Amnistia e indulto, speranze e sogni sempre più lontani di Domenico Turano La Discussione, 11 gennaio 2025 “Adeguare e ampliare la capienza delle nostre carceri alla necessità attuale con l’incremento di 7mila nuovi posti entro il 2025”. È questa la risposta del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, proprio nella sua conferenza stampa di giovedì scorso, perseguendo la duplice finalità, cioè di far espiare a ciascuna persona detenuta la pena stabilita e di offrire la possibilità del reinserimento sociale. L’amnistia estingue il reato e ne fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie relative, mentre l’indulto estingue la pena. Entrambi i provvedimenti consentirebbero a numerosi detenuti di ottenere la libertà prima di completare la fase riabilitativa e di reinserimento sociale, con gli inevitabili risentimenti di una rilevante percentuale della società che già vive con preoccupazione la propria sicurezza, specie nelle grandi città e nelle grosse periferie. Nel nostro vigente ordinamento amnistia e indulto sono contemplati dall’articolo 79 della Costituzione, secondo le modalità indicate nell’articolo 151 del codice penale. A partire dal 1992 l’amnistia è disposta con legge dello Stato, votata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, come previsto proprio dalla legge costituzionale n. 1 del 6 marzo 1992 che ha revisionato l’articolo 79 della Costituzione il quale, al primo comma recita che: “L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. Una discrezionalità politica che fa capo esclusivamente al Parlamento con intese, quindi, inevitabili tra maggioranza e opposizione, motivo per cui a tutt’oggi non ha trovato applicazione. È dai tempi della grazia (di competenza del Presidente della Repubblica, articolo 87, comma 10), concessa all’attentatore del Papa Giovanni Paolo II, Ali Agca nell’anno 2000 che i partiti non trovano più un accordo su una possibile amnistia generale. Agca aveva, comunque, già scontato ben 19 anni in Italia e ne ha poi scontato altri 10 in Turchia. Sul fronte di una amnistia, a suo tempo, vi erano molte divergente in più ambienti. Nel CSM si ribadiva l’esclusione per i reati tributari; altri ritenevano che l’amnistia non avrebbe risolto il problema del sovraffollamento delle carceri e avrebbe compromesso il principio della certezza della pena. Altri ancora sostenevano, tra l’altro, che “L’amnistia non cura i mali della giustizia, meno che mai quelle delle carceri”. La Chiesa, come ora, invocava atto umanitario, mentre Amnesty International additava l’Italia per “diritti umani calpestasti nelle carceri”. C’è un luogo dove la disumanità è normalità: la prigione di Cesare Burdese L’Unità, 11 gennaio 2025 Architettura che mortifica i sensi, zero verde, zero privacy, locali squallidi, celle fatiscenti. Prossimo il 2025, insieme a Nessuno tocchi Caino, ho visitato il carcere di Bergamo, limitatamente alla zona colloqui, alla sezione isolamento e alla sezione ex articolo 32 maschili. La condizione detentiva turba, al punto che qualcuno in visita ha pianto. Ne illustrerò un aspetto che è anche quello del carcere in generale: nella grande umanità degli operatori, la strutturale disumanità dei luoghi quotidianamente vissuta come normalità. Quel carcere, in funzione e immutato dal 1978, causa terrorismo e nuova criminalità organizzata, fu progettato per garantire la massima sicurezza; monolitico, monotono, fortemente frazionato e compartimentato, privo di verde, presenta soluzioni architettoniche che mortificano i bisogni e invalidano i sensi. Le presenze, doppie rispetto i 319 posti disponibili, annullano la dignità e pregiudicano le attività trattamentali. In gruppo, sono entrato nell’area detentiva da un nudo locale, dove giocattoli gettati a terra alla rinfusa mi hanno procurato sconforto e desolazione. Diretti alla zona colloqui ci siamo imbattuti in personaggi dei cartoni animati dipinti su un muro esterno della palestra, che ho visto come un pietoso ma ingannevole tentativo di abbellire il carcere per i bambini casuali visitatori. Giunti alla sala colloqui, dopo aver camminato allo scoperto, stretti tra l’alto muro di cinta e il fronte di anonimi edifici, siamo entrati in un atrio, completamente privo di arredi e illuminato artificialmente; lì mi hanno colpito le scure porte metalliche di accesso. Le sale hanno tavolini e sedie dozzinali, le finestre sono protette da inferriate che pregiudicano le visuali e costringono a tenere accesa la luce anche di giorno, le pareti sono disadorne. La loro configurazione e la prescrizione normativa dell’obbligo del controllo visivo da parte degli agenti, nonostante da quasi un anno una sentenza della Corte Costituzionale l’abbia ritenuto illegittimo, precludono privacy e intimità durante i colloqui. Gli agenti di guardia permangono isolati in appositi stalli vetrati prospicienti le sale che, rumorose e claustrofobiche, non dispongono di aree esterne. Uno spazio per i colloqui all’aperto esiste, utilizzabile solo su prenotazione e in alternativa allo stare al chiuso. Torno con la memoria alle indicazioni della commissione ministeriale, della quale ho fatto parte nel 2013, per migliorare le sale d’attesa e dei colloqui, con attenzione alla presenza di bambini piccoli, a oggi in gran parte disattese. Percorrendo un lungo corridoio claustrofobico raggiungiamo la rotonda delle sezioni detentive maschili, illuminata artificialmente e dominata dall’ingombrante bancone circolare in muratura degli agenti che presidiano le sezioni circostanti. Un luogo dove non si intravede una particolare attenzione per il benessere psico-fisico dei lavoratori, come richiesto dalla norma nei luoghi di lavoro. La “sezione isolamento” consiste in un lungo corridoio illuminato con luce artificiale, sul quale contrapposte si affacciano una cinquantina di misere celle, martoriate e fatiscenti. Esse, dove la coabitazione è problematica per le loro ridotte dimensioni e la privacy è una chimera, non godono di sufficiente luce naturale per via della inferriata e della rete metallica sulla finestra e sono sprovviste di arredi adeguati. Il servizio igienico privo di doccia, dove la funzionalità impiantistica è precaria, funge anche da cucina. Le celle rimangono aperte almeno otto ore al giorno, consentendo ai detenuti di deambulare nel corridoio di sezione e di riunirsi in una saletta squallida, carente nell’arredo e male illuminata, definita pomposamente saletta della socialità. I detenuti possono permanere all’aperto poche ore al giorno, in angusti e decrepiti cortiletti cubicolari, senza servizio igienico, cementati e sovrastati da inferiate che evocano un canile; la sporcizia domina ovunque. La presenza di persone detenute con forte disagio mentale, determina eventi critici, come è successo durante la visita, esasperando le condizioni abitative descritte. La sezione ex articolo 32 ospita coloro che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele ma anche, causa il sovraffollamento, detenuti che non dovrebbero esserci. Stipati all’inverosimile nelle celle, i detenuti vi rimangono rinchiusi per 20 ore consecutive, potendo usufruire di 4 ore giornaliere per permanere all’aperto in cortili totalmente cementati. Complessivamente la configurazione architettonica della sezione è analoga a quella della precedente e le criticità funzionali sono le stesse. Al termine della visita, uscendo dal carcere abbiamo incrociato un gruppo di parenti che con i loro bambini andavano ai colloqui. Di fronte a quei bambini, mi sono sentito in difficoltà, ancora scosso dalla disumanità che i protagonisti vivono come normalità. Luigi Manconi: “Così il Governo Meloni ha peggiorato lo stato dei diritti in Italia” di Angela Stella L’Unità, 11 gennaio 2025 “I suicidi in carcere? Se vanno avanti con questo ritmo bisognerà chiudere il sistema penitenziario per bancarotta. Lo stato dei diritti in Italia era gracile e arretrato già prima. Gli oltre due anni di questo Governo hanno peggiorato il quadro e indebolito la struttura dell’intero sistema di tutele e garanzie”. Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici e presidente di A Buon Diritto Onlus, Cecilia Sala è tornata in Italia. Secondo lei qual è stata la contropartita? Per quanti sforzi titanici faccia, non riesco proprio a essere originale e a discostarmi da quella che mi sembra essere l’opinione pressoché unanime dei più acuti analisti geopolitici così come dei giornalisti più corrivi. Ovvero uno scambio con la mancata estradizione negli Usa di Abedini. La cosa non mi scandalizza affatto. Proprio perché penso che l’incolumità della vita umana costituisca il valore supremo, sono favorevole a qualunque negoziato, trattativa, compromesso: e penso che tutto ciò inevitabilmente comporti anche la possibilità di uno scambio di prigionieri. D’altra parte si è sempre fatto così - quasi con la sola eccezione del sequestro di Aldo Moro - in tutti i casi, fossero di delinquenza comune o di criminalità politica. In generale non c’è troppa indulgenza nei confronti del regime iraniano da parte del nostro Paese? Sì, a patto che non si ceda alla retorica reazionaria della petulante domanda “dove sono le femministe”? Fin troppo facile rispondere e “dove sono le donne di Fratelli d’Italia, di Forza Italia o della Lega”? Una controversia patetica. È comunque vero che c’è troppa indulgenza nei confronti del regime dispotico dell’Iran, motivata dalle più diverse ragioni. Ne elenco alcune: un eccesso di realpolitik, una politica vaticana reticente verso quella teocrazia iraniana, quello che so essere un ottimo rapporto tra i Servizi Segreti italiani e gli apparati di sicurezza di Teheran; e, ragione che ha a che vedere con l’inconscio collettivo, una certa riluttanza a riconoscersi in una rivoluzione dalla fisionomia così significativamente femminile. Tornando verso l’Italia, la premier Meloni durante la conferenza stampa di due giorni fa ha detto che grazie anche alla recente sentenza della Cassazione i centri in Albania torneranno presto operativi. Lei che ne pensa? Il senso di quella sentenza della Cassazione è stato manipolato, fino a rovesciarne l’interpretazione autentica. È stata confermata, cioè, la giurisprudenza consolidata e si è sottolineato con forza che deve essere il singolo giudice ad accertare se, per il singolo richiedente asilo, quel paese sia o meno sicuro. Esattamente ciò che ha motivato le precedenti sentenze dei magistrati che tanto scandalo hanno suscitato a destra e nel Governo. Il quotidiano tedesco Bild ha elogiato la politica di Meloni sui migranti: “Cambiare è possibile”. Lei che giudizio dà della politica migratoria di questo governo? Do un giudizio incondizionatamente negativo. Dal cosiddetto decreto Cutro a oggi, passando appunto per i fallimentari centri albanesi, la politica migratoria del Governo ha ripetuto, dilatandoli fino all’estremo, gli errori del passato. La sgangherata affermazione di Giorgia Meloni: “cercheremo gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” non ha portato all’arresto di alcun vero trafficante, bensì alla carcerazione di tanti migranti innocenti, come Maysoon Majidi e Marian Jamali. “Io ascolto sempre - ha detto Meloni in conferenza stampa con grande attenzione le parole di papa Francesco, che ringrazio” ma “il modo serio è quello di risolvere la questione non con amnistie, indulti o svuotare le carceri, ma ampliare la capienza delle carceri, rendere più agevole il passaggio dei tossicodipendenti in comunità e intensificare il numero di accordi con altri Paesi che consentono alle persone straniere condannate in Italia di scontare la pena nel Paese d’origine. È così che si garantisce un sistema più dignitoso per i detenuti”. Come commenta? Qui c’è uno strafalcione che ha una portata - oso dire - anche teologica. Il Papa non si limita a richiamare l’opera di misericordia corporale “visitare i carcerati”. Sostenuto dal suo consigliere giuridico, il grandissimo Eugenio Raul Zaffaroni, ha suggerito ripetutamente, da dieci anni, il ricorso a misure legislative come amnistia e indulto: provvedimenti normativi che, possiamo dire, fanno parte ormai della pastorale della Chiesa e danno un senso concreto al principio dell’indulgenza. Provvedimenti di cui ha urgentissimo bisogno il nostro sistema penitenziario per evitare che il suo ormai palese fallimento si traduca in una tragedia senza fine. È insopportabile, poi, che queste misure di clemenza vengano trattate con sprezzo e dileggio, quasi fossero eccentrici stratagemmi e non preziosi elementi di politica penale previsti dalla carta costituzionale. E infine, a proposito di “ampliamento della capienza delle carceri” a fronte di una carenza di 15/16.000 posti, quanti ne sono stati ricavati nel corso di due anni di governo Meloni - Nordio? L’anno è iniziato con altri suicidi in carcere. Nordio si limita a dire che sono un “fardello” ma per gli istituti di pena non fa nulla. Dobbiamo arrenderci o c’è qualcosa che questo Parlamento può fare? La definizione di “fardello” credo che alluda a una responsabilità morale: e questa c’è, indubbiamente. Ma, se il ritmo dei suicidi registrati nei primi dieci giorni del 2025 continuasse per l’intero anno, penso che il legislatore dovrebbe disporre ragionevolmente la chiusura del sistema penitenziario a causa della sua evidente e irrevocabile bancarotta. Il presidente Mattarella ha indirettamente replicato al sottosegretario Delmastro delle Vedove: “I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità”, ha detto il Capo dello Stato nel suo discorso di fine anno. Ha provato una “intima gioia” nel sentire quelle parole? Non nego di apprezzare questo elegante gioco di rimandi e di allusioni e, benché forse solo pochi lo abbiano colto, quel verbo “respirare” utilizzato dal capo dello Stato mi è sembrato magistrale. Per quanto riguarda il sottosegretario Andrea Delmastro, si tratta in tutta evidenza, di una dolorosa vicenda umana sulla quale maramaldeggiare non sarebbe di buon gusto. Caso Ramy Elgaml: la giustizia farà il suo corso e bisogna essere garantisti sempre. Ma che idea si è fatto della vicenda? Il segretario generale del Nuovo Sindacato Carabinieri ha rivelato che il video tramesso dal Tg3 è stato girato dalla telecamera di una gazzella. Ma quella videocamera non fa parte della dotazione dell’Arma, è stata acquistata a spese degli stessi militari. Ma ci si rende conto? Eppure è esattamente da trent’anni che si chiede che tutti gli operatori di polizia in servizio di ordine pubblico abbiano una bodycam sulla divisa. Qualche anno fa se ne è sperimentato l’uso, ma dopo un periodo di prova non se ne è saputo alcunché. Per quanto riguarda il merito dell’accaduto, temo che le frasi registrate dei Carabinieri abbiano un significato inequivocabile: si voleva, come dire, speronare lo scooter dei due giovani e, in un modo o nell’altro, ci sono riusciti. Dopo di che, ho fiducia nella magistratura milanese. Il 15 gennaio presenterete il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia. Qual è lo stato di salute del nostro Paese in merito ai diritti? Penso al esempio al ddl sicurezza in discussione… Lo stato dei diritti in Italia era assai gracile, gravemente deficitario in alcuni campi e complessivamente molto arretrato già prima dell’avvento del governo di Giorgia Meloni. Gli oltre due anni trascorsi dal suo insediamento hanno peggiorato il quadro generale e indebolito la struttura dell’intero sistema di tutele e garanzie. Si pensi ai numerosi provvedimenti, fino al nuovo codice della strada, indirizzati contro il consumo personale - come si sa, perfettamente lecito - di derivati della cannabis. E al divieto, per i migranti privi di permesso di soggiorno, di acquistare una carta Sim. Qualcosa davvero di inaudito. Ancora, si pensi ai diversi “pacchetti sicurezza” che hanno introdotto una cinquantina tra nuovi reati e misure di incremento delle pene, in spregio delle molte parole spese in passato dal Guardasigilli contro il “panpenalismo”. Sia chiaro, non è il fascismo - e per carità evitiamo di evocarlo ancora - ma siamo lontanissimi da quello stato di diritto e da quella democrazia liberale in cui vorremmo vivere. Idea “radicale”: un assegno mensile per le vittime di errori giudiziari di Franco Insardà Il Dubbio, 11 gennaio 2025 Depositata in Cassazione la proposta di legge di iniziativa popolare “Zuncheddu” per sostenere chi ha subito ingiuste detenzioni in attesa dei risarcimenti. Per Beniamino Zuncheddu, uscito a 60 anni metà dei quali trascorsi in carcere da innocente, con quella faccia smunta, lo sguardo smarrito e il fisico provato, non ci sono cifre sufficienti a restituirgli la vita e gli affetti. Lui, in attesa che gli venga riconosciuto il risarcimento, non ha di che vivere e non avendo potuto lavorare in tutti questi anni non ha neanche contributi previdenziali. Ma Zuncheddu non è il solo. Storie simili le hanno vissute e subite Giuseppe Gullotta, con più di 20 anni di carcere da innocente, l’attore Alberto Gimignani, accusato di riciclaggio e ricettazione, sbattuto in prima pagina, e dopo dieci anni assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, e ancora l’ambasciatore Michael Giffoni, una carriera diplomatica distrutta, anche lui assolto con formula piena da accuse infamanti che ne avevano causato la radiazione dalla Farnesina e dove non è mai stato reintegrato. Loro insieme ad altre vittime di giustizia, al Partito Radicale, con la tesoriera Irene Testa e Gaia Tortora, presidente d’onore, hanno depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare, che si chiama proprio “proposta di legge Zuncheddu e altri”, per consentire a chi è stato assolto, oppure condannato e poi assolto, dopo un processo di revisione, o ancora vittima di ingiusta detenzione di usufruire di una provvisionale di mantenimento, in attesa della sentenza di risarcimento. Da domani sulla piattaforma governativa sarà possibile firmare la proposta di legge e dopo aver raggiunto le 50.000 sottoscrizioni e validate le firme, potrà essere depositata in Senato, dove dopo due mesi dovrà essere discussa in Aula. In pratica, la proposta prevede un assegno che parta dal momento dell’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento del danno. “Ci sono persone che si sono viste distruggere l’esistenza: la giustizia, in qualche modo, ha sottratto loro anni di vita e non solo perché sono state in carcere, ma a volte anche per poter sopravvivere dopo l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione. Questa proposta di legge è stata fortemente voluta da Beniamino Zuncheddu, ricordiamolo condannato in via definitiva all’ergastolo, accusato di un triplice omicidio che si consumato nel 1991 in Sardegna”, dice Irene Testa. “La proposta - spiega la tesoriera del Partito Radicale - prevede un assegno che parta dal momento dell’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento del danno a suo favore pari al doppio dell’assegno sociale a valere sui fondi della Cassa delle ammende. La durata della rendita non può essere inferiore al doppio della durata della custodia cautelare sofferta. Perché è proprio in quel periodo che può durare sei, sette, otto, dieci anni che le persone non sanno cosa fare: alcune si rivolgono alla Caritas, altre sono costrette ad andare a rubare, altre ancora se non hanno le famiglie che le sostengono non hanno di che vivere. Le vittime di giustizia sono vittime come tutte le altre. Anche le vittime di giustizia, come dicono loro, hanno il diritto di poter sopravvivere dal momento che hanno patito e subito a causa dello Stato che ha sbagliato. Non le si può abbandonare a se stesse”. Per Gaia Tortora si tratta di “un primo passo per un’altra battaglia di civiltà e soprattutto di sostegno a chi ha avuto un’ingiusta detenzione o una custodia cautelare ingiusta e che ha dovuto sostenere delle spese. E mentre deve aspettare i tempi di questa giustizia che sono ancora troppo lunghi ha diritto ad un sostegno economico”. La vicedirettrice di la7 ci ha tenuto a sottolineare che “si tratta di un altro tassello che va nella direzione proposta con l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari. Quella non è una giornata pericolosa, noi non siamo pericolosi perché abbiamo voglia di spiegare e costruire insieme alla magistratura sana come si possono evitare certi errori che ancora oggi avvengono. Sono ancora troppi i numeri, dietro cui ci sono le persone”. Gli errori giudiziari e l’ingiusta detenzione dal 1991 al 31 dicembre 2023 hanno interessato 31.397 persone, quasi mille all’anno, sconvolgendo le loro vite e quelle delle loro famiglie. Nei giorni scorsi Il Dubbio ha ospitato una interessante riflessione di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma ed ex segretario dell’Anm, secondo il quale “l’iniziativa per la istituzione di una giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari dovrebbe essere accolta con favore dalla magistratura. E anche la proposta del Ministro di prevedere forme di ristoro per chi sia stato ingiustamente sottoposto a processo”. A fine dicembre 2024, infatti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in un’intervista al Messaggero ha esplicitato una sua proposta: “Bisognerà pur pensare a risarcire le persone che finiscono nella graticola giudiziaria per anni, perdendo la salute, i risparmi, e magari il posto di lavoro, perché qualche pm non ha riflettuto sulle conseguenze della sua iniziativa avventata”. Va ricordato, sempre a proposito di costi sostenuti dagli assolti, che nella legge di Bilancio per il 2021 fu prevista - per la prima volta dopo anni di insistenze del Cnf - un fondo per restituire almeno parzialmente le spese legali sostenute, incrementato l’anno successivo, grazie al lavoro del ministro Nordio, da 8 a 15 milioni. La sorpresa è stata che questi rimborsi sono stati chiesti da pochi: solo 362 le domande nel 2022 e appena 700 nel 2023. Chissà ora se quel fondo potrà essere utilizzato anche per la proposta radicale, se diventasse legge. Carceri, don Grimaldi: le lampade della speranza per illuminare i cuori dei detenuti di Roberta Barbi vaticannews.va, 11 gennaio 2025 La consegna del simbolo del Giubileo 2025 ai delegati regionali dei cappellani, in una cerimonia a San Pietro. L’appello dell’Ispettore generale alle istituzioni: “Aiutateci a far arrivare la speranza dell’Anno Santo in tutti gli istituti di pena”. Sono grandi e colorate, riportano sulla pancia quella e croce e quell’ancora simbolo di speranza che tante volte Papa Francesco ha citato nelle parole che rivolge ai reclusi in ogni occasione che ha di incontrarli, l’ultima in ordine cronologico proprio l’apertura della seconda Porta Santa - dopo quella di San Pietro - nella chiesa del Padre Nostro all’interno del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, appena ristrutturata per l’occasione. Sono le lampade della speranza, che ieri mattina in una speciale celebrazione nella Basilica Vaticana presieduta dall’Arciprete cardinale Mauro Gambetti, sono state consegnate ai delegati regionali dei cappellani, presenti in 15. In ogni regione, poi, nel corso del mese di gennaio, la celebrazione di apertura del Giubileo delle carceri a livello locale, con la lampada ancora protagonista, che porterà la sua luce in ogni istituto. Ma dietro questo simbolo c’è di più: “C’è il lavoro, quello dei detenuti della casa circondariale di Salerno che le hanno realizzate - racconta ai media vaticano l’Ispettore generale dei cappellani d’Italia, don Raffaele Grimaldi - e sappiamo che il lavoro è uno degli elementi fondamentali per il reinserimento in società di queste persone”. La cerimonia a San Pietro che ha inaugurato ufficialmente l’Anno Santo del cammino di Pastorale penitenziaria, è stata preceduta da un incontro nella casa circondariale di Regina Coeli a Roma con le istituzioni italiane, alla presenza, tra gli altri, del sottosegretario del Ministero della Giustizia Andrea Ostellari, del vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Lina Di Domenico, del capo Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano e del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Irma Conti. “Noi abbiamo presentato le attività che abbiamo intenzione di fare nel corso dell’Anno Santo, tra catechesi, celebrazioni, momenti di preghiera e di riflessione”, spiega don Grimaldi. Suicidi in carcere, una sofferenza per tutti - “Sappiamo bene che a causa del sovraffollamento e della carenza di personale a volte la Pastorale non riesce a concretizzare tutte le sue iniziative - prosegue l’Ispettore dei cappellani - perciò il nostro appello alle istituzioni è stato proprio questo: aiutateci a far arrivare il Giubileo in tutti gli istituti. Una Chiesa viva deve aiutare i detenuti a vivere l’esperienza giubilare di conversione e rinnovamento della vita spirituale e umana”. Ma ad affliggere il mondo carcere è soprattutto la piaga dei suicidi, l’ultimo in ordine cronologico proprio a Regina Coeli, qualche ora dopo l’incontro. Era un giovane di 25 anni ritrovato impiccato in cella. “Quello dei suicidi è un dramma che fa soffrire tutti - commenta don Grimaldi - ed è un fallimento delle istituzioni le quali, pur avendo per mandato la custodia della vita, si trovano improvvisamente ad avere a che fare con la morte”. La Porta Santa di Rebibbia: simbolo di accoglienza - L’Ispettore generale dei cappellani torna poi con la mente al giorno di Santo Stefano, quando Papa Francesco ha aperto la Porta Santa nell’istituto romano di Rebibbia Nuovo Complesso: “Il Santo Padre ha sempre avuto una predilezione per i detenuti e con questa scelta ha voluto richiamare l’attenzione su questo mondo dimenticato - ha detto - ma questa attenzione non deve essere rivolta solo a chi vive dentro, ma anche a chi finalmente esce fuori e deve reintrodursi nella società: un momento molto delicato che dalla società richiede accoglienza”. “Mi auguro che questa Porta Santa non simboleggi soltanto l’ingresso in carcere della società, con la cura e l’attenzione - ha concluso don Grimaldi - ma anche un passaggio al contrario, per chi dal carcere esce e torna a vivere nel mondo libero con un cuore rinnovato”. Sul ddl Nordio il solo vero voto sarà quello della Camera di Simona Musco Il Dubbio, 11 gennaio 2025 Giorgia Meloni ha blindato la separazione delle carriere, ora all’esame della Camera. Al punto da rendere ormai certa una cosa: quello a Montecitorio sarà l’unico vero voto sulla riforma. Nelle tre successive letture non si farà altro che apporre un timbro a un testo destinato a non cambiare più. La tabella di marcia dell’iter della riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario procede a passo lento. Ma inesorabile, stando a quanto dichiarato dalla presidente Giorgia Meloni, che ha blindato la riforma, ora all’esame della Camera. Talmente blindata da rendere ormai certa una cosa: quello a Montecitorio sarà l’unico e ultimo voto sulla separazione delle carriere. E i successivi passaggi rappresenteranno dei semplici “timbri” rispetto ai quali le opposizioni nulla potranno fare, se non sperare nel referendum che dovrebbe avere luogo l’anno prossimo. La discussione ripartirà martedì 14 gennaio, nel pomeriggio. In mattinata, invece, dopo mesi e mesi di ritardo, le Camere voteranno l’elezione dei quattro giudici costituzionali mancanti, un voto che non può più essere rinviato, come rimarcato, con eleganza, dal rinvio disposto da una Consulta ormai a ranghi ridotti sul voto che decreterà il destino del referendum sull’autonomia differenziata. Il momento è delicatissimo. Ed è proprio in momenti del genere che i retroscena trovano terreno fertile. Quello più succoso viene offerto dal Manifesto, secondo cui i due momenti - separazione ed elezione dei giudici costituzionali - non sarebbero separati. Meglio ancora: ci sarebbe odore di “baratto” all’interno della maggioranza, con Forza Italia che prova a piazzare al Palazzo della Consulta il senatore Pierantonio Zanettin. La maggioranza ha a disposizione due caselle. E se la presidente Giorgia Meloni non è disposta a rinunciare al suo consigliere Francesco Maria Marini, gli spazi di manovra rimangono stretti. Così - questo il retroscena - Forza Italia avrebbe ritirato l’emendamento che proponeva di mantenere l’elezione dei laici in Consiglio superiore della magistratura in cambio di una poltrona a Palazzo della Consulta. “Ridicoli, non sta né in cielo né in terra”, commenta senza troppi giri di parole il deputato forzista Enrico Costa. E il diretto interessato, Zanettin, non è meno netto nel respingere l’ipotesi: “Bufala totale”, afferma. La circostanza è utili per smentire un’altra delle voci circolate, ovvero l’intenzione di Forza Italia di riproporre in Aula, alla ripresa a inizio settimana prossima, il famoso emendamento sui laici. Costa, in questo caso, si limita ad un secco “no”. Il deputato forzista è stato anche l’unico della maggioranza ad intervenire giovedì in Aula. Rompendo un silenzio da parte della maggioranza che era stato interpretato, ancora una volta, come sintomo di un lavoro dietro le quinte. “L’accusa è la vera sentenza che viene trasferita al cittadino e il ribaltamento è anche soggettivo perché non la pronuncia il giudice, la pronuncia il pubblico ministero - ha dichiarato il deputato -. Il giudice, durante le indagini preliminari, si finge morto. Perché, se prova a interferire con il disegno del pubblico ministero, negando una proroga alle indagini, negando le intercettazioni, negando un’ordinanza di custodia cautelare, prosciogliendo all’udienza preliminare, viene accusato di uccidere la giustizia, viene accusato di non fare giustizia, come abbiamo visto in moltissime circostanze, perché la forza del pubblico ministero è una forza mediatica fortissima”. Un sistema “agghiacciante, che è quello del marketing”. C’è un unico assente in quella fase, ha aggiunto Costa: “È la difesa. La difesa non c’è, perché l’accusa viene trasferita al cittadino direttamente e quei riflettori presenti alla conferenza stampa poi si spengono durante il processo. La fase del processo dovrebbe essere la base, perché noi parliamo del giusto processo oggi, lo abbiamo in Costituzione, lo vogliamo affermare”. La riforma costituzionale serve dunque “a fare chiarezza, a rafforzare la presenza del giudice e a rafforzare anche quei magistrati” che lavorano in silenzio e onestamente. Costa è intervenuto per rispondere a Filiberto Zaratti di Avs, secondo cui il rischio è quello di una “crescita esponenziale del potere del pm”, che uscirebbe fuori dalla cultura della giurisdizione avvicinandosi alla funzione di polizia. “Noi non abbiamo bisogno di un “avvocato della polizia”, ma di un organo di giustizia, che sappia esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria”. Un discorso che fa il paio con quello del togato Roberto Fontana, consigliere indipendente al Csm e tra i relatori del parere che ha bocciato la riforma: la separazione creerebbe, a suo dire, “un corpo di magistrati privi di cultura giurisdizionale, in sintonia con la mentalità dominante e le prassi degli organi di polizia giudiziaria, nel ruolo di un’ottica di un avvocato dell’accusa, aprioristicamente indirizzato verso l’obiettivo accusatorio”, cambiando dunque “il dna della magistratura inquirente” e creando inevitabilmente “le premesse, in una prospettiva di equilibrio dell’ordinamento, per l’attrazione del pubblico ministero nella sfera della potere esecutivo”, proprio per arginare lo strapotere che si verrebbe a creare. L’ultimatum della Consulta: rinviata la decisione sui referendum in attesa dei nuovi giudici di Giacomo Puletti Il Dubbio, 11 gennaio 2025 Martedì è convocato il Parlamento in seduta comune per l’elezione dei giudici mancanti. E la Corte questa volta esorta l’Aula alla fumata bianca. Potrebbe essere la volta buona, la prossima settimana, per l’elezione dei giudici della Corte costituzionale di competenza parlamentare. Martedì alle 13 è infatti convocato il Parlamento in seduta comune per la ricomposizione del plenum della Consulta. Si tratta del 13/esimo scrutinio per un giudice e del quarto per tre giudici, ma il quorum è in ogni caso dei 3/5 e quindi le possibilità di una fumata bianca crescono, anche per l’accordo in via di definizione tra maggioranza e opposizione, dopo mesi di stallo. E anche perché dalla Consulta è arrivato una specie di ultimatum, espresso in una nota dai toni non esattamente concilianti. “Considerata la convocazione per martedì 14 gennaio del Parlamento in seduta comune per l’elezione di quattro giudici costituzionali, il Presidente facente funzioni della Corte costituzionale, Giovanni Amoroso, ha firmato il decreto con cui si posticipa dal 13 al 20 gennaio, termine ultimo previsto per legge, la camera di consiglio partecipata in cui verrà giudicata l’ammissibilità dei referendum abrogativi richiesti e ritenuti conformi alla legge dall’Ufficio centrale per i referendum della Corte di cassazione”, si legge nel comunicato. Una presa di posizione che arriva dopo svariate richieste al Parlamento di ottemperare al dovere di elezione dei quattro giudici mancanti, o meglio del giudice vacante da più di un anno e degli altri tre che si sono aggiunti da qualche settimana. Uno stallo “all’italiana” che potrebbe vedere la fine proprio martedì, quando a meno di sorprese sarà rispettato lo schema 2-1-1 previsto, e cioè due giudici di area centrodestra, uno vicino al centrosinistra e un tecnico. “Al momento non c’è nessun accordo, abbiamo avviato delle interlocuzioni”, ha detto giovedì al termine della capigruppo di Montecitorio la vice capogruppo del M5S alla Camera, Vittoria Baldino, ma per la leader dei deputati dem, Chiara Braga, “il Parlamento è chiamato dalla Costituzione a costruire una soluzione il più possibile condivisa per ricostruire il plenum della Corte Costituzionale, e dopo avere sventato le forzature che la destra aveva pensato di fare ora la dialettica, il confronto, mi auguro possa portare all’elezione dei giudici”. Un confronto, quello tra maggioranza e opposizione, chiesto anche dalla stessa presidente del Consiglio, anche se da Avs non mancano di rimarcare l’incoerenza del messaggio. “La presidente Giorgia Meloni parla di dialogo con le opposizioni in merito alla prossima e urgente elezione dei giudici costituzionali - hanno detto Luana Zanella e Peppe De Cristofaro, capigruppo di Avs alla Camera e al Senato, dopo la conferenza di inizio anno dell’inquilina di palazzo Chigi - Meglio tardi che mai, tuttavia noi fin qui non abbiamo ricevuto nessuna richiesta di confronto”. Salvini: “Subito il ddl Sicurezza, a difesa degli agenti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 gennaio 2025 Pressing della Lega per l’approvazione del testo fermo al Senato. Cerca una leva nei recenti fatti di cronaca - e confonde i decreti con i disegni di legge - il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, per tentare un nuovo pressing sul ddl Sicurezza attualmente fermo al Senato per le evidenti criticità e incostituzionalità che lo potrebbero far tornare alla Camera per una terza lettura. La speranza del leader della Lega è di recuperare, grazie alla norma-bandiera, qualche punto di gradimento in una destra dove attualmente regna sovrana incontrastata Giorgia Meloni. “Con l’approvazione definitiva al Senato dei nuovi decreti sicurezza - conto il prima possibile - diventerà finalmente legge la proposta della Lega che aumenta la tutela legale degli agenti (e dei Vigili del Fuoco) finiti a processo per fatti inerenti al servizio raddoppiando il sostegno economico alle spese legali”, scrive Salvini sui social in un post di commento alla “commovente solidarietà di tanti cittadini italiani e stranieri a sostegno del maresciallo Luciano Masini”, il carabiniere indagato per eccesso di legittima difesa per aver ucciso a colpi di pistola - nella notte di capodanno a Villa Verucchio - Muhammad Sitta, l’attentatore 23enne egiziano che aveva accoltellato quattro passanti a caso. Meloni ha ringraziato il militare durante la conferenza stampa di inizio anno e ieri il ministro della Difesa Guido Crosetto ha disposto per il maresciallo Masini un “encomio solenne”. A Salvini non resta che accodarsi. Così, un ddl “omnibus” che in 38 articoli introduce 13 nuovi reati e una gran quantità di aggravanti in campi diversissimi - dalle detenute madri ai blocchi stradali, dalle occupazioni alla canapa, dall’accattonaggio al terrorismo - con una tale noncuranza del diritto penale e dello Stato di diritto da allarmare il Colle e pure il Consiglio d’Europa, diventa per la Lega di governo l’”unico strumento oggi in grado di tutelare e difendere il sacrificio di servizio e dedizione delle nostre Forze di Polizia”, come ha sottolineato ieri anche il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Secondo il quale “una immediata e rapida approvazione del Ddl Sicurezza” equivale a un’espressione di “vicinanza, stima e la conferma di un impegno concreto a tutela delle nostre Forze dell’Ordine”. Infatti nel Ddl Sicurezza sono numerose le norme che - indipendentemente dalla loro applicabilità - strizzano l’occhio ai sindacati più agguerriti delle divise. C’è il nuovo reato, con pene fino a 16 anni di carcere, di lesioni personali a un agente o un ufficiale nell’adempimento delle sue funzioni; c’è l’aggravante per violenza o minaccia a pubblico ufficiale (ulteriormente aumentata per chi lo fa “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”); c’è la “possibilità” di dotare gli agenti di videocamere (senza l’obbligo di accenderle). Negli articoli 22 e 23 è poi prevista la copertura finanziaria delle spese legali per i poliziotti, i militari e i vigili del fuoco che siano chiamati a giudizio per il loro operato, salvo rivalsa al termine del procedimento in caso di condanna. Per soddisfare la polizia penitenziaria, il testo prevede anche il nuovo reato di rivolta nelle carceri e nei Cpr, che si profila anche in caso di resistenza passiva a un ordine. Infine, a tutela della sicurezza del personale di polizia (in questo caso, stranamente, senza casi di cronaca a sostegno), ogni agente è autorizzato a portare senza licenza armi personali diverse da quelle in dotazione. Manca, nel ddl, il sia pur minimo accenno alla formazione (oltre che al reclutamento) di nuovo personale in grado di garantire sicurezza nel rispetto delle regole auree della democrazia. La Lega deposita il ddl “blocca ladri”: carcere senza sconti per chi ruba nelle case di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2025 Si introduce anche l’arresto in flagranza differita. La Lega promuove una “norma blocca ladri”, con “inasprimento delle pene per garantire la galera senza sconti ai malviventi che rubano nelle case degli italiani”. Lo comunica il Carroccio, sottolineando, che “oggi, per una serie di attenuanti o sconti, i criminali possono evitare il carcere e questa condizione attira in Italia anche malviventi dall’estero che possono contare su norme più tolleranti. La Lega ha già depositato un ddl ed è pronta anche a inserirlo in un primo provvedimento ad hoc”. Furti in abitazione in crescita - Il disegno di legge (primo firmatario Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato e segretario del Carroccio in Lombardia), nella relazione illustrativa, registra come in base ai dati Istat “sia continua la tendenza della crescita dei reati predatori”. Nel 2023, le vittime di furti in abitazione “sono state l’8,3 per 1.000 famiglie (erano il 7,6 nel 2022); sono state vittime di borseggi 5,1 persone ogni 1.000 abitanti (erano 4,6 nel 2022)”. Con la cronaca nera di tutte le province italiane “oramai quasi quotidianamente impegnata nel racconto di furti in abitazione, che a volte avvengono anche con le persone presenti in casa”. E’ di oggi la notizia della rapina nella notte nella villa di Maria Sole Agnelli, sorella dell’avvocato Gianni Agnelli, a Torrimpietra, vicino a Roma. “Per la maggior parte dei cittadini - è il ragionamento del Carroccio - la casa riflette anche la propria personalità; essa è percepita come un luogo confortevole e sicuro. E lo Stato ha il compito di garantirne l’inviolabilità”. Di qui una necessità: “La risposta al grido di aiuto dai cittadini deve arrivare in tempi rapidi”. “Nel 2019 con la legge n. 36, cosiddetta “Legittima difesa”, il Governo apportò un inasprimento delle pene, in particolare all’articolo 624-bis del codice penale, relativo al furto in abitazione e al furto con strappo”. Ma “oggi - si legge ancora nella relazione illustrativa del provvedimento - si sente la necessità di intervenire nuovamente aumentando le pene previste per questi reati, non solo come deterrente per chi li commette, ma anche perché i cittadini sentano la protezione dello Stato nei loro confronti e nei confronti della loro proprietà”. La pena (attualmente da quattro a sette anni) è innalzata perciò da un minimo di sei a un massimo di otto anni (fino a un massimo di dieci anni in caso di aggravanti) Con il disegno di legge, infine, si estende l’arresto in flagranza differita, previsto dall’articolo 382-bis del codice di procedura penale, anche al reato di furto in abitazione previsto dal comma 1 dell’articolo 624-bis del codice penale, ovvero “si propone di considerare in stato di flagranza chi, sulla base di documentazione video fotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica, abbia compiuto un furto in una abitazione, sempre che l’arresto sia compiuto entro le quarantotto ore dal fatto”. Piemonte. Situazione delle carceri, l’allarme dei Garanti: “Nulla si muove, anno dopo anno” di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 11 gennaio 2025 Un quadro in chiaroscuro (con più ombre che luci), emerge dal IX “Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”, presentato dal Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Bruno Mellano, il 30 dicembre a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte. Ombre, evidenziate sinteticamente dal documento che fotografa la situazione dei 13 penitenziari regionali e dell’istituto penale minorile di Torino “Ferrante Aporti”, che vanno dal sovraffollamento (allo scorso 30 novembre, nelle carceri della regione, erano complessivamente 4500 le persone ristrette, a fronte di una capienza di 3979 posti dei quali, peraltro, 261 temporaneamente non disponibili). A questo si aggiungono la cronica carenza di personale di custodia, mediatori culturali (mancanza pesante se si tiene conto che il 43% dei reclusi è straniero) e altre professionalità. Ad accentuare le tinte fosche del Dossier, contribuiscono il crescente numero di suicidi in cella (nel 2024 si sono tolti la vita in Piemonte sette detenuti), l’aumento di atti di autolesionismo e le aggressioni al personale. E pensare che per i lavori di adeguamento strutturale e di riqualificazione di spazi e ambienti non mancherebbero le risorse finanziarie: quelle messe a disposizione dal Piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr e da altri fondi straordinari governativi, senza dimenticare gli stanziamenti ordinari per le opere di manutenzione. Ai soli istituti di pena torinesi sono stati destinati 37 milioni e 800 mila euro (25 milioni e 300mila euro per il Ferrante Aporti, oltre 12 milioni per il “Lorusso e Cutugno”), risorse disponibili ma non ancora utilizzate per via dei “tempi elefantiaci della burocrazia, dalla lentezza delle procedure amministrative, dall’incerta individuazione delle priorità di intervento e dalle lungaggini progettuali” come ha illustrato Bruno Mellano che ha aggiunto che occorrerebbe agire in modo più deciso e tempestivo e non solo per la realizzazione delle necessarie opere di ristrutturazione all’interno delle carceri, ma anche pensando a soluzioni diverse, come peraltro suggerito dai garanti dei detenuti. Riflettendo, ad esempio, sulla creazione di strutture esterne di esecuzione penale, opzione che - sostiene Mellano - “risponderebbe concretamente all’esigenza di attenuare gli effetti del sovraffollamento degli istituti e, elemento tutt’altro che secondario, favorirebbe il processo di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti che godono del regime carcerario della semilibertà, o che stanno scontando pene brevi, oppure ancora che sono a fine pena”. Le soluzioni: rimuovere gli ostacoli posti dalla burocrazia, decidere gli ambiti di intervento e agire con maggiore rapidità, optando anche per soluzioni innovative laddove è possibile. E soprattutto agire con urgenza perché dietro le sbarre degli istituti piemontesi - come ha denunciato la garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, Monica Cristina Gallo - la situazione è stagnante: malgrado gli sforzi dell’amministrazione penitenziaria locale manca un disegno e una progettualità complessiva dall’amministrazione nazionale. Per quanto riguarda il carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, ha sottolineato Monica Cristina Gallo, pur con alcuni spazi rigenerati, cambiamenti di rilievo non si evidenziano. Il nuovo Dossier è quasi il copia e incolla di quello del 2023, salvo alcune eccezioni. “In molte sezioni, ad esempio, per ottenere l’acqua calda è necessario aprire tutti i rubinetti, con un enorme consumo di acqua corrente. Anche sul sovraffollamento, sull’assenza di mediatori culturali e sugli spazi medici non idonei non possiamo parlare di progressi”. Condizioni, quelle di Torino e di tante altre carceri piemontesi e italiane, che impongono di agire con sollecitudine. L’auspicio di Bruno Mellano è che “il 2025, anno del Giubileo per il quale papa Francesco ha aperto una Porta Santa anche nel carcere romano di Rebibbia, porti con sé la speranza e apra la mente e i cuori di coloro che rivestono compiti nell’ambito dell’esecuzione penale affinché tutti, dalle istituzioni dello Stato a quelle locali e a chiunque operi e abbia responsabilità, possano offrire qualcosa di diverso dall’ordinaria esperienza fallimentare di questi anni”. Sicilia. Cibi e vestiti vietati ai detenuti: repressione in atto di Andrea Aversa L’Unità, 11 gennaio 2025 Il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Regione Sicilia ha introdotto una norma che vieta specifici marchi di abbigliamento e l’introduzione, l’acquisto e l’uso di particolari alimenti. La protesta a Siracusa, l’iniziativa dei Garanti e le segnalazioni giunte da altre città dell’isola. Per il Provveditore Maurizio Veneziano le disposizioni “sono improntate ai principi di parità di condizioni fra i reclusi, di garanzia dell’ordine e della sicurezza penitenziaria e di tutela della salute della popolazione detenuta”. Non solo Siracusa e ben prima della fatidica data del 13 gennaio, anche a Catania ed Enna sono entrati in vigore i divieti disposti dalla circolare approvata lo scorso novembre dal Provveditorato della Regione Sicilia. Ai detenuti delle carceri siciliane, con il nuovo anno, sarà impedito di indossare capi di specifici marchi di abbigliamento e di acquistare o avere dall’esterno determinati alimenti. Sono state tante le segnalazioni di molti parenti dei reclusi inviate all’associazione Sbarre di Zucchero e giunte alla nostra redazione. In questo articolo pubblichiamo qualche estratto della circolare in questione con parte dell’elenco dei cibi vietati. L’Unità si è occupato in questi giorni delle proteste avvenute nel carcere di Cavadonna a Siracusa. I detenuti a partire dallo scorso 6 gennaio e per tre giorni hanno messo in atto la tradizionale battitura e bloccato tutte le attività lavorative nelle quali sono coinvolti. Solo l’intervento del Garante per i diritti dei detenuti della città Giovanni Villari e del magistrato di sorveglianza hanno consentito un’apertura da parte della direzione nei confronti dei detenuti. Così il dialogo si è sostituito, per ora, alla rivolta. Ora, i divieti imposti dalla circolare, si stanno estendendo a macchia d’olio anche negli altri penitenziari dell’isola, tra cui il Bicocca di Catania e la casa circondariale Luigi Bodenza di Enna. Le reazioni dei parenti dei detenuti - Ecco due messaggi prevenuti alla nostra redazione da parte di alcuni parenti dei detenuti: “Non sono più ammessi giubbotti, con quel po’ di imbottitura per combattere il freddo, né lenzuola di pail, non più scaldacollo né pigiami di pail, nulla, sono destinati a morire di freddo, in quanto non ci sono i riscaldamenti. Oltretutto gli fanno mancare anche l’acqua. La dignità è un diritto di ogni essere umano, la galera è già il loro pegno da pagare, ma non si deve toccare la dignità di una persona”; “È una cosa assurda e disumana, queste persone hanno sbagliato e stanno pagando le loro colpe ma è sbagliato trattarle come bestie in gabbia. Tralasciando gli indumenti firmati che può essere corretto vietarli perché non tutti i familiari li possono comprare, perché non fargli avere lenzuola o pigiami in pail o plaid o giubbotti soprattutto con questo freddo e con l’assenza di riscaldamenti”. La circolare e la repressione a Catania, Enna e Siracusa - Queste, invece, le dichiarazioni riportate da Siracusa News del Provveditore della Regione Sicilia Maurizio Veneziano che ha così motivato la decisione di approvare tale circolare: “La scelta di individuare un elenco di generi (alimentari, abbigliamento e altro), che possono essere acquistati dai detenuti, nasce dalla necessità di garantire il principio di parità di condizioni tra le persone private della libertà, per assicurare una gestione penitenziaria equilibrata ed equa, consentendo solamente il possesso ed il consumo dei generi non indicativi di una posizione di privilegio, quali sono i beni di lusso o voluttuari. La ratio è quella di eliminare le disomogeneità presenti sul territorio, che sono percepite dalle persone ristrette come differenze di trattamento non comprensibili e inconciliabili con il dovere di imparzialità dell’amministrazione penitenziaria. Alcuni beni potrebbero essere indicatori di uno status di privilegio e questo determinerebbe posizioni di leadership e favorirebbe dinamiche di scambio illecito con ricadute pregiudizievoli sull’ordine e la sicurezza penitenziaria. Le dichiarazioni del provveditore Maurizio Veneziano - Il nostro dovere è quello di garantire parità di condizioni a tutte le persone private della libertà, indipendentemente dalle loro condizioni sociali, economiche e di appartenenza. Inoltre, è prioritaria l’esigenza di non consentire la consegna ai detenuti di quei generi, anche alimentari, che non sono facilmente controllabili senza manomissioni e che comporterebbero un inevitabile rischio per l’ordine e la sicurezza penitenziaria. Controllare invasivamente i predetti generi, quali ad esempio quelli alimentari, determinerebbe, altresì, un grave rischio e nocumento per la tutela della salute delle persone private della libertà. Le ragioni della circolare sono improntate ai principi di parità di condizioni fra i reclusi, di garanzia dell’ordine e della sicurezza penitenziaria e di tutela della salute della popolazione detenuta”. Cagliari. Nuova tragedia in carcere: detenuto di 49 anni suicida in cella di Guido Garau cagliaritoday.it, 11 gennaio 2025 “Inizio d’anno tragico nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove un detenuto di 49 anni si è tolto la vita impiccandosi. Nonostante l’immediato tentativo dei medici del 118, allertati dagli Agenti, non c’è stato nulla da fare. A,R.O., originario di Uras, aveva più volte manifestato grave disagio con atti di autolesionismo per cui era costantemente monitorato. L’estremo atto, che ha suscitato vivo sgomento nell’Istituto, si è verificato nelle prime ore del mattino, intorno alle 5”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV facendo osservare con amarezza che “il primo suicidio del 2025 nella Casa Circondariale riporta l’attenzione sulle gravi condizioni di sovraffollamento”. “Non si può più tacere su quanto avviene nei nostri Istituti Penitenziari - sottolinea - dove persone fragili, nonostante l’impegno degli operatori, non possono stare dietro le sbarre. Occorrono serie iniziative per garantire il diritto alla salute in luoghi adeguati ai bisogni di chi è in difficoltà per problematiche psichiche. Senza un intervento concreto, temo che andremo incontro ad altri episodi drammatici.”. Il gesto estremo amplifica il dramma vissuto da centinaia di persone dietro le sbarre nei penitenziari sardi, dove la situazione da tempo è diventata insostenibile. “E’ un suicidio annunciato”, tuona Irene Testa, garante regionale dei detenuti, “così non si può andare avanti”. Il 2025 inizia con una tragedia nelle carceri della Sardegna. Un detenuto si è tolto la vita in una cella dell’istituto penitenziario di Uta, un gesto che amplifica ulteriormente il dramma vissuto da centinaia di persone dietro le sbarre. Il suicidio, purtroppo, non è un caso isolato, ma una triste realtà che affligge i penitenziari sardi, dove la situazione è sempre più insostenibile. “E’ un suicidio annunciato”, tuona Irene Testa, garante regionale dei detenuti, “inutile tenere in cella e non in comunità persone con disagi che manifestano e continuano ad avere problemi. Uta ha record di affollamento, il personale è allo stremo. Così non si può andare avanti”. Secondo i dati più recenti, diffusi dall’ufficio statistico del ministero della Giustizia, il 2025 si apre con numeri allarmanti. Il carcere di Uta, uno dei principali dell’isola, ha registrato un incremento del 30% nel sovraffollamento. Al 31 dicembre 2023, l’istituto ospitava 601 detenuti contro una capienza di 561 posti, mentre un anno dopo i numeri sono saliti a 768. Una crescita vertiginosa, che non ha trovato alcun riscontro in un aumento del personale penitenziario, tanto meno in quello sanitario e psicologico, da sempre carente in queste strutture. E la preoccupazione non riguarda solo il numero dei detenuti, ma anche le condizioni in cui vivono anche le guardie carcerarie. La situazione si complica ulteriormente a Sassari-Bancali, dove i dati sono altrettanto preoccupanti: nell’ultimo periodo, i detenuti sono aumentati da 472 nel 2023 a 536, a fronte di 454 posti disponibili. La capacità degli istituti penitenziari sardi è dunque ben lontana dal rispondere alle esigenze della popolazione carceraria, creando un terreno fertile per fenomeni di tensione, frustrazione e, purtroppo, atti estremi come il suicidio. Un altro aspetto critico che emerge dai dati è la gestione degli istituti. Due dei più grandi penitenziari dell’isola, Uta e Bancali, sono attualmente diretti da reggenti e non da direttori titolari, una condizione che aggiunge ulteriori difficoltà a un sistema già al limite delle sue possibilità. Il 56,9% dei detenuti sardi è concentrato in queste due strutture, con un numero complessivo di ristretti che ha superato le 2.200 unità, di cui 49 donne. Tra questi, solo circa mille sono di origine sarda, il che rende evidente come il sovraffollamento non sia solo un problema numerico, ma anche sociale. Il tema del sovraffollamento carcerario è sempre stato un nodo cruciale per la giustizia italiana. Ma in Sardegna, dove la geografia e le difficoltà logistiche complicano ulteriormente la gestione, l’emergenza è diventata ormai una questione quotidiana. La scarsità di risorse umane e materiali rende difficile garantire condizioni di vita dignitose per i detenuti e per gli operatori penitenziari. Le strutture carcerarie non sono più in grado di offrire nemmeno i servizi minimi necessari a garantire la sicurezza e il benessere di chi vive all’interno di quelle mura. In un simile contesto, il suicidio di un detenuto diventa purtroppo un tragico epilogo di una situazione che da tempo si aggrava senza trovare risposte concrete. La mancanza di investimenti in programmi di reinserimento sociale, il sovraffollamento, e la carenza di personale qualificato sono solo alcune delle problematiche che contribuiscono a rendere le carceri della Sardegna un luogo di sofferenza e disperazione. Quella di Uta è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che colpisce tutta la regione, ma che non può essere ignorato. La tragedia che segna l’inizio del 2025 è un campanello d’allarme. Modena. Morti in carcere, situazione esplosiva: “Struttura stipata e fatiscente” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 11 gennaio 2025 Il caso del penitenziario di Modena è il più allarmante; al Sant’Anna si è registrato uno sciame di suicidi, che purtroppo non è un fenomeno infrequente, ma è rivelatore di una situazione di grave sofferenza. Inoltre il vecchio padiglione versa in condizioni critiche, come appurato durante l’ultima visita dell’Osservatorio nel carcere modenese, avvenuta il 5 dicembre. A lanciare l’allarme sulla situazione carceri in Emilia Romagna e, soprattutto, sulla situazione di Modena è l’associazione Antigone che fa presente come, lo scorso sette gennaio, si sia verificato al Sant’Anna il terzo decesso in sette giorni. Il giorno prima era stato dichiarato morto un altro detenuto che aveva tentato il suicidio a metà dicembre ed era entrato in coma irreversibile, e sempre a Modena, il 31 dicembre era morto un altro detenuto. L’associazione sottolinea poi il grave problema sovraffollamento, registrato durante la visita con la presenza di “568 detenuti su una capienza regolamentare di 372, di cui 29 donne e 341 stranieri, con un forte aumento rispetto alla visita precedente (più di 100 unità rispetto a giugno 2023) e un alto numero di detenuti definitivi, 384. Questo - secondo Antigone - rende difficile un’osservazione e un’offerta trattamentale adeguata, vista la pianta organica del personale giuridico pedagogico (sei unità)”. Non solo, poiché secondo l’associazione ad aggravare il tutto ci sono poi “le pessime condizioni di detenzione nel vecchio padiglione: cimici, sporco, vari oggetti bruciati, lamentata mancanza di detersivi, mobilio gravemente danneggiato, pareti scrostate, porte dei bagni delle celle arrugginite”. Migliori, invece, le condizioni del nuovo padiglione e del femminile. A fronte della situazione problematica, lunedì mattina i tre parlamentari modenesi dem, Stefano Vaccari, Maria Cecilia Guerra e Enza Rando, insieme alla vicesindaca Francesca Maletti visiteranno la casa circondariale. Un nuovo sopralluogo, dopo quello del 2 aprile, deciso soprattutto a fronte dei tre recenti decessi, tra cui quello dell’uxoricida Andrea Paltrinieri. Per lo stesso e grave motivo la Camera penale, per il prossimo 24 gennaio proclama l’astensione collettiva dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale degli avvocati. “In otto giorni si sono verificati tre decessi di altrettanti detenuti presso la Casa Circondariale due dei quali, a quanto si apprende, tragicamente causati da inalazione di gas” sottolineano gli avvocati. “I tre recenti episodi devono essere necessariamente letti anche alla luce del più ampio quadro di disagio nel quale versa la casa circondariale modenese, nella quale s’erano registrati ben 40 casi di tentato suicidio di detenuti tra il 24 luglio 2023 e il 4 luglio 2024, come riportato nella relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena; la medesima relazione mostra poi in maniera palmare una grave situazione di sovraffollamento”. Intanto il sindacato Sinappe denuncia l’ennesima aggressione ai danni di tre agenti della polizia penitenziaria nella casa lavoro a Castelfranco Emilia. Ad aggredirli, un internato. Si tratta di due ispettori e un assistente Capo che hanno cercato di evitare il peggio. “Il Governo - le parole di Luca Negrini, capogruppo di Fratelli d’Italia - sta affrontando la questione carceri con un intervento strutturato che avrà ricadute positive anche sull’istituto penitenziario di Modena. È evidente che il tema del sovraffollamento carcerario rappresenta uno dei tanti dossier ereditati dal Governo Meloni che, a differenza dei predecessori, si distingue per aver messo in campo un piano strutturato, significativo su più fronti”. Bologna. Cgil: “Alla Dozza si segnalano ancora gravi criticità” bolognatoday.it, 11 gennaio 2025 La Cgil accusa: mancano mobili, a volte perfino lenzuola e cuscini, e non c’è abbastanza personale. Continua a risultare più che problematica la situazione del carcere della Dozza, che come molti altri penitenziari in giro per l’Italia vive una situazione di criticità strutturale sia per i detenuti che per il personale. Da diverso tempo, sindacati di polizia penitenziaria, politici e anche il garante dei detenuti chiedono un intervento risolutivo al governo, che risponde però - l’ultima volta ieri, durante la conferenza stampa della premier Meloni - come l’unico rimedio sia quello di allargare ancor di più la capienza delle carceri. A nulla sembrano servire gli appelli di chi quotidianamente vive il carcere. L’ultimo, in ordine temporale, arriva dal sindacato FP Cgil Bologna, che in una nota segnala ancora “gravi criticità” all’interno della Dozza. Oltre alla gestione difficile di un detenuto che lo scorso 5 gennaio ha tentato il suicidio - in cui, nelle operazioni di salvataggio, un ispettore ha anche riportato lesioni “piuttosto serie” - il sindacato denuncia “il sovraffollamento, la mancanza di regole certe, mobili mancanti, a volte anche lenzuola e cuscini, carenza di personale di ragioneria e conseguenti problematiche con i conti dei detenuti, alimentano la già altissima tensione all’ interno dell’Istituto, che ricade sempre su tutto il personale interno”. E come se non bastassero i problemi elencati, FP Cgil denuncia anche la non conformità di alcuni reparti alle norme di sicurezza e di antincendio, come ad esempio in una delle sezioni del reparto infermeria. Piacenza. “Alle Novate oltre 500 detenuti invece di 416, studio e lavoro altre note dolenti” ilpiacenza.it, 11 gennaio 2025 “In cima alla lista dei problemi c’è il sovraffollamento”. “Alle Novate oltre 500 detenuti invece di 416, studio e lavoro altre note critiche dolenti”. A parlare Bruno Carrà, responsabile dell’Ufficio Antidiscriminazioni della Camera del Lavoro di Piacenza, che interviene sulla condizione delle persone detenute nella casa circondariale. “Dopo la tragedia avvenuta il 30 dicembre 2024 nel carcere piacentino delle Novate, dove è morto un detenuto a causa di un tentativo dimostrativo finito male” scrive il sindacalista, aggiungendo che sono stati 88 i suicidi nelle carceri italiane nell’ultimo anno concluso, 243 le morti totali, “all’inizio di quest’anno c’è stata una ampia riflessione con la quale la garante dei detenuti per il carcere di Piacenza, Mariarosa Ponginebbi, ha sciorinato cosa va e cosa non va rispetto alla situazione presente alla casa circondariale del territorio piacentino”. “In cima alla lista dei problemi, come in tante realtà detentive - sottolinea Carrà - c’è il sovraffollamento, considerando che a Piacenza dovrebbero essere collocati nell’Istituto penitenziario delle Novate 416 soggetti in restrizione, ma ormai si è andati a superare quota 500, con una situazione che non si cura della dignità umana. In Italia i posti carcerari disponibili sono 47mila, ma 62mila 400 è il numero delle persone attualmente detenute nel nostro Paese, quindi ben più di 15mila sono le persone senza un posto regolamentare. Il sistema penitenziario ormai da diversi anni è afflitto da un cronico sovraffollamento e in molti casi lontano dagli standard compatibili con i principi costituzionali e con le carte sovranazionali sui diritti. “Sulle 62 mila persone attualmente detenute nel nostro Paese - prosegue la nota stampa - 8mila devono scontare meno di un anno di pena, e più di oltre 3mila restano 6 mesi solo da scontare, raddoppiano il numero dei detenuti in attesa di giudizio, 19mila i detenuti stranieri, 17mila tossicodipendenti, 4mila sono i malati di mente dietro le sbarre e chi ha un disagio e sofferenza psichiatrica è una persona malata da curare in dignità nel proprio contesto e non disumanamente da considerare soggetto pericoloso da isolare. Questo è l’insegnamento e il modello primo di Basaglia con la Legge numero 180 del maggio 1978, che si è occupata di accertamenti e trattamenti di carattere sanitario volontari ed obbligatori che viene associata al suo nome, normativa che questa maggioranza di governo colpevolmente tende a minimizzare e superare, stravolgendola. Occorrerebbero interventi per ridurre la pressione oggi che si pone sul sistema carcerario e non fantasmagorici annunci di possibili costruzioni per nuovi penitenziari. Il valore di quella legge di riforma del 1978, per inciso, sta proprio nella sua spinta liberatoria e nella visione di società solidale, con la chiusura dei manicomi ed è ancora oggi una speranza perché pose fine a secoli di abusi. Per questo questa grande conquista sociale è un impegno da mantenere e da rilanciare”. “I dati appena ricordati sulle detenzioni - spiega Carrà - ci fanno riflettere che basterebbe intervenire con un buon senso civico e sanitario attraverso una ponderata sottrazione aritmetica per essere molto vicini a risolvere questa questione che affligge il sistema carcerario, sapendo che non è l’unica. Va quindi compreso, come richiamato nel discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella del 31 dicembre scorso, il rispetto e dignità per ogni persona e pertanto anche per chi si trova in carcere e come l’alto numero di suicidi debba considerarsi indice di condizione inammissibile, partendo dal dovere di osservare la nostra Costituzione che indica regole e norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il medesimo sovraffollamento negli istituti penitenziari rende inaccettabili pure e anche le condizioni di lavoro del personale posto all’interno di essi. I detenuti devono poter respirare un clima differente da quello che li ha condotti all’illegalità e al crimine. Ad esempio, il dl del 4 luglio 2024 numero 92, di cui diamo un giudizio negativo, contiene misure in materia penitenziaria e affari limitrofi: al Capo II reca disposizioni in materia di diritto penale, ma mentre come Cgil chiediamo provvedimenti legislativi in grado di incidere in concreto sul gravoso sovraffollamento carcerario e sulle condizioni delle carceri da un punto di vista strutturale, nessun provvedimento è stato invece realmente previsto”. “Manca, quindi - continua - qualsiasi norma effettiva che modifichi in maniera significativa l’esistente e che realmente incida sul quantum di pena. Quindi non ci sarà nessun effetto concreto e positivo se non modifiche parziali e non molto rilevanti su modalità e tempistiche riguardo l’iter per concedere la normale liberazione anticipata, anche se il livello di civiltà di un paese lo si misura anche dalle condizioni delle sue carceri e dal trattamento riservato alle persone detenute in restrizione carceraria. Non trovo azioni che possano migliorare veramente le condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari, e pertanto non cambierà una situazione insopportabile per la vita e la dignità delle persone coinvolte. La governante stessa del sistema penitenziario del nostro Paese presenta tutti i suoi limiti. Le cure sanitarie stesse, la lotta alle dipendenze e di supporto psichiatrico, ha trovato nella Regione Emilia Romagna un supporto concreto: infatti sono stati destinato 1,7 milioni di euro dall’Azienda Sanitaria locale di Piacenza per la specifica assistenza sanitaria nel carcere delle Novate per una effettiva continuità di cura tra il carcere e il territorio indispensabile per ridurre recidive e promuovere quelle riabilitazioni indispensabili all’interno di una fascia di popolazione particolarmente fragile da bisogni che spaziano da malattie cronache sino alla salute mentale sino alle malattie tipologiche. È così che si può rafforzare una risposta medica degli Istituiti carceri per coloro che sono in sofferenza”. “Poi alle Novate - scrive - lo studio e il lavoro sono altre note critiche e dolenti; infatti, i detenuti autorizzati a lavorare con l’articolo 21, lo fanno soltanto nell’ambito interno del carcere e non in città, ed in più ci sono serie difficoltà a conseguire dal carcere il diploma di cinque anni, e avviene che detenuti arrivati al quarto anno provenienti da altri Istituti di detenzioni non riescano a finire il ciclo scolastico, minando un proficuo inserimento nella società una volta terminata la pena. Rimango convinto che le “Novate”, come ogni carcere, siano un pezzo della città, seppur dolente e particolare, e quindi deve interessare come società civile facendosene carico. Il carcere non deve essere considerato una sorta di “discarica sociale”, ma occorre al contrario costruire uno strumento sistemico che invece sappia migliorare la vita in carcere, tendere alla reintegrazione sociale delle persone, e quindi un’occasione che potrebbe anche migliorare la condizione lavorativa delle guardie penitenziarie. Come Cgil ci preme, pertanto, fare alcune considerazioni sapendo le condizioni drammatiche in cui versano molti penitenziari in Italia. Rieducare le persone recluse può essere un poderoso tentativo di tirar fuori quella consapevolezza della possibilità di vivere in altro modo, non considerando il reato come unica possibilità di sopravvivenza ad una situazione di disagio economico; cioè, attraverso il lavoro e la cultura del lavoro individuare una condizione di riscatto. Può diventare uno speciale strumento educativo nel momento in cui il lavoro è tutelato e retribuito dentro la detenzione stessa (perché i soldi servono anche in quel luogo o per le famiglie a casa e per acquistare qualcosa per se stessi). Ci vuole un’attività costante che rompa la logica dell’assistenzialismo, mettendo al centro la persona e il raggiungimento dell’obiettivo dell’inclusione sociale nel rispetto delle pari opportunità. Serve creare azioni per il lavoro e orientamento al lavoro che facciano acquisire a queste persone, oggi detenute, una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative dell’esterno e agevolare così il reinserimento. Tutto questo è difficile ma è la strada migliore per un reinserimento attivo con un definito ruolo proprio nella collettività che elimini il senso di emarginazione dalla società, dovuto soprattutto al problema dell’etichettamento, far aumentare al tempo stesso fiducia nelle proprie capacità e riducendo drasticamente i rischi di recidiva. In questo contesto si colloca il disegno di legge elaborato dal Cnel che ha istituito l’integrale applicazione dei contratti collettivi di riferimento, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, superando il lavoro di pubblica utilità non retribuito. “Per questi motivi - conclude - serve un deciso e necessario intervento sul piano sociale e nel welfare cittadino (e non politiche securitarie), senza dimenticare che anche i detenuti, se ne posseggono i requisiti, hanno diritto ad accedere a diversi ammortizzatori sociali o intraprendere l’iter per ottenere sostegni al reddito. Per chiudere ci sono le falle dettate dall’ultimo Ddl Sicurezza. Preoccupa ad esempio aver inserito l’estensione dell’apprendistato professionale, così come introdotto dal nefasto Job Act, cioè senza limiti di età ai condannati, gli internati ammessi alle misure alternative e ai detenuti assegnati al lavoro esterno. Questo provvedimento è contrario al valore e al significato che deve avere il lavoro dei detenuti. Oltre a ridurre i costi per le aziende, si diminuiscono diritti e tutele, come se il lavoro per chi vive una situazione penalizzante dovuta all1a condanna che va espiata, ben inteso, non fosse davvero un diritto ma una concessione. In questo modo si fa fatica a comprendere come il valore di risocializzazione possa sostanziarsi nel pieno riconoscimento dei diritti e doveri (comprese colpe e pene) perché l’assunzione di persone, in situazioni di bisogno, così viene legata esclusivamente a incentivi economici (mancette), sgravi fiscali e a una retribuzione sostanzialmente ridotta. Non è questa la strada e la Cgil continuerà a chiedere l’affermazione dei diritti pieni e totali anche per chi ha sbagliato, che giustamente deve espiare e scontare la propria colpa e il danno procurato, ma senza limitazioni sui diritti delle persone, chiunque esse/essi siano”. Prato. Carcere della Dogaia, solo 800 euro di contributi pubblici per i progetti di rieducazione La Nazione, 11 gennaio 2025 In Commissione 4 la relazione dell’associazione Barnaba che si occupa dei detenuti. “Molte iniziative sono state sospese per mancanza di fondi”. Al bilancio nero del 2024 del carcere della Dogaia si aggiungono i problemi relativi alla mancanza di finanziamenti per le associazioni che si occupano di progetti sociali all’interno della casa circondariale. Casse magre e progetti che via via sono stati interrotti per mancanza di soldi. I contributi sono minimi, appena 800 euro dall’amministrazione, altrettanti dalla Caritas, con la gran parte delle spese sulle spalle dell’associazione Barnaba, da sempre presente nella Casa circondariale e dei volontari che molto spesso mettono risorse di tasca propria. A fare luce su una situazione già difficile è stata la commissione 5 presieduta da Rosanna Sciumbata, consigliera della lista civica nelle fila della maggioranza, che ha iniziato un percorso di verifica e quindi aiuto per la Dogaia da sempre alle prese con problemi strutturali, di personale, di sovraffollamento, di gestione di detenuti difficili. A rendere più complessa la situazione ci sono le problematiche strutturali: il caldo d’estate per la mancanza di condizionatori, le docce (solo nella prima sezione c’è una doccia ogni cella), le linee telefoniche per ogni sezione che ancora non funzionano e che creano tensione fra i detenuti. A tutto questo si aggiungono le difficoltà finanziarie di chi come il gruppo Barnaba, lavora per aiutare i detenuti e riportare almeno in parte qualche ora di serenità. “Nel corso degli anni abbiamo realizzato tanti progetti che purtroppo sono stati interrotti per mancanza di finanziamenti come quello per la riparazione e la manutenzione dei mezzi agricoli che poteva dare anche una prospettiva di lavoro ai carcerati - spiegano i responsabili del gruppo Barnaba. Ci autofinanziamo per la gran parte delle attività. Una delle più importanti riguarda la consegna di kit ai detenuti che entrano in cella e che spesso non hanno niente. Forniamo loro biancheria, scarpe, un asciugamano, solo la scopra settimana ne abbiamo consegnati ottanta. È un problema serio che sta aumentando perché spesso sono persone straniere che non hanno famiglia. Abbiamo riattivato il corso di sartoria ma soltanto un giorno a settimana e soltanto grazie alla generosità di provati che ci hanno fornito il materiale da cucire”. Il gruppo Barnaba ha ricevuto appena 800 euro dal Comune, altrettanti dalla Caritas, una goccia nel mare. Di recente ha partecipato ad un bando regionale vincendo 5mila euro per organizzare incontri di lettura e musica. Orvieto (Pg). Ai detenuti la cura del verde: patto tra Comune, carcere e scuole La Nazione, 11 gennaio 2025 È prevista anche la manutenzione dell’Anello della Rupe. “Iniziativa di alto valore sociale”. I detenuti del carcere di Orvieto contribuiranno alla manutenzione dell’Anello della Rupe e di altre aree verdi della città. La Giunta comunale ha approvato lo schema di convenzione con la casa di reclusione, l’associazione di promozione sociale Parte Civile e il liceo artistico finalizzata all’impiego di detenuti in attività di volontariato per progetti di pubblica utilità e giustizia riparativa. In base all’accordo i detenuti potranno collaborare a progetti esterni di manutenzione, decoro e valorizzazione di zone urbane di particolare pregio. La priorità è stata data al percorso storico, culturale e naturalistico dell’Anello della Rupe ma gli interventi riguarderanno anche il giardino della Gentilezza in piazza Angelo da Orvieto, recentemente riqualificato proprio grazie alla collaborazione con la casa di reclusione. Il Comune individuerà le zone di intervento esterne, predisporrà le azioni da intraprendere e metterà a disposizione i mezzi e gli attrezzi da impiegare oltre a supervisionare e coadiuvare gli interventi che saranno condotti da Parte Civile anche con il coinvolgimento delle scuole. Il liceo artistico infatti, in particolare con le classi delle sezioni di Architettura Scultura e Multimediale, insieme al Comune e Parte Civile, si occuperà di analizzare e proporre scelte progettuali di riqualificazione ambientale e urbanistica. L’associazione realizzerà anche progetti interni all’istituto penitenziario, come conferenze e seminari di promozione e informazione, incontri di sensibilizzazione. “Come avevamo annunciato - afferma l’assessore alle politiche sociali, Alda Coppola - dopo la positiva esperienza avuta con il progetto di riqualificazione del Giardino della Gentilezza abbiamo voluto estendere la collaborazione con la Casa di reclusione anche ad altre aree verdi della città e coinvolgere le scuole. Si tratta di un’iniziativa dall’importante valore sociale che incarna perfettamente i principi di inclusione e reinserimento che sono alla base delle azioni della giustizia riparativa. Grazie a questa collaborazione si offre ai detenuti l’opportunità di contribuire attivamente alla vita della comunità, sviluppando anche competenze utili per il loro futuro. Allo stesso tempo garantiamo la cura di spazi importanti per la nostra città, come l’Anello della Rupe. Un esempio concreto quindi di come si possa unire solidarietà e attenzione al territorio”. Andria (Bat). La masseria San Vittore diventa luogo giubilare di Nicola Lavacca Corriere del Mezzogiorno, 11 gennaio 2025 “Qui produciamo taralli e accogliamo i detenuti”. Domani la celebrazione con il vescovo Mansi. La masseria struttura di accoglienza simbolo del riscatto sociale dei detenuti, diventa un luogo giubilare e sacro per l’Anno Santo. Anche la masseria San Vittore di Andria, struttura di accoglienza simbolo del riscatto sociale dei detenuti, diventa un luogo giubilare e sacro per l’Anno Santo. Lo ha stabilito, con un decreto, il vescovo Luigi Mansi che presiederà domani la celebrazione eucaristica, in occasione della Festa del Battesimo di Gesù, per aprire ufficialmente le porte della tenuta dove si lavora e si fa opera di riconciliazione. Alle pendici di Castel del Monte è sorto nel 2018 uno straordinario avamposto di solidarietà, partito dal progetto “Senza sbarre” realizzato dall’associazione “Amici di San Vittore” onlus, col sostegno del vescovo Mansi, che inizialmente portò due parroci di periferia, don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, a includere nelle rispettive parrocchie i carcerati. Da allora ne è stata fatta di strada. Con l’aiuto della Diocesi di Andria e di tante persone generose, don Riccardo è riuscito a ristrutturare una grande masseria abbandonata nell’agro di San Vittore, trasformandola in dimora residenziale completa di 8 posti letto e centro polifunzionale per supportare il laboratorio tecnico-agricolo che avvicina i detenuti al mondo del lavoro. Dopo la costituzione di una cooperativa sociale, sono nati i taralli “A Mano Libera” che ogni giorno vengono preparati e sfornati per raggiungere le tavole dei consumatori. Il Giubileo è una sorta di consacrazione della alacre quotidianità costruita con coraggio, spirito solidale, impegno e fratellanza, in virtù anche della scelta del Vaticano di riservare un’attenzione particolare ai carcerati. “La nostra masseria, vera unicità che rappresenta un percorso alternativo alla detenzione, rafforza il suo significato cristiano come luogo di speranza - sottolinea don Riccardo -. Chi varca la soglia intende incontrare l’uomo punito dai suoi errori che cerca con la fede e l’umiltà di redimersi per costruire un futuro migliore”. I prelibati manufatti gastronomici “A Mano Libera”, oltre ad essere lavorati con cura e certosina abilità, sono l’emblema del vero cambiamento per dare una seconda possibilità ai detenuti in regime residenziale e semiresidenziale, cogliendo anche l’obiettivo di abbattere la barriera del pregiudizio. Nell’opificio artigianale, fulcro della giustizia riparativa, vengono prodotti circa 20 tipi diversi di taralli che nel corso degli anni hanno incontrato sempre più i favori delle aziende di distribuzione e dei consumatori. “La ricetta del tarallo, secondo la tradizione della nostra terra, è un dono della Provvidenza - aggiunge don Riccardo. La masseria San Vittore, presidio dell’integrazione e dell’inclusione, ha ricevuto consensi dalla Cei come modello innovatore, in particolare dal cardinale Gualtiero Bassetti e dall’attuale presidente Matteo Maria Zuppi che hanno supportato concretamente il progetto, unitamente alla Caritas Italiana di don Marco Pagniello”. La vita comunitaria nell’intera struttura si sviluppa attraverso attività integrate che prevedono momenti educativi e formativi, puntando su una organizzazione capillare, con suddivisione di responsabilità e assegnazione di compiti. Preziosa è l’opera instancabile di una ventina di volontari. I deliziosi taralli “A Mano Libera - Senza Sbarre” sono stati acquistati di recente anche dalla Saint Pio Foundation per essere distribuiti dalla Elemosineria Apostolica, su espressa volontà di papa Francesco, a circa tremila poveri e disagiati. Il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Pontefice, ha avuto un incontro con don Riccardo Agresti per mettere a punto i dettagli dell’operazione che prevede durante l’anno in corso la consegna di oltre quindicimila buste di prodotto. “Non ci stancheremo mai di credere che questo progetto sia opera di Dio, convinti di dare ulteriore impulso e forza ai santuari scomodi, come la nostra comunità, dove si avverte la presenza del Signore che scruta e incoraggia ad essere fiduciosi in lui - conclude don Riccardo -. Noi siamo riusciti a generare una nuova strada da percorrere, per dare un’alternativa reale ai detenuti facendo germogliare il seme della legalità e della riparazione”. Vicenza. Il Dap non è in grado di scortare il detenuto, revocato il permesso per la laurea di Giovanni M. Jacobazzi L’Unità, 11 gennaio 2025 Antonello Nicosia, detenuto a Vicenza, aveva avuto l’ok a discutere la tesi in presenza alla Sapienza. Il dietrofront del magistrato su richiesta del Ministero. Il Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, non sarebbe in grado di garantire la scorta di un detenuto da Vicenza a Roma. La vicenda riguarda Antonello Nicosia, ex esponente dei Radicali Italiani, condannato a 15 anni di prigione con l’accusa di aver “favorito” Cosa nostra. Secondo i magistrati, in qualità di assistente dell’allora deputata di Italia viva Giusy Occhionero, durante le visite ispettive di quest’ultima nelle carceri, avrebbe incontrato i boss mafiosi al 41bis dando loro consigli e accertandosi che non collaborassero con la magistratura. Peccato però che tutte le visite ai detenuti al 41bis fossero avvenute sempre alla presenza degli agenti della polizia penitenziaria che non avevano mai segnalato alcuna anomalia. Torniamo però alla scorta dal carcere di Vicenza a Roma. Una premessa: Nicosia in questi anni ha occupato le sue giornate studiando, raggiungendo il traguardo, non facile, della laurea. Il 19 novembre scorso, terminati gli esami, presenta la richiesta al magistrato di sorveglianza di Verona per la concessione di un permesso di necessità al fine di recarsi, accompagnato dalla scorta della polizia penitenziaria, il successivo 16 dicembre a Roma all’Università La Sapienza per discutere la tesi in “Scienze dell’amministrazione e dell’organizzazione”. Il 25 novembre, il giudice Vincenzo Semeraro, “considerato che l’esame di laurea può rientrare nella nozione di evento di eccezionale gravità, intesa nel senso di evento che non si verifica con regolare quotidianità, concede il permesso con la scorta del personale della Polizia Penitenziaria in abiti civili, con possibilità di non usare manette durante la visita”. Nicosia avverte quindi il suo professore della bella notizia. Passa solo qualche giorno e dal Dap arriva però la doccia fredda. Oriana Tantimonaco, magistrato addetto al Dipartimento, scrive al collega veronese che “si permette di osservare che le modalità ed il luogo di svolgimento dello stesso, presso la sede universitaria, ambiente altamente dispersivo, rischiano di non consentire di assicurare un idoneo servizio di vigilanza […] anche alla luce della pericolosità del soggetto in questione, trattandosi di detenuto ascritto al circuito di alta sicurezza”. “Nello spirito - prosegue - di fornire la massima collaborazione […] fra organi dello Stato […] prega la cortesia di voler revocare il beneficio concesso”. La nota viene inviata anche al direttore del carcere, Luciana Traetta, e al procuratore della Repubblica Raffaele Tito. Ricevuta la comunicazione del Dap, Semeraro torna sui propri passi e, il 28 novembre, revoca il permesso. Nicosia non si perde d’animo e presenta allora reclamo al Tribunale di sorveglianza di Venezia. L’11 dicembre, 5 giorni prima della discussione della tesi, il collegio presieduto da Linda Arata, in un colpo solo stronca sia Nicosia che il giudice Semeraro. “Il permesso di necessità non può essere concesso, in quanto le ragioni dello stesso, pur meritevoli di considerazione ma, semmai, nell’ambito di un permesso premio ove ne ricorressero i requisiti di ammissibilità e meritevolezza, sono estranee alle ragioni che, per disposizione normativa, possono giustificare l’eccezionale istituto del permesso di necessità […] E non v’è dubbio che il conseguimento di un titolo di studio non riguarda le relazioni familiari”, si legge nel provvedimento di rigetto. Ora il problema si porrà con la proclamazione della laurea, prevista per il prossimo 25 gennaio. Nicosia ha presentato questa settimana, sempre a Semeraro, una nuova istanza. Le regole dell’ateneo romano non prevedono infatti la proclamazione da “remoto”. Se il permesso di necessità non verrà accolto la proclamazione sarà valida anche in contumacia? Rialzarsi: il Giubileo oltre le sbarre di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 11 gennaio 2025 Chi si è stupito o ha considerato un gesto “eccezionale” quello con cui Papa Francesco ha aperto la seconda Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia - dopo quella della Basilica di San Pietro - probabilmente segue superficialmente il suo pontificato. Era il 28 marzo 2013, giovedì della Settimana Santa, quando Bergoglio, 15 giorni dopo la sua elezione, decise che avrebbe lavato i piedi ai giovani detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo. Era la sua prima uscita dal Vaticano. Di lì in poi non c’è stato viaggio apostolico in cui Francesco non abbia programmato una tappa in un carcere o un incontro con i reclusi. Anche a Torino, durante la sua visita il 21 giugno 2015, chiese a mons. Cesare Nosiglia di mangiare in Arcivescovado con un gruppo di ragazzi ristretti al “Ferrante Aporti”. Ecco il motivo per cui al Papa stanno a cuore i detenuti: “Ogni volta che vengo in carcere la prima domanda che mi faccio è: perché loro e non io? Perché ognuno di noi può scivolare, l’importante è non perdere la speranza, aggrapparsi all’ancora della speranza e aprire, spalancare il cuore e aggrapparsi alla corda dell’ancora”. Con questo spirito si deve leggere il libro di Giorgio Paolucci, giornalista e scrittore, già vicedirettore del quotidiano Avvenire di cui è editorialista: 100 micro storie di 1.300 battute, una per pagina, numerose pubblicate su Avvenire (alcune autobiografiche), che raccontano di “ripartenze” e colgono “ciò che conta davvero nella vita”. Perché a tutti, come dice Papa Francesco, capita di “scivolare” ma, grazie all’incontro - anche in cella - con “testimoni di speranza”, ci si può rialzare e riprendere il cammino della vita. “Non siamo infrangibili” scrive Paolucci che, in occasione del Giubileo della Speranza, cura su Avvenire ogni 15 giorni la rubrica “Vite cambiate” dove racconta storie di redenzione dai penitenziari della Penisola. Donne e uomini caduti dietro le sbarre di malattie, disoccupazione, detenzione, lutti, tossicodipendenza, crisi affettive e che hanno incrociato nelle loro strade “punti di luce”, fratelli e sorelle che si sono messi nei loro panni senza giudicare (perché “loro e non io”?) e hanno lanciato una corda con un’àncora a cui aggrapparsi e riemergere. 100 storie per capire la necessità del Giubileo della Speranza in un mondo che ha bisogno di consolazione. Leggere per credere. Giorgio Paolucci, “Cento ripartenze. Quando la vita ricomincia”. Itaca libri, 108 pagine, 12 euro. La Messa alla prova raccontata da chi l’ha vissuta di Alessandro Giovannelli L’Unità, 11 gennaio 2025 Chi voglia parlare oggi di MAP, l’acronimo col quale si indica la messa alla prova, ovvero quell’istituto di giustizia di comunità introdotto da ormai 10 anni, che prevede la sospensione del processo e lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, deve necessariamente assolvere ad una precisa responsabilità. Innanzitutto, deve informare. E qui sta il primo discrimine: in certi campi, informare non può essere un atto “neutro”. Mai. Al contrario, informare è un atto politico e sottende una presa di posizione. Vedremo più avanti quale. Quanto affermato in premessa è ancor più vero se l’informazione che si intende veicolare passa attraverso canali di comunicazione che sfuggono - vivaddio, ne esistono: questi sono i pregi della modernità - agli ingranaggi costrittivi di codificazione dei media tradizionali. Trattandosi inoltre di un tema di grande attualità, anche in considerazione di quanto crescentemente si fa ricorso a questo istituto da parte di tribunali di ogni angolo del paese, risulterà evidente quale sia la posizione da prendere, quale il punto di vista da assumere. La Società della Ragione, che ha scelto di mettersi in gioco, di vedere da dentro cosa sia la messa alla prova, ha dunque preso una posizione ben chiara: ha scelto di dare voce ad L. e lo ha fatto producendo un podcast, “Storia di L. - Una storia di MAP”, una miniserie in quattro episodi disponibile su Spotify e Apple Podcast realizzata dal Collettivo Cumbre Altre Frequenze all’interno del progetto LPU·MAP - Rete x modello alternativa alla detenzione, finanziato dal Bando Welfare della Regione toscana con il contributo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il rischio da evitare era quello di svolgere una riflessione incentrata sugli aspetti tecnici del dispositivo giuridico; evitare, in buona sostanza, rimandandolo ad altri contesti, un ragionamento appannaggio degli addetti ai lavori e il meccanismo di rimozione che ne sarebbe inevitabilmente derivato. Affrontando tuttavia il tema con competenza ed accuratezza. La voce di L garantisce questo delicato ma essenziale equilibrio. E garantisce che il punto di vista di chi la MAP l’ha vissuta sulla propria pelle non sia, appunto, oggetto di rimozione. L racconta in maniera autentica la propria esperienza di messa alla prova: accusato di resistenza a pubblico ufficiale, ha scelto la MAP come alternativa al processo penale - proprio a questo ci si riferisce quando si parla di messa alla prova: un’alternativa al processo penale -, sottoponendosi allo svolgimento di lavori di pubblica utilità presso la sede de La Società della Ragione, nell’area ex-manicomiale di San Salvi a Firenze. Il racconto di L funge, in una certa misura, da guida. Ci rende partecipi del primo traumatico impatto con la burocrazia, una volta imboccata la strada della messa alla prova. Delle difficoltà ad orientarsi davanti ad un elenco interminabile di associazioni, quelle che danno la propria disponibilità ad accogliere in MAP. Della pazienza dell’addetta del UEPE che, dopo una lunga intervista, lo ha indirizzato proprio verso La Società della Ragione. E poi, la scoperta di un ambiente stimolante, di persone che hanno saputo dare il giusto valore alle sue vocazioni, dando un senso anche ad un percorso che sembrava non averne. L racconta del suo entusiasmo, della piacevole sorpresa di non essersi ritrovato a fare le pulizie di qualche stanza e di avere invece svolto delle attività che hanno arricchito le sue conoscenze, che hanno stimolato la sua curiosità, che gli hanno dato per davvero la possibilità di mettersi alla prova, ad esempio organizzando un convegno. Il racconto di L. è una guida che ci porta a formulare le giuste domande: che cosa accade quando si finisce nelle maglie del sistema penale? In quali circostanze la messa alla prova rappresenta un’alternativa percorribile? Quale iter prevede la scelta di sottoporsi alla messa alla prova? Quanto e quale impegno verrà richiesto? La MAP può diventare un momento di crescita personale? Oppure è soltanto l’ennesimo congegno penale, afflittivo, utile solo al sistema giustizia? Ma, soprattutto, il racconto di L ci interroga su una questione dirimente, di fondo: la possibilità che lui ha avuto di svolgere un percorso qualificato di lavori di pubblica utilità, l’opportunità per chi si ritrova ad essere oggetto della misura della messa alla prova di fare un percorso di arricchimento individuale operando, al contempo, in un contesto collettivo, è una prerogativa di pochi, il “colpo di fortuna” di chi è capitato nel posto giusto al momento giusto? Nel caso specifico, di aver svolto il servizio presso La Società della Ragione che, grazie ai finanziamenti di Fondazione CR Firenze prima e Regione Toscana poi, ha potuto realizzare progetti ritagliati sulla persona e seguiti uno a uno da tutor? E, dunque: la messa alla prova è soltanto un ampliamento della rete del controllo penale, come i numeri - impietosi - ci dimostrano incontrovertibilmente? Oppure, al di là della volontà del legislatore, può essere altro, qualcosa di più? Storia di L. - Una Storia di MAP è ascoltabile sulle principali piattaforme podcast e sul sito societadellaragione.it. Quei diritti umani che tornano in bilico di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 gennaio 2025 Dal 1948, con la Dichiarazione universale dei diritti umani da parte della Assemblea generale delle Nazioni Unite, che il riconoscimento e la rivendicazione dei diritti umani hanno cambiato natura. I diritti umani sono infatti entrati nell’area del diritto internazionale, da cui erano stati a lungo esclusi perché ritenuti far parte del dominio riservato degli Stati. Il Bill of Rights inglese (1689), quello americano (1791) e la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino (1789) ne hanno fornito il primo, essenziale elenco. Ma si è sempre trattato di testi di portata costituzionale interna: esplicitata dall’uso inglese di indicarli come “i diritti degli inglesi”. Tali sono, non ostante il linguaggio enfatico e universalistico delle rispettive Dichiarazioni, anche i documenti di Francia e Stati Uniti. L’irrilevanza delle frontiere statali e la necessità di protezione internazionale in prospettiva ne erano però la logica conseguenza. Ma si dovette aspettare la tragedia delle guerre del’900 con le vaste e crudeli violazioni dei diritti umani dei singoli e dei popoli, per veder riconosciute la rilevanza internazionale della loro violazione e la responsabilità della Comunità internazionale. Con la Dichiarazione universale dei diritti umani, ad esse si è accompagnato il riconoscimento del nesso tra pace e tutela dei diritti umani: nel duplice senso che la loro violazione porta alla guerra e che la pace favorisce il loro sviluppo. Da allora le Carte dei diritti umani menzionano il rapporto che lega il riconoscimento dei diritti umani alla pace tra gli Stati e al loro interno. Si tratta di consapevolezza fondata sull’esperienza storica ed anche sull’attualità che viviamo. Le Convenzioni internazionali contro il genocidio, la tortura e i trattamenti inumani, così come le norme del diritto dei conflitti armati per la protezione dei civili, sono esempi di come la pace e i diritti umani si intreccino. Da allora le violazioni dei diritti umani non sono più insindacabili affari interni degli Stati. La Comunità internazionale nel suo complesso e nelle sue istituzioni ne viene interpellata e la sovranità degli Stati messa in questione e limitata. Un rivolgimento culturale, politico, giuridico. Certamente debole nelle sue concrete realizzazioni, ma potente sul piano ideale. Assistiamo a momenti di crisi del rispetto dei diritti umani, che si lega alla crisi del diritto internazionale (vedi l’intervento di giovedì di Nathalie Tocci su questo giornale). Per quanto riguarda i diritti delle persone, dei gruppi e dei popoli, il quadro non è però univoco. Vi sono stati anche rilevanti avanzamenti, con riforme legislative nazionali spinte da norme e decisioni di origine europea o internazionale. Tutto ciò trova origine nella Dichiarazione del 1948, da cui deriva anche la Convenzione europea dei diritti umani (1950), il cui titolo completo, accanto ai diritti umani, menziona le libertà fondamentali. E dalle pretese individuali di libertà che deriva la difesa dei diritti, contro negazioni e limitazioni imposte senza ragione dagli Stati o da potenti ed oppressive espressioni sociali. Spesso all’interno degli Stati il rispetto per la libertà individuale è l’unica possibile via di superamento di conflitti che, paralizzando persino i Parlamenti, oppongono gruppi politici e sociali intenzionati ad imporre a tutti il proprio esclusivo punto di vista. I giudici nazionali e quelli delle organizzazioni europee -come la Corte europea dei diritti umani, la Corte di Giustizia dell’Unione europea- e internazionali -come la Corte Internazionale di Giustizia o la Corte Penale Internazionale- sono al centro di ogni possibile sistema che garantisca i trattati su cui i diritti e le libertà si fondano. Ma essi non ne sono all’origine. L’origine è strettamente politica, frutto di accordi tra governi e di ratifica parlamentare. I governi che violano i diritti umani e le libertà fondamentali o le regole del diritto internazionale non contravvengono a norme loro imposte dall’esterno: essi ne sono invece gli autori. Ma il nazionalismo montante in Europa e nel mondo porta a disconoscere i]. processo di civilizzazione aperto dalla Dichiarazione del 1 948. E sotto gli occhi di tutti la crisi di effettività dei diritti e delle libertà proclamati a livello internazionale (e di riflesso di quelli che si leggono nelle Costituzioni nazionali). Ne è causa il non riconoscimento delle decisioni dei giudici delle Corti internazionali da parte degli Stati. Israele, Russia e Stati Uniti ne sono esempi recenti. La questione è di lunga data. Vi è chi vede nella crisi la dimostrazione dell’inettitudine dello strumento giuridico rispetto alla politica (di guerra) degli Stati. Ma le difficoltà gravi non tolgono che il movimento, originato da ciò che avvenne durante e tra le due guerre del secolo scorso, meriti di essere coltivato. Anche a costo di apparire ingenua utopia, incapace di contrastare la realtà della forza degli Stati. Non è però la stessa cosa se un diritto non esiste o se il diritto è riconosciuto ma violato, anche impunemente. La lotta per i diritti -in particolare i diritti che derivano dal rispetto della dignità umana trae forza dalla sua legittimità, che facilita condivisione ed efficacia. Il lungo periodo è proprio di una simile lotta. Essa non convive con la rassegnazione di molti, che, vestita di realismo, si apparenta all’accettazione dell’esistente. Anche della sua barbarie. Non sarà la corsa agli armamenti a garantire la pace di Innocenzo Cipolletta Il Domani, 11 gennaio 2025 La via diplomatica può avere molte possibilità di successo se veramente c’è la volontà politica di porre fine alla guerra e di avviare un’era di disarmo multilaterale, per riprendere la strada della salvaguardia del pianeta e dell’umanità. Una strada che richiede effettivamente molte risorse, ma che porta alla salvezza dell’umanità e non alla sua distruzione. “La crescita della spesa in armamenti, innescata nel mondo dall’aggressione della Russia all’Ucraina - che costringe anche noi a provvedere alla nostra difesa - ha toccato quest’anno la cifra record di 2.443 miliardi di dollari. Otto volte di più di quanto stanziato alla recente Cop29, a Baku, per contrastare il cambiamento climatico, esigenza, questa, vitale per l’umanità. Una sconfortante sproporzione”. Queste le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine d’anno agli italiani. In altre parole, la spesa per distruggere l’umanità supera di otto volte quella immaginata (e non realizzata) per salvare il pianeta dove noi viviamo! Di fronte a questa evidenza, lo sforzo delle nazioni dovrebbe essere quello di frenare la corsa agli armamenti e aumentare quella per la salvaguardia del pianeta. Invece, non solo abbiamo aumentato la spesa per armamenti nel corso degli ultimi anni, ma ci accingiamo a considerare come ineludibili ulteriori consistenti aumenti. Una difesa efficiente - Nessuno sembra mettere in dubbio che i paesi della Nato, ossia quelli dove maggiore è la spesa per armamenti, debbano fare uno sforzo ulteriore. Addirittura, si arriva a ritenere possibile un aumento della spesa militare fino al 5 per cento del Pil per i paesi europei che già sono attorno al 2 per cento, ossia a più che raddoppiare la spesa per armi. Nessuno nega, purtroppo, che ci siano reali minacce da parte di paesi autoritari dove l’assenza di democrazia rende impossibile alla popolazione di rifiutare il ricorso alla guerra e di spingere per soluzioni diplomatiche. L’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina ne è purtroppo l’esempio più vicino a noi. Questo impone ai nostri paesi di mantenere una difesa efficiente, ma non implica una corsa agli armamenti nell’illusoria pretesa che solo la deterrenza possa evitare una guerra. Al contrario, un eccesso di armamenti in una parte del globo genera una corsa al riarmo forsennato anche all’altra parte, con le consuete prove di forza reciproche che finiscono per aumentare sensibilmente il rischio di un confronto bellico. L’Unione europea è già ben armata: manca di un’integrazione degli eserciti e di una armonizzazione dei sistemi di armamento e di difesa, che potrebbe avvenire senza eccessive spese se si realizzasse veramente una difesa comune. Non c’è alcun bisogno di imporre percentuali di Pil da immolare alla difesa ed è falsa l’affermazione che nel Dopoguerra l’Europa abbia goduto gratis della protezione americana. Non è stata affatto gratis, posto che abbiamo rinunciato di fatto alla nostra sovranità, affidando agli Usa ogni reale decisione in campo militare che abbiamo accettato senza troppe reazioni. L’unica è stata la Francia di De Gaulle che uscì dalla Nato nel 1966 proprio per non dover pagare il prezzo della perdita di sovranità in questo campo e che è rientrata successivamente nel 2009 pur mantenendo alcune prerogative come potenza nucleare. L’inutilità della guerra - Una Nato che implicasse una spesa per la difesa europea ben maggiore dell’attuale, come sembra preconizzi il prossimo presidente degli Usa, Donald Trump, dovrebbe essere una Nato a trazione europea, dove gli Usa dovrebbero accettare obiettivi e modalità del Vecchio Continente. Poiché è molto improbabile che una simile ipotesi possa essere accettata dagli Usa, allora è anche da rifiutare un’ipotesi di allineare la spesa per armamenti in Europa ai desiderata degli Usa. In realtà, la via da seguire non può essere quella della corsa al riarmo generalizzato, ma deve essere la ripresa del dialogo per un disarmo progressivo e controllato così come si era riusciti a realizzare alla fine della Guerra fredda. Anche allora gli accordi furono preceduti da momenti di forte tensione, ma le diplomazie riuscirono a trovare la strada per contenere gli armamenti perché i governi si resero conto che i propri cittadini avevano ben altri bisogni e che le guerre non portavano mai a risultati positivi. Anche la guerra in Ucraina, che speriamo termini al più presto, sta dimostrando chiaramente la sua atroce inutilità anche per lo stato aggressore, posto che la Russia, dopo tre anni di guerra e di vistose perdite umane, malgrado la sua potenza militare e i suoi 144 milioni di abitanti è di fatto incapace di sconfiggere uno stato relativamente povero come l’Ucraina con soli 37 milioni di abitanti, al punto che è costretta a ricorrere a soldati mercenari di altri paesi (Corea del Nord) e a galeotti per trovare persone disposte (o costrette) a combattere. In queste condizioni, non sarà il riarmo dell’Europa e di altri paesi a garantire la pace, ma la via diplomatica che può avere molte possibilità di successo se veramente c’è la volontà politica di porre fine alla guerra e di avviare un’era di disarmo multilaterale, per riprendere la strada della salvaguardia del pianeta e dell’umanità: una strada che richiede effettivamente molte risorse, ma che porta alla salvezza dell’umanità e non alla sua distruzione. Giornalisti incarcerati, anche così si misura la libertà di stampa di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 11 gennaio 2025 Dopo l’arresto di Cecilia Sala in Iran emergono i numeri dei cronisti detenuti in tutto il mondo: 553 nel 2024, 86 le donne, con la Cina in testa ai Paesi che più reprimono l’informazione. Nel 2024 sono risultati 553 giornalisti imprigionati, secondo i dati forniti da Reporter Senza Frontiere, mentre dalla Coalition for women in journalism sappiamo che le donne detenute, al 10 gennaio, sono 83. I dati sono riemersi dopo la carcerazione in Iran e la liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala. Inoltre, sempre secondo le notizie fornite dalla Coalition, negli ultimi 5 anni il totale dei reporter finiti in stato di detenzione ammonta a 692. I Paesi dove i giornalisti corrono più rischi - Il rapporto di Rsf stila una classifica dei Paesi con il maggior numero di giornalisti incarcerati e al primo posto troviamo la Cina, con 115 casi di giornalisti incarcerati, alla quale seguono il Myanmar, con 70, e la Bielorussia, con 52. Quarto posto per la Russia con 47 cronisti in carcere, mentre sono 46 in Israele e 39 in Vietnam. L’Iran è al settimo posto con 35 operatori detenuti, ma è un sorvegliato speciale per le gravi violazioni contro la libertà di stampa, soprattutto nel carcere simbolo di Evin, dove è stata detenuta anche Sala. I reporter sono a rischio però anche in Arabia Saudita, Siria, Egitto, Azerbaigian, Afghanistan, India e Kirghizistan. Vi sono anche 55 giornalisti tenuti in ostaggio in 5 Paesi: Siria, Iraq, Yemen, Mali e Messico. Solo uomini, o anche donne? La già citata Coalition for women in journalism, l’organizzazione che si occupa di tutelare le donne giornaliste, pubblica sul suo sito web l’elenco sempre aggiornato con i nomi di tutte le reporter dietro le sbarre, il luogo dove lavorano e la data dell’inizio della detenzione, dettagliando le circostanze dell’arresto. Negli ultimi 5 anni Women press freedom ha documentato 3.400 casi di minacce e violazioni che hanno avuto come bersaglio donne giornaliste. I dati sono stati raccolti dal 2019 al 2024 e sottolineano i diversi generi di violenze su donne e reporter appartenenti alla comunità Lgbqia+ che continuano a esacerbare il numero delle violazioni. Al primo posto ci sono le aggressioni fisiche, seguite dagli arresti e poi dalle molestie legali e online, sino ad arrivare alle intimidazioni, alle campagne diffamatorie e alle uccisioni che sono state 64 in 5 anni. In testa ai Paesi che commettono violazioni c’è la Turchia, seguita da Stati Uniti, Russia, Bielorussia, India e Iran. Quale libertà di stampa? I numeri citati danno la misura del pericolo che corre la libertà di stampa a livello mondiale. Motivo per il quale si moltiplicano gli appelli, soprattutto da parte delle associazioni di giornalisti che denunciano anche come i reporter vengano usati come merce di scambio nelle dispute internazionali. Non solamente, nella maggioranza dei casi lo stato di detenzione è disumanizzante, quando non si arriva addirittura alle torture. La detenzione, come anche l’uccisione dei giornalisti, come abbiamo visto a Gaza o in Africa con 35 casi in 18 mesi, si delinea come un attacco al diritto di informazione di tutti i cittadini, oltre che al diritto degli operatori dei media di lavorare in modo sicuro e in libertà. In Italia non vi sono casi di carcerazioni e omicidi, ma l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha recentemente denunciato “crescenti condizionamenti della politica sul servizio pubblico” e minacce legali sui media critici con l’azione di governo. I dati dell’ultimo Rapporto del Media Freedom Rapid Response evidenziano “un aumento della pressione esercitata nel nostro Paese da soggetti pubblici sull’informazione”. Lo Zimbabwe abolisce la pena di morte e sconfigge l’ultimo retaggio del suo passato coloniale di Sergio D’Elia L’Unità, 11 gennaio 2025 Ancora una volta la buona novella giunge dalla terra dove l’antica vicenda di Caino e Abele ha conosciuto nei tempi più recenti momenti di terribilità sia nei delitti sia nelle pene. E giunge alla fine dell’anno, nel giorno di San Silvestro, il papa che secondo un’antica leggenda salvò Roma da un terribile drago che sul Palatino mangiava i cristiani. Silvestro gli serrò la gola con un filo di lana e il mostro smise di mordere. La bella notizia è che il Presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa ha firmato la legge che elimina per sempre la pena di morte e salva i 63 prigionieri in attesa di finire nelle fauci del drago assassino. Un atto salvifico che segna anche simbolicamente la parabola felice di una vita. Durante la guerra degli anni 60 contro il dominio coloniale, Mnangagwa fu arrestato, torturato e condannato a morte per aver fatto esplodere un treno. Insieme a lui furono arrestati e poi impiccati alcuni suoi compagni di lotta. Per un cavillo giuridico la sua sentenza capitale fu invece commutata in dieci anni di reclusione. Li ha scontati tutti in varie prigioni del Paese dove ha continuato i suoi studi per corrispondenza. Dopo il rilascio, è stato deportato in Zambia dove ha completato la sua laurea in giurisprudenza. Alla fine del 2017, il Presidente Robert Mugabe è stato deposto dopo 37 anni al governo dello Zimbabwe e sostituito proprio da Emmerson Mnangagwa. Il cambio è stato significativo anche per la politica sulla pena di morte. Verso la fine del suo mandato, Mugabe aveva intenzione di riprendere le esecuzioni. Annunci erano stati fatti per reclutare un boia, visto che il ruolo era rimasto vacante dal giorno dell’ultima esecuzione, il 22 luglio 2005, quando una donna, Mandlenkosi “Never” Masina Mandha, è stata impiccata dopo essere stata condannata per omicidio. Mnangagwa, viceversa, è stato chiaro nella sua opposizione all’uso della forca. Lo aveva ribadito anche a noi di Nessuno tocchi Caino quando lo abbiamo incontrato nel corso di una missione volta a portare lo Zimbabwe a votare a favore della Risoluzione ONU sulla moratoria delle esecuzioni capitali. “La pena di morte è la negazione ultima dei diritti umani e un omicidio a sangue freddo e aberrante di un essere umano da parte dello Stato in nome della giustizia,” ha detto. Da ministro della giustizia Mnangagwa non aveva firmato nessun decreto di esecuzione. Da presidente della repubblica ha graziato decine di condannati a morte. L’ultima volta lo ha fatto il 18 aprile scorso, quando lo Zimbabwe ha celebrato 44 anni di indipendenza dal governo della minoranza bianca, terminato nel 1980 dopo una sanguinosa guerra nella boscaglia. Il nome del paese è stato cambiato da Rhodesia in Zimbabwe. Il presidente Mnangagwa lo ha festeggiato con una amnistia, la seconda in meno di un anno. Detenuti originariamente condannati a morte e che hanno avuto la loro condanna commutata in ergastolo in precedenti atti di clemenza e che sono stati in prigione per almeno 20 anni, sono stati liberati. Tutte le prigioniere che avevano scontato almeno un terzo della loro pena, sono state liberate. Tutti i detenuti minorenni che hanno scontato lo stesso periodo di pena, sono stati liberati. Tutti quelli di età pari o superiore a 60 anni che hanno scontato un decimo della loro pena, sono stati liberati. Mnangagwa ha anche graziato i ciechi e gli altri disabili che hanno scontato un terzo della loro pena. Culturalmente e storicamente, prima dell’era coloniale, non esisteva nel Paese l’usanza di uccidere qualcuno perché aveva ucciso qualcuno. La pena di morte fu introdotta dagli inglesi negli anni ‘80 dell’Ottocento, prima da Cecil Rhodes e dalla British South Africa Company e poi confermata nel 1923 dalla colonia britannica autonoma. Prima di allora le persone non venivano generalmente condannate a morte. La risposta ai crimini più gravi si ispirava alla cultura tradizionale Ubuntu, una parola che si riferisce a un modo di pensare, di sentire e di agire molto intensi e che può essere tradotta come “umanità attraverso gli altri” o “benevolenza verso il prossimo”. Finalmente, la cultura tradizionale Ubuntu, che si concentra sulla pace e la riparazione, ha sconfitto la pratica della violenza e della forca esportata dall’Europa un secolo e mezzo fa. Con l’abolizione della pena di morte lo Zimbabwe cancella l’ultimo retaggio del suo passato coloniale, e può dire di essersi davvero liberato della Rhodesia, “quella terra di pirateria e di saccheggio” come la definì Mark Twain, che dal suo primo padrone, Cecil Rhodes, aveva tratto il nome.