Amnistia, tutti d’accordo tranne il Governo e Nordio: intanto nelle carceri la strage continua di Stefano Anastasia L’Unità, 10 gennaio 2025 La prima risposta da dare alla strage di vite e diritti nelle carceri è la riconduzione immediata della popolazione carceraria alla capacità degli istituti. L’hanno riconosciuto il presidente del Senato, il vicepresidente del Csm. Se il 2024 è stato l’annus horribilis delle morti e dei suicidi in carcere, questo è iniziato peggio. Il ragazzo che si è suicidato mercoledì sera a Regina Coeli è già il quarto in Italia, in meno di dieci giorni, senza contare un suicidio in Rems, un’altra morte in carcere per causa da accertare e l’operatore penitenziario che si è tolto la vita nel carcere di Paola. “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”, ha detto il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno agli italiani, aggiungendo che il sovraffollamento contrasta con “norme imprescindibili sulla detenzione in carcere” e “rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Non è mai facile individuare il rischio suicidario, ma se gli operatori devono far fronte al doppio delle presenze in carcere, come è a Regina Coeli, con la metà del personale in organico, l’impresa diventa impossibile. Quando si prenderanno i provvedimenti necessari e urgenti per ridurre la popolazione detenuta e consentire al personale di polizia, educativo e sanitario di farsi carico degli autori di reati più gravi e con lunghe pene da scontare? Il ragazzo che si è tolto la vita l’altra sera a Roma aveva 23 anni e due figli, tossicodipendente, di nazionalità rumena, era in carcere dai primi di dicembre in custodia cautelare per reati predatori: quando Governo e Ministro dicono che vogliono risolvere il problema del sovraffollamento riformando la custodia cautelare intendono dire che anche uno come Florin potrà aspettare il processo in libertà, come un colletto bianco qualsiasi? Quando Ministro e Governo (ieri la Presidente Meloni) dicono che i detenuti stranieri dovranno andare a casa loro, intendono anche chi, come Florin probabilmente, nel Paese di cui ha cittadinanza non c’è mai stato, il suo Governo non lo vuole e, nel frattempo, è in attesa di giudizio qui in Italia? Quando Governo e Ministro dicono che pensano di risolvere il problema del sovraffollamento trasferendo le persone senza “domicilio idoneo” in condomini o in comunità, intendono anche Florin, tossicodipendente in attesa di giudizio per furti e rapina, o le ragazzine rom per cui è stata escogitata la modifica niente meno che del troppo liberale Codice Rocco che differisce la pena per le donne incinte e le madri di neonati con meno di un anno di età? Quando la Presidente del Consiglio dice che risolverà il problema del sovraffollamento con la costruzione di nuove carceri, a parte il fatto che parla di numeri insufficienti rispetto alle necessità, ha messo in conto i soldi, il tempo, il personale penitenziario e sanitario indispensabile ad aprirle, a gestirle e ad assicurarvi i servizi essenziali? Poi, certo, nel migliore dei mondi possibili, i detenuti in carcere dovrebbero avere la necessaria assistenza sociale e sanitaria, occasioni di istruzione, formazione e inserimento lavorativo, e ogni altra cosa necessaria a fargli “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine”, come ha detto ancora il Presidente della Repubblica l’ultimo dell’anno, ma intanto che si fa? Aprendo la Porta Santa a Rebibbia, Papa Francesco ha esortato i detenuti ad aggrapparsi alla speranza, ma nella speranza di un’alternativa a queste carceri sovraffollate e degradanti dobbiamo crederci anche noi e soprattutto chi ha responsabilità politiche e di governo, a cui il Papa chiede “iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. E la prima risposta da dare a questa strage di vita e diritti nelle carceri italiane è la riconduzione immediata della popolazione carceraria alla capacità degli istituti penitenziari e alle disponibilità di personale in servizio: un provvedimento di indulto di due anni, che ridurrebbe la popolazione alla capienza regolamentare effettivamente degli istituti di pena, accompagnato da un’amnistia per i reati puniti nel massimo fino a due anni, che rallenterebbe un eventuale ritorno del sovraffollamento, consentendo al Governo di mettere in atto ogni strategia di medio-lungo periodo ritenga opportuna per garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Lo hanno riconosciuto, in modo diverso, nei giorni scorsi, il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, il Vice Presidente del Csm Pinelli e il Presidente del Cnel Brunetta. Si obietta: ma il Governo sta facendo tutto il contrario, moltiplicando le figure di reato e le cause di incarcerazione. Vero, ma un provvedimento di amnistia-indulto non incide sulla politica criminale, ma solo su una contingente situazione di emergenza, ponendovi fine e dando tempo al Governo di fare ciò che crede. D’altro canto, per quanto discutibile sia, l’assurda norma costituzionale che rende più difficile l’approvazione di un provvedimento di clemenza della sua stessa modifica obbliga a una corresponsabilità tra maggioranza e opposizione, levando motivi di polemica strumentale tra le forze politiche di diversa collocazione istituzionale. Nel 2006, in occasione dell’unico provvedimento di clemenza approvato con le nuove rigidissime norme introdotte nel 1992, il presidente del consiglio e il leader dell’opposizione dell’epoca, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, votarono allo stesso modo, guidando le rispettive forze politiche in un accordo necessario, che diede respiro per alcuni anni alle nostre carceri, dimezzando la recidiva tra quanti ne hanno beneficiato. Certo il sovraffollamento presto ritornò, ma anche perché allora non si ebbe il coraggio di fare anche un’amnistia per quei reati minori allora come oggi che affollano le nostre carceri. Tutte queste cose sono note al colto e all’inclita, e soprattutto agli operatori della giustizia e del carcere. Resistono solo Governo e Ministro, erroneamente convinti che la loro base elettorale di riferimento in queste materie, la polizia penitenziaria, sia naturalmente contraria a ogni provvedimento di clemenza. Ma non è così: sono mesi che giro per carceri dolenti, segnate da morti e suicidi e spesso messe a soqquadro da proteste di detenuti senza speranza, e non ho ancora trovato un agente di polizia che non vedrebbe un provvedimento di clemenza come un beneficio per se stesso, per i suoi colleghi e per il loro lavoro. All’appello per un atto di clemenza nelle carceri che abbiamo promosso con Luigi Manconi e indirizzato ai parlamentari della Repubblica hanno aderito storici dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, come Luigi Pagano e Carmelo Cantone. Anche tra i sindacati della polizia penitenziaria comincia a muoversi qualcosa. Sarebbe importante se altri pronunciamenti arrivassero, a svegliare governo e maggioranza dalle loro erronee convinzioni, prima che quella lunga di scia di morti dello scorso anno si trascini per inerzia anche in questo. “Adeguare la capienza delle carceri alle necessità”? La frase di Meloni serve solo al consenso di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2025 La premier Giorgia Meloni afferma in conferenza stampa, rispondendo a una sollecitazione della giornalista di Radio Popolare Anna Bredice, che per risolvere i problemi delle carceri non vanno utilizzati amnistia o indulto bensì bisogna ampliare il numero dei posti detentivi. Non bisogna, sostiene, migliorare le condizioni di vita interne “adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle carceri”, ma piuttosto adeguando “la capienza delle carceri alle necessità”. È per questo motivo, aggiunge, che “abbiamo nominato un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria che ha l’obiettivo di realizzare 7.000 nuovi posti in tre anni a partire dal 2025”. Cominciamo dalla prima affermazione: adeguare la capienza delle carceri alle necessità è una frase che non ha alcun senso politico. Quali sarebbero le necessità? Chi stabilisce qual è la porzione di persone che è corretto imprigionare da parte di una società, rispetto al numero complessivo degli abitanti? “Facile: quelle che commettono reati”, si sarà tentati di rispondere. E allora per quale motivo i tassi di criminalità si vanno abbassando da anni mentre contestualmente la popolazione detenuta continua ad aumentare? La storia ci ha insegnato che più posti detentivi si rendono disponibili e più in fretta si riempiono. Mandare la gente in galera fa prendere voti: sono decenni oramai che le campagne elettorali si vincono costruendo nemici sui quali le statistiche ci dicono che non vi è alcuna emergenza (gli immigrati, le baby gang, i consumatori di sostanze stupefacenti, gli occupanti abusivi di case, gli attivisti) e promettendo che verremo difesi da tali nemici attraverso una giustizia truce e inflessibile che li arresterà in massa togliendoli dalle nostre strade. Una società sana non può relegare al sistema penale la soluzione di ogni problema. Bisogna investire in prevenzione, in sostegno, in politiche di welfare. Tutte cose ben più difficili dello sventolio di manette. L’attuale governo ci ha abituati a continue introduzioni di nuovi reati e di aumenti di pene per quelli vecchi. L’Italia è tra i paesi europei con il più alto numero di persone detenute per reati legati alle droghe, con una media ben superiore a quella dell’Unione Europea. La stessa cosa si può dire per il tasso di detenuti presunti innocenti in custodia cautelare. Sono queste alcune delle aree sulle quali bisognerebbe agire, invece di minacciare altro carcere e altre costruzioni. E veniamo dunque alla seconda affermazione di Meloni, quella sui 7.000 nuovi posti in tre anni. Se anche ciò accadesse avremo comunque, stando ai numeri odierni, almeno altre 8.000 persone detenute senza un posto regolamentare. Si aggiunga a ciò che la popolazione carceraria è aumentata di oltre duemila persone nell’ultimo anno e di oltre cinquemila dal 2022 a oggi. Con questo tasso di crescita, i fantomatici 7.000 posti andranno appena a coprire il fabbisogno dei nuovi ingressi. Ma la premier sa che le sue parole sono quantomeno avventate. Un carcere non è fatto solamente di mura e di sbarre, ma innanzitutto di persone. Ad oggi le figure professionali del sistema penitenziario sono in forte sotto organico. Le visite effettuate da Antigone con il proprio Osservatorio sulle carceri hanno riscontrato una carenza di copertura medica per la maggior parte della giornata, il numero di psicologi e psichiatri è irrisorio rispetto alle necessità, in molte carceri manca il direttore nonostante le recenti assunzioni, gli stessi sindacati di polizia penitenziaria lamentano l’assenza di oltre 15.000 agenti. In una situazione drammatica, dove il 2025 è appena cominciato e già si contano cinque suicidi nelle carceri italiane, l’edilizia penitenziaria non può essere la soluzione. Bisogna far tornare le carceri a respirare, come ci ha detto il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno e come ci ha detto Papa Francesco scegliendo il carcere di Rebibbia per l’apertura di una Porta Santa. Due testimonianze dal valore etico, costituzionale, umano ben differente da quelle cui abbiamo assistito da parte di un governo che si è vantato di non lasciar respirare i detenuti. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Amnistia e indulto, parole bandite. Unico obiettivo: nuove carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 gennaio 2025 In cella sei suicidi da inizio anno. La premier Giorgia Meloni in conferenza stampa conferma la scelta del populismo penale. Il ricorso all’amnistia o all’indulto per alleviare il sovraffollamento carcerario e l’intasamento delle aule di giustizia in attesa di auspicate riforme strutturali non sono “un modo serio di risolvere il problema”. Rispondendo alla domanda di una giornalista di Radio Popolare durante la conferenza stampa di inizio anno, la presidente Meloni mette il sigillo supremo sulla presa di posizione più volte esplicitata dal ministro di Giustizia. E lo fa mentre già nelle carceri italiane si contano dall’inizio dell’anno 5 detenuti e un operatore suicida. L’ultimo dramma si è registrato a Regina Coeli, a Roma, dove un ragazzo rumeno di 23 anni si è impiccato mercoledì notte, appena pochi giorni dopo l’arresto per rapina e altri reati contro il patrimonio. In questi primi giorni dell’anno, un sesto recluso si è tolto la vita in una Rems (le residenze per i rei affetti da disturbi mentali), e altri due sono morti per altre cause. Inutile ricordarle che di amnistia parla anche Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo perché, fa notare la premier, è un appello urbi et orbi senza alcun peso politico specifico. Contrariamente a Carlo Nordio, però, Meloni non dice che ogni atto di clemenza è un “inutile segno di debolezza dello Stato” ma conferma la strada già delineata dal suo governo. La soluzione, secondo la premier, sarebbe “da una parte ampliare la capienza delle carceri”, dall’altra cercare di “rendere più agevole ad esempio il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità”. A questo scopo infatti il Decreto carceri ha istituito un albo di comunità dove detenuti tossicodipendenti possano scontare la pena (ma l’elenco è scarno e la norma è rimasta lettera morta). E a settembre Marco Doglio è stato nominato Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria con una dote di 36 milioni di euro e la missione (rimasta al palo) di ricavare nuove celle da vecchi edifici. Molte le reazioni di sconcerto alle parole di Meloni, dal portavoce dei garanti territoriali dei detenuti Ciambriello che ribadisce il concetto della detenzione come extrema ratio, all’associazione Coscioni che ha diffidato 102 Asl per la violazione del diritto alla salute dei detenuti. Mentre il vescovo ausiliario di Roma, mons. Ambarus, che ha accompagnato il Papa nell’apertura della porta santa a Rebibbia, auspica che Meloni si converta ad “approccio più umanitario” quando si parla di detenzione. “Io ex capo del Dap dico: fermate subito questa scia di morte in carcere” di Franco Insardà Il Dubbio, 10 gennaio 2025 Per Santi Consolo la liberazione anticipata allargata, proposta da Giachetti, avrebbe già contribuito a ridurre il sovraffollamento: “Dopo la sentenza Torreggiani della Cedu del 2013 quella misura fu importante”. Il quinto detenuto si è tolto la vita a Regina Coeli questa mattina, il giorno prima un altro recluso e un operatore si sono suicidati nel carcere di Paola. In conferenza stampa la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha ribadito il no del suo governo ad amnistia, indulto. La ricetta del governo contro il sovraffollamento è la costruzione in tre anni di 7.000 nuovi posti detentivi, i tossicodipendenti in comunità e accordi con gli Stati per far scontare la pena agli stranieri nel proprio paese d’origine. Intanto i suicidi continuano a ritmo di quasi uno al giorno. Sull’argomento l’ex capo del Dap e attuale Garante regionale siciliano dei detenuti, Santi Consolo, ha idee chiare: “In una situazione eccezionale d’emergenza come questa bisogna assumere provvedimenti che diano qualche risultato nell’immediato. Le promesse e i programmi per i prossimi mesi o anni servono a poco”. Dottor Consolo, dopo il tragico record del 2024 inizia malissimo anche il 2025... Speriamo che i suicidi non continuino con questa progressione, altrimenti dovremmo registrare la tragicità incredibile del carcere con i sepolti vivi. Tenga presente che al numero dei suicidi bisogna aggiungere anche i morti per altra causa, che per l’anno decorso sono stati pure numerosissimi: 145. Il carcere deve essere un luogo di speranza, dove si deve creare un futuro nei confronti di coloro che hanno sbagliato e hanno commesso reati, non un luogo di disperazione e di morte. Neanche il messaggio forte lanciato da Papa Francesco con l’apertura della Porta Santa a Rebibbia e quello del presidente Mattarella, hanno scosso le coscienze? I messaggi autorevoli di personalità, come il sommo pontefice o il Presidente della Repubblica, dovrebbero essere di stimoli in quanti hanno responsabilità nell’operare. Purtroppo si deve constatare che a quei moniti, a quelle espressioni di vicinanza verso i più fragili e i più deboli, non viene dato seguito, le speranze vengono deluse e aumenta il senso di frustrazione di chi è detenuto Secondo lei, che è stato magistrato, capo del Dap ed è garante dei detenuti in Sicilia, quale potrebbe essere una misura per ridurre in tempi brevi il sovraffollamento? Mi ero pronunziato favorevolmente per la liberazione anticipata allargata (la proposta di legge Giachetti/Nessuno Tocchi Caino ndr.), perché quel beneficio presuppone un comportamento regolare partecipativo da parte dei destinatari. Non viene meno il principio della rieducazione, l’osservazione e il controllo di meritevolezza. Audito in commissione ho espresso il mio parere favorevole al provvedimento, ma la politica non ha dato seguito alla cosa, che già da tempo avrebbe potuto risolvere la problematica. Recentemente c’è stato un appello di giuristi, docenti universitari, per un’iniziativa di clemenza. Potrebbe essere questa una soluzione nell’immediato? Qualunque atto che abbia un effetto deflattivo io lo valuto positivamente. Le contromisure che si invocano nella drammatica situazione attuale, non sortiranno alcun effetto, perché tutto quello che è stato annunciato prevede dei tempi di realizzazione di almeno alcuni anni. Diminuire il numero di detenuti torna utile per avere una maggiore attenzione nei confronti di quelli che rimangono e soprattutto per agevolare tutti gli operatori penitenziari che si sacrificano nel sistema carcerario. Come si può intervenire per migliorare la situazione in carcere? Coinvolgendo sia il personale sia i detenuti. Quando ero presidente della Cassa delle Ammende i detenuti erano impegnati in lavori utili per migliorare la struttura penitenziaria. A Sollicciano, ad esempio, abbiamo avviato moltissime progettualità, purtroppo quell’attività è stata interrotta. Sono entrato in magistratura subito dopo l’entrata in vigore nel 1975 dell’Ordinamento penitenziario. Ebbene quell’ordinamento stabilisce o che gli ambienti devono essere arieggiati, luminosi, riscaldati in inverno e refrigerati in estate. Nelle nostre carceri, purtroppo, si soffre sia con il caldo sia con il freddo, e l’acqua calda non sempre c’è. Il governo punta a trasferire i tossicodipendenti detenuti in comunità: è d’accordo? Non ci sono strutture esterne adeguate per poter recuperare i tossicodipendenti, che continuano a essere vittimizzati per i loro comportamenti ritenuti contrari alla legge, e si ritrovano in un contesto che non è attrezzata e non comprende fino a fondo il loro disagio. Il problema è duplice: da un lato ci sono condizioni pregresse di tossicodipendenza, dall’altro purtroppo si registra una diffusione del traffico di droga all’interno delle carceri, trasformandolo da luoghi di rieducazione a luoghi di devianza. Nell’ultimo periodo non solo i tossicodipendenti, ma anche i disabili mentali vengono sistematicamente ghettizzati nelle carceri. Alcune riforme, che potevano essere buone, dovevano essere accompagnate da adeguate strutture, personale dedicato, ma non hanno avuto successo: si sono chiusi gli Opg e sono aumentati i disabili mentali all’interno degli istituti penitenziari. Le Rems sono nate male, prevedono un numero limitatissimo di persone da accogliere e sono spesso inadeguate a gestire i casi limiti. Chi ha una malattia mentale continuano a rimanere in carcere, altri che dovrebbero essere in esecuzione di misure di sicurezza, per mancanza di posti nelle Rems, circolano liberi, con rischi anche per la sicurezza. Il problema è curare piuttosto che reprimere. Ma con questi numeri della popolazione carceraria, con le condizioni precarie delle carceri, c’è il rischio che la Cedu possa di nuovo condannare l’Italia come avvenne nel 2013? Prima da vice capo del Dap, con la sentenza Sulemanovic, e poi da capo con la sentenza Torreggiani ho gestito la fuoriuscita dell’Italia dalle emergenze, dopo le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. La seconda addirittura era una sentenza pilota e immagini come e quanto ci hanno monitorato prima di poterne uscire. E come riuscii a gestire quella situazione? Dopo la Torreggiani bisogna ricordare che un aiutino ci è stato dato proprio dalla liberazione anticipata allargata, quella speciale, quella che vorrebbero riproporre Giacchetti e nessuno Tocchi Caino. Penso che le esperienze positive non vadano dimenticate. Per non parlare delle condizioni in cui opera il personale all’interno delle carceri... Il motto che gli agenti portano come distintivo è “Despondere spem munus nostrum” (garantire la speranza è il nostro compito). Un tempo si chiamavano agenti di custodia, ma non perché dovevano tenere chiuso con la chiave la persona dentro un blindato, ma perché la custodia significa cura, attenzione, vicinanza alla persona più fragile per poterla aiutare. Se noi perdiamo questo senso di umanità con degli slogan che non hanno niente di umano, perdiamo di vista la vera bussola che può fare migliorare l’intera nostra società. Le misure alternative potrebbe essere una soluzione? Sicuramente agevolano l’inserimento della persona e abbattono la recidiva, ma quello che manca all’interno delle strutture penitenziarie è l’offerta (che deve essere per tutti i detenuti di attività trattamentali e di percorsi formativi. Ma le statistiche su quelli che lavorano spesso sono mendaci, perché lavorare significa essere impegnato a tempo pieno e poter avere anche un beneficio economico, da utilizzare non solo per quelle piccole spesucce del sopravvitto ma per poter donare qualcosa alle loro famiglie, spesso indigenti. Dottor mi scusi, questo continuo avvicendarsi di capi del Dap non fa bene all’amministrazione e al sistema penitenziario? È ovvio. Forse ho avuto la permanenza maggiore all’interno del Dap, prima come vice capo e poi al vertice: in totale quasi 7 anni. La mia esperienza dimostra che più si lavora, più si comprende e si ha la capacità di risolvere i problemi che sorgono. Non mi sono mai tirato indietro, neanche quando a fine anni 70 ero magistrato di sorveglianza, in occasione di proteste o sommosse dall’andare nelle strutture penitenziarie a incontrare i detenuti e a dialogare. Con manganelli, scudi e caschi si va soltanto allo scontro e la situazione può solo degenere. Da quando sono andato via (2018 ndr.) si sono avvicendati già 5 capi, ma in periodi così brevi nemmeno si ha tempo di comprendere dove ci si trova. Dall’alto della sua esperienza lei è ottimista o è pessimista sulla situazione delle carceri? In questo momento la situazione è davvero brutta. L’edilizia penitenziaria non può essere la soluzione. La Presidente visiti un carcere con noi antigone.it, 10 gennaio 2025 “Se anche nei prossimi 3 anni il governo riuscisse a dotare la capienza delle carceri di 7.000 nuovi posti, come dichiarato dalla Presidente Meloni, avremo comunque, ad oggi, almeno altre 8.000 persone detenute senza un posto regolamentare. A questo si deve aggiungere che le persone detenute sono aumentate di oltre 2.000 unità nell’ultimo anno e di oltre 5.000 unità dal 2022. Se il tasso di crescita fosse questo anche nei prossimi tre anni (cosa tutt’altro che impossibile a fronte delle attuali politiche penali) è prevedibile che i 7.000 nuovi posti andranno ad assorbire i nuovi ingressi, lasciando dunque il sistema penitenziario in una condizione di affollamento cronico e drammatico come quello che si registra oggi, con circa 15.000 persone in più rispetto alla capacità del sistema stesso”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, a fronte delle dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno. “Peraltro - prosegue il presidente di Antigone - un carcere non è solo mura e sbarre, ma è fatto innanzitutto di persone. Ad oggi tutte le figure professionali sono in forte sotto-organico. Gli stessi sindacati di polizia penitenziaria lamentano l’assenza di oltre 15.000 agenti. Nelle visite effettuate da Antigone con il proprio osservatorio, in molte carceri manca la copertura medica per la maggior parte della giornata. Il numero di psicologi e psichiatri è irrisorio rispetto alle necessità. Nonostante le recenti assunzioni di direttori, in molte carceri questa figura manca, così come mancano anche gli educatori, gli assistenti sociali e i mediatori culturali. Quello che vorremmo sapere è dove si troveranno le coperture finanziarie per garantire la disponibilità di personale con ulteriori nuove strutture da presidiare? L’alternativa, dunque, non può che passare da iniziative legislative e atti di clemenza. Basti ricordare che l’Italia è tra i paesi europei con il più alto numero di persone detenute per reati legati agli stupefacenti (con una media detentiva ben superiore a quella dell’Unione Europea); con un tasso molto alto di custodia cautelare (anche in questo caso superiore alla media UE). Si potrebbe iniziare ad intervenire su questi temi per diminuire la pressione sulle carceri e garantire che queste siano nella piena legalità, cosa che ad oggi non avviene, nonché sull’offrire attività fondamentali per il reinserimento sociale, come quelle lavorative, che oggi vedono impegnata una parte minima della popolazione detenuta, incidendo così sulla riduzione della recidiva che, in Italia, si aggira attorno al 70%”. “Lo scorso 30 dicembre il Ministero della Giustizia, che ringraziamo ancora una volta, ha rinnovato per il ventiseiesimo anno di fila le autorizzazioni del nostro osservatorio sulle condizioni di detenzione. Invitiamo - conclude Patrizio Gonnella - la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a organizzare insieme a noi una visita in almeno una degli istituti per verificare di persona la condizione delle carceri italiane”. Carriere separate, opposizioni sulle barricate: ddl blindato di Valentina Stella Il Dubbio, 10 gennaio 2025 Meloni apre al dialogo con la magistratura, ma le minoranze accusano il Governo di autoritarismo. Mentre si cerca un compromesso su alcuni emendamenti. “Per carità si possono sempre migliorare i provvedimenti. Se c’è la disponibilità al dialogo, se ne parla. Escludersi da qualsiasi collaborazione vuol dire impedire a noi di avere il contributo anche positivo che può arrivare dai vertici della magistratura, è una contrarietà pregiudiziale che non condivido che facciamo” ma “mi stupisce sempre il tono apocalittico col quale si risponde a qualsiasi tentativo di riforma della giustizia, come se fosse un attacco”: così ieri in conferenza stampa la premier Giorgia Meloni a chi le chiedeva cosa pensasse della bocciatura da parte del Csm della riforma della separazione delle carriere. Parole critiche da un lato, ma aperturiste dall’altro quelle della presidente del Consiglio nei confronti della magistratura, che però stridono con quanto stava accadendo contemporaneamente nell’Aula della Camera dove l’opposizione stava criticando aspramente, con espressioni come “discussione antidemocratica, autoritarismo, colpo allo Stato di diritto”, il fatto che il Governo e la maggioranza abbiano blindato il testo del ddl costituzionale respingendo qualsiasi proposta emendativa e comprimendo i tempi del dibattito. Anche se, proprio in chiusura di seduta, si è aperto uno spiraglio su una proposta emendativa che in varie forme è venuta dalle opposizioni, ossia quella di garantire “un’equilibrata rappresentanza di donne e uomini” nel Csm. L’emendamento era stato bocciato in Commissione Affari costituzionali, ma il vice ministro Sisto aveva precisato che si sarebbero potute fare nella fase di discussione generale delle riflessioni che avrebbero riguardato “sostanzialmente la questione della presenza di genere negli organi rappresentativi”. Questa ipotesi è stata ricordata ieri durante la discussione con i partiti di minoranza, che chiedevano che il governo almeno ragionasse su questa modifica che non inficia minimamente l’impianto del ddl Nordio. Con il placet di uno dei relatori, il forzista Nazario Pagano, si è dunque deciso di sospendere il voto degli emendamenti all’articolo 1 e rinviare, come deciso dalla capigruppo, tutto a martedì 14 nel pomeriggio, per dare tempo all’Esecutivo e alla maggioranza di riflettere con le opposizioni su questa opportunità. Che inizialmente era stata scartata perché, secondo il relatore, si sarebbe potuta raggiungere anche con legge ordinaria. La discussione è comunque entrata nel vivo. A prendere la parola soprattutto le opposizioni. Per il dem Federico Gianassi, con questa norma “si stravolgono le regole stabilite dai padri costituenti e si finisce per trasformare il pm da organo di giustizia a accusatore seriale, un super-poliziotto tutto teso e improntato allo scontro processuale. Chi si è sottratto al confronto è solo il governo che ha blindato il provvedimento così come è uscito dal Consiglio dei ministri”. Critica anche la deputata del M5S Valentina D’Orso: “C’è un disegno ben preciso dietro questo ddl, lo hanno svelato tra gli altri due colleghi della maggioranza. La deputata Matone ha detto che la funzione della magistratura non è la lotta alla criminalità, il deputato Costa ha manifestato tutta l’insofferenza del centrodestra verso la funzione del pm non nella fase processuale, ma in quella delle indagini preliminari. Quindi non è vero che perseguono la parità delle parti nel processo, come dicono, in realtà vogliono indebolire il pm nella fase delle indagini e metterlo sotto il potere politico di turno, dando il potere di coordinamento delle indagini alla polizia giudiziaria, cioè agli agenti che dipendono dai ministri, dal governo”. Per la maggioranza lungo intervento del deputato di Forza Italia Enrico Costa: “Il giudice, durante le indagini preliminari, si finge morto. Avete presente quegli animali che per difendersi si fingono morti? La “tanatosi”, si dice. Come l’opossum, che si finge morto. Perché, se prova a interferire con il disegno del pm, negando una proroga alle indagini o alle intercettazioni, tanto per fare un esempio, viene accusato di uccidere la giustizia, perché la forza mediatica del pm è fortissima. Si applica al processo un sistema agghiacciante che è quello del marketing. Ed è qualcosa da brividi”. Ok alla riforma anche da +Europa, con l’onorevole Benedetto della Vedova che ha detto: “Ho promosso referendum su referendum per una giustizia giusta e per la separazione delle carriere, assieme a un grande garantista liberale come Marco Pannella: non drammatizziamo questa discussione che ha radici profonde. Questa riforma arriva a compimento con la maggioranza sbagliata, ma anche le maggioranze sbagliate possono fare cose giuste, perché le maggioranze giuste non le hanno fatte. Dopo questo provvedimento voglio vedervi garantisti con tutti e sempre: sui migranti, con le carceri, contro gli aumenti di pena che continuate a votare, contro i nuovi reati nazionali o velleitariamente universali. Fate un po’ di obiezione di coscienza, altrimenti distruggerete questa buona riforma”. Separazione delle carriere, il baratto di Fi per avere il giudice costituzionale di Kaspar Hauser Il Manifesto, 10 gennaio 2025 Gli azzurri puntano sul loro senatore Pierantonio Zanettin, nonostante i dubbi della premier Meloni. In cambio sono pronti a blindare la riforma. L’elezione dei 4 giudici costituzionali si intreccia con l’iter della riforma della separazione delle carriere, in un commercio di vicende che dovrebbero invece rimanere separate. Commercio tutto interno alla maggioranza, che continua a governare attraverso patti leonini tra i tre partiti che la compongono. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha convocato il Parlamento in seduta comune (spetta a lui il compito) per martedì prossimo, alle 13. Una data fuori tempo massimo. Infatti già il giorno antecedente la Corte costituzionale incardinerà la decisione sull’ammissibilità del referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata (ma la data potrebbe slittare). Speriamo che nessuno degli 11 giudici residui abbia il raffreddore, altrimenti la Corte non sarebbe in numero legale. In ogni caso ieri in Senato e alla Camera i parlamentari di tutti i gruppi si dicevano consapevoli che entro quel giorno l’accordo va trovato e vanno eletti i 4 giudici per ridare alla Consulta il proprio plenum. A ieri, tuttavia, un accordo ancora non c’era; non tanto perché siano ancora distanti la maggioranza e le opposizioni, quanto perché è nella prima che si è in alto mare. E qui entra in gioco la riforma con la separazione delle carriere, su cui ieri mattina la Camera ha iniziato a votare gli emendamenti. Era prevista anche una seduta pomeridiana per proseguire le votazioni, ma così non è avvenuto. La conferenza dei capigruppo ha rinviato l’esame a martedì pomeriggio, alle 16, cioè dopo la seduta per l’elezione dei 4 giudici costituzionali. Eppure l’altro ieri il ministro Nordio e ieri la premier Meloni hanno detto che si deve procedere spediti. Nella seduta di ieri mattina alla Camera sulla riforma si sono notati due elementi: il silenzio dei deputati di maggioranza, con un unico intervento, quello di Enrico Costa di Fi; l’evidente volontà di non correre. E rinviare tutto a dopo la seduta per i giudici costituzionali. Ed ecco l’intreccio tra le due vicende. Le destre non hanno ancora raggiunto un patto interno sui due giudici da proporre per l’accordo alle opposizioni (queste ne esprimerebbero un terzo, un quarto dovrebbe essere un “tecnico” non sgradito ai due poli). La premier Giorgia Meloni non si sposta dal proprio consigliere, Francesco Maria Marini, mentre Fi insiste per il suo senatore Pierantonio Zanettin, avvocato con alle spalle anche un mandato come laico del Csm. Ma un passaggio diretto dallo scranno parlamentare a quello della Consulta non si era mai visto. Di qui le riserve di Meloni, non per sensibilità istituzionale ma per non crearsi ulteriori tensioni con il Quirinale. Per perorare la posizione di Zanettin, Fi ha accettato di ritirare i propri emendamenti alla riforma della giustizia. E si sta adeguando ai desiderata di Nordio che non vuole nessunissima modifica al proprio testo. Su di esso le opposizioni, sia quelle contrarie (Pd, Avs e M5s) che quelle favorevoli (Iv e Azione), hanno presentato emendamenti con la norma sulla parità di genere nei due Csm; se ne riparlerà nella legge ordinaria di attuazione, ha risposto l’altro forzista nonché relatore Nazario Pagano. E ritocchi tecnici, che non inciderebbero sull’impianto, sono stati indicati dagli uffici della Camera, come testimonia il dossier che ha accompagnato il ddl in aula. Niente. Non verranno fatte neanche quelle modifiche. Nessuno si fida dell’altro, nel destra-centro, ed è meglio non rischiare voti su emendamenti, anche innocui. L’esito della seduta per i giudici ci farà capire la velocità dell’iter della riforma. Sulla separazione delle carriere il centrodestra si ricompatta. Ma il Csm boccia la riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2025 Dopo un vertice a Palazzo Chigi Forza Italia ritira i suoi emendamenti e la Camera respinge le pregiudiziali di costituzionalità. Ma il Csm boccia la misura. La maggioranza si rinsalda sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, ma serve un vertice a palazzo Chigi per spingere Forza Italia a ritirare gli emendamenti presentati. Dove le proposte di correzione, che puntavano a escludere dal sorteggio i componenti laici dei due nuovi Consigli superiori della magistratura esito della riforma, potrebbero a questo punto confluire nella futura legge applicativa che dovrà sciogliere tutti i nodi operativi di un intervento ancora ben lontano dall’approvazione. Lo conferma il ministro della Giustizia Carlo Nordio, uscendo dal summit con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano: “Abbiamo dovuto ricomporre questa dialettica interna perché il provvedimento deve essere blindato. Eventuali correzioni - ha aggiunto - porterebbero a uno slittamento di quello che per noi è la madre di tutte le riforme e quindi abbiamo raggiunto un accordo e questi emendamenti saranno gestiti in un altro modo”. E il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), mette in evidenza l’obiettivo degli emendamenti: “I parlamentari sono eletti e hanno titolo a individuare la componente politico-parlamentare del Csm”. Inoltre, “un precedente un po’ pericoloso potrebbe essere quello di sorteggiare nomine parlamentari, potrebbe significare, ad effetto domino, riverberare il sistema del sorteggio su altre nomine parlamentari e non si sa dove si può arrivare”.Immediatamente a valle della marcia indietro di Forza Italia, alla Camera è arrivato il primo voto dell’Aula sul provvedimento. Per la riforma tuttavia va registrata anche una sostanziale bocciatura. È quella del Csm che, in tarda serata, dopo un pomeriggio di dibattito, ha approvato un parere estremamente critico. Uno dei relatori, l’indipendente Roberto Fontana, ha messo l’accento sulla nuova configurazione della pubblica accusa: “La riforma si risolverà in un’eterogenesi dei fini, con la creazione di un corpo separato di 1.500 funzionari totalmente autoreferenziali, con poteri enormi, controllando la polizia giudiziaria e decidendo sull’azione penale, per cui l’inevitabile sbocco finale sarà che di esso assumerà il controllo il potere esecutivo”. Per l’altro relatore, il consigliere di Area Antonello Cosentino, è anche l’istituzione dell’Alta corte disciplinare a dover essere respinta: “La giurisprudenza disciplinare costituisce uno dei modi in cui il Csm definisce il profilo di magistrato che intende proporre agli appartenenti all’ordine giudiziario. Sottrarla al Consiglio significa amputare una funzione essenziale dell’autogoverno e dunque depotenziarne il peso costituzionale”. Ma il parere bolla poi la riforma come irrilevante in punta di fatto, visto che negli anni i passaggi da una funzione all’altra si sono tanto rarefatti da essere ormai del tutto insignificanti (negli ultimi 5 anni si sono avuti in media meno di 28 passaggi, nei 13 anni precedenti i passaggi erano stati in media circa 53 annui), discutibile se intende corroborare la parità tra accusa e difesa, inutile sul piano del miglioramento della qualità della giurisdizione. Quanto infatti alla necessità dell’intervento sul piano del giusto processo il parere si àncora alla giurisprudenza della Corte costituzionale per concluderne che non esiste un vincolo di cambiamento per l’ordinamento giudiziario: la parità delle parti è da tempo principio cardine del processo penale, ma tra accusa e difesa profondamente diverse sono le condizioni di operatività e gli interessi di cui sono portatrici. Se poi a essere contestato è il dato psicologico della comune matrice e appartenenza che renderebbe il giudice più permeabile alle richieste del pm, allora la riforma appare inefficace visto che l’accusa resterebbe pubblica e i suoi esponenti sempre apparterebbero all’ordine giudiziario. Il parere del Csm contro la riforma Nordio è il trionfo del pregiudizio di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 gennaio 2025 Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato un parere in cui si sostiene che la separazione delle carriere porterà alla sottoposizione del pubblico ministero alla politica. Ma tutto si basa su una serie di congetture e supposizioni. Più che un parere negativo sulla riforma della separazione delle carriere, quello approvato dal Consiglio superiore della magistratura mercoledì sera (con 24 voti favorevoli, tra cui quelli di tutti i membri togati, e il voto contrario di quattro laici di estrazione di centrodestra) sembra il manifesto di un oracolo apocalittico. Ai rilievi tecnici, infatti, si sostituisce una serie di congetture e supposizioni spesso in contrasto persino con la logica. Il parere, lungo 76 pagine, sembra avere come primo obiettivo quello di confermare la tesi avanzata da mesi dall’Associazione nazionale magistrati: la separazione delle carriere porterà alla sottoposizione del pubblico ministero al governo, minando così l’indipendenza della magistratura. Questa tesi si scontra però con la realtà: la riforma costituzionale ribadisce esplicitamente i princìpi di autonomia e indipendenza della magistratura nel suo insieme. Il nuovo articolo 104 della Costituzione, infatti, dopo la riforma reciterebbe: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Il parere del Csm ammette che questa disposizione “appare, almeno sulla carta, idonea a neutralizzare, allo stato, le preoccupazioni manifestate da alcuni rispetto al rischio di un affievolimento dell’indipendenza esterna degli organi della pubblica accusa”. Subito dopo, però, entra in campo l’oracolo dell’apocalisse: “Appare evidente come la garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura requirente non possa ritenersi soddisfatta dalla (mera) affermazione - sia pure a livello costituzionale - dell’appartenenza di essa all’ordine giudiziario, ma richieda (anche) la predisposizione di presidi ulteriori, quali, appunto, il principio della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e del divieto di interferenza di altri poteri nella conduzione delle indagini e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Conclusione: “La circostanza che il disegno riformatore lasci formalmente intatti i presidi suddetti, mantenendo al contempo ferma la presenza di un Consiglio superiore composto anche (ed in maggioranza) da magistrati, non elimina totalmente il rischio che, nel concreto sviluppo della dinamica ordinamentale, si possa determinare un affievolimento dell’indipendenza del pubblico ministero rispetto agli altri poteri dello stato”. Insomma, la riforma costituzionale rischia di portare il pm sotto il controllo del governo. Si è di fronte a un giudizio critico rispetto a una circostanza non reale, ma che si suppone potrà verificarsi in futuro. Ma compito del Csm sarebbe quello di esprimere pareri tecnici, non lanciare allarmi basati su ipotetici scenari futuri, che non si sa da chi dovrebbero essere realizzati, vista l’esplicita intenzione del governo di non mettere in discussione l’autonomia del pubblico ministero. Il parere approvato dal Csm risulta ancora più illogico nella parte in cui afferma che la riforma “non sembra trovare riscontro nella giurisprudenza costituzionale”, e questo perché la Corte costituzionale nelle sue sentenze non ha mai parlato di “necessità” di una separazione delle carriere per rendere effettivo il principio del giusto processo. Ma dire che una riforma non è “necessaria” sul piano costituzionale, non significa che questa non possa essere ritenuta opportuna dal legislatore. Non a caso, poche righe più in là, il parere del Csm parla ora di una riforma ritenuta di “stringente opportunità” dal governo. Ma anche questo non va bene: impostare la separazione delle carriere in questi termini “rischia di veicolare l’idea per cui la magistratura giudicante presenta, oggi, deficit di terzietà e di imparzialità: un’idea che, tuttavia, non sembra trovare riscontro nell’esperienza concreta, sol che si pensi che, come da più parti osservato, in più del 40 per cento dei casi le decisioni giudiziarie non confermano l’ipotesi formulata dalla pubblica accusa con l’esercizio dell’azione penale”. Anche in questo caso il Csm mostra di preoccuparsi dell’”idea” che la riforma potrebbe far passare al pubblico, anziché del suo contenuto. Il dato sulle assoluzioni risulta poi non pertinente: l’obiettivo della riforma, come più volte ribadito dal ministro Carlo Nordio, è conformare la struttura della magistratura al processo accusatorio introdotto nel 1989. Il dato piuttosto dovrebbero indurre il Csm a chiedersi se sia normale che quasi un imputato su due, alla fine di processi lunghissimi, risulti innocente. “Lo scopo non è migliorare la giustizia, ma controllare il pm” di Simona Musco Il Dubbio, 10 gennaio 2025 Tutti i togati del Csm, ad eccezione dell’indipendente Andrea Mirenda, hanno votato un parere che boccia la separazione delle carriere, definita pericolosa per la magistratura. Ne parliamo con Marcello Basilico, consigliere di Palazzo Bachelet in quota Area. La magistratura si oppone strenuamente al ddl costituzionale, che minerebbe l’indipendenza della magistratura. Quali sono i rischi principali, a suo avviso? C’è un rischio di fondo che abbraccia tutti gli aspetti di questa riforma: il rischio di una riduzione degli spazi di autonomia della magistratura. Questo avviene, innanzitutto, perché con il sorteggio i magistrati non potranno più scegliere coloro che ritengono più adatti a tutelare, in Csm, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Sarà la sorte, e non i magistrati stessi, a decidere i componenti del Consiglio superiore. C’è poi l’intervento sull’Alta Corte, che sottrae al Csm - e solo al Csm dei magistrati ordinari - una funzione fondamentale: quella disciplinare. Questa funzione, assieme alle altre, concorre a delineare il profilo di magistrato e a garantire l’autonomia del corpo giudiziario. Infine, questa riforma, separando i corpi della magistratura ordinaria, è destinata, nel medio- lungo termine, a portare il pubblico ministero nell’orbita dell’esecutivo o comunque in una posizione distante dall’autonomia giudiziaria. La relazione illustrativa, pur affermando in linea di principio che l’autonomia del pm non sarà intaccata, non spiega come questa autonomia sarà tutelata in concreto attraverso contrappesi o misure. Inoltre, la creazione di due magistrature ordinarie - quella giudicante e quella inquirente - e di due Csm ridurrà inevitabilmente il peso istituzionale della magistratura tutta, che sarà di fatto dimezzato. Lo scopo dichiarato della riforma è quello di avere un giudice effettivamente terzo. Secondo le toghe, invece, indebolire la collaborazione significa avere un processo meno equo. In che modo? Che il giudice non sia imparziale non è dimostrato. Anzi, le critiche piovono sulla magistratura sia quando il giudice assolve troppo, sia quando condanna troppo. I dati ci dicono che in Italia la percentuale di archiviazioni dei procedimenti pendenti nelle Procure è circa del 75%, mentre quella delle assoluzioni al dibattimento è vicina al 50%. Questi numeri indicano un equilibrio tra esercizio dell’azione penale e proscioglimenti. Si dice che con la riforma verrebbe migliorata la qualità della giustizia, ma la relazione illustrativa non spiega in che modo ciò avverrebbe. Al contrario, un pubblico ministero non più parte dell’unico ordine giudiziario, appartenente a una magistratura separata, finirà per sposare sempre più le tesi accusatorie, con minore attenzione alle possibilità di assoluzione degli imputati. Questo cambierà inevitabilmente la cultura del pm, riducendo nel tempo le garanzie per i cittadini che vengono oggi da una figura professionale dedicata alla ricerca della verità processuale. Il pubblico ministero diventerà un superpoliziotto? Questo è lo slogan. Tuttavia, di fatto, una delle salvaguardie che oggi abbiamo è proprio la formazione condivisa tra giudici e pubblici ministeri, sia quella iniziale che quella successiva, e la possibilità di confrontarsi in tante sedi sui diritti dell’imputato e sulle diverse prospettive del processo. Questo confronto, insieme alla possibilità dei cambi di funzione che esistono sia nei gradi di merito che in Cassazione, permette al pubblico ministero di coltivare una visione equilibrata del proprio ruolo. Il modello accusatorio tipico del Common Law, come quello britannico o statunitense, che si vorrebbe perseguire, finisce per assegnare al pm obiettivi di risultato - la ricerca della condanna, non più qu` ella della verità - a scapito dei diritti difensivi del cittadino. In che modo si concretizzerebbe il rischio di un assoggettamento alla politica? La Costituzione, ad oggi, riserva al pubblico ministero uno statuto parzialmente differenziato. Questa riforma lascia spazi al legislatore, con interventi di legge ordinaria, per ridurre ulteriormente l’autonomia del pm e avvicinarlo al controllo dell’Esecutivo. Già oggi vediamo come il pubblico ministero sia spesso oggetto di critiche quando esercita l’azione penale nei confronti di cittadini di rilievo, oppure quando non la esercita per determinati reati, come avvenuto in alcuni casi di femminicidio. Un pm che non faccia parte di una sola e autorevole categoria di magistrati sarà inevitabilmente più vulnerabile a queste pressioni esterne. Quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine di questa riforma sulla fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario? Una riforma che si annuncia come migliorativa per la qualità della giustizia, ma che non risolva le sue inefficienze, anzi le accentui, accresce la sfiducia del cittadino nei confronti di chi opera per la giustizia quotidianamente. È di questi giorni il caso dell’informatizzazione annunciata del sistema penale, che di fatto si vuole attuare con un applicativo che non funziona, rallentando il lavoro dei magistrati e causando disagi per i cittadini. Se la giustizia non migliora concretamente, il cittadino finirà per prendersela con i magistrati, alimentando una sfiducia crescente. Interventi normativi che non danno nuovi strumenti operativi, ma perseguono obiettivi politici, allontanano il cittadino dal sistema giudiziario. Chi vincerà il referendum? Vincerà il no alla riforma, perché il cittadino ha dimostrato di avere sempre a cuore la difesa della Costituzione. “Il sorteggio elimina l’evidente strapotere delle correnti al Csm” di Simona Musco Il Dubbio, 10 gennaio 2025 La componente togata del Csm si è compattata contro la riforma costituzionale. Tutti d’accordo, tranne uno, l’indipendente Andrea Mirenda, unico ad astenersi e ad aver già vissuto sulla propria pelle il sorteggio. Che potrebbe rappresentare una soluzione, afferma, alle degenerazioni correntizie. Lei è l’unico togato ad essersi astenuto dal voto sul parere sulla separazione delle carriere, dichiarandosi favorevole in particolare al sorteggio come strumento per riformare il Csm. Che effetti pensa che avrà, in concreto, questo intervento legislativo? Come ricordato in plenum anche dal Pg Luigi Salvato, separazione delle carriere e Alta Corte, se approvate - auspicabilmente con i correttivi evidenziati nel dibattito di plenum - non saranno la “Fine di Mondo” paventata dalle correnti né la soluzione dei nodi storici della giustizia italiana, principalmente bisognosa di un razionale efficientamento che assicuri celerità, prevedibilità e stabilità delle decisioni. Diverso discorso vale per il sorteggio (anche qui preferibilmente nella sua forma temperata) che, nel breve-medio periodo, potrà scardinare l’occupazione correntizia del Consiglio, restituendo autonomia e indipendenza ad ogni singolo consigliere, come prevede il Codice etico dei Consigli di giustizia europei. Del tutto prevedibile e scontato il parere negativo espresso sul punto dal plenum: non si può chiedere ai designati dalle correnti di porre fine al loro enorme potere parallelo. Lei ha infatti chiarito che il Consiglio non può essere un organo politico. Finora in che misura lo è stato? Quali azioni concrete propone per ridurre l’influenza delle correnti? Come ha ripetuto la Corte costituzionale, il Csm è organo di rilevanza costituzionale al quale sono assegnati i compiti di altissima amministrazione descritti dalla Carta. Una rappresentanza tecnica per categorie, mitigata dalla presenza dei laici per evitare spinte corporative. Guai se il Csm fosse organo politico, perché esporrebbe i magistrati, soggetti “soltanto” alla legge, al rischio di arbitri legati alla mutevolezza degli umori politici. Il rischio di deragliamento politico il Csm lo corre quando pretende di tracciare il modello conformativo di magistrato. Intuibili le ricadute su ogni piano della vita professionale, dalle progressioni di carriera al rischio disciplinare. Un’azione concreta per porre fine alle distorsioni consiliari, lasciando immutato il sistema elettorale, sarebbe quello della rotazione negli incarichi direttivi: ove mai il legislatore volesse introdurla, verrebbe meno alla radice il mercanteggiamento clientelare che vi ruota attorno. In più occasioni ha affermato che l’indipendenza del magistrato si fonda sul singolo e non sul Consiglio superiore. Come concilia questa visione con l’importanza di avere un Csm che svolga un ruolo significativo nella protezione dell’autonomia della magistratura? La Costituzione assegna l’indipendenza ad ogni singolo magistrato; quella del Csm è un’indipendenza chiaramente secondaria, strumentale ad assicurare quella primaria del magistrato. Nel tempo, tuttavia, è andata stratificandosi, nel circuito di governo autonomo, un’idea pericolosa: indipendente è la magistratura nel suo complesso e il Csm ne è il suo rappresentante. Un’idea di tipo “sostitutivo”, che finisce per illanguidire l’intensità dell’indipendenza assegnata al singolo magistrato, reso più debole davanti al Csm. La dottrina ha svolto acute riflessioni sulla pericolosità della minaccia interna all’indipendenza del giudice, la più subdola. Ha parlato di un “continuismo pericoloso” riguardo alla creazione di un’Alta corte disciplinare. Cosa intende con questa affermazione e quale modello alternativo suggerirebbe per la giustizia disciplinare? Si continua a pensare ad un modello di “giudice speciale per i magistrati”, senza porsi il problema dell’ardua compatibilità di ciò con la Costituzione. Se, dunque, concordo anch’io sull’assoluta necessità culturale di conservare in seno al Consiglio il momento sanzionatorio, occorre, tuttavia, attribuirgli la sua dimensione ovvia e naturale: non più sentenza di condanna ma normale atto amministrativo, come accade negli altri rami della Pa, impugnabile dal Pg della Cassazione o dal magistrato sanzionato davanti al giudice amministrativo, secondo le regole ordinarie, con successiva possibilità di ricorso in Cassazione. Crede che il Csm dovrebbe limitarsi a una gestione più “manageriale” della giustizia o dovrebbe ampliare il suo ruolo in ambito giuridico e disciplinare? Il tema della managerialità del Csm è delicato, tenuto conto del rigido riparto di competenze tra sistema di governo autonomo della magistratura e ministro della Giustizia. A bocce ferme, Il recupero della managerialità del Csm non può passare altro che attraverso lo snellimento del suo burocratismo dirigista, riconoscendo maggiore autonomia agli Uffici, coerente con la predicata “attitudine direttiva” dei loro capi, sin qui ridotta a formula vuota. Ridurre l’anelasticità degli Uffici significa assicurare loro maggiore efficientamento, maggiore capacità di celere adattamento alle varie criticità via via emergenti. La risposta consiliare sul punto è, di regola, assai tardiva. Escludo, invece, che il Csm debba/ possa invadere la sfera giurisdizionale riservata al magistrato. Quanto è difficile per i vulnerabili chiedere verità e giustizia di Valeria Verdolini* L’Unità, 10 gennaio 2025 L’episodio di Milano è più di una tragedia individuale: è uno specchio delle fragilità che il sistema penale e la società perpetuano nei confronti di alcune fasce della popolazione, soprattutto se di origine straniera. Nella notte tra sabato e domenica 24 novembre 2024, a Milano, uno scooter con a bordo due giovani, Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano residente in Italia dall’età di undici anni, e Fares “Fafà” Bouzidi, 21 anni, tunisino, è stato inseguito da una volante dei carabinieri. I due, che vivevano nel quartiere Corvetto e avevano precedenti penali, non si sono fermati all’alt dei carabinieri in via Farini, nei pressi di corso Como. Al momento dell’incidente, Ramy aveva in tasca 125 euro. Il suo amico portava con sé 850 euro e una catenina che ha dichiarato essere di sua proprietà. L’inseguimento si è concluso tragicamente sul rettilineo di via Ripamonti, dove lo scooter è finito contro un muretto. Ramy, in una prima ricostruzione privo del casco perso durante l’inseguimento, è stato sbalzato dalla moto e ha riportato ferite mortali. Fares, ferito, è stato successivamente indagato per omicidio stradale e resistenza. Nel frattempo, l’auto dei carabinieri è finita contro un semaforo. Nella fase iniziale, quando le circostanze esatte dell’incidente erano estremamente labili, la fragilità sociale dei due giovani, acuita dal loro status di non cittadini e dai loro precedenti, ha inciso profondamente sulla narrazione dell’evento. Solo dopo le accese proteste che hanno infiammato per due notti il quartiere di Corvetto, con la richiesta di “Verità e Giustizia per Ramy” anche alcuni agenti sono stati coinvolti dalle indagini. Ramy è stato sepolto a Milano, nel cimitero di Bruzzano. I genitori hanno chiesto di fermare le proteste, dicendosi fiduciosi nell’operato delle forze dell’ordine. Lo scorso martedì il Tg3 ha trasmesso le immagini dell’inseguimento, riprese dalle dashcam delle auto dei carabinieri e da alcune telecamere di sicurezza. Se visivamente la scena racconta un inseguimento drammatico, è l’audio a turbare maggiormente: “Vaffanculo, non è caduto”, esclama un militare quando lo scooter affronta una curva senza perdere il controllo. Più avanti: “Vai, chiudilo, chiudilo che cade.” Quando il mezzo non cade: “No, merda, non è caduto.” Infine, dopo la caduta, si sente: “Via Quaranta-Ortles, sono caduti.” La risposta: “Bene.” Per comprendere cosa sia realmente accaduto è necessario osservare le riprese di un’altra videocamera, posizionata tra via Ripamonti e via Solaroli. Le immagini mostrano il T-Max che svolta a sinistra e l’auto dei carabinieri che sembra urtarlo. Entrambi finiscono contro un semaforo. Ramy perde la vita sul colpo, a causa di una lesione all’aorta, schiacciato contro il palo. Alcuni peli del bordo in pelliccia del suo giaccone, che indossava quella sera, sono stati ritrovati incastrati nella targa dell’auto dei carabinieri. Un elemento rilevante riguarda un testimone che compare nelle immagini e che inizia a riprendere la scena con il suo telefonino. Durante il caos, si sposta leggermente e rischia di essere travolto. Il testimone ha dichiarato, sia durante le indagini difensive sia davanti al magistrato, di essere stato costretto da due carabinieri a cancellare il video dal suo cellulare. Le immagini della dashcam di una terza auto dell’Arma mostrano chiaramente i due carabinieri mentre si avvicinano a lui, con il testimone che alza le mani. I due militari sono attualmente indagati per falso, depistaggio e favoreggiamento personale. Per il cellulare del testimone è stata disposta una perizia informatica. Nel verbale redatto dai carabinieri, si legge che lo scooter, “a causa del sovrasterzo, scivolava scarrocciando ad alta velocità sul marciapiede, fino a colpire un palo semaforico pedonale e terminare la sua corsa contro un’aiuola”. Viene anche sottolineato che sarebbero state prese “tutte le misure di precauzione per evitare una collisione”. Già nel 1949 Piero Calamandrei parlava della centralità del “Vedere! Bisogna aver visto”, parlando degli spazi istituzionali. Ma cosa significa davvero vedere? Perché sempre più nelle vicende in cui si procede per violenze istituzionali le immagini diventano l’unica chiave per chiedere davvero verità e giustizia? Pur non entrando nel merito delle vicende processuali, ancora aperte e in corso, le immagini stesse e i loro audio ci restituiscono molto rispetto agli agiti contro alcune fasce della popolazione, che sia privata della libertà o a piede libero, soprattutto se di origine straniera. Questo episodio sottolinea in primis la necessità di strumenti di trasparenza, del come vedere in concreto, come le dashcam e le bodycam per documentare e rendere visibile ciò che avviene. Questi dispositivi permettono di fare chiarezza su eventi che potrebbero essere altrimenti distorti o insabbiati. Ma è chiaro che solo vedere non basta, è necessario lavorare sulle forme di prevenzione, perché il caso di Ramy non è un caso isolato. La fragilità giuridica diventa fonte di paura e di diffidenza nei confronti delle forze dell’ordine, che spesso rafforzano questo pregiudizio negativo attraverso processi di selettività ed esclusione. Il recente Report Ecri del Consiglio d’Europa ha criticato duramente l’Italia, parlando esplicitamente di “profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine” con frequenti fermi e controlli su base etnica. Ecri afferma che le autorità non sembrano essere consapevoli di quanto questa pratica sia problematica, perché non considerano la profilazione razziale come una forma di potenziale razzismo istituzionale. L’episodio di Milano è più di una tragedia individuale: è uno specchio delle fragilità che il sistema penale e la società perpetuano nei confronti dei non cittadini. La vulnerabilità, anziché essere riconosciuta e protetta, diventa un marchio di non credibilità, alimentando cicli di marginalizzazione e violenza, e difficoltà nella richiesta di verità e giustizia. Speriamo che questa vicenda possa portare a delle trasformazioni significative, nel ripensare non solo il meccanismo di accertamento e di accountability degli abusi di polizia, ma la cultura democratica dei corpi delle forze dell’ordine e l’urgenza di non discriminazione e di piena cittadinanza e dignità di tutte e tutti. *Presidente Antigone Lombardia Calabria. Lo stato delle carceri oltre il limite di umanità di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 10 gennaio 2025 Il monito del Papa e di Mattarella trova una situazione sempre più critica negli istituti penitenziari calabresi: a Paola le ultime tragedie. Sovraffollamento al 120% con punte del 148%. Ambienti detentivi e docce in condizioni precarie. La denuncia di Antigone: “A Cosenza e Rossano reclusi con disagi psichici senza materassi e svestiti”. Non è più un argomento su cui bisogna fare silenzio o tergiversare. Da Nord a Sud. Per la prima volta nella storia dei Giubilei il papa ha aperto una Porta Santa all’interno del carcere romano di Rebibbia, che è diventa così icona universale della vicinanza della Chiesa ai detenuti e un segno di speranza. E parole toccanti sono state proferite anche dal capo dello Stato, che non ha usato mezzi termini: “L’alto numero di suicidi nelle carceri - ha detto Sergio Mattarella - è indice di condizioni inammissibili”. Come è inammissibile questo 2025 che si apre tragicamente. Già cinque i suicidi, a Paola nel giro di poche ore si sono tolti la vita un detenuto del Reparto isolamento e un impiegato del penitenziario. Sono campanelli struggenti per la coscienza civile. Come la vita spezzata del messinese Domenico Lauria, morto (come lo stabilirà la magistratura, ndc) nel carcere di Catanzaro, a soli ventotto anni. Segni distintivi che ci dicono, senza ma e senza però, che doveva stare altrove? Il giovane era tossicodipendente e invalido civile al 75% con gravissimi disturbi di salute mentale. Un problema che è un male comune nelle celle che “sembrano” discariche sociali, come la parola, valida quasi per ogni dove, ormai diventata tristemente familiare: “Sovraffollamento”. Che cozza con la prescrizione secondo cui “ogni detenuto ha diritto a tre metri quadrati calpestabili, escludendo il letto, l’armadio e il lavabo”. Diventata, ahinoi, una lotteria. E in Calabria? Nei 12 istituti penitenziari calabresi - dato aggiornato a novembre - sono presenti 3.039 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 2.711 posti, molti dei quali però non sono utilizzabili per inagibilità o manutenzioni e il sovraffollamento sale al 120%, poco più basso della media nazionale che ha da poco raggiunto il 132%; 64 le donne recluse a Castrovillari e al “Panzera” di Reggio e 600 gli stranieri presenti negli istituti penitenziari calabresi. Tra i più affollati Locri, con un tasso di sovraffollamento del 148%, Palmi (133%), Laureana di Borrello (130%). Di sicuro, insomma, non bisogna abbassare la guardia o assuefarsi. “La situazione delle carceri - afferma Perla Allegri, presidente di Antigone Calabria - riflette le criticità evidenziate a livello nazionale nel 2024, con sovraffollamento, condizioni inadeguate e un aumento di eventi critici. Gli istituti penitenziari calabresi, come quelli di Locri, Palmi e Laureana di Borrello presentano un numero di detenuti superiore alla capienza regolamentare, altri istituti presentano ambienti detentivi e docce spesso in condizioni precarie. In generale, nell’anno appena trascorso, si sono registrati numerosi episodi di autolesionismo, tentativi di suicidio e aggressioni, in linea con l’aumento nazionale di tali eventi. Purtroppo vi sono stati tre suicidi, nell’anno in cui l’Italia ha raggiunto il triste primato di 90 morti negli istituti penitenziari. La situazione all’interno, con numeri così alti, è davvero contraria al senso di umanità che la nostra Costituzione declama”. A questo si aggiungono altri problemi: “La carenza di personale sanitario - continua la sentinella del territorio di Antigone - e psicologico negli istituti calabresi compromette l’assistenza ai detenuti, aggravando situazioni di disagio mentale e aumentando il rischio di suicidi. Nelle ultime due visite fatte negli istituti di Cosenza e Rossano abbiamo incontrato persone con disagio psichico che si trovano in isolamento in condizioni gravissime: prive di materassi, svestite, anche le amministrazioni penitenziarie avevano già segnalato l’incompatibilità di queste persone con le condizioni di detenzione. C’è un problema serio legato ai problemi psichiatrici che in carcere si esacerbano. La Regione ha un solo istituto con un’articolazione di salute mentale e un centro clinico, quello di Catanzaro, che da solo non riesce a rispondere alle esigenze della popolazione reclusa”. Roma. La Garante dei detenuti Valentina Calderone: “Siamo già oltre al livello d’allarme” lacapitale.it, 10 gennaio 2025 Intervistata da “la Capitale”, alla luce del suicidio di un giovane detenuto in carcere a Regina Coeli, la Garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone pone l’accento sull’emergenza del sovraffollamento e critica le volontà del governo sulle carceri. E chiede provvedimenti urgenti per migliorare le condizioni nei penitenziari. Un giovane detenuto di 23 anni, cittadino romeno, è stato trovato impiccato, intorno alle 22.30 di ieri nel bagno della sua cella nel carcere di Regina Coeli. Contando anche chi nelle carceri ci lavora, e che similmente soffre di tutte le relative problematiche, il totale dei suicidi nelle carceri italiane sono cinque da inizio anno. Regina Coeli, con una capacità di 566 posti ma oltre 1.000 detenuti è, secondo il garante dei detenuti regionale Anastasìa “l’esempio di un sistema carcerario al collasso”. I dati del Dipartimento d’amministrazione penitenziaria (Dap) mostrano una situazione critica in tutta Italia, con un tasso di sovraffollamento medio del 132,5 per cento. Come Garante dei detenuti di Roma, cosa ne pensa del suicidio di un detenuto ieri mattina nel carcere di Regina Coeli? Quattro suicidi da inizio anno in tutta Italia: siamo già oltre al livello d’allarme, che purtroppo è un dato in continuità con quello che è successo nel 2024 e che la situazione non ci sembra che alle attuali condizioni possa in qualche modo migliorare. La presidente Giorgia Meloni stamattina in conferenza stampa sull’Amnistia e sulla condizione carceraria ha spiegato che non si deve “fare adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle nostre carceri. Dobbiamo adeguare le nostre carceri alle necessità” Invece si dovrebbe prendere un serio provvedimento deflattivo. Io credo che questa di Giorgia Meloni sia una posizione completamente cieca e insensibile rispetto a quelle che sono le reali condizioni, sia delle persone che vivono all’interno degli istituti, ma anche di chi all’interno lavora e sia completamente controproducente rispetto a qualsiasi ipotesi di riforma del sistema penitenziario. Se non si mette una base, se non si riguarda il punto di partenza da cui un certo tipo di cose possono essere fatte, che possono essere progetti di formazione, di inserimento lavorativo, l’ampliamento delle strutture per le misure alternative, l’apparato di cose che possono essere gestite, organizzate e pensate intorno all’universo penitenziario non possono essere realizzate se non, prima di tutto, abbattendo i numeri delle persone che in questo momento sono all’interno. Perché il sistema carcerario così soffre... Il sistema tutto soffre, perché non ce la fa, perché non è possibile lavorare. Non è possibile agire. Non è possibile riuscire a creare effettivamente dei percorsi che siano individualizzati, che significa potersi concentrare sulla persona e poter creare le condizioni affinché la recidiva si abbassi, e le persone non commettano più quello che le ha portate all’interno del carcere. Come se fosse una grande spirale, che però si sta sempre più aggrovigliando su se stessa e da cui non ne usciamo se non con un provvedimento di clemenza. La presidente del Consiglio al posto del provvedimento di clemenza propone più carceri così almeno sono meno sovraffollate… Ma non è realistico, nel senso che può anche avere questa prospettiva da qui ai prossimi vent’anni, ma nel breve non è realistica, la può anche avere come idea politica, però è un’idea politica a lungo termine, il punto è che ci sono dei problemi o delle questioni che uno può pensare di mettersi ad affrontare a lungo termine, ci sono delle questioni politiche che devono essere affrontate ora, questo tema deve essere affrontato ora. Dopodiché se il suo programma di governo politico della gestione della giustizia nella sua esecuzione penale è quella di arrivare ad avere numeri statunitensi delle persone incarcerate va benissimo, ma bisogna sapere che comunque è una direzione che ha un tempo, un percorso e prima di costruire un nuovo carcere non è una cosa che si tira su, come fare la ristrutturazione di un appartamento, lo sappiamo tutti: quindi non è realistico e non è una risposta al problema e alla questione che le viene posta in questo momento. È come parlare completamente di un’altra categoria. Sulle espulsioni a fini di giustizia che ne pensa? Il tema delle espulsioni a fini di giustizia come abbiamo visto è anch’essa una falsa risposta: si è visto che non funziona, che la cooperazione degli stati o gli accordi sullo sconto della pena o l’espulsione come misura sostitutiva esiste con quei paesi con cui noi abbiamo accordi di questo genere e gli accordi di questo genere sono estremamente complicati da fare, al momento praticamente non ce ne sono. Abbiamo difficoltà nella stessa esecuzione penale all’interno dell’Unione Europea con persone che scontano la pena qui ma che appartengono ad un altro paese dell’Unione Europea, figuriamoci con i paesi extraeuropei, quindi anche questa non è una risposta. O non è una risposta così valida per un problema che c’è adesso e non può essere visto semplicemente in una prospettiva di anni in cui si può pensare di rimanere inattivi fino a che non ci saranno le condizioni per fare nuove carceri o finché non ci saranno le condizioni per essere più efficienti nell’espulsione. Sulla struttura carceraria, Regina Coeli è nasce come Convento, gli spazi sono angusti. È stata recentemente chiusa l’ottava sezione: bisognerebbe chiudere altri reparti? Regina Coeli appare come il carcere più problematico... Sì, è molto problematico, oltre all’ottava noi chiediamo a gran voce la chiusura della settima che dovrebbe essere la sezione “Nuovi giunti” ma è una sezione estremamente chiusa in cui viene fatto l’isolamento, in cui vengono condensate tutta una serie di situazioni problematiche. E, comunque, Regina Coeli è costantemente quasi al doppio della capienza rispetto ai posti regolamentari. Infatti, non è un caso che la maggior parte delle persone che poi a Roma si tolgono la vita in carcere, si tolgono la vita dentro a Regina Coeli. Modena. Il carcere dei suicidi e dei morti senza giustizia di Nello Trocchia Il Domani, 10 gennaio 2025 A Modena, nel carcere Sant’Anna, i detenuti si uccidono inalando gas. Per quei morti non c’è alcun responsabile, le indagini condotte dalla procura locale sono finite con una richiesta di archiviazione poi accolta dal giudice del tribunale, il caso però è approdato in Europa alla corte di giustizia, dove c’è aperto ancora un fascicolo. “Tutte le mattine vengo al cimitero, non ci riesco a rassegnarmi: lui era la cosa più bella che mi era rimasta. Urlo, urlo di rabbia perché non si può perdere un figlio mentre è nelle mani dello stato”. Mentre la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in conferenza stampa, presentava la solita ricetta fallimentare per affrontare l’emergenza carceri, negli istituti di pena italiani altri reclusi si toglievano la vita. “Negli ultimi giorni si sono uccisi altri due detenuti come mio figlio, perché in quel carcere si muore sempre così? Chi sono i responsabili, per la storia di mio figlio aspetto ancora giustizia”. A parlare è una mamma, Mariana Bunadimineata, che racconta una storia che ci porta a Modena nel carcere Sant’Anna. Suo figlio si è ucciso nel 2018 inalando gas da una bomboletta di quelle che si usano per prepararsi un caffè, un piatto di pasta, una bevanda calda. E proprio in quell’istituto nell’ultima settimana altri due reclusi sono morti nello stesso modo. L’ultimo è un detenuto di 50 anni che si è tolto la vita, il 31 dicembre, invece, era stato un ragazzo di 37 anni a morire inalando gas sempre nel carcere emiliano Sant’Anna. Così era accaduto anche a un altro detenuto nel 2023. Tre in due anni, due in una settimana, più il caso di Marinel. Tutti morti inalando gas, sempre nello stesso carcere. “Al di là delle polemiche che riguardano le carceri, sovraffollamento in primis va messo ora in discussione il sistema di prevenzione dei suicidi in carcere, sia sul fronte dell’amministrazione penitenziaria che della sanità regionale. È anomalo che ci sia una successione così rapida di morti per gas considerando che quello di Modena è il quarto carcere in Italia per gesti autolesionistici”, dice il garante regionale, Roberto Cavalieri. Il detenuto e i tentativi ignorati - L’inalazione del contenuto delle bombolette di gas è considerato il secondo mezzo maggiormente utilizzato per mettere in atto condotte suicidarie all’interno degli istituti di reclusione, ma Modena rischia di diventare un caso. Il carcere Sant’Anna è tristemente noto per la morte di nove detenuti che assaltarono la farmacia durante le proteste nel periodo dell’emergenza pandemica. Per quei morti non c’è alcun responsabile, le indagini condotte dalla procura locale, guidata da Luca Masini, sono finite con una richiesta di archiviazione poi accolta dal giudice del tribunale, il caso però è approdato in Europa alla corte di giustizia. Per quelle ore drammatiche, di morte e violenze, c’è aperto ancora un fascicolo, quello a carico dei detenuti per la devastazione del carcere, ma anche il procedimento sulle presunte torture ai danni dei reclusi per il quale la pubblica accusa aveva chiesto l’archiviazione, respinta dal giudice che ha chiesto nuovi approfondimenti che dovrebbero chiudersi a breve. Ma torniamo ai suicidi, il gas resta mortale al Sant’Anna. Nel febbraio 2023 Fabio Romagnoli si toglie la vita nello stesso modo. La famiglia chiede giustizia, ma anche in questo la procura ha chiesto l’archiviazione perché non si evidenziano condotte emissive da parte di chi lo aveva in cura, le analisi non hanno escluso che si possa essere trattato di un incidente. Contro la richiesta hanno fatto appello gli avvocati dei congiunti, Luca Sebastiani e Stefania Pettinacci, lamentando una carenza negli approfondimenti investigativi svolti. In particolare, nel caso Romagnoli, familiari e legale pongono un interrogativo: è normale consegnare un fornello a gas, senza limitazioni di tempo, ad un soggetto fragile e complesso? Il detenuto, infatti, quando aveva fatto il suo ingresso in carcere era stato immediatamente collocato nella zona I-care per certificati problemi di salute mentale. Qualche settimana dopo lo staff medico aveva qualificato Romagnoli come detenuto a rischio medio di suicidio in ragione di pregressi tentativi “autolesivi ed autosoppresivi”. Emerge, infatti, dalla lettura degli atti che in passato aveva già posto in essere due tentativi di suicidio, tramite impiccagione, impediti solamente grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Per questo è stato chiesto al tribunale di riaprire l’indagine e accertare eventuali responsabilità, la giudice dovrà sciogliere la riserva a breve. “Sono arrabbiato perché avevamo avvisato tutti, avevamo mandato una pec al carcere di Modena, era magrissimo. Avevamo chiesto di farlo visitare. La sua è una morte annunciata”, dice Michele Romagnoli, padre di Fabio. Modena. Carcere Sant’Anna: “Servono più educatori e Polizia penitenziaria” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 10 gennaio 2025 L’assessora Alessandra Camporota dopo i suicidi in cella con il gas “Il Comune intende mantenere alta l’attenzione con iniziative concrete”. Più personale di Polizia Penitenziaria, incremento delle figure educative di sostegno e maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione. Sono le misure per migliorare la situazione carceraria sollecitate dall’assessora a Sicurezza e Inclusione del Comune di Modena Alessandra Camporota nella lettera inviata al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, in cui esprime “forte preoccupazione” per l’attuale situazione. “I recenti fatti di cronaca, che registrano una lunga serie di tragici decessi nelle carceri dell’Emilia Romagna, di cui tre presso la Casa circondariale di Modena, evidenziano ancora una volta l’insostenibilità delle condizioni di sovraffollamento e la carenza strutturale del sistema penitenziario italiano, compreso quello modenese”, sottolinea l’assessora. “Il sovraffollamento (al S. Anna sono ristrette 562 persone a fronte di una capienza di 372 posti), la carenza di personale nell’organico della Polizia Penitenziaria, nonché l’esiguità di presenze di educatori, figure fondamentali nella gestione dei detenuti, ci allarmano, anche in considerazione della delicatezza della struttura carceraria modenese, dove ebbero origine i drammatici eventi del 2020”. L’assessora ricorda inoltre l’attenzione riservata dall’Amministrazione comunale, alla situazione della Casa Circondariale di Modena; i contatti avuti con il direttore, il comandante della Polizia Penitenziaria, la coordinatrice dell’Area Pedagogica, la direttrice Ulepe Modena, il presidente della Camera Penale di Modena Carl’ Alberto Perroux e con le associazioni del Clepa, in rappresentanza del mondo del volontariato e impresa sociale che hanno attività all’interno o a favore della Casa circondariale. Nei mesi di novembre e dicembre, infine il Consiglio comunale ha dedicato al tema una seduta e due Commissioni consiliari: una in cui la Garante per i detenuti, Laura De Fazio, ha esposto un’approfondita relazione sulle condizioni della Casa circondariale e una seconda per fare il punto sulle attività del Clepa. L’assessora Camporota non manca poi di sottolineare “l’apprezzabile impegno sia della polizia penitenziaria, i cui rappresentanti sindacali (Sappe) hanno più volte descritto la situazione critica in cui versa il Sant’Anna, sia dei funzionari dell’area pedagogica che svolgono il loro incarico con dedizione encomiabile”. E sottopone quindi all’attenzione del provveditore “l’urgenza che sia destinata alla Casa circondariale di Modena, per la complessità e la fragilità delle presenze che si sono strutturate nel tempo, anche rispetto a quanto invece previsto dalla normativa, di un’aliquota importante di personale della Polizia Penitenziaria nonché sia incrementato il numero delle figure di sostegno e sia favorito il ricorso a misure alternative alla detenzione”. L’assessora, inoltre ha garantito che “l’Amministrazione comunale continuerà a tenere alta l’attenzione sul tema con iniziative concrete, finalizzate, ad esempio, ad incrementare la possibilità di sbocchi lavorativi per i detenuti che abbiano i requisiti previsti dalla legge, e a sostenere, anche attraverso il coordinamento del Clepa, tutte quelle iniziative progettuali di sostegno di attività laboratoriali, culturali, ricreative, di studio. Tutto questo ricercando e rafforzando il dialogo tra la struttura circondariale ed il territorio, tenendo desta l’attenzione sulla realtà carceraria”. Napoli. Carcere di Poggioreale, nel cimitero dei vivi senza spazi né speranza di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2025 Nella Casa circondariale di Napoli, record di suicidi; solo il 15% dei detenuti ha accesso a rieducazione. Il nodo dei vincoli storici per la ristrutturazione dei padiglioni. Ad un certo punto, le urla da dentro diventano più forti del trambusto dell’ora di punta nel centro storico di Napoli. Il direttore manda a controllare, ma l’ispettore ha già la risposta: “È il reparto Salerno...”. Come ad indicare una certa consuetudine di tensione. E in fondo, se il carcere di Poggioreale macina record di sovraffollamento (130% come altri) e suicidi (4 nel 2024, l’ultimo a togliersi la vita aveva 28 anni), all’interno ci sono padiglioni dove l’allerta è sempre a livello di guardia. Come il Salerno: 298 presenze a fine dicembre, compresi i sex offenders. Basta allora un pretesto - come un gruppo che si attarda sotto le docce come in questo caso - per far alzare i toni e innescare una potenziale reazione a catena. Il carcere è anche questo. Varcato il portone, la visita nella Casa circondariale “G. Salvia” - edificata a inizio Novecento nella riserva di caccia dei re, da qui il nome Poggioreale del quartiere - promette un viaggio in Italia attraverso i padiglioni Roma, Salerno, Genova, Napoli. Ben presto, ci si ritrova dentro lo specchio deformato delle città, a cominciare dalle ambizioni tradite, i disagi stratificati e le antiche storie di questo rione partenopeo popolato anche da lazzaroni “c’o volto santo ‘mpietto e ‘a guerra dint’e ‘minane”, cantava Pino Daniele (con il volto santo in petto e la guerra nelle mani). Tutto si ritrova dentro, dove le conquiste quotidiane, che pur ci sono, si perdono tra reparti che sembrano un cimitero di vivi, con corpi stesi a fissare il soffitto in una batteria di letti a castello. Anche nove per cella, con un unico bagno a fare pure da cucina. Si è arrivati a contare fino a 15 persone in uno stesso ambiente poi trasformato: “un’indecenza”, ammette Carlo Berdini, l’ormai ex direttore che ci ha accompagnato, prima di diventare provveditore degli istituti penitenziari in Puglia. Mentre attraversiamo lunghi corridoi, braccia tatuate si protendono al di là delle inferriate, riversando nuvole di fumo di sigarette. Come affacciati dai bassi di quei vicoli di Napoli non bagnati dal sole né dal mare. Quando 2.150 detenuti (per delitti in prevalenza contro famiglia e patrimonio) sono stipati in spazi che potrebbero ospitarne 1.624, assicurare una detenzione dignitosa è arduo. “Basti pensare a 2mila pasti al giorno! Un gigantismo dei numeri”, come lo chiamano qui, che rende la convivenza un equilibrio fragile. Ancor di più se gli spazi sono ulteriormente ridotti dalla ristrutturazione di due degli otto padiglioni, Napoli e parte del Genova, con ancora i ballatoi. Come nelle Vele di Scampia. I lavori, fermi dopo il fallimento dell’impresa, sono ricominciati tra le difficoltà, compreso il “faticoso dialogo” tra istituzioni penitenziarie e Sovrintendenza ai beni archeologici. Oggetto, gli archi delle celle in piperno, roccia vulcanica. Da un lato, la richiesta di rimuoverli, restaurarli e riporli; dall’altra, l’urgente bisogno di nuovi ambienti. A conclusione dell’opera (prevista nel 2027, per un costo di 16 mln), saranno disponibili 380/400 posti, ma “ai cittadini detenuti - lamenta un dirigente - restituiremo gli stessi ballatoi, vincolati e senza spazio per nulla”. “Come un olandese col mare, ho cercato di recuperare ogni piccolo angolo”, racconta l’ex direttore, mentre indica l’ufficio matricola nel seminterrato. “Le condizioni sono indecenti anche per chi lavora: verrà spostato. Le ristrutturazioni dovrebbero essere continue, con linee preferenziali sia per quelle straordinarie che ordinarie”. Quanto dovrebbe garantire il commissario per l’edilizia penitenziaria, nominato su proposta dei ministri Nordio e Salvini. Nel frattempo, a Poggioreale “solo il 15 -20% dei detenuti ha accesso a dei percorsi”, conferma Berdini. Significa che per la maggioranza il tempo della detenzione è tempo vuoto. Privo di orizzonte, come il soffitto fissato per ore. Il rischio è restituire alla città persone ancora più propense al crimine, tradendo ogni funzione costituzionale della pena e ogni bisogno di sicurezza. Il lavoro poi è una chimera come in quasi tutta la Campania, dove solo il 27% dei detenutivi ha accesso: nei 14 istituti solo 2.083 detenuti hanno un impiego per lo più per l’Amministrazione penitenziaria; 128 per esterni. Solo Basilicata e Molise fanno peggio. Per attivare nuovi circuiti, la provveditrice ha introdotto gli “open-days, per mostrare le potenzialità in termini di risorse umane e strumentali - spiega Lucia Castellano - e far incontrare offerte di lavoro e disponibilità”. Anche a questo dovrebbe contribuire la commissione regionale sul lavoro penitenziario, che coinvolge istituzioni e imprese. A questo tende la raccolta di dati sulle competenze dei detenuti e questo è l’obiettivo di due progetti eli inclusione previsti per Napoli e Salerno. “Ce la mettiamo tutta, ma siamo indietro”, ammette Castellano, che dopo anni alla guida del carcere di Bollate e dell’Ufficio esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia sa bene quanto decisivo sia il ruolo del tessuto esterno. Ma Napoli gira intorno a questo fortino senza integrarlo, benché ogni giorno 1.5oo persone entrino nella sala colloqui. Tra scale, cancelli e gallerie, all’improvviso ci si ritrova in botteghe dove i pochi ammessi ai laboratori stupiscono con maschere di Pulcinella o tele con la corona di Poggioreale. O col profumo di una pizza. “Noi siamo fortunati”, ripetono Antonio e Pasquale, che usciranno con un attestato da pizzaioli dopo essere stati formati dalla Gesco (gruppo di imprese sociali); “ci hanno aiutato a cambiare vita rispetto ai tempi della droga e delle rapine. Prima al lavoro non ci pensavamo”. Loro sono anche rider dentro Poggioreale - “oggi 300 pizze consegnate” - e sanno che le condizioni della parte aperta del padiglione Genova (3 per cella, doccia interna, tutti definitivi) - non sono quelle del Salerno o del Roma, con “anche nove/dieci persone”. Le tensioni tra nazionalità (300 gli stranieri) sono rare a Poggioreale, che condivide invece con le altre case circondariali il dramma della malattia mentale: due gli psichiatri in servizio solo al mattino, per 220 detenuti con diagnosi certificate. Come in tutta Italia, sono insufficienti i servizi delle Rems (residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), a cui ogni giorno la direzione chiede posti, “a prescindere”. Dopo i suicidi, si sono susseguite riunioni per implementare il supporto, ma come spesso succede, spenti i riflettori, svanita l’emergenza. Eppure, a Poggioreale si riescono anche a garantire prestazioni “che fuori ti sogni”, assicura un agente mentre accende le luci della sala dialisi. Spazi e macchinari profumano di nuovo. Poco più in là, nel vecchio spazio operatorio dell’Asl, bilance e lettini accatastati. Contraddizioni del mondo penitenziario che diventano ancor maggiori se si arriva nell’altra casa circondariale di Napoli, a Secondigliano. 384 mila mq, 1.495 detenuti a gennaio e nessuna delle emergenze di Poggioreale, con cui lo separano 4 km e 200 anni. Inaugurato negli anni Novanta, è il primo centro per l’Alta sicurezza, con 90o detenuti affiliati a camorra e `ndrangheta: anche a loro è diretta l’opera di “risocializzazione, riabilitazione e rieducazione”, racconta la direttrice Giulia Russo, mentre snocciola l’ampia offerta formativa: il polo universitario con 120 studenti; la riparazione di auto della polizia penitenziaria, la realizzazione di protesi dentarie in 3D o la sartoria, dove sono state modellate le toghe per le lauree honoris causa di Andrea Bocelli o Alberto Angela alla Federico II. Le stesse mani stanno cucendo paramenti per il Giubileo. A Sting, che qui ha cantato, è stata donata la prima chitarra ultimata con assi dei barconi dei migranti. “L’amministrazione deve essere credibile e non si possono realizzare cattedrali di formazione e lasciare al detenuto cuscini ridotti a polvere”, premette Russo, prima di spiegare come “con la gestione di fondi ordinari sia riuscita ad assicurare docce nella metà delle celle, acqua calda e formazione professionale”. Condizioni minime, ma niente affatto scontate. Dopo la chiusura del carcere femminile di Pozzuoli con l’ultima crisi bradisismo, ci sono anche 91 donne e da tempo sono state accolte le trans di Poggioreale, divenute sul palco voci dei versi di Euripide. A Napoli anche per il carcere “ognuno aspetta a’ sciorta”. Viterbo. Omicidio in carcere, perizia psichiatrica su Tsvetkov Corriere di Viterbo, 10 gennaio 2025 Tra meno di un mese il perito nominato ieri dal gip varcherà le porte del carcere di Mammagialla per eseguire una perizia psichiatrica sul 23enne bulgaro Iliyanov Krasimir Tsvetkov, che il 19 dicembre 2023 uccise a mani nude il compagno di cella, il 49enne siciliano Alessandro Salvaggio. All’accertamento specialistico è condizionato il rito alternativo abbreviato sollecitato e ottenuto dalla difesa dell’omicida, che strozzò il 49enne siciliano, residente a Barrafranca, in provincia di Enna, che nel penitenziario sulla Teverina stava scontando una condanna a poco più di due anni per evasione. Sullo sfondo della lite sfociata nel drammatico delitto un presunto debito di denaro quantificato in pochi euro. La difesa ha chiesto l’abbreviato condizionato alla perizia psichiatrica - Come da prassi, sulla salma del 49enne fu effettuata l’autopsia e i familiari, assistiti dall’avvocato Giacomo Pillitteri, del foro di Enna, nominarono come consulente medico legale il dottor Cataldo Raffino e contestualmente sporsero denuncia nei confronti dei vertici della casa circondariale del capoluogo. Di qui l’istanza di giudizio immediato avanzata dal pm Massimiliano Siddi accolta dal gip Rita Cialoni sei mesi fa. Nel frattempo il difensore del 23enne, l’avvocato Giacomo Manganella, del foro di Pescara, aveva chiesto l’abbreviato, che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena. Si torna in aula in primavera - Poco prima delle festività natalizie appena trascorse, il gip Savina Poli ha accettato l’istanza difensiva, commissionando l’incarico a Stefano Ferracuti, psichiatra dell’Università La Sapienza di Roma. Dal canto suo, il legale dell’omicida ha scelto come consulente di parte lo psichiatra Giustino Cerritelli. Otto i familiari della vittima che si sono costituiti parti civili con l’avvocato Pillitteri. Si torna in aula ad aprile per l’audizione delle conclusioni dello specialista delegato dal gip che intanto ha calendarizzato le udienze fino a primavera. Siracusa. Restrizioni tra generi alimentari e indumenti a Cavadonna: protestano i detenuti siracusanews.it, 10 gennaio 2025 I detenuti non si sono limitati solo a battere le scodelle contro le celle, “sono stati danneggiati tavolini e sgabelli” e in una sezione è stata scardinata una porta. Protesta dei detenuti reclusi nel carcere di Cavadonna, a Siracusa, dopo che la direzione della struttura ha recepito la circolare del Provveditore regionale, risalente al novembre scorso, che impone delle restrizioni per l’ingresso o la vendita di determinati generi alimentari e capi di abbigliamento. Il garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Siracusa, Giovanni Villari, ha spiegato che i detenuti non si sono limitati solo a battere le scodelle contro le celle, infatti “sono stati danneggiati tavolini e sgabelli”, inoltre, in una sezione è stata scardinata una porta, a testimonianza di quanto la situazione sia incandescente. Tra i divieti di ingresso nel carcere ci sono “i capi di abbigliamento e scarpe griffate” riferisce Villari e la ragione consiste nel mantenere “una equità tra gli stessi detenuti” per evitare comparazioni tra detenuti facoltosi ed altri con scarse riserve economiche. E poi ci sono i generi alimentari e l’elenco fornito da Villari è abbastanza vasto: fiale con aromi necessarie per la preparazione di dolci, farine di ogni tipo, lievito di birra e per dolci, pasta sfoglia, vanillina, zucchero a velo, birra, vino bianco e rosso in piccoli brik, carta da imballaggio, colla tipo Vinavil, nastro adesivo e di imballaggio, riviste legate a scommesse, crema adesiva per protesi dentale, i babà, gamberi e gamberoni, scampi, pollo allo spiedo, sigarette elettroniche, creatina, palloni, palle da tennis, padelle oltre i 24 centimetri di diametro, così come le pentole, borotalco e ciprie. Sulla vicenda intervengono Matteo Melfi e Nadia Garro, consiglieri comunali di Ho Scelto Siracusa: “Da più fonti, apprendiamo che la situazione nella casa di reclusione di Siracusa sarebbe preoccupante - dicono Melfi e Garro - È giusto che i detenuti scontino la pena per gli errori commessi, ma i diritti e la dignità della persona umana vanno sempre garantiti. Sembrerebbe che si stia rasentando il rischio di violarne i diritti umani. Si apprende che, attraverso una circolare, la direzione avrebbe vietato l’ingresso di alimenti e indumenti dall’esterno. Anche all’interno del penitenziario la vendita di cibi (cosiddetto sopravvitto), che peraltro pare abbia da tempo avuto prezzi maggiorati, ora sarebbe stata addirittura impedita. Come se ciò non bastasse, molte visite mediche saltano perché non ci sono agenti che possano accompagnare i detenuti in ospedale”. Nei giorni scorsi alcuni detenuti avrebbero dato vita ad un’azione di protesta, poi rientrata. “È evidente che, con tutti questi problemi, l’esasperazione dei detenuti, ospiti della struttura, rischia di aumentare - sottolineano i consiglieri comunali aretusei - Se aggiungiamo anche il cronico fenomeno del sovraffollamento, possiamo immaginare in che condizioni si viva all’interno del carcere. Abbiamo saputo che è in atto una protesta pacifica dei detenuti lavoranti, che hanno bloccato le attività lavorative previste in cucina e promosso uno sciopero che andrà avanti ad oltranza. Occorre dunque che le Istituzioni competenti intervengano, per affermare l’innegabile diritto alla dignità di queste persone e lavorando per affermare il fine rieducativo e non vessatorio e punitivo della pena detentiva, garantendo condizioni di vita degne di un paese civile”. A breve Matteo Melfi e Nadia Garro chiederanno la convocazione di un Consiglio comunale aperto per affrontare l’argomento. Varese. Corso di formazione per i detenuti: apriranno un laboratorio tessile Il Giorno, 10 gennaio 2025 Il progetto sarà presentato mercoledì mattina e coinvolge il carcere di Busto Arsizio e l’azienda Grassi Spa. Il gruppo selezionato in futuro potrà gestire alcune commesse della società di abbigliamento tecnico. Avviato un corso di formazione per 15 detenuti del carcere di Busto Arsizio per l’avvio del laboratorio dell’impresa tessile Grassi Spa. Formazione e lavoro costituiscono il principale strumento per restituire dignità e offrire opportunità di riscatto alle persone detenute. È sulla base di questo profondo convincimento che ha preso il via il progetto di reinserimento lavorativo voluto dalla convenzione sottoscritta dalla direzione della casa circondariale e l’azienda tessile Grassi Spa società benefit. L’accordo si inserisce all’interno del più ampio protocollo d’intesa per promuovere e sostenere il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna, voluto dal Prefetto Salvatore Pasquariello e siglato dagli enti, dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni datoriali del territorio, tra cui Confindustria Varese. La firma è avvenuta a luglio. In quell’occasione il Prefetto aveva spiegato che “il tasso di recidiva è significativamente inferiore tra coloro che durante la pena hanno accesso ad attività formative e lavorative: si parla di una diminuzione da 70% al 2%”. Si tratta della prima azione concreta seguita al protocollo. L’iniziativa è propedeutica alla creazione di un vero e proprio laboratorio in grado di gestire alcune delle commesse dell’impresa di Lonate Pozzolo, attiva nella produzione di abbigliamento tecnico, professionale, antinfortunistico, per le forze dell’ordine e sportivo. Il progetto verrà presentato mercoledì alle 10.30, nel carcere di Busto Arsizio. Obiettivo dell’incontro: aggiornare sullo stato di avanzamento del programma, presentare i contenuti del corso di formazione, illustrare gli obiettivi e le possibili prospettive di sviluppo della convenzione, spiegare le attività lavorative che verranno svolte nel laboratorio e raccogliere le prime impressioni. Alla mattinata interverranno il Prefetto di Varese Salvatore Pasquariello, il direttore del carcere di Busto Maria Pitaniello, Roberto Grassi, presidente dell’omonima azienda e di Confindustria Varese e Sergio Scaltritti, responsabile Formazione di Acof Olga Fiorini. Napoli. Corso di formazione per i volontari, promosso dalla Pastorale Carceraria Diocesana ansa.it, 10 gennaio 2025 Al via il corso di formazione di volontariato penitenziario, organizzato dalla pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Napoli, diretta da don Franco Esposito, insieme all’associazione onlus Liberi di Volare e alla Caritas diocesana di Napoli. Gli incontri avranno inizio a partire dal 25 gennaio. “Il corso è gratuito e mira a far acquisire - spiegano i promotori - gli elementi basilari della normativa carceraria, l’iter dell’esecuzione penale, l’organizzazione penitenziaria, gli aspetti fondamentali di tutela al detenuto nel suo percorso di rieducazione e riparazione. Ogni argomento sarà trattato sia da un punto di vista tecnico e teorico, sia da un punto di vista esperienziale, grazie alle testimonianze di persone direttamente coinvolte nelle relazioni di aiuto nelle carceri”. Ad aprire il percorso formativo sarà suor Marisa Pitrella, direttrice Caritas diocesana di Napoli. Relatori degli incontri successivi saranno, tra gli altri, Patrizia Mirra, presidente Tribunale sorveglianza di Napoli, Elisabetta Zamparotti dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Livio Ferrari, portavoce del Movimento “No Prison”, Samuele Ciambriello Garante detenuti Regione Campania, don Tonino Palmese, garante detenuti Comune di Napoli. Prevista anche una Giornata di Spiritualità presso l’eremo dei Camaldoli, programmata per il 24 maggio. Il corso si concluderà il 28 giugno con il convegno diocesano sul volontariato carcerario, con la partecipazione del cardinale Mimmo Battaglia, arcivescovo metropolita di Napoli. Al termine del percorso formativo verrà rilasciato un attestato di partecipazione e consentirà agli iscritti di inserirsi nelle attività di volontariato carcerario sia presso gli istituti penitenziari che presso i centri di accoglienza. “Dal 2012 la Pastorale Carceraria Diocesana organizza corsi per gli aspiranti volontari carcerari - ha dichiarato il direttore della pastorale carceraria, don Franco Esposito - La motivazione che ci spinge ogni anno a proporre il corso è perché crediamo molto nella formazione, e i volontari che si avvicinano al mondo del penitenziario hanno bisogno di strumenti che gli permettano di interagire con i detenuti e tutte le parti interessate alla realtà carceraria. Attraverso la nostra formazione il cuore si fa ponte per superare i muri e il volontariato diventa autentica testimonianza di fede e amore”. Minori, appello di Arci e Uisp: “Il Governo cancelli il taglio del Fondo povertà educativa” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 10 gennaio 2025 Sosteneva centinaia di progetti per far fronte a una situazione giovanile drammatica: suicidi in aumento, abbandono scolastico tra i peggiori in Europa, povertà assoluta in crescita costante. Ma la Manovra ha tagliato il Fondo contro la povertà educativa, alimentato dalle Fondazioni bancarie in cambio di un credito d’imposta. Appello di Uisp, Arci e Arci Ragazzi Arci per ripristinarlo. “Chiediamo con forza al Governo di fare un passo indietro, di rifinanziare il Fondo per il contrasto alla povertà educativa, di ripensare a una politica di welfare che sostenga i territori nel costruire presìdi di sostegno, ascolto, accoglienza e relazione per una generazione che non smette mai di essere dimenticata dalla politica”. Inizia così l’appello congiunto Uisp, Arci e Arci Ragazzi - firmato dai rispettivi presidenti Tiziano Pesce, Walter Massa e Viviana Bartolucci - dopo l’allarme lanciato da tutto il mondo del Terzo settore e dalla portavoce del Forum nazionale Vanessa Pallucchi per l’articolo della legge di Bilancio che ha tagliato il finanziamento del Fondo per il contrasto alla povertà educativa. Il Fondo, basato su un’alleanza tra Fondazioni di origine bancaria, Terzo settore e Governo, veniva alimentato ogni anno dalle Fondazioni stesse mentre lo Stato metteva loro a disposizione 55 milioni di euro annui di credito d’imposta: in tutto aveva raccolto oltre 800 milioni di euro, investiti in centinaia di progetti grazie all’impresa sociale “Con i bambini”. “Tutti i dati - proseguono i firmatari dell’appello - evidenziano la situazione di precario benessere dei minori in Italia, già pericolosamente fragile prima della crisi sanitaria 2020-2023, è diventata un’emergenza profonda e urgente”. Alcuni esempi citati nel testo: : i suicidi tra minorenni sono cresciuti del 16% tra il 2019 e il 2021; l’Italia è il quinto Paese Ue (dato 2023) per abbandono scolastico, seguita solo da Romania, Spagna, Germania e Ungheria; la povertà assoluta tra i minorenni è cresciuta dal 13,4 % al 13,8% tra il 2022 e il 2023, il che significa un milione e mezzo di bambini, bambine, ragazze, ragazzi; il 12% dei giovani tra i 15 e i 19 anni soffre di ansia e/o depressione (dati Censis); quasi 70mila ragazzi e ragazze sono in stato di “ritiro sociale” (dati Openpolis). “E con la diminuzione continua degli investimenti sul comparto socio educativo - sottolineano - la scuola è lasciata sola a rappresentare uno Stato che non sembra volersi occupare dei più piccoli e dei più giovani tra i suoi cittadini. Ma da sola, non ce la fa”. “All’interno di questo scenario - concludono Pesce, Massa e Bartolucci - il Governo Meloni ha tagliato il finanziamento al Fondo di contrasto alla povertà educativa, l’unico presìdio nazionale capace di sostenere progettazioni diffuse e capillari a sostegno delle fragilità dei più giovani. Ribadiamo anche che il “modello Caivano”, tanto caro al Governo, non è la soluzione a problemi profondi e complessi che non possono essere affrontati con un approccio securitario. Per l’ennesima volta le famiglie sono lasciate sole - al di là di tutta la retorica - ad affrontare il malessere profondo dei propri figli, andando ad alimentare il solito circolo vizioso nel quale a farcela sono i minori che crescono in contesti privilegiati, mentre tutti quelli che avrebbero bisogno di aiuto sono abbandonati alla fragilità dei loro contesti di crescita”. Riparte la campagna per tagliare il debito dei Paesi poveri di Luca Liverani Avvenire, 10 gennaio 2025 All’Università Lateranense l’associazionismo cattolico lancia l’iniziativa “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”. Tra le richieste la creazione di un sistema Onu per gestire le crisi. L’associazionismo cattolico - e non solo - si mobilita sulle parole del Papa che ha intitolato il messaggio per la 58ª Giornata Mondiale della Pace del 1º gennaio “Rimetti a noi i nostri debiti: concedici la tua pace”. E all’inizio del Giubileo della speranza lancia la campagna “Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza”, collegata alla campagna globale Turn debt into hope, promossa da Caritas Internationalis. Occasione per rilanciare il messaggio del Papa e mobilitarsi è l’incontro, organizzato all’Università Lateranense, dall’Istituto di Diritto Internazionale della Pace Giuseppe Toniolo con Azione Cattolica, Pontificia Università Lateranense, Forum Internazionale di Azione Cattolica e Caritas Italiana. Ad aprire l’incontro il priofessor Giulio Alfano, delegato del Ciclo di studi in Scienze della pace e Cooperazione internazionale dell’Università Lateranense. Il Messaggio di Papa Francesco - spiegano i promotori - invita a riflettere sull’urgenza di condonare i debiti e di promuovere modelli economici basati sulla giustizia e la solidarietà. E la remissione del debito si inserisce alla perfezione nell’anno Santo appena aperto, perché ispirata alla tradizione giubilare del popolo ebreo. È il passo essenziale per liberare i popoli oppressi da legami economici iniqui - dicono i promotori - che soffocano il presente e ipotecano il futuro. Strettissimo poi il legame tra debito economico e debito ecologico, cioè quello che paesi ricchi del Nord - dopo aver sfruttato le risorse del sud provocando degrado climatico e sociale - hanno nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, molto più esposti agli eventi climatici estremi, nonostante abbiano meno responsabilità nel riscaldamento globale e poche risorse per affrontarlo. La campagna globale di Caritas Internationalis sensibilizza sull’urgenza di ristrutturare - meglio ancora, condonare - i debiti dei Paesi poveri. E trasformare un’architettura finanziaria internazionale intrinsecamente iniqua, che alimenta modelli di produzione e consumo alla base del riscaldamento climatico. Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale di Ac, sottolinea come “la speranza non è semplice ottimismo, ma si concretizza nei gesti e segni che siamo capaci di compiere. È la capacità di cambiamento che siamo in grado di attivare. Per fare di questo tempo giubilare un’occasione per ripensare il nostro modo di abitare la casa comune. Guerre, cambiamento climatico, disuguaglianze: davvero occorre cambiare rotta. Questo è il momento perfetto, il kairòs, per costruire percorsi di cambiamento”. In collegamento video da Bangkok, Thailandia, Sandro Calvani, presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto G. Toniolo, afferma che “Dio ci affidato la custodia della sua creazione. E il primo passo per far ripartire relazioni di pace è il perdono, spinta iniziale e volano per far ripartire il motore”. Don Paolo Asolan, teologo e docente alla Pul, colloca la la remissione dei peccati e la cancellazione dei debiti in una prospettiva giubilare. Interviene anche l’economista Riccardo Moro. Presidente del Civil 7 e docente di politiche dello sviluppo alla Statale di Milano, è l’esperto che coordinò per la Cei nel 2000 l’azione di cancellazione del debito di diversi paesi africani: “Avevano concluso 25 anni fa dicendo che avevamo vinto, siamo di nuovo qui. Cosa abbiamo sbagliato? Va detto che nel 2000, per la prima volta, la comunità internazionale accettò l’idea della cancellazione del debito, che è condanna alla povertà. Ma le regole di allora non sono state rispettate da tutti. Alcuni operatori hanno operato in modo spregiudicato. La Cina, che si affacciava allora sulla scena, per approvvigionarsi di materie prime erogò prestiti facili al Sud. Poi la crisi economica del 2008 e la pandemia hanno spinto all’indebitamento tanti stati per far fronte alle emergenze. Alcuni paesi oggi hanno un debito che supera il valore del loro pil”. Cosa fare? “Creare alle Nazioni Unite un forum per definire i criteri di sostenibilità del debito e sistemi per gestire le crisi. Rispetto al 2000 abbiamo una visione complessiva più ampia, che comprende anche la questione climatica. Il Papa non a caso mette insieme debito finanziario e debito climatico”. Chiara Mariotti, dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, ricorda che “il debito è un ostacolo che rende impossibile qualsiasi progresso verso la giustizia sociale e i diritti. Il livello del debito estero dei paesi in via di sviluppo nel 2023 ha raggiunto gli 8 mila miliardi di dollari. Più di 3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per gli interessi sul debito che in spesa pubblica. Se non affrontiamo il debito non raggiungeremo gli obiettivi di sviluppo e non contrasteremo il riscaldamento globale”. In Paesi africani che perdono il 5% del pil a causa del cambiamento climatico e fino al 10% per la gestione delle catastrofi. Il tema del debito dei paesi in via di sviluppo era stata già affrontata nel Giubileo del 2000 da Giovanni Paolo II. La mobilitazione della società civile portò alla campagna “Jubilee2000”, che chiese a paesi ricchi, Fondo monetario, Banca mondiale di cancellare i debiti ingiusti. Fino al 2005, col G7 di Gleenagles, che cancellò 40 miliardi di dollari. Negli anni a seguire si arrivò a 130. Ma sistemi finanziari e di mercato eticamente ingiusti, autentiche “strutture di peccato”, hanno riprodotto situazioni l’indebitamento, aggravato da pandemia e riscaldamento globale. La campagna lancia ora un appello in quattro punti, presentato da Massimo Pallottino di Caritas italiana. Uno: cancellazione e ristrutturazione dei debiti ingiusti e insostenibili, affrontando anche il debito da creditori privati. Due: creazione di un “meccanismo di gestione delle crisi di sovraindebitamento”, con la costruzione di un sistema presso le Nazioni Unite. Tre: riforma finanziaria globale che metta al centro persone e pianeta, creando un sistema equo, sostenibile e libero da pratiche predatorie. Quarta e ultima richiesta, il rilancio della finanza climatica per sostenere la mitigazione e l’adattamento climatico nel Sud globale. Disinvestendo dal fossile, dall’economia speculativa, dalle industrie belliche. La campagna è promossa da: Acli, Agesci, Aimc, Azione Cattolica, Caritas, Comunità Papa Giovanni XXIII, CVX Comunità di Vita Cristiana, Earth Day Italia, Focsiv ETS, Fondazione Banca Etica, MCL, Meic, Missio, Movimento dei Focolari, Pax Christi, Salesiani per il sociale, Sermig. Media partner della campagna sono Agenzia SIR, Avvenire, Radio Vaticana - Vatican News, Famiglia Cristiana. Iran. Confermata la condanna a morte per l’attivista curda Pakhshan Azizi di Francesca Luci Il Manifesto, 10 gennaio 2025 Continua la repressione della dissidenza nella Repubblica islamica. Pena capitale ad Azizi confermata dalla Corte suprema mentre Cecilia Sala veniva liberata. La cella, la piccola finestrina in alto, il raggio di luce, l’insonnia, l’auto-rimprovero e quel martellio del pensiero, diventeranno un ricordo nella memoria di Cecilia Sala. Il carcere di Evin rimarrà là, imponente, con i suoi abitanti, con le loro storie e dolori, con centinaia di intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti e attivisti colpevoli delle loro idee, col grigio del carcere che tenta di sbiadirne i colori. Per loro il dramma si consuma anche dopo la liberazione: rinunciare o rischiare di tornarci. Chi abbandona il paese salva la voce ma porta con sé la ferita del taglio delle radici, che non si rimarginano mai. I molti attivisti e giornalisti iraniani gioiscono insieme all’Italia per la liberazione di Cecilia Sala, ma sanno che la strada per l’affermazione della libertà di parola e di opinione nel loro paese è lunghissima e piena di insidie. Scrivere sull’Iran e sulla Repubblica islamica non è mai stato facile, né per chi risiede nel paese né per chi non si accontenta di rimanere dietro la sua scrivania e osservare il paese da lontano. Per fortuna, nonostante tutto, nel panorama dell’informazione e dell’arte iraniana palpitano numerosi talenti che fanno salti mortali per conservare la loro integrità morale, essere critici e onesti senza cadere nella rete della censura del sistema. Ma alcuni rischiano di non tornare più. Quando Cecilia Sala lasciava il carcere di Evin dopo 21 giorni di prigionia, arrivava la notizia che la Corte suprema aveva confermato la condanna a morte di Pakhshan Azizi, attivista per i diritti delle donne e assistente sociale. Azizi era stata condannata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran il 24 luglio con l’accusa di “ribellione armata contro lo Stato” e per il suo coinvolgimento in gruppi di opposizione al regime. L’accusa di appartenenza ai gruppi separatisti curdi o beluci è ripetutamente utilizzata dai tribunali iraniani per non provocare empatia tra la popolazione. Azizi, nata a Mahabad, nell’Iran nord-occidentale, fu arrestata per la prima volta nel 2009 durante una manifestazione di protesta degli studenti curdi dell’Università di Teheran contro l’esecuzione di un prigioniero politico curdo. Dopo quattro mesi di detenzione fu rilasciata su cauzione. All’epoca era una studentessa di scienze sociali presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran. In precedenza aveva collaborato con associazioni non governative attive nel campo sociale e in quello delle problematiche relative alle donne. Nel 2008 faceva parte di un gruppo che conduceva ricerche e studi sul tema della “circoncisione femminile”. Insieme a un gruppo di attivisti per i diritti delle donne nel Kurdistan iracheno, e in collaborazione con alcune ong e il governo della regione del Kurdistan, raccoglie informazioni significative su questo tema. Si trasferì nel Kurdistan iracheno dopo aver completato gli studi e iniziò a collaborare con associazioni femminili coinvolte nelle attività sociali. Nell’autunno del 2014 si recò nel nord della Siria, nella città di Qamishli, per prestare aiuto nei campi dei rifugiati, assistendo donne e bambini traumatizzati. Nell’estate del 2023, dopo circa dieci anni, tornò in Iran per incontrare la sua famiglia. La mattina del 5 agosto fu arrestata insieme al padre e a altri due membri della sua famiglia. Fu sottoposta a interrogatori presso l’intelligence detention center prima di essere trasferita al reparto 209 della prigione di Evin e successivamente al reparto femminile. In una sua lettera pubblicata dai media Kurdpa riferì che le avevano legato le mani dietro la schiena e le avevano puntato un’arma alla testa. Nessuna delle obiezioni sollevate riguardo al suo caso ha ricevuto attenzione dalla Corte suprema, scrive l’avvocato dell’attivista Reisiian: “La Corte non ha preso in considerazione che le sue attività nel nord della Siria, nei campi dei rifugiati di Shengal e in altri campi dei rifugiati della guerra contro Isis, sono state azioni pacifiche, senza alcun aspetto politico, finalizzate ad aiutare le vittime degli attacchi di Isis”, conclude l’avvocato. Il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, in congedo per malattia dal carcere di Evin, ha scritto sul suo account Instagram: “Con l’esecuzione di una “donna prigioniera politica” il regime vuole punire il movimento di Donna, Vita, Libertà. Gli iraniani, i sostenitori della libertà in tutto il mondo, le organizzazioni internazionali per i diritti umani e le Nazioni unite devono unirsi contro la politica delle esecuzioni. È nostro dovere non rimanere in silenzio”. Stati Uniti. Il caso dei detenuti-pompieri mandati a spegnere i roghi per un dollaro l’ora di Giacomo Talignani La Repubblica, 10 gennaio 2025 Ventinove squadre composte da 395 prigionieri formati nei “camp antincendio” delle carceri sono ora in prima linea per combattere l’emergenza fuochi. Ma è polemica sia sul loro utilizzo, sia sul calo costante della formazione. Nel caos delle fiamme che stanno distruggendo la California meridionale quasi 400 pompieri-detenuti stanno aiutando ad arginare l’avanzata del fuoco rischiando la vita. Non senza polemiche, in un contesto di totale emergenza come quello che sta vivendo Los Angeles, emerge con forza la storia dei carcerati che - addestrati tramite il programma del dipartimento di correzione e riabilitazione della California (CDCR) - rischiano oggi la propria incolumità per proteggere persone e case dagli impatti degli incendi devastanti. Le polemiche sono doppie: da una parte ci si chiede perché il numero di pompieri-detenuti sia vertiginosamente calato proprio in questi anni in cui l’emergenza incendi è sempre più forte, dall’altra in rete e sui social ci si interroga invece sul fatto che giovani detenuti rischiano la vita per pochi dollari al giorno, quasi fossero degli “schiavi”. Attualmente le squadre dei prigionieri addestrati sono state integrate nel dipartimento di protezione forestale antincendio della California, il Cal Fire. In totale 395 detenuti, in 29 squadre, sono schierati nel tentativo di controllare i roghi. In certe situazioni le squadre del CDCR possono rappresentare anche fino al 30% della forza antincendio nello Stato. Si tratta di carcerati che hanno scontato 8 anni di pena (e non ovviamente per reati collegati a incendi dolosi) e che sono stati addestrati all’interno dei 35 campi antincendio disseminati in California. Solitamente la forza lavoro dei detenuti pompieri viene utilizzata per operazioni che vanno dal taglio tronchi alla creazione di linee tagliafuoco ma, in casi di emergenza come quello attuale, possono anche essere in prima linea per lo spegnimento dei roghi, rischiando appunto la vita. Mentre soffia il vento che alimenta fiamme che corrono su terreni provati da stagioni secche, i pompieri-detenuti operano ora sul fronte dei roghi per un pagamento che oscilla fra i 5,80 dollari e i 10,24 dollari al giorno, più un dollaro all’ora per ogni risposta ad emergenze attive. In casi come questi, possono guadagnare intorno ai 30 dollari in un turno di 24 ore. In rete, talvolta usando l’espressione “usati come schiavi”, alcuni tiktoker e utenti sui social stanno polemizzando sull’uso dei detenuti che rischiano la vita “per pochi dollari al giorno”. Ma secondo Jeff Macomber, che è il segretario del CDCR, come riportano The Guardian e precedentemente anche alcuni articoli del Los Angeles Times, il lavoro generale dei detenuti vigili del fuoco è oggi “essenziale” perché sono fondamentali nel “supportare la risposta dello Stato ai roghi e per proteggere vite”. Sul tema è intervenuta anche Amika Mota, attivista delle Sister Warriors Freedom Coalition, che in passato ha prestato servizio nel gruppo dei vigili del fuoco detenuti, sostenendo che oggi i prigionieri addestrati “hanno il desiderio di contribuire a risolvere l’emergenza” ma che con questo “lavoro eroico e cruciale molte persone fanno fatica economicamente a sostenersi e sostenere le proprie famiglie”. Teoricamente i programmi di addestramento, di almeno 18 mesi, dovrebbero garantire ai prigionieri possibilità di lavoro nelle forze antincendio una volta scarcerati, ma ciò spesso non trova riscontro nella realtà dato che i detenuti hanno segnalato difficoltà nei successivi inserimenti lavorativi. Ad oggi - mentre gli incendi in California sono sempre più devastanti, con già le prime vittime e almeno 1000 abitazioni distrutte - le forze dei pompieri-detenuti sono costantemente in calo: nel 2005 il programma contava 192 squadre e 4250 vigili del fuoco prigionieri, mentre a luglio di quest’anno si contavano 83 squadre e circa 1760 partecipanti. Nuovi tagli al programma hanno portato alla riduzione delle forze antincendio offerte dai camp delle carceri proprio mentre “la California si trova ad affrontare una carenza critica di squadre di vigili del fuoco, una situazione che è stata esacerbata dalla crescente frequenza e gravità degli incendi boschivi dovuti al cambiamento climatico. Le implicazioni di tali tagli sono terribili”, avevano scritto la scorsa estate i supervisori della contea di Los Angeles Lindsey Horvath e Kathryn Barger in una lettera indirizzata al governatore della California. Lo Stato ha già visto bruciare quest’anno 90mila acri e dal 2007 ad oggi 14 dei 15 incendi più grandi verificati nel Paese sono accaduti in California, motivo per cui alcune forze politiche chiedono l’implemento dei programmi dei detenuti-pompieri. Nel frattempo lo scorso agosto il dipartimento penitenziario ha lanciato il “Conservation Camp del Youthful Offender Program”, programma pilota per i giovani detenuti fino ai 25 anni ritenuti idonei a diventare vigili del fuoco, ma il programma scadrà già l’anno prossimo. Giappone. Il sistema penale sotto accusa Internazionale, 10 gennaio 2025 Stati di fermo molto lunghi, un tasso altissimo di condanne, un uso smodato delle confessioni estorte con gli interrogatori: la giustizia giapponese andrebbe riformata. Nel 2020 il presidente della ?kawara Kak?ki, una piccola azienda di macchinari a Yokohama, è stato arrestato insieme a due suoi dirigenti. Secondo le accuse, l’azienda stava inviando in Cina equipaggiamenti che sarebbero stati trasformati in armi biologiche. I tre sono rimasti in carcere per undici mesi. I giudici hanno respinto la loro richiesta di rilascio su cauzione per cinque volte. Gli inquirenti insinuavano che se avessero ammesso il reato sarebbero stati rimessi in libertà, ma loro hanno rifiutato. Quando finalmente è stato accordato il rilascio su cauzione, uno di loro era morto di cancro allo stomaco senza avere avuto accesso alle cure. Alla fine tutti e tre sono risultati innocenti. La vicenda illustra un problema più ampio. Il sistema penale giapponese prevede la possibilità di lunghe detenzioni per i sospettati e si basa in modo spropositato sulle confessioni. Ultimamente questo “sistema che prende le persone in ostaggio” è stato oggetto di critiche crescenti. Dopo che i pubblici ministeri hanno ritirato le accuse contro i dipendenti della ?kawara Kak?ki, uno dei funzionari ha ammesso pubblicamente che gli investigatori avevano “costruito” il caso per “avidità personale”, con l’obiettivo di far carriera garantendo un alto numero di condanne. Una simile ammissione “non si era mai sentita prima”, afferma Tsuyoshi Takada, l’avvocato incaricato del caso. Lo scorso giugno Tsuguhiko Kadokawa, ex presidente di un colosso editoriale arrestato e detenuto per 226 giorni con l’accusa di corruzione, ha fatto causa contro il sistema giudiziario, accusandolo di essere “incostituzionale”. Si tratta del primo processo di questo tipo in Giappone (in una recente autobiografia, Kadokawa ha scritto che un medico del centro di detenzione gli ha aveva detto che non sarebbe “uscito vivo da qui”). A settembre è stato scagionato Iwao Hakamada, che ha trascorso 46 anni nel braccio della morte per omicidio. Il giudice ha detto che le prove usate per arrestarlo potrebbero essere state falsificate. Questi casi sollevano interrogativi sull’altissimo tasso di condanne - 99,8 per cento - che si registra nel paese. Per certi aspetti, il Giappone è un paese piuttosto clemente. Ha un basso tasso di criminalità e il numero di cittadini detenuti è di gran lunga inferiore rispetto ad altri paesi ricchi: 33 persone ogni centomila contro le 541 negli Stati Uniti e le 140 nel Regno Unito. Gli autori di reati minori che ammettono la loro colpa e si scusano sono spesso rilasciati con un severo ammonimento. Ma quando i pubblici ministeri decidono di perseguire qualcuno, hanno poteri straordinari. A differenza di quanto accade in altri paesi ricchi, qui i giudici fanno molto più affidamento sulle confessioni che sulle prove: nove condanne su dieci in Giappone si basano ancora sull’ammissione di colpevolezza del sospettato. In assenza d’incriminazione, i pubblici ministeri possono trattenere in carcere i sospettati fino a 23 giorni. Già si tratta di un periodo molto più lungo rispetto ad altri paesi democratici. E spesso allo scadere dei 23 giorni i sospettati sono arrestati di nuovo con accuse diverse. Nel 2022 erano detenute prima del processo quasi 90mila persone (ovvero il 96 per cento dei sospettati). Le condizioni sono dure. Le celle sono pulite ma minuscole: di solito misurano circa cinque metri quadrati e non hanno luce naturale. I detenuti sono chiamati per numero, possono fare esercizio fisico solo per circa trenta minuti alla settimana e sono costantemente sorvegliati dalle guardie. “Non hanno nemmeno dimostrato la mia colpevolezza”, dice Junji Shimada, uno dei dipendenti della ?kawara Kak?ki arrestati. “Allora perché sono stato trattato come un criminale?”. I detenuti sono sottoposti a lunghi interrogatori, che in Giappone durano in media 22 ore totali rispetto alle due ore negli Stati Uniti e ai 30 minuti nel Regno Unito. A differenza della maggior parte degli altri paesi, gli avvocati non possono assistere agli interrogatori e il diritto costituzionale di rimanere in silenzio è spesso violato. Quando l’avvocato Yamato Eguchi è stato interrogato dopo il suo arresto nel 2018, ha esercitato il suo diritto di rimanere in silenzio. L’interrogatorio però è proseguito per 56 ore in 21 giorni. Gli investigatori lo chiamavano “bambino”. Questo significa esercitare delle pressioni per ottenere una confessione, anche se falsa, fornita pur di essere liberati. Nel 2020 il tasso di libertà su cauzione prima del processo è stato del 26 per cento per chi ha confessato rispetto al 12 per cento per chi ha continuato a dichiararsi innocente. All’inizio di quest’anno un esponente del governo interpellato sul caso ?kawara Kak?ki ha risposto che i procuratori gestiscono la detenzione dei sospettati con modalità che “tengono conto adeguatamente dei diritti umani”. Dichiarazione simili non lasciano ai riformatori molte speranze di poter cambiare il sistema. Ci sono stati comunque dei miglioramenti. Dalla metà degli anni dieci del duemila alcune indagini sono state registrate. All’inizio di quest’anno centinaia di parlamentari hanno formato un gruppo per rivedere le regole relative ai processi di appello chiesti da coloro che ritengono di essere stati condannati ingiustamente. Secondo la legge attuale, i pubblici ministeri possono bloccarli con facilità. Per questo ci è voluto tanto tempo prima di liberare Hakamada dal braccio della morte. I recenti scandali stanno spingendo molti a riconsiderare il modo in cui i casi penali sono trattati nel paese. “Spero di poter vedere dei progressi”, afferma Shimada.