Consulta, c’è l’accordo sui nuovi giudici di Niccolò Carratelli La Stampa, 13 gennaio 2025 Ultime trattative per eleggere i quattro nomi già domani. Due potrebbero essere donne. FdI indica Marini, per le opposizioni quasi certo Luciani. Stavolta si chiude. Su questo Giorgia Meloni ed Elly Schlein sono d’accordo. Domani pomeriggio, salvo ulteriori colpi di scena, verranno eletti quattro nuovi giudici della Corte costituzionale. In modo che lunedì prossimo, nella seduta convocata (e appositamente rinviata) per discutere dell’ammissibilità di una serie di referendum tra cui autonomia differenziata, jobs act e cittadinanza, la Consulta sia al completo con 15 membri. Le trattative sulla composizione della quaterna andranno avanti fino a domani mattina (oggi previste riunioni sia nel centrodestra che nel centrosinistra) ma lo schema di base è confermato. Due giudici indicati dalla maggioranza, uno dall’opposizione e uno dal profilo tecnico e istituzionale. Per quanto riguarda i primi due, c’è una certezza e un’incognita. Fratelli d’Italia ha da tempo scelto Francesco Saverio Marini, consulente giuridico a Palazzo Chigi, trai “padri” della riforma del premierato. L’altro nome lo farà Forza Italia, visto che la Lega ha già “in quota” il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Gli azzurri devono superare il derby interno tra avvocati: il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto e il senatore Pierantonio Zanettin, entrambi aspiranti al seggio costituzionale. Alla fine, Antonio Tajani tirerà fuori un altro nome “esterno”. Una donna, a quanto pare, e tra i nomi più quotati c’è quello di Gabriella Palmieri Sandulli, avvocato generale dello Stato, in carica dall’agosto 2019 (governo Conte). E nuora dell’ex presidente della Consulta e senatore Dc Aldo Mazzini Sandulli. Un nome inserito anche nella rosa in cui pescare il giudice tecnico, dove tiene la candidatura di Valeria Mastroiacovo, segretaria centrale dell’Unione giuristi cattolici italiani (Ugci). Non è nemmeno escluso che, alla fine, possano farcela entrambe o che, comunque, si arrivi all’elezione di due donne, visto che in lizza ci sono altre costituzionaliste come Lorenza Violini e Giuditta Brunelli. Per quanto riguarda il posto riservato alle opposizioni, infatti, sembra ormai favorito Massimo Luciani, accademico dei Lincei, tra i più stimati costituzionalisti italiani. Dal Nazareno smentiscono che ci sia stato una spaccatura interna al partito e che la segretaria Schlein si sia vista costretta a rinunciare a quello che era il suo candidato preferito, cioè Andrea Pertici, membro della Direzione Pd. Di certo, Luciani ha un profilo in grado di riscuotere un gradimento più trasversale, anche tra i renziani e in casa M5s. In ambienti dem glissano sulle voci (uscite dalle parti di FdI) di un tentativo sotterraneo da parte dei 5 stelle di inserirsi nelle trattative, approfittando delle presunte divisioni nel Pd, per spingere un proprio candidato, cioè Michele Ainis. “C’è un coordinamento tra le opposizioni, a nessuno conviene farlo saltare”, dicono fonti parlamentari dem. Il vero obiettivo della riforma, indebolire il potere giudiziario di Giuseppe Santalucia* La Stampa, 13 gennaio 2025 La terzietà di chi fa le sentenze è un falso argomento. La pubblica accusa sarà collocata nella sfera d’influenza del Governo. La riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati procede spedita. In gioco non è, secondo quel che ufficialmente si dice, la terzietà del giudice, il rafforzamento della posizione del giudice rispetto al pubblico ministero, come se oggi il giudice italiano non fosse già terzo rispetto alle parti. Se in gioco fosse la terzietà del giudice qualcuno dovrebbe spiegare perché potrà dirsi “terzo” il giudice che avrà di fronte, secondo quanto è scritto nel testo della riforma in discussione, un pubblico ministero pur sempre magistrato e appartenente ad una magistratura facente parte dell’ordine giudiziario, dunque dello stesso ordine del giudice. È ovvio che, siccome l’azione penale, ossia la principale attribuzione del pubblico ministero, che si sostanzia nel potere di indagine e di accusa, è pubblica, ossia è prerogativa di un organo statuale, il pubblico ministero sarà sempre, se e quando sarà realizzato il disegno riformatore, un po’ più “vicino” al giudice di quanto possa essere una figura professionale schiettamente privata, quale è l’avvocato del libero foro, che rappresenta l’imputato e le parti private. Ci vuol poco a comprendere che l’argomento della terzietà è nulla più che una suggestione, una giustificazione posticcia che, ad una considerazione appena più approfondita del disegno riformatore, si rivela una pezza incapace di coprire il reale disegno. Né può persuadere l’altro argomento, secondo cui la separazione delle magistrature, giudicante e inquirente, consentirà di avere due Consigli superiori, ciascuno preposto ad amministrare le sorti della sua magistratura, in modo che i pubblici ministeri non abbiano voce sugli sviluppi di carriera dei giudici e viceversa. Dovrebbero, infatti, pur spiegare i sostenitori della riforma, come mai una altrettanta sensibilità non venga manifestata di fronte al fatto, in prospettiva reso ancor più rilevante, che gli avvocati, che pure rappresentano l’altra parte del processo, continueranno ad occuparsi, come componenti sia dei consigli giudiziari, sia dei consigli superiori, delle sorti delle carriere e dei pubblici ministeri e dei giudici. Il vero è che questa riforma ha un obiettivo diverso e non del tutto nascosto, perché a tratti reso palese in qualche dichiarazione di autorevolissimi esponenti di governo e diffusamente esposto nelle relazioni illustrative dei plurimi disegni di legge di iniziativa parlamentare sul tema. L’obiettivo è di indebolire la presenza e il ruolo del giudiziario, vissuto con sempre maggiore insofferenza come un potere che interferisce con le volontà delle maggioranze di governo, che ne ostacola i piani, che pretende di imporre un controllo di legalità anche nei confronti di quanti esercitano funzioni pubbliche per mandato elettivo, che non si piega e non arretra di fronte agli illeciti commessi da coloro che rivendicano di poter esser giudicati soltanto dal e nel momento delle competizioni elettorali. E allora, lo sdoppiamento dei Consigli superiori servirà a indebolire la voce dialetticamente contrapposta al Ministro della giustizia sulle generali scelte di organizzazione della giurisdizione; la creazione di una Alta Corte di giustizia disciplinare servirà a rendere fragile la posizioni di giudici e pubblici ministeri sul terreno più delicato per la loro effettiva indipendenza, quello appunto della responsabilità disciplinare; la nomina dei componenti togati per sorteggio puro dentro i rispettivi Consigli superiori gioverà a deprimerne l’effettiva capacità di influenza rispetto alla componente di provenienza politica che, attraverso un meccanismo più articolato, sarà scelta con un sorteggio tutt’altro che cieco. Ed infine, la separazione del pubblico ministero preparerà il terreno, al di là di quello che le disposizioni del disegno di legge dicono, alla sua collocazione, in un futuro più o meno prossimo, nella sfera di influenza dell’Esecutivo. Una volta separato dalla giurisdizione dovrà pure trovare una sistemazione nell’area tripartita dei poteri dello Stato, e sarà quindi naturale avvicinarlo, come avviene in tutti gli ordinamenti esteri in cui è parimenti separato, al Governo. Con buona pace della effettiva indipendenza e autonomia del giudiziario, conquista storica della Costituzione che ora si vuole stravolgere. *Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Fiducia nei magistrati: aumentano gli italiani che credono alla teoria delle “toghe politiche” di Ilvo Diamanti La Repubblica, 13 gennaio 2025 L’immagine dei giudici rafforzata dagli affondi del governo nell’ultimo anno. L’assoluzione del ministro Matteo Salvini costituisce un episodio significativo, in quanto agevola il suo percorso politico verso gli altri obiettivi a cui ambisce. E, al tempo stesso, perché chiama in causa il ruolo della magistratura. Che segna non solo il nostro presente, ma la storia della nostra democrazia. In quanto soggetto che “unisce e divide il Paese” e gli italiani. Oggi e nel passato. Come di-mostra il sondaggio condotto da Demos sulla percezione in merito all’autonomia dei magistrati nell’interesse dei cittadini. L’importanza della magistratura nell’ambito delle istituzioni e della politica è nota. Da sempre. Anzitutto, perché la Magistratura è un’istituzione importante. In quanto ha funzioni di controllo e di regolazione nel sistema pubblico. E, anche per questo motivo, agisce nel sistema politico. Ne verifica e, se necessario, limita l’intervento e l’azione. In alcuni casi e in alcune fasi, “agisce” essa stessa da “attore” politico. Com’è avvenuto nei primi anni Novanta, quando un pool, guidato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, di cui facevano parte, fra gli altri, i magistrati Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini e Piercamillo Davigo, avviò una serie di inchieste sulla corruzione nel sistema politico e dei partiti. Riassunto nella definizione di “Mani pulite”, che svelò la “Tangentopoli”, cioè la Città delle Tangenti. In altri termini: il mondo politico della Prima Repubblica che - anche e soprattutto per questo - crollò, proprio in quegli anni. Senza dimenticare che, per iniziativa di Antonio Di Pietro, venne successivamente fondato un partito, de-nominato “Italia dei Valori”. Questo “incrocio” fra magistratura e politica costituisce ancora un fattore rilevante nel dibattito politico, che continua a dividere l’opinione pubblica. Letteralmente, come emerge dal recente sondaggio di Demos, nel quale le diverse valutazioni nel merito si “bilanciano”, in misura non dissimile. Anche se l’idea che “una parte della magistratura sia politicizzata” e agisca perseguendo obiettivi “politici” prevale. Seppure di poco. È, infatti, condivisa dal 54% dei cittadini “intervistati”. Oltre il 10% in più rispetto a chi è convinto dell’indipendenza dei magistrati. Si tratta di una visione stabile. Tuttavia, rispetto a un anno prima, l’immagine della “politicizzazione” dei magistrati appare rafforzata. Seppure di poco. Questi orientamenti trovano una spiegazione se osservati in base alla scelta politica e di partito degli intervistati. I magistrati, infatti, sono ritenuti “politicizzati” soprattutto dagli elettori di Destra e Centro Destra: Lega e, ancor più, Fratelli d’Italia, fra i quali l’ampiezza di questa percezione supera ampiamente il 70%. Ma risulta molto estesa anche nella base di Forza Italia. Dove sfiora il 60%. Comprensibilmente, vista la profonda tensione della magistratura, in passato, verso Silvio Berlusconi. Lo stesso sentimento prevale fra chi vota per Italia Viva e il M5S. Mentre appare largamente ridotto e minoritario tra gli elettori del Pd. Nel sondaggio di Demos (https://www.demos.it/a02288.php), gli unici a distinguersi rispetto agli altri. A favore di un’immagine della magistratura “autonoma e distante” da interessi di parte e dalla politica. Probabilmente - e comprensibilmente - perché esterni e lontani rispetto al governo e alla maggioranza che lo sostiene. Siamo, evidentemente, lontani dai tempi di Tangentopoli. Quando la magistratura costituiva un soggetto importante della scena politica nazionale. Tuttavia, il clima d’opinione di quell’epoca non si è dissolto. Anzi, persiste e resiste. Per diverse ragioni. Anzitutto, per l’eredità degli anni bui di un passato che non è passato. E “incombe” ancora. In secondo luogo, perché la scena politica si è “mediatizzata”. Perché la politica fa spettacolo. Ma lo spettacolo della politica è scivolato, rapidamente, verso una democrazia immediata. Digitalizzata. Che permette a tutti di intervenire in modo immediato. Senza mediatori. Così, la magistratura a sua volta “incombe”. E ogni indagine, ogni inchiesta, ogni decisione giudiziaria produce effetti politici. Ha conseguenze politiche. Tanto più in tempi politicamente incerti. Nei quali la maggioranza appare incerta. Almeno quanto l’opposizione. In tempi di globalizzazione. Quando, come ha scritto il sociologo inglese Antony Giddens, tutto ciò che avviene dovunque ha effetti “immediati e unificanti” sulla nostra visione del mondo. E ciò contribuisce a spiegare l’attenzione del(la) presidente del Consiglio verso quel che avviene nel mondo. Perché accanto a Trump è più facile intervenire in Italia. Giustizia 2024, i sopravvissuti di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 gennaio 2025 Assoluzioni dopo anni di ingiusta carcerazione, processi fallimentari, teoremi accusatori crollati, con danni economici e d’immagine ormai fatti e spesso irreparabili. Cronache di ordinaria gogna mediatico-giudiziaria da un altro anno di malagiustizia accertata. Da Beniamino Zuncheddu, assolto dopo 33 anni di ingiusta carcerazione, al caso Open contro Matteo Renzi e il “giglio magico”, crollato dopo cinque anni. Dal flop dell’inchiesta per lo smog contro la classe politica piemontese (Sergio Chiamparino, Chiara Appendino e Piero Fassino) al paradosso Consip: imputati assolti, tra cui Tiziano Renzi e Luca Lotti, e investigatori condannati. Dal calvario dell’ex senatore Stefano Esposito a quello del colonnello Fabio Massimo Mendella. Senza dimenticare il processo fallimentare contro i dirigenti del porto di Brindisi, con strascichi economici pesantissimi. Anche nel 2024 sono stati numerosi i processi e le indagini crollati in sede di giudizio, spesso a distanza di molti anni dall’inizio delle vicende, dal clamore mediatico, dagli arresti preventivi e dalla gogna, che segna in maniera indelebile la vita dei malcapitati. Torna la rassegna del Foglio sui principali casi emersi nel corso dell’anno che si è appena concluso. Gennaio I giudici della Corte d’appello di Roma assolvono al termine del processo di revisione, dall’accusa di essere l’autore della strage di Sinnai (Cagliari) dell’8 gennaio del 1991, in cui morirono tre persone. L’ex pastore sardo, in precedenza condannato all’ergastolo, ha trascorso 33 anni in carcere ingiustamente. Si tratta del più grave errore giudiziario della storia del nostro Paese. “Mi hanno bruciato 33 anni di vita. Pensi a quante cose avrei potuto fare, io non ho potuto fare niente. E chissà quanti ce ne saranno ancora lì dentro, innocenti che non hanno la possibilità di uscire dal carcere”, dice Zuncheddu al Foglio. Dopo quattro anni e mezzo, l’ex sindaco leghista di Legnano Gianbattista Fratus viene assolto in appello dalle accuse di turbativa d’asta e corruzione elettorale. Nel maggio 2019 Fratus venne posto agli arresti domiciliari. L’inchiesta venne battezzata dagli inquirenti “Piazza pulita” e cambiò la storia politica della città milanese, portando al ritorno alle urne e alla vittoria del centrosinistra. “Oggi mi sento sollevato, però la ferita resta, non si può dimenticare. La vicenda giudiziaria è durata 56 mesi e tre giorni. Sono lunghi. Si fa in fretta a pronunciarli, ma sono lunghi”, racconta Fratus al nostro giornale. Il 91enne editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo viene assolto dal tribunale di Catania dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa “perché il fatto non sussiste”. Il processo era iniziato nel 2017 e aveva portato a un sequestro di 150 milioni di euro di beni, poi annullato dalla Cassazione. La procura di Palermo aveva chiesto una condanna a 12 anni di reclusione. Febbraio Il presidente dell’Autorità di sistema portuale del mare Adriatico meridionale, Ugo Patroni Griffi, viene assolto dal gup di Brindisi con formula piena, “perché il fatto non sussiste”, nel procedimento su presunti illeciti relativi alla ristrutturazione del terminal di Costa Morena ovest nel porto di Brindisi. “Non c’è nulla da festeggiare. Il mio compito è realizzare infrastrutture e invece, a causa di un processo kafkiano, è andato perduto un finanziamento di oltre 16 milioni di euro”, dice Griffi al Foglio. A otto anni dall’inizio dell’inchiesta, la Corte d’appello assolve Giuseppe Novelli, genetista di fama internazionale ed ex rettore dell’Università di Roma Tor Vergata, dalle accuse di tentata concussione e istigazione alla corruzione in relazione alle nomine di alcuni docenti. La seconda accusa era caduta già in primo grado. Viene archiviata a Milano l’indagine sulla cosiddetta “lobby nera”, aperta nel 2021 in seguito a un’inchiesta realizzata dal sito Fanpage, in cui erano coinvolti l’eurodeputato di FdI Carlo Fidanza e altre otto persone. L’accusa ipotizzata era di finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio. (segue a pagina due) (segue dalla prima pagina) Il tribunale di Salerno assolve il deputato del Pd Piero De Luca nell’ambito del procedimento giudiziario sul fallimento della Ifil srl. Gli inquirenti gli avevano contestato il reato di bancarotta impropria in concorso, risalente al 2011. Marzo Il tribunale di Roma assolve in uno dei filoni del processo Consip otto imputati, tra cui Tiziano Renzi (padre dell’ex premier), l’ex ministro Luca Lotti, l’ex comandante dei Carabinieri della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia e gli imprenditori Alfredo Romeo e Carlo Russo. Il padre dell’ex presidente del consiglio era accusato traffico di influenze illecite. Lotti e Saltalamacchia, invece, di rivelazione di segreto. Il tribunale condanna il maggiore dei Carabinieri Giampaolo Scafarto (un anno e sei mesi) per aver diffuso notizie coperte da segreto ai giornali relative proprio all’indagine Consip e il suo superiore Alessandro Sessa per non aver denunciato il fatto (tre mesi). L’ex sindaco di Torino Piero Fassino viene assolto nel processo di primo grado per le presunte irregolarità commesse nell’ambito della vecchia gestione del Salone del libro di Torino. L’ex primo cittadino è assolto nel merito dalle accuse di turbativa d’asta nonostante i reati a lui addebitati fossero già caduti in prescrizione. Assolti anche altre undici imputati, tra cui Antonella Parigi, ex assessore regionale alla Cultura. La Corte d’appello di Potenza conferma l’assoluzione di Marcello Pittella, ex presidente della regione Basilicata, nel processo sulla cosiddetta Sanitopoli lucana. Il 6 luglio 2018, mentre era al vertice della giunta, Pittella venne arrestato e messo ai domiciliari con l’accusa di essere il “deus ex machina” di un sistema di concorsi truccati per l’assegnazione di incarichi nella sanità regionale: sospeso in base alla legge Severino, all’inizio del 2019 si dimise dall’incarico di governatore. Aprile Il tribunale dei ministri di Roma archivia l’ultimo procedimento a carico dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza sulla gestione della pandemia di Covid-19. Nell’ordinanza viene riconosciuto che Speranza nella fase più drammatica della pandemia “ha agito, all’interno delle proprie prerogative istituzionali, per l’esclusivo fine di tutelare la salute collettiva della popolazione e giammai per fini individualistici, specialmente dolosi”. Luciano Lucchetti, 72 anni, per trent’anni dirigente e poi ingegnere capo del Comune di Ancona, viene assolto “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di aver violato una norma del codice dei beni culturali per il restauro di cinque panchine liberty in ghisa risalenti al 1920. Si tratta del 34esimo procedimento penale a suo carico, record emblematico dei guai giudiziari ai quali vanno incontro gli amministratori pubblici che si assumono il coraggio di decidere. Come se non bastasse, dopo il deposito delle motivazioni la procura impugna la sentenza in appello. Maggio Al termine di una vicenda giudiziaria durata più di dieci anni, diventa definitiva l’assoluzione del colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella per una presunta corruzione relativa al periodo in cui era in servizio a Napoli e, successivamente, a Roma dove comandava il Gruppo territoriale della Capitale. In appello era stato ribaltato il verdetto del tribunale di Napoli che lo aveva condannato a quattro anni di reclusione. L’ex commissario alla Sanità del Molise, Angelo Giustini, viene prosciolto dall’accusa di omicidio colposo per la morte di una paziente che era stata ricoverata all’ospedale Cardarelli durante il periodo della pandemia di Covid-19. Si tratta del quarto procedimento penale nei confronti di Giustini relativo alla gestione dell’emergenza pandemica che si chiude con un’archiviazione. Una tempesta giudiziaria che, tuttavia, all’epoca costò a Giustini le dimissioni da commissario. La Corte di cassazione assolve Mario Raggi, ex presidente di Net, la società pubblica che gestisce il ciclo integrato dei rifiuti a Udine e in provincia, dall’accusa di bancarotta fraudolenta per il fallimento nel 2010 della Fingestim. Il procedimento giudiziario è durato 14 anni, a causa di azzeramenti processuali, cambi di giudici e continui rinvii, e aveva visto Raggi essere condannato in primo e secondo grado a quattro anni. “È stato un periodo molto difficile, fatto di rinunce politiche e lavorative, oltre che di sofferenze sul piano personale e famigliare”, racconta Raggi al Foglio: “Adesso riparto, anche se all’epoca avevo 48 anni e oggi ne ho 62”. Giugno A distanza di otto anni dall’inizio dell’indagine, che finì sulle prime pagine di tutti i giornali, il tribunale di Firenze assolve il cognato di Matteo Renzi, Andrea Conticini, insieme ai fratelli Alessandro e Luca, dall’accusa infamante di aver sottratto circa sette milioni di dollari destinati ai bambini in Africa. A muovere l’accusa era stato il pm fiorentino Luca Turco. A poche udienze dalla fine del processo, però, anche quest’ultimo aveva chiesto l’archiviazione degli imputati. “Io credo, anzi sono sicuro, che se mia moglie avesse avuto un altro cognome questa vicenda si sarebbe risolta subito. Invece ci sono voluti ben otto anni”, dichiara Andrea Conticini in un’intervista a Libero. “Quando sono arrivato a 1.500 articoli che parlavano di questa indagine ho smesso di raccoglierli. Della mia assoluzione ne ho contati nemmeno una decina”. Luglio Il tribunale di Torino proscioglie in udienza predibattimentale l’ex governatore Sergio Chiamparino, gli ex sindaci Chiara Appendino e Piero Fassino, e gli assessori che hanno gestito la delega all’Ambiente tra il 2015 e il 2019, dall’accusa di inquinamento ambientale colposo. Gli imputati erano accusati dal pm Gianfranco Colace di non aver adottato misure adeguate per ridurre il livello di sostanze nocive nell’aria nel corso degli anni, e di aver così contribuito a determinare la morte di 900 persone. Un’inchiesta unica nel suo genere (e infatti crollata), in cui il pm si spinge a valutare l’“adeguatezza” e l’efficacia” di scelte adottate dagli amministratori nella loro legittima discrezionalità politica. Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo Renzi, vengono assolti dall’accusa di bancarotta fraudolenta per il fallimento delle cooperative Marmodiv, Delivery ed Europe Service, reato che nel febbraio 2019 permise l’applicazione della misura degli arresti domiciliari nei loro confronti, richiesta dal pm Luca Turco. Tiziano Renzi e Laura Bovoli vengono invece condannati a una pena di tre anni, due mesi e 15 giorni per false fatture. La Corte d’assise di appello di Roma conferma l’assoluzione dei cinque imputati nel processo per l’omicidio di Serena Mollicone, avvenuto nel giugno del 2001 ad Arce, in provincia di Frosinone: il maresciallo dei Carabinieri ed ex comandante della stazione di Arce Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco, che erano stati accusati di concorso in omicidio volontario. Confermata l’assoluzione anche per Vincenzo Quatrale, accusato di concorso esterno in omicidio, e l’appuntato Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento. Vengono tutti assolti, perché il fatto non sussiste, i generali a processo a Cagliari accusati di disastro ambientale colposo per le esercitazioni nel poligono militare di Teulada: Giuseppe Valotto, Danilo Errico, Domenico Rossi e Sandro Santroni. Proscioglimento per il generale Claudio Graziano, ex capo di stato maggiore e già presidente di Fincantieri, morto suicida nella sua casa di Roma nel giugno 2023. Agosto La Corte d’appello di Palermo accorda l’indennizzo da 516 mila euro (il massimo previsto) a Salvatore D’Anna, 64 anni, componente di una nota famiglia di imprenditori di Terrasini (Palermo), che ha trascorso in carcere ingiustamente otto anni (dal 2010 al 2018) con l’accusa di associazione mafiosa. D’anna era stato condannato a 12 anni di reclusione, fino a quando la Cassazione annullò con rinvio la sentenza. In Corte d’appello venne così assolto con verdetto divenuto irrevocabile nel novembre 2021. L’accusa si basava anche su alcune dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che, però sono risultate inattendibili. Settembre Il tribunale di Milano assolve, “perché il fatto non sussiste”, rispettivamente ex rettore dell’università Statale di Milano e il rettore dell’università Vita-salute del San Raffaele, imputati in una tranche di un’indagine milanese su presunti concorsi pilotati negli atenei, in particolare nelle facoltà di medicina. Con loro assolti anche altri tre imputati, ossia tre primari. L’imprenditrice (ed ex vicepresidente della Regione Calabria) viene assolta dal tribunale di Catanzaro dall’accusa di associazione a delinquere per traffico illecito di rifiuti, che le era stata contestata nel marzo del 2021 dalla Direzione distrettuale di Catanzaro, all’epoca guidata da Nicola Gratteri, nell’ambito dell’operazione “Erebo Lacinio”. Assolti anche tutti gli altri otto imputati. Al centro dell’inchiesta l’impianto di biogas utilizzato dalla società Verdi Praterie, facente parte del gruppo Marrelli di Crotone, presieduto da Stasi. “L’azienda, sottratta alla mia custodia e consegnata agli amministratori giudiziari, oggi è distrutta e l’impianto biogas chiuso”, dichiara Stasi, aggiungendo di aver “dovuto licenziare diversi operai” e di aver “accumulato debiti e ritardi con i fornitori”. La Corte d’appello di Messina assolve Giuseppe Sottile, brigadiere della Guardia di Finanza, dall’accusa di estorsione aggravata. I giudici ribaltano la sentenza di primo grado che aveva inflitto all’imputato sette anni e sei mesi con rito abbreviato. A causa dell’inchiesta, Sottile ha trascorso sei mesi in carcere e quattro mesi agli arresti domiciliari. Dopo dieci anni, un uomo di 45 anni del Cosentino viene assolto dal tribunale di Paola dai reati di maltrattamenti in famiglia e stalking, accuse che gli sono costate dieci mesi di arresti domiciliari, oltre all’impossibilità di incontrare per anni il proprio figlio. Un caso che ci ricorda che la malagiustizia può colpire chiunque, e non solo i cosiddetti “colletti bianchi” come qualcuno sostiene. Ottobre Diventa definitiva l’assoluzione di ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, travolto nel novembre 2020 dell’inchiesta “Farmabusiness” istruita dalla Dda di Catanzaro (all’epoca guidata da Gratteri) con le pesanti accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso, e assolto in appello nel novembre 2023. A causa dell’inchiesta Tallini trascorse un mese ai domiciliari e la sua immagine venne distrutta, insieme alla sua carriera politica. “Dopo Tangentopoli i magistrati si sono sentiti tanti Di Pietro. Il problema è che la politica, inseguendo il consenso dell’opinione pubblica, ha fatto a gara a chi faceva più antipolitica in Parlamento, finendo per attribuire ancora più poteri alla magistratura”, afferma Tallini al Foglio. Il gip di Milano archivia le posizioni, trasmesse dai pm di Bergamo, di rispettivamente ex assessore ed ex direttore generale del Welfare in Lombardia, accusati di rifiuto d’atti d’ufficio in relazione alla presunta mancata attivazione del piano pandemico durante l’emergenza Covid-19. Per il giudice, da un lato “non può ritenersi indebita la mancata adozione di atti e provvedimenti attuativi del piano endemico nazionale e regionale che, come emerso dalle complesse indagini svolte, sarebbero comunque risultati inidonei, nel caso specifico, a fronteggiare un’epidemia di livello mondiale”, dall’altro lato “la decisione di attivare o meno il piano pandemico nazionale era del tutto rimessa alla valutazione discrezionale del governo”. Novembre Dopo dieci anni, il tribunale di Roma assolve dall’accusa di ricettazione e riciclaggio l’attore Alberto Gimignani, protagonista di “Distretto di polizia”, “La piovra” e “Un posto al sole”, ma anche caratterista in film di Muccino e Zalone, era stato arrestato nel luglio del 2014 con l’accusa di essere l’autore di furti di telefonini che poi rivendeva insieme a una banda. Gimignani trascorse due settimane in carcere e sei mesi agli arresti domiciliari. Il suo volto finì con un’accusa mai provata su tutti i telegiornali e la sua carriera venne irrimediabilmente interrotta. Dopo sei anni, il gip di Torino archivia l’indagine nei confronti di venticinque tra i massimi professionisti del mondo della psicologia e della psichiatria di Torino, travolti nel novembre 2018 dall’indagine con l’accusa di aver pilotato una serie di concorsi. Ipotesi di reato: corruzione, truffa, falso, turbata libertà degli incanti. Tra gli indagati Flavio Boraso ed Enrico Zanalda (rispettivamente direttore generale e responsabile del dipartimento di salute mentale dell’asl 3 di Torino), Riccardo Torta e Giuliano Geminiani (professori ordinari di Psicologia clinica all’università di Torino), Maurizio Dall’acqua (direttore generale dell’ospedale Mauriziano), Roberto Rigardetto (responsabile della Neuropsichiatria al Regina Margherita) e lo specialista in psichiatria Giuseppe Maina. L’indagine, aperta dai pm Gianfranco Colace e Laura Longo, è inspiegabilmente rimasta ferma per sei anni. Dopo tutto questo tempo, non avendo trovato conferma alle proprie ipotesi accusatorie, i pm hanno chiesto l’archiviazione. La richiesta è stata accolta dal gip. Il tribunale di Nocera Inferiore assolve il sindaco di Scafati, imputato di voto di scambio politico-mafioso in un’inchiesta condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. L’accusa dei pm, basata sulle rivelazioni di presunti pentiti, era che Aliberti avesse stretto un patto con alcuni esponenti di un clan mafioso in vista delle elezioni amministrative del 2013 e delle regionali del 2015: voti in cambio di futuri appalti. L’indagine esplose nel 2018 e Aliberti finì addirittura in carcere, mentre il comune venne sciolto per mafia. Al termine del processo, la Dda di Salerno ha chiesto una condanna di 6 anni e 8 mesi, ma Aliberti è stato assolto da ogni accusa “perché il fatto non sussiste”. Il tribunale di Palmi assolve l’ex sindaco di Rosarno, coinvolto nel 2021 nella maxi inchiesta Faust condotta dalla Dda di Reggio Calabria. A causa dell’inchiesta, Idà finì agli arresti domiciliari e si dimise da sindaco insieme a tutta la sua giunta. L’accusa, anche per lui, era di aver stretto un patto con una cosca mafiosa che prevedeva l’appoggio elettorale in cambio di nomine comunali e assegnazione di lavori pubblici. La Corte d’appello di Catanzaro assolve l’ex Consigliere regionale calabrese imputato nel processo scaturito dall’inchiesta “Sistema Rende”, anche lui accusato di voto di scambio, insieme a diversi altri politici, tra cui gli ex sindaci di Rende, Sandro Principe e Umberto Bernaudo, già tutti assolti nel filone principale. Secondo i pm della Dda di Catanzaro, che avevano avviato l’inchiesta nel 2012, i politici (finiti agli arresti) avevano stipulato un patto con una cosca che prevedeva favori amministrativi in cambio di voti. È il terzo processo per voto di scambio politico-mafioso in pochi giorni che termina con l’assoluzione degli imputati, a conferma che fare politica a livello locale, cioè ottenere consensi (leggasi voti) per poter essere eletti a incarichi di governo costituisce ormai una pratica da kamikaze. Il tribunale di Roma assolve tutti gli otto imputati coinvolti nel procedimento relativo al fallimento del quotidiano l’unità. Tra questi anche l’imprenditore ex governatore della Sardegna. L’accusa principale era di bancarotta per distrazione e per dissipazione. Dicembre Il tribunale di Firenze proscioglie tutti gli 11 imputati coinvolti nell’inchiesta sull’ex fondazione Open: l’ex premier Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Alberto Bianchi e Marco Carrai (rispettivamente ex presidente e componente del consiglio direttivo di Open), e svariati imprenditori. Erano tutti accusati di finanziamento illecito ai partiti. A Lotti veniva contestata anche la corruzione. Il gup emette una sentenza di non luogo a procedere, ritenendo che non sussistano gli elementi minimi per andare a processo. L’indagine avviata dai pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi, coordinati dal procuratore capo Giuseppe Creazzo, esplose il mattino del 26 novembre 2019, con perquisizioni e sequestri in tutta Italia. “Ho passato cinque anni da appestato per un’indagine assurda. È fallito il tentativo politico di far decidere a un pubblico ministero cosa è un partito e cosa no”, dichiara Renzi al Foglio. Assolto perché il fatto non sussiste. Si chiude con questo verdetto, emesso dal tribunale di Palermo, il processo Open Arms a carico di un dibattimento durato tre anni, con il vicepremier imputato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per avere impedito, secondo la procura di Palermo che aveva chiesto la condanna a sei anni di reclusione, lo sbarco di 142 migranti nell’agosto 2019. I migranti furono costretti a rimanere a bordo della nave della ong spagnola per 19 giorni prima la procura di Agrigento ordinasse lo sgombero dello scafo per motivi igienico-sanitari. Dopo sette anni crollano le pesanti accuse (corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze) rivolte dalla procura di Torino nei confronti dell’ex senatore Pd il gip di Roma, a cui gli atti dell’indagine del pm torinese Gianfranco Colace erano stati trasmessi per competenza territoriale, accoglie la richiesta di archiviazione avanzata dai pm della Capitale, demolendo nel merito le accuse. Nel corso dell’indagine Esposito è stato intercettato per tre anni 500 volte dalla procura torinese mentre ricopriva la carica di senatore, senza autorizzazione del Parlamento (come richiesto dalla Costituzione). La condotta della magistratura è stata duramente censurata in una sentenza dalla Corte costituzionale. “Anziché pensare a epocali riforme della giustizia, sarebbe meglio riflettere su una riforma semplice, che è quella della responsabilità del magistrato: chi sbaglia paga”, dice Esposito in una lunga intervista al nostro giornale. I parenti dei morti nelle stragi: “Un pericolo le nuove norme del ddl Sicurezza” di Francesco Moscatelli La Stampa, 13 gennaio 2025 Il ddl prevede che gli 007 possano compiere reati se autorizzati dal Governo. “Avendo una lunga esperienza delle malefatte dei Servizi italiani, davanti a questa norma ci siamo molto allarmati”. Federico Sinicato, presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di piazza Fontana, esprime così il sentimento, suo e delle altre associazioni che danno vita al Coordinamento nazionale delle associazioni, davanti all’articolo 31 del decreto sicurezza, attualmente in discussione al Senato: “In un Paese che non ha ancora superato le cicatrici provocate da stragi, omicidi, attentati, depistaggi, dossieraggi, golpe tentati, progetti eversivi, immancabilmente accompagnati da responsabilità spesso processualmente accertate di esponenti degli apparati di sicurezza - sostiene il coordinamento - il solo pensiero di fornire ancora più poteri a tale personale, ivi compreso il potere di delinquere, pare non solo una offesa alla Costituzione, ma anche eversivo”. I firmatari del documento - rappresentanti delle vittime delle stragi più efferate, da quella della stazione di Bologna a piazza della Loggia a Brescia, dall’Italicus al Rapido 904 fino a Capaci e ad altri episodi delittuosi - puntano il dito contro la disposizione che prevede “l’estensione delle condotte di reato scriminabili, che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali su autorizzazione del presidente del Consiglio dei ministri”. Secondo le associazioni, si tratta di una “licenza criminale ai servizi che fa strame di ogni più elementare principio democratico. Agli apparati in sostanza viene fornita per legge facoltà di delinquere, con l’unica limitazione che ne sia informato il capo del governo”. Ma c’è di più, perché a ciò si aggiunge “la possibilità di spiare ogni singolo cittadino attraverso le intercettazioni preventive”, assecondando così un disegno “di virare da uno Stato di diritto a uno Stato securitario incostituzionale”. Per Sinicato, “siamo di fronte a un provvedimento che vuole aumentare la libertà di manovra dei Servizi, svincolandoli da ogni controllo di legalità”. Questo perché la vigilanza ultima “viene demandata al presidente del Consiglio anche nel caso che l’attività comporti dei reati”. Il che avviene in Italia che, sottolinea il presidente dell’associazione, “viene da cinquant’anni di depistaggi che hanno visto azioni non sempre limpide da parte dei Servizi. Ecco perché riteniamo pericolosa questa norma”. Finora, spiega Sinicato, gli apparati sono stati soggetti alla legge e “gli uomini sotto copertura hanno dovuto seguire una trafila di autorizzazioni, ma se il decreto fosse approvato cambierebbe tutto”. Concetti ribaditi da Paolo Bolognesi, presidente familiari delle vittime della strage di Bologna: “Con la normativa attuale, se un membro dei Servizi compie un reato viene punito. Col decreto sicurezza potrà farlo senza subire conseguenze. In passato abbiamo visto gli apparati di sicurezza farne di tutti i colori; ora non sarebbero più deviati, ma agirebbero legalmente. Spero che il decreto non passi così, sarebbe assurdo”. Ddl Sicurezza. Le bodycam proteggono le forze dell’ordine, non i cittadini di Marika Ikonomu Il Domani, 13 gennaio 2025 L’articolo 28 del disegno di legge, ora in Commissione al Senato, prevede l’introduzione delle videocamere indossabili dagli agenti, senza però fornire dettagli. Rischia di essere “a tutela esclusiva delle forze dell’ordine”, commenta Prencipe (Antigone) e per Renzi (Amnesty) “non aiuterà quindi a migliorare l’accountability delle forze di polizia”. L’Italia è uno dei sei paesi europei a non avere alcuna misura di identificazione per gli agenti impegnati in attività di ordine pubblico. Le conseguenze di una totale assenza sono emerse, in modo evidente, nei fatti del G8 di Genova nel 2001. Molti agenti che hanno commesso violenze e torture alla scuola Diaz sono rimasti impuniti perché non identificati, grazie a coperture sul volto e all’assenza di elementi identificativi sui caschi. Se nel ddl Sicurezza, già approvato dalla Camera e ora in commissione al Senato, la maggioranza ha inserito l’uso delle bodycam, sui codici alfanumerici i partiti di governo sono stati categorici, così come i sindacati di polizia, da sempre contrari a queste misure, considerate un modo per trasformare gli agenti in “bersagli”. Dai primi tentativi nel 2001 ad oggi, il parlamento non è mai riuscito a introdurle. “Senza misure di identificazione, come i codici identificativi, però”, spiega Laura Renzi, campaign manager di Amnesty International, “le bodycam non sono sufficienti. Perché i cittadini non hanno la possibilità di risalire a chi si trovano di fronte”. Amnesty porta avanti da anni una campagna per chiedere l’introduzione dei codici identificativi, numerici o alfanumerici. L’unica misura in grado di garantire l’identificazione, salvaguardare i cittadini e le cittadine contro l’uso illegale della forza e impedire l’impunità. Le bodycam senza altre forme di identificazione e così come previste nel ddl Sicurezza rischiano quindi di diventare uno strumento “a tutela esclusiva delle forze dell’ordine” e non, come dovrebbe essere, uno “strumento a tutela principalmente dei cittadini e delle cittadine”, spiega Pasquale Prencipe, membro dello staff di ricerca dell’associazione Antigone. Una lettura che è stata confermata anche dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha definito le bodycam “un doveroso riconoscimento” e una “più efficace tutela delle donne e degli uomini in divisa”. Il tentativo di offrire una tutela anche ai cittadini e permettere loro di ricostruire a chi appartiene la divisa che si ha di fronte lo ha fatto Riccardo Magi, deputato di +Europa. Il suo emendamento, che chiedeva di introdurre parallelamente alle videocamere i codici identificativi, è stato bocciato dalla maggioranza in commissione alla Camera. Cosa sono - Le bodycam, telecamere che possono essere posizionate sulle divise degli agenti o sui caschi, possono essere uno strumento utile per riprendere e filmare eventuali aggressioni, sia nei confronti degli agenti, sia per documentare eventuali scontri, o ancora essere un ulteriore deterrente per l’agente nell’uso della forza. Dispositivi che possono aiutare a individuare le eventuali responsabilità. Solo, però, se regolamentati e utilizzati in maniera corretta, scrive Amnesty, ad esempio se non ci sono interruzioni nella registrazione. È l’articolo 21 del ddl Sicurezza a prevedere la “dotazione di videocamere alle forze di polizia”. Il comma 1 e il comma 2 ne introducono l’utilizzo, mentre il comma 3 e 4 fissano la copertura economica. “Il personale delle Forze di polizia impiegato nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza di siti sensibili nonché in ambito ferroviario e a bordo dei treni può essere dotato di dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento”, recita il comma 1 dell’articolo. Il paragrafo successivo stabilisce poi che possono essere usati “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale”. Una norma “minimalista”, la definisce Prencipe, che si limita a prevedere la dotazione. Dalla lettura del testo, “molto probabilmente non sarà un obbligo ma una facoltà, che lascerà una discrezionalità all’agente che indossa la bodycam”, spiega. Non è chiaro se verrà esteso a tutte le forze dell’ordine, sottolinea Prencipe, e “non sappiamo come verranno raccolti i dati o saranno gestiti”. Per Renzi è molto preoccupante “l’assenza di riferimenti all’applicazione: chi garantisce le modalità di utilizzo delle immagini registrate?”. Per i cittadini non è esplicitato come consultare i video registrati, continua il ricercatore di Antigone: “Quando si introduce una normativa così importante, devono essere poste basi importanti”. Non c’è dubbio che sarà necessaria una regolamentazione più dettagliata, ma disposizioni di partenza così generiche rischiano di aprire la strada a interpretazioni pericolose. Privacy - “Come verranno raccolte le registrazioni? Come saranno gestite? In che modo sarà possibile accedere a questi dati?”, chiede Prencipe. Ad oggi, alcuni principi possono essere ricavati dai pareri del Garante della privacy del 2021. È probabile che, dopo l’approvazione, si chieda un parere più aggiornato al Garante, che però non è stato audito in commissione al Senato. Nei pareri del 2021 il Garante della privacy aveva dato il via libera al Viminale per l’uso delle bodycam chiedendo però che venissero recepite alcune indicazioni dell’autorità. “I rischi per le persone riprese possono essere anche molto elevati”, si legge, come “la discriminazione”, “la sostituzione d’identità”, “il pregiudizio per la reputazione”, o “l’ingiusta privazione di diritti e libertà”. Le videocamere possono essere usate, scriveva il Garante, “solo in presenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico o di fatti di reato”, ma non è possibile usarle come sistemi di riconoscimento facciale o di identificazione univoca. I pareri vietavano inoltre la registrazione continua delle immagini, che possono essere conservate per un periodo “ragionevole” di sei mesi. Al termine, devono essere cancellate automaticamente. Riformare e punire - Dal suo insediamento, il governo Meloni ha introdotto 48 nuove fattispecie di reato, senza contare quelle inserite nel ddl Sicurezza, e svariate aggravanti, per un totale di 417 anni in più di carcere, ha calcolato Luigi Manconi. Non è solo la società civile a mettere in luce la deriva illiberale del ddl. Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’ Flaherty, in una lettera al presidente del Senato La Russa, ha sottolineato come alcune disposizioni possano minare la libertà di manifestazione e di protesta pacifica, e chiesto ai membri del Senato di astenersi dall’adottare il ddl, a meno che non venga sostanzialmente modificato: “Temo”, scrive O’ Flaherty, “che il disegno di legge allarghi eccessivamente la portata degli interventi delle autorità consentiti nelle assemblee pubbliche”, creando “spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata”. L’utilizzo delle bodycam, aggiunge Renzi, “non aiuterà quindi a migliorare l’accountability delle forze di polizia”, che significa essere trasparente e rendere conto del proprio operato, e quindi assumersi la responsabilità. Sul rischio di abusi da parte delle forze dell’ordine, Prencipe evidenzia infine un altro articolo “pericoloso”, che consente agli agenti di detenere senza licenza alcune tipologie di armi, quando non sono in servizio: “Una liberalizzazione delle armi”, commenta. E conclude: “Spetterà all’associazionismo portare nelle corti queste norme e segnalare le frizioni costituzionali”. Verità per Ramy, non vendetta di Massimo Adinolfi La Repubblica, 13 gennaio 2025 Si chiede giustizia, rispetto delle regole, accertamento rigoroso delle responsabilità. Lo si può fare a gran voce, mobilitando l’opinione pubblica. Non lo si può fare con la violenza, l’antisemitismo. Che altro pensare, se non che la morte di Ramy Elgaml non può giustificare in alcun modo gli scontri che hanno avuto luogo a Roma o a Bologna? Ramy è morto al termine di un inseguimento per le strade di Milano su cui sono in corso indagini. Un video è stato acquisito e getta ombre sulla condotta delle forze dell’ordine la notte tra il 23 e il 24 novembre scorso. Tocca all’autorità giudiziaria fare chiarezza; tocca all’opinione pubblica tenere alta l’attenzione su un caso che non può finire nel silenzio. Un conto, però, è pretendere giustizia, un altro è dare l’assalto alla polizia o a una sede della comunità ebraica. Fare verità significa anzitutto non minimizzare l’accaduto. È presto, naturalmente, per considerare accertate le responsabilità, ma c’è un comportamento dei carabinieri che solleva giustamente interrogativi. È inquietante vedere in qual modo la loro auto si sia lanciata all’inseguimento. L’ex capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha osservato che va sempre rispettato il principio della proporzionalità delle azioni. Tanto più che le immagini avrebbero comunque consentito di prendere la targa e risalire perlomeno al proprietario della moto. In ogni caso, nessun inseguimento può essere condotto a qualunque costo: “Se il tema è fermare una persona che sta scappando, non posso metterla in una condizione di pericolo: questo è un elementare principio di civiltà giuridica”. Ora, poiché viviamo in una fase storica in cui i principi elementari di civiltà giuridica non possiamo considerare che siano del tutto al sicuro, che non prevalgano invece la volontà di punire, l’ansia di vendicare e di farla pagare, e certe torsioni securitarie che sono dei comportamenti prima ancora che delle leggi, è bene essere vigili. Se il timore è che venga tutto insabbiato, allora è giusto alzare la voce. Ma di nuovo: un conto è alzare la voce, un altro è lasciarsi andare a violenze senza senso. Allo stato, c’è un carabiniere indagato per omicidio stradale, in attesa che si completino le perizie sulla dinamica dell’incidente. Va chiarito anche il valore della testimonianza della persona che ha assistito alla scena e a cui i carabinieri avrebbero intimato di cancellare il video girato quella notte. Se così fosse, sarebbe grave. Ma tocca alla magistratura stabilirlo. E quanto più si tiene a che le responsabilità siano accertate da un pronunciamento della magistratura, tanto più è necessario che il caso non venga politicizzato. Se poi in questione fossero le possibilità di integrazione dei migranti (ma Ramy non lo era) o le condizioni di vita nelle periferie o certi modi spicci delle forze dell’ordine oppure le speranze di futuro di due ragazzi che scappano a un posto di blocco perché privi della patente di guida, il modo migliore per porre uno qualunque di questi temi non è incendiare cassonetti o infrangere vetrine. Ci siano strategie e disegni, o si tratti semplicemente di scoppi ribellistici di violenza, si ha l’impressione che un atteggiamento legalitario torni a essere considerato da certe frange estremiste come un modo di anestetizzare il conflitto, di mettere la sordina a istanze di lotta politica e sociale a cui si vuol invece dar fuoco. Ma bisogna sapere che, in primo luogo, con tutto questo Ramy c’entra meno di niente, e dunque non lo si può fare in suo nome. Farlo in suo nome significa usarlo, ed è quello che la famiglia per prima chiede di non fare. In secondo luogo, bisogna sapere pure che nella storia di questo Paese alzare la tensione non è mai stato di aiuto alla democrazia, e ha contribuito semmai a metterla in pericolo. Non siamo per fortuna a questo punto (credo), ma anche la costruzione dell’agenda e le parole all’ordine del giorno hanno la loro importanza. Chi scende in piazza sappia allora che deve scendere in una piazza democratica, una piazza da cui la democrazia e il diritto escano rafforzati, non sviliti. Per Ramy si chiede giustizia, il rispetto delle regole, l’accertamento rigoroso delle responsabilità, la chiarezza su tutti gli elementi già venuti a galla: nulla di più ma anche nulla meno di questo. Lo si può fare a gran voce, a testa alta, raccogliendo e ricevendo solidarietà, mobilitando l’opinione pubblica. Non lo si può fare con l’isteria, la violenza, l’antisemitismo. Proprio no. Ramy, la strategia di Piantedosi per rispondere agli attacchi: stretta su violenti ed espulsioni di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 13 gennaio 2025 Preoccupa il clima di tensione. Il focus su antagonisti e immigrazione 2025. La direttiva: l’operato di prefetti e questori sarà misurato in base ai numeri sui rientri in patria. Ai poliziotti più esperti questo clima non piace per niente. Alto è il timore che le proteste di piazza possano moltiplicarsi. Ecco perché, all’indomani degli scontri di Roma e Bologna, il cambio di passo già nell’aria - con la recente direttiva ai prefetti del ministro Matteo Piantedosi per istituire in città le zone “a vigilanza rinforzata” o “zone rosse” - subirà un’ulteriore accelerazione. Si lavora su un doppio binario: contrasto e attività di prevenzione nei confronti di quei gruppi violenti che ormai con inquietante frequenza prendono di mira le forze dell’ordine e quello all’immigrazione fuori controllo, che per il ministro dell’Interno ha conseguenze negative sulla sicurezza nei centri urbani. Con una direttiva del titolare del Viminale che non ha precedenti: l’operato di prefetti e questori sarà misurato anche e soprattutto in base alla loro capacità di effettuare espulsioni e rimpatri. Più posti nelle camere di sicurezza - Nei contatti di questi giorni Piantedosi è stato esplicito sui provvedimenti immediati: uffici immigrazione alle dirette dipendenze del Dipartimento di pubblica sicurezza, 700 agenti di rinforzo da assegnare a questi uffici, più posti nelle camere di sicurezza dei commissariati e di altri reparti per chi viene fermato ed è in attesa di essere espulso, senza che debba essere trasferito nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e, infine, aumento dei rimpatri volontari assistiti dall’Italia, così come già avviene dalla Tunisia e dalla Libia in accordo con Roma. Proprio nella Capitale nei giorni scorsi sono stati espulsi fisicamente due tunisini arrestati dai carabinieri per spaccio ma anche “attenzionati di primo livello”. Erano sbarcati in Sicilia nel 2024. “La ricerca dell’incidente per la destabilizzazione politica” - Ma Piantedosi, che apprezza “l’equilibrio delle forze dell’ordine” nella gestione della piazza, punta il dito anche contro “la crescente aggressività di gruppi di antagonisti che dietro al paravento di confuse ed episodiche rivendicazioni legate a fatti di cronaca (la tragedia di Ramy Elgaml, ndr), in realtà sembrano partecipi di una strategia di ricerca dell’incidente allo scopo di creare elementi di destabilizzazione del quadro politico”. Per questo il responsabile del Viminale chiede a tutti di rifiutare “l’utilizzo della violenza come strumento di lotta politica” ma ricorda anche come questa condivisione sia stata “fin qui spesso negata da prolungati silenzi o incomprensibili argomentazioni tese a stigmatizzare il comportamento delle forze dell’ordine invece di quello dei delinquenti”. A Roma contestato ai violenti il reato di devastazione - Un clima incandescente, insomma, a dispetto degli appelli alla non violenza dei familiari di Ramy, con le Digos romana e bolognese al lavoro per identificare i responsabili degli scontri e del ferimento di 18 agenti. L’anno scorso in totale sono stati 273, +127,5% rispetto al 2023. Nella Capitale gli investigatori diretti da Antonio Bocelli si concentrano su una trentina di personaggi già coinvolti e denunciati per tafferugli alla Sapienza durante le proteste pro Pal: soggetti vicini ai collettivi studenteschi, ai gruppi anarchici e antagonisti, come anche alle sigle dei movimenti Acrobax e Zaum Sapienza. E proprio da quest’ultimo ieri sui social, in un post su quanto accaduto accompagnato dai video degli scontri a San Lorenzo, è partito l’avvertimento: “Non finisce qui, continuiamo a scendere nelle strade. Ve la faremo pagare, pezzi di m....”. Caso Ramy, le cariche contro la polizia catalizzano l’attenzione: ma coi “maranza” chi parla? di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2025 Ma con i “maranza” chi ci parla? Nelle cronache che oggi raccontano la manifestazione svoltasi a Torino si fa riferimento a centinaia di giovanissimi “maranza” che si sarebbe uniti al corteo. Prima di arrivare ai “maranza” bisogna che faccia due passi indietro. A monte c’è la morte di Ramy a Milano, c’è l’indignazione generata dalle parole pronunciate dai carabinieri che inseguivano lui e il suo amico, lo sgomento del padre di Ramy (“Ma non hanno dei figli?”), la “sproporzione” inaccettabile denunciata dallo stesso Gabrielli tra uno scooter che non si ferma e la decisione di fermarlo speronandolo, c’è a monte un disagio profondo soprattutto giovanile, fatto di frustrazioni e marginalità, impastato di tanti ingredienti. Troppi per questo spazio. La manifestazione, che raduna migliaia di giovani (fatto che andrebbe apprezzato di per sé), degenera in assalti violenti contro gli uffici della Polizia di Stato alle Porte Palatine e contro la caserma dei Carabinieri “Bergia” in piazza Carlina. Ancora una volta l’attenzione viene “sequestrata” proprio da queste condotte e i commenti come al solito si aprono a ventaglio tra chi stigmatizza unicamente la gravità della violenza contro le Forze dell’Ordine, invocando daspi urbani, pugno di ferro, zone rosse, e chi, pur condannando le violenze, non perde di vista le ragioni di coloro che hanno manifestato (e non le ragioni di chi ha usato la violenza. Corre una bella differenza). Tutto ciò premesso. Penso che nessuna persona intellettualmente onesta creda che la questione possa essere ridotta alla “violenza”: la violenza dell’abuso di potere, la violenza di piazza. Soltanto coloro che costruiscono consenso sulla degenerazione violenta del conflitto sociale possono tentare questa semplificazione: ma non le considero persone oneste. In più penso che a quelle “centinaia di maranza” arrivi poco di questo dibattito e importi ancor meno. E così torno a questi benedetti “maranza” che sono una specie sociale mutante nel tempo, ma con tratti identificativi profondi che restano invariati. Oggi i “maranza” son quasi “paranza”, ma pure ieri non scherzavano. A me l’incontro con i “maranza” più di trent’anni fa ha cambiato la vita, per sempre. In meglio. Ero uno sprovveduto giovane animatore di una parrocchia torinese, si avvicinava la Pasqua (credo quella del 1993) e come da tradizione avevamo organizzato una processione per le vie del quartiere: canti, candele, preghiere. Per i “maranza” una occasione imperdibile per prenderci allo scoperto, fuori dall’oratorio. Ne fecero di tutti i colori per “sabotare” la processione: scooter che impennavano, petardi, urla, spintoni. Io non sapevo che fare. Ad un tratto dal nostro gruppo di animatori si staccò un certo Marco, poco più grande di me, che aveva già cominciato a lavorare in quartiere seguendo un metodo nuovo, portato da un prete operaio, lo chiamavano “animazione d’ambiente”, aveva a che fare con un certo Joseph Cardijn che ai primi del Novecento in Belgio era solito dire: “un giovane lavoratore vale più di tutto l’oro del mondo” (le mille vite della critica, radicale, al capitalismo!). Ebbene questo Marco in cinque minuti riportò la calma. Non aveva alzato le mani e nemmeno la voce: li aveva chiamati per nome. Li conosceva, tutti. Chi li conosce oggi questi “maranza”? Sicuramente in una città ricca di energie socialmente impegnate come Torino in tanti alzeranno la mano: insegnanti prima di tutto che oggi presidiano la “frontiera” più combattuta ed estenuante, operatori sociali, psicoterapeuti che raccolgono il dolore “di dentro” sempre più diffuso… E’ necessario però che “chiamare i maranza per nome” diventi una priorità della politica pubblica, almeno di quella costituzionalmente orientata, di quella che intende il proprio compito in continuità con quello emancipante della lotta di liberazione al nazifascismo, che nel 2025 compie ottant’anni. Sotto ogni identità collettiva, dai “maranza” agli “italiani”, identità che sono spesso fomentate strumentalmente o imposte violentemente, che diventano salvagente al quale aggrapparsi o maledizione a cui ribellarsi, stanno sempre identità personali, spesso negate, frustrate, umiliate. Ripartire da queste è la chiave del futuro. Costa, certo, ma costa infinitamente di più armare la segregazione sociale e sperare di strappare un biglietto per Marte. *Presidente Art. 21 Piemonte ed ex deputato del Partito Democratico Il padre di Ramy: “Giustizia ma non vendetta, la lotta sia pacifica. Tutti noi siamo l’Italia” di Ilaria Carra La Repubblica, 13 gennaio 2025 La famiglia del 19enne condanna ogni violenza: “Molti ragazzi nati qui da genitori stranieri hanno scelto di far diventare Ramy un simbolo, ma con la loro rabbia lui non c’entra nulla”. La famiglia Elgaml è appena rientrata dal cimitero milanese di Bruzzano. Ci va ogni domenica, a pregare dal figlio. La madre Farida si china e si siede a gambe incrociate sul letto di Ramy, poi mette la testa sul cuscino. Dice che “così almeno mi tranquillizzo un po’”. Ha la pressione alta, ha appena preso un calmante che le hanno dato sabato al pronto soccorso. Tarek, il figlio maggiore, sta riposando nella camera dei genitori che poi deve andare a lavorare. E il padre Yehia, “Giovanni” in italiano, 61 anni, è di fianco al letto a castello del figlio più piccolo, Ramy, in salotto. Si abbandona sul divano: “Sono stanco, ma voglio dire delle cose”. Yehia, ci sono stati disordini per le strade nelle manifestazioni per Ramy. Cos’ha pensato vedendo quelle immagini? “Che è sbagliato. Noi siamo la famiglia di Ramy e siamo molto lontani da tutto questo, non vogliamo che succedano queste cose. L’ho detto cento volte: basta violenze. Non vogliamo questi casini, a nostro figlio non sarebbe piaciuto, era un ragazzo che sorrideva sempre, che amava la vita”. Ha visto quello che è successo a Bologna, a Roma ci sono stati scontri e feriti... “Quando ci sono manifestazioni, in tutta Italia, non solo a Milano, io chiedo una cosa: per favore non spaccate tutto nel nome di Ramy. Per favore, dovete, dobbiamo tutti rispettare la legge. Chi va in piazza deve essere pacifico, per la pace. Per la verità. Non deve esserci altra violenza, ma la giustizia, quella sì, quella la vogliamo”. Cosa si aspetta ora? “Ho fiducia in tutte le istituzioni. Nel governo, nelle forze dell’ordine, nei magistrati. Quando ho visto i video dell’inseguimento e della caduta di Ramy mi sono arrabbiato, ho sofferto, ma almeno è arrivata metà della verità. Ora aspettiamo l’altra metà, per completarla. E ci penserà la magistratura a svelarla. Chiediamo a tutti di unirsi a noi in questo percorso verso una giustizia vera, ma senza odio”. Ramy è diventato un simbolo per tante persone, per tanti ragazzi... “Ramy è diventato un simbolo di un’ingiustizia ma deve essere una lotta pacifica. Marciare, camminare con calma, in pace. Noi è questo che vogliamo”. Perché la rabbia di tanti ragazzi, molti stranieri e di seconda generazione, ha trovato un simbolo in suo figlio e nella sua vicenda? “Molti ragazzi sono arrabbiati, lo vedo. Ma Ramy non c’entra con questa rabbia. Quando vai contro gli agenti, che tutelano la sicurezza di noi tutti, sbagli. Non vanno attaccati, ci fanno dormire tranquilli. Ramy è morto per colpa di due o tre carabinieri che hanno sbagliato. A loro chiedo di tornare a essere più gentili. Ma gli altri sono tutti bravi. Non è giusto prendersela con chi ci difende. Ma poi, rabbia per cosa?”. Secondo lei? “Non lo so. Viviamo tutti in Italia, sotto l’ombrello dell’Italia. Perché arrabbiarsi? Lo Stato è gentile con tutti, non solo con gli italiani ma anche con noi. Quando vai all’ospedale non fanno differenza, “tu sei italiano, tu sei straniero”, perché siamo tutti uguali, siamo tutti uguali. L’Italia è per me più sicurezza, più giustizia, lo pensavo fin da bambino. Molti ragazzi sono arrabbiati ma Ramy non c’entra. L’Italia siamo tutti noi”. Ramy si sentiva parte dell’Italia? “Ramy è cresciuto qui, in Italia, gli piaceva. Ha disegnato e appeso la bandiera italiana sulla porta in casa, non parlava più nemmeno l’arabo. Aveva gli amici qui, il lavoro qui. Non l’ho mai sentito parlare male dell’Italia e degli italiani. Lui viveva qui, gli piaceva stare qui, è morto qui. L’abbiamo lasciato al cimitero qui, perché lui qui voleva stare. Per questo ringraziamo per la solidarietà e la vicinanza ma non per la violenza. Non devono fare cosi per Ramy”. Cosa voleva fare Ramy da grande? “Voleva essere famoso”. In che senso? “Nel senso che avrebbe voluto comprare una casa più grande, una macchina, aiutare noi, me e sua madre, e già un po’ lo faceva. Ora è diventato “famoso” ma da morto. Ramy è il mio sangue, è la mia aria che respiro, è sempre con me, con noi. Ramy è il mio cuore e ora è morto, e io vivo senza cuore”. Che appello fa? “Vorrei dare un messaggio. Ringrazio tutti, ma ringrazio di più chi è pacifico. C’è tanta gente che si mette in mezzo in questa storia, per delle cose loro. Per loro ma non per noi. Non usate Ramy per essere violenti”. Emilia Romagna. Suicidi e morti in carcere: “Segno del degrado inaccettabile del sistema” di Antigone Emilia Romagna zic.it, 13 gennaio 2025 L’associazione Antigone Emilia-Romagna parla di vera e propria “emergenza” dopo i cinque casi registrati in pochi giorni negli istituti della regione e fa il punto in particolare su quello di Modena, visitato a dicembre. Non poteva iniziare peggio il 2025, con cinque decessi nelle carceri della regione. I fatti sono ormai noti: il 7 gennaio 2025 si è verificato nell’istituto di Modena il terzo decesso in sette giorni, un suicidio per inalazione di gas; il detenuto era un italiano di 50 anni. Il giorno prima era stato dichiarato morto un altro detenuto che aveva tentato il suicidio a metà dicembre ed era entrato in coma irreversibile, era un ragazzo marocchino di 27 anni; il 31 dicembre un altro detenuto era morto a Modena, sempre per inalazione di gas. Era un uomo macedone di 37 anni. Il 30 dicembre si era tolto la vita un ragazzo nel carcere di Piacenza, 27 anni, di nazionalità tunisina, mentre si trovava in isolamento. Il 3 gennaio a perdere la vita un uomo pachistano di 40 anni, a Bologna, che mentre camminava in corridoio “si è accasciato ed è morto”. Da accertare le cause della morte. Il bilancio è dunque quello di tre suicidi e di due morti. Destano particolare allarme le tre morti (di cui due rubricate come suicidi) nello stesso carcere in sette giorni. Uno sciame di suicidi nello stesso istituto non è un fenomeno infrequente, purtroppo, ma è rivelatore di una situazione di grave sofferenza. Antigone ha osservato questa situazione durante l’ultima visita dell’Osservatorio presso il carcere di Modena, avvenuta a dicembre. Oggi pubblichiamo la scheda completa della visita, che potete leggere qui. Il carcere di Modena è una casa circondariale di media sicurezza. Al momento della visita (05.12.2024), le persone detenute erano 568, su una capienza regolamentare di 372, di cui 29 donne e 341 stranieri. Abbiamo registrato un forte aumento della popolazione detenuta rispetto alla scorsa visita (più di 100 unità rispetto a giugno 2023) e un alto numero di detenuti definitivi, 384 (più alto in numeri assoluti ma non in percentuale rispetto al 2023), che rende difficile un’osservazione e un’offerta trattamentale adeguata, anche perché la pianta organica del personale giuridico pedagogico (6 unità) non è tarata su questi numeri. Il trend di crescita della popolazione detenuta non è una novità: anche nel 2023 avevamo registrato 80 presenze in più rispetto all’anno precedente. Le condizioni di detenzione osservate al vecchio padiglione sono pessime: cimici, sporco, vari oggetti bruciati, lamentata mancanza di detersivi, mobilio gravemente danneggiato, pareti scrostate, porte dei bagni delle celle arrugginite, neon nei corridoi non funzionanti e non sostituiti. Migliori le condizioni del nuovo padiglione e, soprattutto, del femminile. Da anni, e in particolare dopo la rivolta del 2020, il carcere di Modena si caratterizza per un meccanismo di ricollocazione delle persone detenute tra le sezioni come strumento di governo interno. Vi sono sezioni ordinarie (chiuse) e a trattamento intensificato (aperte) a cui i detenuti accedono per gradi, in base al buon comportamento, in altre parole attraverso una logica premiale. Oltre a queste, sono presenti le sezioni I care, nuovi giunti (con le celle per l’isolamento) per i casi problematici interni, e la sezione ex 32 o.p. utilizzata per persone in arrivo da altri carceri per indisciplina. La saturazione degli spazi rende più difficile rispetto a un tempo la mobilità della popolazione detenuta tra le sezioni, seppure durante la visita abbiamo comunque potuto notare criteri di organizzazione della popolazione su base comportamentale, e in parte anche anagrafica e etnica. Forte la presenza di giovani adulti, 51, che possono essere letti come una conseguenza dell’applicazione del c.d. decreto Caivano e della saturazione degli istituti minorili. Si conferma la tendenza degli ultimi anni a una maggiore apertura del carcere di Modena alla società civile e l’impegno dell’area trattamentale a fornire attività culturali, sportive e corsi professionalizzanti alla popolazione detenuta. Alcuni detenuti in art. 21 e semiliberi sono impiegati per datori di lavoro esterni. Inoltre, dopo anni di assenza, è presente a Modena un Direttore incaricato solo in questo istituto, il dott. Sorrentini, presente da novembre 2023. Di recente nomina anche un nuovo Comandante, il commissario Bertini, in carica da settembre 2024, e un nuovo referente dell’area sanitaria, il dott. Spanò. Crediamo che dei riflettori vadano accesi sull’istituto Modena, così come su ogni istituto in regione, consapevoli che ogni realtà carceraria è una realtà a sé stante e va letta sia come precipitato a livello locale di politiche nazionali, sia nelle sue particolarità e nei suoi rapporti con il territorio circostante. I suicidi e più in generale le morti in carcere sono un fenomeno che rende chiaro e manifesto il livello di degrado inaccettabile a cui è arrivato il sistema penitenziario in Italia e, purtroppo, anche in regione. La riflessione e l’intervento sulle cause di tale degrado non sono più rimandabili. In Italia così come in Emilia-Romagna, il sistema penitenziario è gravato dal sovraffollamento e dal deterioramento degli spazi. Il personale è insufficiente e lasciato solo a gestire un sistema che di fatto non funziona; in primis è carente il personale giuridico pedagogico che non ha le risorse per portare avanti un serio progetto di reingresso in società per la popolazione detenuta che sia in grado di abbattere la recidiva e dare compimento all’art. 27 della Costituzione. C’è troppo poco lavoro, ci sono pochi corsi professionalizzanti, poca istruzione e poche attività. A queste possono accedere solo un limitato numero di detenuti; per gli altri, la gran parte, il tempo della detenzione è tempo vuoto di mera sottrazione al tempo di vita. Mancano gli spazi e le opportunità nei territori che possano accogliere le persone che potrebbero uscire beneficiando di misure alternative. Gli psicofarmaci vengono utilizzati per gestire una situazione di diffusa sofferenza mentale causata essa stessa dallo stato di detenzione. E, aggiungiamo: quando il disagio mentale caratterizza già la persona all’ingresso, è ovvio che il carcere non sia il luogo in cui tale condizione possa essere gestita. In questa fase storica si respira una grandissima tensione nelle carceri. I suicidi e le morti sono il fenomeno più eclatante. È importante comprendere quanto essi siano l’effetto di una serie complessa di cause su cui l’azione a livello nazionale ma anche locale non è più rimandabile. Misure deflattive sono necessarie, e accanto a queste è necessario ripensare per intero le politiche penali che oggi in Italia vengono presentate come soluzioni a problemi di marginalità sociale. Non da ultimo il cd. Pacchetto Sicurezza, il cui iter di approvazione è in corso, con il quale si pretende, ancora una volta, di gestire con lo strumento penale una situazione di disagio sociale diffusa, che andrebbe affrontata con gli strumenti del welfare. Le carceri subiscono l’effetto di politiche criminogene che fanno aumentare la popolazione detenuta, creando sofferenza senza incidere sui tassi di criminalità che peraltro non presentano un trend di crescita. Sardegna. Allarme incendi e suicidi nelle carceri: “Sistema penitenziario al collasso” sardiniapost.it, 13 gennaio 2025 La notizia del primo suicidio del 2025 nell’istituto penitenziario di Uta, resa nota sabato da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, non è sfuggita nel panorama nazionale di un allarme sempre crescente e spesso denunciato da Garanti delle persone detenute, associazioni di volontariato e sindacati di polizia penitenziaria. Dura la dichiarazione di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uipa Polizia penitenziaria: “Con il 49enne impiccatosi nella notte nel bagno della sua cella della Casa Circondariale di Cagliari, sono già 6 i detenuti, più un operatore penitenziario, che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita. 7 morti in 11 giorni, così come i 96 (89 reclusi e 7 agenti) dell’anno passato, dovrebbero suscitare una reazione forte da parte del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e del Governo Meloni, da cui invece si ascolta sempre la solita e infruttuosa retorica”. Pochi giorni l’ennesimo incendio appiccato da un detenuto in cella, sempre a Uta. I sindacati regionali della polizia penitenziaria avevano denunciato l’insostenibilità della situazione. Sul fatto era intervenuto anche il senatore del Pd Marco Meloni, annunciando di aver presentato un’interrogazione urgente al ministro. “Da mesi i sindacati di polizia penitenziaria e i garanti delle persone detenute denunciano le condizioni insostenibili nelle quali il personale è costretto a operare e i detenuti a vivere, dalla mancanza di personale al sovraffollamento - dichiara Meloni -. A Cagliari il sovraffollamento ha toccato la punta del 136 per cento: si tratta di 203 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Una situazione che compromette la sicurezza, annienta la dignità umana e disattende ogni principio di giustizia”. Il Segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria ricorda le voci più illustri che si sono espresse. “Il Governo e il Parlamento diano ascolto all’appello del sommo pontefice, mosso durante l’apertura della Porta Santa a Rebibbia, o, più laicamente, alle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, pronunciate durante il messaggio di fine anno, e riconducano le carceri in un alveo di costituzionalità, per chi vi è rinchiuso, oggi ammassato, e per chi vi lavora in condizioni inaccettabili. Urge deflazionare la densità detentiva, vanno subito potenziati gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, serve assicurare l’assistenza sanitaria e vanno avviate serie riforme complessive dell’intero apparato d’esecuzione penale”, conclude De Fazio. Calabria. Nuovo anno, vecchi problemi per le carceri. E manca il Garante dei detenuti di Antonio Alizzi lacnews24.it, 13 gennaio 2025 La popolazione carceraria regionale conta circa 3mila reclusi, di cui circa il 40% è in attesa di giudizio. Le condizioni sono pessime. Il Consiglio regionale deve ancora trovare il sostituto dell’avvocato Luca Muglia. Il sistema penitenziario italiano continua a essere al centro di gravi emergenze, con problemi cronici come il sovraffollamento, le carenze strutturali e la mancata tutela dei diritti dei detenuti. Nonostante l’approvazione del Decreto Legge “carcere” a luglio 2024, le condizioni nei penitenziari italiani rimangono inalterate, dimostrando che il provvedimento non ha portato alcun beneficio concreto. Al contrario, la situazione appare peggiorata: il 2024 si è chiuso con 89 decessi nelle carceri, mentre nel 2025 si registra una preoccupante media di quasi un morto al giorno. Sovraffollamento e condizioni disumane - In Calabria, rispetto agli ultimi dati ufficiali, 10 istituti su 12 continuano a essere sovraffollati, con picchi particolarmente elevati a Locri, Castrovillari, Cosenza, Crotone e Reggio San Pietro. La popolazione carceraria regionale conta circa 3mila detenuti, di cui circa il 40% è in attesa di giudizio. Gli eventi critici tra gennaio e giugno 2024 ammontano a 5.306, tra cui 2 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 episodi di autolesionismo e 75 aggressioni al personale della Polizia Penitenziaria. Carceri italiane, un dramma giornaliero - Le carceri calabresi presentano condizioni strutturali inadeguate: celle prive di docce, umidità diffusa e finestre schermate con pannelli di plexiglass che limitano il ricambio d’aria e la luce naturale. Una situazione di degrado che spesso sfocia in fenomeni estremi come i suicidi. Il caso della Casa circondariale di Paola, dove si è registrato il terzo suicidio dall’inizio dell’anno, è emblematico di un sistema che non riesce a garantire condizioni di vita dignitose. L’assenza del Garante regionale dei detenuti - A peggiorare la situazione in Calabria, c’è la mancanza di una figura cruciale: il Garante regionale dei detenuti. Dopo le dimissioni dell’avvocato Luca Muglia, avvenute nei mesi scorsi, il Consiglio Regionale non ha ancora avviato le procedure per nominare un sostituto. Il ruolo del Garante, sebbene non risolutivo, è fondamentale per rappresentare le istanze dei detenuti e dei loro familiari, individuando criticità e proponendo soluzioni. Durante il suo mandato, Luca Muglia aveva posto all’attenzione pubblica problemi gravi, come la presenza dei pannelli di plexiglass nelle carceri di Cosenza e Reggio Calabria. La sua denuncia, che poteva arrivare fino alla Corte di Giustizia Europea, si univa a una lunga serie di condanne per l’Italia da parte della Corte di Strasburgo, che ha più volte evidenziato violazioni dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), relativo al divieto di trattamenti inumani o degradanti. La gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici - Il caso emblematico di A.Z. c. Italia, risolto dalla Corte Europea il 4 luglio 2024, mette in luce le inadeguatezze del sistema italiano nella gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici. A.Z., affetto da grave depressione e disturbo della personalità, aveva tentato il suicidio più volte durante la detenzione, mentre la sua incompatibilità con il regime carcerario era stata riconosciuta solo dopo ritardi ingiustificabili. La Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 Cedu, sottolineando che il trattamento riservato al ricorrente non era compatibile con il rispetto della dignità umana. Condanne passate e assenza di riforme - La sentenza Torreggiani del 2013 aveva già definito il sovraffollamento carcerario in Italia come un problema strutturale, imponendo al governo l’adozione di riforme urgenti. Tuttavia, a distanza di oltre un decennio, poco è stato fatto per migliorare le condizioni dei penitenziari. La mancanza di spazi adeguati, di assistenza sanitaria e di percorsi di inclusione sociale continua a caratterizzare il sistema penitenziario italiano, con conseguenze devastanti per i detenuti e per la società nel suo complesso. Un appello al cambiamento - La situazione attuale richiede interventi legislativi e organizzativi urgenti. La nomina di un nuovo Garante regionale in Calabria è solo un primo passo per affrontare le criticità locali, ma occorre una riforma complessiva del sistema carcerario nazionale. È indispensabile garantire condizioni di vita dignitose, investire in strutture moderne e sicure, e sviluppare percorsi di supporto per i detenuti, in particolare per coloro che soffrono di problemi psichiatrici. Come sottolineato dalla Corte di Strasburgo, il rispetto dei diritti umani deve essere al centro del sistema detentivo. La carcerazione non deve privare i detenuti della loro dignità, ma piuttosto rappresentare un’opportunità di riabilitazione e reintegrazione sociale. Ignorare questa responsabilità equivale a perpetuare un sistema fallimentare che danneggia non solo i detenuti, ma anche la società nel suo complesso. Bologna. “Dozza allo stremo, manca tutto. Il Provveditorato intervenga” Il Resto del Carlino, 13 gennaio 2025 Sovraffollamento, soggetti problematici, carenze di organico e anche di servizi minimi come mobilio e biancheria da letto rendono sempre più difficile la vita alla Dozza. Lo denuncia, ancora una volta, la Fp Cgil, partendo dal “detenuto che da diverso tempo crea innumerevoli criticità nei vari reparti dell’Istituto - dice il segretario Salvatore Bianco - e che il 5 gennaio ha tentato il suicidio, a causa del quale i due ispettori intervenuti per salvarlo hanno riportato lesioni, in un caso anche piuttosto serie, ha continuato a mettere in costante pressione il personale fino al giorno del suo trasferimento”. Criticità che si sommano al “sovraffollamento dell’Istituto, la mancanza di regole certe, mobili mancanti, a volte anche lenzuola e cuscini, carenza di personale di ragioneria e conseguenti problematiche con i conti dei detenuti” e che alimentano “la già altissima tensione all’interno dell’Istituto, che ricade sempre sul personale interno”. Bianco elenca i problemi: “Alcuni reparti non sono a norma: la sezione Rh del reparto infermeria è manchevole di sistemi di areazione e finestre per liberare i locali dal fumo. Nel caso di incendi, situazione già verificatasi anche nel recente passato, l’unica realistica possibilità di svuotare i locali dal fumo è aprire la porta che accede ai passeggi posta in fondo alla sezione”. Il sindacalista chiede per questo l’intervento del Provveditorato, ma anche per la gestione dei soggetti problematici: “Non si imponga più alla Dozza di fare scontare le sanzioni disciplinari prima di allontanarli. A tal proposito, riteniamo giusto segnalare che questo non avviene sempre per i detenuti trasferiti a Bologna”. Torino. Proposta di telemedicina in carcere: una mozione per migliorare la salute dei detenuti di Antonio Nesci unosguardosutorino.it, 13 gennaio 2025 Il 10 gennaio 2025, durante la seduta congiunta delle Commissioni Quarta e Diritti e Pari Opportunità, presieduta da Pietro Abbruzzese (Torino), è stata presentata una proposta di mozione, primo firmatario Pietro Tuttolomondo (Pd), per introdurre la telemedicina all’interno del carcere di Torino. Tuttolomondo ha sottolineato come la salute, diritto fondamentale sancito dalla Costituzione, debba essere garantita anche durante la detenzione. La telemedicina, secondo l’esponente del PD, potrebbe migliorare la cura dei detenuti, riducendo al contempo i costi, come gli spostamenti verso gli ospedali. La proposta è stata cofirmata anche dai consiglieri Luca Pidello e Vincenzo Camarda. Nel dibattito, Luca Pidello ha ricordato che una mozione simile è già stata approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale del Piemonte per migliorare la qualità della vita, non solo dei detenuti. Roberto Pedrale, responsabile del Reparto Detenuti della Città della Salute di Torino, ha evidenziato come la telemedicina sia fondamentale per il monitoraggio delle patologie croniche e per trattamenti psicologici, spesso legati all’abuso di sostanze. Monica Gallo, garante dei detenuti, ha suggerito di monitorare le spese mediche carcerarie e di creare un Osservatorio per attivare la telemedicina. Ha anche sottolineato la difficoltà di reclutare personale medico in carcere. Silvio Viale (+Europa & Radicali Italiani) ha evidenziato l’importanza di conoscere le specifiche necessità sanitarie in carcere, mentre Anna Borasi (PD) e Ivana Garione (Moderati) hanno richiesto maggiori investimenti nella sanità penitenziaria. La vicesindaca Michela Favaro ha espresso il suo parere favorevole sulla proposta, mentre l’assessore al Welfare Jacopo Rosatelli ha confermato la disponibilità a collaborare per promuovere l’iniziativa. La mozione è ora pronta per essere esaminata dal Consiglio Comunale. Napoli. La lettera dei detenuti dal carcere: “Aiutateci a studiare, solo così si può cambiare” Il Mattino, 13 gennaio 2025 Studiare serve sempre. Ovunque si svolga la propria vita. Ci teniamo a esprimere con forza questo concetto, riteniamo che sia importante far comprendere che all’interno dei penitenziari vi sono persone che, nella vita, non hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi allo studio, pertanto la presenza, all’interno delle carceri, di corsi d’istruzione scolastica, di formazione professionale e gli studi universitari, rappresenta una base di partenza per il tanto agognato riscatto sociale. Vogliamo gridare con tutta la nostra forza, soprattutto ai giovani, l’importanza di comprendere che la deprivazione culturale può portare a delinquere, poiché si ha scarsa consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Anche quando l’acquisizione di un titolo di studio non è facilmente spendibile ai fini della ricerca di un lavoro, magari per motivi di età, molti di noi affidano allo studio l’arricchimento del bagaglio culturale personale. È essenziale voler utilizzare il tempo a nostra disposizione in maniera costruttiva, mantenendo la mente in attività per non farla cadere preda dell’ozio, vincolata a rimuginare sempre gli stessi pensieri. Non si può definire altrimenti, la possibilità, che, ripetiamo, in tanti non hanno avuto, di poter acquisire una corretta proprietà di linguaggio, che ci consente di interagire con persone che ricoprono i più svariati ruoli sociali. È così che siamo parte attiva nel percorso di risocializzazione, è così che speriamo di essere nuovamente accettati nel corpo vivo della società. È anche una questione di diritti e di libertà; ce lo ricorda ogni giorno una frase che campeggia su una parete in una delle aule dedicate ai corsi e che recita: “Diffondere la conoscenza è un fondamento democratico, poiché ogni sapere trasmesso è un potere condiviso”. È importante sapere che l’accesso a un percorso di studi universitario non è un automatismo; il detenuto è tenuto a siglare un vero e proprio patto trattamentale, perché è vero che ciò rappresenta un’opportunità, ma è anche un’assunzione di responsabilità da parte dello stesso verso l’Amministrazione Carceraria, il segno di un cambiamento che richiede a sua volta un atto di fiducia da parte delle istituzioni nei confronti del detenuto. Tutto quello che abbiamo detto sino ad ora, già dimostra l’importanza dello studio, ma la formazione è basilare anche ai fini di un futuro inserimento lavorativo, risultato non impossibile da raggiungere anche dopo aver trascorso diversi anni di detenzione e in età non più giovanile. A tal proposito, ci permettiamo di suggerire quella che ci sembra la migliore strategia da seguire per favorire l’incontro della domanda e dell’offerta di lavoro: secondo noi è importante che i percorsi di formazione siano finalizzati ad un effettivo rientro nel mondo del lavoro, a tal proposito è fondamentale la sinergia tra l’Amministrazione Penitenziaria e il mondo imprenditoriale, quest’ultimo decreterà la necessità del numero di addetti e la tipologia di figure professionali, il detenuto, debitamente formato per quelle necessità, troverà nell’immediato gli spazi lavorativi non appena avrà l’opportunità della scarcerazione. Questo tipo di percorso sarà utile a fornire al mondo imprenditoriale le necessarie garanzie rispetto all’apertura di credito verso coloro che provengono dal mondo delle carceri, favorendo sempre più il superamento di quello stigma sociale che difficilmente abbandona tutti noi anche dopo aver scontato la nostra pena, costringendoci a un pietoso e poco dignitoso elemosina per un lavoro che difficilmente troveremo. Modena. Le verdure coltivate dai detenuti nei piatti dello chef Francesco Vincenzi Corriere della Sera, 13 gennaio 2025 Superate le mura di cinta della casa circondariale di Modena fa subito più freddo. Le estese zone d’ombra, all’interno del cortile, abbassano le temperature di un paio di gradi in inverno e, in estate, la prevalenza di cemento rende il clima più afoso. Questo è solo uno degli aspetti di cui operatori e professionisti hanno dovuto tenere conto quando hanno deciso di dare vita al progetto che prevede la coltivazione di frutta e verdura, da parte di alcuni detenuti, negli spazi interni ed esterni al carcere della città emiliana, per un totale di quasi due ettari di campi e tre serre lunghe 50, 60 e 90 metri. L’idea è nata a seguito di una serie di fortunati incontri ed è stata portata avanti grazie all’entusiasmo delle persone che si impegnano ogni giorno per la sua realizzazione. Una di queste è Nicoletta Saporito, responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale di Modena. “Per far capire di cosa ci occupiamo realmente qui, io cito sempre l’articolo 27 della nostra Costituzione, che dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, spiega con il piglio deciso di chi è abituato a lottare spesso anche per gli altri. I prodotti, poi, vengono venduti al mercatino del vicinato il sabato mattina e riforniscono la cucina del ristorante “Franceschetta58”, bistrot della Francescana Family guidato dallo chef Francesco Vincenzi, altro entusiasta protagonista di questa storia. Il progetto - Tutto nasce dal palcoscenico, un po’ per caso, come le migliori improvvisazioni. Qualche anno fa, la compagnia modenese “Teatro dei Venti” ha cominciato a collaborare con il carcere, organizzando pièce e laboratori per i detenuti e le detenute. La squadra di “Franceschetta58” è stata chiamata a cucinare in occasione di una delle soirée e tutto il resto è storia. A dirla tutta, sono stati l’entusiasmo e la passione per il proprio territorio che caratterizzano il lavoro di chef Vincenzi a spingerlo a cercare attivamente questa collaborazione. “Nelle stagioni più produttive, quando gli orti sono a pieno regime, riusciamo a coprire anche l’80% del fabbisogno del ristorante”, spiega Vincenzi. Oggi i campi tutt’intorno alla casa circondariale sono piantati a cavoli, cavolfiori, broccoletti e altre verdure della stagione. Da qualche anno ormai, l’agricoltura è stata riconvertita al biologico, anche grazie al saper fare di Giovanna Del Pupo, agronoma professionista responsabile del progetto che segue dal 2022. E mentre fuori il sole d’inverno fatica a scaldare il terreno, nelle serre riposano le fragole e le erbe aromatiche: “Questo è il primo anno in cui riusciamo ad avere anche prezzemolo e basilico”, racconta Del Pupo. La forza dell’agricoltura - Quello dei coltivatori è un lavoro vero e proprio, che prevede una seppur esigua retribuzione. In media i detenuti coinvolti sono una decina, tutti uomini, selezionati in base a criteri oggettivi come, per esempio, il tipo di pena; ma anche soggettivi, come la loro volontà e la buona condotta. Dopo un corso di formazione, accedono al lavoro, al termine del quale ricevono un certificato di competenza spendibile all’esterno, in un’ottica di reinserimento nella società. “Tutti i detenuti vogliono lavorare e l’agricoltura è una delle attività più richieste, perché non solo ti permette di stare all’aria aperta, ma anche di prenderti cura di un essere vivente”, spiega Saporito. “Il mio obiettivo è sempre stato quello di mostrare come l’agricoltura si può fare in modo semplice, ma non semplicistico”, sottolinea, dal canto suo, Del Pupo. Tra le ultime innovazioni apportate ci sono le cosiddette “vasche”, che hanno permesso di piantare anche verdure non adattabili al terreno argilloso che caratterizza i campi della casa circondariale. Una trovata che porta la firma di Del Pupo: “Abbiamo pensato di mescolare al terreno un terzo di sabbia e un terzo di terriccio, in questo modo è stato possibile piantare anche finocchi, carote e altri ortaggi che prediligono un suolo diverso”, dice. Tutto, qui, segue la filosofia del riuso e del riciclo. “Non abbiamo mai comprato una cassetta per la nostra frutta, usiamo quelle che ci arrivano dalla mensa e se, per esempio, i nostri meloni non vengono buoni, teniamo i semi per ripiantarli l’anno dopo”, racconta l’agronoma. Poco fuori dai cancelli ci sono altri campi, le arnie con cui si fa il miele e “Marcello”, il trattore Lamborghini nuovo di zecca che alcuni dei ragazzi che lavorano la terra hanno deciso di chiamare così. Il motivo lo sanno solo loro. Le altre attività - Le finestre che affacciano sul cortile della casa circondariale parlano della vita in carcere. Dietro le griglie si vedono arance, bottiglie di tè freddo, qualche maglietta, qualcuno espone una bandiera francese sbiadita. C’è chi ha posato sul davanzale dei piattini con qualche briciola per dare da mangiare ai piccioni. Si sente una musica lontana, a tratti qualche schiamazzo. Tutt’intorno, gli orti e due logori campi da calcetto. All’interno dell’ala femminile, che oggi accoglie circa 30 detenute (gli uomini sono più di 500), ci sono una parruccheria e una sartoria, oltre all’aula dove si tengono lezioni scolastiche: “I corsi arrivano fino all’università”, sottolinea la dottoressa Saporito. Un tempo quest’area del carcere era quella di massima sicurezza, lo si può dedurre dai piccoli cubicoli esterni che una volta venivano utilizzati per trascorrere l’ora d’aria in isolamento. Oggi, invece, questi spazi sono la culla di erbe aromatiche, officinali e fiori eduli, di cui si prendono cura le detenute. “Abbiamo scoperto che questi ambienti sono particolarmente adatti”, dice Del Pupo. La sartoria, invece, accoglie il progetto “Manigolde Circondariale”, proposto dal laboratorio “Mani tese”. Qui le detenute imparano a cucire sacchetti, grembiuli, borse, pochette, tovagliette e chi più ne ha più ne metta, utilizzando materiali di recupero forniti da aziende esterne. Di recente, le ragazze hanno organizzato anche una sfilata di abiti vintage a cui hanno dato una nuova vita. E sempre seguendo la circolarità hanno realizzato anche le divise del laboratorio gastronomico, altro progetto del carcere di Modena, proposto dalla cooperativa “Eortè”, che impegna i detenuti nella realizzazione di prodotti da forno e pasta fresca. Aperto nel 2014, è il secondo progetto della Francescana Family che oggi, alle porte del centro di Modena, porta in tavola la massima valorizzazione degli ingredienti del territorio. Tra questi, ovviamente, le verdure della casa circondariale. Dall’entrée con cavoletto di Bruxelles croccante, crema di caprino e polvere di alloro, affiancato da una foglia di cima di rapa ripiena di colatura di alici e uvetta, al tubetto con cavolo nero, con gambi marinati e chips croccanti, passando poi per i fagioli all’uccelletto: borlotti dalla consistenza tenace, ammorbiditi da un fondo di pollo, cappone e faraona, della polvere di pomodoro essiccato e delle chips di pelle croccante. Le portate sono un’esplosione di sapori, confortevoli e audaci insieme. Alla scelta dei vini ci pensa Zaccaria Labib, o “Zac”, come lo chiamano tutti. Studio, passione e ricerca che a ogni cambio menu mette in campo per arrivare a un percorso vini che non ha nulla di dimostrativo, ma molto da dimostrare. E così si chiude il cerchio che, partendo da inalienabili diritti costituzionali giunge fino alla tavola di uno dei ristoranti più interessanti della scena modenese. Perché a rendere deliziosi cibi già buoni di per sé sono le idee, le storie e le azioni delle persone che vi ruotano attorno. Orvieto (Pg). Ai detenuti la cura del verde. Patto tra Comune, carcere e scuole La Nazione, 13 gennaio 2025 È prevista anche la manutenzione dell’Anello della Rupe. “Iniziativa di alto valore sociale”. I detenuti del carcere di Orvieto contribuiranno alla manutenzione dell’Anello della Rupe e di altre aree verdi della città. La Giunta comunale ha approvato lo schema di convenzione con la casa di reclusione, l’associazione di promozione sociale ParteCivile e il liceo artistico finalizzata all’impiego di detenuti in attività di volontariato per progetti di pubblica utilità e giustizia riparativa. In base all’accordo i detenuti potranno collaborare a progetti esterni di manutenzione, decoro e valorizzazione di zone urbane di particolare pregio. La priorità è stata data al percorso storico, culturale e naturalistico dell’Anello della Rupe ma gli interventi riguarderanno anche il giardino della Gentilezza in piazza Angelo da Orvieto, recentemente riqualificato proprio grazie alla collaborazione con la casa di reclusione. Il Comune individuerà le zone di intervento esterne, predisporrà le azioni da intraprendere e metterà a disposizione i mezzi e gli attrezzi da impiegare oltre a supervisionare e coadiuvare gli interventi che saranno condotti da ParteCivile anche con il coinvolgimento delle scuole. Il liceo artistico infatti, in particolare con le classi delle sezioni di Architettura Scultura e Multimediale, insieme al Comune e ParteCivile, si occuperà di analizzare e proporre scelte progettuali di riqualificazione ambientale e urbanistica. L’associazione realizzerà anche progetti interni all’istituto penitenziario, come conferenze e seminari di promozione e informazione, incontri di sensibilizzazione. “Come avevamo annunciato - afferma l’assessore alle politiche sociali, Alda Coppola - dopo la positiva esperienza avuta con il progetto di riqualificazione del Giardino della Gentilezza abbiamo voluto estendere la collaborazione con la Casa di reclusione anche ad altre aree verdi della città e coinvolgere le scuole. Si tratta di un’iniziativa dall’importante valore sociale che incarna perfettamente i principi di inclusione e reinserimento che sono alla base delle azioni della giustizia riparativa. Grazie a questa collaborazione si offre ai detenuti l’opportunità di contribuire attivamente alla vita della comunità, sviluppando anche competenze utili per il loro futuro. Allo stesso tempo garantiamo la cura di spazi importanti per la nostra città, come l’Anello della Rupe. Un esempio concreto quindi di come si possa unire solidarietà e attenzione al territorio”. Il carcere e la rieducazione dei detenuti nel film “Qui è altrove: buchi nella realtà” goamagazine.it, 13 gennaio 2025 Il carcere e la rieducazione delle persone detenute, principio indicato nell’articolo 27 della Costituzione, sono al centro del film “Qui è altrove: buchi nella realtà” che mercoledì 15 gennaio 2025, alle ore 21, è in proiezione al cinema Sivori (salita S. Caterina 54 r., tel. 010 55320564) di Genova. A presentarlo sono il regista Gianfranco Pannone e Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza che quel principio di rieducazione mette in pratica da 35 anni nel carcere di Volterra. Modera l’incontro Andrea Porcheddu dramaturg del Teatro Nazionale di Genova. Presenti alla proiezione anche Cinzia de Felice de La Compagnia della Fortezza, Mirella Cannata e Carlo Imparato di Teatro Necessario, compagnia attiva a Genova, fondatrice del Teatro dell’Arca “Sandro Baldacci” nella Casa Circondariale di Genova Marassi. Il documentario, presentato al 65° Festival dei Popoli di Firenze, documenta l’esperienza civile e artistica della Compagnia della Fortezza. Pannone ha seguito le prove di Punzo con i suoi attori nel carcere di Volterra fino al debutto di “Atlantis cap. 1 - La permanenza”. Lo spettacolo si inserisce nel più ampio progetto “Per Aspera ad Astra”, che riunisce i registi provenienti da altre esperienze di teatro-carcere attivi in Italia, nel segno di un’utopia possibile. “Qui è altrove - dichiara Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per gli agenti di polizia penitenziaria. L’esperienza di Volterra, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: un altro carcere è possibile”. “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili - spiega Armando Punzo - raggiungere la luce di un’utopia concreta, che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di Teatro in Carcere. Eppure è ormai evidente che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. È una visione di speranza concreta. Trovo straordinario che il film di Gianfranco Pannone, “Qui è altrove”, provi a darne precisa e poetica testimonianza”. Qui è altrove: Buchi nella realtà scritto e diretto da Gianfranco Pannone è prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film, in co-produzione con RSI - Radiotelevisione svizzera, con la collaborazione di Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa e Carte Blanche e con il patrocinio di Associazione Antigone. Il film ha aperto, come evento speciale, la 65a edizione del Festival Dei Popoli con un passaggio successivo alla 30a edizione del MedFilm Festival, al Parma Film Festival - Invenzioni dal vero e al Corto Dorico Film Fest di Ancona. Libri e film documentario sul giudice Livatino distribuiti nelle carceri agrigentonotizie.it, 13 gennaio 2025 L’associazione “Amici del giudice Rosario Angelo Livatino” ha ricevuto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria l’autorizzazione a far giungere alle biblioteche delle strutture della Sicilia prima e di tutta Italia nei prossimi mesi alcune pubblicazioni su carta nonché filmati ritenute idonee alla rieducazione e alla conoscenza agli ospiti e che meglio delineano il profilo e la storia professionale e morale del magistrato ucciso in un vile agguato la mattina del 21 settembre 1990 alle porte di Agrigento mentre da solo, senza scorta e con la propria modesta utilitaria si stava recando in tribunale a opera di quattro giovinastri. “Siamo davvero grati al dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona della sua dirigenza e di tutto il personale - dice Giuseppe Palilla, presidente dell’associazione Amici del giudice Rosario Angelo Livatino - per l’autorizzazione concessa e per aver creduto in questo progetto che consentirà, a chi vorrà, di approfondire la conoscenza di una figura di cui si è scritto tanto, forse anche troppo e alcune volte anche in maniera imprecisa se non addirittura sbagliata. L’iniziativa coinvolgerà altri spaccati sociali e professionali”. Nelle prossime settimane l’associazione “Amici del giudice Rosario Angelo Livatino” cercherà di completare un primo elenco di istituti cui far giungere i pacchi che contengono il libro di Roberto Mistretta “Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente”, le due relazioni tenute dal giudice Livatino nel 1984 e nel 1986 che costituiscono il suo testamento morale, di credente e di operatore del diritto, ancora di profonda attualità; e il film documentario di Salvatore Presti “Luce verticale. Rosario Livatino. Il Martirio” assieme ad altro materiale. “Questa iniziativa è stata possibile solo grazie alla generosità dei soci e degli estimatori di Rosario Livatino - conclude Giuseppe Palilla, compagno di classe al Liceo di Livatino - che ci hanno fornito le risorse sia con contributi che con la sottoscrizione della misura del 5 per mille in occasione della denuncia dei redditi. Continuando ad avere risorse sufficienti invieremo queste pubblicazioni gratuitamente in tutta Italia e studieremo altre iniziative per far conoscere sempre più la figura di uomo e di magistrato credente di Rosario Livatino”. Ius scholae. Cittadinanza ai minori stranieri, le “seconde generazioni” non s’arrendono di Diego Motta Avvenire, 13 gennaio 2025 Dopo il no di Meloni a una nuova legge, il 20 gennaio toccherà alla Consulta esprimersi. I migranti nati e cresciuti nel nostro Paese: in campo per difendere un diritto. Dare cittadinanza a chi si sente italiano, ma è considerato straniero in patria. L’impegno dei figli di stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese va avanti, nonostante piccole e grandi discriminazioni, nel silenzio di buona parte delle istituzioni. Sono le nuove generazioni (così preferiscono essere chiamate) che hanno intrapreso negli anni scorsi una lunga marcia, mettendo insieme storie, percorsi e nazionalità diverse. Il traguardo resta lontano, ma sulla via stanno emergendo novità. Il 2025 si è aperto con la chiusura netta della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a una revisione delle norme sul tema, fissate nella legge 91 del 1992, insieme alla promessa però di intervenire sui tempi d’attesa per chi inizia l’iter legale. L’attesa adesso è per il pronunciamento della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum abrogativo, che si propone di dimezzare il requisito della permanenza nel nostro Paese da 10 a 5 anni (la Consulta dovrà decidere anche sui quesiti relativi all’autonomia differenziata e al Jobs act). L’appuntamento è fissato per lunedì 20 gennaio e i promotori dell’iniziativa, tra cui diverse sigle del mondo giovanile straniero, non nascondono di vedere in un eventuale via libera dei giudici (tutt’altro che scontato) la soluzione per tornare a parlare di una riforma e per aprire un dibattito che finora è mancato nel Paese. La via della consultazione - “La proposta referendaria è stata il frutto di un lavoro che era iniziato da tempo” racconta Noura Ghazoui, presidente del Conngi, il Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane. Il riferimento è al cammino fatto nell’ultimo decennio, quando diverse sigle del mondo dei giovani migranti hanno deciso di mettersi insieme, per fare rete e presentarsi unite davanti alle istituzioni. In un confronto pubblico che ha avuto (pochi) alti e (molti) bassi, la scelta di muoversi facendo squadra è stata quasi obbligata. “Sono rimasta delusa dalle parole della premier - spiega Noura - perché mi aspettavo segnali di minima apertura verso ragazzi che vivono quotidianamente l’Italia nella scuola, nelle amicizie e nel lavoro. Crediamo non sia più il tempo dei diritti negati. Il presidente Mattarella ha più volte invitato a costruire cittadinanza e noi ci ritroviamo in questa visione”. Nel frattempo, le comunità straniere che hanno a cuore la battaglia per lo Ius Soli e lo Ius Scholae e che guardano con interesse anche alla proposta lanciata recentemente dello Ius Italiae, hanno deciso di fare un pezzo di strada insieme, trovando appoggi anche nei palazzi della politica. “C’è un tavolo sulla cittadinanza, con un’interlocuzione aperta anche con il Tavolo Asilo - spiega Daniela Ionita, referente di Italiani senza cittadinanza -. Poi è nato un intergruppo parlamentare presieduto dalla parlamentare del Pd, Ouiddad Bakkali, con 40 tra deputati e senatori. Chiediamo di essere riconosciuti come italiani e di poter dire la nostra”. Le speranze sono riposte in particolare sulla decisione che tra otto giorni dovrà prendere la Corte Costituzionale. Avere messo sul tavolo l’ipotesi concreta di una consultazione su questo tema è un merito che va ascritto alla mobilitazione inedita di centinaia di migliaia di persone, tra influencer e gruppi, che hanno promosso la raccolta firme sui social e online, nei mesi di agosto e settembre. La richiesta del comitato referendario prevede la riduzione da 10 a 5 gli anni come tempo di residenza legale in Italia necessario per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli minorenni. “Questa semplice modifica rappresenterebbe una conquista decisiva per la vita di molti cittadini di origine straniera (secondo le stime si tratterebbe di circa 2.500.000 persone) che, in questo Paese, non solo nascono e crescono, ma da anni vi abitano, lavorano e contribuiscono alla sua crescita - spiegano i promotori del referendum -. Partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi negati”. Dentro la società civile - Proprio in questi giorni, è tornata a farsi sentire anche la società civile: sono diverse le organizzazioni che affiancano ragazzi italiani e stranieri in percorsi di integrazione e accoglienza, cercando di garantire l’inserimento dei giovani immigrati, unica via possibile per garantire anche sicurezza nei quartieri soprattutto delle grandi città. In particolare, il cartello di associazioni “Link 2007 - Cooperazione in rete” in cui sono confluite realtà impegnate nel volontariato e nella cooperazione internazionale come Cesvi, Cuamm, Amref, Soleterre, Intersos, Lvia, WeWorld, ha presentato un documento dal titolo “Né stranieri né italiani. Cittadini sospesi”, in cui attraverso dati, analisi e proposte, si cercano soluzioni condivise, sulla base dell’esperienza quotidiana e al di là delle barriere ideologiche. I dati infatti dicono che oltre il 65% degli studenti stranieri è nato in Italia, ma la normativa del 1992, basata sullo Ius sanguinis, li considera stranieri. “Salvi i casi di naturalizzazione di un genitore, la cittadinanza è accessibile solo al compimento dei 18 anni, con procedure burocratiche che non facilitano. Questi giovani vivono un limbo identitario: si sentono italiani ma non sono riconosciuti come tali. Questo alimenta frustrazione e distacco” sottolinea il dossier. Anche sul piano economico e sociale, il tema della cittadinanza è cruciale. “I lavoratori stranieri rappresentano il 10,1% della forza lavoro e contribuiscono per quasi il 9% al Pil italiano. Tuttavia, il senso di esclusione e il limbo identitario (che mortificano minori e adulti) rischiano di spingere anche molti giovani con background migratorio, formati in Italia, a cercare opportunità all’estero, privando il Paese di talenti e competenze preziose”. A ottobre era stato il Censis ad evidenziare in uno studio come il contributo alla natalità e alla scuola della popolazione immigrata fosse ormai decisivo, a completare così il quadro sulla necessità di una cittadinanza riconosciuta a 360 gradi. “Il nostro impegno - spiegano Noura e Daniela - continuerà in ogni caso. Ci sentiamo italiani da sempre e non vogliamo che tanti altri nostri coetanei rimangano nel limbo. Per questo, occorre lavorare sulla percezione del fenomeno migratorio in chiave positiva. Siamo solo all’inizio”. Nati e cresciuti in Italia, ma ancora in lista d’attesa: perché? di Diego Motta Avvenire, 13 gennaio 2025 La chiusura della presidente del Consiglio a una nuova legge sulla cittadinanza ai figli dei migranti nati e cresciuti in Italia non è una sorpresa. Da un punto di vista della comunicazione politica, le parole pronunciate nella conferenza stampa di giovedì fanno parte di una strategia pubblica che si spiega facilmente: una posizione rigorosa, quando non intollerante, sul tema delle migrazioni sta pagando dal punto di vista dei consensi e, nonostante il coraggioso strappo estivo di Forza Italia sul tema, è comprensibile che Giorgia Meloni non voglia mettere, come ha detto, “altra carne al fuoco” dentro una coalizione di destra-centro sempre più a trazione Fratelli d’Italia. Il problema riguarda però le argomentazioni addotte per giustificare questo immobilismo. È infatti un errore e insieme una strumentalizzazione parlare, com’è stato fatto in quella sede, di record di acquisizioni della cittadinanza negli ultimi anni, avvenuto grazie alle attuali norme. Lo aveva sottolineato Matteo Salvini, l’ha ripetuto due giorni fa la premier, spiegando così il mantenimento dello status quo. È un errore perché i 213.716 “nuovi italiani” (il primato di cui si parla), censiti nell’ultimo rapporto della Fondazione Ismu relativo al 2022, in realtà sono già vecchi: alle spalle hanno infatti iter legali lunghi 15-16 anni, che li fanno appartenere all’onda lunga delle migrazioni avvenute a cavallo tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo. È anche una strumentalizzazione, perché di fatto questo presunto alibi impedisce alla politica di guardare dritto negli occhi le nuove generazioni di ragazzi stranieri, che da almeno 15 anni a questa parte, grazie anche all’impegno della società civile e del mondo cattolico, rivendicano l’appartenenza a questo Paese come un diritto. Di questo passo, invece, si rischia di creare altri “invisibili”. Più interessante è stato il riferimento arrivato sulla migrazione come fenomeno familiare: si può arrivare da soli in un Paese, ma ci si può inserire soltanto se si stabilisce una relazione, meglio ancora se è possibile ritrovare, col passare del tempo, gli affetti che si sono lasciati in patria. Qui però si misura la distanza tra parole e fatti. Ha sorpreso non poco in questo senso la decisione di attuare recentemente una stretta sui ricongiungimenti familiari: se ricomporre un nucleo familiare nel nostro Paese è considerato strategico, perché allora raddoppiare l’obbligo di residenza per chi fa la domanda a chi è già sul nostro territorio, passando da uno a due anni? Perché non prevedere per chi è già presente qui invece uno scenario di stabilizzazione, anche domestica, utile per accelerare i processi di integrazione e per impedire ulteriori casi di ghettizzazione? La risposta in tutti questi casi dovrebbe partire proprio dalla considerazione che la legge 91 del 1992 non è più adatta ai tempi che corrono: è cambiato il contesto, è cambiato il Paese, è cambiata la storia. Allora il fenomeno delle migrazioni era agli albori, e quella prima cornice normativa era tanto necessaria quanto sufficiente. Oggi al Paese serve un cambio di passo, capace di intercettare i cambiamenti demografici e sociali in arrivo dal mondo della scuola e dello sport, ad esempio, cambiamenti che stanno delineando da tempo un volto nuovo di comunità. Invece al momento tutto è fermo: il tema dell’immigrazione è infatti stato ridotto a materia d’ordine pubblico, tra sbarchi da cancellare dagli occhi, nuove “Albanie” da costruire con l’avallo dell’Europa, esami del Dna da fare in particolare agli stranieri che delinquono. È un racconto ansiogeno, che non potrà durare a lungo perché incapace di intercettare la freschezza di un processo già in atto. Un milione di ragazzi permarrà così in un’anacronistica lista d’attesa: tra di loro, molti hanno promosso la mobilitazione per il referendum al vaglio ora della Consulta, che punta a ridurre da 10 a 5 anni il tempo di permanenza necessario in Italia per diventare italiani. La cittadinanza resta infatti tra i pochi temi stimolanti agli occhi di tanti giovani allergici alle letture ideologiche o politicizzate. Occuparsene sarebbe per altro un modo per riaccendere la partecipazione alla vita pubblica, un valore che abbiamo perso da tempo e che per il bene dell’Italia - della patria - va recuperato il più presto possibile. Abedini è un uomo libero: domenica pomeriggio ha lasciato il carcere di Opera di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 gennaio 2025 Il trentottenne ingegnere iraniano è stato rilasciato dalla quinta Corte d’Appello di Milano in esecuzione del provvedimento del Guardasigilli. Alla notizia ha sorriso, poi è scoppiato a piangere. Solo un sorriso quasi incredulo, e poi giù a piangere. Mohammad Abedini è un uomo libero. Il trentottenne ingegnere iraniano con permesso di soggiorno in Svizzera sino a ottobre 2025, di cui gli Stati Uniti chiedevano l’estradizione per la quale domenica mattina il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha invece comunicato ai giudici milanesi di non ritenere esistenti le condizioni, è stato rilasciato dalla quinta Corte d’Appello di Milano che, appunto in esecuzione del provvedimento del Guardasigilli sul quale per legge l’autorità giudiziaria non ha alcun margine di valutazione, ha revocato la custodia cautelare di Abedini: un dietro-front nel giro di tre settimane senza che giuridicamente sia mutato nulla, visto che era stato lo stesso ministro Nordio a invece sollecitare la custodia cautelare di Abedini il 20 dicembre, all’indomani dell’immotivato arresto a Teheran della giornalista italiana Cecilia Sala tre giorni dopo l’arresto il 16 dicembre dell’iraniano all’aeroporto di Malpensa su mandato d’arresto internazionale spiccato il 13 dicembre dagli Stati Uniti. Abedini è stato dunque rimesso in libertà dal carcere di Opera, dove era detenuto dopo una iniziale collocazione a Busto Arsizio e un brevissimo trasferimento in Calabria nel carcere di Rossano prima del ritorno appunto a Milano a Opera. E adesso è totalmente libero: di restare se vuole in Italia, di andare in Svizzera dove stava andando quando fu fermato a Malpensa proveniente da Istanbul, oppure di tornare in Iran subito o nelle prossime ore dopo una sosta nella rappresentanza diplomatica del suo Paese. La magistratura iraniana ha intanto annunciato che Abedini tornerà a Teheran “nelle prossime ore”: “Grazie al monitoraggio del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran e ai negoziati tra i servizi di intelligence della Repubblica Islamica dell’Iran e i servizi di intelligence italiani, il problema è stato risolto e ha portato al suo rilascio e al suo ritorno”, ha annunciato Mizan Online, l’ufficio stampa della magistratura iraniana. Non si terrà dunque più mercoledì 15 gennaio l’udienza nella quale la Corte d’Appello avrebbe dovuto decidere sulla istanza del difensore Alfredo de Francesco di concessione degli arresti domiciliari ad Abedini. Nei giorni scorsi Nordio era parso intenzionato, stando alle sue dichiarazioni, ad attendere la celebrazione dell’udienza e la decisione dei giudici, ma l’impressione è che col passare del tempo l’iniziale affidamento ministeriale su una decisione positiva dei giudici milanesi sia stato raffreddato dalla convinzione che la procuratrice generale Francesca Nanni e la sua collega Laura Gay non avrebbero modificato in udienza il parere contrario ai domiciliari già espresso la settimana scorsa, e che difficilmente il collegio della Corte d’Appello avrebbe concesso i domiciliari all’iraniano. A quel punto la decisione di Nordio, pur identica a quella odierna nei presupposti giuridici addotti, sarebbe forse apparsa più stridente con la sentenza possibile dell’autorità giudiziaria, e probabilmente il ministero ha ritenuto di accelerare i tempi ed esercitare prima dell’udienza di mercoledì la facoltà di legge riconosciutagli in materia estradizionale (per definizione intrisa di valutazioni di opportunità politiche assai più che di aspetti giudiziari) dall’articolo 718 del codice di procedura penale: “La revoca della custodia cautelare è sempre disposta se il ministro della Giustizia ne fa richiesta” ai giudici. Abedini liberato: l’incognita della Corte d’Appello e le garanzie date all’Iran di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 gennaio 2025 Perché Nordio ha accelerato sui tempi. Per la prima volta il ministro firma personalmente. Il precedente di Uss e del conflitto tra Nordio e le toghe milanesi che lo avevano scarcerato. Venerdì pomeriggio la capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi, ha chiesto nuovamente all’ufficio che si occupa di estradizioni l’elenco delle precedenti revoche di arresti a fini estradizionali. Ce ne sono un paio, di cui già s’era già parlato molto nelle ultime settimane nelle stanze di via Arenula; una recentissima relativa all’italo francese Hervé Falciani, e un’altra del 2022, dell’ucraino Eugene Lavrenchuk reclamato dai russi. Era il segno di una decisione politica ormai presa, alla quale bisognava trovare una veste giuridica più convincente possibile. Per accelerare i tempi di restituzione all’Iran dell’ingegnere Mohammad Abedini-Najafabani, in cambio della liberazione di Cecilia Sala avvenuta mercoledì scorso. Ottenute le informazioni che di fatto già aveva, Carlo Nordio ha firmato la richiesta di annullamento della misura cautelare nei confronti dell’iraniano lasciando all’oscuro l’ufficio addetto, un fatto del tutto inedito per la burocrazia ministeriale. Versioni smentite - Poche ore dopo la liberazione della giornalista italiana, il Guardasigilli era andato a palazzo Chigi e tutti avevano ipotizzato che fosse lì per ricevere l’ordine di scarcerare l’iraniano reclamato da Teheran, ma Nordio smentì. La sera successiva, al Tg1, spiegò che prima di qualunque decisione avrebbe atteso il verdetto dei giudici di Milano sulla richiesta di arresti domiciliari per l’esperto dei droni detenuto da quasi un mese: “Ci affidiamo al giudizio della corte”. Invece non ha atteso. Significa che il patto tra Italia e Iran non poteva rischiare di saltare per un provvedimento giudiziario sul quale non c’era alcuna certezza dell’esito, e Abedini doveva uscire subito di galera. Non in contemporanea con Cecilia Sala, per non offrire all’opinione pubblica nazionale e mondiale l’immagine di uno scambio di prigionieri da tempo di guerra, ma in differita, a un centinaio di ore di distanza fra l’una e l’altro. Del resto, se la cattura dell’iraniano è stata l’inizio dell’intrigo internazionale nel quale è incappata la reporter de Il Foglio e Chora media, e con lei il governo guidato da Giorgia Meloni, la fine non poteva che arrivare con la sua scarcerazione. Il giudizio della Corte d’appello di Milano sui domiciliari sarebbe stato autonomo e svincolato dalle esigenze di adeguarsi all’accordo siglato tra Roma e Teheran (con un visto ottenuto dalla premier a Mar-a-Lago, in Florida, dal prossimo presidente statunitense Donald Trump). I giudici avrebbero deciso solo sulla base delle carte giunte finora dagli Usa (il mandato d’arresto internazionale e i capi d’accusa, più le considerazioni sul pericolo di fuga, debitamente trasmesse a Milano proprio dagli uffici di Nordio) e di quelle prodotte dall’avvocato a sostegno della sua istanza. Garanzie insufficienti - Niente, in quel fascicolo, faceva riferimento alla vicenda di Cecilia Sala, arrestata a Teheran senza alcuna accusa e senza alcun motivo che non fosse la ritorsione per la cattura di Abedini, né alla necessità di onorare un impegno preso dal governo italiano per riportarla a casa. Inoltre, a non fornire sufficienti garanzie c’era l’ormai stranoto precedente di Artem Uss. Quando nella primavera 2023 l’imprenditore russo arrestato in Italia su richiesta degli Usa che lo accusavano di spionaggio evase dagli arresti domiciliari (con tanto di braccialetto elettronico) concessigli proprio dalla Corte d’appello di Milano, Nordio scaricò la colpa sui giudici. Prima ordinò un’ispezione e poi aprì nei loro confronti un procedimento disciplinare per “grave e inescusabile” negligenza; iniziativa proditoria che provocò sconcerto tra le toghe, poiché si entrava nel merito di un provvedimento giurisdizionale che di norma non rientra nelle valutazioni ministeriali. Tanto che il successivo processo davanti alla sezione disciplinare del Csm si concluse con l’assoluzione degli incolpati, sollecitata dalla stessa Procura generale della Cassazione che rappresentava l’accusa. Ferita aperta - Quella vicenda è rimasta una ferita aperta nei rapporti tra il ministro e i giudici, in particolare quelli della Corte d’appello milanese. E adesso che il governo aveva bisogno di una decisione delle stesse toghe uguale a quella contestata nel caso Uss, c’era il pericolo che tornasse a sanguinare. Così il ministro ha messo da parte gli indugi e intrapreso l’altra strada, già indicata nei primi giorni della detenzione di Cecilia Sala: lui può stabilire in ogni momento la revoca degli arresti a fini estradizionali in virtù della natura politica della decisione finale, che spetta sempre al potere esecutivo. Nel provvedimento ministeriale, e nel comunicato che l’ha reso noto, Nordio ha spiegato che non c’erano i presupposti giuridici per la consegna di Abedini agli Usa, e che “nessun elemento risulta ad oggi addotto a fondamento delle accuse rivolte” all’iraniano di aver foraggiato i pasdaran della Guardia della rivoluzione islamica; terroristi solo per gli Stati Uniti, non per le Nazioni Unite né per l’Unione europea. Presupposti ed elementi che però mancavano anche quando il ministero della Giustizia ha chiesto la conferma dell’arresto di Abedini in carcere; e le prove non sono arrivate perché non è ancora scaduto il termine a disposizione degli Stati Uniti per trasmetterle in Italia a supporto della richiesta di estradizione. Ma non c’era più tempo a disposizione per rispettare il patto con l’Iran e liberare l’uomo di Teheran. Dunque porte aperte a lui e porte chiuse agli Usa, che in cambio avranno avuto (o avranno) qualcos’altro. Forse i segreti che Abedini custodiva nei telefoni, nei computer e nei dispositivi elettronici - connessi al suo lavoro di progettista e commerciante di droni - sequestratigli al momento dell’arresto. E che se pure gli saranno restituiti, non resteranno segreti solo suoi. La politica dello scambio di detenuti può non piacere ma in certi casi è una dura necessità di Sergio Soave Il Foglio, 13 gennaio 2025 Dopo Cecilia Sala, è arrivata la liberazione anche per l’ingegnere iraniano Abedini. C’è chi si scandalizza per lo “scambio”, ma quando è in gioco la libertà e la vita di una connazionale bisogna scendere dal cielo dei princìpi al terreno della realtà fattuale. La liberazione di Cecilia Sala ha comportato un prezzo, la liberazione di Mohammad Abedini, arrestato su mandato del governo americano che ne chiedeva l’estradizione, in base peraltro a una procedura non priva di falle giuridiche. Adesso c’è chi si scandalizza, o accusando il governo di debolezza nei confronti della teocrazia iraniana, o lamentando che abbia preventivamente chiesto il consenso all’America, come fa Angelo Bonelli. La politica dello scambio di detenuti (uno era un ostaggio, Sala, l’altro no) è impopolare ma è, in certi casi, una dura necessità. Basta ricordare le centinaia di detenuti palestinesi condannati per atti terroristici liberati da Israele in cambio dei suoi cittadini sequestrati da Hamas. La politica è soprattutto comprensione delle necessità e capacità di ottemperare nel modo meno dannoso possibile alle condizioni esistenti, tenendo fermo l’obiettivo principale. Non c’è dubbio, almeno per le persone di buon senso, che l’obiettivo principale fosse la liberazione di Cecilia, tenuta in ostaggio dall’Iran: averla ottenuta senza indebolire le fondamentali relazioni con gli Stati Uniti è stato un successo indiscutibile. Chi critica o, peggio ancora, si scandalizza avrebbe il dovere di spiegare che cosa si sarebbe dovuto fare di meglio e di diverso, ma di queste ipotesi alternative non c’è traccia. Si è trattato di un esito felice per l’Italia, gestito ovviamente da chi ha le massime responsabilità di governo e dai servizi di informazione, con la cautela e la riservatezza che la situazione imponeva. Qualcuno pensa che lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere solo esibendo l’ovvia condanna del regime degli Ayatollah in qualche seduta parlamentare e in qualche piazza? Oppure che fosse inutile cercare di ottenere la comprensione del governo americano quando si ostacolava una sua richiesta di estradizione? Dire che la politica dello scambio degli ostaggi non piace è una ovvietà, ma quando è in gioco la libertà e la vita di una connazionale bisogna scendere dal cielo dei princìpi al terreno della realtà fattuale. Così si è fatto e si è fatto bene, anzi molto bene. L’inferno delle carceri siriane: “Celle da 80 persone, non dormivamo per giorni” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 13 gennaio 2025 “Eravamo nudi, con la pelle e il fiato a contatto. Era inverno ma le pareti e il suolo era come se sudassero per quanti eravamo. In una mano avevamo un pezzo di pane e nell’altra un pezzo di patata lessa. Quello era il nostro cibo” racconta Khaled che oggi ha una nuova vita a Roma. La prima parola fuori dal linguaggio comune che Khaled Karri ha imparato è stata “scarpetta”. Era la quinta settimana che si trovava in Italia e divorava voracemente il cibo in un ristorante. Dopo aver pucciato il pane nel sugo avanzato della pasta un cameriere senza troppi filtri glielo ha fatto notare: “Oh ma stai facendo la scarpetta!”. Quel ricordo lo fa ancora ridere, mentre racconta la sua storia divisa tra la Siria e l’Europa. Forse non è solo una casualità se la prima parola imparata ha a che fare con il cibo. Khaled è un artista e regista siriano che utilizza ritratti astratti e arte culinaria per esprimere temi di sopravvivenza e identità. Lo scorso 21 dicembre al Pigneto ha dato vita a un’esperienza sensoriale e visiva fuori dal comune. Al locale Kif Kif ha organizzato un “unusual screening”, durante il quale ha proiettato un cortometraggio che ha realizzato quando era studente alla John Cabot university di Roma. A ciascun spettatore ha consegnato un foglio in mano, il manifesto del suo anno e mezzo di prigionia in Siria dove è stato anche torturato. “Vivevo in una scatola, non letteralmente una scatola, ma una stanza estremamente piccola. Quando vivevo dentro questa scatola, vivevo come un animale in gabbia. La mia vita era controllata da altre persone”, si legge nel foglio. Racconta che era a contatto con ottanta persone, che erano schiacciate, che non dormivano da giorni. E che alcuni detenuti impazzivano. “Sapevamo che quando queste persone non si calmavano, sarebbero morte entro i prossimi giorni. La loro anima se ne sarebbe andata, ma il loro corpo sarebbe rimasto nella scatola per altri quattro giorni. Poi, finalmente, qualcuno sarebbe venuto a scrivere un numero sulla loro fronte e a trascinarli via”. Dentro quella cella, Karri ci è stato per tre mesi prima di essere poi stato trasferito. Non appena tutti hanno letto il documento Karri ha bendato gli occhi di ogni spettatore, li ha trascinati con forza dentro la stanza dove è stato proiettato il cortometraggio e li ha messi seduti seguendo il metodo utilizzato dalle guardie carcerarie siriane per riuscire a fare entrare così tante persone in un così piccolo spazio. Una volta seduti a ognuno ha lanciato un pezzo di pane e di patata lessa. Immersi seduti nel buio gli spettatori si sono tolti le bende e il cortometraggio sulla repressione siriana è iniziato. A fine proiezione Khaled Karri sorride e chiede scusa per i modi bruschi utilizzati. “Era per farvi capire cosa si prova nelle carceri siriani. Questo unusual screening aveva questo obiettivo”. La storia - Dopo gli studi scolastici si è iscritto al corso di Archeologia nell’università di Damasco, ma come ogni siriano doveva prestare servizio militare. Così nel 2010 entra nell’esercito regolare siriano, in quegli anni mangia cibo “schifoso”, ma era quello servito. Così sperimenta la trasformazione a forma d’arte. Nel marzo del 2011 in Siria esplode la guerra civile sulla scia delle manifestazioni di piazza represse con brutale violenza dalle forze godi Bashar al Assad. Decide di aiutare gli organizzatori a radunare le persone per le proteste. Li avvertiva anche dei punti critici, che conosceva bene in quanto soldato dell’esercito. Nel 2013 un collega viene a scoprire la sua attività e lo denuncia scrivendo una relazione inviata poi ai servizi di sicurezza siriani. Da quel momento la vita di Karri viene stravolta. Viene rinchiuso per un anno e mezzo nel carcere di Sednaya, quello liberato dai ribelli jihadisti di Hayat Tahrir al Sham che ha preso il potere in Siria dopo un’offensiva. “Ci trovavamo in 80 persone dentro una cella 4x4. Ci sono tecniche per far sedere così tante persone in una stanza così piccola. Eravamo nudi, con la pelle e il fiato a contatto. Era inverno ma le pareti e il suolo era come se sudassero per quanti eravamo. In una mano avevamo un pezzo di pane e nell’altra un pezzo di patata lessa. Quello era il nostro cibo”, racconta Khaled nei minimi dettagli. Alla mente ritornano gli orrori di quel luogo recentemente liberato. “Quando non dormi per tre giorni di fila la tua mente e il tuo corpo sono due entità diverse. Diventi matto, ho visto gente uscire fuori di testa, pisciare sui cadaveri di chi moriva dentro la cella. I corpi venivano recuperati solo dopo giorni, era voluto. In una piccola cella un corpo morto non riesce a stare seduto, ma solo sdraiato. Occupa più spazio, fino a quando gli altri detenuti erano costretti a sedersi sopra”. La liberazione - Nel frattempo a Khaled non è stata garantita alcuna tutela legale. La sua famiglia non era a conoscenza della sua incarcerazione, il loro figlio era semplicemente sparito. Non avevano più notizie di lui. Un giorno, Karri fornisce gli accessi del suo account Facebook a un suo compagno di cella che stava per essere scarcerato. E così sul profilo di Khaled compare un post in cui racconta di essere in prigione nel carcere di Sednaya. I famigliari finalmente lo sanno. Pagano una sorta di cauzione da migliaia di dollari per liberarlo. Nella tragedia Karri è stato fortunato perché ha alle spalle una famiglia che poteva permettersi - vendendo gran parte dei suoi beni - di sborsare una cifra enorme per liberarlo negli anni in cui il paese era in profonda crisi economica e sociale. “In Siria la corruzione è a livelli altissimi, chiunque paga trova una soluzione ai suoi problemi”, racconta Khaled. “C’è chi pagava duemila euro solo per avere un’informazione su un parente detenuto. Duecento dollari per far arrivare un pacchetto di sigarette”. E così nel 2014 Khaled esce dall’inferno di Sednaya. I giorni in cui veniva picchiato e appeso per le braccia in cella sono alle spalle, ma deve tornare a prestare servizio militare. A quelli come lui il destino è sempre lo stesso: vengono mandati al fronte dopo la liberazione. Non appena lo viene a sapere decide di scappare. Paga un trafficante e arriva in Turchia, dopo mesi in cerca di lavoro non trova nulla e decide di raggiungere la sua famiglia che nel frattempo si era trasferita in Libia. “Sono stato un anno intero a Tripoli. Ho provato ad aprire un’attività, a cercare un lavoro. Impossibile, dovevo andarmene anche da lì”. E così si imbarca verso l’Europa e dopo diversi giorni nel Mediterraneo centrale sbarca a Lampedusa. “Il mare di notte è il terrore”, dice di quel viaggio. La prossima Siria - Qui in Italia ha una nuova vita. A Roma ottiene asilo politico si iscrive nella facoltà di Scienze politiche alla John Cabot University, trova un lavoro nella Croce Rossa e fonda Makan, un’organizzazione dedicata alle performance culinarie e alla lotta contro lo spreco alimentare. In arabo, “Makan” significa “luogo”. L’obiettivo di Makan è “produrre cibo attraverso la comunità e creare comunità attraverso il cibo” dice Khaled. Attraverso Makan Khaled e i suoi colleghi fanno catering, cultura e arte. Il suo piatto preferito sono le penne all’arrabbiata, racconta ridendo. Non è difficile capire il perché, riflette il suo stato d’animo per ciò che ha passato. Ma oggi il suo presente è in Italia, un giorno spera di tornare in Siria. Per ora è troppo presto. “Al Golani ha liberato la Siria, lo ringraziamo ma ora deve lasciare il posto”, dice Karri. “Non possiamo rischiare di avere un altro come Bashar al Assad”. Ma i segnali non sono incoraggianti. In una recente intervista Abu Mohammed al Jolani ha detto che ci vorrebbero fino a quattro anni di tempo prima di organizzare le prime elezioni presidenziali libere dalla caduta del regime di Assad. Il rischio di una deriva autocratica è concreto. “Ora è come se avessimo una felicità grigia. Immensa felicità ma solo perché Assad non c’è, per il resto è ancora tutto da vedere”, dice rollando un’altra sigaretta. “La grazia a Julian Assange”. Appello a Biden prima che lasci la Casa Bianca di Rossella Guadagnini left.it, 13 gennaio 2025 È stata lanciata la petizione #PardonAssange - attiva anche nel nostro Paese - per chiedere al presidente americano di concedere la grazia al giornalista australiano. Julian è libero dopo il patteggiamento di 6 mesi fa ma la pena inflittagli implica un pericoloso antecedente in giurisprudenza rispetto alla libertà di stampa e di parola. “Oggi sono libero perché mi sono dichiarato colpevole di giornalismo”, ha detto in estate Julian Assange a Strasburgo. Sono trascorsi sei mesi dalla sua liberazione, avvenuta in seguito al patteggiamento con le autorità americane, ma sul cofondatore di WikiLeaks grava una condanna a 5 anni di carcere (in pratica già scontata nel quinquennio di detenzione in isolamento) che ha macchiato la sua fedina penale, sottoponendolo a restrizioni lavorative e di viaggio, il prezzo della sua libertà. È una pena che implica un pericoloso antecedente in giurisprudenza rispetto alla libertà di stampa e di parola, soprattutto nei confronti del giornalismo investigativo, in quanto i giudici del procedimento hanno stabilito che sia criminale “ogni aspetto del comunicare con una fonte, dal possedere informazioni riservate al pubblicarle”. Perciò The Assange Campaign ha lanciato una petizione #PardonAssange - attiva anche nel nostro Paese - per chiedere al presidente americano Biden (in carica ancora per 10 giorni) di concedere la grazia al giornalista australiano. L’idea è venuta a suo fratello, Gabriel Shipton, durante un viaggio negli Usa. A Washington ha incontrato numerosi sostenitori al Congresso in quanto la lotta per liberarlo è stata trasversale, coinvolgendo opposte parti politiche. Tutto ciò fino a che due membri del Congresso, James McGovern democratico e Thomas Massie repubblicano, hanno redatto una lettera congiunta al presidente degli Stati Uniti, chiedendogli la grazia e aprendo un sito internet con più domini, rivolto ad altri Paesi oltre all’America e all’Australia, per una petizione pubblica aperta a tutti che ha raccolto oltre 30mila firme. A breve però si profila l’insediamento di Trump, previsto per il 20 gennaio. Visto il gran numero di clemenze di Biden, la campagna per Assange ha fiducia in una sua riuscita. “Prima della sentenza di chiusura del processo, la risposta dell’amministrazione americana è sempre stata quella del non volere interferire con il dipartimento di Giustizia. Ora che il processo è terminato, dipende tutto da Biden: può schierarsi a favore della libertà di stampa o contro di essa”, ha sottolineato Gabriel Shipton, promotore della campagna. “Julian è libero, ma la giustizia attende. Unisciti a noi e chiedi la grazia oggi stesso” si esordisce nella petizione. “Il 26 giugno 2024, Assange è diventato il primo editore a essere condannato ai sensi dell’Espionage Act degli Stati Uniti per aver denunciato i crimini di guerra dell’esercito americano. Julian potrebbe ora essere libero, ma questa campagna non è mai stata solo per lui. Questa condanna, la prima del suo genere, stabilisce un precedente pericoloso che minaccia la libertà di stampa a livello globale e mette a rischio la sicurezza dei giornalisti che denunciano le malefatte del governo, proprio le cose per cui Julian ha rischiato la vita”. “Sappiamo che il presidente Biden è guidato dal suo impegno verso i valori della Repubblica americana - prosegue il documento - Abbiamo una finestra ristretta per sostenere la giustizia. Concedendo la grazia, il presidente può non solo correggere una grave ingiustizia, ma anche inviare un messaggio forte: può riaffermare la dedizione dell’America alla verità e al Primo Emendamento”. In Italia, intanto, gli attivisti di FreeAssangeRoma, rimarcano che il 23 dicembre scorso il presidente Biden ha commutato le condanne a morte di 37 prigionieri federali, segnalando così al Congresso e ai singoli Stati degli Usa la necessità di eliminare questo flagello. “Ha difeso la vita con coraggio e sarà ricordato per questo”, afferma Patrick Boylan, portavoce degli attivisti e autore del libro Free Assange edito da Left. “E se grazierà Julian Assange, sarà ricordato anche come chi ha difeso con coraggio la libertà di parola e la libertà di stampa”. #PardonAssange mr. president Biden!