La strada verso “carceri psichiatrizzate” sembra senza ritorno di David Allegranti La Nazione, 12 gennaio 2025 Il 2025 è appena iniziato, ma ci sono già stati sette suicidi nelle carceri italiane, riferisce Ristretti Orizzonti. Uno di questi nel famigerato carcere di Sollicciano. Pochi giorni fa un detenuto di 25 anni, prossimo a compierne 26, si è tolto la vita. Era affetto da disturbo mentale. Adesso è ricominciata la solita discussione sull’abbattimento del carcere fiorentino. Nessuno però sembra tenere conto del fatto che le carceri sono già sovraffollate e non si capisce dove andrebbero i 527 detenuti attualmente presenti a Sollicciano. Quanto tempo ci vorrebbe per costruire un nuovo istituto penitenziario? Intanto si potrebbe iniziare a pensare, come nota regolarmente il professor Emilio Santoro, che la sofferenza psichiatrica non può e non deve essere curata nei luoghi di detenzione. Dunque che cosa ci faceva in carcere il giovane che si è appena tolto la vita a Firenze? Niente. Non era il posto per lui, non doveva stare lì. Nonostante la Corte costituzionale abbia detto che la detenzione domiciliare può essere eseguita presso i luoghi di cura, in carcere sono state organizzate le Articolazioni per la tutela della salute mentale, con un compito quasi impossibile: curare il disagio psichico, soprattutto nelle forme più acute, in un luogo di espiazione di pena. “Un ossimoro”, dice Antigone nel suo ultimo rapporto, nella sezione carcere e salute mentale. “Quelle Articolazioni rispondono però ad un ‘bisogno’ profondo e radicato della cultura psichiatrica e penitenziaria, soprattutto in epoca di risorse scarse. ‘Dove lo metto?’ è la domanda che cela infatti l’urgenza e la continua necessità di trovare una collocazione fisica dove la persona ‘non rechi danno a sé e agli altri’, un luogo sicuro. Una domanda che mette in secondo e terzo piano, i bisogni della persona”. E così, secondo i dati del Garante nazionale delle Persone private della libertà nel 2022 sono 247 persone, 232 uomini e 15 donne, le persone ospitate nelle 32 Articolazioni per la tutela della salute mentale italiane, collocate in 17 istituti penitenziari. “Ingenuamente ci si potrebbe chiedere perché se questi sono i numeri dei pazienti psichiatrici acuti in carcere (meno di 300 persone), il tema della salute mentale in carcere è così sentito e diffuso. I numeri non giustificherebbero quelle preoccupazioni, più o meno velate, espresse dagli operatori nel corso delle visite”, osserva Antigone: “La risposta è che in realtà le articolazioni per la tutela della salute mentale affrontano solo una piccola parte del problema, ma non fotografano affatto il disagio mentale diffuso nelle ‘altre’ sezioni detentive, né l’evidente tendenza alla psichiatrizzazione degli spazi detentivi. Dalla nostra diretta rilevazione nel corso del 2022 emerge che le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano 9,2 (quasi il 10%)”. Accanto ai numeri delle persone con una diagnosi medicalmente definita, “vi sono il 20% (percentuale doppia ai detenuti con diagnosi) dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici”. Si tratta di numeri rilevanti, “che indicano che la strada verso ‘carceri psichiatrizzate’ sembra senza ritorno”, dice ancora Antigone. Per questo, il dibattito sull’abbattimento di Sollicciano appare superficiale e fuori fuoco. Una fabbrica di devianza e di morte di Paola Cigarini e Piergiorgio Vincenzi* toukibouki.it, 12 gennaio 2025 È il terzo in pochi giorni che toglie il disturbo nel carcere di Modena. Non un ragazzo questa volta, ma un uomo con la sua disperazione e la sua responsabilità. È tempo di guardare quello che succede in quel mondo, anche negli angoli bui, non illuminati da rapporti umani ragionevoli. È tempo ora. Poco prima di Natale noi volontari del “Gruppo Carcere-Città” abbiamo percorso i corridoi del carcere di S. Anna e ci siamo affacciati in ogni cella per dare una fetta di panettone, qualche cioccolatino e il nostro augurio di Buon Natale ad ogni persona detenuta. Erano per lo più sdraiati sulle brande, in silenzio, spesso al buio. Qualche volta avevano richieste da fare a cui noi volontari non potevamo dare risposte. Più spesso mostravano la meraviglia che anche lì potesse arrivare un saluto, un dolce. È un mondo che noi conosciamo, ma dopo una settimana, alla fine del percorso, l’angoscia ha attaccato anche noi. In una cella buia abbiamo chiesto ai ragazzi che l’abitavano perché rimanevano al buio. Uno di loro ha risposto con ironia: “Se accendiamo la luce si vede di più il brutto che abbiamo attorno”. E siamo qui adesso a chiederci cosa fare, come rispondere alla disperazione di quel luogo. È Modena anche quella, come il mercato, le banche, il duomo, il comune, le piazze. Ha un suo ruolo, un compito da svolgere ed è un compito importante. Quello della vendetta? Ma basta la vendetta? Basta il castigo che dovrebbe diventare insegnamento attraverso l’afflizione e il dolore? Non si vede come in questo modo, con questa logica, il carcere diventi sempre più un istituto che genera violenza, sia criminogeno e non riesca a proteggere né le persone detenute, né le persone in divisa, né quindi, in ultima analisi, la società? È a questa pena che affidiamo la nostra sicurezza? Davanti ad una situazione straordinaria diventata però tristemente ordinaria, costellata da rivolte, suicidi, insofferenze, stati patologici non curati, non appare possibile voltare gli occhi da un’altra parte. Occorre una riforma organica, completa, che sappia toccare ogni ingranaggio difettoso, ogni polmone in apnea dell’intero circuito penitenziario. Non si può più aspettare. Dobbiamo crederlo, chiederlo, pretenderlo noi, cittadini e voi politici. E non è un discorso di clemenza, umanità o buonismo, ma di coraggio per la nostra sicurezza, per la nostra comunità, perché possa essere capace di seminare segni di speranza per tutti, oltre il pessimismo, la rassegnazione, la stanchezza che spesso incontriamo anche in noi stessi. Il “Gruppo Carcere-Città” ha sempre sostenuto l’idea del carcere come “extrema ratio”, per chi non può essere fermato in altro modo e si è espresso a favore di una giustizia di Comunità con pene conciliative o riconciliative che possano coinvolgere anche la vittima del reato. Pene che facciano leva sulla capacità delle persone di fare scelte diverse da quelle che le hanno portate a delinquere. Se non ora, quando? *Associazione “Gruppo Carcere-Città” Tajani sul 41-bis: “La pena è privazione della libertà, non mortificazione della dignità” di Marco Mintillo gaeta.it, 12 gennaio 2025 Antonio Tajani sottolinea l’importanza di un approccio equilibrato nella giustizia penale, evidenziando la necessità di rispettare la dignità dei detenuti e promuovere il recupero anziché l’umiliazione. La questione della giustizia penale e del trattamento dei detenuti è tornata sotto i riflettori grazie alle recenti dichiarazioni di Antonio Tajani, esponente di Forza Italia. Durante l’evento “Azzurri in vetta”, Tajani ha espresso una visione equilibrata rispetto alla carcerazione e alle misure restrittive come il 41bis, evidenziando l’importanza di mantenere sempre al centro la dignità dell’individuo. Le sue affermazioni pongono l’accento su un aspetto cruciale: la pena, pur essendo la privazione della libertà, non deve essere pensata come una forma di umiliazione o annullamento della personalità del detenuto. Il 41bis e il diritto alla dignità - Il regime del 41bis è un provvedimento adottato in Italia per la gestione di detenuti ritenuti pericolosi, coinvolti in organizzazioni mafiose o criminali. Tajani ha affermato di non essere contrario a questa misura, ma ha evidenziato che essa non deve trasformarsi in un mezzo di degradazione. La finalità del sistema carcerario dovrebbe essere il recupero e la riabilitazione, piuttosto che il solo isolamento. La carcerazione non deve spingere i detenuti a uno stato di rabbia o amaro risentimento, poiché ciò non favorisce il loro reinserimento sociale. Il discorso di Tajani invita a riflettere sul delicato equilibrio tra sicurezza e umanità, sottolineando come un’applicazione eccessivamente severa delle misure possa avere effetti controproducenti. Se da un lato è fondamentale garantire la sicurezza della società, dall’altro è altrettanto vitale preservare il rispetto per i diritti umani, anche all’interno di un contesto carcerario. Considerazioni sulla carcerazione preventiva - La dichiarazione di Tajani si è estesa anche alla carcerazione preventiva. Il politico ha sostenuto che la detenzione anticipata non deve essere vista come uno strumento per costringere le persone a confessare, ma piuttosto come una misura per prevenire la reiterazione di comportamenti delittuosi. Questa posizione si basa sulle statistiche che evidenziano come una parte significativa dei soggetti in custodia cautelare risultino poi innocenti al termine del processo. Con il 50% dei processati che viene assolto, emerge l’urgenza di riformare il sistema carcerario al fine di evitare misure drastiche verso chi potrebbe risultare innocente. La custodia cautelare deve essere strettamente necessaria e giustificata, per evitare una condizione di penalizzazione che, in molti casi, risulta ingiusta. La proposta di un approccio più ponderato nella gestione della carcerazione preventiva mira a tutelare l’equilibrio tra l’interesse pubblico alla sicurezza e la salvaguardia dei diritti individuali. Un messaggio di riforma - Le parole di Antonio Tajani servono da chiaro segnale per un necessario dibattito sulla giustizia penale in Italia. Si tratta di un invito a ripensare alle modalità di applicazione delle pene, con particolare attenzione al rispetto della dignità umana. Questo messaggio non deve essere interpretato come un invito al lassismo, bensì come un richiamo all’importanza di garantire che ogni punizione sia proporzionata e giusta, comprendendo che la vera penalità deve mirare anche alla riabilitazione dell’individuo. La necessità di segnali chiari da parte delle istituzioni rappresenta un passo fondamentale per affrontare il tema della giustizia in maniera costruttiva e umana. Riformulare le politiche carcerarie sarà cruciale per affrontare le sfide odierne, favorendo un sistema che rispetti i diritti di ciascuno, anche all’interno di un contesto di privazione della libertà, come previsto dalla legge. I nodi per la Consulta: la donna e “tecnica” c’è, ma è scontro nel Pd di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 gennaio 2025 Testa a testa Sisto-Zanettin, col ruolo inedito del ministro Pichetto e Bernini. Schlein vuole Pertici, il partito Luciani. Mastroiacovo nome super partes. La seduta è convocata per il 14 gennaio. La confusione è ancora grande sotto il cielo ma, come sempre in caso di nomine di peso, gli astri si allineano sempre nell’ultimo momento utile. Così dovrebbe essere anche per l’elezione dei giudici costituzionali mancanti, ormai lievitati fino a quattro, che il parlamento in seduta comune è chiamato a indicare nella seduta di martedì 14 gennaio e dopo ben dodici scrutini andati a vuoto. A dimostrazione di questo, la Consulta ha diramato un comunicato stampa in cui si spiega che l’attuale presidente facente funzioni Giovanni Amoroso ha posticipato dal 13 al 20 gennaio la camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità del referendum sull’autonomia, “considerata la convocazione per l’elezione dei giudici”. Del resto il tempo è ormai abbondantemente scaduto, come anche la pazienza del Quirinale e degli stessi giudici costituzionali ormai ridotti a 11, col risultato che se solo uno si prendesse un malanno di stagione i lavori del collegio andrebbero sospesi. Eppure, dentro e soprattutto fuori dal parlamento è ancora tutto un turbinio di telefonate per trovare la quaterna che otterrà i tre quinti dei voti necessari per sedere a palazzo della Consulta. Gli incarichi sono di prestigio e fanno gola a molti, per questo una soluzione ancora non si è trovata. Da una parte la premier Giorgia Meloni ha provato a forzare, imponendo il nome dell’autore della riforma del premierato, Francesco Saverio Marini; dall’altra il Pd è riuscito a sabotare il tentativo ma non a mettere sul tavolo una soluzione di compromesso. La composizione - Attualmente l’accordo sui numeri è chiaro: due nomi spettano alla maggioranza, uno all’opposizione e uno dovrà essere tecnico. Tra tutti - secondo i desiderata del Colle - uno dovrebbe essere femminile, per sostituire l’ex presidente Silvana Sciarra. La spartizione da manuale Cencelli ha fatto inorridire i costituzionalisti (“una frode”, l’ha definita il costituzionalista Andrea Pugiotto, perché “l’imparzialità della carica deve apparire tale fin dalla designazione”) anche perché l’attesa per la nomina “a pacchetto” crea un precedente, visto che i quattro nominati scadranno nella stessa data, riconsegnando al parlamento la stessa possibilità spartitoria tra nove anni. Non ha però stupito chi conosce le difficoltà di questa fase politica. Il fronte più teso è quello dentro i dem. Molti parlano, nessuno offre certezze se non una: “La pratica ora è in mano alla segretaria”. E Elly Schlein ad oggi sarebbe ancora ferma sul costituzionalista toscano Andrea Pertici che - secondo qualche collega - starebbe lavorando per darle ogni rassicurazione sulla bontà della scelta. Tuttavia, la segretaria è cosciente di come il gradimento interno sul nome sia basso. “Così Schlein rischia di rimanere con il cerino in mano”, dice un membro di peso dell’assemblea dem. Questo perché è ormai noto che Pertici non solo non convince il Pd, ma non trova nemmeno sponda nelle altre opposizioni. Ha il neo di aver difeso davanti alla Consulta la procura di Firenze nel conflitto di attribuzioni per le intercettazioni su Matteo Renzi e questo lo rende indigeribile per Italia Viva, ma anche Cinque stelle e Azione sarebbero più che scettici su un nome che porta solo il marchio della segretaria dem. Per questo filtrano altri due profili di area: quello del professore ed l’ex parlamentare Stefano Ceccanti e dell’ex presidente dell’associazione dei costituzionalisti, Massimo Luciani, che gode di molta stima nel partito e sarebbe il nome preferito. La questione, però, è anche far convergere almeno una parte delle opposizioni per raggiungere i tre quinti e un nome che sta crescendo è quello della avvocata generale dello Stato, Gabriella Palmieri Sandulli, che non dispiace al Movimento. Sul fronte del centrodestra, chi segue il dossier ha spiegato che i giochi si stanno chiudendo. Questo lo scenario: la Lega nulla ha di che pretendere perché già ha un giudice di riferimento in Luca Antonini, FdI invece è decisa su Marini. Il secondo nome, in quota Forza Italia, è più problematico e si confrontano due nomi: l’avvocato veneto Pierantonio Zanettin contro il barese e viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Il primo è favorito soprattutto da incastri parlamentari”, spiega una fonte azzurra, perché libererebbe un collegio plurinominale e al suo posto tornerebbe l’ex senatrice Roberta Toffanin, attualmente consulente del ministro Gilberto Pichetto Fratin, che per questo preme in favore di questa soluzione insieme alla collega Anna Maria Bernini, anche lei legata a Toffanin. “Ma in ballo ci sia un ruolo di rilevanza costituzionale”, viene fatto notare dalla parte più critica del partito, che sta facendo pressioni in questo senso su Antonio Tajani, cui spetta l’ultima parola. Sisto, infatti, è considerato uno dei profili più preparati ed è del Sud, sottorappresentato per ruoli in FI. Non solo, per integrare il collegio della Corte sarebbe utile un penalista di esperienza - cosa che Sisto è - mentre Zanettin si occupa di civile. Il contrasto interno è forte: chi sostiene Zanettin spiega che muovere Sisto dal governo sarebbe infattibile, gli altri alzano le spalle: “Viene detto solo per bruciarlo, altrimenti il discorso avrebbe dovuto valere anche per Raffaele Fitto?”. Per ora i due continuano ad essere testa a testa e l’ultima parola spetterà al vicepremier e segretario Antonio Tajani. Apparentemente risolto, invece, è il nome su cui convergono sia la quota tecnica che quella di genere. Dopo il tramonto di Renato Balduzzi a causa di suoi incarichi nel governo Monti, a spuntare è stata la professoressa di Diritto tributario di Foggia, Valeria Mastroiacovo. “Il suo potrebbe essere il nome giusto”, si sbilancia un informato esponente di maggioranza. Vicina ad ambienti cattolici, nessun incarico politico alle spalle, il suo profilo è stato segnalato dal Pd e validato dalla Lega, visto che dal 2018 è assistente di studio di Antonini presso la Corte. Finché il nome non finirà nell’urna, però, il condizionale è d’obbligo. Nella gran confusione, quindi, un ordine si sta iniziando a trovare e le ultime ore saranno decisive: il voto è a scrutinio segreto e l’accordo deve essere blindato, con un margine numerico a prova di franchi tiratori. Non si ferma la resistenza contro il Ddl Sicurezza di Michele Gambirasi Il Manifesto, 12 gennaio 2025 Ieri una tavola rotonda, oggi a Roma l’assemblea nazionale della Rete “A pieno regime”. Gaetano Azzariti, presidente di Salviamo la Costituzione: “Non è solo una legge, è il manifesto di una mentalità autoritaria. Va con le altre riforme del governo: premierato, magistratura, autonomia”. Martedì riprenderà al Senato la corsa del disegno di legge “sicurezza”. Le commissioni riunite affari costituzionali e giustizia ricominceranno questa settimana l’esame del testo, fermo dal 18 dicembre alle votazioni degli emendamenti sull’articolo 14, quello relativo ai blocchi stradali, studiato ad hoc per colpire attivisti ambientalisti e lavoratori in sciopero che picchettano davanti le fabbriche e i luoghi di lavoro. Se l’approvazione dei primi articoli è stata relativamente agile, è adesso che la partita per la maggioranza si fa più ostica: ci sono centinaia gli emendamenti presentati dalle opposizioni e le norme da esaminare sono quelle più critiche. Meloni e soci speravano di incassare il sì del Senato già a dicembre, ma il meccanismo si è inceppato da più parti, tra i mugugni del Colle e del Consiglio d’Europa, le manifestazioni della società civile e l’ostruzionismo parlamentare. Doveva slittare a fine gennaio, ora per l’aula se ne parlerà almeno a marzo. Alla ripresa dei lavori parlamentari si accompagna però anche il rilancio dell’opposizione al disegno di legge. La rete nazionale “A pieno regime”, che il 14 dicembre ha portato a Roma centomila persone in piazza del Popolo, ha convocato per questo finesettimana una due giorni nella capitale, nella sede nazionale dell’Arci, per organizzare la mobilitazione. Ieri c’è stata una tavola rotonda per analizzare i profili critici del testo, ma anche il suo significato profondo nei mutamenti globali che le destre di tutto il pianeta stanno imponendo ai sistemi politici, con interventi, tra gli altri, di Gaetano Azzariti, Silvia Albano, Alessandra Algostino e Patrizio Gonnella, che si sono confrontati con gli attivisti che lo scorso 14 dicembre hanno riempito piazza del Popolo, a Roma, per protestare contro il Ddl. Oggi è il momento dell’assemblea nazionale. All’ordine del giorno i prossimi passi, che nel breve periodo dovrebbero essere due. Il 17 gennaio Amnesty è pronta ad organizzare fiaccolate in tutto il paese, davanti a Palazzo Madama a Roma e di fronte alle prefetture nelle altre città. Poi a inizio febbraio, dal 3 al 5, sarà il momento di volare a Bruxelles, per portare il duello al manifesto securitario nel cuore dell’Unione, con una conferenza stampa con i gruppi della sinistra nel Parlamento europeo. Intanto ci si continua a preparare per una nuova grande manifestazione, che circondi il Senato il giorno della votazione. Lo slittamento dell’approvazione è il primo risultato della rete e delle opposizioni parlamentari, il cui obiettivo rimane uno e il più ambizioso: arrivare al ritiro definitivo della legge. Il ddl d’altronde non è solo un giro di vite della destra alla repressione del dissenso. È, come ha chiarito ieri nel corso della tavola rotonda Gaetano Azzariti presidente di Salviamo la Costituzione, “un manifesto, l’idea di democrazia che riflette una mentalità autoritaria frutto del diradarsi della dimensione democratica pluralista”. È il precipitato di due anni di “leggi melonissime” iniziate con il decreto Rave appena dopo il giuramento dell’esecutivo e transitate fino alle zone rosse di pochi gironi fa, la quarta gamba della controriforma in salsa ungherese che il governo sta mettendo in campo per l’Italia, assieme a premierato, separazione delle carriere e autonomia differenziata. Alessandra Algostino del controsservatorio No Tav ha definito la legge “eversiva per la democrazia”, la dimostrazione “dell’abbraccio mortale tra autoritarismo e capitalismo, il cui legame è riunito plasticamente da Musk. Vogliono colpire il trittico di poveri, migranti e dissenzienti”. La stretta sulla magistratura in atto è stata evidenziata da Silvia Albano, presidente di Magistratura Democratica, che dal 2 novembre è sotto protezione rafforzata per le minacce ricevute dopo non aver convalidato i trattenimenti dei migranti trasferiti in Albania. “C’è un forte ingresso di nuovi giovani magistrati, perché siamo sotto organico. Quando li vedo hanno paura, hanno timore delle diffide, di non avere indipendenza” dice. La battaglia è destinata a intensificarsi fino all’approvazione. Si vocifera di cambiamenti: sulle restrizioni per le Sim ai migranti esu i bambini in carcere. E se anche il ddl dovesse passare, si aprirà, dice Patrizio Gonnella di Antigone, la fase dei ricorsi e delle sentenze. Che potrebbero smontare la legge pezzo per pezzo. Caso Ramy, quando la forza è il rovescio del diritto di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 12 gennaio 2025 È molto grave quello che si vede e si sente nei filmati adesso disponibili sulla morte di Ramy Elgaml, avvenuta il 24 novembre scorso a Milano dopo un inseguimento durato circa venti minuti da parte dei carabinieri. Com’è noto, Ramy era su uno scooter con un amico, i due non si erano fermati all’alt, i carabinieri inseguivano su due macchine. Si vedono appunto delle immagini di questo inseguimento per le strade della città, anche in contromano. Si sente la voce dei carabinieri dire cose come: “Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade; no, merda, non è caduto”. Si vede (o quantomeno sembra di vedere) che alla fine lo scooter viene effettivamente tamponato da una delle due macchine; e si capisce (o quantomeno sembra di capire) che è questo tamponamento a portare lo scooter a sbattere contro il semaforo (provocando la morte di Ramy). Si sente la voce dei carabinieri dire “sono caduti”, e un’altra voce rispondere “bene”. Cosa ne emerge? In primo luogo l’indifferenza dei carabinieri rispetto al pericolo verso altre persone che quell’inseguimento poteva provocare (era notte, d’accordo, ma anche di notte è possibile che delle persone attraversino le strade). In secondo luogo l’intenzione deliberata di far cadere lo scooter su cui viaggiavano Ramy e il suo amico, accettando l’idea che la caduta potesse provocare la loro morte. E non sono gravissimi in quanto tali, questi dati? Non sono, quelli dei carabinieri, comportamenti contrari a qualunque elementare norma di misura, di equilibrio? Non è proprio questo - il rispetto della misura, dell’equilibrio - che dovrebbe connotare il comportamento di tutti, ivi incluse le forze dell’ordine, e ciò che tutti ci aspettiamo dagli altri con i quali entriamo in relazione, a maggior ragione quando gli altri siano le forze dell’ordine? È accettabile, in uno Stato di diritto, che sia proprio lo Stato, di cui le forze dell’ordine sono espressione, ad assumere comportamenti improntati alla violenza, nella quale la dismisura si traduce, in sé stessi e nelle conseguenze finali che producono? Si dirà (come si è già detto): il pericolo non è stato generato dai carabinieri, ma da Ramy e dal suo amico; chi non si ferma a un posto di blocco va inseguito e basta; i carabinieri hanno solo fatto il loro dovere; il rischio riguardava i carabinieri stessi per primi. Ma questo è un argomento che presuppone la commensurabilità dei comportamenti in gioco (quello di Ramy e del suo amico, da una parte, e quello dei carabinieri dall’altra), sul presupposto che si tratti di comportamenti valutabili alla luce di un medesimo parametro. E da questo punto di vista non c’è dubbio: nel momento esatto in cui non si sono fermati all’alt, Ramy e il suo amico si sono posti al di fuori della legge, legittimando una reazione dei carabinieri. Ma la situazione non poteva giustificare una reazione che contemplasse la morte, di Ramy e del suo amico o di altri, come sua possibile conseguenza. E questa è una considerazione che sarebbe sufficiente anche da sola: come potremmo ammettere che una vita valga meno del rispetto di un alt? Ramy e il suo amico potevano essere chiunque, due criminali come due ragazzini che avevano paura di dover rendere conto ai genitori di aver bevuto un po’: la reazione dei carabinieri è stata assunta, di per sé, semplicemente a fronte del mancato rispetto di quell’alt. Ma comunque non è solo questo. Il fatto, ancora più in generale, è che il comportamento di chi si pone fuori dal diritto e dalla legge, e che in questo modo se ne svincola, non può mai essere interpretato e valutato alla stessa stregua di quello dello Stato, che alle ragioni del diritto e della legge dovrebbe rimanere sempre e per definizione vincolato: e questa è un’evidenza perfino epistemologica, anche a prescindere dagli elementi del caso concreto. Negarla equivarrebbe tout court ad ammettere il rovesciamento del diritto e della legge nel loro contrario: non più strumenti di contenimento della forza, funzionali al rispetto della misura, ma strumenti di forza smisurata a loro volta, svilimento di sé stessi. È un rovesciamento al quale troppo spesso, e sempre di più, siamo costretti ad assistere, ormai quasi quotidianamente. Non si tratta, sia chiaro, di puntare il dito contro le forze dell’ordine o di mancare di gratitudine verso coloro che le rappresentano. Semmai è proprio il doveroso riconoscimento dell’alto valore dei compiti svolti dalle forze dell’ordine a richiedere che i problemi vengano affrontati, come ha scritto Roberto Cornelli in un suo importante saggio su questi temi (La forza di polizia), “con strumenti e sguardi capaci di andare oltre lo scandalo e l’indignazione, da un lato, l’imbarazzo e le difese d’ufficio, dall’altro”. Roma, scontri al corteo per Ramy. L’ira di Meloni: “Disordine e caos, opera dei soliti facinorosi” di Valeria Costantini Corriere della Sera, 12 gennaio 2025 Oltre 250 i partecipanti alla manifestazione per chiedere giustizia per il 19enne morto al Corvetto. Sugli striscioni: vendetta. Poliziotto colpito al volto. Il ministro dell’Interno Piantedosi:”Soggetti organizzati strumentalizzano ogni tema”. Morte di Ramy, la manifestazione a Roma: in corteo anche Zerocalcare. Fumogeni, bombe carta, poi la carica dei poliziotti. Bombe carta, fumogeni, lanci di bottiglie contro la polizia che risponde con cariche di contenimento. Momenti di tensione ieri a Roma durante il corteo “Giustizia per Ramy Elgaml”, il 19enne morto lo scorso 24 novembre al Corvetto, Milano, dopo esser stato investito da un’auto dei carabinieri alla fine di un inseguimento. La manifestazione nella Capitale, non preavvisata alla Questura, si stava svolgendo in concomitanza con le altre promosse dal Coordinamento Antirazzista italiano a Brescia, Bologna e Milano. Oltre 250 i manifestanti dei collettivi autonomi e gruppi studenteschi che si erano riuniti in serata in piazza dell’Immacolata nel quartiere San Lorenzo: “Vendetta per Ramy, la polizia uccide”, “Giustizia per Ramy, ma quale sicurezza”, alcuni degli striscioni in testa al serpentone. All’inizio della protesta era presente anche il fumettista Zerocalcare. Quando il corteo è arrivato in Piazza dei Sanniti è esplosa la guerriglia. I manifestanti hanno iniziato a capovolgere i cassonetti della raccolta dei rifiuti, rompendo anche la vetrina della locale sede dell’Inps, per poi tentare di sfondare il cordone di agenti in tenuta antisommossa, che stavano contenendo la protesta. Otto agenti feriti - Ci sono stati lanci di bombe carta, petardi, bottiglie di vetro e fumogeni contro le camionette della polizia, ad una è stato spaccato il vetro blindato. A quel punto è scattata più di una carica di contenimento da parte della polizia. Sono stati lunghi minuti di tensione, con diversi contatti tra le fazioni, poi i manifestanti si sono ricompattati ed hanno proseguito il corteo lungo le strade di San Lorenzo, imbrattando le mura del quartiere con scritte che chiedevano giustizia per Ramy. Otto gli agenti contusi, che sono dovuti ricorrere alle cure in ospedale: uno in particolare, è stato ferito al volto dall’esplosione di una bomba carta, come ha riportato Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di polizia. Coisp. “L’uso di bombe carta, fumogeni e l’attacco deliberato alle camionette della polizia non è altro che una vile aggressione contro lo Stato e chi lo rappresenta” le sue parole di condanna. Il video dell’inseguimento e le proteste - Su posizioni opposte Rifondazione Comunista. “Ancora una volta denunciamo e condanniamo le brutali cariche di polizia contro i manifestanti a Roma, presi a manganellate - afferma Giovanni Barbera, membro del comitato politico nazionale di Rifondazione Comunista. Al corteo erano presenti oltre 400 manifestanti, di cui gran parte giovanissimi. Troviamo sinceramente inaccettabile la reazione delle forze dell’ordine che ancora una volta, come ormai succede troppo spesso nelle manifestazioni di piazza, invece di garantire l’ordinato svolgimento dei cortei, ha inopinatamente deciso di intervenire, caricando brutalmente i manifestanti”. Le proteste sono divampate dopo la pubblicazione del video della telecamera in dotazione alla volante dell’Arma che avrebbe impattato contro il motorino su cui viaggiava Ramy. Immagini che hanno indignato i familiari del ragazzo che chiedono giustizia e verità ma più volte hanno inviato i manifestanti alla calma: “La violenza non è la risposta”, hanno detto. La premier: “Disordine e caos a opera dei soliti facinorosi” - Su Facebook, domenica mattina lintervento della premier Giorgia Meloni: “Tra bombe carta, fumogeni e aggressioni, ieri sera a Roma abbiamo assistito all’ennesimo, ignobile episodio di disordine e caos ad opera dei soliti facinorosi scesi in piazza non per manifestare per una causa, bensì per puro spirito vendicativo. Non si può utilizzare una tragedia per legittimare la violenza. Alle forze dell’ordine va la nostra solidarietà, insieme agli auguri di pronta guarigione agli agenti feriti. Siamo dalla vostra parte”. Piantedosi: violenze da condannare - Nell’immediato, era intervenuto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: “I disordini e gli attacchi alle forze di polizia che negli ultimi due giorni si sono verificati in varie città italiane dimostrano, ancora una volta, l’esistenza e la pericolosità di soggetti organizzati che strumentalizzano ogni tema, fatto o episodio, perfino una dolorosa tragedia come quella del giovane Ramy, soltanto per seminare violenza - ha detto il ministro dell’Interno condannando le violenze contro gli agenti a Roma -. In un Paese maturo e avanzato come il nostro dovrebbe essere parte di una cultura condivisa la consapevolezza che non fermarsi a un alt delle Forze dell’Ordine o cercare il confronto violento con chi rappresenta lo Stato non è solo una grave violazione della legge, ma è anche un comportamento pericoloso per sé e per gli altri, che mina la sicurezza dei cittadini e la convivenza civile. Chi non parte da queste considerazioni rischia irresponsabilmente di alimentare l’idea che tali condotte siano talvolta giustificabili e che possano essere messe sullo stesso piano dell’impegno di poliziotti o carabinieri, spesso costretti a operare in momenti e situazioni difficili e concitate, anche a rischio della loro stessa incolumità”. Modena. Sciopero degli avvocati dopo tre morti in carcere di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 12 gennaio 2025 A seguito delle morti registrate “nel breve volgere di appena otto giorni” di tre detenuti nel carcere Sant’Anna di Modena, due delle quali causate da inalazione di gas, il consiglio direttivo della Camera penale di Modena “Carl’Alberto Perroux” ha deciso di proclamare “l’astensione collettiva dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale degli avvocati impegnati innanzi al tribunale di Modena, agli uffici giudiziari circondariali di Modena e l’ufficio del Giudice di Pace, e la programmazione di manifestazioni e iniziative politiche nella giornata del 24 gennaio” si legge in una nota dei penalisti modenesi. A giudizio della Camera penale emiliana, “pare evidente una stretta relazione tra i tre recenti episodi, che devono essere necessariamente letti anche alla luce del più ampio quadro di disagio nel quale versa la casa circondariale modenese, nella quale s’erano registrati ben 40 casi di tentato suicidio nel periodo 24 luglio 2023 - 4 luglio 2024, come riportato nella relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena”. Inoltre, “non può non evidenziarsi come questi ultimi decessi seguano di pochi anni ai drammatici eventi del marzo 2020, quando in conseguenza dei fatti avvenuti presso il carcere di Sant’Anna avevano perso la vita nove detenuti”. I fatti accaduti nei giorni scorsi, puntualizzano i penalisti, “rappresentano solamente il picco delle condizioni inumane e degradanti in cui versano gli istituti di pena italiani ed il frutto di politiche carcerocentriche che paiono purtroppo insuperabili nell’attuale assetto parlamentare”. E domani mattina i parlamentari modenesi del Pd Stefano Vaccari, Maria Cecilia Guerra ed Enza Rando, insieme alla vicesindaca Francesca Maletti, faranno una visita alla casa circondariale Sant’Anna. “Una situazione grave e intollerabile, sia nel caso di tentativi riusciti di suicidio che di tragiche fatalità” scrivono. “Le condizioni di vita delle persone detenute devono corrispondere ai criteri di dignità della persona, nell’ottica sia del rispetto dei diritti umani, che della funzione rieducativa della pena. Le notizie che arrivano dal carcere di Modena fanno pensare a una situazione fuori controllo”. Modena. Andrea Paltrinieri fu aggredito da altri detenuti e ricoverato al Policlinico di Daniele Montanari Gazzetta di Modena, 12 gennaio 2025 Andrea Paltrinieri aveva subito una grave aggressione in carcere la scorsa estate, che l’aveva condotto in ospedale. E questo una volta di più testimonia delle condizioni difficili in cui stava vivendo al Sant’Anna di Modena. Lui, come gli altri detenuti. L’ingegnere 49enne è stato trovato morto martedì 7 gennaio nella sua cella per inalazione del gas di una delle bombolette per scaldare cibo e bevande. Un gesto che, nella sua dinamica, è apparso inequivocabilmente suicida. Ma la sua condizione di forte sofferenza in carcere si era manifestata già poco dopo il suo ingresso. L’aggressione - Paltrinieri era finito in carcere subito dopo l’episodio choc della sera del 10 giugno 2024, quando si presentò davanti al Comando provinciale dei carabinieri con un furgone in cui aveva messo il cadavere della moglie Anna Sviridenko, dottoressa 41enne di origini bielorusse, strangolata. Venne subito arrestato per omicidio aggravato. All’interno del Sant’Anna per lui sono emersi ben presto problemi di convivenza. Sfociati quest’estate in una brutale aggressione, non ancora chiaro se da parte di uno o più detenuti. Sta di fatto che Paltrinieri riportò gravi lesioni al volto, serie a tal punto da richiedere un ricovero al Policlinico di Modena nel reparto di chirurgia maxillo facciale. Un ricovero di diversi giorni che ha richiesto terapie specifiche. Il decorso è stato positivo, e rientrata la fase di crisi l’uomo è stato ovviamente ricondotto in carcere, per il proseguimento del periodo di custodia cautelare legato alla gravissima accusa di femminicidio. A rischio suicidio - A quanto è dato sapere, Paltrinieri successivamente non ha subito altri gravi episodi di aggressione. Ma la sua convivenza all’interno del carcere ha continuato ad essere molto problematica. Così problematica che in autunno i suoi avvocati, Carla Manzini e Domenico Giovanardi, si sono seriamente preoccupati per le sue condizioni. Temevano in sostanza che potesse fare gesti autolesionisti. Lo conferma la delibera con cui ieri la Camera penale di Modena (Carl’Alberto Perroux) ha proclamato per il 24 gennaio un giorno di astensione dall’attività giudiziaria, da parte degli avvocati, per le tre morti registrate al Sant’Anna nel giro di otto giorni. Nel documento, sul caso di Paltrinieri è evidenziato che a fine novembre i suoi legali avevano depositato “una valutazione tecnica a doppia firma attestante una condizione di particolare fragilità e di potenziale rischio suicidario”. Rischio che purtroppo si è tramutato in tragedia reale. Tre morti in una settimana - Al Sant’Anna si è registrata il 31 dicembre la morte di un 37enne macedone e il 4 gennaio di un 29enne marocchino. Poi, il 7 gennaio, di Paltrinieri. “Pare evidente una stretta relazione tra i tre episodi - sottolinea l’avvocato Roberto Ricco, presidente della Camera penale - che devono essere necessariamente letti anche alla luce del più ampio quadro di disagio nel quale versa la casa circondariale modenese”. Da qui l’astensione, per denunciare una volta di più “le condizioni inumane e degradanti in cui versano gli istituti di pena italiani”. Ancona. Polveriera Montacuto. “Sovraffollamento ma non solo: mancano medici e agenti” di Giacomo Giampieri Il Resto del Carlino, 12 gennaio 2025 Il Garante regionale dei detenuti, l’avvocato Giancarlo Giulianelli: “In quel carcere non si possono gestire casi psichiatrici come quello che si è reso responsabile del getto dell’acido, gli servono cure”. Apre “esprimendo solidarietà al personale di Polizia penitenziaria”, messaggio rivolto anche al comandante della casa circondariale di Montacuto Nicola De Filippis. Prosegue con una riflessione, dopo l’ultima violenta aggressione di un detenuto ad un poliziotto: “Il problema del sovraffollamento delle carceri è una concausa, cui si affiancano altre criticità come l’assenza del personale dell’area trattamentale, medici, psicologi e psichiatrici, nonché quella della carenza di personale di polizia. Situazioni che, se sommate, possono portare le persone che hanno problematicità latenti o palesi ad episodi esecrabili nei confronti della Polizia penitenziaria”. Parole del garante regionale dei diritti Giancarlo Giulianelli, in seguito ai fatti che si sono consumati martedì nell’istituto penitenziario anconetano. L’uomo avrebbe prima gettato del liquido in faccia alla guardia, per poi colpirlo brutalmente con calci e pugni. Giulianelli, che si è subito attivato, chiarisce che “il detenuto che si è reso responsabile del gesto increscioso, è acclarato abbia necessità di cure psichiatriche”. Motivi per i quali, “all’interno di un carcere non è possibile gestire persone con problematiche di natura psichiatrica”. Il detenuto in effetti sarebbe stato poi trasferito a Marino del Tronto, dov’è presente una struttura specializzata per gestire certe patologie. Ma la riflessione del garante si concentra soprattutto sull’urgenza “di prevedere un modo diverso di fare il carcere per questi soggetti” perché in molti casi “i trattamenti non sono idonei, poiché avrebbero necessità di essere curati, prima di essere detenuti”. In altre situazioni, invece, per Giulianelli sarebbe opportuno ragionare sulle “misure alternative” cui certa popolazione carceraria “potrebbe accedere”. E dettaglia: “Quando si parla di sovraffollamento o di ricorso eccessivo al carcere - dice - ricordo che serve come misura cautelare, sia come misura definitiva. Ma c’è un problema nazionale nell’attuazione dei provvedimenti, in quanto i numeri ci dicono che un 65 per cento delle persone detenute, tra definitivi e non, potrebbe accedere a misure alternative. Se in Italia ci sono circa 8mila persone in attesa di giudizio o cautelati da zero a tre mesi, va pensato qualcosa di diverso. Una buona metà di quel 65 per cento potrebbe accedere a misure alternative”. Secondo Giulianelli, “il Governo si è mosso con misure per la detenzione all’interno delle comunità che accolgono persone con problematiche di tossico dipendenza. Speriamo che quelle misure emanate possano comportare un maggiore e più veloce inserimento nelle comunità”. Quanto a Montacuto, le cronache hanno restituito l’immagine di un avvio di 2025 complesso, con un materasso dato a fuoco per protesta ma, ancora più preoccupante, l’aggressione di tre guardia nell’arco di cinque giorni. Rimini. La denuncia di Ivan nnocenti (Radicali): “In carcere situazione preoccupante” Il Resto del Carlino, 12 gennaio 2025 La visita ai Casetti: “Nella prima sezione ambienti malsani e celle con muffa”. All’inizio dell’anno, una delegazione del Partito Radicale, guidata da Ivan Innocenti e dal consigliere comunale di Rimini Giuliano Zamagni, ha visitato il carcere dei Casetti. L’incontro ha avuto l’obiettivo quello di monitorare le condizioni di vita all’interno dell’istituto penitenziario. I luoghi visitati sono la sezione uno, la sezione dei semiliberi e l’infermeria. “La sezione prima - spiega Innocenti in una nota - conferma il degrado e il luogo malsano in cui le persone detenute e il personale penitenziario sono ormai da lunghi anni costretti. Celle con muffe diffuse, angolo cottura e cucina accanto alla tazza del water, bagni senza docce e porte. Le docce in comune non funzionano, delle 5 presenti solo 2 sono considerate agibili per l’igiene personale e anche queste sono in condizioni non degne. L’AUSL già dal 2020 indica la prima sezione rischiosa per la salute di chi vi permane e non risolvibile con ordinaria manutenzione. Sono già stanziati due milioni di euro per la ristrutturazione dell’ala che comprende al primo piano la sezione uno e al piano terra la sezione sesta inagibile dal 2016 e in cui è prevista la realizzazione di uno spazio di lavoro nell’ambito della legge Smuraglia. L’inizio dei lavori da mesi è previsto imminente e le ultime indicazioni sono per gennaio, ma la direzione segnala che non sono state ancora date indicazioni per la gestione delle persone all’interno detenute e la preoccupazione è che se passa questo periodo invernale poi con l’avvicinarsi del periodo estivo per esigenze di carcerazione l’intervento possa slittare ancora”. Aggiunge Innocenti: “Utile è stato l’interessamento dei parlamentari Domenica Spinelli, Beatriz Colombo e Marco Croatti che a giugno si sono interessati degli stanziamenti dopo l’incontro con la direzione del carcere. Ora serve un ulteriore passo in avanti per la suzione di questa inumana situazione. Una sezione del carcere di Rimini è esterna al carcere stesso. Caso che ritengo unico nel nostro paese. È la sezione semiliberi. Si trova in un edificio confinante con la recinzione del carcere stesso. È un edificio che il comune di Rimini ha donato al carcere molti anni fa. In questa sezione sono detenute le persone semilibere, detenuti che svolgono attività lavorative all’esterno del carcere nella comunità dei liberi”. Livorno. La denuncia di Walter Verini: “Nel carcere degrado e invivibilità. Nordio si muova” gazzettadilivorno.it, 12 gennaio 2025 Walter Verini, senatore del Pd, dopo la visita al carcere di Livorno chiede al ministro Nordio di intervenire velocemente. “Stamattina ci siamo recati al carcere le Sughere di Livorno, accompagnati dal Segretario PD di Livorno Alessandro Franchi, dal dirigente Pd Emiliano Costagli, dal consigliere comunale Salvatore Nasca e dal Garante comunale dei detenuti Marco Solimano. E ringraziamo il direttore Renna e la comandante della Polizia penitenziaria Fiori per il lavoro che svolgono. Anche noi abbiamo visto cose molto gravi. Come hanno constatato in precedenti visite altri parlamentari Pd (Serracchiani, Gianassi, Simiani, Boldrini) accanto a problemi purtroppo comuni di tanti istituti (celle sovraffollate, mancanza personale di polizia) abbiamo toccato con mano le condizioni di assoluto degrado e invivibilità di spazi, celle, bagni”. “Umidità, muffa, locali inagibili per rischio crolli, cucinotti e fornelli attaccati ai wc, mancanza di acqua calda e docce nelle celle. - ha spiegato il senatore Verini - La sezione media sicurezza dovrebbe essere chiusa. E questo accade mentre ci sono due nuovi padiglioni terminati e ancora inagibili. Perché pare ci siano stati difetti nella progettazione e nell’esecuzione”. “Chiediamo al ministro Nordio, al sottosegretario Ostellari che pure è stato qui, un intervento immediato. Si convochi subito una conferenza di servizi. Si risolvano immediatamente i problemi che rendono ancora inagibili i due nuovi padiglioni. Questo potrebbe consentire di utilizzare questi nuovi spazi e gli attuali - civili - dell’Alta Sicurezza per una detenzione umana. Non c’è tempo da perdere. Noi stessi, meno di due anni fa, presentammo a Nordio una interrogazione su questo problema. Non c’è stata nessuna risposta. Ma oggi questa risposta deve venire. Ma adesso. Non tanto a noi, ma a chi vive e lavora in questi ambienti malsani, alla stessa comunità livornese che - con il Comune e tante associazioni - svolge un ruolo importante nella concezione di una pena che non sia vendetta, ma occasione di pagare un debito con la società, di rieducazione e reinserimento”, ha concluso Verini. Messina. Dal carcere al lavoro grazie ai bambini e all’ecologia di Alessandra Serio tempostretto.it, 12 gennaio 2025 Il progetto-corso della Green Life ha coinvolto la scuola Albino Luciani e offerto un’occupazione a tanti ex detenuti, che oggi hanno cambiato vita. Dai guai giudiziari al lavoro, dal carcere alla cura del verde, dalla criminalità a un impiego a tempo pieno. È questo il percorso che una quarantina di ex detenuti hanno portato a termine, ritrovandosi oggi impiegati nel settore prevalentemente della cura del verde ma non solo. Un progetto che ha riguardato circa 120 persone complessivamente tra Messina e Barcellona, finanziato dal Fondo sociale europeo e portato avanti dall’associazione Green Life, che ha curato i tirocini. Il progetto è stato autorizzato dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e realizzato in collaborazione con l’Uepe (l’Ufficio esecuzione penale esterna per le persone non detenute in carcere), E nel 2022 ha coinvolto anche la scuola Primo Molino del comprensivo Albino Luciani, dove alcuni degli ex detenuti si sono messi in gioco accanto a una ventina di bambini tra i 9 e i 10 anni. Insieme, ex detenuti e alunni, hanno imparato a piantare, coltivare, annaffiare, realizzare impianti di irrigazione, curare e raccogliere i frutti di orto, piante e alberi. “Eco è la parola chiave che ha dato il titolo al progetto - spiega Valentina Ricciardello, tutor per Green Life, presieduta da Alessandra Baio, al lavoro insieme al docente Domenico Manganaro - inteso nel doppio senso di ecologia e di eco di quel che il percorso ha voluto generare all’interno dei corsisti. Corsisti che hanno effettuato un percorso formativo di complessivamente 600 ore, ricevendo regolare attestato professionale finale, rilasciato dalla Regione siciliana. Abbiamo per esempio posto l’accento sull’humus, quello vero e quello “figurato”, personale: da qui il laboratorio di lombricologia, seguito da una parte dei corsisti”. Tra loro c’era anche Loretta (il nome è di fantasia), che ha raccontato la sua storia nell’articolo Dalla baracca all’arresto. Oggi Loretta ha un lavoro, una casa e una nuova vita. “Mi ci sono buttata a capofitto, sono tornata letteralmente sui banchi di scuola, mi ci sono messa d’impegno ad imparare e ho assorbito tutto come una spugna”, spiega Loretta. Ma anche altri ex detenuti che oggi hanno un lavoro in aziende pubbliche e private o che hanno intrapreso una strada diversa, comunque legata alla natura. Uno di loro, per esempio, gestisce ora un esercizio commerciale di frutta e verdura. Nessuno tra quelli che hanno portato a termine il corso, spiegano i responsabili, è poi tornato a incappare in guai con la giustizia. Tante le attività, teoriche e pratiche, affrontate dai corsisti. Per tutti loro però la parte più emozionante è stata l’esperienza con gli alunni della Primo Molino. L’istituto comprensivo guidato dalla dirigente Grazia Patanè (tra le docenti coordinatrici c’era la professoressa Mariella Gitto), sempre impegnato in progetti innovativi, è stato coinvolto con entusiasmo nel laboratorio della Green Life, offrendo gli spazi verdi e accompagnando i ragazzini al contatto con gli operatori del verde in formazione. Gli allievi della Primo Molino si sono sporcati le mani con gioia, imparando cosa vuol dire prendersi cura di una piantina, quanto sacrificio occorre e quanta soddisfazione rechi raccoglierne il frutto. Hanno compreso che spesso anche facendo del proprio meglio possono avvenire degli incidenti che danneggiano tutto, come un evento meteo estremo danneggia le colture per esempio. Ma che non bisogna mai arrendersi e occorre tornare a rimboccarsi le maniche, per tornare a vedere tutto fiorito. E che ci vuole tempo per tutto, come per la maturazione dei frutti. Così, accompagnati dai docenti, i ragazzini si sono accostati agli ex detenuti, comprendendo il loro vissuto ormai alle spalle. E hanno alimentato, con il proprio entusiasmo e l’affezione, la loro voglia di ricominciare. Particolarmente toccante l’esperienza di uno degli alunni, che proprio in quel periodo aveva il padre in carcere. Vercelli. Giulia Marro (Avs): “Carcere esempio rieducativo da seguire” di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 12 gennaio 2025 Prosegue l’impegno del gruppo consiliare Alleanza Verdi e Sinistra (AVS) nel monitorare le condizioni degli istituti penitenziari piemontesi. Con la visita al carcere di Vercelli sono 12 le carceri visitate dalle Consigliere, 11 quelle che la consigliera regionale Giulia Marro ha visitato personalmente dall’inizio del mandato, proseguendo nel percorso che la porterà nelle prossime settimane a completare un ciclo di sopralluoghi in tutte le carceri della regione. La visita ha rappresentato un’occasione preziosa per osservare da vicino un esempio concreto di come anche una casa di circondariale possa provare ad essere rieducativa, nonostante le inevitabili criticità strutturali che accomunano molti istituti. A Vercelli, tuttavia, si percepisce un’aria di solidarietà, motivazione e impegno, utili per rendere il lavoro e la vita quotidiana meno gravosi, per quanto possibile. Un clima positivo risultato del grande impegno del direttore Giovanni Rempiccia, in carica da fine 2023, e del lavoro sinergico delle diverse figure professionali che operano nella struttura, compresa quella del Garante comunale delle persone private di libertà Pietro Luca Oddo. Tra i dati più significativi emerge il fatto che negli ultimi tre anni non si è verificato alcun suicidio. Questo risultato è frutto di un programma strutturato di prevenzione del rischio suicidario, che coinvolge un’équipe multidisciplinare composta da psicologi, psichiatri, criminologi, mediatori culturali, medici e agenti di polizia penitenziaria. L’équipe si riunisce due volte a settimana per discutere i singoli casi e prevenire situazioni critiche. Significativa anche la presenza di psicologi dedicati al personale penitenziario, un servizio essenziale per affrontare situazioni post-traumatiche, prevenire il burnout e garantire un clima lavorativo sostenibile. Nel carcere di Vercelli, circa 120 detenuti su 292 sono impegnati mensilmente in attività lavorative (interne ed esterne), compresa una squadra composta da 8 operai che si occupano di manutenzione ordinaria e di riqualificazione delle sezioni in condizioni più critiche. Questa iniziativa non solo migliora le condizioni della struttura, ma offre ai detenuti la possibilità di acquisire competenze professionali e un senso di utilità. Inoltre, il direttore del carcere, architetto di formazione, sta puntando molto sul miglioramento degli spazi, utilizzando colori e interventi architettonici per favorire il benessere di detenuti, agenti e lavoratori. Tra gli interventi più recenti, la creazione di cabine private per le telefonate, mentre è in programma la ristrutturazione del salone polivalente per eventi culturali organizzati anche in collaborazione con la biblioteca municipale. Importante anche l’attenzione all’efficienza energetica; sebbene ancora in attesa dei fondi necessari per il rinnovo dell’impianto di riscaldamento, la progressiva sostituzione dei vecchi infissi permette di ottimizzare i consumi, segno di un’attenzione non solo all’estetica dell’edificio, ma anche all’ambiente e al diritto delle persone di vivere in un luogo confortevole e caldo. La sezione femminile, che ospita 40 detenute, ha rappresentato un interessante spunto di riflessione. La capo area educatrice ha sottolineato come il carcere sia storicamente “un sistema pensato per gli uomini dagli uomini”, mentre le donne rappresentano solo il 4% della popolazione detenuta. Molte di loro portano con sé pesanti carichi emotivi legati alla vita precedente, spesso segnata da violenze e responsabilità familiari e sarebbe importante ripensare ad un sistema che tenga conto di queste specificità. “Ieri ho visto qualcosa di straordinario. Tra le opportunità lavorative interne al carcere esiste la squadra MOF, che si occupa della manutenzione ordinaria. Qui la squadra è composta da 8 persone e si vuole arrivare a 12. Stanno contribuendo enormemente a rendere la struttura più vivibile, imparano un mestiere e hanno la possibilità di trascorrere il difficile tempo in carcere, che sembra non passare mai, dandogli di nuovo un senso. Li abbiamo visti all’opera, in tuta da lavoro, immersi nei lavori di ristrutturazione di una delle sezioni. Uno degli operai mi ha detto che sente che qualcuno crede in lui e ha ringraziato il direttore e l’agente di polizia penitenziaria responsabile della squadra. Le mie visite hanno l’obiettivo anche di far sapere ai detenuti, agenti e operatori socio sanitari che ci sono anche delle e dei rappresentanti politici che credono in loro e nella funzione di riabilitazione del carcere. Per questo continuerò a lavorare su questo tema, a visitare gli istituti penitenziari e a raccontare cosa non va ma anche cosa funziona. Perché non possiamo perdere le speranze, lo dobbiamo a chi ci sta provando percorrendo la strada più difficile”. Siracusa. Il riscatto dei detenuti passa anche dal Parco Livatino di Antonio Maria Mira Avvenire, 12 gennaio 2025 Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021, martire della Fede e della Giustizia, andava in segreto nel carcere di Agrigento. Incontrava i detenuti, anche quelli che aveva condannato, e senza pubblicità aiutava economicamente le famiglie di alcuni in difficoltà. Per lui erano persone, da trattare con dignità. Perché, scriveva nel 1986, “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio”. Da un mese quattro detenuti proprio del carcere di Agrigento lavorano nel “Parco Rosario Livatino”, realizzato sul luogo dove il giudice venne ucciso. E altri si aggiungeranno. Un progetto che nasce grazie alla convenzione tra la Sezione agrigentina del Conalpa (Coordinamento nazionale alberi e paesaggio) - che ha realizzato il Parco un anno fa col sostegno dell’Arcidiocesi - e il Tribunale di Agrigento e il Carcere, per dare un’opportunità di lavoro e di formazione ai detenuti, da poter spendere anche fuori. Un’iniziativa dal forte valore simbolico. I detenuti hanno piantato due lecci dedicati a vittime innocenti della mafia: Stefano Pompeo, 11 anni, ucciso a Favara nel 1999 dai colpi destinati al boss Carmelo Cusumano; Pasquale Di Lorenzo, sovrintendente della Polizia penitenziaria nel carcere di Agrigento, ucciso nel 1992 a Porto Empedocle su mandato di Totò Riina per dare un segnale contro il carcere duro. A lui è intitolato il carcere da dove vengono i quattro detenuti. E sempre loro hanno trapiantato una talea dell’Albero di Falcone: che cresce sotto la casa del giudice. Un ricordo della stretta collaborazione tra lui, Borsellino e Livatino, per importanti inchieste. Un altro leccio è dedicato a Giuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri ucciso nel 1992, braccio destro di Livatino. Davvero nel Parco si respira la presenza del “piccolo giudice’: “Abbiamo raccontato ai detenuti la sua storia, si sono commossi. Sono entusiasti del lavoro che svolgono, vengono anche la domenica” spiega Domenico Bruno, ex commissario del Corpo forestale siciliano e presidente del Conalpa, stretto collaboratore di Livatino nelle inchieste in materia ambientale. Un’iniziativa fortemente sostenuta dalla giovane direttrice del carcere, Anna Puci. “È un onore che ho come direttore, è un grande privilegio, Livatino era avanti anni luce, aveva una sensibilità enorme. La cosa più difficile è far conoscere alla collettività i detenuti. Non sono mostri ma persone come quelle che trovi fuori. Persone condannate che devono scontare la loro pena e riparare i danni e lo possono fare in tanti modi”. Tema di grande attualità. “Questo luogo non può non fare riflettere, perché è un modo di restituire il male fatto alla società. Dire “buttate le chiavi e non fateli uscire più” non serve a nulla. Hai solo chiuso una persona, ma hai spostato il problema, nel tempo e nello spazio, non lo hai eliminato”. I detenuti raccolgono anche il testimone di Livatino che fu tra i primi magistrati ad occuparsi di reati contro l’ambiente, dall’abusivismo edilizio agli incendi. La scarpata a fianco della statale 640 dove Livatino invano tentò di fuggire, ora è piena del verde e dei profumi della macchia mediterranea. C’è anche “la collina della pace” con gli ulivi donati da associazioni e parrocchie e dall’università Bicocca di Milano. Alcune tabelle illustrano la vita del giudice e delle altre vittime. Un parco didattico, già visitato da molte scuole. Educare attraverso la memoria. Livatino in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E a chi si stupiva rispose: “All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più. La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa”. E il rapporto tra Parco e carcere va anche oltre. È l’“Olio della rupe” prodotto con le olive del Parco e quelle dell’uliveto del carcere da poco rimesso a frutto. Con “una bella rete di solidarietà e riscatto” dice soddisfatta la direttrice, ricordando anche l’azienda Val Paradiso che ha regalato la molitura e l’imbottigliamento. Quest’anno l’olio andrà in beneficenza alla Caritas e altre associazioni, ma il prossimo sarà in vendita e, in accordo col vescovo, sarà donato come olio santo. E sull’olio sarà organizzato un corso di formazione in modo che i detenuti possano continuare a usare fuori le loro competenze. Per aiutarli a superare “la paura di non potersi reinserire nel tessuto sociale perché gli altri non li accettano”. “Oltre il cielo”. Vite da minori in carcere di Francesca D’Angelo Specchio - La Stampa, 12 gennaio 2025 Voci dalle carceri minorili: “Quando uscirò farò più macello di prima”. C’è ‘o mar for’. Ma occorre guardare (anche) oltre il cielo. Dopo la serie tv “Mare Fuori “di Rai 2, l’impressione - televisiva - è che si fosse ormai già detto tutto sulle carceri minorili. Invece all’appello mancava ancora un elemento: la realtà. Ed è qui che si colloca la nuova docu di Rai Play “Oltre il cielo”: a metà strada tra lo storytelling seriale e la cronaca dei tg. Il titolo, realizzato da Pepito Produzioni per Rai Contenuti Digitali e Transmediali in collaborazione con il Ministero della Giustizia, entra ed esce da questi due mondi: si apre con il caso degli agenti del Beccaria arrestati ad aprile con l’accusa di violenza e tortura, si chiude con il racconto della tentata evasione, passando per una rosa di riflessioni che svelano speranze, paure e ambizioni di chi passa la propria adolescenza in carcere. Il passo è quello agile degli episodi da 30 minuti, lo stile asciutto e “neorealista”, come sottolinea il regista Alberto D’Onofrio. Non ci sono intervistatori, né tanto meno ragazzi con volti coperti, ma solo un campo e controcampo di confidenze, raccolte in una lunga cavalcata di colloqui che sono iniziati a ottobre 2023 e terminati a febbraio 2024 negli istituti Beccaria di Milano e Fornelli di Bari. Con loro, anche le testimonianze degli educatori, dei volontari e dei cappellani Don Gino Rigoldi e Don Claudio Burgio, responsabile anche della comunità Kayros. “I ragazzi all’inizio erano restii: apparire in tv espone al rischio di essere ricordati come criminali”, continua il regista. “Mi hanno domandato perché avrebbero dovuto metterci la faccia. Ho risposto: vedendovi, i vostri coetanei che hanno iniziato a intraprendere una strada sbagliata potrebbero cambiare idea”. Così molti si sono concessi alle telecamere a cominciare dal 22enne Brian che, oltre a svelare il suo passato, si trasforma in un piccolo Cicerone: parla con gli altri ragazzi, chiede quale siano stati i loro trascorsi e le speranze per il futuro. “Di solito non lo fanno mai: nessuno pone domande agli altri”, assicura il regista. Lo spaccato è tutt’altro che rassicurante: c’è chi ammette che “il carcere non è servito a nulla, quando uscirò farò più macello di prima”, o chi addirittura preferisce restare dentro, temendo le Sirene della vita quotidiana. La maggior parte ha iniziato a delinquere per “avere soldi facili”, spesso seguendo le orme dei genitori. Alcune - troppe - storie si interrompono a metà perché, durante le riprese, i diretti interessati vengono trasferiti nelle carceri per adulti, a causa del loro comportamento ingestibile. Per Don Gino si tratta spesso di “una specie di omicidio”: alcuni ragazzi non possono reggere all’inattività di quel tipo di prigioni. “Per noi educatori è una sconfitta”, dice a La Stampa l’educatore barese Stefano Mansi, “in 14 anni di carriera ho seguito circa duemila ragazzi: il 10% si è salvato e ha fatto scelte di vita diverse”. Davanti a una percentuale così bassa, la domanda sorge spontanea: ne vale la pena? “Il mio lavoro è come quello di un chirurgo del pronto soccorso: si mette in conto l’elevato tasso di fallimento. Ma finché anche solo uno si potrà salvare, andremo avanti”. La situazione tuttavia non è facile: gli istituti sono piccoli, le forze dell’ordine scarse e poco formate e, per via del decreto Caivano, il numero dei ragazzi sempre più elevato. Verrebbe quasi da pensare che il caso dei secondini arrestati a Milano sia in parte figlio di quella decisione politica: “Non possiamo dire che sia una conseguenza diretta, però sicuramente il Beccaria, come tutti gli altri Ipm, ha accusato il colpo”, continua Mansi, “l’aumento degli ingressi ha messo sotto stress le strutture”. Nel documentario Marcello Viola, procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Milano, commenta: “Quanto è accaduto al Beccaria infonde un senso di sconfitta non solo personale ma dello Stato”. Gli fa eco Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile: “Non c’è nulla di peggio della violenza dello Stato. Tuttavia, senza sicurezza esisterebbero solo i diritti dei più forti che sono i più ricchi e i più violenti”. La sfida è tutta qui: trovare un equilibrio tra amore e rispetto. Paolo Billi: il teatro e l’arte sono “inutili” ma aiutano a salvarsi dai propri naufragi di Luciana Cavina Corriere di Bologna, 12 gennaio 2025 Paolo Billi ha aperto per la prima volta al pubblico le porte del carcere minorile del Pratello mettendo in scena spettacoli realizzati con i detenuti. Finita l’esperienza ha trasferito il modello a a Pontremoli, ma in città continua a lavorare con ragazzi presi in carico dalla giustizia e alla Dozza. “Il teatro mette in gioco, e aiuta a ricostruirsi”. Dentro e fuori dal carcere: come la lettura, il confronto, e la rappresentazione possano rendere possibili altre vite, salvandole a volte da destini d’abisso. Quando il regista e autore teatrale bolognese Paolo Billi, alla fine degli anni 90 entrò a lavorare nel carcere minorile del Pratello creò un ponte mai sperimentato prima con la città. Anche se in seguito costretto a interrompersi. Prima c’è stato anche il teatro civile, i non-attori dalla strada, e, ancora oggi, la compagnia Teatro del Pratello che porta sui palcoscenici ragazzi delle scuole insieme ad altri in carico alla giustizia minorile; i progetti (tutti pionieristici) con le detenute della Dozza e al carcere minorile femminile a Pontremoli, in Toscana. E altro ancora. Sempre con la mente e il corpo impegnati a dare luce a mondi sommersi. Usiamo un’iperbole: può la pratica del teatro salvare vite? “Mi viene da usare un’altra metafora: salvarsi dai propri naufragi. Il teatro offre la possibilità sia agli adulti sia ai minori in carcere di confrontarsi con la propria persona e cercare di ricostruire una persona altra. Questa costruzione avviene non attraverso l’utile - e per utile intendo la scuola, la formazione, il lavoro - ma attraverso l’inutile. In questo senso arte e teatro sono inutili”. Sembra un paradosso. “Ma non lo è. Fare teatro non serve a nulla ed è in quel momento che diventa utile. Io affronto in maniera diversa, con il teatro, quello che la scuola dovrebbe portare avanti: leggo, faccio leggere, si scrive, si lavora sul pensiero. Cose che spesso in ambito scolastico risultano estremamente difficile”. Ma il teatro può essere un mestiere anche in certi contesti? “C’è anche l’aspetto formativo. Facendo teatro si acquisiscono competenze tecniche ed è un esperimento di lavoro. Le persone che lavorano con me vengono tutte assunte come allievi attori, e tanti sono assunti per la prima volta in vita loro. Il teatro è pure ludico ma ad un altro livello”. Prima di arrivare al carcere, lei ha praticato il teatro civile, anche al Pilastro, con gli spettacoli sull’eccidio della Uno Bianca. Ha portato in scena persone senza fissa dimora. Che riscontri ha avuto? “Da ormai 30 anni lavoro con attori-non attori, non li chiamo dilettanti. Non mi interessano più gli attori-attori. Al Pilastro, nel gruppo di abitanti bruciati da quel dramma, inserii alcuni giovani ospitati al dormitorio Beltrame. Fu un modo per abbattere molti pregiudizi. Poi nel primo anno di lavoro all’istituto penale minorile portai con me uno di questi ragazzi senza fissa dimora”. E come andò? “Devo ringraziare la direzione di allora e del magistrato di sorveglianza che mi diedero il permesso. Il primo impatto fu molto duro, perché inizialmente questo ragazzo venne deriso. Però accadde un piccolo miracolo: lavorando insieme ai giovani reclusi e altri dall’”esterno” si è inserito presto e cominciò a frequentare anche la mensa del carcere, dove gli davano da mangiare appena potevano”. Cercava una casa e l’ha trovata? “Il teatro può rappresentare un territorio in cui si incontrano persone assolutamente diverse con storie assolutamente diverse con dei traumi notevoli e fa accadere piccoli miracoli”. Lei come è approdato al Pratello? “Grazie a un’idea. Ma per i primi 15 anni non è stato complicato. Complesso sì, ma non complicato, perché l’istituzione mi sosteneva e mi ha permesso di non restare chiuso nella riserva indiana. Il mio intento era proprio quello di aprire le porte dell’istituto”. E ci riuscì. Un caso unico in Italia? “Sì. Rappresentavamo gli spettacoli all’interno dell’istituto. Per 15 giorni entravano cento persone a sera: 1500 persone di cui più della metà studenti accompagnati da genitori e professori. Un patrimonio enorme costruito ormai dieci anni fa ma che si è dissolto” É mancato il sostegno? “Mi hanno detto che la chiesa trasformata in teatro non era più agibile, poi è diventata un’aula del tribunale. dovrebbero restaurare un altro locala ma non credo che avverrà. Ora lavoro fuori ma quell’esperienza di comunità, a Bologna, è finita. Ma sono cambiate anche le persone, i rapporti”. Cosa intende? “I ragazzi dentro al carcere partecipavano volentieri. Si costruivano anche percorsi lunghi. C’era chi continuava a fare teatro una volta scontata la pena”. E alla Dozza lavora con i detenuti adulti? “Con le donne. Qui il teatro è affiancato a un altro tipo di intervento di “cultura riparativa”. È un progetto biennale che quest’anno ha per titolo “tradimenti e oblii” e vi partecipano anche docenti universitari. Ci sono momenti di scrittura, di lettura di testi non semplici, da Dostoevskij, Dumas, Ben Jelloun. Sono persone che scontano pene molto lunghe, noi aiutiamo ad attivare il pensiero”. Perché proprio la sezione femminile? “Le donne hanno una forza vitale unica nel mettersi in gioco. Se mi metto in gioco ascolto, e così r i es co a sospendere il giudizio su me stesso e su chi mi giudica, chi mi mette uno stigma. Perché sappiamo bene che chi esce di galera si porta dietro un segno permanente”. Ecco che torna il tema della salvezza… “Vale a tutte le età. Ebò il titolo del Teatro del Pratello ora in replica all’Arena del Sole è uno spettacolo di danza con ragazzi seguiti dai servizi della giustizia minorile, studenti del Galvani e alcuni studenti universitari. È sorprendente come lavorando compatti svanisca ogni pregiudizio”. L’arte contemporanea durante il Giubileo 2025 coinvolgerà le carceri come simbolo di rinascita di Sabrina Morelli alessandria.today, 12 gennaio 2025 Nel cuore della riforma carceraria, emerge un’iniziativa rivoluzionaria che vede l’arte come strumento di trasformazione sociale. Si è osservato come l’interazione tra artisti e detenuti stia creando un ponte significativo tra il mondo interno ed esterno delle strutture penitenziarie. Le installazioni artistiche, visibili anche dall’esterno, rappresentano un messaggio potente che sfida la percezione tradizionale del carcere come luogo di mera punizione. L’aspetto più affascinante di questo progetto è la sua capacità di trasformare gli spazi detentivi in veri e propri laboratori creativi, dove l’espressione artistica diventa un mezzo di riabilitazione e crescita personale. Le parole del Cardinale José Tolentino de Mendonça hanno rimarcato profondamente questo concetto, sottolineando l’importanza della trasformazione come processo universale e possibile, anche se complesso e talvolta doloroso. La nuova apertura di “Conciliazione 5” rappresenta un passo concreto verso questa visione durante il Giubileo 2025. Lo spazio espositivo sarà permanente e accessibile 24 ore su 24, diventerà un punto di riferimento significativo. Il primo artista chiamato ad aprire “Conciliazione 5” sarà Yan Pei-Ming, famoso per i suoi ritratti di grandi dimensioni. Realizzerà un corpus di nuovi lavori sul carcere di Regina Coeli che verrà svelato in occasione del Giubileo degli Artisti (15-18 febbraio 2025). L’inaugurazione con le opere di Yan Pei-Ming, incentrate sulla vita carceraria, sottolinea l’importanza di questo dialogo tra arte e detenzione. Il progetto dimostrerà come l’arte possa essere un potente strumento di comunicazione e trasformazione sociale. Le opere create in questo contesto non sono semplici espressioni estetiche, ma testimonianze viventi di un processo di cambiamento e crescita personale. La partecipazione attiva dei detenuti al processo creativo contribuirà a ricostruire la loro identità e a sviluppare nuove competenze. L’iniziativa rappresenta un modello innovativo di intervento sociale, dove la creatività diventa strumento di riscatto e dignità. Le installazioni visibili anche dall’esterno delle strutture penitenziarie, creano un dialogo continuo con la comunità, abbattendo barriere fisiche e mentali. Povertà educativa: il Governo taglia il Fondo per contrastarla di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2025 Negli ultimi 8 anni era servito a sostenere quasi 600mila minori. Dal 2016, le fondazioni bancarie hanno finanziato con 800mila euro oltre 800 progetti su tutto il territorio. Nella manovra di Bilancio non ce n’è più traccia. Eppure siamo il quinto Paese europeo per abbandono scolastico. Rossi Doria, presidente di “Con i bambini”: “È un problema di diritti delle persone, ma anche di sostenibilità economica della nazione”. “Ci sono alcuni temi che non sono né di destra, né di sinistra. Che i bambini possano uscire dalla povertà dovrebbe essere un obiettivo condiviso”: Marco Rossi Doria, che fu sottosegretario all’Istruzione nei governi Monti e Letta, oggi è il presidente di “Con i bambini”, l’ente attuativo di quello che, stando alle decisioni del governo fino ad oggi, fu il Fondo per il Contrasto della Povertà educativa minorile. “Fu” perché l’esecutivo, con una mossa che pare inspiegabile, nella legge di Bilancio 2025 approvata a fine anno non lo ha rifinanziato. E dire che i soldi ce li mettevano le Fondazioni bancarie. Proviamo a spiegare. Il Fondo fu istituito nel 2016 grazie a un accordo tra il governo presieduto da Matteo Renzi, l’Acri (Associazione di fondazioni e casse di risparmio) e il Forum del terzo settore. L’obiettivo era quello di sostenere interventi sperimentali per rimuovere quegli ostacoli economici, culturali e sociali che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. A metterci i soldi sono state, per tutti questi anni, le fondazioni, che poi hanno usufruito del credito d’imposta. Giova ricordare - come fa Terre des Hommes - che l’Italia è tra i Paesi in cui l’abbandono scolastico resta una piaga. Nel 2023 (dati Openpolis), siamo stati quinti in Europa per gli abbandoni. Peggio del nostro 10,5%, solo Romania, Spagna, Germania e Ungheria. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile evidenzia la necessità di “porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo” (obiettivo 1) e di “fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva e opportunità di apprendimento per tutti” (obiettivo 4) al fine di garantire un futuro migliore alle nuove generazioni. Obiettivi - ricorda in un articolo del febbraio 2024 Maddalena Sottocorno, ricercatrice del Dipartimento di Scienze umane per l’educazione all’Università Bicocca di Milano - in continuità con la Convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che, all’articolo 27, fa riferimento alla tutela dei minori in condizione di deprivazione, sottolineando il ruolo che lo Stato dovrebbe ricoprire nel supportare le famiglie svantaggiate. Stato che però, evidentemente, da solo non riesce a garantire questo sostegno. “Il principio di sussidiarietà è la cornice giuridica per affrontare questa situazione - spiega Rossi Doria, richiamando l’articolo 118 della Costituzione -; mette insieme la Pubblica amministrazione e chiunque si attivi, dalle fondazioni alle parrocchie alle associazioni di volontariato”. Nel 2016 venne decretato che, a gestire e a distribuire i soldi stanziati dalle Fondazioni fosse un soggetto attuatore creato appositamente: “Con i bambini”, appunto. A quest’impresa sociale si sono rivolte, in 8 anni, oltre 9.500 organizzazioni non profit, alle quali sono arrivati in tutto oltre 800 milioni di euro per più di 800 progetti. Quasi 600mila i ragazzi coinvolti. I progetti sono di tutti i generi: dai corsi di formazione per insegnanti e genitori alle attività di recupero dei ragazzi che commettono reati, dall’assistenza agli orfani di femminicidi al supporto alle famiglie affidatarie, dai corsi contro il bullismo nelle scuole alla digitalizzazione corretta degli adolescenti. Un intero mondo necessario, che ha inciso su tutto il territorio nazionale. E che, all’improvviso e per ragioni ignote, rischia di scomparire. “Bisognerebbe capire se, nella complessità di una legge di Bilancio che ha visto una rinegoziazione dei vincoli precedenti al periodo Covid - prosegue il presidente di “Con i bambini” - ci sia stata una modalità di determinazione delle risorse differentemente costruita. O se ci sono altre considerazioni. Non è dato arrivare subito alla conclusione ‘non l’hanno voluto fare’”. Rossi Doria non si sbilancia, la politica ormai è un mondo lontano da lui, nel tempo e nei modi, ma sottolinea: “La povertà economica e quella educativa sono strutturali in Italia”. Secondo l’ultimo rapporto Istat (ottobre 2024), sono infatti 1,29 milioni i minori in povertà assoluta, ovvero il 13,8% del totale rispetto al 9,7% della popolazione generale. Le famiglie in povertà assoluta in cui sono presenti minori sono quasi 748mila (il 12,4%). “A questo si aggiunge il fallimento formativo: esplicito, cioè chi non termina la scuola e non recupera negli anni successivi, e implicito, cioè coloro che hanno un diploma ma non sanno comunque nulla, non sanno di non sapere, hanno disimparato perché hanno smesso di studiare. In un mondo in cui la ricchezza è legata alla conoscenza, i rischi di esclusione sociale e di sofferenze nella vita privata sono altissimi. È un problema di diritti delle persone, ma anche di sostenibilità economica della nazione”. Nell’arco parlamentare sono tutti d’accordo sul fatto che si tratti di un problema strutturale. Eppure, nei giorni scorsi, in pochi hanno alzato la voce: sporadici deputati o senatori di Italia Viva e Pd. Le proteste, e soprattutto le preoccupazioni, arrivano dalle associazioni, che rischiano di vedere interrotto il lavoro di anni. “I progetti in corso saranno portati a termine perché già finanziati - ancora Rossi Doria -. Il problema riguarda il futuro. Abbiamo costruito modelli nuovi, responsabilizzanti. Facendo confrontare la Pubblica amministrazione e gli enti locali con le associazioni, le parrocchie, i circoli sportivi, abbiamo dato risposte a un problema multidimensionale e complesso. Perché non sarà mai il singolo soggetto, come la scuola o la famiglia, a poterlo affrontare in solitudine e risolvere”. E a beneficiare di questo nuovo modello non sono stati soltanto i ragazzi: “Si sono costituite centinaia di comunità educanti, che hanno attivato o riattivato i genitori. Sono stati messi insieme mestieri e competenze diversi - insegnanti, educatori, psicoterapeuti, assistenti sociali -, in modo da evitare interventi spezzatino. Per cui quel singolo ragazzino non è più della scuola per questo, del servizio sociale per quello, della mamma per quest’altro: è della comunità”. E la comunità non si alimenta col modello Caivano, con le zone rosse e la repressione. La comunità si alimenta con la prevenzione, e quindi - anche - col rifinanziamento del Fondo. Povertà educativa, a rischio anche il progetto per gli orfani di femminicidio di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2025 La preoccupazione del Terzo settore - Il responsabile del progetto Respiro: “Ci occupiamo di 110 ragazzi con personale specializzato. È un mondo di cui ci si occupa ancora molto poco”. “Un bambino era a casa dei nonni mentre il padre uccideva la madre. Si vide arrivare l’uomo con le mani insanguinate, ma gli fu raccontato di un incidente. Così come di incidente - gli dissero - sarebbe morta la mamma. Qualche tempo dopo, fu accompagnato da un’assistente sociale in carcere: gli spiegarono che quello era il posto di lavoro del papà. Il bambino cominciò a essere incontenibile, a dare problemi a scuola. Quando lo prendemmo in carico noi, un anno e mezzo dopo, ci spiegò che aveva sempre saputo cos’era successo, ma che aveva dovuto reggere le bugie degli adulti”. I racconti di Fedele Salvatore sono da far accapponare la pelle. È il responsabile del progetto R.e.s.p.i.r.o. (Area Sud e Isole) per gli orfani di femminicidio. Un progetto che, finora, è stato finanziato grazie al Fondo per il Contrasto della povertà educativa minorile, che adesso il governo ha deciso di azzerare. “R.e.s.p.i.r.o. è l’acronimo di Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli Orfani speciali. Cioè non solo orfani di madri ammazzate, ma anche di padri che si suicidano o finiscono in carcere. Nonostante Codice rosso, panchine rosse, giornata del 25 novembre, nonostante l’enfasi su alcuni femminicidi, è un mondo di cui ci si occupa ancora molto poco”. Salvatore, lei è presidente della cooperativa sociale Irene ‘95 di Marigliano e responsabile del progetto. Ci racconta cos’è R.e.s.p.i.r.o.? Ci occupiamo degli under 21. Negli ultimi tre anni abbiamo preso in carico 300 orfani, e parliamo solo di Sud Italia e isole. Abbiamo dovuto ricostruire caso per caso, perché non esiste un’anagrafe: i dati sono spezzettati tra Procure, Tribunali per i Minorenni, servizi sociali. Di questi 300 individuati - parliamo anche di orfani storici: coloro la cui madre è stata uccisa prima di questi tre anni -, ne seguiamo circa 110 grazie alle nostre equipe. Lavoriamo con 10 organizzazioni del Terzo settore, 10 enti locali e con l’ospedale pediatrico Giovanni XIII di Bari. Cismai, Save the children e Terre des Hommes si dedicano alla supervisione scientifica, alla formazione e alla comunicazione. Noi sul territorio facciamo la “presa in carico”. Che, detta così, sembra una cosa formale. Di formale c’è solo il Protocollo d’intesa che abbiamo siglato con l’Arma dei Carabinieri, le Procure e i Tribunali, affinché possano chiamarci subito nel caso di un femminicidio. Perché questo è il punto: anche nell’immediato devono intervenire competenze specifiche. Ma spesso gli enti locali non sanno del protocollo e chi si occupa in prima battuta dei bambini non sa come farlo. Per esempio, spesso i servizi sociali affidano gli orfani ai nonni, che però sono traumatizzati pure loro e non hanno idea di come affrontare, e far affrontare il lutto. E qui veniamo al concreto. Accade spesso che, in prima battuta, ai minori vengano raccontate bugie, che a lungo andare rischiano di provocare una dissociazione psicologica. Invece è meglio una verità detta con le parole giuste che un’impietosa bugia. Le nostre equipe sono preparate, formate per la “fase dell’emergenza”, sanno come rivolgersi ai bambini e alle famiglie, che vanno seguite in un lungo percorso. Non mi riferisco soltanto alle incombenze pratiche ma anche, per esempio, a come curare l’aspetto “rito funebre” con gli orfani. Entrano in gioco più figure, anche quella che abbiamo chiamato “tutor di resilienza”, in genere un educatore che abita vicino alla famiglia e che mantiene, nel tempo, la relazione col bambino. Le faccio un esempio: un’orfana, oggi adolescente, vive con i nonni 75enni i quali non sanno come comportarsi con le richieste di uscite serali, con la gestione di social. In molti casi i nonni si ritrovano, da anziani, a fare di nuovo i genitori, ed è faticoso. E poi c’è un altro tipo di supporto. Quale? Ci sono le “doti educative”, ovvero quote economiche per la formazione scolastica, le attività sportive, i viaggi d’istruzione. Poi c’è l’assistenza legale: non tutti sanno che la Legge 4 del 2018 garantisce un risarcimento una tantum pari a 50-60mila euro, oppure che la famiglia affidataria ha diritto a un contributo di 300 euro al mese per orfano. Noi li aiutiamo anche nelle pratiche burocratiche. Non sono cose che può fare direttamente lo Stato? Lo Stato ha orari d’ufficio. Lo Stato, a differenza nostra, non porta un orfano con disturbo psichico sulla tomba della madre. In questi casi, e in base all’articolo 118 della Costituzione, lo Stato siamo noi. Ma mi faccia dire un’ultima cosa. Prego. Parlano di zone rosse per la sicurezza, noi creiamo zone di serenità. Non abbiamo bisogno di decreti Caivano, la sicurezza non si costruisce con la paura. Persone senza dimora. “Miloud è morto ma in centinaia rischiano la vita ogni giorno” di Christian Donelli parmatoday.it, 12 gennaio 2025 La protesta per ricordare Miloud Mouloud, morto di freddo a 64 anni: “Se avesse occupato una di quelle migliaia di case vuote avrebbe rischiato sei anni di carcere ma sarebbe vivo”. Si è svolta in piazza Garibaldi, nel pomeriggio di sabato 11 gennaio, la manifestazione per ricordare Miloud Mouloud, il 64enne marocchino trovato morto all’interno della baracca in cui dormiva nella mattina del 4 gennaio. Miloud, che viveva da dieci anni a Parma, lavorava ma non poteva permettersi una stanza in affitto. Così si era creato una baracca di fortuna. Qui viveva e dormiva e qui è morto. L’iniziativa è stata organizzata dall’associazione Al-Amal con l’adesione di Ciac, Rete Diritti in Casa, Donne in Nero, Tutti i Mondi, Potere al Popolo di Parma, Casa delle Donne, Anolf Parma e Casa della Pace. “E’ morto un uomo che aveva 64 anni, che lavorava qui da tempo - ha detto Katia Torri della Rete Diritti in Casa. Aveva lavori incerti, come fa comodo ai datori di lavoro. Senza garanzie, senza nulla e dormiva in strada. E’ morto lui ma come lui ce ne sono a centinaia, in una città che ha migliaia di alloggi vuoti. Ora, Miloud è morto da solo. Provocazione ma non più di tanto: se avesse occupato una di quelle migliaia di case vuote probabilmente avrebbe rischiato sei anni di carcere ma sarebbe vivo. Se avesse protestano per le sue condizioni di lavoro probabilmente avrebbe rischiato sei anni di carcere ma forse avrebbe avuto uno stipendio in grado di garantirgli un tetto. Se la legge garantisse non solo la proprietà ma la vita umana - che dovrebbe essere la prima cosa garantita in uno stato civile - Miloud sarebbe ancora vivo. È ora di mettere in discussione un sistema economico che considera prima le cose e poi le persone”. Iran. Il buio dietro Cecilia Sala: reporter liberata, altri tre detenuti a Evin condannati a morte di Simone Disegni open.online, 12 gennaio 2025 L’8 gennaio, giorno della svolta per l’Italia, la Corte Suprema di Teheran ha confermato l’esecuzione per Pakhshan Azizi, Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani. Una lettera-appello dalle carceri contro il regime. Dopo la liberazione, la gioia, l’euforia, ma pure “il senso di colpa dei fortunati”. Lo ha definito così Cecilia Sala quel malsano senso di rimorso che resta appiccicato addosso dopo aver riassaporato la libertà, sacrosanta, mentre lì dietro, in quell’inferno che è il carcere di Evin restano rinchiusi in migliaia. Sono i detenuti della prigione di massima sicurezza dell’Iran, in buona parte oppositori politici - tali o presunti. E per loro non c’è mobilitazione di media o governi stranieri che tenga. Restano nel buio - anzi, nella luce accecante 24 ore al giorno di Evin - e nel silenzio. Sino alla rara salvezza o invece al peggiore dei destini. Proprio nel giorno in cui arrivava l’agognata svolta per il destino di Cecilia Sala, per grottesco paradosso, le autorità iraniane confermavano in via definitiva la condanna a morte di altri tre detenuti di Evin. Mercoledì 8 gennaio la Corte Suprema di Teheran ha infatti convalidato l’esecuzione di Pakhshan Azizi, Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani, secondo quanto riportato dall’ong Hrana. Ora a provare a far sentire la loro voce e chiedere che si fermi la macchina della morte di Stato sono decine di prigionieri politici iraniani. Che in una drammatica lettera aperta, di cui dà conto la testata Iran International, chiede al mondo di non voltare la testa dall’altra parte di fronte alle convulsioni mortifere del regime degli Ayatollah. L’appello al mondo: “Fermate la repressione” - “Mentre continua le sue politiche interne ed estere fautrici di crisi, il sistema di potere in Iran cerca soluzioni tramite la crescente repressione nelle sfere sociali, politiche e culturali”, si legge nella lettera firmata da 68 prigionieri politici di diverse prigioni del Paese. Solo nel 2024 appena conclusosi, viene ricordato, Teheran ha messo a morte oltre 1.000 persone. Un macabro primato: equivale a quasi il 75% di tutte le esecuzioni nel mondo. “Non è solo una statistica, è un metodo per silenziare gli oppressi”, scrivono i prigionieri, per “mantenere un’atmosfera di terrore nella società” pervasa da fremiti di libertà e da movimenti di protesta che assumono forme sempre nuove. Da ormai quasi un anno i detenuti di decine di prigionieri in Iran aderiscono a una campagna collettiva di scioperi della fame per cercare di tenere alta l’attenzione sulla piaga della repressione e delle condanne a morte. Secondo la stessa Hrana, sono nel complesso 54 i detenuti che rischiano al momento di essere messi a morte sula base di accuse di tipo politico o di sicurezza. E ieri il ministero degli Esteri francese ha convocato l’ambasciatore iraniano a Parigi per protestare contro la detenzione ingiusta e indegne di tre cittadini francesi a Evin, considerati nient’altro che degli “ostaggi della Repubblica islamica”. Iran. Il mistero del cittadino svizzero morto suicida in carcere di Guido Olimpio Corriere della Sera, 12 gennaio 2025 Un cittadino svizzero, arrestato con l’accusa di spionaggio, si sarebbe tolto la vita in una prigione iraniana. Era in Iran con un visto turistico. Il primo atto avviene a fine ottobre, in concomitanza con l’incursione israeliana su alcuni centri militari dell’Iran. I servizi di sicurezza - secondo i media locali - fermano uno straniero nei pressi di Semnan, località a est della capitale. L’uomo sta raccogliendo dei campioni di terra e lo fa in una zona interessante sotto il profilo bellico. Qui c’è un importante sito per lo sviluppo di missili a lungo raggio, uno dei tanti impianti che partecipano al programma strategico dei pasdaran. E il terriccio se analizzato potrebbe rivelare l’esistenza di tracce d’uranio o altre componenti degne di interesse. L’uomo viene trasferito nella prigione più vicina, sempre a Semnan, e qui si sarebbe suicidato il 9 dicembre. Per le autorità il detenuto ha chiesto al compagno di cella di andare a prendere del cibo e quando è rimasto solo ha compiuto il gesto estremo. Fine del report, nessun dettaglio, neppure il nome della vittima. Saranno le fonti svizzere a fornire piccoli particolari: aveva 64 anni, da oltre 20 risiedeva in Sud Africa ed era entrato in Iran usando il visto turistico. Ben poco sul suo passato o professione. La diplomazia elvetica, che era stata “avvisata” dell’arresto, si era mobilitata per poter visitare il connazionale ma la richiesta era stata respinta perché si trattava di un caso di spionaggio. La vicenda, in attesa di chiarimenti, offre alcuni spunti. 1) Sono molti gli episodi di stranieri fermati perché considerati agenti di intelligence ostili: dossier raramente sostenuti da prove evidenti. Infatti, sono solo delle pedine in vista di futuri scambi. 2) Gli apparati di controspionaggio annunciano operazioni frequenti con la cattura di “talpe” o lo smantellamento di network “nemici”. Un nuovo episodio è trapelato due giorni fa. Misure di risposta a sabotaggi e all’evidente infiltrazione realizzata dagli avversari, in particolare gli israeliani del Mossad. 3) Siamo in una fase fluida, con il regime ferito da molti rovesci. I pasdaran hanno svolto grandi esercitazioni mostrando armamenti e bunker che ospitano missili. Inoltre, le esercitazioni di difesa hanno riguardato i i “laboratori” nucleari di Fordow e Arak. Un tentativo di mostrare i muscoli in attesa di Donald Trump. Al tempo stesso non ci sono segnali di dialogo da parte del presidente Masoud Pezeshkian. 4) Mohammed Abedini, l’ingegnere iraniano fermato a Malpensa su mandato di cattura Usa perché coinvolto in un traffico di droni militari in favore dei guardiani della rivoluzione, e al centro del caso di Cecilia Sala, aveva la Svizzera come base della sua attività. Ci sono ancora dei complici all’interno dei confini elvetici? 5) La Confederazione ha un ruolo speciale: svolge anche il ruolo di rappresentante diplomatico degli Usa a Teheran. Un canale che potrebbe diventare ancora più importante nei prossimi mesi.