I due poteri e l’armistizio necessario di Marcello Sorgi La Stampa, 9 febbraio 2025 Può il capo della Procura più importante d’Italia continuare a svolgere le sue mansioni mentre è in conflitto con il premier, due ministri, tra cui quello di Giustizia, e il sottosegretario alla presidenza responsabile dei servizi segreti? E può farlo mentre al Csm s’è messa in moto la procedura, ad opera dei consiglieri di centrodestra, per impartirgli un provvedimento disciplinare e un trasferimento? Sul piano formale, la risposta non può che essere di sì. Nel bene e nel male in Italia vige ancora la separazione dei poteri tra governo e magistratura. Il provvedimento disciplinare, qualora arrivasse, sarebbe opponibile da Lo Voi con ricorso al Tar ed eventualmente al Consiglio di Stato. La crisi di rapporto tra Procura e Palazzo Chigi, nata dall’invio delle comunicazioni a Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano per il caso Almasri, continuerebbe ad avvilupparsi nei tanti e tanti gangli di procedimenti giudiziari penali, amministrativi e forse, poi, perfino civili. Ma la storia della convivenza nella Capitale del potere esecutivo e di quello giudiziario dice che non sarebbe tanto facile. E non solo perché, si sa, i tempi della giustizia sono assai lunghi e prima che uno dei poteri prevalga sull’altro, sia pure nei casi specifici, ci vorrebbero anni. Nel frattempo, qualsiasi iniziativa, da una parte e dall’altra, si tratti di riforme della giustizia come quella della separazione delle carriere, o di ulteriori iniziative della Procura (più improbabili perché le vittime designate potrebbero trincerarsi dietro la mancata autorizzazione a procedere), verrebbero viste come colpi e contraccolpi dello scontro in atto. Serve insomma un armistizio. Non è certo il caso - non sarebbe più possibile - tornare ai tempi in cui il “Palazzaccio”, l’edificio bianco in riva al Tevere dove ormai è rimasta solo la Cassazione, veniva definito “il porto delle nebbie”, e non a caso erano frequenti i tentativi di spostare a Roma i processi più complicati, per farli sparire. Ma appunto la coabitazione, più adatta a tempi in cui la guerra tra politica e magistratura dura senza soluzione né tregua dai tempi di Tangentopoli e nessuno può pensare di prevalere sull’altro con carte bollate o con manovre di servizi segreti. Ecco, un tentativo così, ragionevolmente, si potrebbe fare. Csm, centrodestra contro Lo Voi. Ma Meloni ai magistrati: dialogo di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 9 febbraio 2025 I consiglieri laici: va trasferito. Dopo lo scontro, Parodi presidente Anm e prove di distensione. Dalla premier al sottosegretario Mantovano, fino al Dis e ora ai consiglieri laici di centrodestra nel Csm. La pressione sul procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, non si allenta da parte della maggioranza politica e non solo. “È evidente che quanto accaduto abbia seriamente compromesso i rapporti istituzionali tra la Procura di Roma e le Agenzie dell’intelligence. In particolare, risulta essere stato compromesso proprio l’affidamento, da parte delle Agenzie, circa l’effettiva tutela del segreto degli atti trasmessi in Procura”, scrivono i consiglieri laici di centro-destra del Csm (Isabella Bertolini, Claudia Eccher, Daniela Bianchini, Enrico Aimi e Felice Giuffrè), che chiedono l’apertura di una pratica sul capo dei pm romani presso la prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. L’obbiettivo dichiarato è quello di avviare il trasferimento di Lo Voi ad altra sede per una supposta incompatibilità ambientale-funzionale con la conseguente trasmissione degli atti alla Procura generale “per l’eventuale individuazione di profili disciplinari da perseguire”. Il riferimento è al “caso Caputi”, ossia la notizia di verifiche su di lui da parte dei servizi segreti finita nelle indagini sui giornalisti del quotidiano Domani che Caputi aveva denunciato per diffamazione. Una iniziativa che fa il paio con quella analoga di una settimana fa per il caso Almasri, anche se i fatti sono ancora tutti da appurare. E che si sia trattato di una rivelazione di atti coperti da segreto è cosa certa per il sottosegretario Mantovano, che ha responsabilità dell’intelligence e tre giorni fa ne aveva parlato al Copasir. Anche il Dis, che tramite il capo dell’Aisi, Bruno Valensise, aveva fornito quelle informazioni alla Procura, è passato venerdì all’attacco, denunciando Lo Voi a Perugia per lo stesso motivo (domani potrebbe esserci la formale apertura del fascicolo). Lo Voi, che è certo di aver seguito le regole fa sapere solo che si difenderà “nelle sedi opportune”, a partire dal Copasir, nei prossimi giorni. Con lui si era schierato Andrea Mirenda, giudice indipendente dell’Anm, presentando una pratica a sua tutela. Ieri, poi, è intervenuta la presidente di Magistratura democratica, Silvia Albano: “Lo Voi ha fatto il suo dovere e contro di lui si è scatenato l’inferno in quella che ormai è una prassi: quando un giudice emette provvedimenti sgraditi, non si critica nel merito ma si demolisce la persona”. In serata le parole di Alfredo Mantovano: “Spero che la contrapposizione con i magistrati si possa superare, la riforma non è contro di loro”. Mentre infuria la polemica, l’Associazione nazionale magistrati ha intanto eletto il suo nuovo presidente. Si tratta di Cesare Parodi, di MI. La premier Giorgia Meloni, oltre agli auguri di buon lavoro, apre a un incontro: “Accolgo con favore la richiesta di un incontro col Governo che il Presidente Parodi ha già avanzato e auspico che, da subito, si possa riprendere un sano confronto sui principali temi che riguardano l’amministrazione della Giustizia nella nostra Nazione, nel rispetto dell’autonomia della politica e della magistratura”. Prove di dialogo tra Governo e magistrati. La premier Giorgia Meloni: “Ora un confronto sano” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 9 febbraio 2025 In arrivo un nuovo testo. Meloni conferma di non piegarsi agli ostacoli. Se stiamo assistendo a un pericoloso scontro istituzionale tra poteri dello Stato, a Palazzo Chigi sono convinti di non averlo innescato, bensì subìto. Tanto che ieri sera, accogliendo con evidente sollievo la nomina del “dialogante” Cesare Parodi al vertice dell’Associazione nazionale magistrati, Giorgia Meloni ha teso una mano alle toghe. Ora che Giuseppe Santalucia non è più alla guida dell’Anm, la premier non vede l’ora di “riprendere un sano confronto” e di allontanare da Palazzo Chigi ogni responsabilità per un braccio di ferro che rischia, come ha ammonito Alfredo Mantovano, di “toccare il nostro sistema democratico”. Meloni e i suoi non fanno autocritica e non innescano la retromarcia. Restano convinti che siano stati gli avversari in toga a scagliarsi contro il governo, con l’avviso di iscrizione nel registro degli indagati relativo al caso Almasri e con la presunta diffusione di notizie riservate sull’affaire Gaetano Caputi, il capo di gabinetto della premier. E se gli 007 del Dis hanno denunciato il procuratore Francesco Lo Voi, assicurano fonti di governo, “non è stato per vendetta, ma per atto dovuto”. Come non sarebbe una vendetta la mossa dei cinque membri laici del Csm che hanno chiesto il trasferimento del procuratore. Raccontano che Meloni non sia scoraggiata, “perché è una combattente, ma amareggiata sì”. E anche preoccupata. Non tanto per lo scontro istituzionale tra il potere esecutivo e quello giudiziario, “perché è una cosa che non incide sulla vita dei cittadini e che la maggioranza delle persone non capisce”. Ad allarmarla sono piuttosto “gli attacchi dall’estero, che mirano a danneggiarci”. In giorni di spionaggi e controspionaggi, a Palazzo Chigi si evita di pronunciare la parola complotto, ma si guarda con sospetto a Berlino e a Londra. In Germania è transitato il generale Almasri senza essere fermato e in Gran Bretagna è esploso, sulle pagine del Guardian, il caso del software spia di Paragon Solutions, che ha messo in imbarazzo il governo. E adesso? Giorgia Meloni vuole lasciarsi alle spalle una delle settimane più difficili del suo mandato e rispondere nei fatti all’accusa bruciante che da giorni le rivolgono i leader delle opposizioni: quella di scappare, rifiutando il confronto. Per cancellare l’immagine di quella sedia vuota nelle Aule di Camera e al Senato, mentre i ministri Piantedosi e Nordio difendevano il governo sul rimpatrio del torturatore libico Almasri, la premier sta studiando il rilancio del governo. “Abbiamo perso anche troppo tempo dietro a questa vicenda”, è il rammarico che ha confidato ai collaboratori, con i quali ha costruito un’agenda settimanale di appuntamenti tutti romani. Meloni non volerà a Parigi all’evento di Macron sull’intelligenza artificiale, né a Monaco per la conferenza sulla sicurezza. Domani riceverà a Palazzo Chigi il cancelliere austriaco, martedì sarà all’assemblea nazionale della Cisl e giovedì al “vertice” in Vaticano per l’anniversario dei Patti Lateranensi. Per dare il senso di un’accelerazione, se non di un cambio di passo, tra Palazzo Chigi e il Viminale si lavora a un nuovo provvedimento che rimetta in moto i centri migranti in Albania, resi inservibili dal doppio stop imposto dai magistrati. La bozza del nuovo testo normativo, forse un decreto, potrebbe essere pronta entro martedì e ai piani alti della maggioranza si respira ottimismo: “Non prenderemo un’altra cantonata giuridica”. A gennaio la premier aveva promesso che non si arrenderà e riuscirà a far funzionare i centri di Gjader e Shengjin. Lo scontro senza precedenti con le toghe ha rafforzato la convinzione che “bisogna andare avanti”, anche per non darla vinta a quei “giudici politicizzati” che, la premier ne è convinta, vogliono impedirle di realizzare il programma: “Il mio compito è far funzionare la nazione, non mi farò paralizzare”. In questo groviglio di spine, il governo punta a far slittare il più avanti possibile il voto su Daniela Santanché. La mozione di sfiducia del M5S arriva in Aula domani e la ministra non parlerà. Cesare Parodi è il nuovo presidente dell’Anm: “Indispensabile un incontro con il Governo” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 febbraio 2025 Procuratore aggiunto a Torino, 62 anni, esponente di Magistratura indipendente. Segretario Rocco Maruotti di Area dg, Marcello De Chiara di Unicost vicepresidente. Cesare Parodi è il nuovo presidente dell’Anm con 32 preferenze su 36 (componenti del Cdc). Procuratore aggiunto a Torino, è stato eletto con Magistratura Indipendente. Segretario Rocco Maruotti (33 preferenze), pubblico ministero a Rieti eletto in quota Areadg. Vicepresidente è Marcello De Chiara (34 preferenze) della corrente di Unicost, giudice alla Corte di Appello di Napoli. Stefano Celli (32 preferenze) di Md sarà invece il nuovo vice segretario generale. Monica Mastrandrea, direttore della rivista “Magistratura” (33 preferenze), Giuseppe Tango, coordinatore dell’ufficio sindacale (34 preferenze). Gli altri membri della Giunta: Paola Cervo (33 preferenze), Chiara Salvatori (33), Sergio Rossetti (33), Dora Bonifacio (28). Al risultato si è arrivati dopo una giornata convulsa, durante la quale i big dei gruppi associativi - Claudio Galoppi e Loredana Micciché (Mi), Giovanni Zaccaro (Area), Stefano Musolino e Silvia Albano (Md), Rossella Marro e Stefano Latorre (Unicost) si sono riuniti più volte in una stanza attigua a quella dove si stava svolgendo in contemporanea la prima riunione del nuovo Comitato direttivo centrale. La giunta sarà composta da 3 membri di Mi, 2 membri di Area, 3 membri di Unicost, 2 membri di Md. Area ha rinunciato al terzo membro, pur essendo la seconda corrente più votata, per giungere ad un risultato in serata e sbloccare lo stallo che si era creato con le opposizioni di Unicost e Md. La prossima assemblea voterà una proposta di modifica statutaria affinché gli appartenenti alla giunta non siano più 10 ma 11, in modo da poter fa rientrare in giunta un undicesimo eletto di Areadg. Il gruppo dei CentuUno ha rinunciato alla trattativa perché contrario al metodo di scelta dei vertici del “sindacato” delle toghe L’aria è stata molto tesa durante tutta la giornata. Ad un certo punto addirittura Galoppi ha urlato contro Silvia Albano: “non scegli tu il presidente di Mi, non siamo in una dittatura comunista”. Lo sfondo era quello di una divisione sulla figura della presidenza. I vertici volevano come presidente il procuratore Antonio D’Amato, Area ed Md invece proponevano il primo eletto della lista di Mi, Giuseppe Tango. Unicost era più attendista e in ascolto. Alla fine, dopo ore e ore di riunioni e litigi, si è giunti ad una sintesi, ad una giunta unitaria, non si sa se davvero unita. Ma l’obiettivo per la base che aveva votato era quello di non poter rimandare l’elezione dei vertici. La domanda è: perché è stato eletto il settimo votato di Mi? Da quanto appreso da varie fonti, Mi avrebbe voluto il procuratore D’Amato come presidente, mentre le altre correnti avrebbero optato per il primo degli eletti della corrente moderata, Giuseppe Tango, ma proprio la dirigenza di Mi aveva scartato da principio questa opzione. E dunque la politica delle toghe si è rimessa al lavoro con vari do ut des: Mi ha detto alle toghe progressiste “se non volete D’Amato allora noi mettiamo il veto su Rocco Maruotti, proponete una donna”. Ennesima spaccatura e divergenze. Si chiude la riunione e i gruppi si riuniscono separatamente. Alla fine, dopo le 19, si trova una quadra. Ora bisognerà capire se soprattutto la presidenza sarà di lotta o di Governo rispetto alla battaglia da condurre contro la riforma della separazione delle carriere. Nell’intervento della mattina, prima ancora che i giochi si chiudessero, Parodi aveva detto: “La trattativa non esiste perché non ho niente da dare. Siamo integralmente con voi, condividiamo la battaglia. Dobbiamo portare battaglia su tutti temi, anche sui disservizi della giustizia che non funzionano. Nulla accade per caso, e lo sciopero non può essere revocato. Lo revoco se congelano riforma”. Si stava rivolgendo soprattutto ai colleghi di Md che li stavano accusando di tradire il mandato che l’Assemblea del 15 dicembre aveva conferito ai vertici, ossia opposizione totale senza se e senza ma alla modifica costituzionale dell’ordinamento giudiziario e sciopero. Li stavano accusando di voler trattare con la maggioranza. Ma poi trattare su cosa, visto che proprio Mi nelle dichiarazioni ufficiali ha sempre sottolineato di essere contraria ad ogni punto della riforma? Le sue prime dichiarazioni da presidente sono state invece: “Non sono un magistrato famoso e non voglio esserlo; spero che i giovani possano ritrovarsi solo nella mia laboriosità. Faccio mia la proposta di modifica statutaria (per passare in 11 in giunta). Di tutti c’è bisogno. Dal 1990 sono iscritto a Mi ma sono amico dei colleghi degli altri gruppi. Penso ai colleghi invece che non hanno voluto votare e ai giovani, da loro bisogna ripartire. Avrei voluto anche dei CentoUno in giunta anche se sono sfavorevole al sorteggio. Il primo gesto che, al di là di quello che succederà domani (confermare o meno lo sciopero del 27 febbraio, ndr), ritengo indispensabile è quello di chiedere in tempi stretti un incontro con il governo. Mi direte che è atto servilismo, ma noi siamo un potere dello Stato e stiamo portando avanti una battaglia per difendere la Costituzione”. Il neo segretario dell’Anm Rocco Maruotti ha sottolineato invece il “senso di responsabilità di Area nel rinunciare al terzo posto in giunta”. Pinelli: “Tensioni preoccupanti, si rischia di danneggiare le nostre istituzioni” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 9 febbraio 2025 Il vicepresidente del Csm: la magistratura accolga l’invito al dialogo di Mantovano. “Vivo nella sincera preoccupazione che queste tensioni facciano del male alle nostre istituzioni”. Fabio Pinelli, avvocato penalista e professore a Ca’ Foscari, da due anni è il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. E dalla richiesta di tutela riguardo alle dichiarazioni del ministro Nordio in Parlamento alla richiesta dei laici del Csm di intervenire nei confronti del procuratore di Roma Francesco Lo Voi, il momento è complicato come forse mai in passato. Vicepresidente, come si esce da questa situazione di scontro continuo? “Il Csm è un organo di garanzia che trova la propria forza e il proprio punto di equilibrio istituzionale nella guida del presidente della Repubblica. Non entro nel merito, né sulla vicenda Lo Voi né su quella nata dalle dichiarazioni del ministro in Parlamento. Ritengo solo opportuno sottolineare la necessità di un atteggiamento rispettoso e di grande responsabilità istituzionale da parte di tutti per evitare che un organo di centrale importanza nel nostro assetto, come il Csm, degeneri in luogo di scontro”. E come si può evitarlo? “Politica e magistratura devono dialogare. Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha non solo puntualizzato che è in discussione una riforma della giustizia per i cittadini e non contro la magistratura, ma ha aperto al dialogo e ha invitato la magistratura a non perdere l’opportunità di un confronto, ancorché critico, sui contenuti. La magistratura, mi permetto, dovrebbe accogliere questo invito. Del resto, l’essenza del magistrato è essere risolutore di conflitti. Il fondamento del magistrato sta dunque nella sua terzietà: se si è risolutore di conflitti, non si può esserne parte”. La sensazione di una sorta di volontà punitiva nei confronti della magistratura è sbagliata? “La magistratura possiede al proprio interno le risorse per essere, con il proprio contributo di competenza, attore fondamentale nella discussione sul proprio ordinamento e rispetto alle linee strategiche da adottare per una giustizia più efficiente, nell’interesse dei cittadini. Anche l’avvocatura può dare un grande contributo. È a partire dall’esperienza concreta, infatti, che ogni intervento riformatore deve svilupparsi per essere efficace. La magistratura italiana è sana, piena di magistrati seri, onesti e impegnati. Proprio per questo nasce la mia sincera preoccupazione sul fatto che questa tensione faccia male alle istituzioni e alla magistratura”. Che pericoli vede? “Faccio l’esempio del possibile referendum sulla riforma della giustizia. Se non riusciamo a instaurare un clima costruttivo, la consultazione diventerà un referendum non pro o contro la separazione delle carriere, ma pro o contro la magistratura. Una cosa che farebbe malissimo al Paese, alla nostra democrazia, alla magistratura stessa”. Eppure le toghe sembrano unite nel respingere la separazione delle carriere... “Bisogna capire da dove siamo partiti e come siamo arrivati qui. La storia lascia dei segni, sia nella percezione dei cittadini che nell’equilibrio dei poteri dello Stato. Fenomeni sedimentati sono emersi in un’epoca di cambiamento. Il potere politico è confinante con quello giudiziario, ad ogni avanzamento dell’uno vi è un arretramento dell’altro. Le tensioni tra poteri sono per certi aspetti fisiologiche e comuni ad altri paesi”. Ma... “Ma è anche vero che nelle democrazie le regole le fa la politica, la magistratura le applica. Quale potere autonomo e indipendente, può inquisire per le leggi approvate anche l’uomo politico”. Il parlare di immunità parlamentare non è un segnale che anche la politica voglia alzare il livello dello scontro? “Direi di no, nel momento in cui intendesse procedere con le riforme, e ciò avvenisse in un clima di dialogo. Per quanto riguarda il ddl costituzionale si può discutere sui contenuti, anche sul sorteggio e sull’alta corte disciplinare. Nell’affrontare questioni così delicate, che attengono anche all’equilibrio tra i poteri, potrebbe valutarsi, da parte delle forze politiche, di affrontare anche l’immunità parlamentare”. Non si rischia l’equivalenza immunità come impunità? “L’immunità non può in nessun caso diventare impunità. D’altronde, l’immunità era stata prevista anche dai nostri padri costituenti. Una democrazia in salute ha bisogno di una politica autorevole, in grado di proporre e realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno; e al contempo, di una magistratura libera, autonoma e indipendente. È il principio corretto della separazione dei poteri. Le istituzioni, tutte, devono poter essere guardate con fiducia dai cittadini”. Stallo alla Consulta, serve un colpo di reni di Stefano De Martis Avvenire, 9 febbraio 2025 Giovedì 13 il Parlamento è convocato in seduta comune nell’ennesimo tentativo di eleggere i giudici costituzionali che mancano al plenum della Corte. La riunione del 14 gennaio non ha prodotto nulla e quelle previste per i123 e il 30 gennaio non si sono proprio tenute. Le malelingue riferiscono che qualcuno ha accolto con sollievo l’impasse parlamentare collegata con il caso Almasri perché di fatto ha rinviato di un paio di settimane l’irrisolta questione della Consulta. Di sicuro c’è che il collegio della Corte è incompleto dal novembre 2023, quando è terminato il mandato dell’allora presidente Silvana Sciarra, e che nello scorso dicembre sono scaduti altri tre giudici. I gruppi politici rappresentati nelle Camere non sono ancora riusciti a perfezionare l’accordo necessario per provvedere alla bisogna (il quorum richiesto è di tre quinti). Dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare è rimasto in carica soltanto uno, Luca Antonini, eletto nel luglio del 2018 (il mandato dura nove anni, più di quello del Capo dello Stato). Il ritardo nelle procedure di nomina, a dire il vero, non è una novità. Nel caso dello stesso Antonini ci vollero venti mesi. Ma la situazione che si è determinata ora non ha precedenti nella storia della Consulta. L’equilibrio compositivo messo a punto dai padri costituenti - cinque membri designati dal Presidente della Repubblica, cinque dal Parlamento e cinque dalle alte magistrature, tutti con particolari requisiti in campo giuridico - risulta gravemente alterato. La componente di origine parlamentare è ridotta ai minimi termini e le Camere fanno una pessima figura, per di più in una fase storica in cui il loro ruolo nel processo legislativo è soverchiato da quello del governo e mentre si discute animatamente dei rapporti di forza con la magistratura, fino al punto di ipotizzare la riapertura del capitolo immunità, autentico tabù della politica nostrana. Intanto però deputati e senatori non riescono a nominare i quattro giudici costituzionali. Verrebbe da sperare in un colpo di reni concettualmente analogo a quello che dieci anni fa portò alla rielezione di Sergio Mattarella. La trattativa, invece, appare rigidamente nelle mani dei capi dei partiti che però - si scusi il gioco di parole - sembrano aver smarrito l’attitudine alla trattativa, la capacità di una mediazione che non è “melina” fine a sé stessa, ma costruzione paziente e creativa, orientata al miglior risultato possibile. Questa mancanza pesa sistematicamente nella politica odierna (non solo italiana, purtroppo) e lo si vede in modo macroscopico tutte le volte che ci si confronta con la prospettiva delle riforme istituzionali, l’ambito in cui per definizione si dovrebbe pensare largo e trasversale. È un problema enorme che certamente non si può risolvere di qui al 13 febbraio, quando il Parlamento tornerà a riunirsi per l’elezione dei giudici. Ma in quest’ultimo caso non si tratta di cercare un’intesa di portata epocale, quanto di ottemperare a un preciso dovere istituzionale, assicurando il corretto funzionamento - o il funzionamento tout court - di un organo costituzionale decisivo: gli undici membri residui della Consulta sono il minimo per poter deliberare, al di sotto c’è la paralisi. Un esito che non dev’essere neanche possibile immaginare come rischio. Emilia Romagna. Troppe vittime in carcere, l’ultimo aveva vent’anni. E gli avvocati scioperano di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 febbraio 2025 Il 20enne ucciso da un’overdose di farmaci. Il 19 e il 20 la protesta delle Camere penali. Non hanno fatto in tempo le Camere penali di Modena e Bologna a proclamare la nuova astensione dalle udienze, in protesta con la situazione in cui versano i penitenziari emiliano-romagnoli, che ieri c’è stato l’ennesimo decesso in carcere. Un detenuto di 20 anni, recluso nel penitenziario di Reggio Emilia, ha perso la vita per una probabile overdose di farmaci. Il giovane, ha fatto sapere il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, era sottoposto a terapie farmacologiche, ma si esclude l’ipotesi del suicidio. La salma è a disposizione della magistratura, che con ogni probabilità disporrà l’autopsia. Il 20enne, che aveva un processo in corso, aveva un fine pena nel 2026. Lo sciopero degli avvocati contro il sovraffollamento - Solo due giorni fa, le Camere penali di Modena e Bologna, a cui faranno seguito anche le altre della regione, hanno proclamato due giorni di astensione dalle udienze per il 19 e il 20 febbraio prossimi, a causa della grave situazione nel carcere modenese, dove in poche settimane si sono tolti la vita quattro detenuti. Il 23 e il 24 gennaio, ricordano i penalisti nelle delibere, avevano avuto accesso al Sant’Anna tanto i garanti regionale e comunale, quanto una delegazione della Camera penale e del Consiglio forense, insieme al sindaco e all’assessore regionale al Welfare, “riscontrando, tra l’altro, l’insufficienza delle piante organiche dell’area educativa e della polizia penitenziaria a far fronte al grave sovraffollamento della struttura, di molto aggravato dalla presenza di un numero di “definitivi” condannati a pene di lunga durata”. I numeri: a Bologna sovraffollamento del 170% - Inoltre, ricordano sempre i penalisti, presso la casa circondariale di Bologna, durante la visita del 22 gennaio di una delegazione della Camera penale di Bologna con la presenza del presidente della Regione Michele de Pascale e dell’assessore regionale Isabella Conti, “risultavano detenute ben 852 persone rispetto alla capienza massima di 500 posti con un sovraffollamento, quindi, di ben il 170,4%. Trattasi, in tutta evidenza, situazione che dà luogo ad un trattamento inumano e degradante”. I dati del sovraffollamento in Emilia-Romagna - Ma nella stessa situazione versano tutti gli istituti penitenziari del distretto, dove “si registra un sovraffollamento ormai non più tollerabile: Ferrara 161%; Forlì 122%; Modena 153%; Parma 122%; Piacenza 123%; Ravenna 173%; Reggio Emilia 127%; Rimini 123%. Lo stato delle carceri - conclude la delibera delle Camere penali - non può lasciare indifferente l’avvocatura, che deve anzi farsi promotrice dei principi costituzionali del giusto processo e della tutela della vita e della dignità delle persone, ancorché ristrette, tanto più dinanzi al clima di populismo giudiziario che ancora troppo spesso anima il dibattito pubblico”. Per questo gli avvocati sciopereranno il 19 e il 20 febbraio, mentre la tragica conta dei suicidi in carcere, che nel 2024 ha raggiunto il numero record di 90, al 5 febbraio ne contava già altri dieci. Intanto al ministero della Giustizia si sta valutando la possibilità, che ormai sembra quasi una certezza, di liberare una sezione della Dozza per trasferirvi circa 70 giovani detenuti tra i 18 e il 25 anni provenienti dagli istituti minorili di tutta Italia, dove i numeri del sovraffollamento sono anche più drammatici di quelli delle carceri ordinarie Emilia Romagna. “Le Comunità educanti contro il sovraffollamento” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 9 febbraio 2025 Castaldini (Forza Italia) e il caso dei giovani detenuti alla Dozza. “L’uomo non è il suo peccato” era il mantra di don Oreste Benzi, fondatore della Papa Giovanni XXIII che, tra le tante attività di accoglienza di persone con disagio, disabilità, ai margini della società, ha portato in Italia anche il modello brasiliano del “Carcere senza sbarre”, nelle Comunità educanti con i carcerati (Cec). “In Italia ci sono una decina di Cec, di cui la metà sono in Emilia-Romagna e ripercorrono l’esperienza brasiliana dell’Associazione per la Protezione Assistenza Condannati, un progetto innovativo, che si fonda su un percorso di rieducazione personalizzato per chiunque abbia sbagliato” spiega Valentina Castaldini, consigliera regionale di Forza Italia. “Lo scorso anno l’Assemblea legislativa ha scelto di organizzare una bellissima mostra fotografica “Dall’amore nessuno fugge”, per far conoscere il metodo Apac”. C’è la volontà di apri re una Comunità educante a Bologna? “Giorgio Pieri, che è il referente delle Cec, da tempo si spende per aprire a Bologna una casa per donne recluse, ma il problema è trovare un posto adeguato. In generale, credo siano pronti ad aprire più comunità possibili, c’è il desiderio di crescere. E noi oggi abbiamo un tema di stringente attualità da affrontare”. Parliamo dei 70 giovani detenuti che si sta cercando di spostare alla Dozza per ridurre il sovraffollamento degli istituti minorili… “Abbiamo tra le mani una situazione molto problematica, è oggettivo che questi giovani, anche se separati, alla Dozza rischiano di non avere percorsi di cura, volontari che li seguano. Gli educatori fanno già fatica al Pratello…Come Regione dobbiamo aiutare le realtà che già lavorano nella rieducazione e trovare soluzioni alternative. Le CEC nascono come risposta al bisogno di giustizia di una società che reclama sicurezza, rispetto delle vittime e bisogno di riscatto del reo. Sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere, con percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto. Hanno regole molto rigide, ci può accedere chi è in una fase di espiazione in cui si può scegliere una pena alternativa, ma io nelle Cec ho visto vite rinate grazie alla possibilità che si dà alle persone che hanno avuto a che fare con il male di frequentare persone che portano vita nuova, attenzione 24 ore su 24. Si basano su un percorso legato all’idea di comunità: mangiare insieme, impiegare il tempo in maniera ordinata, prendersi cura di persone disabili. Tutto questo è altamente rieducativo. I numeri dicono che il tasso di recidiva di chi esce da una Cec è del 15%, contro il 70% di chi esce dal carcere, ma le Cec non ricevono alcun finanziamento pubblico”. Cosa potrebbe fare oggi la Regione? “La mia richiesta, anche dopo aver parlato con il garante regionale, è che si apra un tavolo di crisi con una forte presenza del welfare per capire quali sono i posti liberi in comunità, chi di questi giovani detenuti può andarci. Fare un lavoro su misura ragazzo per ragazzo, altrimenti quello fatto fino ad ora negli istituti da cui provengono sarà reso vano. Anche se la decisione è già presa dobbiamo sederci intorno a un tavolo e fare un passo in più, capire chi può accedere a percorsi alternativi. Facciamo in modo che questa emergenza non sia un’opportunità sprecata: le Comunità educanti possono diventare un fiore all’occhiello per l’Emilia-Romagna. I giova nitrai 18 e i 25 anni, anche se hanno commesso un reato, sono in una fascia d’età molto critica e sono quelli che possono trarre maggior benefici oda un mondo che si basa sulla generosità, su lavoro meraviglioso di centinaia di volontari”. Reggio Emilia. Ventenne trovato morto nella sua cella, probabile overdose di farmaci di Francesco Ferrari reggionline.com, 9 febbraio 2025 Tragedia avvenuta nel carcere di Reggio. Indagini in corso sulla morte Cristian Scripet, 20enne italiano di origine rumena e residente in provincia di Macerata. L’uomo è stato trovato privo di vita all’interno della propria cella, che condivideva con un altro carcerato: il detenuto era sottoposto a terapie e si sospetta che la causa del decesso sia stata una overdose da farmaci. Il giovane, che aveva un processo in corso, si trovava nella casa circondariale di via Settembrini per una pena legata al reato di estorsione che avrebbe terminato di scontare nel 2026. Il 20enne aveva subito diversi trasferimenti, l’ultimo dal carcere di Bologna per approdare nella struttura della nostra città. Proprio sulle possibili cause che avrebbero provocato la morte del giovane detenuto, è intervenuto il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri. “In merito alla morte del giovane detenuto negli istituti penali di Reggio Emilia, la domanda se sia stato un suicidio o meno deve essere superata - spiega Cavalieri. I detenuti assumono farmaci in sovra dose per stordirsi e dimenticare la sofferenza della detenzione, il che assume tutti gli aspetti e assomiglia molto a un suicidio”. La famiglia del detenuto, assistita dall’avvocato Giancarlo Giulianelli, è stata informata dei fatti, il cadavere è ora a disposizione della Procura per l’autopsia, che sarà effettuata nella giornata di martedì. Avellino. Decesso nel carcere. “Ciro è morto per l’incapacità del personale medico” di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 9 febbraio 2025 “Mio fratello è stato vittima di negligenza, ora vogliamo giustizia”. La Casa Circondariale di Avellino “Antimo Graziano” è stata teatro di una tragedia che ha scosso profondamente detenuti, personale penitenziario e familiari delle persone ristrette. Nella giornata di ieri, il corpo senza vita di Ciro Pettirosso, 36 anni, originario di Napoli, è stato ritrovato all’interno della struttura. Il decesso del giovane detenuto ha immediatamente allertato le autorità competenti, che hanno avviato le indagini per fare luce su quanto accaduto. Indagini in corso: la Procura dispone l’autopsia - Non appena la notizia si è diffusa, la Procura della Repubblica di Avellino ha aperto un fascicolo d’indagine. Il magistrato di turno, Cecilia Annechini, ha disposto l’autopsia sulla salma del detenuto, che è stata trasferita presso l’obitorio dell’Ospedale “San Giuseppe Moscati” di Avellino. L’esame autoptico e quello tossicologico saranno eseguiti nella giornata di martedì e saranno fondamentali per chiarire le cause del decesso. Gli inquirenti stanno vagliando ogni ipotesi, senza escludere alcuna possibilità: dalle cause naturali a un malore improvviso, fino a eventuali negligenze o circostanze esterne che potrebbero aver influito sul tragico epilogo. La dinamica dell’accaduto rimane ancora poco chiara, ma la vicenda ha acceso i riflettori sulle condizioni di detenzione all’interno della struttura penitenziaria e sulla sicurezza dei detenuti. Le accuse della famiglia: “Vogliamo giustizia” - Il fratello della vittima, Francesco Pettirosso, ha rilasciato dichiarazioni forti che gettano ombre sulla gestione sanitaria del carcere di Avellino. “Mio fratello è morto a causa dell’incapacità del personale medico presente all’interno del carcere. Hanno sottovalutato la sua condizione, era affetto da una grave forma di diabete”, ha denunciato Francesco con rabbia e dolore. Secondo il fratello, Ciro non faceva uso di sostanze stupefacenti e stava regolarmente scontando la sua pena. Tuttavia, il giovane detenuto avrebbe ricevuto una somministrazione errata di insulina, un errore medico che, secondo la famiglia, ne avrebbe causato la morte. “Noi vogliamo giustizia e la vogliamo ora, per il dolore che stiamo vivendo. Quando ci sarà l’autopsia, sarà presente anche un perito di parte richiesto dalla nostra famiglia”, ha aggiunto Francesco Pettirosso. il carcere di Avellino: un problema irrisolto - Il drammatico evento accaduto nel carcere di Avellino riporta in primo piano la questione delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. Sovraffollamento, carenza di personale medico e difficoltà nella gestione sanitaria dei detenuti sono problemi che affliggono molte strutture penitenziarie nel Paese. I sindacati della polizia penitenziaria e le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti denunciano da tempo una situazione sempre più critica: carenze strutturali, scarsità di risorse e un sistema sanitario interno che, spesso, non riesce a garantire cure adeguate ai detenuti affetti da patologie croniche. Il caso di Ciro Pettirosso, se le accuse della famiglia dovessero trovare conferma, potrebbe rappresentare l’ennesimo episodio di negligenza in un contesto già segnato da numerose criticità. Le indagini faranno chiarezza, ma una riflessione più ampia sulle condizioni delle carceri italiane sembra ormai inevitabile. Attesa per i risultati dell’autopsia - L’intera vicenda ora ruota attorno agli esiti dell’autopsia, che potranno confermare o smentire le accuse della famiglia. Solo attraverso l’analisi medico-legale si potrà stabilire con certezza cosa abbia provocato la morte di Ciro Pettirosso e se vi siano responsabilità da attribuire a eventuali errori sanitari o altre cause esterne. Il sindacato NurSind, non più tardi di tre giorni fa, si chiedeva cos’altro dovesse ancora accadere affinché la direzione del carcere e l’ASL intervenissero in modo concreto per garantire la sicurezza dei lavoratori. Nel frattempo, il prefetto di Avellino era già stato informato della situazione e di altre problematiche urgenti. Tra queste spiccano: Mancanza di acqua corrente durante le ore notturne, che impedisce agli operatori sanitari di svolgere azioni basilari come il lavaggio delle mani. Grave carenza di personale: è capitato, addirittura, che - durante il turno notturno - un’unica infermiera ha dovuto assistere oltre 600 detenuti. Un primo incontro con il prefetto Rossana Riflesso, tenutosi il 14 dicembre, aveva fatto sperare in un miglioramento, ma da allora sono passati due mesi senza alcuna riconvocazione. La tragedia avvenuta nel carcere di Avellino ha sollevato un’ondata di indignazione e dolore. La famiglia della vittima chiede risposte, la magistratura indaga, mentre il dibattito sulla condizione delle carceri italiane torna prepotentemente sotto i riflettori. Napoli. Detenuto muore a Poggioreale dopo le torture del compagno di cella: aperta un’inchiesta napolitoday.it, 9 febbraio 2025 La notizia già era nell’aria lungo le sezioni del carcere di Napoli Poggioreale, ma soltanto con la notifica all’indagato V.R., classe 1981, avvenuta nella giornata di ieri, dell’avviso da parte dei Sostituti Procuratori della Repubblica di Napoli, Raffaele Tufano e Giuliana Giuliano, per il conferimento dell’incarico peritale, si è avuta la piena certezza. I fatti risalgono alla fine di novembre 2024 allorquando il detenuto N.A., classe 1964, allocato nella stanza n. 6 del Reparto Salerno del Carcere di Poggioreale, veniva rinvenuto esanime a terra nella sua cella, durante l’apertura delle porte per consentire ai detenuti di fare la doccia. Immediato il trasporto in ospedale dove gli venivano refertate lesioni gravissime consistite in politrauma, frattura mano destra, frattura perone lato destro, frattura ulna lato sinistro, frattura epifisi distale di perone sinistro, stato soporoso e cachettico, con prognosi riservata. Lesioni subite, a detta dei Sostituti Procuratori della Repubblica di Napoli, per mano del suo compagno di cella, V.R. appunto che, in data 23 dicembre 2024, veniva sottoposto ad un intenso interrogatorio presso il Carcere di Poggioreale in quanto indagato di tortura e lesioni personali gravissime. Accuse, quest’ultime, mutate nelle ultime ore, a seguito del decesso di N.A., che ha portato alla formulazione dell’accusa, nei confronti del quarantacinquenne, del reato di omicidio pluriaggravato, oltre che di quello di tortura. Toccherà all’avvocato avellinese Rolando Iorio difendere V.R. il quale rischia una condanna all’ergastolo. Il legale, difensore di fiducia di V.R. già in altri procedimenti, si è recato questa mattina nel carcere di Poggioreale per predisporre la linea difensiva con il suo assistito, anche in previsione del conferimento dell’incarico peritale, previsto per lunedì 10 febbraio 2025, per l’espletamento dell’esame autoptico. Terni. La sorella di un detenuto s’incatena davanti al carcere: “È stato picchiato, trasferitelo” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 9 febbraio 2025 Sulla denuncia accertamenti a 360 gradi della procura. Si è incatenata ad un cancello davanti al carcere di Sabbione per protestare contro presunte vessazioni cui sarebbe stato sottoposto suo fratello, ristretto a Terni. La clamorosa protesta della donna, 65 anni, campana, andata in scena nel primo pomeriggio di ieri, ha visto giungere sul posto gli agenti della squadra volante e della Digos, impegnati a tenere sotto controllo una situazione che rischiava di degenerare. La 65enne, che venti giorni fa ha denunciato presunti episodi di violenza nei confronti di suo fratello all’interno del penitenziario ternano, ha fatto sapere di aver interessato la procura della repubblica e il magistrato di sorveglianza perché approfondiscano la vicenda. Su quanto denunciato sono in corso accertamenti e verifiche a 360 gradi da parte della procura ternana. Gli agenti della Digos hanno accompagnato la donna, che ha chiesto l’immediato trasferimento del fratello in un altro penitenziario, all’interno del carcere per un colloquio con un ispettore della penitenziaria. Dopo le rassicurazioni ricevute, col trasferimento del detenuto che pare sia stato accordato, la 65enne ha lasciato Sabbione. La protesta della donna in un periodo nero per il carcere ternano, che continua a contare aggressioni ed episodi violenti e che sconta la carenza di personale in un penitenziario dove ci sono 150 detenuti in più rispetto a quelli previsti. È di queste ore l’incontro dei rappresentanti del sindacato Osapp con il prefetto, Antonietta Orlando. Al centro del colloquio la presenza delle diverse tipologie di detenuti e le difficoltà del personale nel gestire contemporaneamente circuiti detentivi come alta e media sicurezza, persone che si sono macchiate di reati a sfondo sessuale e soprattutto detenuti psichiatrici, per i quali il personale non ha competenze specifiche. Il tutto in un penitenziario che ospita i 41 bis. Lente puntata sulla carenza di personale comprese le figure apicali, col sindacato che ha messo in evidenza l’assenza di un vice comandante e un comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti, e sull’assenza di gestione del personale. Un quadro che provoca malessere tra il personale dovuto, per il sindacato, alla mancanza di confronto con le sigle maggiormente rappresentative. “È stato un incontro importante e cordiale” dice il segretario regionale Osapp, Roberto Esposito, che ringrazia il prefetto per “l’ascolto delle istanze rappresentate, consapevole che il lavoro di squadra e la sinergia istituzionale può solo portare benefici per la polizia penitenziaria”. Firenze. Antonella Tuoni assegnata al carcere di Arezzo, il caso finisce in Parlamento di Marianna Grazi La Nazione, 9 febbraio 2025 Fa discutere il mancato rinnovo del direttore al penitenziario di Sollicciano. Italia Viva chiede spiegazioni a Nordio. Radicali: “Lasciato senza guida”. “Incomprensibile” o, a pensar male, causato da incompatibilità di opinioni con il datore di lavoro. Così aveva detto fin da subito il garante dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini. Ma il trasferimento della direttrice del carcere di Sollicciano Antonella Tuoni al penitenziario aretino non smette di far discutere anche al di fuori dell’ambiente detentivo. Non tanto per la destinazione, quanto la mancata continuità nel lavoro avviato insieme alle istituzioni per migliorare le note problematiche della casa circondariale fiorentina che si è venuta a creare. Scaduto l’incarico di Tuoni ai primi di febbraio nessuno è ancora stato nominato e al suo posto la reggenza è stata data al direttore che era al San Benedetto di Arezzo, Alessandro Monacelli. Il trasferimento della direttrice è diventato un caso politico ed è finito in Parlamento. “Perché non le è stato rinnovato l’incarico? Quando il ministro Nordio prevede di colmare il vuoto per garantire una direzione stabile e iniziative di reinserimento sociale” a Sollicciano? Così i deputati di Italia viva Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi si sono rivolti al titolare del dicastero della Giustizia durante un’interrogazione parlamentare. “Parliamo di una struttura fatiscente” aggiungono riferendosi al carcere fiorentino, che secondo loro il Dap “ha lasciato nell’instabilità, rischiando così di compromettere ogni progetto dedicato alla finalità rieducativa della pena e il reinserimento nella società”. Sulla stessa linea anche i Radicali Italiani, che affidano le loro perplessità a una nota firmata dal segretario Filippo Blengino e da Matteo Giusti della direzione: la notizia “Non può che destare preoccupazione” dichiarano. Antonella Tuoni è stata “destinata a un istituto come quello di Arezzo, una realtà che, con i suoi 45 detenuti, presenta criticità sicuramente inferiori rispetto alla casa circondariale di Firenze”. Questo, insomma, il nodo cruciale che ha fatto scattare le polemiche. “Durante la visita effettuata lo scorso luglio - ricordano - la direttrice aveva dimostrato grande competenza e lucidità nell’analisi delle problematiche del carcere, esponendo idee chiare sulle possibili soluzioni”. Per i Radicali “questa ulteriore instabilità appare in netto contrasto con le urgenti necessità di intervento sulla struttura e con le progettualità finalizzate alla rieducazione dei detenuti”. Fossano (Cn). Quando la “fuga” dal carcere è dietro il bancone in bottega di Barbara Morra La Stampa, 9 febbraio 2025 C’è un nuovo collegamento tra il carcere e la città ed è fatto di cose concrete come i lavori handmade dei detenuti, il pane e gli ortaggi coltivati in regime di semilibertà. Già aperta da prima di Natale è stata inaugurata ufficialmente la Bottega Perla, il negozio che si trova dentro la casa di reclusione, adiacente ad uno dei cortili interni e che si affaccia all’esterno su via Ancina nel cuore del centro storico. Il progetto, fortemente voluto dalla direttrice Assuntina Di Rienzo, dall’area giuridico-pedagogica con Antonella Aragno e con il supporto del sostituto commissario Marino Spinardi, è stato affidato alla cooperativa sociale Perla che da tre anni opera al Santa Caterina con progetti lavorativi e di animazione sociale. Il nuovo punto è aperto al pubblico nei normali orari delle attività commerciali e propone la vendita di prodotti dell’economia carceraria fossanese: dalle verdure fresche e lavorate della cooperativa Cascina Pensolato al pane e gli altri prodotti da forno della cooperativa Glievitati, in una cornice preziosa e colorata delle ceramiche del progetto Filidellastessatrama. Ci sono anche le eccellenze del “made in carcere” nazionale come il vino prodotto dal carcere di Alba, i prodotti di Famù e altro dall’Italia. “La Perla è un progetto giovane perché nato nel 2020 in pieno lockdown - spiegano Grazia Oggero e Valentina Macchioni che fanno parte della cooperativa e lavorano in bottega, oltre che in carcere, insieme a un giovane detenuto -, sono iniziate le collaborazioni con la Cascina Pensolato ed è nato il laboratorio di ceramica che sta producendo lavori molto belli. C’è stato un grande impegno di fiducia da parte della direzione e dell’area di sorveglianza, tutti si sono messi molto in gioco per creare questo spazio in un modo che non era scontato”. Il ricavato dell’attività servirà a pagare lo stipendio del giovane che vi lavora e a sostenere il progetto. Per il carcere di Fossano, la realizzazione della bottega è il coronamento di un processo evolutivo in materia di progetti intra ed extra murari, che da anni la direzione attua per le persone recluse, in una politica di inclusione, reinserimento sociale e lavorativo del detenuto. Si aumentano, infatti, le opportunità di lavoro dei detenuti in art. 21. Trieste. Illycaffè a sostegno dei detenuti e di Seconda Chance Avvenire, 9 febbraio 2025 L’associazione non profit favorisce il reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale attraverso percorsi di formazione. L’impegno di illycaffè a operare responsabilmente, promuovendo il miglioramento della qualità della vita delle persone in modo sostenibile e duraturo si rafforza attraverso il sostegno a Seconda Chance, l’associazione non profit fondata nel 2022 da Flavia Filippi con lo scopo di creare un ponte tra il mondo delle carceri e le imprese. Nella casa circondariale di Trieste si sono appena conclusi i primi corsi sul caffè, tenuti dagli insegnanti dell’Università del Caffè di illy nell’ambito del percorso di formazione sulle tecniche base di panificazione e pasticceria. Questa attività didattica, come quella che inizierà a marzo sulla pasticceria e caffetteria e ad altre ancora in via di definizione nell’area della ristorazione e dell’ospitalità, unisce le competenze di illycaffè e di Seconda Chance per contribuire alla crescita e l’inclusione sociale della popolazione in esecuzione penale. “Crediamo nell’importanza di offrire una seconda chance a chi ha perso la strada. Il reinserimento nella società non è scontato e purtroppo ci sono pregiudizi nei confronti di tutte le persone che la vita ha messo nell’angolo. È compito della collettività farsene carico e le aziende stesse, in quanto corpi sociali, devono dare il loro contributo. La formazione può rappresentare una via di uscita e di riscatto”, spiega Cristina Scocchia, amministratrice delegata di illycaffè. “Siamo sinceramente grati a illycaffè per il supporto e la fiducia che hanno riposto in Seconda Chance. È solo grazie a collaborazioni come queste che possiamo sperare di realizzare molte altre iniziative di successo, non solo in Friuli Venezia Giulia, ma anche oltre i confini regionali”, sottolinea Flavia Filippi, presidente di Seconda Chance. La formazione costituisce un elemento imprescindibile per l’evoluzione individuale e sociale ed è ancora più cruciale per coloro che stanno intraprendendo un percorso di cambiamento della propria vita. Grazie alla possibilità di frequentare corsi di studio o di aggiornamento professionale, anche i detenuti acquisiscono nuove competenze in diversi settori, vivendo in modo più costruttivo la detenzione e ottenendo una possibilità di reinserimento in società una volta scontata la pena detentiva. La casa circondariale di Trieste sta impostando il suo programma formativo su questo principio e su un attento monitoraggio dei settori in cui vi siano reali e concrete opportunità di reinserimento dei detenuti, come quello della ristorazione. Salerno. Quattro lavasciuga e quaranta phon per i detenuti di Fuorni di Viviana De Vita Il Mattino, 9 febbraio 2025 La consegna in settimana, l’iniziativa di Radicali, Nessuno Tocchi Caino, Fondazione di comunità salernitana e patronato Acli. In arrivo quattro lavasciuga e quaranta phon per i detenuti del carcere di Salerno. Alla cerimonia di consegna, in programma martedì, parteciperanno la direttrice dell’istituto penitenziario, Gabriella Niccoli, l’onorevole Franco Picarone, l’esponente dei Radicali Donato Salzano e i rappresentanti dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, da sempre impegnata nella tutela dei diritti umani all’interno delle carceri italiane. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al contributo di Antonia Autuori, presidente della “Fondazione di Comunità Salernitana”, e di Gianluca Mastrovito, in rappresentanza del patronato Acli, due realtà che hanno mostrato grande sensibilità nei confronti delle esigenze dei detenuti. La donazione si inserisce in un più ampio progetto volto a garantire dignità e migliori condizioni di vita ai detenuti, promuovendo interventi concreti che possano favorire il rispetto dei diritti fondamentali anche all’interno dell’ambiente carcerario. Un segnale importante di attenzione e supporto, che punta a rafforzare il senso di umanità e inclusione all’interno del sistema penitenziario. Napoli. Giubileo e carcere, incontro con i giovani detenuti dell’Ipm di Nisida di Gigliola Alfaro agensir.it, 9 febbraio 2025 Don De Luca: “La sfida più grande è far emergere la bellezza dell’umanità dei ragazzi e portare speranza”. All’istituto minorile il Festival della vita ha compiuto una tappa, il 31 gennaio, con una messa e l’ostensione di una reliquia del beato Carlo Acutis. A incontrare i giovani detenuti c’erano pure Massimo Monzio Compagnoni e don Enrico Garbuio del Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della Cei. Con l’8x1000, infatti, si sostengono anche i sacerdoti impegnati in tante attività in carcere. “Portare un messaggio di speranza ai ragazzi che cercano un riscatto dalle loro scelte sbagliate e presentare la figura del beato Carlo Acutis, che mostra come si possano fare scelte diverse”. Nelle parole di don Ampelio Crema, direttore del Centro culturale San Paolo, il senso della visita organizzata all’Istituto penale minorile di Nisida, il 31 gennaio, nell’ambito delle attività del Festival della vita, con una messa, l’ostensione di una reliquia di Carlo Acutis, che sarà canonizzato da Papa Francesco il 27 aprile, durante il Giubileo degli adolescenti, e doni per i minori detenuti. Tra i presenti il cappellano di Nisida, don Fabio De Luca, Massimo Monzio Compagnoni, responsabile del Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della Cei, e don Enrico Garbuio, assistente pastorale e spirituale del medesimo Servizio. “L’esperienza in carcere è stata davvero significativa, perché ha fatto vedere come la Chiesa sappia guardare quelle realtà talvolta invisibili agli occhi di tutti, quelle realtà talvolta definite scarti, portando gioia e soprattutto riportando la voglia di vivere, proponendo un’umanità piena e bella come l’umanità di Cristo. Una Chiesa che porta la speranza, che vuole dare sempre la possibilità di riprendere il cammino, soprattutto a coloro che pensano che non ci sia più un’ulteriore possibilità nella vita, che non ci sia più la possibilità di rialzarsi, che non ci sia la possibilità di un cambiamento”, dice Massimo Monzio Compagnoni. “Davanti o ai ragazzi del carcere mi sono chiesto quale responsabilità abbiamo come adulti e in modo particolare come padri di famiglia. E qui lancio un invito a tutti: stare accanto ai nostri figli in qualunque situazione si trovino, nel bene e nel male, nelle virtù e nei peccati. Stare accanto a loro significa amarli e incoraggiarli attraverso il proprio esempio e le parole rivolte al cuore, per far sì che si sentino sempre amati da Dio”, aggiunge, sottolineando che “la Chiesa fa molto per tutelare la vita. E se la Chiesa oggi riesce a tutelare la vita, lo può fare grazie alle firme per l’8x1000”. Di qui l’invito a “continuare a sostenere, con l’8×1000, la Chiesa e i nostri sacerdoti che quotidianamente, talvolta in trincea, si trovano a difendere la vita dall’inizio alla fine”. La visita a Nisida si è svolta nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di San Giovanni Bosco. “Entrando a Nisida - afferma don Enrico Garbuio - ho pensato a questa grande figura innamorata e appassionata dei giovani come don Bosco. E ho pensato proprio a quando lui si recava a Torino al carcere ‘La Generala’, con quel grande desiderio di recuperare e di ridare vita ai sogni di questi ragazzi, e a quell’episodio in cui sogna di portarli a fare una passeggiata soli con lui e gli viene detto di sì, a patto che fossero sorvegliati a vista dalla polizia. Don Bosco chiede il permesso di essere da solo con loro. Ma per ottenere questo permesso ha dovuto chiederlo al ministro Rattazzi. Dopo aver riportato indietro tutti i ragazzi dopo la passeggiata, gli viene chiesto qual è stato il segreto dell’atteggiamento impeccabile da parte dei ragazzi della Generala. Don Bosco risponde: ‘Perché noi parliamo di Dio e soprattutto al cuore di questi ragazzi con parole che provengono da Dio’”. A Nisida “ho potuto sperimentare quanto bene la Chiesa faccia attraverso i suoi cappellani, attraverso i tanti volontari di movimenti e associazioni, all’interno delle carceri, parlando di Dio, con il grande desiderio di dare nuove ali a questi ragazzi per poter riprendere il volo e volare”. Vedere 80 minori, di cui solo 5 stranieri, in carcere “mi ha colpito: sostenere la Chiesa cattolica, anche economicamente, attraverso la firma dell’8×1000 - rimarca don Garbuio - significa anche sostenere tutti quei sacerdoti che quotidianamente si spendono all’interno delle mura del carcere per far sì che i sogni dei ragazzi possano riaffiorare e ridare loro speranza”. “L’iniziativa promossa dal Festival della vita - ci racconta don Fabio De Luca - è stata accolta molto bene, c’è stata una buona partecipazione da parte dei ragazzi. Erano presenti anche diversi educatori e agenti, è stato un momento bello. La presenza della reliquia del beato Carlo Acutis e la testimonianza sulla sua vita hanno coinvolto molto i ragazzi. È stato ‘un giovane che ha parlato ai giovani’. I ragazzi sono stati colpiti dall’esperienza di vita di un loro coetaneo che ha fatto scelte totalmente diverse dalle loro”. “Anche le persone che sono venute - continua il cappellano - sono state molto brave a entrare in dialogo con i ragazzi: si è creato questo clima molto familiare che ha permesso sia una partecipazione attenta alla celebrazione eucaristica, sia al confronto che c’è stato anche in maniera personale tra gli ospiti e i ragazzi. Ha fatto bene a tutti, è stato veramente un momento molto forte. Le persone che sono venute, tra l’altro, hanno portato anche dei doni ai ragazzi e questa attenzione da parte loro - del Servizio per il sostegno economico alla Chiesa e di chi ha organizzato il Festival della vita - è stata gradita dai ragazzi perché si sono sentiti curati”. I ragazzi, dai 14 ai 24 anni, in Istituto sono 78, un numero molto elevato. “Fino a qualche anno fa la media oscillava tra i 40 e i 50 - ci spiega il cappellano -. Da alcuni anni non c’è più il reparto femminile. Il Dipartimento ha fatto la scelta di renderlo solo maschile anche per inviare qui a Nisida più ragazzi rispetto al passato”. Il decreto Caivano ha comportato “un maggior numero di arresti e di presenza nelle carceri di chi ha commesso reati anche in tenera età. Tale situazione ha creato problemi soprattutto nel periodo in cui la metà della popolazione in istituto era fatta da stranieri. Le peculiarità degli istituti penali minorili del Sud sono diverse da quelle del nord, perché qua la presenza di autoctoni è molto rilevante, a differenza del nord dove è forte la presenza degli stranieri. Nel nostro contesto le logiche stesse tra i ragazzi sono complesse, perché riproducono all’interno dell’istituto quelle che sono le logiche delle varie faide o alleanze familiari che ci sono nell’area metropolitana. Già gestire nel carcere la sicurezza in un clima del genere non è facile, è ancora peggio se su 60 ragazzi, di cui 30 napoletani, si aggiungono 30 stranieri che si contrappongono ai napoletani e viceversa e, in più, tra gli stranieri stessi trovi che gli egiziani ce l’hanno con i marocchini, gli algerini con i tunisini”. Don De Luca evidenzia: “È stato veramente difficile, anche perché, prevalentemente, i ragazzi stranieri sono refrattari a tutto perché hanno vissuto una tale disumanizzazione nei loro Paesi di origine e nei viaggi assurdi per venire in Europa, che non hanno proprio più nulla da perdere. Con loro è complicatissimo proporre l’aspetto educativo”. Adesso “è diminuita la presenza degli stranieri e la situazione è più gestibile sul fronte della sicurezza; poi c’è l’aspetto educativo che è condizionato tantissimo da tutte queste situazioni”. In un contesto talmente complesso si può portare una parola di speranza? “Questo è l’obiettivo, ancor di più in un istituto minorile, che tutti si pongono: proporre a questi ragazzi la possibilità di una vita diversa. Altrimenti non avrebbe senso la presenza del cappellano ma anche degli educatori. Anche gli agenti di polizia penitenziaria sono fondamentali, alle volte si costruiscono tra agenti e ragazzi rapporti veramente importanti. Tutti lavoriamo per dare una speranza ai ragazzi, non solo ora con il Giubileo”. In carcere don Fabio è aiutato anche da un giovane sacerdote, poi ci sono i volontari e un bel gruppo scout: “La nostra è una presenza gioiosa. Con i ragazzi abbiamo costruito un rapporto semplice, spontaneo, ma profondo. Questo ci aiuta a entrare nella loro vita, si fidano di noi e accolgono quello che proponiamo loro che ha un nome: Gesù Cristo. Ci rivolgiamo a tutti, anche a ortodossi o musulmani, e a tutti proponiamo un’umanità piena. La sfida più grande, ma anche più preziosa, è questo rapporto con loro, che cerca di far emergere la bellezza della loro umanità, perché loro spesso si percepiscono brutti, feriti, come se non avessero nessuna possibilità nella vita se non fare quello per cui sono venuti in carcere. Annunciando il Vangelo, parlando di Gesù, ovviamente, annunciamo la speranza sempre”. Come stanno vivendo l’inizio dell’Anno Santo? “I ragazzi fanno fatica a comprendere il senso del Giubileo per loro, anche se ci stiamo lavorando, stiamo facendo degli incontri. La chiesa dell’istituto penale di Nisida è giubilare ed è venuto il vescovo di Pozzuoli, mons. Carlo Villano, c’è stata una celebrazione molto bella, il 4 gennaio, in cui sono stati coinvolti un po’ tutti, dalla magistratura agli educatori, agli agenti, ai ragazzi. È stato un momento sicuramente forte, ma ai ragazzi interessa se ci sarà l’indulto per il Giubileo, perché il loro obiettivo è uscire dal carcere il prima possibile”. Farete qualche iniziativa di carattere giubilare all’interno dell’istituto? “Vogliamo portare un gruppo di ragazzi a Roma al pellegrinaggio giubilare che si organizzerà come diocesi. Siamo stati già l’anno scorso a Roma dal Papa con una decina di loro, è stata una esperienza molto bella. Tra l’altro hanno parlato con Francesco perché il Papa si è fermato proprio da loro. Vorremmo ripetere questa esperienza in quest’anno del Giubileo”. Non solo: “Nell’istituto faremo la Via Crucis dei giovani della diocesi di Pozzuoli. Sempre per l’Anno Santo sto invitando i giovani delle parrocchie della diocesi a venire a celebrare la messa con noi a Nisida e in queste occasioni i ragazzi offrono una testimonianza del loro cammino di fede. Il dialogo che poi nasce sempre tra i ragazzi che sono a Nisida e i coetanei che vengono da fuori è sempre proficuo”. “Pucundria” nel carcere di Pozzuoli di Antonella Cilento La Repubblica, 9 febbraio 2025 Lo spazio del carcere è un topos frequentatissimo dalla nostra letteratura: se penso a un libro prezioso di venti anni fa, “Luoghi della letteratura italiana” di Giorgio Anselmi, dove si osservavano, fra le altre, le ricorrenze romanzesche di banca, chiesa, fabbrica, mi rendo conto che se il carcere è certo stato un protagonista di sempre, da Dumas a Silvio Pellico, oggi ha assunto nell’immaginario collettivo un peso diverso. Da luogo della vendetta, dell’ingiustizia, si è mutato in luogo del rispecchiamento dei destini, specie nella scrittura delle donne. Penso al recentissimo “Pucundria”, di Maria Rosaria Selo (Marotta e Cafiero), che ambienta nel carcere femminile di Pozzuoli, drammaticamente chiuso a maggio del 2024 a seguito dell’intensificarsi del bradisismo, l’avventura speculare di Teresa, agente cinquantenne che ha avuto una figlia da un uomo violento, che per poco non ha ucciso e scomparso da vent’anni, e di Anna, che invece il maschio violento l’ha ammazzato e per questo è detenuta. Al bivio, le scelte si sono divise ma Teresa non riesce a considerare Anna una vera colpevole e così tenta d’aiutarla (come in verità fa con ogni donna, dentro e fuori dal carcere) a realizzare un suo talento, l’arte della profumeria. In anni recenti il tema e il luogo erano anche in “Non smetto di aver freddo” di Emilia Bersabea Cirillo (L’Iguana), dove Dorina e Angela, antiche compagne di orfanotrofio, si ritrovano adulte in un carcere irpino, una in qualità di cuoca per le detenute, l’altra a scontare una lunga pena. Così pure in “Almarina” (Einaudi) di Valeria Parrella il fondale era il carcere minorile di Nisida, dove a incontrarsi erano una professoressa vedova e cinquantenne, Elisabetta, e una giovanissima detenuta rumena, Almarina. Al netto, insomma, di “Mare fuori” e delle derive soap e melodrammatiche del carcere, fondale crime alternativo ai medical in cui si rinnova il feuilletton odierno, al netto di gioielli cinematografici e teatrali come “Scugnizzi”, il carcere è ormai lo spazio dove le donne si incontrano e si guardano allo specchio. Maria Rosaria Selo aveva già adottato la fabbrica e le lotte sindacali (l’Italsider di Bagnoli) come scena delle sue personagge (un romanzo in stato di grazia intitolato “Vincenzina ora lo sa”, Rizzoli), e si muove di nuovo in uno spazio sociale per inscenare il suo dramma: il carcere di Pozzuoli è un fondale straziante, la bellezza irraggiungibile ma visibile dei Campi Flegrei, non meno terribile di quella negata di Nisida e del suo golfo, dove insistono tanto il carcere minorile quanto i resti dell’acciaieria di Bagnoli, è una protagonista. E ci sono anche Castel Volturno, la comunità africana, i padri Comboniani, le illusioni vacanziero-edilizie di decenni lontani trasformate in ghetto, la spiaggia di Ischitella, la Domiziana con le sue stragi. Si avverte l’intensità emotiva, in questo romanzo, dell’esperienza sul campo nel carcere dell’autrice e l’amore sfrenato per Pozzuoli (“il cielo di Pozzuoli mi accompagna e mi consola”): Maria Rosaria Selo ha firmato un atto d’amore, l’ennesimo, per una terra che genera la sua scrittura. “La pagina bianca è zona franca, è il luogo dove si adagia l’altro da sé, è uno specchio interno”, osserva Teresa spiando il laboratorio di scrittura delle detenute. E il coro dei drammi delle donne che il romanzo raccoglie, una rosa fatta di molti petali, a ognuna la sua pena, ci accompagna come un vero coro greco, pagina dopo pagina. Teresa lotta per il profumo di Anna, un profumo di donna che si avverte a ogni capitolo: “Mi metto paura di essere felice”, dice una delle molte anime di questo romanzo. E con questo è detto ciò che tante donne d’ogni età ancora provano, ciascuna nel suo personale carcere, non sempre chiuso da sbarre. Guardami in faccia. La speranza oltre le sbarre di Edoardo Sassi Corriere della Sera - La Lettura, 9 febbraio 2025 In occasione del Giubileo il 15 febbraio apre Conciliazione 5, “window gallery” proprio in via della Conciliazione, a due passi da San Pietro, con una mostra di ritratti ad acquerello di detenuti e operatori del carcere di Regina Coeli. Li ha realizzati Yan Pei-Ming.Uno spazio non grandissimo, circa trenta metri quadrati, ma visibile 24 ore su 24, illuminato anche di notte e direttamente affacciato sulla strada simbolo del pellegrinaggio, quella via della Conciliazione che da piazza Pia - da poco rinnovata - immette direttamente nel grande “catino” del colonnato berniniano e da lì nella Basilica di San Pietro. Una strada nella quale stanno transitando e transiteranno, così dicono le stime, trenta milioni di persone in occasione del Giubileo in corso. Questo nuovo spazio ha un nome: Conciliazione 5. Una funzione: galleria d’arte contemporanea. Un promotore: il dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano. E un obiettivo, strategico e assolutamente innovativo tanto più per la zona in cui è collocato: provare ad attirare non solo gli sguardi ma anche le coscienze di moltitudini di genti, altrimenti distratte da paninoteche, negozi di souvenir e quant’altro caratterizza da sempre questo luogo ad altissima densità turistica, anche prescindendo dagli Anni Santi. Conciliazione 5 - che si inaugurerà ufficialmente il 15 febbraio in concomitanza con il Giubileo degli artisti - tecnicamente è una window gallery, espressione in lingua inglese che indica un ambiente dove non si entra, ma che si può osservare solo dall’esterno. Un’idea pressoché inedita almeno per Roma (unico precedente, anche se di tutt’altro genere, “Edicola notte” a Trastevere) per la quale occorrevano contenuti adatti: opere d’arte di immediato impatto visivo e possibilmente su temi universali legati al messaggio cristiano, benché autonome e lontane da ogni stretta “confessionalità”. Una finestra dunque sempre aperta sull’arte e sulle sue capacità di misurarsi anche con i grandi temi del presente, possibilmente generando nuovi interrogativi, nuovi pensieri e riflessioni anche sul piano culturale e civile, oltre che spirituale. Promotore e inventore dell’iniziativa è il cardinale alla guida del dicastero della Cultura dal 2022, il prefetto José Tolentino de Mendonça, il quale ha deciso di affidare a un curatore di arte contemporanea - uno diverso per ogni anno che verrà, a garantire una pluralità di sguardi - un programma di esposizioni temporanee. Per il 2025, in coincidenza con il Giubileo, è stata scelta Cristiana Perrella, che nel suo curriculum vanta numerose esperienze di collaborazione con artisti impegnati sui temi della socialità. E Perrella ha deciso di inaugurare gli spazi di Conciliazione 5 con un inedito progetto dell’artista cinese, noto a livello internazionale, Yan Pei-Ming (1960). Pittore figurativo di immediato impatto, ritrattista (anche) di papi, sia del presente sia del passato - celebri i suoi d’après con rilettura contemporanea di uno dei più noti quadri della storia dell’arte, Innocenzo X di Diego Velázquez - Yan stavolta ha scelto di realizzare l’opera Oltre il muro. Regina Coeli, Roma, composta da 27 ritratti singoli, tutti delle stesse dimensioni (110 x 80 centimetri) e ad acquerello su carta, raffiguranti i volti sia di reclusi sia di operatori carcerari, persone che vivono o lavorano all’interno del più noto e antico istituto di pena di Roma, a poche centinaia di metri proprio dal Vaticano: Regina Coeli. Il Giubileo 2025 è infatti dedicato al tema della Speranza. E alle condizioni di vita di chi è in carcere allude lo stesso Papa Francesco nella Bolla d’indizione, Spes non confundit. Regina Coeli peraltro - come è ricordato nel testo che accompagna le opere d’arte esposte e che il pubblico potrà scaricare dalla strada tramite Qr code - “è un carcere con gravissimi problemi di vivibilità e sovraffollamento, primo in Italia per numero di suicidi, dove la Speranza è un sentimento difficile da concepire. Davanti alla sua facciata, sul lungotevere, in pieno centro storico, passano ogni giorno migliaia di persone. Poche si chiedono cosa ci sia oltre quel muro. E poco viene loro raccontato. Il carcere è un tema che non ha spazio nel dibattito pubblico e su cui c’è scarsa disponibilità all’ascolto”. Obiettivo dell’opera di Yan è dunque proprio quello di dare dignità di persone agli invisibili che quotidianamente si trovano Oltre il muro, ovvero oltre la facciata della prigione trasteverina sulla quale peraltro i 27 ritratti saranno proiettati il giorno dell’inaugurazione con una installazione luminosa visibile dopo il tramonto. Volti di detenuti, tutti condannati con sentenze definitive e di varie nazionalità, ma anche quelli di agenti della polizia penitenziaria, dei volontari, di un medico e del cappellano, volutamente esposti senza una precisa gerarchia che separi i “buoni” dai “cattivi”. Perché il carcere è una realtà durissima per tutti. “Sono individui - prosegue il testo che accompagna la mostra - ciascuno con la propria storia. Ce lo dicono i loro volti di cui l’artista restituisce, pure nella famosa velocità della sua tecnica, piena espressività e carattere. Dignità è ciò che va riconosciuto sia alle persone recluse, che pagano per i propri errori ma la cui essenza non si esaurisce nel reato commesso, sia a chi nel carcere lavora, spesso in condizioni di difficoltà inimmaginabili”. Persone dunque, con tanto di nome di battesimo ad accompagnare ogni singolo ritratto, cui restituire una precisa e dignitosa “individualità” tramite il nobilitante mezzo della pittura. Yan ha realizzato i 27 quadri a Shanghai, lavorando su fotografie scattate da Daniele Molajoli e con materiali di supporto - storie, aneddoti, descrizioni - raccolti dalla curatrice in prima persona durante alcuni sopralluoghi, con la mediazione della direzione e degli operatori carcerari: “Purtroppo quando il lavoro mi è stato affidato - racconta Yan - i tempi erano davvero strettissimi. Ma Cristiana e il fotografo sono stati bravissimi. Ovviamente avrei preferito scattare io stesso le immagini all’interno del carcere. Ma ritengo comunque, con i miei acquerelli, di essere riuscito a catturare la personalità di ogni membro dello staff e di ogni detenuto”. Yan - da sempre affascinato dai grandi maestri classici europei, cittadino francese dal 1990, inventore di un alfabeto pittorico personale assai riconoscibile, d’impianto realista e che predilige formati monumentali - fin dagli esordi si dichiara attratto “verso l’essere umano”: “Tutto il mio lavoro - conferma oggi - è orientato in questa direzione, l’uomo è al centro di ogni cosa, l’elemento fondamentale della mia pittura. Se mi chiedessero di creare un quadro astratto, non credo potrei farlo. Mi interessa l’individuo. Sono un pittore del nostro tempo e ritrarre la società isolata di un carcere mi sembra uno degli atti più simbolici di svelamento, una grande, vera possibilità di portare speranza”. Il tema degli “ultimi” è particolarmente nelle corde di Yan, che tra i suoi maestri conclamati cita Caravaggio, Goya, Van Gogh e anche il Manet di un quadro specifico: “L’Évasion de Rochefort, 1881, oggi al Musée d’Orsay di Parigi. Una tela che raffigura l’evasione del giornalista comunardo Henri Rochefort da una colonia penale in Nuova Caledonia e che mi ha molto influenzato. Sì, è vero - conferma il pittore - quello degli ultimi è un tema che ha ispirato artisti di ogni epoca. Me compreso. Questo però, mi piace ribadirlo, è un progetto sulla speranza, non basato unicamente sui carcerati, bensì sul carcere, luogo che non potrebbe funzionare senza guardie, medici, volontari, preti... Un insieme di umanità assai singolare. Con i detenuti che invece di restare chiusi in una cella partecipano attivamente al funzionamento della prigione, cucinano, puliscono, lavorano...”. Conciliazione 5, come spiega la curatrice Perrella, “è parte di un progetto più ampio che ha preso il via, sempre da un’idea del cardinale Tolentino de Mendonça, con la partecipazione del Vaticano all’ultima Biennale di Venezia, con un Padiglione nel Carcere della Giudecca che già raccoglieva il mandato di Papa Francesco a puntare i riflettori sul problema dei penitenziari e sulla condizione degli ultimi. A seguire è nato un programma di arte contemporanea per l’anno in corso, con il Giubileo degli artisti e l’imminente inaugurazione della window gallery di via della Conciliazione”. Attività anticipate dall’installazione, sullo stesso tema, di Marinella Senatore, collocata (ma non visibile al pubblico) all’interno di Rebibbia. Anche questa un’opera realizzata in collaborazione con detenuti, detenute, secondini, volontari, medici, e presentata in occasione dell’apertura della Seconda Porta Santa, il 26 dicembre scorso. I 27 ritratti ad acquerello di Pei-Ming resteranno esposti fino al 15 maggio. Poi, nello stesso spazio, la seconda delle quattro personali previste nel 2025. Protagonista sarà Adrian Paci (1969), artista albanese da oltre vent’anni in Italia, poetico cantore di soggetti legati al tema delle migrazioni. “Io, cappellano nel braccio della morte vi dico che c’è speranza anche lì” di Riccardo Maccioni Avvenire, 9 febbraio 2025 Dal 1998 Dale Recinella, ex avvocato di successo, accompagna spiritualmente i detenuti nelle carceri della Florida che attendono di essere giustiziati. La sua testimonianza raccolta in un libro. Se non è l’inferno, gli somiglia molto. Un posto che d’inverno fa freddo e d’estate così caldo che ti strapperesti via la pelle. Un luogo dove anche solo sperare è una scommessa, perché chi entra sa che non ne uscirà più. Eppure, persino lì è possibile seminare futuro, quello almeno che trova senso nella fede, che vive nella prospettiva dell’eterno presente che sarà. Dale Recinella, 73 anni, dal 1998 presta servizio come cappellano laico nel braccio della morte in Florida, cioè accompagna nell’ultimo tratto di vita chi decide di avvalersi del suo aiuto mentre attende di essere giustiziato. Uomini che si sono macchiati di crimini orrendi ma che spesso in carcere ritrovano sé stessi e il giusto significato da dare all’esistenza umana. Recinella parla di questa sua esperienza di frontiera nel libro “Un cristiano nel braccio della morte. Il mio impegno a fianco dei condannati” (Libreria Editrice Vaticana, pagine 192, euro 17), in cui racconta come in passato fosse un avvocato di successo, che maneggiava milioni di dollari a Wall Street per conto di facoltosi clienti. Poi il radicale cambio di vita, con il sostegno della moglie Susan. “Dio mi ha dato diversi segnali per orientarmi in quella direzione - spiega Recinella -. Uno dei primi è stato ascoltare il Vangelo del giovane ricco durante una Messa domenicale. Ricordo di aver chiesto a mia moglie: “Pensi che Gesù intendesse davvero dire quello che ha detto?” Quel pensiero ci ha portato a mesi di discussioni e poi a fissare un appuntamento con il nostro parroco. Posso dire che la domanda fatta quella domenica è stata un punto di partenza per molti passi del cammino spirituale fatto come coppia sposata”. Mi sembra che una malattia sia stata molto importante in questo senso, una specie di avvelenamento da ostriche. Cosa le successe? Fu un’esperienza di quasi morte provocata da un avvelenamento da ostriche per colpa di un batterio alimentare altamente letale. Quella vicenda mi ha portato a interrogarmi su come stavo spendendo il mio tempo, la mia mente e i miei soldi. Stando in ospedale senza sapere se avrei mai più rivisto i miei figli e baciato mia moglie, mi sono reso come tante cose che davo per scontate avessero in realtà molta più importanza di quanto credessi. Dio sa quanto posso essere testardo e quindi ha fatto in modo che gli amici della parrocchia e i consiglieri spirituali mi accompagnassero con le parole di Gesù per mantenere il mio sguardo nella direzione giusta. In questo modo il Signore mi ha provocato nuove domande, per esempio che cosa avevo fatto dei suoi doni. Fino a quel momento non avevo mai considerato capacità e risorse come benefici di Dio. Un altro interrogativo ha riguardato la gente che soffre: cosa fare per loro? Una prima risposta l’abbiamo cercata nella mensa dei poveri, destinata alle persone di strada che vivono all’ombra del nostro municipio. Persone che non avevo mai viste. Naturalmente, erano sempre state lì. Ma mi erano invisibili. In particolare, se non sbaglio, all’inizio c’è la storia di un senza dimora... Mentre imparavamo i loro nomi e le loro necessità, abbiamo cominciato a incontrare Gesù nei volti dei poveri. Ed è stato sorprendente accorgersi come a fare da sfondo a queste storie siano state le strade della città e poi i corridoi delle prigioni. Quante volte un detenuto mi ha riconosciuto e ha detto di ricordarsi di avermi visto anni prima alla mensa dei poveri! Lei è un cappellano laico che presta serve nel braccio della morte in Florida. In cosa consiste il suo servizio? Nella presenza. Inizialmente si trattava di passare davanti alle celle chiuse con sbarre d’acciaio, chiamando ogni detenuto per nome, chiedendogli come stava e come stava la sua famiglia. Il caldo estivo in quei corridoi è indescrivibile, perché nelle celle del braccio della morte non c’è aria condizionata e specialmente in agosto e settembre alle alte temperature si aggiungono gli effetti dell’umidità. Venti anni di servizio in quelle condizioni hanno avuto un grande impatto sulla mia condizione fisica. Così, circa tre anni fa, i vescovi della Florida hanno assunto un cappellano laico che mi succedesse. Un ex giocatore di football professionista, molto più giovane di me. Oggi io mi limito a fare consulenza spirituale e a seguire i condannati a morte. Cioè chi vive il cosiddetto deathwatch…. È il periodo che inizia dal momento in cui il governatore firma la condanna a morte fissando la data e l’esecuzione. Il detenuto viene immediatamente trasferito dalla sua cella nel braccio della morte a un’altra nella casa della morte, a circa 30 piedi (900 metri ndr) dalla stanza dell’esecuzione. Ma come si può trasmettere speranza a coloro che non hanno alcuna possibilità di lasciare il carcere? All’inizio c’è una domanda: cosa vuoi chiedere a Dio oggi? Sono rimasto sorpreso da quanti detenuti condannati chiedano preghiere per le loro famiglie e per gli amici, menzionando a malapena sé stessi. Si preoccupano soprattutto di pregare per la madre e i figli. A volte, chiedono di condividere con loro la mia storia di malattia dovuto al batterio. E preghiamo insieme per perseverare nella speranza e nella fede. Molti dei detenuti che lei descrive hanno una profonda vita spirituale. Possiamo dire che incontrano Dio in prigione? Dio non si nasconde da noi. È ovunque, sempre pronto a incontrarci. Alcuni uomini mi dicono che hanno trovato la fede in prigione. Altri l’avevano avuta in passato e se ne erano allontanati, per poi ritrovarla in carcere. Io ricordo sempre che siamo tutti in cammino, e che è meglio viaggiare con Gesù e con gli altri piuttosto che provare a farlo da soli. Lei accompagna i condannati a morte nelle ultime ore prima che vengano uccisi. Come riesce ad andare avanti dopo un’esperienza simile? Non si resta fermi nel cammino spirituale. O ci si muove in avanti, o si scivola indietro. Alla fine della mia ultima visita al condannato a morte, gli ricordo che, quando verrà il mio turno di presentarmi davanti a Dio, lo cercherò perché mi stia accanto e interceda per me. Ci diciamo addio ma è solo un arrivederci. Il libro esprime un deciso no alla pena di morte. A tal proposito, è stato molto importante l’insegnamento di Giovanni Paolo II. E oggi quello di papa Francesco che ne ha chiesto l’abolizione come segno giubilare. Però molti cristiani sono favorevoli. Cosa può dire a loro? Quando verrà il momento di presentarmi davanti a Dio e rendere conto delle mie scelte, Egli non mi chiederà se altri hanno scelto la vita o la morte. Mi chiederà cosa ho scelto io. Lei è costantemente a contatto con la morte, come fa a portare aventi il suo servizio? Siamo tutti in costante contatto con la morte e con la vita. Dove troviamo la forza per vivere? Le Scritture ci dicono che la nostra forza è nel nome del Signore, che ha fatto i cieli e la terra. Benedetto sia il nome del Signore (Salmo 113). La nostra umanità trae grande beneficio dal supporto dei fratelli e delle sorelle che ci confermano nella fede aiutandoci a restare saldi, soprattutto quando le ginocchia diventano deboli. Mia moglie, il mio pastore, i miei amici nella preghiera mi sostengono. E io ringrazio Dio per tutti loro. La malattia del secolo. Le nostre democrazie sono in decomposizione di Risso Enzo Il Domani, 9 febbraio 2025 Un morbo si aggira per il mondo. Un virus infettivo sta colpendo le principali nazioni occidentali. È la malattia del secolo, quella della democrazia. Un morbo che colpisce non solo le istituzioni, ma anche la cultura democratica, che alimenta ulteriori dinamiche di disfacimento del demos. Per il 52 per cento degli italiani la democrazia è lenta, ci vuole decisionismo e il 41 per cento ritiene le elezioni un rito ormai inutile. Per un altro 52 per cento non è importante partecipare alla vita politica e la grande maggioranza del paese preferisce soluzioni semplici, perché dietro quelle complesse ci sono sempre delle fregature (77). Metà del paese (50 per cento) predilige più ordine anche se significa meno libertà e il 39 avverte il bisogno di un leader forte disposto a infrangere le regole. Il 31 per cento giudica il parlamento un freno all’agire e auspica più poteri all’esecutivo e il 53 ritiene che l’Italia abbia bisogno di un leader vigoroso. L’interpretazione della politica - I sintomi del disfacimento del demos li ritroviamo anche nell’interpretazione della politica come un confronto tra buoni e cattivi (38); nel ritenere che “il nemico del mio nemico è mio amico” (36); nella difficoltà ad andare d’accordo con persone che esprimono opinioni politiche differenti dalle proprie (44). I dati tracciano l’affresco dei diversi fattori che partecipano al processo di disfacimento del demos. Un andamento in cui troviamo le dinamiche di erosione della legittimità istituzionale. La crisi di fiducia nelle istituzioni democratiche tradizionali erode le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa, mettendo in discussione la validità dei suoi meccanismi fondamentali. Un secondo aspetto che possiamo osservare è l’ascesa di un autoritarismo soft. La tendenza verso un decisionismo marcato e il desiderio di leadership forti indicano l’avanzare di quello che Colin Crouch definisce “post-democrazia”. Un ambiente in cui le forme democratiche persistono, ma il potere effettivo si concentra in figure autoritarie, creando una tensione tra efficienza e principi democratici. Una terza dinamica è l’affermarsi del simplism, il bisogno di semplificazione della politica. La preferenza per soluzioni semplici e la visione dicotomica della politica, raccontano l’insediarsi di una forma di democrazia post-consensuale. Un fenomeno che riduce la politica a scelte binarie, basate sull’individuazione di soggetti su cui scaricare ogni colpa, impoverendo il dibattito pubblico e la capacità di affrontare i problemi complessi. ?La dimensione della tribù è il quarto fenomeno che porta con sé la dimensione della politica attuale. La difficoltà di dialogo tra persone con opinioni diverse e l’adozione di logiche tribali (“il nemico del mio nemico è mio amico”), evidenziano una crisi del pluralismo democratico e l’affermarsi di una fandomizzazione (essere fan e non elettori) del confronto politico, che trasforma la politica in uno scontro tra tifoserie. Sintomi interconnessi - Il disinteresse per la partecipazione politica, infine, crea i presupposti per quella forma di democrazia fuggitiva (come la chiama lo scrittore americano Sheldon Wolin), in cui l’impegno politico diventa sempre più raro e transitorio. Un fenomeno che mina la base stessa della democrazia partecipativa, creando un vuoto che può essere facilmente riempito da forze antidemocratiche. Le tendenze identificate non sono fenomeni isolati, ma sintomi interconnessi di una trasformazione del rapporto tra cittadini, istituzioni e potere. Le fratture sociali e i fenomeni esistenziali che attraversano la società incidono sulle dinamiche della democrazia. L’enfasi sull’individualismo erode il senso di solidarietà e promuove una visione della libertà basata sull’affermazione di sé e non sul dialogo. La competizione al profitto alimenta le disuguaglianze e la polarizzazione sociale, rendendo fragile la difesa dei beni pubblici e degli spazi di convivenza civica. Le dimensioni della società dell’applauso e dei like sostituiscono la politica inclusiva: i cittadini sono sempre più visti come consumatori e le scelte politiche come una merce da vendere sul mercato, mentre il dissenso è marginalizzato o considerato irrazionale. L’emergere delle post-verità, infine, mina le basi razionali del dibattito pubblico, sostituendolo con la fiction permanente. La sfida per il futuro della democrazia non è una difesa d’ufficio dei suoi principi, ma è un confronto per l’egemonia sul futuro, per consolidare il modello democratico e sviluppare una cultura politica inclusiva e capace di affrontare le sfide complesse del nostro tempo. Nota metodologica - Rilevazioni Cawi multiple su panel Ipsos digital, campione nazionale di 800 soggetti maggiorenni, segmentati per sesso, età e zona di residenza realizzata tra settembre e novembre 2024. Per opporci al male gridiamo il nostro no di Simona Forti Il Dubbio, 9 febbraio 2025 È inevitabile che in questi tempi bui, in un passaggio d’epoca senza precedenti per chi è nato dopo la seconda guerra mondiale, il linguaggio per nominare ciò che sta accadendo sia incerto. Tentiamo di coniare nuovi termini, ma spesso i concetti che cercano di esprimere non mordono ancora. Eccoci allora a recuperare le espressioni che il Novecento ha usato per spiegare il proprio male politico. L’idea di male ha una storia lunga e complicata. È un’idea controversa, a ragione contestata. Non da ultimo perché è stata impugnata spesso come un’arma per demonizzare l’avversario e squalificarlo moralmente. Tuttavia, puntualmente, a quella parola facciamo ritorno, quasi che solo essa potesse rispondere a una radicale domanda di senso. Quasi che solo essa riuscisse a dar voce all’intensità della nostra indignazione e della nostra paura, a nominare qualcosa che accade, ma che sentiamo che non sarebbe dovuto accadere. In questi ultimi tempi, per esempio, si è tornati a parlare con insistenza di “banalità del male”. L’espressione è sicuramente d’effetto ed è uscita dal piccolo cerchio degli studiosi per entrare nel lessico comune. La sentiamo spesso citare nei dibattiti dei talk show; la leggiamo negli articoli di giornale. Perlopiù, se ne parla per riferirsi al terribile scarto tra la qualità mediocre, banale, di un soggetto e la gravità degli effetti che le sue parole e le sue azioni producono. E non c’è dubbio che la politica odierna si presti assai bene a confermare questa ipotesi. Siamo circondati da figure politiche con poche competenze, inesperte o peggio, che tuttavia hanno tra le mani un potere enorme. E non abbiamo bisogno di andare oltre oceano per osservare sgomenti come l’intreccio di superficialità e ferocia stia diventando una miscela esplosiva: ministri che non si scomodano nemmeno a coordinare le versioni ufficiali per giustificare il rilascio di un boia torturatore; fedeli scudieri politici che rilasciano dichiarazioni aberranti, facendole passare per simpatiche provocazioni alle noiose litanie woke. Intende qualcosa di simile Hannah Arendt quando conia l’espressione per comprendere la tragedia nazista. Tuttavia, c’è di più, e di più profondo, nella sua “banalità del male”. Inviata dal New Yorker a seguire il processo Eichmann a Gerusalemme, nel 1963 pubblica i vari resoconti in volume, intitolandolo Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. Con quel titolo, il libro ha un immediato effetto esplosivo. I circoli intellettuali ebraici degli Stati Uniti, di cui Arendt stessa faceva parte, le dichiarano guerra. Tra le molte accuse rivoltele, imperdonabile era il suo ritratto del criminale nazista come un uomo banale, superficiale, che in nulla rimandava alla nera grandezza demoniaca che da lui ci si sarebbe aspettati. Più in generale, scandalosa era quella formula che attribuiva al male, a quel male, una dimensione ordinaria, normale, appunto “banale”. Molti storici, in realtà, hanno poi smentito la descrizione che del ruolo di Eichmann aveva dato Arendt, e per quanto mi riguarda non ho mai trovato il termine banalità del tutto felice. Non è però questo il punto. Quello che è importante è che con quell’idea la filosofa tedesca di origine ebraica non aveva affatto voluto sminuire la portata della tragedia, aveva invece diretto l’attenzione sulla tremenda capacità devastatrice dell’assenza di pensiero e di giudizio. Il problema non era costituito soltanto dalla volontà di potenza degli ideatori del genocidio nazista, ma anche dalla passività e dal silenzio di chi a quel progetto aveva dato l’assenso, pur senza condividerne le motivazioni. Perché è così che il male scrive il proprio copione: ha bisogno, certo, di protagonisti neri, assetati di dominio, ma questi, da soli, non hanno la forza di scardinare un mondo. Il male dilaga e devasta solo se tanti uomini e tante donne comuni, normali, banali, grigi, li sostengono, con il loro opportunismo, il loro silenzio, la loro indifferenza. Il male, insomma, è si un sistema, un intreccio, ma di tanti soggetti diversi, che hanno nomi e cognomi; di attori e di spettatori, colpevoli in maniera e in misura differente, ma tutti responsabili per ciò che hanno fatto o per ciò che hanno lasciato fare. Quello che sta accadendo oggi è ancora una volta un intrico che rischia di essere fatale: l’intrico perverso tra volontà di sopraffazione e sfruttamento, da una parte, e disposizione all’acquiescenza, dall’altra. Nella fattispecie, risponde a un desiderio di onnipotenza il pericoloso incastro tra capitalismo oligarchico -- che ha ora bisogno di mandare all’aria gli “intralci” rappresentati dalle democrazie costituzionali e dagli organismi internazionali - e i disegni egemonici delle estreme destre sovraniste. Ma ancora una volta potrebbe essere la nostra inazione a suggellare il successo di quel desiderio. Come scriveva pochi giorni fa su The Guardian Judith Butler, non a caso vicina al pensiero di Arendt, rimanere paralizzati di fronte a ciò che sta accadendo significa consegnarci alle passioni fasciste che stanno scuotendo il mondo. C’è solo un modo per opporci al male, a quello banale e a quello eccezionale: alzarci in piedi, uscire per strada insieme, e dire, a voce alta, no, grazie. Sulle migrazioni è giunta l’ora di una grande alternativa solidale di Andrea Segre Il Domani, 9 febbraio 2025 Le democrazie occidentali sono sotto attacco, la breccia nei diritti è sempre più larga. La politica securitaria registra solo immani fallimenti (lo dicono i numeri): è tempo che partiti, associazioni e cittadini si uniscano per costruire un programma di svolta sul tema dei flussi migratori. Prima che sia troppo tardi. Il caso Almasri e il fallimento dei centri in Albania aprono una breccia e offrono una grande occasione. È ormai evidente sia che l’epocale questione delle migrazioni è la ferita inevitabile che sta scuotendo il mondo sia che le destre globali hanno deciso di usarla per attaccare il corpo sociale e politico delle democrazie occidentali e costruire il loro nuovo potere in difesa dei privilegi e delle oligarchie. Ahinoi anche in questa storia l’Italia ha anticipato le tendenze della politica internazionale, portando al governo gli eredi di uno dei partiti postfascisti più antidemocratici che la storia d’Europa conosca, il Msi, e aprendo una breccia nella tenuta dei principi e dei diritti democratici di tutto il continente. Non è un caso che ciò sia successo in Italia, vista la forte esposizione che il nostro Paese ha rispetto ai movimenti incontenibili del sud del mondo. Democrazia destabilizzata - Ma ora è proprio l’Italia che, con la notorietà internazionale che il caso Almasri e la vicenda albanese stanno avendo, può offrire l’occasione di rendere evidente anche ai più distratti o impauriti la falsità, l’inefficienza e la pericolosità delle politiche securitarie con cui la destra sta destabilizzando le democrazie, per altro senza minimamente poter (e in realtà anche voler) risolvere il problema. Il caso Almasri dimostra che lo scopo di queste politiche è in realtà rafforzare i trafficanti, trasformarli nei nuovi poteri dei paesi confinanti e consolidarli come alleati solidi di un progetto antidemocratico; progetto che chiaramente vede nei diritti tutelati dalla Corte penale internazionale e dalla giustizia in generale i grandi nemici da abbattere. Stesso scopo ha il fallimento strategico dei centri in Albania: lo scopo è non farli funzionare per dimostrare che il nemico è la Giustizia. Chiaramente entrambe le cose vengono fatte con abuso di ufficio, minando la sicurezza nazionale e sperperando ingenti risorse pubbliche: d’altronde è normale che per sovvertire l’ordine costituzionale la destra non lo rispetti, ma lo attacchi spudoratamente nella speranza (fondata) che venti anni di paure e tensioni sulle migrazioni aiutino a distrarre l’opinione pubblica. Paura e confusione - L’evidenza spregiudicata di questo progetto offerta dai due casi può essere usata per svegliare una parte consistente dell’opinione pubblica dalla paura, confusione e distrazione che attraversano le nostre società. Per farlo credo serva l’unione di tutte le forze democratiche, antifasciste e antirazziste che sfruttino l’occasione per costruire insieme un programma chiaro di alternativa all’uso antidemocratico che la destra fa della questione immigrazione. Un’alternativa capace di far capire che le migrazioni si affrontano e si rendono meno pericolose non facendo alleanze con torturatori criminali o sperperando soldi pubblici per centri illegali in paesi terzi, ma gestendo e controllando flussi regolari di mobilità, ovvero facendo incontrare la necessità e il diritto del sud di muoversi con la necessità e il diritto del nord di ricevere e controllare. La forza dei numeri - Ricordiamo con chiarezza che in venti anni di follie securitarie di vario tipo l’Italia ha visto aumentare la popolazione straniera del 1.000 per cento, da 500mila del 2004 a 5,5 milioni del 2024: non abbiamo fermato il cambiamento globale in corso, abbiamo solo ucciso migliaia di persone, arricchito i vari Almasri e portato l’estrema destra al potere, creando ferite indelebili nella nostra democrazia e in quella europea. Quindi, ora che è tutto chiaro, mettiamoci tutti insieme per proporre ai cittadini e alle cittadine (italiani/e e no, ovviamente) un’alternativa seria a questo immane fallimento: ci sono le idee, le esperienze e anche i soldi per farlo (se no non riuscirebbero a finanziare anche cose illegali e inutili). Cos’altro aspettiamo? Mi auguro che partiti, associazioni e movimenti si uniscano per lanciare insieme la costituente di un’alternativa democratica e solidale verso un futuro delle migrazioni e delle nuove società interculturali basato non su odio e violenza, ma su giustizia e reciprocità. Prima che sia davvero troppo tardi. Migranti. Da Palermo nuovo stop ai trattenimenti di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 febbraio 2025 Sei nuovi rinvii pregiudiziali in Europa. Ma stavolta dalla Corte d’appello. D’accordo anche Angelo Piraino, ex segretario di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Altre sei richieste di convalida del trattenimento di richiedenti asilo sono finite davanti ai giudici del Lussemburgo. Si vanno ad aggiungere alle decine di quesiti analoghi sollevati negli ultimi mesi. Questa volta, però, a rinviare in Europa è stata la Corte d’appello di Palermo. La data in calce ai provvedimenti, che riguardano cittadini stranieri rinchiusi nel centro di Porto Empedocle per le “procedure accelerate di frontiera”, è il 4 febbraio scorso. I migranti erano sbarcati il giorno precedente a Lampedusa. Dal capoluogo siciliano arriva un doppio, durissimo colpo alla strategia del governo: riguarda sia il piano legislativo sia quello comunicativo. Per la seconda volta, dopo il rifiuto di convalidare i trattenimenti in Albania da parte della Corte d’appello di Roma, è stato dimostrato che trasferire la competenza sulla materia dalle sezioni specializzate in immigrazione non ha ribaltato l’esito dei procedimenti, come sperava l’esecutivo. Non solo: a Palermo il tribunale di primo grado aveva liberato la stragrande maggioranza dei richiedenti asilo trattenuti nel centro dell’agrigentino, su cui ha la competenza distrettuale, senza entrare nel merito della designazione dei “paesi sicuri”. Cosa che invece ha fatto l’organo giudiziario di secondo grado chiedendo alla Corte Ue se è possibile una tale classificazione quando viene “concretamente riscontrata la violazione in danno di una o più categorie di persone dei diritti inderogabili previsti dall’articolo 15 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Ma c’è un secondo aspetto rilevante dei pronunciamenti siciliani. In occasione delle ultime non convalide capitoline sull’Albania il governo aveva gridato al complotto affermando che la magistratura aveva imbrogliato il parlamento perché dopo la decisione di trasferire le competenze dalla sezione specializzata alla Corte d’appello erano stati trasferiti anche alcuni giudici per far fronte al nuovo carico di lavoro. Quindi tra quelli che hanno liberato i richiedenti asilo in secondo grado a gennaio, c’erano dei magistrati che lo avevano fatto in primo grado a ottobre e novembre (gli altri due round delle deportazioni oltre Adriatico). A Palermo, invece, nessuno dei sei giudici che hanno firmato i provvedimenti, dimostrando un orientamento unanime della Corte, viene dalla sezione immigrazione. Una di queste decisioni è stata presa da Angelo Piraino, segretario fino a gennaio 2024 di Magistratura indipendente. Ovvero la corrente di destra dei giudici: altro che “toghe rosse”. Per il governo è un segnale. Alla fine gli unici effetti del suo intervento per assegnare la competenza di questa parte della materia relativa alla protezione internazionale, complessa e con tempistiche stringenti, saranno l’ingolfamento degli organi giudiziari di secondo grado e l’allontanamento degli obbiettivi di riduzione degli arretrati imposti dal Pnrr. Basti pensare che la Corte d’appello di Palermo è una di quelle più cariche di pendenze a livello nazionale. Migranti. Ritardi e litigi bloccano i soldi per il “ghetto” di Borgo Mezzanone di Luigi Simonelli e Federica Tessari L’Espresso, 9 febbraio 2025 Il Pnrr stanzia quasi 54 milioni di euro per dire addio all’accampamento lager dei braccianti nel Foggiano. Fondi finora non spesi per le beghe tra Comuni e governo. In assenza di un vero progetto. Lo scorso 24 gennaio c’è stato l’ultimo incontro istituzionale tra la sindaca di Foggia, Marida Episcopo, e il sindaco di Manfredonia, Domenico La Marca, per trovare la quadratura del cerchio all’impiego dei quasi 54 milioni di euro di fondi Pnrr per il “superamento degli insediamenti abusivi per combattere lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura”. Fondi assegnati, dal 2022, al Comune di Manfredonia per il “ghetto” abitato dai braccianti di Borgo Mezzanone (che sta, appunto, tra le due città). Ancora una volta, però, la soluzione non si è trovata e questi 54 milioni di euro restano a oggi inutilizzati, senza che vi sia una garanzia di progetto per il loro uso a livello locale e di governo. I fondi appartengono alla linea d’intervento del Pnrr volta al superamento degli insediamenti abusivi che conta un complessivo di 200 milioni di euro, la cui metà è destinata alla sola provincia di Foggia. Tuttavia, nel “ghetto” di Borgo Mezzanone, sorto sull’ex pista aeroportuale della Nato, non è ancora stato effettuato un censimento ufficiale e i suoi abitanti, ovvero i beneficiari del progetto Pnrr, non sono mai stati coinvolti nella progettualità da nessun attore istituzionale. Nonostante la scadenza per l’intervento su Borgo Mezzanone sia stata prorogata a giugno 2026 su richiesta degli enti locali, permane l’impasse amministrativa. Sia il Comune di Foggia sia quello di Manfredonia, in tempi diversi tra il 2019 e il 2024, sono stati commissariati per infiltrazioni mafiose e questa “vacanza della politica”, come l’ha definita l’assessora foggiana alle Politiche sociali, Simona Mendolicchio, ha intaccato il dialogo tra diversi livelli istituzionali, impedendo l’avanzamento nel progetto Pnrr. Ma i due sindaci parlano di “latitanza del governo” nell’ultimo anno e mezzo, attribuendo all’esecutivo la responsabilità dei ritardi, a causa della scarsa apertura alle loro richieste. I ritardi e il ridimensionamento del Piano d’azione locale (Pal), presentato dai Comuni per l’uso dei fondi, sono dovuti alla scadenza sempre troppo ravvicinata del Pnrr e allo squilibrio tra fondi infrastrutturali (70 per cento) e non infrastrutturali (30 per cento), destinati, secondo Episcopo, a “misure di accompagnamento sociale, pedagogico, anche sanitario, da cui non si può prescindere”. La Marca evidenzia che quel 70 per cento di fondi sarebbe ora destinato alla sola realizzazione di prefabbricati a Borgo Mezzanone e Borgo Cervaro, per “bruciare i tempi” del progetto, sottolineando però che le misure sociali devono procedere in parallelo alle infrastrutture per evitare altre “cattedrali nel deserto”. “È difficile per noi firmare una convenzione, se non ci assicurano che, una volta edificate le case, che siano prefabbricati collocati sui nostri terreni o edifici rigenerati, vengano finanziate tutte le misure correlate”, afferma Episcopo. Un piccolo segnale di ascolto da Roma sembrava essere arrivato a giugno scorso, con la nomina del commissario straordinario per il superamento degli insediamenti abusivi, Maurizio Falco, che ha sollecitato i Comuni a un uso spedito dei fondi, fissando la scadenza di marzo 2025, ma che poi ha assecondato le richieste locali per la proroga a giugno 2026. Prima di Falco, neppure l’istituzione di un tavolo tecnico per lo stato di attuazione del Pal, con il Politecnico di Bari e la Regione Puglia, aveva portato a un progetto definitivo, producendo solo un ulteriore stanziamento regionale di 40 mila euro, in collaborazione con l’Università “Aldo Moro” di Bari. Secondo La Marca, un altro ostacolo alla realizzazione del Pal per il “ghetto” foggiano è l’indisponibilità del governo di prevedere misure di regolarizzazione che permetterebbero, invece, di “facilitare un percorso d’inclusione e creare delle condizioni formative”, mentre, aggiunge la sindaca Episcopo, “sono arrivate solo misure estemporanee e si lotta per non farle scadere, come questa del Pnrr”. Eppure, per i braccianti di Borgo Mezzanone l’importanza della regolarizzazione per sfuggire al caporalato pare evidente, dato che - in mancanza della stessa - dopo la demolizione del “gran ghetto” di Rignano Garganico nel 2017 solo pochi migranti si sono trasferiti nei prefabbricati della Regione Puglia. L’esodo della maggioranza verso il nuovo ghetto di Torretta Antonacci mostra “come difficilmente le persone possano allontanarsi dalle aree in cui abitano, se prima non vengono offerte alternative concrete”, sottolinea il gruppo di ricerca dell’Università e del Politecnico di Torino guidato dal docente Antonio Stopani. Negli ultimi sei mesi, le amministrazioni hanno politicizzato l’implementazione del progetto, invece di affrontarlo tecnicamente, e “sono molto più propense a evocare il tema della sanatoria come unica condizione per poter approcciare la popolazione degli attuali insediamenti informali”: lo evidenzia il gruppo di ricerca sottolineando che chi vive nel “ghetto” si affida ai legami sociali lì creati e che i prefabbricati da soli non possono sostituire. In un contesto segnato dal permanere di ritardi e dall’assenza di garanzie sostanziali sulle richieste dei Comuni, l’intervento pubblico con fondi Pnrr deve assicurare il doppio binario infrastrutturale e sociale perché, come ricorda La Marca citando don Tonino Bello, “non basta il posto letto se non sai dare la buonanotte”. Chi cancella le Corti internazionali cancella noi di Andrea Malaguti La Stampa, 9 febbraio 2025 I fili storici si spezzano uno dopo l’altro. E la nostra memoria con loro. L’assedio alla Corte penale internazionale dell’Aja, nata dalla conferenza di Roma del 1998 per occuparsi di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è preoccupante. Stati Uniti e Israele l’attaccano. L’Europa la difende e la scuda. L’Italia, rompendo nuovamente il fronte delle alleanze continentali, dopo l’imbarazzante caso Almasri, ignora la scelta di Bruxelles e si schiera con Donald Trump e Benjamin Netanyahu, due uomini per cui, parafrasando Alan Minc su Macron, ogni evento deve collocarsi nel romanzo che essi stessi scrivono delle loro vite. Ego di dimensioni mongolfieriche, ormai padroni del nostro destino. Perché gli crediamo mentre piegano alla loro volontà i valori in cui noi occidentali supponevamo di ritrovarci? Perché hanno consenso? Perché, in definitiva, il vento tanto violento quanto impalpabile delle loro parole ha acquistato un peso definitivo e trascina con sé anche il governo italiano? Due sere fa ero ad un incontro al Polo del ‘900 di Torino assieme all’ambasciatore Pietro Benassi e alla storica Anna Foa, autrice de Il suicidio di Israele, uno dei libri più belli, diretti e controversi di questi ultimi anni. La sala era piena. Soltanto per quel titolo, coraggioso e preciso, Foa, impegnata da sempre sulla sensibilizzazione delle nuove generazioni alla conoscenza della Shoah, è oggetto da mesi di un linciaggio strisciante. A un certo punto ha detto: “Molti hanno dimenticato i motivi per cui nascono le corti internazionali di giustizia. Bene, uno di quei motivi è la Shoah”. Lo sterminio di sei milioni di ebrei rastrellati in ogni luogo e poi il processo di Norimberga, i nazisti alla sbarra, da Hermann Goring a Rudolf Hess. La storia che si ricostruisce. L’orrore ricondotto nel suo recinto. Spiegato. Elaborato. Finalmente conosciuto. La memoria, la nostra, quella di Israele, che prende forma per aiutarci a non precipitare nuovamente nell’abisso. Una corazza contro la follia. Interessa ancora a qualcuno? “Oggi la giustizia internazionale attaccata da Israele rappresenta anche un attacco alla memoria”, dice Foa a un uditorio che la applaude con vigore. Come si ferma questo disastro? Una domanda alla quale è chiamato a rispondere anche il governo Meloni alla vigilia del Giorno del Ricordo, la commemorazione dei massacri delle foibe. La destra, novecentesca o del nuovo millennio, si è battuta a lungo per il giudizio di una corte su quegli orrori, per accusare gli infoibatori, inchiodarli alle loro responsabilità, ricostruire quei giorni, restituire quel capitolo feroce ai libri di scuola, rivendicare le lapidi e le celebrazioni. Consegnare alla presenza del Capo dello Stato (il primo a piegarsi davanti alle lapidi di Basovizza fu Cossiga, poi Ciampi portò il ricordo al Quirinale) il riconoscimento di una catastrofe umanitaria. E ora? Possibile che a nessuno venga in mente una sovrapposizione tra ciò che furono costretti a subire i giuliano-dalmati, il loro esodo, e il destino del popolo palestinese considerato alla Casa Bianca un fastidioso pacco postale da allontanare dalla Striscia per essere depositato in un ipotetico e confinante altrove, così da consentire all’aristocrazia americana di giocare a beach volley a Mar-a-Gaza? Non sarà che la destra ha abbandonato le proprie idee con la stessa naturalezza con cui certe persone abbandonano una festa noiosa? Bisogna fare attenzione ad attaccare i tribunali internazionali. Bisogna avere paura di seppellire la memoria. Senza contare che i continui ammiccamenti di Roma a Washington, dai dazi all’Ucraina, dal Medio Oriente ai tribunali penali, fanno pensare che il rapporto con Donald Trump non sia gratuito. Come ci comporteremo quando saremo tenuti a scegliere, in modo chiaro, tra lui e l’Europa? Il discorso, per certi versi epocale, del Presidente della Repubblica a Marsiglia, segnala con chiarezza la presenza di un bivio. Se un uomo prudente ed equilibrato come Sergio Mattarella evoca i neo-feudatari del terzo millennio che usurpano la democrazia, puntando il dito contro le mosse da Terzo Reich di Trump, Musk e Putin, significa che il confine che divide la stagione degli allarmi da quella dei conflitti espliciti è sempre più sottile. Il Colle e Palazzo Chigi interpretano in modo opposto i segnali del tempo. Un rischio letale per Mattarella, un nuovo orizzonte per la presidente del Consiglio, che, dall’esplosione del caso Almasri e del conflitto clamoroso e inedito tra i nostri 007 e la Procura di Roma, non ha ancora fatto sentire pubblicamente la sua voce, segno che la crisi è seria. Alimentata, per giunta, dalle uscite infelici del ministro Nordio e dalle accuse velenose del patriota Matteo Salvini che parla di “regolamento di conti all’interno dei servizi segreti”. Ora, i servizi sono da sempre un elemento di disordine, ma anche la spia dello stato di salute dei governi. I ricambi ai vertici hanno prodotto scossoni non ancora completamente assorbiti. E se la prima linea di comando è saldamente schierata con Palazzo Chigi, è difficile dire lo stesso di chi è rimasto legato ai comandi precedenti. Assestamenti tellurici. Scosse pericolose, apparentemente in assorbimento, che di sicuro non migliorano l’umore di Giorgia Meloni giunta al momento forse più complicato della sua esperienza alla guida del Paese. Un tempo si sarebbe detto che ha un bisogno urgente di difendere la propria credibilità, ma oggi serve ancora la credibilità per tenere salde le redini di un Paese? O è sufficiente salire sul carro del più forte - quello Musk-trumpiano - sperando di non essere scaraventati fuori alla prima curva? I maestri dell’indicibile hanno preso il sopravvento. Le parole pesano quanto la carta velina, non c’è più neppure bisogno dell’illusionistico tentativo di dare solidità al vento. Fuori dal Polo del ‘900, finito l’incontro con Anna Foa, un professore torinese di liceo mi avvicina. Mi dice: lei la conosce la storia di Garibaldi in Inghilterra? “Qualcosa”, mi difendo. Mi spiega: “Arrivato a Londra nel 1864, Garibaldi trovò ad attenderlo a Trafalgar Square 500mila inglesi in delirio. La sua popolarità era tale da indispettire la Regina Vittoria che chiese al suo primo ministro: perché quel socialista con la camicia rossa è così popolare? La risposta fu: perché Garibaldi è un uomo che dice ciò che pensa, fa ciò che dice, è ciò che fa”. Bell’aneddoto. Che porta all’ennesima domanda: perché la coerenza e la credibilità non sono più necessari per creare un rapporto di fiducia con i propri elettori? Perché viviamo nell’epoca del tempo breve. Della Grande Accelerazione. E degli smarrimenti. Quella in cui la politica, incapace di stare al passo con i tempi, si affida alla scommessa più facile: l’annuncio. Non serve dimostrare, basta dire. La credibilità è stata sostituita dalla creduloneria, le convinzioni dalle illusioni. E in questo gioco delle tre carte nessuno è più bravo dei turbo populisti. Donald Trump guarda negli occhi i suoi elettori e non ha paura delle sue parole: “Ehi, amico bianco texano, io preferisco te a qualunque messicano”. E lui, felice di essere stato visto, di avere trovato qualcuno che gli chiede come sta, non ha dubbi su che cosa fare nell’urna. La sinistra, invece, da quanto tempo non chiede ai propri elettori come stanno, da quanto tempo non affianca le domande sugli emarginati a quelle su chi, dopo una vita tranquilla, si sente risucchiato nel pozzo delle incertezze? Sarebbe una domanda utile, mentre l’internazionale Maga-Mega, guidata da Elon Musk, si raduna a Madrid al grido di “meno Europa, più libertà”, come se non fosse proprio il Vecchio Continente, da ottant’anni, il posto in cui si vive meglio nel pianeta. Loro sì - gli Orban, i Salvini, i Le Pen e gli Abascal - andrebbero accompagnati con un po’ di vigore a Mosca o a Pechino per vedere l’effetto che fa. Ma i progressisti non hanno fiato, mentre le destre xenofobe, suprematiste e ultranazionaliste, che marciano unite nel nome di Starlink vibrano orgogliosamente all’unisono come il soprano e il tenore di un’opera lirica, dove, come cantava Lucio Dalla, ogni dramma è un falso. Stati Uniti. Il rischio della via illiberale di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 9 febbraio 2025 Le mosse di Trump e i pericoli per la democrazia americana. L’impressione sempre più diffusa è che il presidente americano stia cercando di estendere i confini dell’autorità esecutiva a scapito del sistema giudiziario e di quello legislativo. Nel suo discorso d’insediamento, Donald Trump aveva annunciato che i suoi primi cento giorni avrebbero provocato shock and awe, scossoni e panico. In effetti, la metafora militare (coniata ai tempi della guerra in Iraq) sembra aver ispirato la sfilza di provvedimenti varati fino ad oggi su materie molto delicate. Ogni presidente eletto ha il diritto di realizzare il proprio programma. Ma nelle democrazie liberali il decisionismo ha dei limiti. E a molti sembra che Trump li stia oltrepassando. Negli Usa il legame fra democrazia e liberalismo è solido e radicato. Gli scossoni di Trump hanno tuttavia preso di mira alcuni capisaldi dello stato di diritto. Il provvedimento sulla cittadinanza, che ha eliminato lo ius soli, viola ad esempio il quattordicesimo emendamento della Costituzione e potrebbe privare retroattivamente della nazionalità migliaia di minori. Anche l’attacco all’eguaglianza di opportunità suscita dubbi. Da un giorno all’altro il presidente ha soppresso ogni iniziativa e ufficio pubblico per la tutela della diversità, dell’equità e dell’inclusione, sovvertendo un sistema di garanzie di legge in vigore dagli anni Sessanta. Sul fronte dell’immigrazione, una serie di misure ha aperto la strada alla deportazione forzata di milioni di irregolari. Molti verranno detenuti nella base di Guantanamo, nota per le sue violazioni dei diritti fondamentali. Forte della convinzione che le persone siano o maschi o femmine, Trump ha disposto poi il trasferimento delle detenute transgender in carceri maschili, esponendole a rischi di abusi e violenze. Sul fronte amministrativo, il nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), affidato a Elon Musk, ha forzato l’accesso a banche dati federali, in violazione dei diritti alla privacy. Molti uffici pubblici sono stati aboliti e alcune figure apicali del governo (come gli ispettori generali) sono stati licenziati con procedure improprie. L’impressione sempre più diffusa è che Trump stia cercando di estendere i confini dell’autorità esecutiva a scapito del sistema giudiziario e di quello legislativo. Ciò emerge in particolare dall’abuso di uno strumento: l’ordine esecutivo presidenziale. Tutti i presidenti se ne servono per allineare l’azione del governo federale al proprio programma. Ma sono obbligati a rispettare la Costituzione e le leggi esistenti. Questa regola è un pilastro portante del sistema di pesi e contrappesi, volto a evitare l’eccessiva concentrazione di autorità e il suo esercizio arbitrario. Sappiamo che Trump è un ammiratore di Orbán e che Elon Musk strizza l’occhio alla destra europea più radicale. C’è davvero il rischio di una retrocessione illiberale della democrazia più importante del mondo? Lo stato di diritto è un costrutto fragile, ma non è privo di risorse per l’autodifesa. I poteri sfidati (legislativo e giudiziario) possono infatti reagire agli attacchi dell’esecutivo, contrastando gli scossoni senza cader vittima del panico. È ciò che in parte sta accadendo. Ventidue stati e alcune grandi città (inclusa la capitale), unitamente a varie associazioni di immigrati, hanno fatto causa alla Presidenza e ottenuto da un giudice federale la sospensione del provvedimento sulla cittadinanza. Alcuni procuratori statali hanno citato in giudizio il Doge di Elon Musk per i suoi tentativi di infiltrarsi nei centri nevralgici del governo federale. Anche in seno al Congresso sta crescendo la frustrazione. Trump ha la maggioranza in entrambe le Camere, ma i margini sono stretti e il sostegno di pochi parlamentari repubblicani recalcitranti consentirebbe di bloccare alcuni ordini esecutivi lesivi delle prerogative del Congresso. Un senatore repubblicano ha già sottoscritto una lettera di protesta insieme ai democratici contro il licenziamento degli ispettori generali. Per ora Trump e il suo entourage non sembrano eccessivamente preoccupati: gli scossoni continuano. Il tiro alla fune potrebbe presto finire al vaglio della Corte Suprema, cui la Costituzione americana assegna la funzione di arbitro in caso di conflitto tra poteri o controversie sui diritti fondamentali. I nove giudici della Corte sono di nomina politica e il loro incarico è a vita. Attualmente i giudici conservatori sono sei. Una sentenza della Corte che desse ragione a Trump su qualche tema di rilevanza emblematica potrebbe spianare la strada alle ambizioni cesaristiche del presidente. Lo stato di diritto è condizione necessaria della democrazia liberale. La sua importanza non è oggi adeguatamente compresa e apprezzata dall’opinione pubblica, né in America né in Europa. Ciò lo rende vulnerabile alle aggressioni populiste. Le recenti esperienze di Paesi come Polonia, Slovacchia e soprattutto Ungheria mostrano che non c’è bisogno di colpi di stato. Come nella Cina imperiale, si può usare la strategia delle “mille ferite”: una lenta sequenza di tagli che rimuova una dopo l’altra le garanzie liberali, privando i cittadini delle protezioni essenziali nei confronti del potere politico. Stati Uniti. Caccia ai libri “pericolosi” di Riccardo Romani L’Espresso, 9 febbraio 2025 Autrici cancellate, da Anna Frank a Margaret Atwood. E temi al bando, dall’aborto all’omosessualità, dalla lotta alle discriminazioni alle battaglie antirazzismo. Nell’America di Trump è già cresciuto il numero di libri rimossi dalle biblioteche. Ed è battaglia. Con la messa al bando de “Il diario di Anna Frank”, nel nord del Kentucky sono anche riaffiorati i primi volantini a firma Ku Klux Klan. Sì, quel Ku Klux Klan, cavalieri vestiti di bianco, torce in mano e americani con la pelle nera cui dare la caccia. Certo, va spiegato, la versione odierna del KKK non promuove il linciaggio di nessuno, ma in molti Stati del sud ha diritto di esistere come “organizzazione culturale”. Protetta dalla sacralità del Primo emendamento organizza eventi, sostiene politici locali e porta avanti le proprie battaglie. Nello Stato del Kentucky, come dice il volantino, si organizza un grande raduno di affiliati o aspiranti tali per il 25 febbraio. L’evento si chiama Tri-State-Konklave, raduna simpatizzanti anche dall’Indiana e quando telefoni al numero della sede del KKK di Maysville per avere informazioni sulla kermesse, ti risponde una voce registrata di uomo. Ti dice quanto sia fondamentale la tua partecipazione per unirti alla grande battaglia per la supremazia americana che consiste nel debellare il male supremo dell’immigrazione clandestina, dell’omosessualità e di tutte le peggio debolezze umane, lotta che consentirà di costruire un mondo finalmente liberato dagli ebrei. Tutto perfettamente legale. È la libertà di espressione, baby. Le mogli dei membri dell’associazione culturale Trinity White Knights, i cava - lieri bianchi della trinità, occupano sta - bilmente i consigli scolastici dello Sta - to, determinando le scelte educative dei ragazzi fino all’età dell’università. E libri come “Il diario di Anna Frank” o ancora, “L’occhio più azzurro”, della vincitrice del Nobel Afro-Americana, Toni Morrison, sono spariti dalla circolazione da almeno un paio d’anni. L’improvvisa riapparizione pubblica del Ku Klux Klan - che l’FBI considera un fenomeno molto limitato e per ora inno - cuo - non è certo ascrivibile alla vittoria di Trump, ma di sicuro ne rappresenta un sintomo. Quello della messa al bando dei libri è un fenomeno iniziato subito dopo il Covid-19. Dal 2020 a oggi oltre 10 mila titoli sono stati rimossi dalle biblioteche e dai programmi di migliaia di scuole di Florida, Texas, Kentucky, Alabama, Geor - gia, Indiana, Mississippi, Wisconsin, Co - lorado. Ad accendere il motore di questa epocale battaglia culturale, sono i gruppi di fondamentalisti cristiani che sostengo - no Trump e che lo hanno accompagnato alla vittoria in tutti gli Stati della cosiddet - ta Bible Belt, la cintura geografica di fana - tici religiosi a sud di Washin - gton. Congregazioni alle quali Trump si è affidato con voluttà. Le Mama Bears, le mamme orse, sono un gruppo di fon - damentaliste nate e cresciu - te in risposta alle restrizioni del Covid e alle violenze subi - te dai membri del movimen - to Black Live Matter, anche se nessuna di loro sarebbe capa - ce di evocare un solo inciden - te in cui esponenti del movi - mento abbia usato violenza contro di loro. Jenny Donnelly, 50enne predicatri - ce carismatica, originaria dell’Oregon, è la leader delle mamme orse e oggi figura di punta del NAR (tradotto come “nuo - va riforma apostolica”) che raduna peco - relle smarrite e smuove milioni di dolla - ri in donazioni politiche. La sua agenda è chiara: “La nostra nazione va in una di - rezione che rappresenta una chiara mi - naccia per la libertà specialmente dei nostri figli e dei nostri nipoti. I ragazzi sono esposti ad ansia, depressione e por - nografia prodotti dalla cultura Lgtbq che ha radici demoniache. Piazzeremo sem - pre più donne nei consigli scolastici per proseguire il lavoro di liberazione dalle catene imposte dall’amministrazione Bi - den che ha mascherato da battaglia con - tro la disinformazione un piano diaboli - co di corruzione sistematica della nostra identità. Proteggere i nostri figli dalle scritture blasfeme che infettano le loro vite è un dovere”. Jenny è una venditrice formidabile, prima di impegnarsi nel marketing dell’anima lo faceva per un’azienda del Texas, la AdvoCare, specializzata in vendita di prodotti per il benessere fisico. La Donnell giura di essersi arricchita anche se la AdvoCare ha dovuto restituire 150 milioni di dollari a 22.000 clienti che minacciavano di trascinarla in tribunale in quanto vittime di uno schema piramidale truffaldino. “Soltanto calunnie”, liquida la storia la Donnell. Di Jenny Donnell l’America di Trump pullula. Nina Jankowitz, ex responsabile della commissione scuola per Joe Biden, non usa mezzi termini: “Siamo al cospetto di un assalto vero e proprio alla realtà. Vogliono riscrivere la storia, adeguarla alla loro visione del mondo. È molto pericoloso”. Secondo il fronte compatto di fondamentalisti, il pericolo invece consiste nell’esporre i giovani americani a teorie distorte. Quando Trump ha annunciato che d’ora in poi l’America contempla due soli generi - maschi e femmine - lo ha fatto usando le parole prese a prestito dai leader di questo esercito implacabile. Le tre linee guida che orientano le scelte relative ai libri da mandare al rogo sono chiare. Da escludere sono i volumi che trattano di questioni razziali o rievocano gli anni della schiavitù. Un’autrice acclamata come Robin DiAngelo, una quindicina di pubblicazioni su colonialismo e questioni razziali, è stata cancellata in poche settimane. Poi ci sono i libri considerati anti-Americani, gente del calibro di Bob Woodward e Noam Chomsky è meglio che in posti come l’Alabama non ci vadano neppure in villeggiatura. Infine il capitolo dedicato a libri che hanno a che fare con tradizioni e valori “veri” americani. Per intenderci, uno dei primi titoli a finire nel tritatutto e il celebre “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. Uscito nel 1985 con grande successo, racconta un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, in cui gli Stati Uniti sono divenuti uno Stato totalitario, basato sul controllo del corpo femminile. Il regime di questa società distopica è fondato sullo sfruttamento delle cosiddette Ancelle, le uniche donne che dopo la catastrofe sono ancora in grado di procreare. Ma siccome lo Stato seppure repressivo non riesce a schiacciare i desideri e da questo dipenderà la possibilità e, forse, il successo di una ribellione, per l’America trumpiana è materiale scottante, da tenere fuori dalla portata degli adolescenti. Sarà bene dire che questa battaglia religiosa sta incontrando anche qualche resistenza. Ci sono ben 490 distretti scolastici in America in cui il preside ha rassegnato le dimissioni in segno di protesta e non si trovano sostituti disposti ad adeguarsi a questo ondata oscurantista. J. Marie Bailey, una ex insegnante e un diciottenne studente all’ultimo anno di college, Will Larkin, sono i due volti che guidano la rivolta in Florida dove alla cancellazione di tutti i libri che affrontano temi come aborto, omosessualità o identità di genere, sono seguite manifestazioni ostili nei confronti di quegli studenti apertamente gay o fluidi. Il Governatore dello Stato ed ex candidato Repubblicano Ron DeSantis è il grande inquisitore che ha raccolto voti e consensi anche cavalcando questa febbre restauratrice. Gli sforzi di attiviste come la Bailey hanno prodotto risultati esigui. Dall’elezione di Trump a oggi il numero di titoli banditi è salito del 20 per cento. Organizzazioni religiose di genitori dominano la scena locale. La NAR di Jenny Donnell ha ormai 7000 sedi sparse per il Paese. La Penguin Book ha fatto intanto causa alla Florida definendo le ragioni per la messa al bando dei libri incostituzionali. Ma se la questione finisse alla Corte Suprema, con una compagine di giudici mai così schierata a destra (sono gli stessi hanno votato contro il diritto all’aborto) l’esito sarebbe scontato. Soltanto pochi giorni fa Donald Trump ha dovuto valutare oltre 200 petizioni provenienti da altrettanti distretti scolastici, che chiedevano l’annullamento della messa al bando dei libri. Trump ha fatto respingere ciascuna di quelle petizioni, sostenendo che ciascun distretto scolastico e ogni congrega di genitori, è perfettamente in grado di decidere per i ragazzi della loro comunità. Sicuramente decideranno meglio rispetto a quanto possano fare i burocrati di Washington. Una solenne lavata di mani che rappresenta un formidabile endorsement alle Jenny Donnell d’America, comprese quelle che ritengono la storia di Anna Frank una favoletta basata su fatti mai verificati, che non è proprio il caso di mettere in mano a un ragazzino di tredici anni. La libertà di espressione è una questione di valutazioni, di norme sociali ed equilibri legali. Non è un diritto assoluto se non nella mente di certi libertari che finiscono però per confonderla con la libertà di esprimere tutto quello che si vuole, secondo valori e princìpi di una parte minoritaria di una comunità. Ma questo sta accadendo in America. La direzione indicata da Trump nel momento in cui abolisce una legge del 1965 che garantiva alle minoranze, specialmente neri, di non essere emarginate o escluse da posizioni lavorative, sembra inequivocabile. Stupirsene oggi dopo anni di campagne elettorali infarcite di richiami all’odio tesi a spaccare in due l’anima dell’America, sarebbe da ingenui.