianza di grande equilibrio e non deve essere strumentalizzata”. E dunque l’uomo del Viminale, intervistato da Francesco Giorgino per XXI secolo, esprime la sua riconoscenza a chi l’ordine pubblico lo mantiene. E invita tutti “alla condivisione del rifiuto dell’utilizzo della violenza come strumento della lotta politica”, fin qui “spesso negata da prolungati silenzi o da argomentazioni talvolta incomprensibili tese in alcuni casi più a stigmatizzare il comportamento delle forze dell’ordine invece che i comportamenti dei delinquenti”. Una considerazione indirizzata alle opposizioni, certo. Ma forse anche ad alcune dichiarazione dell’ex capo della Polizia Franco Gabrielli. In ogni caso, il ministro ne è convinto: quelle antagoniste sono “aggressioni preparate” che sembrano parte “di una strategia di ricerca dell’incidente” per la “destabilizzazione del quadro politico”. Il ministro dell’Interno ripone “grande aspettativa” in una veloce approvazione del ddl Sicurezza. Ma qui, la partita è complicata. All’incontro tra Meloni, Salvini e Tajani di ieri sembra se ne sia parlato poco, così come della riforma della giustizia, altro tema su cui accelerare nonostante le proteste annunciate dall’Anm per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il ddl Sicurezza è stato approvato dalla Camera lo scorso settembre, il Quirinale ha espresso informalmente diverse perplessità. Ma, secondo il capogruppo leghista Massimiliano Romeo, si deve comunque “procedere rapidamente, anche per introdurre le nuove tutele previste per la pubblica sicurezza”. Attenzione, però: se ci fosse la volontà di un supplemento di riflessione già al Senato, Romeo promette che dalla Lega saranno proposte norme “ancora più forti e stringenti”. Piantedosi parla anche di Matteo Salvini e dell’ipotesi che torni al Viminale: “Posso capire i sentimenti che sono stati sicuramente compressi dalla vicenda giudiziaria che l’ha riguardato e che forse non avrebbe dovuto esserci”. Ma “chi voglia dare interpretazioni malevole, credo debba prendere atto dell’apprezzamento che sia Salvini sia la Meloni hanno avuto per il lavoro che stiamo facendo al Viminale”. Scudo penale agli agenti. “Sempre più lontani dallo Stato di diritto, la gente avrà paura” di Marco Franchi Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2025 L’ex magistrato Roberto Settembre: “Oltre a un affievolimento dello stato di diritto e del principio di responsabilità, mi preoccupa molto il venire meno dell’obbligatorietà dell’azione penale. Così si rischia di minare la fiducia tra cittadini e forze dell’ordine. Di costruire un rapporto basato sul timore”. Roberto Settembre, lei è stato l’estensore della sentenza sulle violenze della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova. Perché, a lei che si è occupato degli eccessi delle forze dell’ordine, questo indirizzo del Governo induce timore? In uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza. Ma questo dato di fatto ha alla base un presupposto essenziale: la responsabilità. Ecco, il progetto del governo mi pare che ci allontani dallo stato di diritto e riduca la responsabilità di chi può esercitare la forza. Se le forze dell’ordine sono ‘scudate’ quando esercitano questa forza, noi tutti siamo esposti a maggiori pericoli? In Italia ci sono circa 300 mila persone che indossano la divisa, che possono per lavoro utilizzare un’arma. Io ho fiducia nelle forze dell’ordine, posso pensare che la grande maggioranza di loro sia ben addestrata e ben valutata. Ma ci può essere sempre chi è portato a usare in modo sproporzionato il potere e la forza di cui dispone. E l’unico modo per mettere al sicuro i cittadini è la responsabilità. Chi compie un’azione, anche se con la divisa, deve esserne responsabile. Qual è il motivo che può essere alla base di questa scelta del governo di destra? Si potrebbe anche pensare che, di fronte ad alcune emergenze di questi tempi, come il terrorismo, ci si illuda così di rendere più efficace l’azione delle forze dell’ordine. Lei crede che sia davvero questa la ragione? Vedo che ci stiamo spesso allontanando dallo stato di diritto. È successo anche nel caso dell’iraniano Abedini, con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha deciso la sorte dell’ingegnere prima ancora che la magistratura si pronunciasse. Ma c’è altro… Che cosa? Oltre a un affievolimento dello stato di diritto e del principio di responsabilità, mi preoccupa molto il venire meno dell’obbligatorietà dell’azione penale. Insomma, è il governo che decide chi e come deve essere perseguito. Il cittadino sì, l’appartenente alle forze dell’ordine no. È la fine della legge uguale per tutti? Mi pare tutto un disegno. L’obbligatorietà di perseguire i reati che viene meno quando lo decide chi governa, ma anche la separazione delle carriere. E poi, chissà, l’elezione dei pubblici ministeri come in America. Lei parla spesso di un rapporto di fiducia necessario tra cittadini e forze dell’ordine... Sì, in alcuni paesi, come la Germania, se la polizia ti trova ubriaco per strada, ti porta a casa. C’è fiducia. In Italia dopo i fatti del G8 di Genova del 2001 quel rapporto è da ricostruire? Vede… è una questione molto delicata. Quando un poliziotto o un carabiniere mi identificano possono legittimamente pensare che io per loro sia una minaccia perché hanno un compito anche insidioso. Devo accettarlo. Ma da parte mia devo sapere che affidandomi a loro non corro rischi. E questo accade proprio perché loro sono responsabili di quello che fanno. Se venisse introdotto uno scudo, se venisse meno la responsabilità (un po’ come avvenne a Genova), i cittadini avrebbero di nuovo paura? Cambierebbe il rapporto tra cittadini e forze dell’ordine. Invece di essere basato sulla fiducia, avrebbe radici anche nel timore. Andrea Soldi, Paolo Scaroni, Enrico Lombardo: per non dimenticare gli abusi in divisa d Paolo Di Falco Il Domani, 14 gennaio 2025 Tre vicende sconosciute di torture e violenze da parte delle forze di polizia. Storie di vittime e dei loro familiari, in alcuni casi senza ancora una verità definitiva. La storia di abusi, torture e violenze da parte di chi indossa una divisa è composta da moltissimi capitoli, purtroppo. In uno stato di diritto, in una democrazia compiuta, tali soprusi per mano delle forze dell’ordine su cittadini e cittadine inermi dovrebbero appartenere a un passato già archiviato da tempo. Eppure, continuano ad accadere. Il caso di Stefano Cucchi, ancora prima quello di Federico Aldrovandi e di tantissimi altri che hanno perso la vita per un fermo o un banale controllo impone una riflessione sulla strada da intraprendere perché non si ripetano mai più. Oltre alle vicende più note, però, ne esistono altrettante sconosciute, rimaste confinate nelle province dove sono accadute. Sono storie di vittime e dei loro familiari, in alcuni casi senza ancora una verità definitiva, che abbiamo deciso di mettere assieme in questa serie “Divise violente”, firmata dal giornalista Paolo Di Falco. Sono tre puntate intense: le testimonianze dei familiari e il racconto dei protagonisti è un tuffo nell’abisso di una furia di stato, una violenza immotivata sui più fragili. Un lavoro che è stato possibile anche grazie ad Amnesty International, che da tempo chiede l’introduzione dei numeri identificativi per gli agenti. Una battaglia che in Parlamento trova sempre molti oppositori. La storia di Andrea Soldi - “Chissà che il mio futuro mi riserverà cose belle come stasera e sicuramente migliori”. A scrivere queste parole tra il 19 e il 20 aprile del 1996 è Andrea Soldi, giovane torinese a cui qualche anno prima era stata diagnosticata la schizofrenia. Quasi vent’anni dopo, in un’afosa giornata di agosto del 2015, a spezzare la sua vita saranno le braccia di tre agenti della polizia municipale nel tentativo di praticargli un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) che, sottolinea la sorella Maria Cristina, si trasformerà in un arresto. “L’uccisione di Andrea Soldi è uno dei tragici esempi di pezzi dello stato che, anziché prendersi cura delle debolezze, vi si accaniscono. La sorella e il padre hanno lottato per quasi nove anni, affiancate da Amnesty International e altre associazioni per i diritti umani, per veder confermate in Cassazione, nel 2022, le condanne dei quattro responsabili”, ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. La storia di Paolo Scaroni - “Per lo stato italiano sono un morto che cammina”. A parlare è Paolo Scaroni, ultras del Brescia la cui vita si è fermata alla trasferta veronese del 24 settembre del 2005 con la sua squadra del cuore. Quel giorno una serie di colpi di manganello, assestati violentemente dalla polizia, gli hanno spaccato la testa rendendolo invalido al 100 per cento. Paolo, all’epoca dei fatti, era un giovane allevatore di tori di Castenedolo e faceva parte del gruppo di ultras “Brescia 1911”. Come dichiara Ilaria Marinara, responsabile ufficio campagne per Amnesty Italia: “A settembre 2025 saranno trascorsi vent’anni da quella tragica violenza subita da Scaroni per mano delle forze di polizia alla stazione di Verona. Vent’anni in cui chi doveva pagare per l’invalidità causata a Paolo non ha pagato. Vent’anni di campagne della società civile e di Paolo stesso per chiedere l’introduzione dei codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico, ma su questo molta altra strada c’è da fare”. Oggi Paolo è invalido con totale inabilità lavorativa. Chi lo ha massacrato e ridotto in queste condizioni, invece, non ha pagato alcunché. La storia di Enrico Lombardo - “Non mi interessa, non mi interessa”. Queste le ultime parole che, con un ginocchio di un carabiniere in borghese sulla schiena che preme la sua faccia sull’asfalto, pronuncia Enrico Lombardo prima di morire, nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019. Siamo a Spadafora, frazione del comune di Messina: il 42enne si era recato per due volte sotto casa della sua ex, con cui non conviveva più da tre anni. La prima volta, dal verbale Enrico risulta “vigile e collaborante” e viene invitato ad andare a casa. La seconda volta, viene immobilizzato da due agenti, anche attraverso colpi ripetuti di manganello. Il sangue inizia a sgorgargli dal capo. Enrico continua a lamentarsi. Tre carabinieri iniziano a sferrargli calci, gli bloccano spalle e gambe. Enrico urla fino a quando la sua voce non diventa sempre più flebile. Secondo le ricostruzioni resterà con la testa schiacciata sull’asfalto per circa 20 minuti. La prima ambulanza senza medico a bordo, la macchia di sangue cancellata sulla scena del delitto, il testimone mai ascoltato, le ricostruzioni contraddittorie e i dubbi sulle due archiviazioni: “Chi ha ucciso Enrico è ancora in servizio”, ci racconta la ex moglie. Consulta, accordo in vista: le ultime spine della “rosa” di Kaspar Hauser Il Manifesto, 14 gennaio 2025 Nomine della Corte Costituzionale Oggi possibile fumata bianca su quattro giudici, ma Forza Italia tiene tutti in sospeso. Oggi attorno alle 16 il presidente della Camera Lorenzo Fontana dovrebbe annunciare i nomi dei quattro nuovi giudici costituzionali che mancano alla Consulta per colmare il plenum. A imporre l’uso del condizionale è la prudenza, visto che si tratta pur sempre di elezioni a scrutinio segreto. E soprattutto perché è il centrodestra, e meglio ancora Forza Italia, che sta sfogliando la margherita dei nomi. In ogni caso se dovesse giungere un’altra fumata nera, Fontana è pronto a convocazioni quotidiane del parlamento in seduta comune. Prima dei nomi dei probabili eletti, è interessante raccontare le logiche seguite e anche i tentativi falliti. Abbiamo già riferito sabato scorso che maggioranza e opposizione avevano raggiunto un’intesa su uno schema generale: due giudici sarebbero stati espressi dal centrodestra, uno dalle opposizioni, mentre un quarto sarebbe dovuto essere un profilo tecnico-istituzionale. In più maggioranza e opposizione si sono impegnati a non porre veti sui nomi che la controparte avrebbe proposto. Non era stato scontato arrivare a tale intesa generale. Il tentato blitz di Giorgia Meloni di imporre il nome di Francesco Saverio Marini con i soli voti della maggioranza e con l’aiutino di qualche parlamentare delle opposizioni (si era parlato di M5s in uno scambio sulle nomine Rai), aveva fatto porre un veto da parte del Pd su Marini (poi caduto), su cui invece Giorgia Meloni non intendeva deflettere. Poi c’è stato un nuovo tentativo del centrodestra per un accordo separato con M5s su un nome gradito dal Movimento (ha circolato quello del professore Michele Ainis), il che avrebbe reso più impervie però futuri intese del partito di Giuseppe Conte con quello di Elly Schlein alle regionali. A sua volta la segretaria del Pd ha dovuto rinunciare all’indicazione del professore Andrea Pertici per più motivi: il costituzionalista è inviso a Iv e ai riformisti del Pd (Pertici è stato l’avvocato del tribunale di Firenze nel giudizio della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione con il senato nella vicenda di Renzi e del processo Open) ma anche a Conte, che mal digerisce un nome indicato dalla segretaria del Pd. La scelta di tutte le opposizioni di proporre il professore Massimo Luciani, è dunque figlia anche del caso. Il secondo nome del centrodestra doveva essere indicato da Forza Italia, visto che la Lega ha già indicato il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Si è parlato di derby tra due senatori berlusconiani, vale a dire il viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto e il capogruppo in commissione giustizia del senato Pier Antonio Zanettin. Il primo aspira, senza nasconderlo, allo scranno alla Consulta da mesi, ma ha un doppio handicap: è stato eletto in un collegio uninominale, e le sue dimissioni da parlamentare implicherebbero un’elezione suppletiva; inoltre aprirebbe per Antonio Tajani la bega della sua sostituzione al governo, con tanti aspiranti. Ma anche deludere il pugliese Sisto a vantaggio del veneto Zanettin avrebbe delle controindicazioni. In più il passaggio diretto dal parlamento alla Consulta non si è mai registrato, il che vale per entrambi. Di qui il terzo nome, di cui si parla da giorni. Tajani ieri pomeriggio ha gelato tutti parlando di una elezione “domani o in settimana” visto che c’è da decidere se il giudice da eleggere debba essere “un parlamentare o un non parlamentare”. Tra i nomi “terzi” sono in ballo quelli del professore Andrea Di Porto, che nel 2016 difese (con successo) Fininvest in un contenzioso con la Banca d’Italia che le chiedeva di cedere le quote di Mediolanum, ma anche quello della professoressa Valeria Mastroiacovo, spinta dall’ala cattolica del partito. Quest’ultima era stata proposta al centrosinistra tra i profili tecnici, ma da Schlein è arrivato un “niet”; Mastrojacovo è infatti segretaria generale dell’Unione dei giuristi cattolici italiani (Ugci), e la segretaria dem teme una sua posizioni conservatrice sui temi legati ai diritti. E un non possumus di Schlein per gli stessi motivi è arrivato anche alla costituzionalista dell’Università di Milano Lorenza Violini, considerata vicina a CL. Alla fine il punto di caduta è stato l’avvocata generale dello Stato, Gabriella Palmieri Sandulli. Ma ieri sera è scattata una nuova ipotesi in casa berlusconiana: eleggere Sandulli in quota Fi, e lasciare indicare il tecnico alle opposizioni, e quindi a M5s, così da incassare il via libera in Vigilanza Rai all’elezione di Simona Agnes alla presidenza Rai. Parigi val bene una messa. Ancora trattative sull’elezione dei giudici alla Consulta. Frizioni FdI-FI di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 gennaio 2025 I partiti non hanno ancora trovato l’accordo per l’elezione di quattro componenti mancanti della Corte costituzionale di nomina parlamentare. FdI propone Marini, il Pd Luciani, Forza Italia Sisto o Zanettin (ma Meloni non sarebbe d’accordo). I partiti non hanno ancora trovato l’accordo per l’elezione di quattro componenti mancanti della Corte costituzionale di nomina parlamentare, con il Parlamento in seduta comune convocato oggi alle ore 13. La trattativa potrebbe andare in porto a ridosso dello scrutinio ma esiste il rischio che, dopo dodici votazioni andate a vuoto per il mancato raggiungimento del quorum, anche quella prevista oggi veda alla fine una fumata nera, costringendo i partiti all’ennesimo rinvio e lasciando la Consulta con 11 componenti su 15, il minimo legale per poter deliberare. Sarebbe con questa striminzita composizione che la Corte costituzionale il 20 gennaio si ritroverebbe a decidere sull’ammissibilità del referendum abrogativo della riforma sull’autonomia differenziata. Neanche il vertice tenuto ieri pomeriggio dalla premier Meloni a Palazzo Chigi con i due leader alleati, Antonio Tajani e Matteo Salvini, per il momento sembra essere servito a sbrogliare la matassa. L’accordo di massima c’è e prevede che due giudici siano indicati dalla maggioranza (uno in quota Fratelli d’Italia e uno in quota Forza Italia, dal momento che la Lega ha già ottenuto due anni fa la vicepresidenza del Csm, con Fabio Pinelli), uno dal Pd (insieme agli altri partiti di opposizione) e che il quarto abbia invece un’estrazione politica “neutra”. Il meccanismo si è inceppato attorno ai nomi proposti da Forza Italia: l’attuale viceministro della Giustizia e senatore, Francesco Paolo Sisto, o il senatore Pierantonio Zanettin (capogruppo del partito in Commissione Giustizia). Da quanto emerge, Fratelli d’Italia avrebbe espresso perplessità sull’opportunità di scegliere un parlamentare per la Consulta. FdI non ha cambiato idea e propone Francesco Saverio Marini, professore di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata e attuale consigliere giuridico del governo, considerato il “padre” del premierato. Anche il Partito democratico sembra avere le idee chiare. La segretaria Elly Schlein si sarebbe convinta a mettere da parte il nome di Andrea Pertici, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa con una forte connotazione politica: non solo è membro della direzione nazionale del Pd e consigliere giuridico della segretaria, ma da avvocato ha redatto il ricorso della regione Toscana contro la riforma del governo sull’autonomia differenziata. Per la Corte costituzionale i dem sarebbero così intenzionati a proporre il nome di Massimo Luciani, professore emerito di Diritto pubblico dell’Università La Sapienza di Roma, tra i più noti e stimati costituzionalisti italiani. Nel marzo 2021 venne nominato dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia come presidente della commissione di studio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. La scelta del quarto giudice costituzionale resta strettamente legata a quella su cui ricadrà Forza Italia. Nel caso in cui cedesse ai dubbi espressi da FdI, il partito di Tajani potrebbe proporre l’elezione in quota FI del meno noto Andrea Di Porto, docente all’Università La Sapienza di Roma, in passato avvocato di Silvio Berlusconi e di Fininvest, oppure di Gabriella Palmieri Sandulli, avvocata generale dello stato. Quest’ultima, in realtà, potrebbe andare a ricoprire anche il posto riservato al quarto giudice “neutro”, per il quale circola anche il nome di Valeria Mastroiacovo, docente di Diritto tributario all’Università degli Studi di Foggia e segretaria dell’Unione giuristi cattolici italiani. La giustizia e le carriere separate di Luciano Violante Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Sarebbe opportuno un ripensamento sulla riforma per evitare che in un possibile referendum i cittadini votino non pro o contro una legge ma pro o contro la magistratura. La cosiddetta separazione delle carriere non ha nulla a che vedere con l’amministrazione della giustizia. Si tratta di un tentativo di riequilibrio dei rapporti tra politica e magistratura, a vantaggio della politica, dopo circa mezzo secolo di primato della magistratura. L’esigenza è fondata; tuttavia non vanno sottovalutati i rischi della soluzione proposta. Separare dai giudici i circa 1.500 pubblici ministeri e costruire per loro un apposito CSM, distinto dal CSM dei giudici, significa creare una nuova corporazione giudiziaria del tutto autogestita. Una sorta di superpolizia, priva di controlli, separata dai giudici, autogovernata, dotata di formidabili poteri di ingerenza nella vita dei singoli, delle famiglie, delle imprese e della stessa politica, con rischi rilevanti per le libertà di tutti i cittadini. Si tratterebbe di una istituzione illiberale sconosciuta ai paesi civili. Tra i sostenitori della riforma ci sono molti parlamentari dotati di competenza e di esperienza, che non possono ignorarne i rischi. L’alternativa è inevitabile. Questi parlamentari o ritengono che una soluzione “punitiva” per la magistratura sia comunque necessaria, costi quel che costi, anche a danno della libertà dei cittadini e della stessa politica, per ottenere un riequilibrio dei poteri. Oppure ritengono che questo sia solo un primo passo per giungere al controllo politico dei pubblici ministeri e quindi della intera giustizia penale, visto che l’iniziativa per avviare un processo penale spetterebbe comunque al pm. Sarebbe comunque necessario un ripensamento. Nel dibattito parlamentare molti hanno portato gli esempi di Francia e Germania dove le due funzioni, di giudice e di pm, sono distinte. È vero, ma esistono decisive differenze: in quei paesi i pm dipendono dal ministro della giustizia, l’azione penale è discrezionale e il passaggio da una funzione all’altra non è vietato, come sarebbe da noi, anzi è ritenuto, soprattutto in Francia, un titolo di merito perché arricchisce l’esperienza professionale. Pertanto le critiche al progetto, sfrondate dalla tendenza alla difesa dell’esistente, andrebbero considerate con attenzione perché pongono una questione di libertà: sono a rischio l’attività politica e alcuni fondamentali diritti dei cittadini: alla reputazione, alla riservatezza, alla libertà personale, alla proprietà. Piuttosto c’è un diverso e più serio problema da affrontare. Una recente circolare del CSM, di ben 181 pagine, prevede una gestione paraassembleare delle procure sollevando i singoli sostituti dai vincoli gerarchici, necessari invece per assicurare una parità di trattamento per tutti i cittadini. Senza un vincolo gerarchico, avremmo nelle Procure una sorta di policentrismo anarchico: 1500 pm titolari della politica criminale del Paese che possono seguire modalità diverse da caso a caso. Un rischio già oggi presente, che andrebbe rimosso, non potenziato, come avverrebbe con questa riforma. Ultima osservazione. Si sente parlare della partecipazione attiva dei magistrati alla quasi certa campagna referendaria. Capisco le motivazioni, ma sarebbe opportuno un ripensamento per evitare che i cittadini votino non pro o contro una legge ma pro o contro la magistratura, che così diventerebbe parte di un conflitto politico. Se la giustizia ora interessa agli elettori di Augusto Minzolini Il Giornale, 14 gennaio 2025 Una volta erano i partiti politici a mostrare una maggiore sensibilità verso un argomento delicato come la politicizzazione dei magistrati; ora, invece, sono gli elettori. Siamo al primo giro di boa per l’approvazione della riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra giudici e pm: domani comincerà l’esame a Montecitorio che dovrebbe concludersi tra mercoledì e giovedì, poi ci sarà l’esame del Senato, le doppie letture e infine il referendum nel 2026 che vede già l’Associazione Nazionale Magistrati schierata contro. A conti fatti, insieme all’autonomia, è una delle riforme che l’esecutivo porterà a casa, visto che quella del premierato continua ad essere in bilico per i tempi e difficilmente arriverà in porto in questa legislatura. Un segnale forte quello lanciato dal governo sulla giustizia ma anche con qualche contraddizione. La più grossolana è quella di nominare per sorteggio nei due Csm (quello dei giudici e quello dei pm) anche i membri laici, cioè quelli espressione del Parlamento. Una soluzione paradossale per non dire surreale, perché un conto è usare il metodo della lotteria per i membri togati che sulla carta non dovrebbero far parte di schieramenti partitici o ideologici, un altro è usare lo stesso meccanismo per quelli che dovrebbero essere indicati dai partiti che, per natura, dovrebbero essere espressione invece di aree politiche, culturali e financo ideologiche. Ma così va il mondo: per non avere troppe rotture di scatole il governo ha deciso di usare il sorteggio per tutto. Una scelta pragmatica che, però, in questo caso non va a braccetto con la logica. E non va incontro neppure al sentimento generale del Paese, perché utilizzare due metodi diversi, sorteggio per i magistrati ed elezione per i membri laici avrebbe dato un ulteriore segnale ad una magistratura su un problema che attira sempre più l’attenzione dell’opinione pubblica: la politicizzazione delle toghe. Ieri su La Repubblica, che non è certo un giornale che appartiene alla galassia ipergarantista, semmai è tutt’altro, è apparso un sondaggio interessante: rispetto allo scorso anno è aumentato il numero degli italiani che considerano la magistratura politicizzata, la percentuale è passata dal 52% del 2023 al 54% di quest’anno. Una critica devastante, l’argomento principe dello scontro che ha diviso per più di trent’anni, sin dai tempi di Tangentopoli, le toghe dalla politica: bastava guardare la puntata di Report dell’altra sera che - basandosi sulle inchieste paranoiche di una certa magistratura, appunto, politicizzata - ha ritirato fuori il teorema folle del rapporto di Silvio Berlusconi con la mafia. I danni che certe toghe hanno fatto alla giustizia è proprio nei dati del sondaggio, da cui emerge che nella percezione della maggioranza del Paese è passata l’idea che la magistratura si muova per logiche di parte, politiche. Un danno enorme perché mina alla base il concetto di una giustizia giusta, imparziale, uguale per tutti e terremota la fiducia dei cittadini verso i giudici. Altro aspetto non banale dello studio riguarda l’orientamento degli elettori dei singoli partiti. Ebbene, il partito che sente più il problema della politicizzazione dei magistrati, anche se non ha un grande tradizione garantista, è Fratelli d’Italia: addirittura è di questo parere il 77% degli elettori della premier. Seguono poi la Lega con il 75% e Forza Italia, Italia Viva e Azione, tutti e tre con il 59%. Anche se può apparire incredibile, quasi la metà del movimento 5stelle ha questa percezione (il 47%), mentre il meno sensibile al problema è il Pd (21%). La ragione è ovvia: è quello che ha goduto di più in questi decenni di una presenza più organizzata tra le toghe. Ora, quei dati dimostrano pure un’inversione di tendenza rispetto al passato, di fatto si è ribaltata la situazione: una volta erano i partiti a mostrare una maggiore sensibilità verso un argomento delicato come la politicizzazione dei magistrati; ora, invece, sono gli elettori. Un buon viatico per il referendum. Ma soprattutto uno sprone nei confronti della politica affinché affronti con maggior decisione un tema che ha caratterizzato l’ultimo pezzo di Storia del Paese. La riforma della giustizia, infatti, sul piano simbolico segnerà più di altre il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica. L’AI sarà la morte del giusto processo e del ragionevole dubbio di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 14 gennaio 2025 Esistono due tipi di epistemologia. La prima è una epistemologia descrittiva, costruita sull’essere, ossia su come nella realtà agisce l’intelligenza umana nei suoi processi conoscitivi. La seconda è una epistemologia prescrittiva o normativa, costruita sul dover essere, nella quale si dettano, si impongono i criteri di scientificità del sapere. Nell’ambito di quest’ultima si sta progressivamente affermando l’intelligenza artificiale che si accinge a entrare nel processo penale a certe condizioni, tra le quali l’osservanza delle regole del giusto processo, la conoscibilità dei meccanismi decisionali, il principio della non discriminazione algoritmica. Temo che queste rassicuranti condizioni rappresentino una sorta di libro dei sogni, essendo in gran parte irrealizzabili: nel confronto tra l’intelligenza umana e quella artificiale sarà soprattutto la seconda a imporre le sue pretese. Non alludo solo alle temibili conseguenze indirette, come il prevedibile effetto di assopire il nostro cervello, di esonerarci gradualmente dal ragionare, più o meno come il computer ci ha disabituato all’uso della penna. Oggi non si è più in grado di scrivere a mano e, quel che è peggio, anziché leggere i libri, ci si limita per lo più a scorrere - “scorrere” è l’espressione giusta - le pagine del web. Non è questione di misoneismo, si tratta solo di riconoscere che non tutti i prodotti della scienza sono destinati per ciò stesso ad apportare, sempre e ovunque, un reale beneficio. Possiamo servirci dell’intelligenza artificiale in determinati ambiti, ad esempio nella scienza medica a fini prognostici e di cura, perché qui la lotta è contro la malattia e nell’interesse del paziente. Ma, dove si tratta di punire, di privare l’individuo della libertà personale, dove lo Stato interviene come mediatore dei conflitti più brutali, come quello tra il delitto e la punizione del colpevole, lì non credo che possa avere spazio l’intelligenza artificiale; per lo meno sino a quando sarà diritto dell’imputato di esaminare, comprendere e criticare le prove e gli argomenti sulla cui base viene condannato. È sconvolgente che anche in questa sede l’intelligenza artificiale si sviluppi nell’indifferenza e con la coscienza tranquilla di molti, come se alla durezza del fine punitivo dovesse corrispondere la dis- umanità del metodo: sarebbe quanto meno saggio vietarne l’uso a fini di giustizia, specie se penale. L’intelligenza artificiale si esprime attraverso i computer e non credo che un processo veicolato dai computer possa dirsi più giusto e democratico, né per quanto riguarda la formazione della prova né per quanto attiene alla decisione. In entrambi i casi l’effetto sarebbe di un irreversibile svuotamento della fase dibattimentale, di un arretramento dell’asse del processo verso la fase delle indagini preliminari, secondo la logica già inaugurata dalla riforma Cartabia. Questa riforma ha di fatto privato della pubblicità e dell’oralità i giudizi sulle impugnazioni, riducendoli allo scambio di memorie in camera di consiglio; con l’intelligenza artificiale vi sono buone probabilità che analoghe scelte si estendano anche al primo grado di giudizio. Il solo settore in cui potrebbe forse operare senza danno l’intelligenza artificiale è a fini puramente euristici, nell’indirizzare le indagini: ma, una volta ammessa, finirebbe presto per dilagare altrove con nefasti effetti sul contraddittorio orale. Quanto alla formazione delle prove, si ha un bel dire che la loro ammissione dovrà sottostare a severe condizioni di ammissibilità. A prescindere dalle difficoltà di realizzare il controllo su ciò che impropriamente è chiamata la “capacità dimostrativa” della prova, la prima conseguenza del giudizio positivo sarebbe di “sacralizzare”, di rendere di fatto inconfutabile la prova stessa sin dal momento del suo ingresso nel processo. Quanto all’uso dell’intelligenza artificiale a fini decisori, è altrettanto evidente la difficoltà di sottoporre a critica un meccanismo costruito sull’autoapprendimento e sullo sviluppo dei dati immessi dall’operatore. Meccanismo che, nondimeno, è ben lungi dall’essere infallibile: può incappare in madornali errori, essendo oggetto del processo un “passato”, ormai scomparso e, come tale, insuscettibile di apprensione diretta. Neanche l’intelligenza artificiale può riportare in vita il tempo del passato, risuscitare ciò che “è stato”; né può un senso a quella bella formula di bilanciamento costituita dalla regola dell’oltre ogni “ragionevole” dubbio. Solo la mente umana può interpretare l’aggettivo “ragionevole”, che, nella sua preziosa ambiguità, tempera e modera le nostre pretese di verità. Per rendere i nostri computer idonei a decidere, si dovrebbe individuare la percentuale di probabilità idonea a ritenere “provato” un fatto; ma la formula del ragionevole dubbio nasce proprio dal disaccordo sui margini di errore compatibili con l’esito positivo della prova. Meglio allora affidarsi al motivato convincimento del giudice che almeno lascia oscura, non individuabile a priori, la cifra delle possibili condanne ingiuste; e non ci costringe a ipotizzarle come inevitabili, ancora prima che siano pronunciate. Purtroppo, l’informatica si sta convertendo in una super- scienza, nella nuova epistemologia, che autoritativamente detta le condizioni di sopravvivenza alle singole discipline, destinate a restarle subordinate; tra le quali vi è purtroppo anche la procedura penale che, attraverso l’intelligenza artificiale, si avvierebbe a diventare una sotto-disciplina, un semplice capitolo della pervasiva informatica. In questo desolante quadro, l’illustre antropologo Tim Ingold ha mirabilmente espresso una nota di speranza: “In futuro, le persone dimenticheranno come cantare, allo stesso modo in cui hanno dimenticato come scrivere a mano. Vi è, tuttavia, speranza perché la rivoluzione digitale ha di certo i giorni contati. Quasi sicuramente si autodistruggerà, probabilmente già entro questo secolo. In un mondo che fronteggia l’emergenza climatica, è manifestamente insostenibile. Non solo perché dai supercomputer dipende il consumo di colossali quantitativi di energia, ma anche perché l’estrazione di metalli pesanti tossici da utilizzare nei dispositivi digitali sta fomentando conflitti genocidi in tutto il mondo e verosimilmente renderà molti ecosistemi inabitabili per sempre. Una piccola invenzione potrebbe salvarci la vita, e forse anche il pianeta. Consisterebbe in niente più che un tubicino da tenere in mano, montato su un’asta e riempito di un liquido nero o colorato, estratto da materia vegetale”. Il prezioso oggetto su cui riposano le nostre speranze ha un nome illustre, oggi fuori moda: la Penna. *Giurista Reati estinti, diritto all’oblio e la memoria di Internet: la soluzione arriva dagli Usa di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Le notizie che si trovano in rete danneggiano chi ha pagato il conto con la giustizia. In America giornali e siti hanno iniziato a rimuovere i vecchi articoli. Alcuni teologi ipotizzano che l’ultimo pensiero di San Pietro appena prima di spirare crocifisso a testa in giù - una richiesta sua, per non morire come Gesù - sia stato “almeno non sentirò più cantare il gallo”. Il chiaro riferimento era alla profezia del suo Maestro, puntualmente avveratasi, che al termine dell’ultima cena lo aveva ammonito: “Questa stessa notte prima che il gallo canti due volte mi rinnegherai tre volte”. La dannazione seguita a quel tradimento gli sarebbe stata poi ripresentata sotto forma di memoria per tutta la vita come inizio di ogni giornata: perché un gallo che canta all’alba, almeno allora, c’era ovunque. Come oggi Internet. Che se un giorno fai una cosa sbagliata, magari un reato, e quella finisce su un giornale e poi su un sito, ti potrà sempre essere rimessa davanti. A te, ai tuoi amici, al tuo datore di lavoro, anche molti anni dopo averla pagata. Il contrario sarebbe il “diritto all’oblio”. Un tabù, per il mondo classico dell’informazione: la cancellazione di un fatto dagli archivi. Almeno quando la sua memoria diventa irrilevante o peggio dannosa per chi ne è stato protagonista come agente o come vittima. E invece, negli Stati Uniti, prima una agenzia di stampa e ora alcuni giornali hanno cominciato a farlo. A tradurre in pratica il Diritto all’oblio. La prima è stata appunto un’agenzia dell’Ohio. Che ha cominciato a cancellare le vecchie storie, con foto segnaletiche e resoconti su persone accusate di vecchi reati che nel nostro mondo dominato dai motori di ricerca continuano a rispuntare anche decenni dopo che il conto con la giustizia è stato regolarmente pagato dal condannato. Ora, più o meno nello stesso modo in cui gli avvocati per i diritti civili lottano per far sì che i precedenti penali e giudiziari dei cittadini vengano secretati, Chris Quinn, direttore di Cleveland.com e del quotidiano Plain Dealer, sostiene che i giornali debbano rimuovere i vecchi articoli riguardanti crimini o reati minori che sono stati espiati. Secondo quanto riportato dal Guardian, il concetto si è poi diffuso al Boston Globe, all’Atlanta Journal-Constitution, al Bangor Daily News nel Maine, all’Oregonian e al sito NJ.com del New Jersey. Quinn ha spiegato le motivazioni alla base dei suoi sforzi in un articolo su Cleveland.com che fa risalire la sua crisi di coscienza al 2018, quando aveva appena terminato di estrarre dagli archivi cinque nomi con relative foto. “Una era una persona che lavorava nel settore sanitario e aveva rubato dei farmaci al suo datore di lavoro. Un giudice alla fine ha dichiarato che non solo aveva scontato la pena ma si era anche completamente riabilitata. Nel frattempo però aveva perso la licenza per lavorare nel suo campo. E il fatto è che mentre cercava di iniziare una nuova carriera ogni ricerca del suo nome su Google faceva riemergere i nostri articoli sul suo crimine, insieme con la sua foto segnaletica. Un altro era un uomo che ha rubato dei rottami metallici anni fa. Ha scontato la sua pena e la sua fedina penale si è ripulita. Eppure la nostra storia lo ha perseguitato”. Quinn è stato intervistato dal Guardian e ha detto di aver ricevuto regolarmente telefonate ed e-mail da queste persone, che chiedevano che le loro storie venissero rimosse. Era stanco di “restare sulla tradizione” invece di essere semplicemente compassionevole. “Non ce la facevo più... Mi ero semplicemente stancato di dire di no alla gente”, ha detto. Per ironia della sorte un alleato nella lotta per essere dimenticati è arrivato a un certo punto proprio da Google, che nel 2022 ha pagato Quinn e il suo team 200mila dollari per effettuare nei suoi archivi ricerche proattive su 1,4 milioni di contenuti. Allo scopo di eliminare storie che potrebbero essere imbarazzanti per i cittadini che hanno scontato una pena e/o pagato il loro debito con la società, o anche solo per coloro che hanno commesso atti imbarazzanti. Anche l’Oregonian sta adottando provvedimenti per fare qualcosa del genere. Secondo l’editor Therese Bottomly ogni richiesta viene presa molto seriamente e analizzata singolarmente. Alcune vengono rimosse, altre vengono deindicizzate da Google in modo che non appaiano in una query di ricerca ma possano comunque essere trovate negli archivi dell’Oregon per un motivo o per un altro. Naturalmente non tutti i casi sono uguali, la valutazione va fatta volta per volta. “Ma queste persone - ha detto Bottomly al Guardian - un giorno saranno i nostri vicini, i nostri colleghi e, si spera, membri contribuenti della società. Quindi non dovremmo trovare dei modi per non essere almeno una barriera inutile al loro rientro tra noi, quando hanno pagato il loro debito?”. I giudici e il duplice femminicidio “umanamente comprensibile” di Errico Novi Il Dubbio, 14 gennaio 2025 Rivolta contro la sentenza della Corte d’assise di Modena che ha concesso le attenuanti (ed evitato l’ergastolo) a Salvatore Montefusco, il 73enne autore del delitto di Cavazzona. Sono le 19 quando si fa il bilancio delle dichiarazioni alle agenzie: almeno una quarantina, a poche ore dalla notizia delle motivazioni con cui la Corte d’assise di Modena ha deciso di condannare a trent’anni anziché all’ergastolo Salvatore Montefusco, il 73enne che il 13 giugno del 2022 uccise a fucilate la moglie Gabriela Trandafir e la figlia di lei Renata, a Cavazzona, frazione di Castelfranco Emilia. Una lunga sequenza di espressioni indignate, provenienti non solo dall’avvocata che rappresenta i familiari delle vittime, Barbara Iannuccelli, secondo la quale le parole dei magistrati “legittimano gli uomini, se vivono una situazione conflittuale, a eliminare il problema a colpi di fucile”. Intervengono parlamentari ed esponenti politici di tutti gli schieramenti: duri attacchi, giudizi sconcertati nei confronti del collegio modenese che, per citare Maria Elena Boschi di Italia Viva, “ci porta indietro di decenni, cancellando i progressi ottenuti con le battaglie delle donne nelle istituzioni e nella società”. Pesa soprattutto un passaggio delle motivazioni, depositate l’8 gennaio scorso: la “comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato”. Nelle tante reazioni, colpisce, in positivo, che nessuno si sia scagliato contro la presidente della Corte d’assise Ester Russo, che ha redatto materialmente la sentenza, per il fatto stesso di essere donna. Di solito avviene sui social con le avvocate che difendono le persone accusate di violenza sessuale. Almeno è risparmiata l’aggressione alla giudice. Ma certo quella parola, quell’aggettivo, “umana”, associato alla asserita “comprensibilità” del movente, fa la differenza. “Umano” è termine che richiama pietà, empatia, riconoscimento della condizione penosa dell’altro. E poi c’è il concetto: “Arrivato incensurato a 70 anni”, Montefusco “non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”. Il duplice femminicidio si radicherebbe nella “condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione ed enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare, e con essa anche controllo e cura del figlio”. E fin qui forse non scatta ancora la reazione. Come pure a fronte del passaggio in cui si considera “plausibile” che l’intimazione di lasciare la casa rivolta dalla vittima Renata al marito assassino Salvatore abbia determinato nel reo, “come dallo stesso più volte sottolineato, quel black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma”. Da qui la concessione delle attenuanti generiche e la loro equiparazione alle aggravanti, da qui i 30 anni di carcere anziché l’ergastolo chiesto dalla Procura di Modena. Pesano, anche, la “confessione”, la sostanziale incensuratezza, il contegno processuale “corretto” e, considerazione che diventa dirompente sul piano mediatico, “la situazione che si era creata nell’ambiente familiare e che lo ha indotto a compiere il tragico gesto”. È una sentenza destinata non solo all’impugnazione in appello, ma soprattutto a generare discussioni per anni di qui a venire. E d’altra parte il caso esemplifica nel modo più netto la potenza della mediatizzazione giudiziaria. Le frasi proposte dalle agenzie di stampa nelle loro prime sintesi diventano le uniche rilevanti. Ce ne sono, nelle motivazioni, altre che per certi aspetti farebbero persino più impressione, sganciate dal tecnicismo che pur deve informare una condanna per omicidio. Ad esempio, e sempre nella parte in cui la Corte d’assise giustifica la concessione delle “generiche”, il passaggio relativo “all’efficacia determinante che ha rivestito il contegno delle due vittime nella formazione della volontà omicida del predetto”. Forse anche più pesante, dal punto di vista del lettore non giurista. Si esclude una vera e propria “provocazione” del duplice delitto, invocata dalla difesa di Montefusco. E si legge che la reazione dell’allora 70enne alle parole ritenute scatenanti, “devi andartene da questa casa”, sia stata “aberrante”. Difficile davvero non riconoscere l’inappropriatezza di quell’aggettivo, “umana”. Difficile resistere alla tentazione di dire che il magistrato, nel redigere le motivazioni di una condanna per omicidio, debba sforzarsi non solo di indicare i “motivi a delinquere del reo”, come impone l’articolo 133 del codice penale; che debba non solo sforzarsi di svolgere un’indagine psicologica su quei “motivi”, sforzo abnorme, che richiede una formazione continuamente aggiornata in materia di analisi del comportamento; che insomma il giudice non può evidentemente limitarsi a cercare le parole tecnicamente più adatte a sorreggere l’analisi sulla condotta del colpevole, ma che dovrebbe comprendere a propria volta anche la delicatezza delle parole di una sentenza al cospetto dell’opinione pubblica. Pochi casi più di quello del femminicidio commesso da Salvatore Montefusco il 13 giugno 2022 dimostrano quanto sarebbe utile al magistrato che estende una sentenza una migliore consapevolezza delle conseguenze mediatiche prodotte dalle proprie parole, prima ancora che dalle proprie decisioni. Può darsi che le espressioni dell’autrice della sentenza di Modena siano non solo infelici, ma anche incoerenti, e che il giudice di secondo grado modifichi la decisione. Ma resta il peso di cui la magistratura deve sapersi far carico nei processi che riguardano la violenza di genere. I messaggi che arrivano all’esterno, come dice l’avvocata Iannuccelli, possono essere devastanti. Al di là dell’intenzione di chi scrive le motivazioni di una condanna per omicidio. “I motivi comprensibili” secondo i giudici: “Maltrattamenti e ricatti” di Valentina Lanzilli Corriere della Sera, 14 gennaio 2025 Condanna a 30 anni per il duplice omicidio: “Lo umiliavano, agì per motivi umanamente comprensibili”. “Arrivato incensurato a 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”. E ancora: “La situazione che si era creata nell’ambiente familiare lo ha indotto al tragico gesto, compiuto per motivi umanamente comprensibili”. Questi alcuni passaggi scritti nella sentenza a carico di Salvatore Montefusco, oggi 72 anni, imprenditore edile che il 13 giugno 2022 a Castelfranco Emilia, Modena, imbracciò un fucile e uccise davanti al figlio minorenne prima la moglie Gabriela Trandafir, di 47 anni, e poi la figlia di lei, Renata, di 22. Per il doppio femminicidio Montefusco è stato condannato il 9 ottobre in primo grado a 30 anni di reclusione. Niente ergastolo. E nelle motivazioni della Corte d’Assise di Modena si legge che l’uomo era “meritevole di beneficiare delle attenuanti generiche perché incensurato, per la sua confessione, per il contegno processuale e per la situazione che si era creata in famiglia che lo ha indotto a compiere il gesto”. Proteste e indignazione - Motivazioni che sollevano più di un dubbio e non poche proteste. “L’ergastolo lo abbiamo avuto noi, non lui. Spero che presto venga fatta giustizia e che venga alla luce tutta la verità su questa vicenda - commenta Elena, sorella di Gabriela, parte civile nel processo - . Mia sorella e mia nipote, che aveva soltanto 22 anni, devono avere giustizia, speriamo ora nella sentenza d’appello. Con il verdetto di primo grado sono state uccise una seconda volta”. “Una sentenza che ci riporta all’omicidio di Olga Matei nel 2016, quando la corte d’appello dimezzò la pena perché l’assassino venne ritenuto in preda a una tempesta emotiva per la sua gelosia”, ha commentato invece l’avvocato dei famigliari delle vittime, Barbara Iannuccelli. “Parliamo di un omicidio avvenuto davanti a un minore, testimone oculare. Niente può giustificare il mancato ergastolo. Siamo increduli. Il messaggio che si manda attraverso questa sentenza è “uomini, se vivete una situazione conflittuale potete eliminare il vostro problema a colpi di fucile che lo Stato vi capirà”“. Le attenuanti generiche - La Procura di Modena aveva chiesto la massima pena, ma i giudici hanno riconosciuto le attenuanti generiche equivalenti rispetto alle aggravanti, escludendo premeditazione, motivi abietti e futili, la crudeltà e ritenendo “assorbiti” nell’omicidio i maltrattamenti che per anni Gabriela aveva denunciato e che l’avevano portata alla separazione, che sarebbe dovuta avvenire all’indomani del femminicidio. La sentenza spiega poi come il delitto sia avvenuto in un contesto di forte conflitto tra Montefusco e le due donne, con denunce reciproche. Secondo i giudici il movente “non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico” sulla casa dove vivevano. Ma è piuttosto da riferirsi “alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità”. Condizioni che secondo la Corte modenese gli hanno provocato un “black out emozionale ed esistenziale” e che lo hanno portato ad agire in “un impeto d’ira” senza autocontrollo. Le fucilate - Quella mattina Renata aveva tentato di scappare scavalcando un muretto e il patrigno dopo averla ferita, “la finì con colpi di fucile al cranio per cagionarne una rapidissima morte”. Anche per Gabriela stessa sorte. Una fucilata alle spalle e una in testa. Montefusco, secondo i giudici, “non voleva provocare alla donna sofferenze ulteriori e gratuite”. Uccise il padre violento: Alex Pompa assolto nel processo di appello bis di Simona Musco Il Dubbio, 14 gennaio 2025 La Corte di Assise di Appello conferma la sentenza di primo grado dopo la condanna in appello e l’annullamento con rinvio della Cassazione. Il legale: “Ha agito solo per difendere”. Fu legittima difesa. Ed è per questo che Alex Cotoia è stato assolto. Un verdetto che ha fatto esplodere in un grido liberatorio il pubblico della Corte d’Assise d’appello di Torino, dove il processo era tornato a seguito della decisione della Cassazione di annullare con rinvio una precedente sentenza di condanna. Cotoia, che ha cambiato cognome prendendo quello della madre, nel 2020 uccise il padre Giuseppe Pompa con 34 coltellate a Collegno (Torino), durante un litigio violento, l’ennesimo, per difendere la madre minacciata di morte dal marito per una questione di gelosia. Lui credeva che la moglie, cassiera in un supermercato, avesse un amante, un collega di lavoro. E voleva fargliela pagare. Così Alex si mise in mezzo, uccidendolo. Fu lui, poi, a chiamare i carabinieri. “Voleva ucciderci tutti. Quando l’ho visto andare verso la cucina, l’ho solo anticipato”, ha poi raccontato. Dopo una prima assoluzione e una condanna in appello a 6 anni e 2 mesi e 20 giorni, ora la nuova sentenza, grazie alla quale Alex potrà ripartire da zero, dopo cinque anni di tribolazioni nelle aule di Tribunale e un passato caratterizzato da un padre violento. Fino al 30 aprile 2020, quando il giovane, temendo per la vita della madre, quella del fratello e la sua, reagì accoltellando l’uomo. “Agì per difendersi e non per offendere”, ha spiegato il suo avvocato, Claudio Strata. “Metabolizzo sempre dopo, ora voglio tornare alla normalità. La normale quotidianità, il proseguimento negli studi e trovare il mio posto nel mondo, qui o all’estero - ha detto in aula il ragazzo -. Non mi ero fatto aspettative. Non ho ancora sentito mia madre, mi abbraccerà, tra noi non c’è bisogno di tante parole tra di noi. Festeggerò con la mia cagnolina Zoe, non vedo l’ora di rivederla. Sono un sacco frastornato, devo ancora metabolizzare, non sono giornate facili”. Alex ha ottenuto la laurea triennale in Scienze della Comunicazione mentre lavorava come portiere notturno in un hotel, un impiego che gli ha permesso di autofinanziarsi gli studi. Attualmente, continua a lavorare presso la stessa struttura, dove il titolare ha deciso di offrirgli un contratto a tempo indeterminato, dopo aver consultato i legali per verificare la fattibilità, visto un nuovo processo in corso. Poi la condanna lo aveva scoraggiato a continuare. Ora, però, la partita si è riaperta: “Vediamo, ci penso un attimo, devo trovare anche il percorso di studi giusto”. Della vicenda era stata investita anche la Corte costituzionale che aveva stabilito che in omicidi familiari il giudice deve valutare la possibilità di ridurre la pena in presenza di provocazione e attenuanti generiche. La Corte di Assise di Appello di Torino, alla luce della sentenza, aveva dunque condannato il ragazzo alla pena più bassa, riconoscendo la semi-infermità mentale dell’imputato. Gli avvocati di Alex, Enrico Grosso e Claudio Strata, hanno dunque impugnato la sentenza in Cassazione, dove, a luglio scorso, il procuratore generale della Cassazione aveva chiesto un nuovo processo, sottolineando che “la Corte d’assise d’Appello non spiega cosa ha scatenato un tale comportamento in Alex. Manca la prova genetica di un alterco tra soggetti entrambi armati, mancano gli accertamenti per ricostruire i movimenti nell’appartamento dell’omicidio, i vestiti del fratello Loris non sono stati acquisiti. Questo ci impediscono di ricostruire l’accaduto, ma non possono ricadere a carico dell’imputato”. Alex ha vissuto anni di terrore, con un padre violento, che avrebbe inanellato almeno duecento episodi violenti in meno di 24 mesi. A muovere la mano del figlio, dunque, l’esasperazione unita alla paura per la propria incolumità e per quella dei propri cari, un caso esemplare di legittima difesa. Legittima difesa che i legali di Alex hanno sempre sostenuto. Ma non la procura generale di Torino, secondo cui si sarebbe trattato di un omicidio volontario. Contro un uomo odioso e violento, ma pur sempre un omicidio. Ma per i giudici si è trattato di legittima difesa. “Alex ora deve essere lasciato in pace, non ha praticamente ancora vissuto. Siamo contenti che sia finito un calvario giudiziario - ha dichiarato Strata -. Giusto così per Alex, una gioia indescrivibile perché spero che questa conferma metta la parola fine alla vita infernale di Alex, Loris e Maria”. Questa sentenza, ha aggiunto, “proviene da una corte autorevolissima di magistrati di lunga esperienza che non finirò mai di ringraziare così come non finirò mai di ringraziare Enrico Grosso (l’altro legale, ndr) che mi ha dato molto supporto e molto conforto non solo in Cassazione ma anche in questo processo di appello bis”. “Il fatto che il dispositivo della sentenza confermi la sentenza di primo grado significa che non è stata accolta un’ipotesi subordinata di legittima difesa putativa, di errore, è stata confermata l’ipotesi fatta propria dalla sentenza di primo grado che qui si è trattato di una difesa legittima reale, cioè che Alex effettivamente ha ucciso per difendersi da un pericolo attuale, reale e immediato”, ha aggiunto Grosso. Reggio Emilia. Torture in carcere, dieci agenti a processo: “Erano manovre corrette” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 14 gennaio 2025 In aula parlano le difese dei poliziotti alla sbarra per i fatti del 3 aprile 2023 “Si è ricorsi alla forza in modo legittimo, senza volontà di infliggere sofferenza”. Un video mostrato in tribunale per dimostrare che le mosse fatte dagli agenti della polizia penitenziaria per immobilizzare un detenuto, per le quali ora sono a processo con l’accusa a vario titolo di tortura e lesioni (oltre a falso nelle relazioni stilate sull’episodio), sarebbero state in linea, “identiche”, rispetto a quanto si insegna loro durante i corsi di addestramento. Il filmato riporta il calendario 2025 della penitenziaria, al centro di una recente polemica politica per le sue immagini ed è stato mandato in onda ieri in tribunale davanti al giudice Silvia Guareschi. Per i dieci imputati col rito abbreviato il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha chiesto la condanna, la più alta a 5 anni e 8 mesi, per i fatti del 3 aprile 2023 dentro la Pulce, verso un tunisino che fu incappucciato, denudato e portato in cella dopo essere stato sanzionato per violazioni del regolamento carcerario e che, secondo le difese, si sarebbe invece dimostrato molto aggressivo. L’avvocato Luigi Marinelli, che assiste un agente 27enne, ha rimarcato come l’operazione di messa a terra del detenuto sia stata fatta a suo dire in modo regolare. Ha domandato l’assoluzione, ai sensi delle norme dell’ordinamento penitenziario sull’uso della forza in situazioni di pericolo e del codice penale in quanto adempimento di un dovere impartito da un’autorità e ritenuto legittimo, escludendo dunque la punibilità. In subordine, la riformulazione del reato di tortura nella parte in cui si prospetta il caso di sofferenze risultanti solo dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti. Al massimo “vi fu un eccesso colposo nell’uso della forza, perché la situazione fu frutto dell’ambiente stressante in cui gli agenti operano, tra carceri sovraffollate e scarsità di fondi”. Per un 51enne, l’avvocato difensore Nicola Tria ha sostenuto che la fattispecie di tortura va riconosciuta per questi fatti: “Si è ricorsi alla forza in modo legittimo e in esecuzione dell’ordine legittimo della direttrice di portare il detenuto in isolamento. Vi è stato qualche eccesso o sbavatura - ha detto il legale - che sono tutt’al più inquadrabili come percosse o abuso di autorità, ma non vi furono torture e neppure la volontà di infliggere in qualche modo sofferenza”. Ha rimarcato che a essere problematico è il sistema penitenziario nel suo complesso, anche a causa della mancanza di risorse. E si è soffermato per un attimo anche sul ministero della Giustizia, in passato citato come responsabile civile, che poi si è presentato chiedendo di essere escluso - domanda accolta dal giudice - e che non compare quindi tra le parti”. L’avvocato Pier Francesco Rossi ha descritto il proprio assistito 28enne come vittima, perché entrato in scena quando era già stata presa la decisione disciplinare e il detenuto aveva provato a colpire i colleghi con una lametta, sputato verso di loro, già sgambettato e finito a terra. All’imputato venne dato ordine di svestirlo dando una mano a un collega a seguito di un ordine dato e al timore che il detenuto potesse avere lamette addosso: “Il mio assistito non lo ha mai colpito”. Ha richiamato i consulenti della difesa, i docenti universitari Giuseppe Sartori di Padova e Pietro Pietrini di Lucca, secondo cui il detenuto non ebbe mai sofferenza psicologica: invece avrebbe voluto provocare solo per essere trasferito da Reggio. Nella prossima udienza di gennaio concluderanno le difese; repliche e sentenza sono slittate a febbraio. Firenze. Carcere di Sollicciano: caso da risolvere di Elettra Gullè La Nazione, 14 gennaio 2025 Quando fu inaugurato, nel 1983, il carcere di Sollicciano fu salutato come un modello di civiltà fra le carceri italiane. Si lasciavano le antiche Murate, per una struttura concepita con ampi spazi da vivere fuori dalla cella, da trascorrere in attività esterne di studio e di lavoro, per il migliore recupero dei detenuti, fino alla realizzazione del “giardino degli incontri” progettato da Giovanni Michelucci che al di là dei tradizionali parlatori consentisse di vivere all’aperto gli affetti familiari. Questo il sogno di allora, ben diversa la realtà di oggi. Cambiamento di mentalità, incurie, mancati lavori di manutenzioni e risanamento; degrado per tutti, detenuti e agenti di polizia penitenziaria, sovraffollamento, incertezze prolungate nella gestione hanno esasperato le condizioni di decadenza sì da fare del carcere fiorentino uno dei peggiori del sistema penitenziario italiano. In palese violazione della Costituzione, che oltre alla violenza fisica “punisce ogni violenza morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” (art. 13) e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta trattamenti “inumani e degradanti”: i numerosi suicidi o tentativi di suicidio, gli atti di autolesionismo, le aggressioni al personale di polizia, le manifestazioni di protesta ne sono evidente conferma. Una vergogna per chi crede nel rispetto della dignità umana. Tutte le forze politiche, cittadine e non, hanno ben presente la realtà di Sollicciano e riconoscono la necessità di immediati interventi. Ma quali? Abbatterlo e ricostruirlo, oppure procedere alla ristrutturazione, magari trasferendo gruppi di detenuti e rifacendo un padiglione alla volta? La decisione spetta a chi ha la responsabilità, a livello nazionale ancora più di quella locale. Ciò di cui tutti siamo convinti è la necessita di far presto. Qui non si tratta di decidere se abbattere o meno le scale elicoidali dello stadio Franchi, ricostruirlo integralmente o limitarsi al restyling: siamo davanti alla insopportabile esistenza di centinaia di persone immerse ogni giorno in condizioni igienicosanitarie deplorevoli, sempre più emarginate da quella società che - una volta scontata la pena - dovrebbe tornare ad accoglierle. Firenze. A Sollicciano si gela, 300 fra lavoratori e agenti senza riscaldamento e senza docce calde di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 gennaio 2025 Stavolta i problemi di Sollicciano non riguardano i detenuti ma gli agenti penitenziari. Sono quasi 300 i lavoratori del carcere fiorentino che da circa dieci giorni sono costretti a stare senza riscaldamento e senza acqua calda. Sono gli agenti che vivono nella caserma accanto al penitenziario, dove un guasto idraulico sta provocando disagi importanti, come raccontato Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Penitenziari. “Dentro le stanze e i corridoi della caserma fa freddo - racconta il sindacalista - Le docce sono fredde e molti agenti scelgono quindi di non lavarsi. Non sono condizioni umanamente dignitose per i lavoratori di Sollicciano, che già devono fronteggiare quotidianamente tante altre emergenze”. La situazione è stata segnalata al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, spiegano dai sindacati, “ma ancora non è stata risolta e l’emergenza freddo continua ad andare avanti anche in questi giorni”. Una questione ormai atavica, quella del freddo dentro il carcere di Sollicciano. Non soltanto per gli agenti penitenziari, ma anche per i detenuti, che spesso devono fronteggiare i problemi idraulici del penitenziario. Un penitenziario dove persistono i problemi strutturali, con ingenti infiltrazioni nelle celle e nei corridoi, e con ambienti che sono molto freddi e umidi durante l’inverno e molto caldi durante l’estate. Problemi che hanno fatto scattare uno stato di agitazione tra i lavoratori del carcere. “Dallo scorso 8 gennaio - ha spiegato ancora Grieco - come segnale di protesta abbiamo deciso di andare alle riunioni indette dall’amministrazione penitenziaria senza condividere i lavori all’ordine del giorno stipulati, almeno fino a quando non verranno date risposte serie e affrontati i bisogni reali sia della polizia penitenziaria, sia dei detenuti, essendo indecoroso e indegno non avere riscaldamento e acqua calda e continuare a lavorare in ambienti che in una normale azienda avrebbero comportato la chiusura dell’azienda stessa da parte delle autorità competenti”. Tutte questioni che sono emerse anche durante la recente visita al carcere da parte della Commissione politiche sociali del Comune, il cui presidente Edoardo Amato ha affermato: “A Sollicciano si sente odore di muffa, ci sono infiltrazioni lungo le pareti, ci sono calcinacci per terra, fa freddo”. E poi: “Abbiamo incontrato alcuni detenuti, ci hanno detto di aver sbagliato, ci hanno detto di voler scontare la pena, ma ci hanno detto che vorrebbero farlo in modo umano e dignitoso. Alcuni hanno sottolineato il problema della presenza delle cimici e dei topi all’interno delle celle”. Da ricordare, tra gli ultimi episodi tragici, il suicidio che lo scorso 3 gennaio si è verificato all’interno del carcere fiorentino, quando si è tolto la vita, impiccandosi dentro la sua cella, un giovane egiziano di 25 anni, che già in passato era stato protagonista di tentati suicidi e di gesti di autolesionismo, un fenomeno quest’ultimo per cui Sollicciano è il penitenziario più colpito d’Italia. Modena. Delegazione Pd al Sant’Anna: “Situazione in peggioramento, ai limiti del collasso” agenparl.eu, 14 gennaio 2025 “Questa mattina abbiamo visitato la struttura, incontrato il direttore della casa circondariale Sant’Anna, il responsabile della Polizia penitenziaria, la responsabile degli educatori, il responsabile dell’Azienda Usl. Quella che ci è stata denunciata è una situazione in serio peggioramento rispetto al nostro precedente sopralluogo dello scorso 2 aprile. Un peggioramento ai limiti del collasso”: queste le prime parole dei parlamentari modenesi del Partito Democratico Stefano Vaccari, Maria Cecilia Guerra ed Enza Rando, che questa mattina hanno visitato il carcere insieme alla vicesindaca del Comune di Modena Francesca Maletti. Un sopralluogo che non ha contribuito a tranquillizzare gli esponenti Dem dopo le tre morti delle ultime settimane, tutt’altro: “Se ad aprile nella struttura si trovavano 530 persone detenute, ora il numero è salito a 570, senza che sia aumentata di neppure un’unità in più di Polizia penitenziaria, perché tra nuovi arrivi e pensionamenti la situazione della pianta organica è rimasta invariata. Non solo, perché la scarsità del personale riguarda tutti gli ambiti, non solo quello delle forze dell’ordine, le carenze si avvertono anche rispetto alla parte infermieristica e agli altri elementi di sostegno che possono implementare gli aspetti di sostegno, anche psicologico, rispetto alla prevenzione di atti di autolesionismo. Anche la struttura in sé manifesta evidenti segni di vetustà e necessiterebbe di interventi anche urgenti di manutenzione. Di fronte a queste evidenze, riconosciute dagli stessi operatori, chiediamo a tutte le forze politiche di prendere atto della gravità della situazione. E ci riferiamo anche agli esponenti della destra modenese, che continuano a ripetere astrattamente che il Governo sta affrontando la questione senza conoscere la condizione vera che, lo ricordiamo, non riguarda soltanto Modena ma tutto il Paese. Serve investire in più personale, sia in termini di agenti che di supporto alle persone detenute, perché la pena non sia tortura e disperazione ma, una volta scontata, conduca a una concreta possibilità di reinserimento sociale. Servono risorse anche sulle strutture, sempre più fatiscenti e sovraffollate. Serve, insomma, fare fronte comune, a tutti i livelli, per iniziare a mettere mano a una situazione intollerabile, per chi il carcere lo vive ogni giorno, sia esso detenuto o operatore dello Stato. Uno Stato - concludono - che, lo ribadiamo con forza, non può abdicare alla tutela dei propri cittadini e al rispetto dei diritti fondamentali alle soglie del carcere”. Rossano Calabro (Cs). Suicidi in carcere, il grido disperato della famiglia di Davide: “Salvatelo!” di Elisa Barresi ilreggino.it, 14 gennaio 2025 Detenuto nel carcere di Rossano, ha già tentato il suicidio sette volte: l’ultima stamattina, e ora intraprende lo sciopero della fame. La famiglia denuncia condizioni disumane e chiede misure alternative prima che sia troppo tardi. È una storia che non lascia presagire nulla di buono. Davide deve scontare una pena ma quella denunciata dalla sua famiglia è una realtà che si scontra con il fine della detenzione, ovvero la rieducazione. Davide sta male. E la sua condizione è ormai da tempo sotto i riflettori. Perché la famiglia teme il peggio. Il dolore, quello visibile, ancor più quello invisibile, ha portato già a tentativi di suicidio e le richieste adesso sono tormentate dalla possibilità che Davide non ce la faccia. È una richiesta di aiuto che non trova pace nelle lacrime di chi vede il proprio figlio soffrire da solo e senza intravedere una via d’uscita. Una condizione estrema, quella carceraria, che lascia emergere limiti e lacune, purtroppo, in tutta Italia. Davide Divino, 37 anni, è detenuto nel carcere di Rossano, in Calabria. Deve scontare ancora due anni per una pena la cui esecuzione si è trasformata in una tortura quotidiana, come raccontano i familiari. La famiglia racconta di un uomo ormai piegato dal dolore fisico e psichico. Serena, la sorella, descrive il fratello come una “bomba a orologeria” pronta a esplodere. “Mio fratello non riesce più a stare seduto, non riesce a stare sdraiato, non dorme la notte, e ha dolori che ormai sono insopportabili”. La madre, Marisa, aggiunge: “Oggi Davide è come un morto vivente. Si trova in una galleria buia, senza vedere la minima luce. Io desidero che trovi questa luce, che diventi un sole che illumini tutta la sua vita”. Davide ha già tentato il suicidio sei volte. Sei episodi che hanno lasciato segni indelebili sul corpo e sull’anima, ma non hanno scosso il sistema carcerario che continua a ignorare il grido di aiuto della famiglia. Stamattina, raccontano i familiari, Davide ha nuovamente minacciato di togliersi la vita, fermato solo dalla disperazione dei suoi cari. Ora ha intrapreso uno sciopero della fame e delle cure, una scelta che nelle sue condizioni di salute potrebbe avere conseguenze fatali. La madre e la sorella denunciano che non è la pena a schiacciare Davide, ma le condizioni disumane in cui viene scontata. La storia di Davide è quella di tanti detenuti in Italia, uomini e donne che entrano in carcere con l’illusione di potersi rieducare, ma che si ritrovano schiacciati da un sistema che li abbandona. Davide era prossimo alla laurea; gli mancava solo la tesi per completare un percorso che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Sognava di aprire una palestra, di costruirsi una famiglia, di avere dei figli. Ora, invece, è un uomo spezzato. Serena racconta: “È entrato in carcere sano, aveva una fidanzata, dei sogni. Ora non ha più nulla. Non è ancora uscito, ma già oggi è profondamente depresso, senza una via d’uscita”. Il carcere di Rossano rappresenta una delle tante realtà italiane dove le difficoltà strutturali, la carenza di supporto psicologico e medico, il sovraffollamento e le condizioni igieniche spesso precarie mettono in luce le sfide di un sistema che fatica a garantire la dignità umana. Questi problemi, diffusi in molte strutture del Paese, rischiano di trasformare le carceri in luoghi di ulteriore sofferenza, invece che in spazi dedicati alla rieducazione. Serena non ha dubbi: “Il carcere, con la sua disumanità, è ciò che gli ha tolto tutto”. A complicare ulteriormente la situazione è l’inerzia delle autorità competenti. L’avvocato della famiglia, Angela Cannizzaro, ha presentato una denuncia-querela contro il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria, Cinzia Barillà, accusata di aver rigettato ripetutamente le istanze per l’applicazione di misure alternative alla detenzione, nonostante la conclamata incompatibilità di Davide con il regime carcerario. La famiglia chiede che Davide venga trasferito agli arresti domiciliari per ricevere cure adeguate. Ma ogni richiesta sembra cadere nel vuoto, aumentando la disperazione di chi teme di non vederlo uscire vivo da quella prigione. “Temiamo che, quando uscirà, non lo farà più sulle sue gambe”, dice Serena con voce spezzata. La madre Marisa conclude con un appello accorato: “Io vorrei che fosse a casa, che potesse curarsi per riprendersi e tornare a vivere. Voglio solo che mio figlio abbia un’altra possibilità”. La vicenda di Davide Divino è un pugno nello stomaco. La vicenda di Davide racconta una realtà che simboleggia le gravi falle di un sistema penitenziario incapace di bilanciare giustizia e umanità. Le lacrime di una famiglia non possono rimanere inascoltate. “La vita di Davide è appesa a un filo”. Crotone. Dal 2018 a oggi, i risultati del Garante dei diritti dei detenuti laprovinciakr.it, 14 gennaio 2025 Federico Ferraro ha presentato il report sul mondo carcerario durante una conferenza stampa tenuta nella sala giunta del Comune. Sono stati anni intensi, dal 2018 ad oggi, quelli vissuti dal Garante comunale dei diritti dei detenuti, Federico Ferraro, che questa mattina nella Sala giunta ha presentato a conclusione del suo incarico, nel corso di una conferenza stampa, il report finale delle attività svolte. Alla conferenza hanno partecipato il sindaco Vincenzo Voce, l’assessore all’Ambiente Angela Maria De Renzo, l’assessore alla Cultura Nicola Corigliano e la presidente della III Commissione consiliare Antonella Passalacqua. Il sindaco ha ringraziato l’avvocato Ferraro per il lavoro svolto: “Il suo operato si è distinto per elevata professionalità e competenza sul campo non disgiunto da profonda sensibilità umana. Ha mostrato attenzione su numerosi temi con particolare riguardo alle libertà fondamentali e ai diritti umani”. “Numerose - ribadisce una nota - sono state le iniziative promosse dal Garante in sinergia con gli assessorati, con la III Commissione consiliare e con la commissione Pari opportunità. In particolare è stata ricordata l’attenzione per le fasce sociali più deboli e l’avvio del reinserimento lavorativo per persone recluse. L’avvio dei lavori di pubblica utilità, per le persone detenute è stato possibile, attraverso una apposita stipula tra il Comune e la direzione della Casa circondariale”. L’avvocato Ferraro, durante il suo mandato “si è battuto fortemente per i diritti delle persone detenute, attraverso una sensibilizzazione continua a più livelli per portare al centro dell’attenzione pubblica le criticità e le potenzialità del sistema penitenziario”. Numerosi sono stati i suoi interventi: dai servizi sanitari presso il presidio ospedaliero locale ai momenti, alle interlocuzioni istituzionali per risolvere i tanti problemi che affollano il mondo carcerario italiano. Importante è stata l’attenzione per la tutela della salute, all’interno della struttura carceraria, nel periodo della pandemia. Promossi momenti di confronto sui diritti umani con Istituzioni nazionali e enti internazionali sulla libertà fondamentali, ai momenti trattamentali insieme alle scuole, al teatro in carcere. Con l’assessorato alla Cultura e la Terza commissione consiliare è stata realizzata una mostra con opere di detenuti in memoria delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro, nel maggio del 2023 nel Palazzo Comunale. Lanciano (Ch). Riparte il servizio di biblioteca in carcere, occasione di riscatto sociale chietitoday.it, 14 gennaio 2025 Firmata oggi, 13 gennaio 2025, in municipio la convenzione tra Comune di Lanciano, che confinanzia il progetto, e la direzione del carcere. I detenuti coinvolti apprenderanno come gestire una biblioteca e catalogare libri. Creare un ponte tra dentro e fuori il carcere attraverso la cultura. È questo lo scopo della convenzione stipulata tra il Comune di Lanciano e la direzione della casa circondariale di Villa Stanazzo. La firma c’è stata questa mattina, 13 gennaio, nella sala giunta del municipio, tra il sindaco Filippo Paolini e il direttore del carcere, Mario Silla. Il progetto, già avviato in passato (2016-2020), fu interrotto a causa del Covid. In questi anni è rimasto chiuso nel cassetto e adesso, per iniziativa del vicesindaco e assessore alla cultura Danilo Ranieri e della dirigente Giovanna Sabbarese, può ripartire all’interno del supercarcere di Villa Stanazzo. L’obiettivo della nuova convenzione è riattivare il servizio biblioteca in carcere attraverso un percorso formativo che consenta ai detenuti di apprendere le tecniche di catalogazione dei libri. Questo percorso non solo fornisce competenze pratiche e professionali, ma rappresenta anche un’opportunità di crescita personale e di riscatto sociale, contribuendo ad un reinserimento positivo e abbattendo le barriere del pregiudizio. “La novità rispetto al passato è che il Comune confinanzia il progetto - spiega l’assessore Ranieri - con un prelievo da fondo di riserva di 6mila euro nel 2024 che, sommato ai 6mila euro che metterà la casa circondariale, farà andare avanti negli anni il servizio, al di là di questa collaborazione di start up che l’ha fatta ripartire”. Sarà acquistato di nuovo il software per la catalogazione dei libri e il personale incaricato si occuperà di avvicinare i detenuti alla lettura e ai libri, di alfabetizzare i detenuti stranieri e di offrire competenze pratiche e professionali affinché questo possa diventare, per qualcuno di loro, anche un mestiere. “La passata esperienza è stata molto emozionante e positiva - racconta Gianvincenza Di Donato, dipendente in pensione della biblioteca comunale ‘Liberatore’ di Lanciano - il 70% della popolazione dell’istituto entrava in biblioteca per prendere un libro. Avevamo attivato anche il prestito interbibliotecario con la struttura comunale. In tutto avevamo formato 8-9 detenuti e catalogato oltre 4mila libri. Impareranno come si gestisce una biblioteca e la catalogazione dei libri, così in futuro si potrà mettere in rete la biblioteca penitenziaria di Lanciano con le altre”. “Queste sono esperienze socialmente valide per le persone ristrette - dice il direttore del carcere, Mario Silla, prossimo a terminare il suo incarico - e quello dei libri e della biblioteca è un progetto a cui la direzione del carcere tiene moltissimo poiché mira al reinserimento sociale dei detenuti. Grazie alla volontà di abbattere il muro che divide il mondo esterno da quello carcerario, l’amministrazione comunale ha permesso di svolgere ad alcuni detenuti del volontariato presso la biblioteca comunale offrendo loro una preziosa opportunità di riscatto. Ringrazio tutto il personale della polizia penitenziaria che, malgrado le gravi carenze di personale (meno di 100 agenti per 260 detenuti, ndc), permette di portare avanti queste esperienze socialmente valide. È una scommessa importante quella di credere nel valore della seconda opportunità. I libri non sono solo uno svago, ma uno strumento fondamentale per il reinserimento proficuo di queste persone nella società”. Cremona. Don Primo Mazzolari, “Oltre le sbarre, il fratello”. Convegno a su carcere e giustizia agensir.it, 14 gennaio 2025 Ogni anno a Cremona, in occasione dell’anniversario della nascita di don Primo Mazzolari (13 gennaio 1890), viene offerta un’occasione di riflessione culturale su una delle tematiche che hanno caratterizzato la vita e il messaggio del parroco di Bozzolo, di cui è in corso la causa di beatificazione. Quest’anno - informa la Fondazione Mazzolari - l’appuntamento sarà sabato 18 gennaio e incentrato sul tema del carcere e della giustizia. Verrà presentato il libro “Oltre le sbarre, il fratello”, curato da don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni, rispettivamente postulatore e vicepostulatore della causa di beatificazione e pubblicato grazie al contributo della cooperativa “A Passo d’uomo” e della Fondazione Cariplo. “Nell’anno giubilare, il tema della giustizia è quanto mai attuale, ma va visto con la lente della misericordia e della redenzione nei confronti di quanti hanno commesso gravi errori tanto da finire in carcere. Mazzolari è maestro di umanità e cerca di leggere il cuore, non si ferma all’apparenza o al pregiudizio. Pur senza affermarla in modo esplicito, la prospettiva di don Primo è la stessa che sostiene la giustizia riparativa: bisogna dialogare più che condannare, dare opportunità più che chiudere porte, perché ‘chi non crede alla redimibilità di una creatura umana non è cristiano”. La presentazione si terrà sabato 18 gennaio, alle 16.30 presso la sala della Consulta del comune di Cremona. Ospiti saranno l’ex magistrato Gherardo Colombo e Omar Pedrini, cantautore, ex leader dei Timoria. A moderare l’incontro sarà la giornalista di Cremona1, Nicoletta Tosato. Interverranno i curatori del libro. L’evento è organizzato dalla Postulazione e dalla Fondazione Mazzolari di Bozzolo. Sassari. La giustizia nelle canzoni di Fabrizio De Andrè di Giampiero Marras L’Unione Sarda, 14 gennaio 2025 Al Dipartimento di Giurisprudenza di Sassari una lezione aperta a tutti. “Questa canzone è del 1961. È la prima che ho scritto (da solo) e mi ha salvato la pelle; se non l’avessi scritta, probabilmente, invece di diventare un discreto cantautore, sarei diventato un pessimo penalista”. Lo ha ricordato Fabrizio De Andrè citando “La ballata del Miché”. Sarà uno dei brani del Faber sul quale si discuterà venerdì 24 gennaio alle 15 nell’Aula Mossa del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari. La lezione è aperta a tutti, non solo agli studenti, e conclude il corso di Diritto Penale 2024-25. Introduce e modera Gian Paolo Demuro, ordinario di Diritto penale dell’ateneo turritano. Due le relazioni in programma “La giustizia penale secondo De Andrè” di Giuseppe Losappio, ordinario di Diritto Penale dell’Università di Bari, e “La ballata del Miché o la Giustizia per i colpevoli” di Tommaso Gazzolo, associato di Filosofia del Diritto dell’Unversità di Sassari. Certo nel caso del Miché della ballata, la pena di 20 anni era giusta “perché un giorno aveva ammazzato chi voleva rubargli Marì” ma sarà interessante sviscerare anche altri brani, dove De Andrè mostra una sua visione che invitava i giudici (ma anche la borghesia e tutti noi) a rifiutare la neutralità astratta, staccata dai valori e dalle vicende personali, invitava a guardare oltre la colpa, come cantato in “Città vecchia: “Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. “Scrittidicuore”, vince detenuto del carcere di Palmi ansa.it, 14 gennaio 2025 Concorso di scrittura riservato agli istituti penitenziari. Ruggiero, ospite nella Casa circondariale di Palmi (Reggio Calabria), si è aggiudicato l’ottava edizione del concorso nazionale di scrittura ‘Scrittidicuore’ che ha coinvolto gli istituti carcerari di tutt’Italia. L’iniziativa è ideata e promossa dal Comune di Campobasso e dall’Unione lettori italiani (Uli) nell’ambito di “Ti racconto un libro”, laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione. Un testo in cui l’autore si rivolge a se stesso cercando di ricucire legami tra il passato e il presente, tra il dentro e il fuori, in un contesto in cui la percezione dei sentimenti si trasforma radicalmente. La lettera, definita un ‘pianto barocco’, è una potente testimonianza di come la scrittura possa diventare un atto di riflessione e di speranza, una prova narrativa lirica che esplora l’animo umano in modo intimo e universale. La seconda classificata è la lettera di Sebastiano, detenuto nella Casa di reclusione di Sulmona (Aquila), che affronta il delicato tema della violenza di genere, offrendo un messaggio di riflessione e speranza. Scrivendo a un narcisista che non riesce a lasciar andare una relazione, l’autore invita il destinatario a riflettere sui pericoli del rancore e dell’odio, sollecitando una via di redenzione e di riconoscimento del valore di sé e dell’altro. Per favore ascoltiamo il padre di Ramy di Luca Mazza Avvenire, 14 gennaio 2025 Già l’incipit dice molto. Perché l’ha chiesto “per favore”. E non l’ha chiesto per sé o per la sua famiglia in lutto, ma in nome del figlio Ramy, morto all’alba del 24 novembre a Milano, dopo un lungo inseguimento con i Carabinieri e in circostanze ancora da accertare dalla magistratura. Con un appello articolato e rivolto a tutti quei manifestanti scesi in piazza negli ultimi giorni, Yehia Elgaml, 61 anni, cittadino egiziano che vive in Italia da quasi vent’anni, ha lanciato una serie di messaggi impeccabili. In primis, con la voce rotta dal dolore più crudele che possa capitare a un genitore, quest’uomo ha invitato tutti coloro che scelgono di onorare la memoria di suo figlio a farlo in modo pacifico e costruttivo. A farlo senza odio: “Chi manifesta per chiedere giustizia e verità per Ramy non deve fare cose brutte. No a violenze e vendette”. Ma Elgaml non si è limitato a prendere le distanze dagli autori degli scontri avvenuti in varie città italiane, è andato oltre. Parole semplici ma profonde che rivelano saggezza, senso di responsabilità e rispetto delle istituzioni. Parole che fanno bene: “Credo nella giustizia italiana. Vivo qui e mi piace questo Paese. E ho fiducia in Sergio Mattarella, che è Presidente di tutti noi, sia italiani sia immigrati”. Tra i passaggi più equilibrati, per un padre che ha appena perso un figlio, c’è proprio quello sull’operato delle forze dell’ordine: “C’è anche qualche carabiniere che sbaglia, ma gli altri, tanti altri, sono bravi e io ho fiducia in loro. Così come non si deve fare casino contro i poliziotti, che lavorano per garantire la sicurezza di tutti noi”. Le frasi di Elgaml devono rappresentare un’occasione da non sprecare. Del resto, il clima incandescente che si respira e gli atti di violenza contro le forze dell’ordine sono spie preoccupanti per la tenuta della democrazia. E rischiano di ledere l’importanza cruciale del lavoro quotidiano portato avanti da Carabinieri e Polizia di Stato per l’ordine pubblico. Mai come in questo momento alzare la tensione è da irresponsabili. Le parole sono strumenti da maneggiare con estrema cura: non vanno usate per aizzare le folle né per esacerbare gli animi, ma al contrario devono servire per gettare acqua sul fuoco. In questo senso, il padre di Ramy che chiede “giustizia e non vendetta”, “unità e non distruzione” assomiglia a un pompiere che prova a spegnere un incendio. Solo che avrebbe bisogno di rinforzi per domare le fiamme. Soprattutto dalla politica. E invece sui disordini e sugli atti vandalici è subito montata una polemica, tra partiti di governo e di opposizione, buona solo per sterili se non dannose strumentalizzazioni. La condanna alla violenza è stata unanime, certo, ma purtroppo con sfumature diverse e che lasciano tutto il margine di manovra per piegare gli scontri ad uso dei rispettivi tornaconti propagandistici. Gli scambi di accuse tra chi “non difenderebbe abbastanza le forze dell’ordine” e chi “sotto sotto sfrutta le azioni di antagonisti e violenti per conquistare consensi” non contribuiscono di certo a risolvere i conflitti. Anzi, la “politicizzazione” della vicenda Ramy produce l’effetto di alimentare le divisioni di un Paese già fortemente disgregato. In questa come del resto in ogni fase delicata e di tensione sociale, il pericolo da scongiurare è proprio quello che si scateni uno “scontro di civiltà” domestico, un “noi contro di loro” che un’Italia immersa nel contesto di fibrillazione globale e fiaccata dalle tante diseguaglianze interne non può davvero permettersi. Violenze contro gli agenti che assicurano l’ordine pubblico, bombe carta, insulti e atti vandalici sono inammissibili. E di certo non contribuiranno in alcun modo a “fare giustizia per Ramy”. Ma è altrettanto inutile e pericoloso criminalizzare indistintamente chi protesta e l’inquietudine dei giovani di origine immigrata confinati nelle periferie povere. La risposta migliore alla drammatica morte di un ragazzo egiziano di 19 anni ce l’ha indicata suo padre: rispetto delle regole, unità e fiducia nelle istituzioni. Di fronte alla dignità di un genitore convinto che solo così si può onorare la memoria del figlio e aspettare la verità sulla sua morte, la cosa più saggia da fare è una sola: ascoltiamolo, per favore. Studenti e “razzializzati”, la galassia multiforme dietro le proteste per Ramy di Emanuela Del Frate Il Domani, 14 gennaio 2025 La morte del ragazzo dopo un inseguimento con i carabinieri ha scatenato violenze. Ai cortei non solo facinorosi, ma anche universitari e giovani di terza generazione. Sono delle piazze frastagliate e multiformi quelle in cui si è accesa la protesta nella serata di sabato 11 gennaio. A un mese e mezzo dalla morte del 19enne milanese Ramy Elgaml arrivata dopo un inseguimento dei carabinieri allo scooter in cui si trovava insieme a Fares Bouzidi. Proteste che sono sfociate in momenti di tensione, con cariche della polizia, a Roma e in ore di guerriglia tra le strade di Bologna. Che sono state immediatamente condannate dalla politica, a partire dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni: “Abbiamo assistito all’ennesimo, ignobile episodio di disordine e caos ad opera dei soliti facinorosi scesi in piazza non per manifestare per una causa, bensì per puro spirito vendicativo. Non si può utilizzare una tragedia per legittimare la violenza”, ha scritto subito sui social. E che hanno spinto la famiglia di Ramy a chiedere che il suo nome non venga “strumentalizzato per atti di violenza o per fini politici” “Giustizia per Ramy”: due volantini, senza firma, ma con grafiche differenti, hanno iniziato a rimbalzare nelle chat e sui social convocando i due appuntamenti cittadini. Sono circa cinquecento le persone che sono confluite in piazza dell’Immacolata a Roma; studenti universitari, per lo più, militanti dei movimenti in ordine sparso. Praticamente nessuno dei centri sociali. “C’erano tutti quelli che si sentivano di dover protestare per quello che è un vero e proprio omicidio, con la politica che non fa altro che giustificare i carabinieri”, racconta un attivista dei collettivi che era presente. “È, vero, c’erano slogan un po’ stupidi, come “Vendetta”, un po’ di rabbia scomposta e poco più che folkloristica”. Il presidio si è trasformato in corteo che ha attraversato il quartiere di San Lorenzo per poi dirigersi verso la caserma di via dei Volsci. Lì i manifestanti si sono trovati davanti lo sbarramento della polizia. E, dopo pochi minuti, è partito, forse dal fondo, un lancio di oggetti, petardi e “bomboni”. Il questore ha ordinato la carica: “Ma è durato tutto meno di cinque minuti, una piccola carica su cui si sta ricamando tantissimo”. Il corteo si è poi ricomposto ed è partito verso Porta Maggiore, fermandosi però, a Scalo San Lorenzo. Al momento sarebbero trenta i manifestanti identificati. “Razzializzati” - Autoconvocato con un “passaparola generatosi tra chat e social network, corridoi e aule di scuola”, l’appuntamento bolognese era San Francesco, la piazza “dei regaz”, dove si ritrovano quotidianamente giovanissimi, dai 13 ai 20 anni, soprattutto ragazze e ragazzi di terza generazione, “razzializzati”, come preferisce definirli un militante dei centri sociali che era presente. “Una piazza che, non a caso, è al centro dei dibattiti sul daspo urbano e sulle zone rosse, su cui vengono continuamente emesse ordinanze restrittive. Ma è uno degli ultimi spazi di Bologna a cui si può accedere senza avere soldi. Ed è uno dei pochi posti in cui a un certo tipo di soggettività, viene permesso di esistere”. All’appuntamento hanno poi aderito collettivi, e realtà politiche cittadine. “Ma c’era anche tanta gente comune che ha voluto partecipare per pretendere verità e giustizia per un neo maggiorenne ucciso”. Anche qui, come a Roma, il presidio si è trasformato in un corteo che si è diretto verso via del Pratello, uno dei centri della movida bolognese. In testa sono finiti subito quei giovanissimi, migranti di terza generazione, che si autodefiniscono anche “maranza”, che piazza San Francesco la vivono quotidianamente. “Non è stata la classica manifestazione come la conosciamo noi, fatta di interventi, carri, striscioni. In testa ne è comparso uno, ma praticamente un pezzo di telo con una scritta semplicissima fatta con lo spray. Era una passeggiata un po’ disordinata e scomposta che si è mossa verso via del Pratello. Lì è stata immediatamente bloccata e i ragazzi in testa hanno iniziato a lanciare di tutto verso la polizia. Sono partite così ore di scontri attraverso Bologna con la polizia che caricava per impedire loro di arrivare al centro. Credo che la celere non stesse neanche capendo quel che stava succedendo proprio perché non era una piazza alfabetizzata alla politica dei movimenti contemporanei. Erano giovani che stavano esprimendo la propria rabbia nei confronti di un omicidio poliziesco. Può piacere o non piacere, ma anche gli ultimi hanno il diritto di esprimersi. Posso anche dire che non c’è stato nessun assalto alla sinagoga, credo che nessuno di quei ragazzi sapesse neanche della sua presenza”. A parlarne era stato, nella mattina di domenica, il sindaco Matteo Lepore, ma è poi arrivata la precisazione del presidente della comunità ebraica di Bologna, Daniele De Paz: nessun atto vandalico, solo due scritte all’ingresso degli uffici. La piazza di Bologna, si legge nel portale di movimento Hubaut, è stata accesa da: “Giovani e giovanissime, per lo più razzializzate, con biografie, linguaggi, contraddizioni, desideri insovrapponibili a quelli della whiteness nostrana, motivo per cui appiattiti nelle narrazioni mediatiche con questo o quell’altro termine. Le cosiddette “baby gang” da relegare ai margini delle metropoli, da ghettizzare fino a dentro l’anima”. Le accuse - Proprio come gli amici di Ramy che, per primi, sono scesi in piazza al Corvetto raccontando la loro verità. “È questo il tema vero dello scandalo” continuano sul portale bolognese “la preoccupazione che una massa di giovani “maranza”, “teppisti”, “immigrati” possa non solo pretendere d’ora in avanti di far sentire la propria voce, ma anche di farlo fuori dai linguaggi consoni, senza prima “scolarizzarsi” su come - se proprio insisti - devi incanalare il tuo malcontento”. Preoccupato per la situazione è il senatore di Avs Giuseppe De Cristofaro: “La destra non provi a utilizzare quello che è successo per forzare i tempi in commissione sul ddl Sicurezza. Chiedo oggi, e lo farò domani sera in commissione il pieno rispetto del parlamento, delle sue prerogative e delle opposizioni, anche se purtroppo credo che ci sarà il tentativo di strozzare il dibattito”. Sulla rabbia che è esplosa a Roma e Bologna: “Sono convinto che i percorsi di lotta debbano essere quelli della disobbedienza civile non violenta. Episodi come questo penso che siano funzionali a chi porta avanti politiche repressive. Ma questi ragazzi vanno assolutamente ascoltati”. Iran. “Dovete fare presto”: le altre voci da Evin. Speranza per i detenuti francesi di Angela Napoletano Avvenire, 14 gennaio 2025 La tedesca iraniana Taghavi, 71 anni, è stata rilasciata dopo 1.500 giorni nel carcere di Teheran. Con il ritorno di Cecilia Sala sale la pressione di Germania e Francia per liberare i connazionali. “Le forze ci stanno venendo meno, fate presto”. È l’appello (disperato) di Olivier Grondeau, 34 anni, uno dei tre francesi detenuti nel carcere iraniano di Evin. Lo ha rilanciato, oggi, il canale France Inter condividendo con il pubblico il passaggio di una telefonata alla famiglia risalente al 19 dicembre, lo stesso giorno in cui fu arrestata Cecilia Sala. Perché farlo uscire adesso? L’idea che circola Oltralpe è che le trattative tra Parigi e Teheran possano calcare la via verso la libertà aperta dalla giornalista italiana. A lubrificare con l’ottimismo la macchina della diplomazia c’è anche il ritorno a casa, a Berlino, della tedesca iraniana Nahid Taghavi, rilasciata dal regime iraniano, domenica, dopo 1500 giorni di detenzione. Fino a oggi, l’identità del cittadino francese nelle mani di Teheran era protetta. Si sapeva solo che affollava “il bazar” dei prigionieri stranieri di Evin insieme ad altri due francesi: Cécile Kohler e Jacques Paris, marito e moglie, ex insegnanti, arrestati a maggio 2022 durante un viaggio in Iran per “spionaggio”. Questa è l’accusa che pende anche sulla testa di Olivier Grondeau, amante della letteratura persiana, arrestato tre anni fa, a ottobre, durante una visita a Shiraz, tappa del suo giro per il mondo, e condannato a cinque anni. Gli amici e la madre, Thérèse Grondeau, intervistati anche da France Info, hanno lasciato intendere che era arrivato il momento di rompere l’anonimato, scelto dallo stesso Olivier per evitare l’isolamento, per intensificare la pressione diplomatica. A farne da cornice ci sono, tra l’altro, i negoziati ripresi proprio oggi in Svizzera. Nessuno sa quanti sono esattamente gli stranieri in cella a Evin: potenziali “ostaggi di Stato” da scambiare in caso di necessità. Nahid Taghavi, oggi 71enne, fu arrestata a Teheran nell’ottobre del 2020 e condannata a dieci anni e otto mesi di carcere per “appartenenza a un gruppo fuorilegge” e “propaganda”. Era finita nel mirino delle autorità islamiche per vecchi post social legati al suo attivismo per i diritti delle donne. L’appello per la sua liberazione si è intensificato quando la donna, ex architetto, si è ammalata. Le sono state temporaneamente concesse delle cure fuori dal carcere, in regime di libertà vigilata, ma ha sempre dovuto interromperle per tornare dietro le sbarre. Ha quasi commosso, nel 2023, il grido a lasciarla libera lanciato da una sua compagna di cella, la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi: “La sua vita è a rischio”. Domenica, Taghavi è tornata a Berlino. “È finalmente a casa”, ha gioito la figlia Mariam Claren, aggiungendo: “La vostra solidarietà ha contribuito a fare giustizia”. A dicembre, anche la sua compagna di cella, Mohammadi, è uscita di galera per curarsi. A lei, tuttavia, sono stati concessi 21 giorni di libertà. L’inferno di Evin l’aspetta per scontare una pena da 31 anni. Sono poche pure le speranze sulla sorte dell’attivista curda Pakhshan Azizi, 40 anni, arrestata nell’agosto del 2023 per “ribellione armata contro lo Stato” e, a luglio scorso, condannata a morte per impiccagione. La Corte Suprema iraniana ha respinto l’appello presentato dal suo avvocato, Amir Raisian, che, così ha spiegato il quotidiano di Teheran Shargh, ha però promesso l’avvio di un nuovo processo. Azizi è accusata di aver fatto parte di gruppi armati curdi fuorilegge che operano nella regione. Per Amnesty International, la donna è semplicemente un’operatrice umanitaria, attivista della società civile, che dal 2014 al 2022 ha prestato assistenza a donne e bambini dei campi profughi nel Nordest della Siria e nel nord dell’Iraq, sfollati dai territori controllati dallo Stato islamico. A Evin, questa è la denuncia delle associazioni, ha subito “l’isolamento forzato”, oltre che “torture e ad altri maltrattamenti” per costringerla a dichiararsi colpevole. Il processo di cui è stata protagonista è stato “gravemente ingiusto”, affidato a magistrati non interessati alle prove sulle sue reali, “pacifiche”, attività nei campi profughi. Per lei, in sostanza, il verdetto di morte era già scritto. Libia. Orrore nel carcere di Garnada, nuovi filmati rivelano atroci torture e abusi sui detenuti agenzianova.com, 14 gennaio 2025 Nuove immagini scioccanti, pubblicate sui social media della Libia, documentano brutali episodi di tortura nel carcere di Garnada, situato a circa 200 chilometri a nord-est di Bengasi. Questo carcere di massima sicurezza, gestito dal 2015 dalle forze speciali del generale Khalifa Haftar, è tristemente noto per gli abusi sistematici inflitti ai detenuti, inclusi pestaggi e trattamenti inumani che spesso sfociano nella morte. I video trapelati mostrano detenuti picchiati violentemente con bastoni, fruste e a mani nude da uomini in uniforme militare. In uno di questi filmati, un uomo vestito solo con indumenti intimi viene frustato in un corridoio, mentre un sessantenne viene colpito ripetutamente con un bastone fino a cadere a terra. Un altro video, che “Agenzia Nova” ha scelto di pubblicare oscurando i volti dei detenuti e apportando alcuni tagli per tutelarne la dignità, mostra un gruppo di prigionieri ammassati all’interno delle celle del carcere, con le mani intrecciate sopra la testa. Due aguzzini li minacciano apertamente di ulteriori torture. Tra i detenuti spicca una persona che implora pietà, con una mano visibilmente fasciata e presumibilmente fratturata, evidenza concreta delle brutali pratiche di tortura sistematica. La prigione di massima sicurezza di Garnada ospita diverse centinaia di detenuti, molti dei quali sono sospettati di essere combattenti islamisti radicali. Questi individui sono stati catturati principalmente tra il 2014 e il 2019, durante una vasta operazione condotta dalle forze fedeli al generale Haftar nella Libia orientale. La maggior parte dei detenuti è accusata di appartenenza al gruppo dello Stato Islamico e molti di loro hanno trascorso anni in attesa di un processo. Il carcere di Garnada è lo stesso da cui Mahmoud al Werfalli, ex ufficiale delle forze speciali di Haftar, prelevava prigionieri per compiere esecuzioni sommarie e filmarle. Werfalli, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, era noto per i video che lo mostravano mentre eseguiva personalmente le condanne. Ucciso nel 2021 a Bengasi in circostanze misteriose, Werfalli resta una figura simbolo delle violazioni sistematiche commesse in Libia orientale. Secondo Human Rights Watch, i detenuti sono sottoposti a metodi di tortura sistematica, tra cui percosse, scosse elettriche, privazione prolungata di sonno, cibo e acqua. Amnesty International ha denunciato che l’impunità radicata in Libia orientale ha incoraggiato l’Enl e l’Agenzia per la sicurezza interna (Asi) a intensificare la repressione contro critici e oppositori. Decine di persone, tra cui donne e uomini anziani, sono state arrestate arbitrariamente dall’inizio del 2024, spesso senza mandato. Le vittime, trasferite in strutture controllate dall’Asi, sono state sottoposte a detenzione arbitraria senza accesso a familiari o avvocati, e alcune sono scomparse per mesi. Amnesty documenta almeno due decessi in custodia quest’anno in circostanze sospette, con accuse mai formalizzate e indagini mai avviate. L’Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato un aumento delle inondazioni nel sistema fognario del carcere di Garnada tra il 2018 e il 2022, suggerendo una crescita della popolazione detenuta. Questi segnali, uniti alle testimonianze, rafforzano i timori di un’espansione delle strutture carcerarie, destinata a gestire un numero sempre maggiore di prigionieri e violazioni. Secondo Amnesty, la cultura dell’impunità è aggravata dal fatto che i comandanti dell’Enl, spesso accusati di crimini di diritto internazionale, continuano a ricoprire posizioni di potere. L’organizzazione non governativa ha chiesto la sospensione di tali individui e l’avvio di indagini indipendenti per garantire giustizia alle vittime. Inoltre, Amnesty ha raccolto testimonianze di famiglie di detenuti che denunciano minacce e pressioni per non rilasciare dichiarazioni pubbliche sui casi di abuso. Tailandia. Uiguri detenuti: un’altra pagina buia nei diritti umani di Giuseppe Gagliano notiziegeopolitiche.net, 14 gennaio 2025 Quando si parla di diritti umani, spesso l’indignazione globale si accende solo a tragedia avvenuta. Ma ciò che sta accadendo nelle celle di Bangkok dovrebbe scuotere le coscienze ben prima che sia troppo tardi. Una lettera disperata, ottenuta dall’Associated Press, svela il dramma di 43 uomini uiguri, una minoranza etnica di origine turco-musulmana perseguitata in Cina, che temono un’imminente deportazione verso un destino di torture, prigionia e forse di morte. “Potremmo essere imprigionati e potremmo anche perdere la vita. Facciamo appello urgente a tutte le organizzazioni internazionali e ai paesi che si occupano dei diritti umani affinché intervengano immediatamente per salvarci da questo tragico destino prima che sia troppo tardi”. Questo è il grido d’aiuto contenuto nella lettera firmata dai detenuti, un appello disperato rivolto al mondo intero. Il timore nasce da un precedente terribile: nel 2015 un gruppo di uiguri detenuti in Tailandia fu deportato in Cina con la stessa procedura. Molti di loro scomparvero nelle maglie della repressione cinese. I 43 uomini attualmente detenuti a Bangkok vedono davanti a sé lo stesso scenario. Secondo quanto riportato dall’Associated Press, l’8 gennaio scorso funzionari dell’immigrazione thailandese hanno presentato ai detenuti documenti di espulsione “volontaria” da firmare. Un’azione che ha scatenato il panico. La firma di quei documenti significherebbe, di fatto, accettare la propria deportazione verso la Cina. Consapevoli delle conseguenze, gli uomini si sono rifiutati. Ma dietro la parola “volontaria” si cela una pressione che somiglia più a un ricatto. Già nel 2015 documenti simili furono usati per coprire operazioni di deportazione forzata, spacciandole come decisioni prese dai detenuti stessi. Le organizzazioni internazionali sono finora rimaste in gran parte silenti. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, che spesso si ergono a paladini dei diritti umani, sembrano impegnati altrove. Eppure il caso degli uiguri dovrebbe essere al centro dell’agenda globale. La Tailandia dal canto suo non è nuova a cedere alle pressioni di Pechino. Il governo cinese considera gli uiguri come una minaccia alla sicurezza nazionale, etichettandoli spesso come “terroristi”. È chiaro che Bangkok stia cercando di bilanciare le relazioni diplomatiche con un gigante economico come la Cina, anche a costo di sacrificare vite umane. La questione degli uiguri non è solo un problema thailandese. È un tassello di un quadro più ampio, quello della repressione sistematica della minoranza uigura nello Xinjiang, documentata da numerosi report. Campi di internamento, lavori forzati, sterilizzazioni di massa. Le Nazioni Unite hanno definito le azioni cinesi come possibili crimini contro l’umanità. Eppure, davanti a queste evidenze, il mondo continua a trattare Pechino con i guanti, complici interessi economici troppo grandi per essere messi in discussione. Il caso dei 43 uiguri detenuti in Tailandia è un test cruciale per la comunità internazionale. Intervenire significa non solo salvare vite, ma anche inviare un segnale chiaro contro le deportazioni forzate e la repressione delle minoranze. Lasciare che la Tailandia proceda con queste deportazioni senza conseguenze significa legittimare una politica di oppressione globale. E quando il mondo tace di fronte a queste ingiustizie, il messaggio è chiaro: i diritti umani valgono solo quando non disturbano i giochi di potere.