Il magistrato ordina: “Garantire colloqui intimi in Alta sicurezza entro 60 giorni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2025 In un provvedimento destinato a fare scuola, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha accolto il reclamo di un detenuto della Casa circondariale di Terni, recluso nel circuito di Alta Sicurezza (AS), ordinando all’amministrazione penitenziaria di consentirgli colloqui intimi con la compagna convivente, senza controllo a vista del personale di polizia penitenziaria. La decisione, contenuta nell’ordinanza n. 402025/ 149, applica in modo stringente la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/ 2024, che ha riconosciuto il diritto all’affettività dei detenuti come espressione della dignità umana. Il detenuto sta scontando una pena definitiva per reati ascritti al circuito di alta sicurezza (art. 4- bis ordinamento penitenziario), ma non è sottoposto ai regimi speciali del 41 bis o della sorveglianza particolare (art. 14-bis). Da mesi, attraverso il suo avvocato, aveva richiesto alla Direzione del carcere di Terni di poter incontrare la partner in un ambiente riservato, senza la presenza visiva degli agenti, come previsto dalla storica pronuncia della Consulta del gennaio 2024. La richiesta, però, era stata respinta con un provvedimento del 28 settembre 2024, in cui la Direzione sosteneva di aver avviato sopralluoghi per individuare locali idonei, ma di essere ostacolata da “difficoltà economiche e strutturali”, nonché in attesa di “istruzioni dagli uffici superiori”. Il detenuto, supportato dal parere favorevole del pm, ha dunque presentato reclamo al magistrato di sorveglianza, denunciando un “grave pregiudizio” al proprio diritto all’affettività, accentuato dal desiderio di genitorialità coltivato con la compagna, anche attraverso percorsi di procreazione medicalmente assistita. Il cuore della disputa risiede nell’applicazione della sentenza n. 10/2024, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 18 della legge 354/ 1975, nella parte in cui non prevede colloqui intimi per i detenuti con coniugi, partner di unioni civili o conviventi stabili. La Consulta ha sottolineato come l’esercizio dell’affettività sia un diritto fondamentale, legato alla dignità della persona, che può essere limitato solo da ragioni di sicurezza, ordine pubblico o esigenze giudiziarie (per gli imputati). La Corte ha fornito indicazioni molto precise riguardo alla conduzione dei colloqui, delineando criteri che vanno ad integrare le esigenze di sicurezza con il rispetto della vita affettiva dei detenuti. In primo luogo, si stabilisce l’esclusione dai regimi speciali, come il 41- bis e il 14- bis, pur ammettendo l’eccezione per quei detenuti in alta sicurezza accusati di reati definiti ‘ ostativi’. Inoltre, è stato sottolineato che la durata dei colloqui deve essere sufficientemente lunga da permettere un’espressione piena e autentica dell’affettività, garantendo così il giusto equilibrio tra le necessità di comunicazione e le restrizioni previste dal contesto carcerario. Parallelamente, la Corte ha evidenziato l’importanza di disporre di spazi appropriati per lo svolgimento di tali incontri. Questi dovranno essere strutturati in modo da garantire la massima riservatezza, attraverso l’utilizzo di unità abitative attrezzate o locali dedicati, esenti da controlli visivi o auditivi e, se possibile, situati in aree che assicurino l’isolamento dagli sguardi esterni. Un ulteriore elemento di rilievo riguarda la necessità di una verifica preliminare: è infatti fondamentale accertare la stabilità del legame affettivo tra le parti e assicurarsi che non sussistano divieti di natura giudiziaria che possano ostacolare tali contatti. Infine, è stata data priorità ai detenuti che non beneficiano dei permessi premio, affinché l’accesso a questi incontri possa essere distribuito in maniera equa e mirata. In questo modo, le misure adottate cercano di coniugare il rispetto dei diritti affettivi dei detenuti con le esigenze di sicurezza e ordine all’interno del sistema carcerario. Nonostante la Corte avesse ammonito sul “notevole sforzo organizzativo” richiesto, ha imposto alle amministrazioni penitenziarie di attuare subito la decisione, anche con soluzioni temporanee, in attesa di un intervento legislativo. Nell’ordinanza, il magistrato Gianfilippi mette in discussione le giustificazioni avanzate dalla Direzione di Terni, evidenziando in maniera approfondita due profili critici. Da un lato, egli sottolinea i ritardi strutturali: nonostante siano trascorsi più di dodici mesi dalla sentenza della Consulta e, nonostante i solleciti reiterati - tra cui una nota del 5 febbraio 2024 - il carcere non ha ancora avviato alcun intervento volto ad adeguare gli spazi. Il progetto proposto, che prevedeva la realizzazione di due prefabbricati adiacenti all’area verde, resta confinato in una fase preliminare e non viene accompagnato da tempistiche precise che possano garantire una sua effettiva realizzazione. Dall’altro lato, critica la mancanza di personalizzazione nell’analisi dell’istanza: il diniego è stato motivato con critiche generiche e prive di elementi specifici relativi al detenuto. Tuttavia, l’istruttoria ha messo in luce un quadro ben diverso. Il detenuto, infatti, gode di una condotta esemplare, tanto da essere stato espressamente lodato in dicembre 2024 per il suo impegno nel lavoro in cucina. Inoltre, sono stati documentati contatti regolari con la compagna e, non avendo mai usufruito dei permessi premio, rientra tra i casi prioritari individuati dalla Consulta. Alla luce di questi elementi, il magistrato conclude che non vi sono ragioni di sicurezza o motivi disciplinari in grado di giustificare il diniego richiesto. Sottolinea, infatti, che l’appartenenza al circuito dell’alta sicurezza, che limita i benefici penitenziari, non può essere considerata di per sé un ostacolo ai diritti fondamentali, evidenziando così come la valutazione complessiva debba basarsi su elementi specifici e personalizzati piuttosto che su criteri generici. Il magistrato ha stabilito che la Casa circondariale di Terni debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Se dovessero presentarsi difficoltà nel trovare soluzioni permanenti, l’istituto è invitato ad adottare misure temporanee, come il riadattamento di locali esistenti, in attesa della realizzazione di strutture più complesse e definitive. Una volta messi in atto questi interventi, sarà necessario comunicare l’avvenuta esecuzione all’Ufficio di sorveglianza, assicurando così un controllo e una trasparenza sull’operato dell’amministrazione. Come si legge nell’ordinanza, l’amministrazione non può nascondersi dietro l’attesa di direttive centrali o addurre difficoltà economiche, soprattutto quando in gioco c’è un diritto costituzionale. La sentenza 10/ 2024, infatti, impone l’adozione di azioni concrete, anche se provvisorie, per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Il caso di Terni non è isolato. La recente sentenza della Cassazione n. 8/ 2025 ha già stabilito che i colloqui intimi non sono una “mera aspettativa”, ma un diritto esercitabile salvo specifici motivi di sicurezza. L’ordinanza di Spoleto rafforza questo indirizzo, segnalando alle carceri italiane l’urgenza di adeguarsi. In questo scenario, per il detenuto di Terni e la sua compagna si apre finalmente, dopo mesi di attesa, la possibilità di incontrarsi in un ambiente che garantisca la necessaria riservatezza. Questo incontro, seppur piccolo nel contesto più ampio delle riforme penitenziarie, rappresenta un significativo passo verso quel “volto costituzionale della pena” tanto esaltato dalla Consulta, il quale riconosce che, anche in condizioni di privazione della libertà, non si può in alcun modo negare la dignità dell’amore. Carceri, 8mila nuovi posti entro due anni. Nordio: “Dolore per i suicidi” adnkronos.com, 8 febbraio 2025 È pronto un piano che consentirà di istituire ottomila posti nuovi in carcere. A parlarne è il ministro della Giustizia Carlo Nordio intervenendo in video-collegamento all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani 2025 a Milano. “I suicidi in carcere sono un fardello di dolore al quale cerchiamo di rimediare ogni giorno. Abbiamo un piano carceri elaborato con la presidenza del Consiglio che consentirà di colmare questo gap. Entro due anni abbiamo già previsto, con il commissario straordinario, di istituire 8 mila posti nuovi in carcere”, ha detto. La riforma sulla separazione delle carriere - Poi il ministro ha ribadito l’importanza della riforma sulla separazione delle carriere. “Finalmente siamo riusciti ad attuare, dopo tanti anni, la separazione delle carriere che le Camere penali da sempre portano come vessillo di libertà e vera cultura della giurisdizione. Siamo quasi a metà strada, abbiamo intenzione di continuare. Più ci attaccano e cercano di intimidirci e più la nostra volontà di continuare e portare a fondo la riforma aumenta con determinazione e maggior forza”, ha detto Nordio intervenendo in video-collegamento. “Questa famosa cultura della giurisdizione che viene vantata per ostacolare la riforma sulla separazione delle carriere è ormai una formula vuota, priva di significato. Se proprio volessimo darle un significato - ha osservato il ministro - dovremmo dire che o la giurisdizione viene considerata in senso stretto, limitata all’opera del giudice oppure è un tavolo a tre gambe, perché è la dialettica processuale che vede avvocato, pm e giudice. Cultura della giurisdizione limitata all’associazione tra pm e giudice è una non cultura della giurisdizione perché manca una parte essenziale, che è quella dell’avvocatura”. “La riforma sulla separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio. Noi su questo non esitiamo, possono fare tutte le manifestazioni che vogliono ma andiamo avanti. Più si alimenta la polemica più la nostra determinazione aumenta - ha rimarcato il ministro -. E’ un mandato che ci ha chiesto il popolo e noi lo faremo. Non esiteremo e non vacilleremo, più aumentano queste forme di pressione proprie e improprie e più siamo determinati a portare a fine il nostro lavoro”. “Il nostro cronoprogramma è definito. In prima lettura la riforma dovrebbe essere approvata entro marzo e poi entro l’estate dovrebbe avere l’approvazione definitiva. Ci sarà poi il referendum, sono certo, e che io auspico, perché una materia così complicata, complessa e di alta sensibilità civica è bene che venga sottoposta alla valutazione del popolo sovrano. Noi non abbiamo timore e non vogliamo nemmeno lusingarci dei sondaggi che conosciamo”. L’emergenza carceri e l’apporto dei privati di Giuseppe Vegas Il Messaggero, 8 febbraio 2025 Tra gli innumerevoli propositi della seconda presidenza Trump non manca quello di rafforzare il sistema delle prigioni private. Non si tratta di una novità, ma di uno strumento consolidato da oltre un quarantennio negli Usa ed applicato, sebbene in pochi casi, anche in Gran Bretagna. La privatizzazione delle prigioni era nata come sistema per contenere i costi della detenzione, ma nel 2021 venne bloccata dal presidente Biden, poiché in molti casi era stata utilizzata solo come strumento per accrescere i profitti dei gestori. Fermo restando che il potere coercitivo spetta esclusivamente allo Stato, le modalità di esecuzione di questo particolare servizio non devono necessariamente essere compito di un soggetto pubblico, ma possono essere affidate a un privato tutte le volte in cui non siano in gioco diritti della persona. Non si vede dunque il motivo per cui il criterio che dovrebbe guidare le scelte pubbliche in materia non sia quello dell’economicità. D’altronde, anche una vasta gamma di servizi di pubblica utilità è erogata da soggetti privati: basti solo pensare all’istruzione e alla sanità. I servizi offerti dai privati possono essere utili per migliorare il sistema carcerario; soprattutto per le prigioni dove sono ristrette persone meno pericolose o a cui sono state comminate pene di lieve entità. Un approccio pubblico-privato in materia può anche contribuire ad affrontare le tre principali criticità???? che affliggono il sistema carcerario: il sovraffollamento, i costi e la funzione rieducativa della pena. Le carceri scoppiano semplicemente perché occorre troppo tempo per costruirne di nuove e non sempre i bilanci pubblici recano stanziamenti adeguati e tempestivi. Se si desse seguito alla normativa esistente che consente il project financing, e quindi il coinvolgimento dei privati anche nella fase di progettazione e realizzazione delle carceri, probabilmente i tempi si accorcerebbero e la concorrenza consentirebbe di contenere i costi. Come sempre, poi, i soldi non bastano mai. Allora può risultare molto conveniente esternalizzare una serie di servizi, anche di carattere amministrativo. In materia di controllo e vigilanza, un vasto utilizzo dei più moderni strumenti tecnologici potrebbe consentire, grazie alle economie di scala che ne deriverebbero, un sostanziale contenimento dei costi e contemporaneamente permetterebbe di utilizzare il personale particolarmente professionalizzato, come è quello degli agenti carcerari, per i compiti di maggiore delicatezza, lasciando ad altri lo svolgimento delle mansioni di routine. È, infine, una pia illusione pensare che la pena possa rieducare, se il detenuto è abbandonato ad un inutile ozio. Occorre offrirgli una formazione professionale e una esperienza lavorativa che lo ponga in grado di vivere senza ricadere nel crimine. Ma la retribuzione media del lavoro in carcere equivale oggi a circa un terzo di quel salario di nove euro che molti invocano come misura minima della retribuzione oraria. Ovvio, dunque che la percentuale di chi lavora non vada oltre il trenta per cento dei reclusi. Una contrattualistica più snella, un più efficiente sistema di contatti con il mondo del lavoro e la più ampia trasparenza consentirebbero di creare una realtà in cui le imprese competano nell’offerta di lavoro e in cui i trattamenti economici tendano ad avvicinarsi a quelli di mercato. La vita carceraria potrebbe offrire l’occasione per proiettare un ponte verso il mondo esterno. Quelli sopra indicati sono tre esempi di come la sinergia tra pubblico e privato possa non solo portare sollievo alle casse dello Stato, e quindi alle tasche dei contribuenti, ma anche adempiere concretamente a quel precetto della Costituzione che non considera la detenzione solo come punizione, ma anche e soprattutto strumento di redenzione. Morire di carcere per 55 euro: un altro suicidio in cella di Giulio Cavalli La Notizia, 8 febbraio 2025 Si muore di carcere in Italia. Non solo per la pena, ma per l’assenza di prospettive, per la solitudine, per l’abbandono. Cinquantacinque euro. Tanto valeva la rapina per cui Salvatore Rosano, 55 anni, è finito in carcere. I soldi erano stati restituiti, il danno risarcito, ma la giustizia ha continuato a presentargli il conto. Lo hanno trovato impiccato nella sua cella a Vigevano. Aveva chiesto una misura alternativa, ma gli è stata negata. Il suo è stato il nono suicidio in carcere del 2025. Ora sono già dieci. Gli ultimi tre decessi sono avvenuti lunedì e martedì scorsi a Livorno, Napoli Poggioreale e Modena, ma le cause devono ancora essere accertate. Nel 2024 erano stati 90, il dato più alto nella storia recente del sistema penitenziario. Le carceri scoppiano: 61.852 detenuti stipati in spazi per 10mila in meno, un sovraffollamento al 132%. A San Vittore si arriva al 218%. Non sono numeri, sono vite. Continuano ad aumentare le aggressioni (668 nel 2024, cinquanta in più dell’anno precedente) e gli atti di autolesionismo (12.896, ovvero 514 in più). Cresciute anche le manifestazioni di protesta collettiva, come scioperi della fame o della sete, rifiuti di vitto o terapie, astensione dalle attività, percussioni rumorose di cancelli e inferriate. Eppure la politica risponde con un piano per 7mila nuovi posti, come se il problema fosse lo spazio e non la dignità. Si muore di carcere in Italia. Non solo per la pena, ma per l’assenza di prospettive, per la solitudine, per l’abbandono. Un terzo delle persone detenute è in attesa di giudizio. Tra loro c’era anche Salvatore. Il carcere lo ha condannato prima della giustizia. Cinquantacinque euro, una vita. Nessuno si chiede più se sia giustizia. Separare le carriere di giudice e pubblico ministero? Chiediamoci piuttosto come mai siano unite di Tullio Padovani L’Unità, 8 febbraio 2025 Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali, a quale titolo si giustifica l’omogeneità della carriera nel contesto di un unico “ordine”? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le loro carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Perché - si dice - essi devono condividere un’uguale “cultura della giurisdizione”. Rompendo il legame dell’appartenenza ad un unico “ordine”, il pubblico ministero uscirebbe dal seminato del diritto e si trasformerebbe in una sorta di pianta selvatica. Ma se per “giurisdizione” si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta di ciò che qualifica specificamente il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione del conflitto da parte del giudice, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore. La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe l’unicità delle carriere, a condizione che ad essa concorressero tutti i componenti del ceto forense. Ma - si dice - un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe preda della funzione di governo; sarebbe alle dipendenze dell’esecutivo. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (art. 107, comma 4° Cost.): non certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice, ma di garanzie deve trattarsi; e un vincolo di dipendenza gerarchica non si iscriverebbe in quest’orbita. Ma in effetti la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si pone in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere l’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti - scriveva Giovanni Falcone - “se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto”. Ma - si obietta - il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale: indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Ma pur attribuendo al pm la più ferma intenzione di assolvere a questo impegno, è impossibile ch’egli possa realizzarla, dato il numero delle pendenze in attesa. La legge stessa impone criteri di priorità nella trattazione; la loro osservanza implica necessariamente retrocessione e poi abbandono di una cospicua quota di fascicoli. Per essi, un tempo operava la tagliola della prescrizione. Ora, una volta introdotti vincoli temporali più cogenti per definire i procedimenti, è logico supporre che il canale di scolo per i casi “negletti” sarà rappresentato dalla richiesta di archiviazione. In un simile contesto, ha senso invocare l’art. 112 Cost.? Si tratta in realtà di decidere come debba essere disciplinato il potere d’accusa nel vasto e potenzialmente selvaggio territorio delle indagini preliminari, il cui tasso di legalità dipende da una mera “notizia di reato” (quando pure sussiste), e cioè dal simulacro, o dal segmento, di un eventuale, reato. L’esercizio del potere di accusa evoca direttive trasparenti, controllo efficiente, verifica puntuale e responsabilità definite; perché in esso si colloca il nervo motore della legalità. A mo’ di chiusura, il viatico di un ricordo. Dopo un pomeriggio speso ad ascoltare, in un convegno sul nuovo codice, lamentazioni di pm dolenti per la presunta perdita di dignità e potere, passeggiavo con un caro amico, pm insigne destinato a maggior gloria. “Quei minchioni - disse prendendomi sotto braccio - non hanno capito un bel nulla. Non si rendono conto che ora siamo noi i padroni del processo, e ne faremo quello che vogliamo”. Confesso che allora mi sembrò un delirio o un miraggio. Imparai poi che, mentre io ero cieco, lui aveva semplicemente visto lontano: per quanto riguarda le sorti di questo Paese anche troppo. L’auspicata separazione delle carriere dal punto di vista di un assiduo frequentatore di tribunali di Emiliano Silvestri L’Unità, 8 febbraio 2025 Il 16 gennaio scorso la Camera dei Deputati ha finalmente - la prima discussione in Assemblea risale al 9 dicembre 2024 - approvato in prima lettura il disegno di legge costituzionale contenente, tra l’altro, la separazione delle carriere tra magistrati della pubblica accusa e colleghi della magistratura giudicante. Oltre alle forze di governo (il DDL porta la firma del Presidente Meloni e del Ministro Nordio) il provvedimento ha raccolto il consenso dei deputati di Azione e +Europa e l’astensione di quelli di Italia Viva: opposizione divisa e risultato di 174 voti a favore, 92 contrari e 5 astenuti. Molti sono i critici di questa riforma, a partire dagli esponenti di Magistratura Democratica che hanno proposto di abbandonare, presa la parola il ministro o uno dei suoi delegati, le aule delle celebrazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario; per arrivare all’Associazione Nazionale Magistrati che, condivisa quella proposta, ha deciso anche una giornata di sciopero della categoria per il prossimo 27 febbraio. Non sono un giurista e non entrerò nei tecnicismi di questa riforma. Ritengo, però, non sia inutile offrire il mio ricordo di assiduo frequentatore - prima come tecnico poi anche come giornalista di Radio Radicale - delle aule del Palazzo di Giustizia di Milano in anni ormai lontani. Chi fosse entrato in una di quelle aule prima del 24 ottobre 1989, giorno in cui entrava in vigore il “nuovo” Codice di Procedura Penale (Pisapia-Vassalli), si sarebbe trovato di fronte a una grande cattedra posta su di una pedana. Dietro questa cattedra avrebbe visto seduti affiancati i giudici del Tribunale, il Presidente del collegio giudicante e il Pubblico Ministero; questi ultimi due seduti su poltrone con uno schienale più alto degli altri; oltre la loro nuca. Uno schieramento inquisitorio destinato a preoccupare non poco l’imputato che, dal basso come il suo difensore, guardava tale rappresentazione della potenza dello Stato; era forse questo il proposito del legislatore fascista autore del Codice di Procedura Penale del 1931 (come del Codice Penale tuttora in vigore, peraltro). Dopo la riforma del 1989 le cose cambiarono. Il Pubblico Ministero veniva sistemato in aula, di fronte al Tribunale. Al suo fianco, all’altro lato dell’aula, sedeva l’avvocato difensore. Per motivi probabilmente legati a carenza di fondi il P.M. manteneva la sua poltrona con l’alto schienale mentre l’avvocato difensore sedeva su di una normale sedia, talvolta imbottita. Un altro retaggio del passato, questo non imputabile a questioni di bilancio, si manifestava all’atto del ritiro in Camera di Consiglio dei magistrati giudicanti. Il Presidente comunicava un’ipotesi di orario per la lettura del dispositivo della sentenza. Invitava gli avvocati a presentarsi all’ora stabilita (che poteva comportare attese anche non brevi) e comunicava al Pubblico Ministero che sarebbe stato avvisato, tramite telefonata al suo ufficio, nell’imminenza del rientro in aula dei magistrati. Il 23 novembre 1999, entrò in vigore il nuovo art. 111 della Costituzione e, probabilmente, certe abitudini cominciarono a cambiare. Più difficilmente la forma mentale dei giudici, abituati a considerare i rappresentanti della pubblica accusa come colleghi, cui magari dare del “tu” e gli Avvocati come ospiti, più o meno graditi. I fautori della separazione delle carriere possono essere lieti di questo primo passo di un lungo percorso. A mitigare la loro soddisfazione provvedono, però, altre notizie. La prima è l’oblio su Marco Pannella che, con il Partito Radicale, per primo propose la separazione delle carriere, anche con referendum. Fu portato alle urne il 21 maggio del 2000, ma non ebbe effetto per mancato raggiungimento del quorum, anche se il 69% dei votanti (32% degli aventi diritto) condivise la proposta. La seconda è relativa al decreto sicurezza approvato dal Senato il 17 gennaio scorso: 90 milioni di euro vengono messi a disposizione di un commissario che dovrebbe sovrintendere alla costruzione di nuove, futuribili, carceri (nel frattempo in galera, carcerati e agenti continueranno a suicidarsi). Di per sé, una decisione non necessariamente terribile; se non fosse che i fondi vengono reperiti da tre poste di bilancio: il fondo per la magistratura onoraria; il fondo per la giustizia riparativa; i fondi destinati a ristorare, da una parte dei danni subiti con la detenzione, le vittime di errori giudiziari. Scelta destinata a raffreddare qualunque entusiasmo; a getta re un ulteriore tetro mantello sul futuro del sistema penale di questo nostro disgraziato Paese. Separazione delle carriere, i penalisti: “Un atto dovuto” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 8 febbraio 2025 A Milano l’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi. Ma le toghe disertano l’evento. La separazione delle carriere fra pm e giudici è un tema che tocca “l’intera avvocatura e non solo le Camere penali”. Lo ha ricordato il presidente del Consiglio nazionale forense, l’avvocato Francesco Greco, intervenendo a Milano all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti. La realtà italiana è un unicum nei Paesi occidentali, ha ricordato Greco, sottolineando come la separazione delle carriere sia quindi una riforma non più differibile. L’appuntamento di quest’anno, dedicato proprio alla figura e al ruolo del pm, è stato segnato nella giornata di apertura per la defezione dei magistrati del capoluogo lombardo. Erano infatti previsti i saluti dei vertici degli uffici giudiziari milanesi che hanno però rifiutato l’invito esprimendo “il disagio a intervenire in un contesto complessivo nel quale la magistratura viene sistematicamente delegittimata e individuata come un ordine estraneo alla cultura istituzionale, quasi eversivo”. “Lasciatemi esprimere il dispiacere per l’assenza dei vertici della magistratura milanese. Voglio davvero formulare l’auspicio convinto che si tratti solo di un incidente di percorso, che non abbia a replicarsi in altri momenti”, ha replicato il presidente dell’Ucpi, l’avvocato Francesco Petrelli. “Non voglio esprimerne in questo momento un giudizio, ma mi preme sottolineare come ogni innalzamento del conflitto nei confronti dell’avvocatura contribuisca a emarginare dal dibattito l’unica questione che a noi interessa e che è il merito”, ha aggiunto. “Non è tempo di scontri ideologici, ma di ideali che ispirino le condotte”, ha invece dichiarato Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. La decisione dei vertici della magistratura milanese, “manifestando una posizione di disagio certamente legittima, ha privato il dibattito sui temi del processo penale e dell’assetto della giurisdizione di una voce tanto più importante”, ha aggiunto La Lumia, secondo cui la riforma “è un ‘atto dovuto’“. “I capi degli uffici giudiziari milanesi avevano accettato espressamente l’invito quando gli avevamo mandato la bozza, i temi delle discussioni e i nomi dei relatori”, ha ricordato ai tanti avvocati presenti al teatro Carcano, la presidente della Camera Penale di Milano Valentina Alberta. “Li ringrazio comunque - ha ironizzato - per la risonanza mediatica che hanno dato a questo evento declinando l’invito. Non comprendo il gesto polemico da parte di istituzioni che hanno avuto da noi rispetto e collaborazione. Noi non siamo la politica e non siamo il governo e continueremo a protestare contro governi di qualsiasi colore se non ci troveremo d’accordo”. La presidente ha quindi elencato i vari temi che saranno affrontati durante le due giornate di dibattiti: dall’iscrizione nel registro degli indagati, all’informazione giudiziaria, all’obbligatorietà dell’azione penale. Dopo il primo panel che ha ripercorso l’evoluzione del ruolo del pm da “Mani pulite alla nuova Repubblica giudiziaria”, con la partecipazione dell’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, ha preso la parola in video collegamento Carlo Nordio. “Il nostro cronoprogramma è definito: in prima lettura la riforma della separazione delle carriere dovrebbe essere approvata entro marzo e poi entro l’estate dovrebbe avere l’approvazione definitiva. Ci sarà poi il referendum, sono certo, e che io auspico, perché una materia così complicata, complessa e di alta sensibilità civica è bene che venga sottoposta alla valutazione del popolo sovrano”, ha esordito il Guardasigilli. “Noi non abbiamo timore e non vogliamo nemmeno lusingarci dei sondaggi che conosciamo: ci affideremo alla volontà del popolo”, ha sottolineato Nordio, stigmatizzando chi dice che la separazione delle carriere creerebbe problemi alla comune cultura della giurisdizione dei magistrati: “E’ ormai una formula vuota, prima di significato: se proprio volessimo darle un significato dovremmo dire che o la giurisdizione viene considerata in senso stretto, limitata all’opera del giudice oppure è un tavolo a tre gambe, perché è la dialettica processuale che vede avvocato, pm e giudice”. Per il ministro, “cultura della giurisdizione limitata all’associazione tra pm e giudice è una non cultura della giurisdizione perché manca una parte essenziale, che è quella dell’avvocatura”. “La riforma sulla separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio. Noi su questo non esitiamo, possono fare tutte le manifestazioni che vogliono ma andiamo avanti: più si alimenta la polemica più la nostra determinazione aumenta”, ha infine rimarcato il Guardasigilli. Non poteva mancare da parte sua un accenno alle condizioni carcerarie e ai suicidi in cella, “un fardello di dolore cui cerchiamo di rimediare ogni giorno”, annunciando un piano carceri che permetterà di avere ottomila nuovi posti nei prossimi due anni. Nordio: “La riforma della giustizia? L’ho scritta con Macaluso” di Angela Stella L’Unità, 8 febbraio 2025 “Tolto di mezzo il processo alle intenzioni, la riforma della separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio e noi su questo non esitiamo. Voglio dirlo a chiare lettere: possono fare tutte le manifestazioni e tutti gli scioperi che vogliono ma noi su questo andremo avanti. E più si alimenta la polemica che noi non vogliamo e più la nostra determinazione aumenta, perché è un mandato elettorale che ci ha chiesto il popolo di attuare. E noi lo faremo”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, conferma che ormai con la magistratura ogni trattativa è chiusa. La “madre di tutte le riforme” s’ha da fare. “Entro marzo la prima lettura, poi la seconda entro l’estate”, nel 2026 il referendum popolare. Tutto questo lo ha ribadito intervenendo in video-collegamento all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali, dal titolo “Il pubblico ministero - Un equilibrio necessario”, che termina oggi a Milano. Inizialmente aveva garantito la sua presenza fisica poi si è collegato da casa a causa di un altro impegno. Il responsabile di Via Arenula, quasi per sottrarre la primogenitura della riforma a Silvio Berlusconi, ha detto: “Tutto quello che è in discussione - separazione delle carriere, sorteggio, Alta corte disciplinare -, è stato da me scritto per la prima volta in un libro nel 1997, e lo presentai addirittura con Macaluso”. Nordio è poi tornato sul caso del torturatore libico: “Ho avuto una sensazione di grave disagio quando, l’altro giorno in Parlamento, a margine della vicenda del libico” Almasri, “ho spiegato ai parlamentari che il mandato di arresto della Corte era un mandato completamente sbagliato e, secondo me, addirittura nullo”. E ha aggiunto; “persino ad Eichmann nel processo di Gerusalemme è stato concesso un difensore, un processo regolare, un rispetto delle regole. La cultura della giurisdizione l’altro giorno in Parlamento io l’ho sentita crollare di fronte a queste considerazioni: le regole vanno rispettate sempre e comunque, non soltanto dal punto di vista sostanziale ma anche formale”. E allora se il Guardasigilli ha rievocato il nome del criminale di guerra tedesco considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista, abbiamo provato una sorta di fastidio nel sentirgli anche dire: “molte delle nostre carceri sono carceri modello: parliamo sempre di brutte notizie ma ci sono carceri dove si costruiscono i violini con i legni delle barche dei migranti”. Si tratta del progetto del 2022 “Metamorfosi”, realizzato quando ancora c’era la Cartabia, della casa di reclusione milanese di Opera, dove detenuti già esperti nell’arte di costruire violini pregiati danno al legno delle barche nuova vita e significato. E la nostra memoria è tornata ai “Violins of Hope”, gli 88 violini della speranza che appartenevano a musicisti ebrei deportati o vittime di persecuzioni durante la seconda guerra mondiale recuperati dal liutaio israeliano Amnon Weinstein. “Nella collezione”, come ricorda un articolo del Manifesto, “c’è un violino che veniva suonato da quelle improvvisate orchestrine che nel campo di sterminio di Auschwitz intrattenevano i prigionieri e i kapo e accompagnavano i condannati a morte”. Come non immaginare qualcuno impegnato a suonare questi violini, provenienti dai barchini della morte di Lampedusa, mentre nelle nostre carceri quasi 100 reclusi si suicidavano solo lo scorso anno e che Nordio però continua a declassare a semplice “fardello di dolore a cui cerchiamo ogni giorno di rimediare”? Senza risultati, è evidente. È intervenuto poi il vice presidente del Csm Fabio Pinelli che ha ricordato come dagli anni ‘90 “La comunicazione tv, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai PM e alla giustizia penale. Questo convincimento fece ritenere a taluni magistrati che non dovessero limitarsi ad accertare eventuali responsabilità individuali, ma semmai essere titolari di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non fosse stata in ipotesi violata. Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è, come abbiamo detto, l’accertamento delle responsabilità individuali”. L’evento si era aperto con le parole di Petrelli, presidente delle Camere Penali: “Lasciatemi esprimere il dispiacere dell’assenza dei vertici della magistratura milanese che avrebbero dovuto intervenire su nostro invito con il loro saluto a questa inaugurazione. Voglio davvero formulare l’auspicio che si tratti solo di un incidente di percorso, che non abbia a replicarsi in futuro”. Il riferimento è al fatto che i capi degli uffici giudiziari milanesi hanno inviato alla presidente della Camera penale di Milano, l’avvocata Valentina Alberta, una lettera in cui hanno espresso tutto il loro “disagio ad intervenire in un contesto complessivo nel quale la magistratura viene sistematicamente delegittimata e individuata come un ordine estraneo alla cultura istituzionale, quasi eversivo”. Proprio la Alberta nel suo intervento introduttivo ha ironizzato polemicamente: “I capi degli uffici giudiziari milanesi avevano accettato espressamente l’invito quando gli avevamo mandato la bozza, i temi delle discussioni e i nomi dei relatori. Li ringrazio comunque per la risonanza mediatica che hanno dato a questo evento declinando l’invito. Non comprendo il gesto polemico da parte di istituzioni che hanno avuto da noi rispetto e collaborazione. Noi non siamo la politica e non siamo il governo e continueremo a protestare contro governi di qualsiasi colore se non ci troveremo d’accordo”. Un conflitto mai visto nel cuore del Paese di Marcello Sorgi La Stampa, 8 febbraio 2025 Il capo del servizio segreto interno (Dis), Valensise, che denuncia il procuratore capo di Roma, Lo Voi, per diffusione di documenti riservati, ancora non s’era visto in Italia. E d’altra parte, che altro poteva fare il prefetto dopo che il suo diretto superiore, il sottosegretario Mantovano, che proprio dei servizi di sicurezza ha la responsabilità, il giorno prima aveva depositato la stessa accusa al Copasir, il comitato parlamentare di controllo. Colpisce innanzitutto che due organi vincolati al segreto (il sottosegretario e il responsabile del Dis) rimproverino a un terzo di averlo violato, quando invece si sono premurati subito di far conoscere le loro iniziative, che avrebbero dovuto restare riservate. Ci sono almeno tre fronti aperti sul terreno assai scivoloso dei servizi. Uno è quello tra Meloni e Lo Voi, a cui la premier vuol far pagare l’incriminazione per favoreggiamento e peculato relativa alla scarcerazione e al riaccompagnamento a casa con aereo di Stato del generale libico Almasri. Comunicazioni giudiziarie firmate dal procuratore e inviate alla premier, ai due ministri Nordio (Giustizia) e Piantedosi (Interni), e al sottosegretario Mantovano, che ha subito reagito per conto di tutti e quattro. La denuncia di Valensise contro Lo Voi, formalmente connessa a un’altra storia (l’indagine sul capo di gabinetto di Meloni, Caputi), ne è in realtà una diretta conseguenza. Il secondo fronte riguarda ancora Almasri e i rapporti con la Corte penale internazionale che ne aveva ordinato l’arresto per crimini contro l’umanità (le torture inflitte agli immigrati trattenuti in Libia). Dopo la dura presa di posizione di Trump contro la Corte, c’è stata una sollevazione di tutti i Paesi che si riconoscono nella Cpi, tranne l’Italia, che anzi con il ministro degli Esteri Tajani, ha riecheggiato, e in un certo senso anticipato, i toni del presidente Usa. Poi è toccato alla presidente della Commissione Von der Leyen intervenire in difesa della Corte dell’Aja. Meloni resta in silenzio, ma certo le dichiarazioni di VdL non le facilitano il tentativo di mettere al più presto sotto silenzio il caso del torturatore libico. Specie dopo la performance dei ministri Nordio e Piantedosi in Parlamento, che ha acceso ancor di più lo scontro con le opposizioni. Inoltre la premier deve cercare di salvaguardare il suo rapporto con Bruxelles, specie mentre Salvini si reca a Madrid per partecipare all’incontro delle destre estreme europee. Quanto poi al terzo fronte, la segretaria del Pd Schlein insiste perché Meloni venga a riferire alle Camere sull’uso in Italia del raffinato sistema di intercettazioni americano Paragon contro soggetti come il direttore Cancellato di Fanpage (il sito dell’inchiesta sui giovani di Fratelli d’Italia) e l’attivista delle Ong Casarini. Ieri si è appreso che da due, gli intercettati sono passati a sette. E Paragon avrebbe dovuto essere usato solo ed esclusivamente da “agenzie di sicurezza”. Quali sono queste agenzie? A chi fanno capo? E come fa il governo a smentire di avere qualche responsabilità anche in questa storia? Intanto Salvini dice (e poi in parte si rimangia) che tra i servizi è in corso “un regolamento di conti”. Su quest’ultimo caso, che infiamma gli altri due, il governo vorrebbe adottare una strategia minimalista, in attesa di avere qualche delucidazione dalle prime indagini. Di nuovo Mantovano sarebbe pronto a riferire al Copasir, un’offerta che non è detto accontenti le opposizioni. Tra l’altro, come s’è visto, queste audizioni dovrebbero essere segrete e poi non lo sono affatto, ne circolano subito resoconti dettagliati, seppure approssimativi, che certo non contribuiscono a placare la guerra tra governo, servizi per conto del governo, e magistratura. Un conflitto mai verificatosi, in queste dimensioni e modalità, al cuore dello Stato. C’è solo da sperare che capiscano cosa stanno facendo e si fermino finché sono in tempo. Tra l’altro, ormai, di tempo, ne è rimasto poco. Musolino: “È un assedio senza precedenti, sembra di essere in Sudamerica” di Giuseppe Legato La Stampa, 8 febbraio 2025 Il segretario di Magistratura democratica: “L’obiettivo è delegittimare”. Il magistrato Stefano Musolino, segretario di Md, va dritto al punto: “È la prima volta che vedo una denuncia a mezzo stampa di questo tenore. Se l’interesse fosse stato quello di accertare un reato se ne sarebbe data comunicazione solo dopo che la Procura di Perugia si fosse espressa. La modalità, perciò, “dice” in modo eloquente che l’obiettivo reale sia indebolire, delegittimare, come peraltro si è provato già a fare per altre vie, la figura del procuratore Lo Voi”. Dottor Musolino, ci racconta in una parola quello che lei percepisce stia avvenendo attorno al procuratore di Roma? Un assedio? “Direi che la metafora dell’assedio esprime bene quello che sta succedendo”. Si può dire che il caso Almasri e il fascicolo trasmesso al Tribunale dei Ministri possa essere la madre di quanto sta avvenendo attorno a Lo Voi o è una forzatura? “C’è un dato oggettivo: soltanto dopo l’iniziativa di Lo Voi nella vicenda Almasri stanno venendo fuori una serie di fatti, circostanze e opinioni che lo riguardano e che tendono obiettivamente a delegittimarlo di fronte all’opinione pubblica. Si tenta di far passare sempre di più l’idea che non abbia agito nel rispetto di una norma facendo saggia interpretazione della stessa, ma allo scopo di colpire qualcuno”. In definitiva? “Si è scelto di fare della vicenda Almasri una questione giudiziaria per non dire che si è trattato di una scelta politica. Far passare dal tritacarne mediatico un professionista delle qualità di Lo Voi, è diventata un’arma di distrazione”. Quindi, per lei, quello di Lo Voi nella vicenda Almasri è atto dovuto e non - maggioranza dixit - voluto? “La cronistoria dei fatti sta dimostrando che quella scelta di Lo Voi è stata non soltanto conforme alle norme ma anche saggia”. Perché ne è così sicuro? “Immaginate cosa sarebbe successo se i ministri fossero andati a riferire al Parlamento senza essere a conoscenza prima che era stata fatta una denuncia e vi era iscrizione per alcuni di loro”. Si sarebbe gridato a cosa? “Si sarebbe detto, legittimamente, che sarebbero stati violati i loro diritti individuali di indagati esponendoli a una dichiarazione pubblica che avrebbe potuto nuocere alla loro difesa”. Invece si è passati dal caso Almasri al caso Lo Voi. O, detta così, è troppo? “È come se ci fosse bisogno di identificare un nemico, di presentarlo come tale all’opinione pubblica e lo si fa secondo una logica di personalizzazione delle istituzioni per cui soltanto alcune persone rappresentano gli interessi della nazione e chiunque si pone in contrasto con quelle scelte viene identificato come un nemico del bene comune”. Sta tratteggiando uno scenario più vicino ad alcune realtà sudamericane... “Diciamo che il clima internazionale è favorevole a percepire come legittime forme di personalizzazione del potere, di identificazione di singole persone nel sentire di un intero Stato, ma questo è estraneo al tessuto della nostra Costituzione e alla tradizione delle democrazie liberali”. Che idea si è fatto della vicenda Almasri? “Vi è stato un obiettivo favoreggiamento di Almasri: era catturato in Italia e non sono state messe in campo tutte le azioni necessarie per dare esecuzione al provvedimento della Cpi. Vorrei ricordare una cosa: la parola inglese che descrive cosa deve fare il ministro che riceve l’ordine di cooperazione della Corte penale è “surrender” che significa due cose insieme: consegna e resa. L’unica cosa che può fare il ministro è consegnarlo. Perciò, in quella vicenda si ripetono tutte le caratteristiche astratte del reato di favoreggiamento”. Il Dis sosterrebbe che la procura di Lo Voi abbia “dimenticato” un atto classificato come secretato in un fascicolo consegnato a giornalisti indagati. È così? “La norma evocata (verrebbe segnalata l’ipotesi di violazione dell’articolo 42 comma 8 della legge 124 del 2007) parla di necessità per il procuratore di curare che l’atto venga consegnato alle parti curandone la riservatezza; il che per definizione esclude la segretezza dell’atto stesso. Questo, quindi, non è più segreto e si tratta soltanto di gestirne l’uso. Per capirci: una cosa è il segreto altra è la riservatezza. Poi ci sarebbe un paradosso nell’ipotesi del reato da contestare…”. Immaginare una rivelazione di segreto è scorretto? “È l’unica visto che l’abuso d’ufficio è stato abolito in questo mandato”. La partita dietro l’elezione del nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 febbraio 2025 Il sindacato delle toghe rinnova i suoi vertici. I tormenti interni di Magistratura indipendente, che teme di essere schiacciata dalle posizioni più radicali delle correnti di sinistra Area e Magistratura democratica. Tra oggi e domani saranno eletti i nuovi vertici dell’Associazione nazionale magistrati, a partire dal presidente (che sostituirà l’uscente Giuseppe Santalucia) e il segretario. Un appuntamento molto importante sul piano istituzionale, considerate le tensioni che stanno caratterizzando la politica e la magistratura, non solo attorno alla riforma costituzionale della giustizia ma anche in seguito al caso Almasri È proprio per la concomitanza con il rinnovo dei suoi vertici che l’Anm si è astenuta dal replicare agli attacchi lanciati contro le toghe dal ministro Nordio nella sua informativa in Parlamento. Dietro la semplice domanda su chi sarà il prossimo presidente dell’Anm si cela in realtà una dinamica molto più complessa, una sorta di partita a scacchi giocata tra le varie correnti, in cui pesano anche i rapporti tra queste e le loro componenti interne (le correnti delle correnti). Sul piano strategico, la corrente che sta vivendo maggiori incertezze in queste ore è paradossalmente quella di Magistratura indipendente, il gruppo moderato dei magistrati, risultato il più votato alle elezioni del Comitato direttivo dell’associazione, il cosiddetto “parlamentino” delle toghe. Mi ha ottenuto 11 seggi su 36, le correnti di sinistra Area e Magistratura democratica rispettivamente 9 e 6, il gruppo centrista Unicost ben 8. Infine due seggi sono andati al gruppo Articolo 101. L’esito delle elezioni non ha pienamente soddisfatto i vertici di Magistratura indipendente, che si aspettavano un risultato migliore vista la spaccatura a sinistra e la scomparsa del gruppo di Autonomia e Indipendenza, nato da una scissione da Mi. Le “toghe rosse”, invece, seppur divise, hanno conquistato insieme più voti di Mi (15 a 11). Essendo risultato il gruppo più votato, comunque, spetta a Mi giocare la prima carta della partita. Tutte le correnti condividono l’opposizione alla riforma costituzionale, ritenuta pericolosa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Differenti visioni, però, emergono sulle modalità e i toni che l’Anm dovrebbe usare per esprimere questa opposizione: i gruppi di sinistra (e anche Unicost) sono a favore di forme di protesta radicali, Magistratura indipendente meno. La nascita di una giunta unitaria dell’Anm, con dentro rappresentanti di tutti i gruppi, appare molto probabile. Ma un dilemma attanaglia i vertici della corrente moderata: chiedere o no la presidenza dell’associazione? In caso affermativo, sarebbe una giunta a guida Mi a dover gestire lo sciopero contro la riforma Nordio già proclamato per il 27 febbraio, così come tutta la campagna contro la riforma in vista del referendum confermativo. Allo stesso tempo, sarebbe una giunta a guida Mi a dover fare i conti con i risultati di queste forme di protesta, che si preannunciano tutt’altro che trionfali. Basti pensare che all’ultimo sciopero svolto dall’Anm nel 2022, contro la riforma Cartabia, aderì meno di una toga su due (il 48 per cento dei magistrati). Un fallimento epico. In altre parole, Mi rischia di ritrovarsi con la patata bollente in mano e anche di ritrovarsi fra quattro anni al rinnovo dell’Anm priva della propria identità di corrente moderata. Sulla base di queste valutazioni, i vertici di Magistratura indipendente potrebbero anche decidere di sedersi in seconda fila, cioè di lasciare la presidenza a un rappresentante di Area (dalla quale proveniva anche Santalucia), ottenendo la segreteria. In questo modo la corrente potrebbe esporsi di meno in occasione delle grandi proteste, differenziandosi dai gruppi più “battaglieri”. La corrente di Area sarebbe ben lieta di confermare un proprio rappresentante alla guida dell’Anm, e di dare piena attuazione - col supporto di Md e Unicost - alla linea di opposizione frontale al governo e alle sue riforme, anche a costo di dover digerire bocconi amari (in fin dei conti, nessuno potrebbe tacciare il gruppo di incoerenza). Spetta dunque a Mi decidere il da farsi. Con un occhio alle sue divisioni interne. Nella corrente moderata circolano tre visioni: una maggioritaria che farebbe volentieri a meno della presidenza dell’Anm, in favore di un profilo di secondo piano e apparentemente più moderato; una componente che vuole la presidenza e andare allo scontro col governo; una terza posizione che vorrebbe persino che Mi non facesse parte della giunta unitaria, nella convinzione che l’opposizione alla riforma non porterà nulla di buono. Si vedrà quale prevarrà. La Corte Costituzionale ha stabilito un principio importante per chi subisce violenza domestica di Nadia Somma Caiati* Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2025 “L’interesse alla conservazione dell’unità del nucleo familiare non può prevalere rispetto alla necessità di tutelare i diritti fondamentali delle singole persone che ne fanno parte”. Si tratta di una decisione importante per tutte le donne che subiscono violenza nelle relazioni di intimità e che subiscono azioni violente e ritorsive anche dopo la separazione. La Corte Costituzionale il 6 febbraio scorso ha stabilito che non fosse fondata la questione di illegittimità costituzionale del sesto comma dell’articolo 605 del codice penale (sequestro di persona), sollevata da un Gup - giudice per le udienze preliminari di Grosseto. Il Gup doveva decidere sulla responsabilità penale di un uomo che era stato rinviato a giudizio per sequestro di persona, lesioni e minaccia aggravata nei confronti della ex moglie e del suo nuovo compagno. I fatti risalgono al 2023. L’imputato aveva atteso l’ex moglie e il suo nuovo compagno in strada poi li aveva costretti a rientrare in casa e li aveva minacciati di morte con una pistola, poi li aveva percossi ripetutamente alla testa con un casco. Le violenze erano durate circa una quindicina di minuti prima che li lasciasse andare. Dopo la denuncia, sia l’ex moglie che il suo compagno, avevano ritirato la querela contro l’imputato che, nel frattempo, si era offerto di risarcire i danni. “Tuttavia, la remissione della querela non aveva prodotto effetto - scrive la Consulta in un comunicato stampa - tra l’altro, rispetto al reato di sequestro di persona commesso in danno della moglie dell’imputato”. La Riforma Cartabia ha reso in via generale il sequestro di persona procedibile a querela di parte ma ha mantenuto la procedibilità d’ufficio nel caso che il reato sia commesso nei confronti del coniuge, di ascendenti o discendenti o di un minore. Il Gup di Grosseto aveva chiesto che questa disciplina fosse dichiarata incostituzionale. Secondo il giudice di Grosseto, le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2022, a subordinare la punibilità del sequestro di persona alla querela della persona offesa con l’intento di favorire una conciliazione bonaria tra le parti, varrebbero a maggior ragione nell’ipotesi in cui autore e vittima siano uniti in matrimonio. Questo sarebbe a garanzia del valore dell’unità familiare, riconosciuto come tale dall’articolo 29 della Costituzione. ?L’associazione D.iRe, donne in rete contro la violenza, ha depositato una opinione, intervenendo in qualità di amicus curiae, rilevando che il caso su cui è sorta la questione di legittimità costituzionale, riguardava un contesto di violenza domestica e quindi nelle considerazioni del giudice prima, e della Corte poi, doveva essere presa in considerazione la Convenzione di Istanbul. L’articolo 55, infatti, prevede che le indagini e i procedimenti penali per i reati di violenza fisica “non dipendano interamente dalla segnalazione o da una denuncia da parte della vittima quando il reato è stato commesso in parte o in totalità sul loro territorio, o che il procedimento possa continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritirare la denuncia”. Infatti le vittime di violenza nelle relazioni di intimità possono essere ostacolate nella richiesta di giustizia da minacce, ricatti (economici o per esempio quello di non vedere più i figli) e sono in una situazione di maggiore vulnerabilità rispetto ad altre vittime perché hanno avuto legami con gli autori di violenza. La Consulta, citando più volte l’amicus curiae, ha sottolineato che “il legislatore ha mantenuto il regime di procedibilità d’ufficio di alcune ipotesi aggravate di sequestro di persona in cui vi siano particolari esigenze di tutela della vittima nel contesto di relazioni familiari. Nell’ambito di queste relazioni esiste un concreto rischio che i soggetti più vulnerabili siano esposti a pressioni indebite, affinché non presentino querela o la rimettano. Proprio per tale ragione, la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta agli Stati che ne sono parte di subordinare alla querela della parte i procedimenti penali per i reati di violenza fisica contro questa tipologia di persone offese, e stabilisce che il processo penale debba continuare anche quando la vittima ritiri la propria denuncia”. “L’intervento della rete nazionale dei Centri antiviolenza - ha commentato Elena Biaggioni, avvocata e vicepresidente D.i.Re - è nato dalla constatazione che nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Grosseto in un macroscopico caso di violenza domestica non ci fosse alcuna menzione della Convenzione di Istanbul o di qualsiasi rilevanza del contrasto alla violenza maschile alle donne. Siamo soddisfatte del risultato e soprattutto che la Corte abbia ribadito l’importanza e la necessità di adeguarsi alla Convenzione di Istanbul. Una decisione che sarà utile anche per il futuro e avrà delle ricadute positive nei percorsi giudiziari delle donne che denunciamo violenza. Ringraziamo il professor Marco Dani e la professoressa Sara De Vido per la preziosa collaborazione”. *Responsabile Centro antiviolenza Demetra Emilia-Romagna. Non poteva iniziare peggio il 2025, con 5 decessi nelle carceri della Regione di Giulia Fabini antigone.it, 8 febbraio 2025 I fatti sono ormai noti: il 7 gennaio 2025 si è verificato nell’istituto di Modena il terzo decesso in sette giorni, un suicidio per inalazione di gas; il detenuto era un italiano di 50 anni. Il giorno prima era stato dichiarato morto un altro detenuto che aveva tentato il suicidio a metà dicembre ed era entrato in coma irreversibile, era un ragazzo marocchino di 27 anni; il 31 dicembre un altro detenuto era morto a Modena, sempre per inalazione di gas. Era un uomo macedone di 37 anni. Il 30 dicembre si era tolto la vita un ragazzo nel carcere di Piacenza, 27 anni, di nazionalità tunisina, mentre si trovava in isolamento. Il 3 gennaio a perdere la vita un uomo pachistano di 40 anni, a Bologna, che mentre camminava in corridoio “si è accasciato ed è morto”. Da accertare le cause della morte. Il bilancio è dunque quello di tre suicidi e di due morti. Destano particolare allarme le tre morti (di cui due rubricate come suicidi) nello stesso carcere in sette giorni. Uno sciame di suicidi nello stesso istituto non è un fenomeno infrequente, purtroppo, ma è rivelatore di una situazione di grave sofferenza. Antigone ha osservato questa situazione durante l’ultima visita dell’Osservatorio presso il carcere di Modena, avvenuta a dicembre. Oggi pubblichiamo la scheda completa della visita, che potete leggere qui. Il carcere di Modena è una casa circondariale di media sicurezza. Al momento della visita (05/12/2024), le persone detenute erano 568, su una capienza regolamentare di 372, di cui 29 donne e 341 stranieri. Abbiamo registrato un forte aumento della popolazione detenuta rispetto alla scorsa visita (più di 100 unità rispetto a giugno 2023) e un alto numero di detenuti definitivi, 384 (più alto in numeri assoluti ma non in percentuale rispetto al 2023), che rende difficile un’osservazione e un’offerta trattamentale adeguata, anche perché la pianta organica del personale giuridico pedagogico (6 unità) non è tarata su questi numeri. Il trend di crescita della popolazione detenuta non è una novità: anche nel 2023 avevamo registrato 80 presenze in più rispetto all’anno precedente. Le condizioni di detenzione osservate al vecchio padiglione sono pessime: cimici, sporco, vari oggetti bruciati, lamentata mancanza di detersivi, mobilio gravemente danneggiato, pareti scrostate, porte dei bagni delle celle arrugginite, neon nei corridoi non funzionanti e non sostituiti. Migliori le condizioni del nuovo padiglione e, soprattutto, del femminile. Da anni, e in particolare dopo la rivolta del 2020, il carcere di Modena si caratterizza per un meccanismo di ricollocazione delle persone detenute tra le sezioni come strumento di governo interno. Vi sono sezioni ordinarie (chiuse) e a trattamento intensificato (aperte) a cui i detenuti accedono per gradi, in base al buon comportamento, in altre parole attraverso una logica premiale. Oltre a queste, sono presenti le sezioni I care, nuovi giunti (con le celle per l’isolamento) per i casi problematici interni, e la sezione ex 32 o.p. utilizzata per persone in arrivo da altri carceri per indisciplina. La saturazione degli spazi rende più difficile rispetto a un tempo la mobilità della popolazione detenuta tra le sezioni, seppure durante la visita abbiamo comunque potuto notare criteri di organizzazione della popolazione su base comportamentale, e in parte anche anagrafica e etnica. Forte la presenza di giovani adulti, 51, che possono essere letti come una conseguenza dell’applicazione del c.d. decreto Caivano e della saturazione degli istituti minorili. Si conferma la tendenza degli ultimi anni a una maggiore apertura del carcere di Modena alla società civile e l’impegno dell’area trattamentale a fornire attività culturali, sportive e corsi professionalizzanti alla popolazione detenuta. Alcuni detenuti in art. 21 e semiliberi sono impiegati per datori di lavoro esterni. Inoltre, dopo anni di assenza, è presente a Modena un Direttore incaricato solo in questo istituto, il dott. Sorrentini, presente da novembre 2023. Di recente nomina anche un nuovo Comandante, il commissario Bertini, in carica da settembre 2024, e un nuovo referente dell’area sanitaria, il dott. Spanò. Crediamo che dei riflettori vadano accesi sull’istituto Modena, così come su ogni istituto in regione, consapevoli che ogni realtà carceraria è una realtà a sé stante e va letta sia come precipitato a livello locale di politiche nazionali, sia nelle sue particolarità e nei suoi rapporti con il territorio circostante. I suicidi e più in generale le morti in carcere sono un fenomeno che rende chiaro e manifesto il livello di degrado inaccettabile a cui è arrivato il sistema penitenziario in Italia e, purtroppo, anche in regione. La riflessione e l’intervento sulle cause di tale degrado non sono più rimandabili. In Italia così come in Emilia-Romagna, il sistema penitenziario è gravato dal sovraffollamento e dal deterioramento degli spazi. Il personale è insufficiente e lasciato solo a gestire un sistema che di fatto non funziona; in primis è carente il personale giuridico pedagogico che non ha le risorse per portare avanti un serio progetto di reingresso in società per la popolazione detenuta che sia in grado di abbattere la recidiva e dare compimento all’art. 27 della Costituzione. C’è troppo poco lavoro, ci sono pochi corsi professionalizzanti, poca istruzione e poche attività. A queste possono accedere solo un limitato numero di detenuti; per gli altri, la gran parte, il tempo della detenzione è tempo vuoto di mera sottrazione al tempo di vita. Mancano gli spazi e le opportunità nei territori che possano accogliere le persone che potrebbero uscire beneficiando di misure alternative. Gli psicofarmaci vengono utilizzati per gestire una situazione di diffusa sofferenza mentale causata essa stessa dallo stato di detenzione. E, aggiungiamo: quando il disagio mentale caratterizza già la persona all’ingresso, è ovvio che il carcere non sia il luogo in cui tale condizione possa essere gestita. In questa fase storica si respira una grandissima tensione nelle carceri. I suicidi e le morti sono il fenomeno più eclatante. È importante comprendere quanto essi siano l’effetto di una serie complessa di cause su cui l’azione a livello nazionale ma anche locale non è più rimandabile. Misure deflattive sono necessarie, e accanto a queste è necessario ripensare per intero le politiche penali che oggi in Italia vengono presentate come soluzioni a problemi di marginalità sociale. Non da ultimo il cd. Pacchetto Sicurezza, il cui iter di approvazione è in corso, con il quale si pretende, ancora una volta, di gestire con lo strumento penale una situazione di disagio sociale diffusa, che andrebbe affrontata con gli strumenti del welfare. Le carceri subiscono l’effetto di politiche criminogene che fanno aumentare la popolazione detenuta, creando sofferenza senza incidere sui tassi di criminalità che peraltro non presentano un trend di crescita. *Presidente Antigone Emilia-Romagna Toscana. Dal carcere all’impresa, per restaurare la propria vita di Ilaria Dioguardi vita.it, 8 febbraio 2025 In Toscana il lavoro offre alle persone detenute una possibilità concreta di reinserimento, abbattendo il rischio di recidiva. Un esempio concreto arriva dalla Piacenti Spa di Prato, che si occupa di conservazione di beni di interesse storico artistico e ha scelto di offrire un’opportunità di riscatto a chi ha scontato una pena. “Il lavoro dà dignità e fiducia. Permette di essere visti per ciò che siamo oggi, non per gli errori che si sono compiuti”, dice Rachid, che attraverso l’occupazione sta ricostruendo il suo futuro. In Italia il 33% delle persone detenute risulta coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Chi, in carcere, partecipa ad attività lavorative ha una probabilità di ricaduta del 2%, molto inferiore rispetto al 68% di coloro che non sono coinvolti in attività lavorative o formative. Il lavoro rappresenta uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale, riducendo il rischio di recidiva e restituendo dignità a chi ha scontato una pena. In Toscana, grazie alla Legge Smuraglia e all’impegno di associazioni come Seconda Chance, sempre più imprese stanno accogliendo detenuti nei propri organici, contribuendo a un cambiamento reale e positivo. Una dozzina di aziende coinvolte - Un esempio concreto arriva dalla Piacenti Spa di Prato, che ha scelto di offrire un’opportunità di riscatto a chi ha scontato una pena, dimostrando come il lavoro possa trasformare vite e favorire la sicurezza collettiva. Tra il 2022 e oggi, grazie agli interventi dell’associazione Seconda Chance, in Toscana più di 40 persone detenute hanno avuto opportunità lavorative, con una dozzina di aziende che hanno accolto i lavoratori provenienti dalle carceri regionali. Seconda Chance è un’associazione che lavora attivamente per presentare alle imprese i benefici della Legge Smuraglia e le opportunità di inserimento chi è in carcere, promuovendo un approccio di sensibilizzazione “porta a porta”. La Legge Smuraglia (n. 193/2000) incoraggia le aziende ad assumere detenuti mediante sgravi fiscali e agevolazioni, rendendo vantaggiosa l’assunzione sia a livello economico sia etico. Solo l’1% lavora nel privato e il 4% in coop sociali - Il lavoro per i detenuti si è dimostrato un fattore chiave nella riduzione del tasso di recidiva. Dai dati delle rilevazioni di Cnel, i detenuti che partecipano ad attività lavorative hanno una probabilità di ricaduta del 2%, molto inferiore rispetto al 68% di coloro che non sono coinvolti in attività lavorative o formative. In Italia il 33% dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Un’impresa tra restauro e reinserimento sociale - Da 149 anni, la Piacenti Spa di Prato si dedica alla conservazione dei beni culturali, al restauro di affreschi, dipinti e monumenti storici. Con sedi in Italia e all’estero e un team di 80 dipendenti, l’azienda ha deciso di ampliare il proprio impatto sociale, guardando oltre la semplice donazione: offrire un’opportunità concreta di reinserimento lavorativo alle persone detenute ed ex detenute. Ogni opportunità concessa non è solo un atto di responsabilità sociale, ma una scintilla che può accendere un cambiamento duraturo, trasformando vite e restituendo dignità attraverso il lavoro L’idea nasce dall’osservazione dell’esperienza di Gorgona, un progetto che ha mostrato come il lavoro possa essere uno strumento di recupero della dignità per chi ha scontato una pena. Iniziando ad assumere alcuni ragazzi in uscita dal carcere, l’azienda ha realizzato in prima persona le difficoltà legate al sistema penitenziario: dal rischio di recidiva ai problemi psicologici, fino alle rigidità burocratiche che spesso ostacolano il ritorno alla società. L’impresa collabora con l’associazione Seconda Chance che funge da facilitatore: organizza i colloqui in carcere, seleziona i candidati e accompagna coloro che hanno l’autorizzazione a lavorare all’esterno. Impatto economico marginale, valore generato inestimabile - “Non tutti i percorsi sono lineari, e non tutte le storie hanno un lieto fine immediato: alcuni si perdono lungo la strada, altri faticano a ritrovare la loro direzione”, dice Giammarco Piacenti, presidente dell’azienda. “Ma scommettere su chi ha fallito una volta significa credere nella capacità delle persone di rialzarsi, nel potere di una seconda occasione. E se l’impatto economico di questo progetto può sembrare marginale (circa il 10% del costo di un dipendente), il valore che genera è inestimabile. Ogni opportunità concessa non è solo un atto di responsabilità sociale, ma una scintilla che può accendere un cambiamento duraturo, trasformando vite e restituendo dignità attraverso il lavoro”. La testimonianza di Rachid - Grazie al progetto Seconda Chance, scoperto tramite l’educatrice del carcere, Rachid, oggi in regime di semi-libertà si è inserito nel mondo del lavoro alla Piacenti Spa, dove si occupa principalmente del restauro di beni culturali, ricoprendo anche il ruolo di responsabile per la sicurezza. Il percorso di riscatto comincia già da quando Rachid era recluso in media-sicurezza, periodo in cui lavorava all’interno del carcere come aiuto cuoco e aveva deciso di completare gli studi fino ad arrivare ad iscriversi all’Università, alla facoltà di Agronomia. “Se si vuole cambiare, l’occasione si trova” - “La vita in carcere ti distrugge mentalmente, il tempo sembra schiacciarti”, racconta Rachid, “ma l’opportunità di lavorare ti permette di ricostruire te stesso e di essere giudicato per le tue capacità, non per il tuo passato. Se si vuole cambiare, l’occasione si trova. L’impegno apre gli occhi anche quando tutto sembra perduto”. Dopo due rinnovi di contratto Rachid spera di poter continuare a lavorare nello stesso contesto una volta libero. Il suo sogno più grande è ricostruire la propria famiglia e offrire stabilità a suo figlio diciassettenne. “Il lavoro dà dignità e fiducia. Permette di essere visti per ciò che siamo oggi, non per gli errori che si sono compiuti”. Avellino. Detenuto trovato morto in cella: aperta inchiesta di Michela Della Rocca Corriere del Mezzogiorno, 8 febbraio 2025 Disposta l’autopsia, il recluso detenuto aveva 37 anni ed era di Napoli. Un decesso ancora non chiaro, ieri sera 7 febbraio poco dopo le 20, nel carcere di Avellino. Un detenuto 37enne originario di Napoli, è stato ritrovato senza vita all’interno della sua cella. Il ritrovamento ha fatto subito scattare l’allarme da parte delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria. Aperta un’indagine da parte della Procura di Avellino che ha disposto sul corpo del 37 enne l’esame medico legale. La salma del detenuto è stata trasferita presso l’obitorio dell’ospedale “San Giuseppe Moscati” di Avellino, dove verranno effettuati gli accertamenti medico-legali. La Procura della Repubblica di Avellino, con il magistrato di turno Cecilia Annechini, ha disposto l’esame autoptico e tossicologico, che verranno eseguiti nella giornata di martedì. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire la dinamica dell’accaduto e comprendere se il decesso sia avvenuto per cause naturali, per un malore improvviso o se possa essere riconducibile ad altre circostanze, come l’eventuale utilizzo di sostanze stupefacenti. Torino. Rivolta in carcere: “Non siamo torturatori di detenuti, abbiamo placato la protesta” di Elisa Sola La Stampa, 8 febbraio 2025 L’ex capo del nucleo investigativo della Polizia penitenziaria, Roberto Streva, ricostruisce i fatti del 2022: “Si erano chiusi in un’area pericolosa, abbiamo dovuto segare i sigilli ma nessun osi è fatto male”. “Il carcere è una specie di Grande fratello. Uno spazio chiuso dove accadono cose che fuori non potrebbero mai succedere. E dove ogni piccolo problema può esplodere generando tensioni fortissime. Di rivolte ne ho viste una cinquantina. Con l’esperienza si impara a gestirle con professionalità: per noi significa restare calmi e lucidi. L’11 febbraio 2022 non si è fatto male nessuno. Quando abbiamo liberato il braccio occupato avevamo in testa un concetto: “Il carcere è lo Stato. Noi siamo lo Stato”. Non torturatori o assassini. Noi viviamo dentro al carcere. Alla fine, per la penitenziaria, sacrifichiamo la vita”. Roberto Streva, da poco in pensione, era il comandante del Nucleo investigativo piemontese della polizia penitenziaria quando, tra il 10 e l’11 febbraio 2022, i detenuti del Lorusso e Cutugno occuparono la terza sezione. Insieme ad altri dirigenti Streva pianificò la strategia per interrompere la protesta, durata sedici ore. Streva, come mai, a un certo punto, avete deciso di sgomberare? “Perché si erano barricati dentro a uno spazio inaccessibile ed era pericoloso. C’erano brande in ferro smontate e accatastate davanti ai cancelli serrati. Non potevamo passare. All’inizio abbiamo tentato la mediazione, ma poi abbiamo deciso di entrare. Se un detenuto barricato si fosse mai sentito male, sarebbe stato gravissimo. L’obiettivo non era censurare la protesta, ma liberare l’area”. Condividevate i motivi della protesta dei detenuti? “Alcune delle cose che dicevano sono vere. In carcere non c’è personale. Mancano medici ma soprattutto psicologi ed educatori. Sono figure professionali importanti perché incidono sulla loro libertà”. In che senso? “Un detenuto per avere misure alternative come la semi libertà deve essere seguito da un educatore, che deve scrivere su di lui una relazione, ovviamente positiva. Se la relazione manca, il detenuto non può uscire”. I carcerati denunciano l’assenza di cure sanitarie… “Le risorse sono poche, ma ci sono anche tempi tecnici, nella sanità, che non sono diversi dentro o fuori il penitenziario. Io come cittadino devo aspettare tre mesi per una Tac e il detenuto anche. Ma dentro il carcere quest’attesa diventa insostenibile dopo 15 giorni”. Lei ha parlato con i detenuti durante la protesta? “Certo. Ho iniziato una prima mediazione con i portavoce. Volevano parlare con un magistrato di sorveglianza. Poi con altre figure, sempre più importanti. Erano pretesti. Ho spiegato loro che nessuno voleva fare censura. Ho detto: “Uscite, parliamo e nessuno vi torcerà un capello, ma aprite quel cancello, se no date l’impressione che non volete parlare”. Non hanno voluto. Alcuni erano ubriachi”. Come mai erano ubriachi? “In carcere i detenuti mettono a macerare la frutta con lo zucchero e l’alcol in contenitori di fortuna che nascondono nelle celle. Così fanno la grappa”. Perché avete ripreso lo sgombero? “Ero a capo del nucleo investigativo. Ho fatto fare le immagini per documentare i fatti. Per l’indagine. Volevamo anche fare vedere che i metodi che abbiamo usato sono consoni. Se no, nelle rivolte, qualcuno può dire che siamo stati violenti. Non è stato un intervento così massiccio comunque, rispetto ad altre volte”. Non è stato un intervento pesante? “No. Gli agenti avevano gli scudi e i caschi ma non i manganelli. È stata un’azione leggera, di prevenzione. Gli idranti sono serviti a fare allontanare i detenuti dal cancello. Era pericoloso sostare lì. C’erano brande di ferro appoggiate sopra. Abbiamo segato il cancello e poi con le spinte lo abbiamo buttato giù. Non sono stati usati metodi violenti. Nessuno si è fatto male e abbiamo fatto rientrare tutti nelle celle”. I suoi colleghi sono formati per gestire queste situazioni? “Sa gestire bene queste situazioni chi non lo fa per la prima volta. Chi ha la mia anzianità ha vissuto periodi in cui alle Vallette c’era una rivolta alla settimana. Chi ha esperienza conosce le tecniche di contenimento. E le strategie. I cancelli per esempio vanno tagliati subito. Ma non è un intervento, quello, che si può improvvisare. Serve il flessibile, che va procurato in tempo. Il comandante che era con me, Maurizio Contu, aveva pensato a tutto. E aveva raccomandato ai colleghi di non farsi male e di non fare male ai detenuti, nella foga. Mantenere la lucidità e la calma non è sempre facile. A volte per sedare un detenuto si arriva a provocare un danno, senza volerlo”. Il suo nucleo ha indagato un centinaio di poliziotti per torture… “Sono indagini nate da denunce dei detenuti ed esposti. Fa sempre effetto indagare dei colleghi. Ma se ci sono reati, forse è meglio che indaghi lo stesso corpo, che conosce certe dinamiche. Il carcere deve essere un luogo di reinserimento del detenuto. Questo dobbiamo ricordarlo sempre. Perché il carcere è lo Stato. Mi auguro che queste situazioni non si verifichino più. E che si capisca che i poliziotti non sono violenti. Sono persone che sacrificano affetti, famiglia e vita per lo Stato. Le immagini di quella rivolta lo fanno vedere. Siamo professionisti, non torturatori o assassini”. Ivrea (To). Morì di polmonite in carcere, tre medici ora rischiano il processo di Andrea Bucci La Stampa, 8 febbraio 2025 Nel gennaio 2024 Andrea Pagani Pratis era detenuto a Ivrea, da giorni aveva febbre. La procura: “Il detenuto avrebbe dovuto essere ricoverato in ospedale”. Morì in carcere a Ivrea per un edema polmonare Andrea Pagani Pratis. Era il 7 gennaio di un anno fa, e il decesso avvenne dopo che il detenuto, da sei giorni, lamentava tosse, febbre e un malessere generale. Ora tre medici che lo avevano visitato rischiano il processo. La pm di Ivrea, Valentina Bossi, ha chiuso le indagini sulla morte del 47enne, insegnante di educazione fisica di Casalnoceto (Alessandria), che stava scontando una condanna a 18 anni per aver ucciso a coltellate il padre Antonello il 27 settembre 2019. I tre sanitari avevano visitato Pagani Pratis in tre momenti diversi. Secondo la ricostruzione della procura, il dottor M., il 31 dicembre 2023, non avrebbe sottoposto il detenuto a visita medica nonostante questi lamentasse tosse, febbre, rinorrea, sudorazione, malessere e raffreddore da tre giorni. Dopo quattro giorni, senza alcun miglioramento delle condizioni di salute, Pagani Pratis fu visitato da T., che gli prescrisse una terapia antibiotica tre volte al giorno, una terapia antinfiammatoria a base di Brufen (due volte al giorno) e una terapia mucolitica (Frobemucil) una volta al giorno. Le condizioni di salute del detenuto peggiorarono ancora. Il 6 gennaio, fu visitato nell’infermeria della casa circondariale. Questa volta, il medico di turno lo prese in cura sia al mattino sia nel pomeriggio. Tuttavia, il detenuto venne fatto rientrare in cella, dove rimase fino al decesso, avvenuto la mattina successiva. La perizia - La perizia medico-legale ha poi stabilito che Pagani Pratis era un paziente astenico, sofferente, agitato, tachipnoico e tachicardico, nonostante la terapia antibiotica prescritta. Secondo la pm, questi erano tutti segnali che i medici avrebbero dovuto riconoscere, e il detenuto avrebbe dovuto essere ricoverato in ospedale. La denuncia dei compagni in carcere - La morte in cella di Pagani Pratis suscitò la rabbia dei compagni di detenzione, che scrissero una lettera sul giornalino del carcere La Fenice, in cui lui stesso si firmava con il nome di “Vespino”: “Il caso è stato preso troppo alla leggera. Si sarebbe potuto salvare”. A quella morte seguirono un’interrogazione in Consiglio regionale, firmata da Francesca Frediani (Unione Popolare), e un’interrogazione ai ministeri della Giustizia e della Salute a firma di Marco Grimaldi. Verona. Montorio, ispezione di avvocati e politici. Maria Grazia Bregoli torna direttrice Corriere di Verona, 8 febbraio 2025 L’altro giorno al carcere di Montorio c’è stato un sopralluogo della Camera Penale Veronese a cui ha partecipato anche la capogruppo in consiglio comunale della lista Fare Patrizia Bisiniella. Sopralluogo degli avvocati veronesi al carcere di Montorio, dopo la segnalazione di numerose criticità ed anche, purtroppo, di sucidi nel recente passato. Il presidente della Camera Penale, Paolo Mastropasqua, ha organizzato la visita, invitando anche la capogruppo comunale della Lista Fare, Patrizia Bisinella che ha ricordato come la sua lista si sia “fatta più volte parte attiva per portare all’attenzione del governo i temi caldi della struttura. Proprio lo scorso 5 febbraio - ha detto Bisinella - è avvenuto l’avvicendamento alla direzione della casa circondariale di Montorio e siamo molto lieti del ritorno della dottoressa Maria Grazia Bregoli”. Bisinella ha commentato alcuni lavori svolti nel carcere. “D’altro canto - ha aggiunto - ho dovuto constatare quanto il sovraffollamento sia ancora un gravissimo problema, con circa 600 detenuti a fronte di una capienza di 300 posti letto, in sezioni con pesanti problemi igienici e strutturali e celle non idonee. Il tema più preoccupante - ha proseguito la capogruppo - è sempre quello della mancanza di lavoro: ad oggi, su 600 persone, solo 17 hanno accesso a progetti di formazione e reinserimento lavorativo, parliamo di un numero incredibilmente esiguo mentre il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa e la creazione di una cultura della formazione al lavoro tra le mura carcerarie, con percorsi anche fuori dal carcere, è sicuramente l’opportunità principale di recupero, che possa evitare la recidiva ed è fondamentale per ridurre e smorzare tensioni e risse. Su questo aspetto - ha concluso Bisinella - con il cambio di direzione, spero ora si possa tornare a insistere e a progettare, creare percorsi di apprendimento e garantire lavoro”. Firenze. Carcere di Sollicciano, Italia Viva: “Nordio spieghi il trasferimento della direttrice” Il Dubbio, 8 febbraio 2025 “Perché non è stato rinnovato l’incarico alla direttrice del carcere fiorentino di Sollicciano Antonella Tuoni? Quando il ministro Nordio prevede di colmare il vuoto per garantire una direzione stabile e iniziative di reinserimento sociale?”. Sono queste le domande poste dai deputati di Italia Viva Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi in un’interrogazione al ministro della Giustizia. I due deputati di Italia spiegano nella loro interrogazione che “La direttrice Tuoni sarà “trasferita nella direzione del carcere di Arezzo, che conta circa 45 detenuti, mentre una struttura chiave del sistema penitenziario toscano come il carcere di Sollicciano viene lasciata senza un direttore titolare”. Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi sottolineano come il carcere di Sollicciano sia “una struttura fatiscente che non consente condizioni dignitose di detenzione e di lavoro per chi vi opera e che avrebbe bisogno di una pianificazione di seri lavori infrastrutturali. Invece il Dap ha lasciato il carcere di Sollicciano nell’instabilità, rischiando così di compromettere ogni progetto dedicato alla finalità rieducativa della pena e il reinserimento nella società”. La condizione del carcere di Sollicciano è stata più volte denunciata sia dalle associazioni che vi operano sia dagli stessi sindacati degli agenti penitenziari. Basta ricordare che, dai dati del ministero della Giustizia aggiornati al 13 gennaio, ospita 533 detenuti, 36 in più rispetto alla capienza massima di 497 posti, anche se quelli agibili sono di meno. Nel 2024 invece sono stati 64 i tentati suicidi nel carcere fiorentino, e due i detenuti che si sono tolti la vita. E quest’anno non è iniziato meglio: il 3 gennaio un detenuto di origini egiziane si è suicidato nella sua cella. Locri (Rc). Il progetto “Pro.Me” e le prospettive della Giustizia ripartiva diocesilocri.it, 8 febbraio 2025 Presentato al Porto della Grazie di Roccella Jonica il bilancio del progetto Pro.Me. della Caritas Diocesana di Locri-Gerace, che trasforma la pena in opportunità concrete, grazie alla sinergia con Tribunale, Casa Circondariale e realtà imprenditoriali locali. Al Porto delle Grazie di Roccella Jonica si è svolto con grande partecipazione l’evento dedicato al percorso di assunzione di un detenuto beneficiario del progetto di Giustizia Riparativa ideato dalla Caritas Diocesana di Locri-Gerace Pro.Me.: Profeti di speranza, Mendicanti di riconciliazione. Nel 2024 tale iniziativa ha già permesso l’assunzione di 6 detenuti nella casa circondariale e di 3 reclusi o già tali in aziende esterne, con la prospettiva di includerne altri due. Il progetto, grazie alla collaborazione tra il Tribunale, la Casa Circondariale di Locri e le Forze dell’Ordine, mira a offrire nuove possibilità a chi sconta una pena, dimostrando come il reinserimento lavorativo contribuisca a prevenire la recidiva e a costruire una società più equa. Alla conferenza stampa, durante la quale i rappresentanti degli enti che hanno reso possibile la buona riuscita del progetto hanno espresso il loro punto di vista sull’iniziativa e sul suo significato profondo, erano presenti diversi rappresentanti del mondo giuridico, imprenditori, operatori sociali e giornalisti, che hanno potuto così confrontarsi sulle sfide e le opportunità dell’integrazione sociale dei detenuti. Vasco de Cet, amministratore della società Porto delle Grazie, ha sottolineato l’impor tanza di investire nella riabilitazione e nel reinserimento lavorativo: “Assumere una persona con un passato giudiziario non è solo un atto di responsabilità, ma anche una scelta che porta valore all’intera comunità. Il Porto delle Grazie ha creduto fortemente in questo percorso e, nell’arco di un anno e mezzo, abbiamo creato cinque nuovi posti di lavoro, dimostrando che il settore privato può avere un ruolo attivo nel cambiamento sociale”. Ha inoltre evidenziato come Ilario Primerano, beneficiario dell’iniziativa, abbia iniziato il suo percorso lavorativo nel cantiere del porto ma, grazie a una formazione mirata, potrà presto accedere a nuove opportunità nel settore dell’accoglienza e della gestione portuale. Anche le istituzioni hanno evidenziato il valore etico e pratico del progetto. Il sindaco di Roccella Jonica, Vittorio Zito, ha sottolineato l’importanza di adottare una visione più ampia della legalità, mettendo al centro il concetto di responsabilità collettiva: “Oggi si è compiuto un passo significativo: il carcere ha aperto le sue porte e il Porto delle Grazie ha accolto questa opportunità, dimostrando che l’inclusione è possibile. Dobbiamo imparare a parlare meno di legalità come concetto astratto e più di responsabilità, perché è solo attraverso l’assunzione di responsabilità che possiamo costruire una comunità più forte e solidale.” Carmen Bagalà, direttrice della Caritas Diocesana di Locri-Gerace, ha posto l’accento sul valore umano e sociale della giustizia riparativa, sottolineando come sia necessario superare i pregiudizi e favorire un’autentica seconda possibilità per chi desidera reinserirsi: “Questo progetto dimostra che il carcere non deve essere una condanna a vita, ma una fase di transizione verso un nuovo inizio. Chi ha commesso un errore ha il diritto di dimostrare di poter cambiare e la società ha il dovere di offrire strumenti concreti per farlo. La scelta del Porto delle Grazie di partecipare a questa iniziativa è un esempio virtuoso di come si possa costruire una rete di solidarietà e responsabilità.” Uno dei momenti più toccanti della giornata è stato l’intervento di Ilario Primerano, beneficiario del progetto, che ha condiviso con emozione la sua esperienza: “Tornare alla vita fuori dal carcere non è semplice, ma sapere di avere un’opportunità lavorativa mi ha dato speranza e motivazione. Lavorare in un ambiente accogliente e con persone che credono in me è stato fondamentale per affrontare questa nuova fase della mia vita”. Parole che hanno colpito profondamente i presenti, testimoniando il valore reale dell’iniziativa e la sua capacità di incidere positivamente sul percorso di reintegrazione di chi ha vissuto un’esperienza detentiva. Ma la riflessione più incisiva è certamente stata quella di Fulvio Accurso, presidente del Tribunale di Locri, che ha evidenziato il ruolo della giustizia riparativa come strumento di trasformazione sociale: “La giustizia non è solo punizione, ma anche rieducazione. Il lavoro è uno dei pilastri fondamentali per garantire una vera riabilitazione. Il percorso di Ilario dimostra che con il giusto supporto e la volontà di cambiare, si può trasformare una condanna in un’opportunità di riscatto. Dare dignità attraverso il lavoro significa creare le condizioni per un reinserimento autentico e duraturo nella società.” La giornata si è conclusa con un momento di dialogo aperto tra i presenti, durante il quale sono stati condivisi spunti su come ampliare e replicare iniziative simili in altri contesti lavorativi e comunitari e che hanno permesso anche di raccogliere candidature spontanee per l’assunzione di altri detenuti in diverse realtà imprenditoriali del territorio. La Caritas Diocesana di Locri-Gerace ringrazia gli intervenuti e coglie l’occasione per sottolineare il contributo fondamentale di Valentina Galati, direttrice della Casa Circondariale, impossibilitata a partecipare ma della quale è stato più volte sottolineato l’impegno in grado di dare un impulso determinante alla buona riuscita del progetto. Con ciò, ribadisce il suo costante impegno nella promozione di progetti di solidarietà e inclusione, convinta che solo la collaborazione tra istituzioni, imprese e società civile possa creare un futuro più giusto e accogliente per tutti. Siena. Il 10 febbraio dibattito su riforme e dignità nelle carceri al Palazzo Arcivescovile gazzettadisiena.it, 8 febbraio 2025 Lunedì 10 febbraio 2025, alle 17, il Palazzo Arcivescovile di Siena ospiterà l’evento “Pena e Speranza. La vita in carcere, le riforme necessarie”, promosso dall’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val D’Elsa-Montalcino e dalla Fondazione Derek Rocco Barnabei. Interverranno il card. Augusto Paolo Lojudice, l’avvocato Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti per la Toscana, Anna Carli, presidente della Fondazione Barnabei, e Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio. L’iniziativa intende portare attenzione sulle condizioni di vita nelle carceri e sul tema della pena di morte, in vista del Giubileo dei detenuti previsto per dicembre 2025. “Papa Francesco ha aperto una porta santa in un carcere, indicando la strada per trasformare i luoghi di detenzione in laboratori di speranza”, spiega il card. Lojudice. “Questo evento è un primo passo per mettere al centro i diritti umani anche dietro le sbarre.” Sarà inoltre istituito un comitato organizzatore per il Giubileo. Anna Carli ricorda l’impegno della Fondazione Barnabei, nata per onorare la memoria di Derek Rocco Barnabei, giustiziato nonostante una campagna internazionale per salvarlo. “Sosteniamo la moratoria della pena di morte e lavoriamo per la dignità dei detenuti, affinché la pena non privi della speranza di un futuro”. L’incontro sarà un’occasione di riflessione e impegno per una giustizia più umana e rispettosa della persona. Udine. Il cinema per raccontare il carcere: debutta la rassegna “Cinemadentro” di Timothy Dissegna Messaggero Veneto, 8 febbraio 2025 L’intento è quello di avvicinare la cittadinanza alle problematiche legate alla detenzione: si parte il 13 febbraio con doppia proiezione per studenti e pubblico. Il cinema per raccontare il carcere. È questo l’obiettivo dell’inedita rassegna Cinemadentro che farà presto il suo debutto a Udine. Si è tenuta questa mattina nel Salone del Popolo del municipio la presentazione dell’iniziativa promossa dal Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Andrea Sandra, in collaborazione con il cinema Visionario, il Comune e altri partner. Il tutto nasce con l’intento di avvicinare la cittadinanza alle problematiche legate alla detenzione, offrendo spunti di riflessione attraverso il linguaggio del cinema. Sandra ha sottolineato come la selezione dei film (tre e tutti in proiezione alle 20.30) sia stata complessa, data l’ampia scelta di opere sul tema, ma proprio per questo ci sono già idee per il futuro. L’obiettivo è che Cinemadentro diventi un appuntamento fisso, stimolando il dibattito e contribuendo a una maggiore consapevolezza. La rassegna si aprirà il 13 febbraio con Benvenuti in galera di Michele Rho, un titolo dal valore simbolico, che richiama l’intento della manifestazione: portare il carcere, se non fisicamente, almeno concettualmente, fuori dalle sue mura. Saranno presenti il regista e la consigliera dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Giorgia Alenga. Il film avrà una doppia proiezione, una al mattino riservata agli studenti e una serale per il pubblico. Il secondo appuntamento, il 27 febbraio, è con Prigione 77 di Alberto Rodríguez, ispirato a una storia vera e ambientato in Spagna tra la fine del franchismo e l’inizio della democrazia. Il film affronta il tema del sovraffollamento carcerario e della discussa amnistia dell’epoca. Lo introdurrà Raffaele Conte, presidente della Camera Penale Friulana. L’ultimo film in programma, il 13 marzo, è Una donna chiamata Maixabel di Icíar Bollaín, che racconta il percorso di giustizia riparativa tra la moglie di un uomo ucciso dall’ETA e gli assassini. Sarà presentato da Paola Diana, presidente del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Udine. Durante la conferenza, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Udine, Raffaella Sartori, ha evidenziato l’importanza di avvicinare cittadini e studenti alla realtà carceraria, spesso conosciuta solo attraverso numeri e sentenze. Nel 2024 ci sono stati 89 suicidi nelle carceri italiane, un dato allarmante che rende necessario mettere al centro la dignità della persona e la funzione rieducativa della pena. Giulia Cane, in rappresentanza del Visionario, ha espresso soddisfazione per l’ampia adesione del pubblico e per le risorse stanziate grazie al Piano Nazionale Cinema e Scuola, sottolineando che Prigione 77 è stato paragonato al miglior cinema americano. La Mediateca spera di poter proseguire questa iniziativa portando il cinema direttamente all’interno delle carceri. L’assessore Arianna Facchini ha elogiato la partecipazione delle scuole, ribadendo che il carcere non deve essere percepito come una realtà lontana e dimenticata. Ha inoltre sottolineato come la detenzione sia spesso legata a disuguaglianze sociali e come sia fondamentale lavorare per un cambiamento culturale. Un importante passo in questa direzione sarà la realizzazione, entro fine 2025 o inizio 2026, di una sala multimediale all’interno della casa circondariale di via Spalato, dotata di attrezzature adeguate per proiezioni cinematografiche. Como. “Corpo a corpo”. L’arte entra in carcere e dà spazio alla speranza di Paola Pioppi Il Giorno, 8 febbraio 2025 Una collettiva di arte contemporanea all’interno della Casa Circondariale Bassone di Como. È il progetto nato dalla collaborazione tra Como Arte Ets e la direzione della struttura penitenziaria, sfociato in “Corpo a corpo”, la mostra che sarà aperta al pubblico e visitabile su prenotazione fino a fine marzo. “L’obiettivo della Fondazione - spiega Paola Re di Como Arte - è stato innanzitutto il coinvolgimento dei detenuti con un ruolo attivo nell’iniziativa, sia da un punto di vista artistico, sia come accompagnatori dei futuri visitatori agli spazi detentivi”. Grazie al lavoro condotto con la direzione, gli educatori e la Polizia Penitenziaria, la mostra curata da Giovanni Berera ha preso forma, “rappresentando un importante seme di speranza e di fiducia in un luogo di certo non comune, ma che appartiene ed è anzi parte fondamentale della sua città”. Il corpo è un concetto importante all’interno della realtà carceraria: simbolo di uno degli ultimi baluardi di libertà e di speranza per i detenuti. I corpi diventano spazi di espressione e di protesta, luoghi fisici e carnali di cambiamento e di sofferenza. Si vive gli uni accanto agli altri, in un corpo a corpo non sempre fortunato, ma che a volte diventa amicizia, amore, vicinanza e speranza. L’artista cileno Jaime Poblete ha raccolto l’invito della Fondazione ad attivare workshop con i detenuti e le detenute delle sezioni maschile, femminile e transgender, e realizzare un’opera comunitaria: “Qué hay en el fondo de tus ojos” è il risultato dei mesi trascorsi insieme, una produzione site specific che include anche una sezione fotografica. Accanto a questo lavoro, altri importanti artisti hanno accettato di allestire le loro opere negli spazi carcerari. Sono Marinella Senatore, Pietro Terzini, Giulia Cenci, Mario Consiglio, Maurizio Bonfanti, Valerio Gaeti, con cinque docenti del Liceo Artistico Fausto Melotti di Cantù: Walter Francone, Giorgio Biffi, Silvano Briccola, Arnaldo Sanna e Antonello Scotti. Infine Santiago Sierra. La mostra può essere visitata sabato 15 febbraio, 1, 15 e 29 marzo in due turni di visita alle 11.00 e alle 14.00. La prenotazione è obbligatoria inviando una mail a press@comoarte.org per ricevere il modulo da compilare per l’accesso all’Istituto, che si trova in via al Bassone 11 a Como. Massa Carrara. Pet therapy nel carcere, percorsi con i detenuti oltre ogni barriera di Nicola Ciuffoletti La Nazione, 8 febbraio 2025 La psicologa Francesca Mugnai spiega come funziona il progetto apuano: “Si crea uno stacco, un momento positivo che rompe la quotidianità. Gli educatori individuano le persone che possono trarre più beneficio”. “Un sentimento di gratitudine e leggerezza, perché durante le nostre attività con i cani da pet therapy si crea una speciale bolla all’interno della quale vigono regole diverse da quelle della quotidianità del carcere. Un momento prezioso anche per i detenuti, autentico”. Francesca Mugnai, psicologa, filosofa, specializzata in psicologia nella natura, è presidente di Antropozoa, realtà che da oltre 25 anni collabora a livello regionale e nazionale con strutture pubbliche e private, ospedali, case di riposo, centri di salute mentale, scuole e Università, con IAA, interventi assistiti con gli animali (la cosiddetta pet therapy) racconta il progetto nella casa circondariale massese: “E’ iniziato nel 2023; dopo una breve interruzione è ripartito in queste settimane e prevede una durata almeno iniziale di circa 8 mesi, fortemente voluto dalla direttrice del carcere Antonella Ventura con incontri di due ore ogni quindici giorni”. Sono coinvolti molti animali: Kia, Cecco, Sofi, Nina, Bruno, Nana, Orso, Frida, Flo nell’imprescindibile coppia con il loro operatore umano, a partire appunto da Francesca Mugnai e Barbara. I detenuti coinvolti sono circa una quindicina. Mugnai spiega che “c’è una forte richiesta da parte dei detenuti per tali attività. Spetta agli educatori e psicologi del carcere che li seguono nel corso dei mesi valutare chi, in base a caratteristiche comportamentali ed emotive e alla propria storia penitenziaria, può trarre maggiori benefici anche emotivi dalla relazione con l’animale. L’attività di pet therapy viene svolta in una stanza apposita dove è possibile lavorare anche senza guinzaglio, in libertà, gestendo il controllo. Sono presenti gli educatori di riferimento del carcere, gli esperti dell’IAA e il ricercatore”. Cruciale anche il ruolo degli agenti carcerari: “Sono alleati in questo percorso, riconoscendone i benefici anche a breve termine. La presenza del cane nella struttura, ha un impatto benefico sistemico - aggiunge Mugnai - Crea uno stacco, un momento positivo in una quotidianità spesso sempre uguale anche per chi ci lavora”. Il range di età al quale il progetto si rivolge è davvero ampio: “Attualmente il detenuto più giovane ha 22 anni, il più grande una 70ina - precisa la dottoressa - Per qualcuno è l’unica attività accettata da quando sono in questa struttura: scendono appositamente per svolgerla, li stimola in maniera diversa. Se c’è una “selezione” in base ai reati commessi? No. In questo l’animale è un ottimo esempio: non distingue tra reati. Per lui una persona è una persona, senza giudizi e distinzioni. Per il soggetto coinvolgo c’è un effetto riparatorio, di sollievo. Concentrarsi sulla narrazione dell’animale diventa spesso una metafora, porta a ragionare anche sul proprio grado di affettività e permette di riconoscere le emozioni”. Qualcuno, una volta uscito, ha proseguito nella relazione con l’animale. “Sappiamo di persone conosciute nel carcere di Massa, realtà molto virtuosa, e tornati nella terra di origine che hanno intrapreso lavori legati agli animali, per esempio in canili o aziende agricole. Il progetto ha dunque risvolti sociali, emotivi e personali molto forti”. Il principio caratterizzante il “Modello Antropozoa”, sviluppato in tanti anni di lavoro con varie realtà, è che l’operatore è l’attivatore e facilitatore insieme e con all’animale di dinamiche relazionali complesse e strategiche, in cui si realizza il cuore dell’intervento di pet therapy. Agnese Moro e Adriana Faranda, il miracolo della giustizia riparativa di Michela Di Biase huffingtonpost.it, 8 febbraio 2025 Le mani dell’una in quella dell’altra a testimoniare il loro incontro che è stato possibile grazie alla giustizia riparativa. Di come questa sia riuscita ad occuparsi dell’irreparabile ne siamo stati testimoni ieri durante il convegno “parole della giustizia”. Nella Sala del Refettorio della Camera dei Deputati Agnese Moro e Adriana Faranda hanno dialogato insieme al Prof Adolfo Ceretti. Di questo racconto di umanità ci parla il “Libro dell’incontro-Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”. Qui la verità dei vissuti e delle emozioni ha cercato, per dirla con Claudia Mazzucato, le parole per raccontarsi, consegnando a noi, “secondi” tra i “terzi”, anche noi parte della comunità che è stata toccata dalle vicende di quegli anni, questo lavoro di incontro, di ricomposizione e riconoscimento reciproco. Un percorso che ci viene consegnato, perché nuovi ed ulteriori orizzonti possano aprirsi. L’associazione Fare, sta organizzando una serie di dialoghi sulle parole della giustizia e quando ci siamo trovate a riflettere su quale parola fosse la più corretta da utilizzare per questo dialogo, abbiamo ritenuto che “incontro” fosse quella che più di ogni altra dava conto del cammino che donne e uomini hanno percorso, verso il reciproco riconoscimento. E più di ogni altra parola si presta a descrive la Giustizia riparativa, che è, come sottolinea il prof. Ceretti, giustizia dell’incontro, segnando il passaggio da una giustizia verticale ad una giustizia orizzontale. Il Diritto penale con le condanne, le carceri speciali le pene espiate sembra non aver soddisfatto la domanda di giustizia tanto dalla parte delle vittime che da quella dei responsabili, sembra infatti incapace di offrire ricomposizione. La giustizia penale che pure ha costituzionalmente come finalità il principio della funzione rieducativa della pena, appare tuttavia strutturata attorno alla punizione in chiave retributiva, non mostrandosi capace di attenzione alle vittime ed esponendole ad un circolo di dolore in cui il male, il dolore si cristallizza. Come ci ricorda Agnese Moro: “dopo la violenza, quando è arrivata la giustizia, non è cambiato niente. Non si è spezzata la catena del male. La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, solidifica le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo, conclude Agnese, la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno.” Così come non sembra fornire closure ai colpevoli disattendendo così le promesse del modello retributivo-punitivo, secondo cui con la pena si paga il reato, si estingue il debito con la società. Da qui la necessità di guardare al reato come ad un evento relazionale, che coinvolge offensore, vittima e collettività, in questa nuova visione l’illecito non è più unicamente un illecito da punire, ma va considerato come un accadimento complesso che ha luogo tra persone ed il gesto riparativo è possibile solo nell’economia di una relazione che è disponibile ad accoglierlo. Da qui il bisogno di un’altra giustizia. Siamo davanti ad un nuovo paradigma: è possibile costruire una giustizia che sia emendata dalla crudeltà? È concepibile un sistema penale che non ricorra unicamente alla forza coercitiva? Su queste domande che investigano tanto il diritto quanto le nostre coscienze vorrei provassimo a riflettere tutte e tutti noi. Padre Guido Bertagna ci ha indicato la strada: “su tutto, abbiamo imparato una cosa: sempre, prima di entrare, non dimenticare mai di toglierti i sandali e lasciarli fuori. Sei in quella terra santa che è la vita dell’altro”. A Pontremoli vite di ragazze dietro le sbarre di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 8 febbraio 2025 In tutte le carceri italiane ci sono sezioni femminili e maschili ma solo alcuni penitenziari - come quello di Venezia Giudecca - è esclusivamente femminile. Ma si tratta di detenute adulte. L’unico Istituto penitenziario per minorenni (Ipm) destinato solo alle ragazze è dal 2010 quello di Pontremoli, in provincia di Massa Carrara, una piccola struttura (17 posti) che ospita le giovani provenienti da tutte le regioni settentrionali tra cui il Piemonte che, prima della sua apertura, venivano ristrette al “Ferrante Aporti” di Torino. Alle ragazze di Pontremoli è dedicato un libro che Mario Abrate, per molti anni direttore dell’Ufficio di Servizio sociale per Minorenni di Torino, ha scritto per raccontare “la sua esperienza umana e professionale” di direttore dell’Ipm di Pontremoli per 5 anni, prima della pensione dopo 40 anni dedicati alla giustizia minorile. È un libro che si legge tutto d’un fiato - come evidenziano Ennio Tomaselli, giudice minorile torinese nella prefazione l’introduzione e Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino nella postfazione. Pagine che raccontano storie delle anime tormentate di Jennifer, Jessica, Sara, Anna, Miriam, Violeta, Kristina, Nicoletta - alcune delle ragazze ristrette - e di Giulia, la loro giovane educatrice che vive un altro tormento: quello di cercare di stare accanto e di rieducare giovani (perché quello, come recita l’art.27 della Costituzione, è il fine della pena) che fin da bambine sono naufraghe in un mare di fragilità. Perché, come traspare dalle considerazioni del direttore che riporta la frustrazione di chi lavora con i minori detenuti (persone in formazione), non è merito nostro se “loro sono dentro e noi fuori”, come spesso ripete Papa Francesco raccontando delle sue visite ai carcerati di Buenos Aires e il rumore dei cancelli che si chiudevano dietro le sue spalle quando usciva per tornare in Arcivescovado. E leggendo il libro di Abrate - strutturato come una sorta di colloquio fra il direttore e le ragazze che gli sono affidate - sorge spontanea una riflessione. Proviamo - noi che stiamo leggendo le storie delle ragazze recluse - a domandarci: se fossi nato in una famiglia di camorristi, in un campo Rom, in un villaggio africano dove non sono sicuro di mangiare tutti i giorni e l’unica speranza è raggiungere l’Occidente con un barcone, cosa sarei diventato/a? Vero è che tutti noi abbiamo la facoltà di scegliere tra il bene e il male ma è più complicato, come diceva don Bosco, se diventi “discolo e pericolante” perché non hai avuto famiglia e nessun punto di riferimento adulto “sano”. Ecco le ragazze di Pontremoli, potrebbero essere nostre figlie. Mario Abrate, “Le ragazze di Pontremoli”, prefazione di Ennio Tomaselli, postfazione di Monica Cristina Gallo. Impremix Edizioni 2024, 124 pagine, 15 euro. Così, da vittima di bullismo, sono finito in carcere di Luca Iacovone vita.it, 8 febbraio 2025 La storia di G. racconta una catena del male che si ripete: prima vittima di bullismo, poi carnefice. Allontanato dalla scuola, ha cercato riscatto tra le persone sbagliate. Condannato per tortura, ha vissuto l’isolamento anche dietro le sbarre. Eppure, dice, io volevo solo un amico. Questa storia è stata pubblicata nel numero di dicembre di S-Catenati, il periodico scritto insieme ai detenuti della Casa circondariale di Matera. Un giornale che esiste solo su carta e arriva solo agli abbonati. S-Catenati è edito dall’associazione di volontariato penitenziario Disma. Ogni numero del periodico ospita un pezzo di fondo, sempre frutto di un incontro tra un volontario e un detenuto in una piccola stanza del carcere di Matera. Dagli appunti del volontario prende forma il testo, scritto in prima persona, pur essendo sempre una rielaborazione. La scelta stilistica è precisa: portare il lettore dentro quella stanza, accanto al volontario, per ascoltare senza filtri la storia di chi sta dall’altra parte del muro. Ora, potete entrare anche voi in quella stanza e ascoltare la risposta di G. alla sola domanda che gli ho posto e che, fino ad allora, nessuno gli aveva mai fatto: Perché l’hai fatto? Quando qualcuno qui in carcere inizia a parlare della sua vita prima del carcere, la storia inizia sempre con la solita premessa: “Ero un ragazzo normale”. Ma com’è una vita normale? Che si prova? Lo vorrei chiedere ogni volta che sento questa frase. Sembrano così felici quelli nelle vite normali. Non fraintendermi, so benissimo cosa significhi nascere in una famiglia normale: la mia famiglia è il regalo più bello che la vita mi abbia fatto. Ma fuori - intendo - è un’altra cosa. A scuola, ad esempio, io mi sono sempre sentito diverso. I discorsi dei miei compagni di classe, le loro battute, i doppi sensi, correvano troppo veloci, io cercavo di afferrarle, ma nella mia testa arrivava solo l’eco delle loro risate. E veloci come le loro parole, arrivavano gli schiaffi, gli sputi, gli spintoni. Mi trovavo per terra, sentivo male, ma non capivo, perché io? Ogni mattina, ad ogni passo che facevo verso l’ingresso della scuola, la rabbia montava nella mia testa come in un vortice rumoroso. Sarebbe stato quello il giorno giusto, mi ripetevo ogni volta, sarei finalmente riuscito a reagire, ero pronto, avrei tirato fuori il carattere. Ma poi non ci riuscivo: ogni giorno così. Una volta ero sulle scale, era appena suonata la campanella e stavamo tutti correndo verso l’uscita, quando all’improvviso sentii arrivare forte uno schiaffo dietro la nuca. Lo sentirono tutti quello schiaffo. Ma i miei occhi erano già sugli occhi di mio nonno, che mi aspettava appena dietro la vetrata. Tutti scoppiarono a ridere, lui urlò qualcosa (forse), si avvicinò (non ricordo bene), nei miei occhi c’era solo la nebbia e, stampata come un tatuaggio, la delusione che riconobbi sulla faccia di mio nonno. Seguirono infiniti colloqui, incontri con professori, dirigenti, psicologi. Loro parlavano, parlavano, parlavano. Mi dicevano cosa avrei dovuto fare, come avrei dovuto rispondere. Io annuivo, ma - tanto - già lo sapevo: cosa fare, come rispondere, era già tutto dettagliato nella mia testa. Dovevo farmi rispettare, farmi valere, reagire. Ma non ci riuscivo: ero io quello sbagliato. Ora che i miei genitori avevano scoperto quello che fino ad allora ero riuscito a nascondere, a tenere schiacciato nella mia testa come in una pentola a pressione, anche nei loro occhi ero diventato diverso. A scuola i calci, gli sputi, gli scherzi e le spinte aumentarono, invece di diminuire. Tanto che a un certo punto i professori non trovarono consiglio migliore per i miei genitori che invitarli a farmi lasciare la scuola. “Il lavoro in campagna lo aiuterà” dicevano. E così è stato. Avevo 16 anni. Ho iniziato a dare una mano a papà, nell’azienda agricola che ha creato con il suo sudore e l’amore per la famiglia. Quel tipo di amore senza chiacchiere e distrazioni. Mi piaceva lavorare. E la sera, quando tornavo a casa, giocavo alla PlayStation. Prima da solo, poi ritrovai per caso online un vicino di casa più piccolo di me di qualche anno: ci davamo appuntamento per giocare a distanza. Qualche volta ci siamo visti anche fuori, abbiamo provato a passare del tempo insieme, ma non era bello come giocare online. La consolle rendeva tutto più vero e divertente: la voce, le risate, scivolavano lungo i fili della PlayStation più leggere. Normali. Intanto ero arrivato a 18 anni e finalmente poteva avverarsi il desiderio che ogni mattino alleggeriva la fatica dei campi: l’acquisto di una macchina. Erano i miei soldi, li avevo guadagnati io. La mia prima auto arrivò puntuale sotto casa, era azzurra, come il cielo che raccoglieva all’alba i miei pensieri ogni mattina. L’entusiasmo con cui l’accolsi convinse mamma e papà che finalmente avrei avuto uno stimolo in più per uscire di casa. A farmi degli amici veri. Li avevo già delusi tante volte, ma ora era diverso, il rumore del motore rispondeva ad ogni mio comando e mi faceva credere davvero che questa volta sarebbe stato diverso: sarei riuscito a prendere in mano le redini della mia vita. Così avvenne. O almeno questo è quello che credetti. Iniziai a rientrare tardi la sera a casa, ad avere una comitiva, sì ma non una qualunque, fatta di sfigati come me, al contrario! Ero con i più ganzi del paese. Non riuscivo a crederci. Io ero il più grande del gruppo, loro più piccoli di due, tre anni. Erano sempre allegri, felici, sapevano divertirsi, io continuavo a sentirmi diverso, a volte mi prendevano in giro, ma poi tornavano subito a farmi sentire importante. Mi incoraggiavano e mi spingevano a superare le mie paure, i miei limiti. E io li accompagnavo ovunque mi chiedessero di andare. Ero l’unico ad avere la macchina. Già quando andavo a catechismo da bambino, nella chiesa vicino casa sua, ricordo che alcuni ragazzi più grandi si divertivano a suonare il suo campanello di casa, per vederlo uscire arrabbiato. Il Pazzo fingeva di essere armato e con la sua voce colpiva mortalmente i disturbatori. E questi, divertiti, ritornavano, come in una giostra senza biglietto d’ingresso. Inizialmente andavamo dal Pazzo con lo stesso spirito, per farci due risate. Poi piano piano il campanello divenne troppo poco, arrivò il primo calcio alla porta e anche io ruppi una finestra allo stesso modo: ricordo le sue urla impaurite. Era notte. Giorno dopo giorno lo scherzo divenne un incubo, come in una spirale che ogni volta legittimava il passo successivo. E quello dopo ancora. Entrammo a casa sua più volte: schiaffi, calci, bastonate. Mi chiamavano cacasotto, perché non avevo il coraggio di colpire il Pazzo. Ma avevo il telefono con la fotocamera migliore e questo bastò a ritagliarmi il ruolo che mi riusciva meglio. Filmavo tutto, poi condividevo i video su whatsapp e l’adrenalina di quei momenti continuava a pompare eccitazione e risate anche dopo ore. Ogni iniezione in differita di questa strana droga virtuale pretendeva dosi sempre maggiori. E noi, ciechi, gli obbedivamo. Ridevamo, ci divertivamo, ma per me era diverso: nello schermo di quel telefono non c’era il Pazzo, c’ero io. I calci, gli sputi che rivedevo nei video, non erano diretti al Pazzo, ma al fantasma del mio futuro. In quei video il Pazzo ero io, sarei diventato certamente come lui, io, fra trenta, quarant’anni. Se non fosse stato per l’aiuto dei miei nuovi amici. Rivedevo quei video in modo compulsivo: ad ogni sputo quel fantasma si allontanava dalla mia vita, ad ogni calcio si allontanava la possibilità che io potessi diventare come lui. Nel mio schermo vedevo arretrare impotente il futuro che mi spaventava più di ogni cosa. Stavamo vincendo noi. Era come nelle partite alla PlayStation, bisognava annientare il nemico per evitare che lui togliesse la vita a noi. Spaventato a morte da questi raid notturni, il Pazzo del paese smise di uscire di casa e di mangiare. Finché i vicini capirono che forse questa volta qualcuno stava oltrepassando il segno. Iniziarono a segnalare le incursioni alle forze dell’ordine, ma le bravate a case del Pazzo non erano una novità, così non c’era mai una volante disponibile. Quando finalmente le volanti arrivarono lo trovarono legato ad una sedia, denutrito, sofferente. Accompagnato in ospedale morì dopo qualche giorno. Dopo un lungo processo i giudici verificarono l’assenza di una causalità diretta tra la sua morte e la nostra condotta. Il decesso in ospedale arrivò per una malattia indipendente dallo stato di terrore e soggezione a cui lo costrinse la nostra malvagità inaudita, senza scuse. Ma questo non bastò a placare la sete morbosa di dettagli e curiosità di tutta Italia: giornalisti, programmi televisivi, Barbara D’Urso, Chi l’ha visto, tutti parlavano della baby gang che aveva portato alla morte un pover’uomo. Quando ci trovammo in commissariato con gli altri, tutti indagati, mi riconobbero a malapena. Parlavano a bassa voce, si cercavano con lo sguardo, loro. Io, senza la mia macchina, non servivo più a nulla. Stava per iniziare la pagina più brutta di una vita che non mi era mai piaciuta, il peso di un crimine orribile, la vergogna e il dolore per quello che avevamo fatto. Eppure, non so come, in quel momento non riuscivo a non pensare che per quei ragazzetti davanti a me, io non ero altro che un mezzo di trasporto da sfruttare. Me ne rendevo conto solo in quel momento. Avevo 18 anni. Sono stato condannato a quasi 9 anni di reclusione. Pensavo di aver toccato il fondo, ma perché ancora non conoscevo quello che mi attendeva in carcere. Il carcere è solo un pezzo di mondo. Solo che il mondo, in carcere, moltiplica per dieci i suoi istinti. Dai detenuti finanche a qualche agente. Oggi li capisco, non lo dico per accusare qualcuno, solo per raccontarti quello che ho imparato stando qui. Prova a metterti nei panni di un agente penitenziario, una persona che lavora con fatica ogni giorno per mantenersi dalla parte della giustizia. Immagina di essere inseguito per settimane in tv dalla descrizione puntuale di un mostro, il peggiore di tutti i mostri, uno di quelli che mangiano gli indifesi. Il giorno dopo per puro caso ti viene affidato in una camionetta proprio quel mostro. Prova, ora, a sentire gli insulti che ho ricevuto. Più mi vedevano impaurito, annichilito dal dolore, frastornato da urla e ordini che non riuscivo a capire, più forte era la loro voce contro di me. Forse perché quando hai un mostro così vicino a te, soprattutto se appare piccolo e impaurito (come io apparivo) rischi di accorgerti di somigliargli, che in fondo la tua storia non è poi così diversa dalla sua. Che nel grande gioco di ruolo che è la vita le parti assegnate all’inizio della partita, possono cambiare. E allora senti il bisogno di allontanarlo, di urlargli contro, di insultarlo, per dire a te stesso e a chi ti guarda, che non è vero che siete simili. Il diverso va allontanato perché toglie sicurezza al nostro posto dalla parte dei buoni. Me la sono cercata, in fondo, non me la prendo con nessuno, perché sulla mia pelle ho misurato cosa vuol dire stare da entrambe le parti. Anche in carcere si vede la televisione. E anche gli altri detenuti mi vedevano come un cancro contagioso, da estirpare, nessuno voleva sentirmi vicino, simile. Ancora una volta tutti sentivano il bisogno di dirmi quanto fossi diverso da loro. In sezione un detenuto arrivò a tirar fuori dal suo calzino una spilla, o forse una lametta, non so dirti con precisione. Per rinforzare quello che io evidentemente non riuscivo a capire: qua fai troppo schifo, mi disse, inutile che cambi cella ogni giorno, te ne devi andare proprio da questa città, se no esci con i piedi davanti. Ma io non sapevo far altro che piangere. Forse qualcuno mi ha voluto bene e ha allertato il magistrato di sorveglianza, così sono stato trasferito a Matera. Qui è diverso. Sto meglio ora. Non passo più le giornate a piangere, ho riletto la mia vita con l’aiuto di tanti esperti, di fra Gianparide, dei volontari. Sono entrato in carcere che ero come un bambino, oggi mi sento uomo. Ho 24 anni. Eppure, ho ancora paura, ma una paura diversa. Ho fatto tanti passi avanti e ora ho paura di crollare, perdere la consapevolezza che ho maturato. Ora sono pronto, il carcere mi ha dato tanto, ma ho ancora troppo tempo da trascorrere qui dentro. L’altro giorno ero sul punto di crollare, la speranza qui è faticosa, soprattutto quando pensi alla vita fuori. Pensavo che quando potrò uscire sarò troppo grande per trovare un amico, nessuno più vorrà avvicinarsi a me. Il giorno dopo è arrivato il momento delle chiamate a casa, ho sentito mamma, mi ha detto che si è rifatto vivo con una telefonata quel mio amico della PlayStation, te lo ricordi? Ha detto che lui mi pensa e ha chiesto a mia madre di portarmi i suoi saluti. Questa è la cosa più bella che sia accaduta nella mia vita. Ho fatto cose terribili, che mi vergogno anche solo a ricordare, ma la verità, non so come dirtelo Luca, è che io volevo soltanto un amico. Il muro di via Anelli, una narrativa di opposizione Beatrice Andreose Il Manifesto, 8 febbraio 2025 “Il muro di via Anelli. Frammenti di vita e di lotta per la casa”, il nuovo graphic novel di Giuseppe Zambon e Paolo De Marchi, BeccoGiallo editore, è un racconto per immagini che ne contiene molti altri, gremito di soggetti collettivi e individuali, pratiche, movimenti: in altre parole è un affresco generale su una lotta che coinvolge l’intera città solidale e riesce a fare il ‘miracolo’, come lo definì Moni Ovadia, ovvero ad assicurare a Padova, tra il 1998 e il 2006, la ricollocazione di centinaia di famiglie in alloggi dignitosi, distribuiti nel tessuto cittadino. Stranieri prima costretti, tra razzismo e speculazione, a vivere assiepati in condizioni miserabili nel cosiddetto ‘ghetto’ di via Anelli, andato alla fine smantellato. Il volume ricostruisce quella esperienza, che riempì i media nazionali ed europei, e restituisce alla memoria collettiva lotte dimenticate dai più, per discutere del presente. Gli autori, entrambi ex docenti ed attivisti di ADL Cobas, si inseriscono a pieno titolo nel filone della working class history. Costituiscono, scrive Massimo Carlotto nella sua introduzione “una novità significativa nel panorama del fumetto italiano che apre alla possibilità di produrre dal basso narrativa di opposizione”. Disegni e testi restituiscono la complessità di una storia che parte dal cronico problema della casa, oggi come ieri tra i più scottanti, per ricostruire la storia del ghetto col ritmo incalzante tipico delle inchieste filmate. Intercalano i fumetti con gli articoli di stampa, in prima persona raccontano il contesto sociale, quindi danno spazio alle numerose testimonianze, quella di Alì, di suo fratello Omar, Amed, Elisabeth, Yemen ma anche degli attivisti come Claudia, Tino, Mario, Giovanni e altri ancora. Infine il graphic ospita un testo di Razzismo Stop che offre un lungo excursus sui progetti di svuotamento dei campi rom a Padova e di quelli dei profughi kosovari e serbi a Mestre o, ancora, le numerose occupazioni di case sfitte a Padova, dagli anni ‘80 ai giorni nostri. La vicenda si svolge in un periodo che comprende due giunte comunali di colore politico diverso, ed è raccontata attraverso il dialogo, a distanza di decenni, tra attivisti di quella stagione e alcuni/e ex residenti di via Anelli. I narratori sono i due autori fuori-storia, disegnati rigorosamente in bianco e nero e in dialogo tra loro. Bianco e nero che De Marchi utilizza anche per gli interni mentre col colore descrive i protagonisti e gli eventi della storia. È una storia “scabrosa e vincente” per dirla con Gianfranco Bettin, che firma la postfazione. Siamo nel 1998, in via Anelli c’è un gruppo di sei palazzoni con 280 appartamenti, 1300 inquilini, soprattutto famiglie straniere con bambini, e 15 diverse culture. Una città nella città. Diritti negati, disagi di ogni tipo. Il casus belli è una rissa tra bande rivali di spacciatori nordafricani e nigeriani. In risposta la stampa si scatena e il centro destra attiva ronde razziste. Sul fronte opposto Razzismo Stop promuove un’assemblea nel piazzale di via Anelli, alla quale partecipano ben cinquecento persone, una babele di lingue e di culture. Nasce il Comitato per il superamento del ghetto di via Anelli, e Razzismo stop installa nel piazzale un container che diventa uno sportello antirazzista a cui si rivolgono, ogni giorno, decine di persone. Il Comune denuncia gli attivisti di abuso edilizio e l’associazione, assieme ad altre organizzazioni pacifiste, le tute bianche, i centri sociali e radio Sherwood, apre un mutuo con Banca Etica, e attiva l’azionariato sociale per acquistare uno degli appartamenti sfitti. Così l’11 marzo 2000 i suoi attivisti entrano nel civico 31, interno 36, e ne fanno un appartamento solidale che offre consulenza medica, giuridica, sindacale ai residenti del ghetto. Alì, classe 1987, ai tempi dei fatti era un bimbetto di dodici anni più attento al pallone che alle battaglie. Dopo venticinque anni i protagonisti del Comitato lo incontrano in treno mentre vanno ad una manifestazione per il diritto alla casa a Venezia. Sul filo della memoria, davanti un bel piatto in trattoria, ricordano la mega rissa, i titoloni razzisti sui giornali, le paure, la repressione, le famiglie con bambini che lavorano e vogliono vivere tranquille, il barbiere, il cuoco, i loro sogni e le loro abilità in cucina, nello sport, con la musica. Ne ricavano una via Anelli ricca di storie e di vita in comune. Gli autori si soffermano sulla famiglia di Alì e del fratello Thomas, il cui padre cuoco fugge da Bagdad, quando Saddam invade il Kuwait, si rifugia in Tunisia e dopo poco arriva in Italia. Apre un ristorante etnico in centro a Padova che inizialmente va bene, poi male. A Padova nessuno affitta agli immigrati, così finiscono in via Anelli. Pur sapendo dello spaccio, non hanno alternative. Trenta mq a 600 euro mensili per una famiglia di sei persone. Alì ricorda l’assemblea, il container, le squadrette razziste della Lega Nord, le retate della polizia. Carla ricorda la campagna di azionariato sociale per pagare il mutuo per il piccolo appartamento, ancora prima il questionario. La festa del 17 e 18 febbraio, con musica balcanica, araba, laboratori di artigianato, piatti tipici dal mondo. Insomma il ghetto si può superare. Il 4 novembre 250 famiglie manifestano davanti il municipio. Alla sindaca di centro destra Destro succede il sindaco Zanonato, ex Pci, col quale sembrava che lo svuotamento del ghetto, come chiesto dal Comitato, fosse cosa fatta. Invece una volta svuotata, con l’occupazione di alloggi Ater sfitti, la prima delle sei palazzine tutto si ferma. Il sindaco risponde con un muro tra via Anelli e il resto del quartiere. Il New York Times lo etichetta come “il muro di Berlino” di Padova. Si vuole isolare la parte infetta della città dal mondo civile. Mentre i centri sociali e Razzismo stop organizzano un corteo per avvicinarsi a via Anelli, vengono caricati, sullo sfondo la crew della band Assalti Frontali. Alla fine lo smantellamento del ghetto sarà opera compiuta. Ancora una volta, la lotta si rivelerà una pratica vincente capace di modificare e riqualificare il volto di una parte della città. La vera minaccia dei software spia non è quello che ascoltano di Umberto Rapetto Il Manifesto, 8 febbraio 2025 Senza bisogno di azioni da parte della vittima, possono trasformare lo smartphone in un microfono, registrare, fotografare, leggere le mail ed entrare nel cloud. Eppure la ragione per cui gli spyware andrebbero regolamentari come armi è che possono costituire prove a carico, navigando e scaricando materiale, senza lasciare tracce. Poche righe di codice informatico possono essere più pericolose di un chilo di tritolo. Non è questione di consistenza, peso o dimensione dell’arma letale: se si vuol “uccidere” qualcuno non c’è alcun bisogno di strumenti di tradizionale cruenza. Può bastare un silenziosissimo e impercettibile software a demolire l’esistenza di un “nemico”. È il delitto perfetto, privo di qualunque “residuo” che possa costituire traccia. Parliamo di Rat, Remote access tools, ovvero dei programmi che permettono di acquisire il controllo di un dispositivo informatico operando da remoto, ossia senza aver alcun bisogno di avere fisicamente tra le mani l’oggetto da “rimaneggiare” e poi gestire. Questo genere di invisibile “telecomando” è quello che trasforma chi se ne serve nel regista incontrastato e incontrastabile del destino dell’apparato e, soprattutto, di quello del legittimo possessore di tale aggeggio hi-tech. Lo smartphone (o il tablet o il personal computer) improvvisamente inizia a condurre una seconda vita, parallela e inavvertibile da chi lo porta al seguito. Tutti sono portati a pensare al rischio di essere ascoltati, pedinati, depredati di ogni segreto. Non sanno che quelle preoccupazioni sono ben poca cosa rispetto i reali danni che un Rat (o Trojan come a molti piace identificarlo) è ragionevolmente in condizioni di causare al soggetto nei confronti del quale viene irriguardosamente brandito. Se il software in questione è pilotato da soggetto privo di qualsivoglia scrupolo, il programma non si limiterà ad usare il microfono per acquisire le voci, la videocamera per fotografare o filmare quel che è a tiro di ripresa, i testi delle chat e delle mail per avere copia di ogni tipo di corrispondenza, l’audio delle telefonate normali e di quelle eseguite o ricevute con WhatsApp o altre sistemi analoghi, il materiale pubblicato sui social, la navigazione web, il contenuto dell’agenda e della rubrica fino a quel momento custodite gelosamente, il traffico telefonico in ingresso e in uscita, la ricostruibile rete di contatti di più vario natura… È un elenco lungo, terribile e doloroso. A mettere in angosciante allarme non è quel che può essere saccheggiato e trasmesso - nottetempo o quando il telefono rimane inerte per un certo arco temporale - al server che colleziona quanto quotidianamente viene fagocitato dal Rat. Lo spavento traumatico non riguarda il bottino che l’utilizzatore di Graphite, Pegasus o altre diavolerie è in grado di asportare dall’arnese nel mirino, ma quel che è in grado di “caricare” al suo interno all’insaputa del legittimo detentore e utilizzatore. L’accesso da remoto equivale in termini pratici ad essere seduti alla tastiera del computer controllato o ad avere tra le mani il “telefonino intelligente”. Chi ha in mano la cloche virtuale di quell’attrezzo può raccogliere e memorizzare a bordo il materiale più orribile e compromettente che si possa immaginare, facendo risultare che inserimento e conservazione di certa robaccia siano da addebitare al proprietario dello smartphone o del laptop. Il dispositivo spiacevolmente spiato può tramutarsi nel contenitore di nefandezze o di immateriali corpi di reato. La persona da origliare e sorvegliare diventa improvvisamente un criminale: foto pedopornografiche o appunti a connotazione terroristica, naturalmente nascosti perché il soggetto non se ne accorga e non ne immagini la presenza, diventano la “prova” di quel che non si è nemmeno mai immaginato di commettere. Lo si vada a raccontare alla gente di essere estranei a simili storie. Si è morti, senza aver sentito neppure il sibilo del proiettile. Lo spot antidroga che divide la Francia di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 8 febbraio 2025 Un video del ministero dell’Interno mostra spinelli, piste di cocaina, la silhouette in fiamme di un cadavere sull’asfalto e lo slogan: “Ogni giorno, ci sono persone che pagano il prezzo della droga che comprate”. A partire da domani alla televisione francese e sui social media sarà diffuso un video del ministero dell’Interno che mostra spinelli, piste di cocaina, la silhouette in fiamme di un cadavere sull’asfalto e lo slogan: “Ogni giorno, ci sono persone che pagano il prezzo della droga che comprate”. Il ministro Bruno Retailleau lo ha presentato come “un elettrochoc” al quale sottoporre i cittadini nell’ambito di una più generale “campagna di colpevolizzazione dei consumatori di droga”. Basta lassismo e tolleranza verso “l’uso ricreativo”: “Fumare uno spinello significa avere sangue sulle mani”. Il ministro vuole rispondere all’ondata di criminalità legata al traffico di stupefacenti - 367 omicidi e tentati omicidi nel 2024 - e alla guerra tra bande che ha imperversato soprattutto a Marsiglia. È lo stesso ministro che nel suo discorso di insediamento, nel settembre scorso, annunciò di avere tre priorità: “ristabilire l’ordine, ristabilire l’ordine, ristabilire l’ordine”. Con i suoi proclami Retailleau importa un immaginario sudamericano, parla di “narco-canaglie” a proposito dei piccoli delinquenti di periferia e di “messicanizzazione della Francia”, e rilancia quella “war on drugs” inaugurata nel 1971 dal presidente americano Richard Nixon con un immenso dispendio di denaro e risultati scarsi se non controproducenti. Gli oppositori mettono in guardia: accanto alla “messicanizzazione”, c’è il rischio di una “trumpizzazione” della Francia. Migrazioni e stupri: la denuncia del comitato Onu contro la tortura di Sofia Toscano L’Unità, 8 febbraio 2025 Tra le migranti che attraversano il confine della Tunisia, da gennaio a marzo, è aumentata del 1650% rispetto al 2023 la richiesta a organizzazioni umanitarie di poter abortire dopo violenza sessuale. Gli stupri e le torture della Guardia nazionale tunisina sui migranti documentati per il periodo che va da maggio a ottobre dell’anno scorso in un rapporto dell’Organizzazione mondiale contro la tortura. Il titolo è “Le strade della tortura: il restringimento dello spazio civico e il suo impatto sulle persone in viaggio in Tunisia”. È uscito un mese fa, verifica e conferma quello che molte inchieste - quella che ha avuto più risonanza è stata quella della scorsa estate del quotidiano britannico - hanno denunciato più volte e con atroci dettagli. La novità è che la Commissione europea sarebbe sul punto di pretendere garanzie “concrete” da parte della Tunisia riguardo al rispetto dei diritti umani minacciando di chiudere altrimenti il rubinetto dei milioni di euro diretti dalla Ue agli aguzzini tunisini. La minaccia ha tutta l’aria d’essere una foglia di fico della Commissione che sa benissimo cosa accade ai migranti e a chi l’aiuta in Tunisia e mai per questo ha messo in discussione l’osceno patto con il dittatore Saied: soldi europei in cambio di lager tunisini. Ma registriamo che un portavoce della Commissione ha definito questa ipotetica iniziativa una “rivitalizzazione” delle relazioni con la Tunisia ed ha assicurato che una serie di sottocomitati saranno formati nei prossimi tre mesi per garantire che i diritti umani rimangano al centro degli scambi con il paese. Interessante è il rapporto della Omct che accusa chiaramente le autorità tunisine di tortura e omicidi di massa, sottolinea “la responsabilità diretta dello Stato tunisino, attraverso la violenza esercitata dalle forze di sicurezza, e i discorsi di odio e xenofobia diffusi dal potere esecutivo”. Una parte del rapporto denuncia la violenza sessuale contro le migranti come arma di guerra. Descrive la sistematicità degli stupri durante l’attraversamento delle frontiere tra Algeria e Tunisia. Sostiene che la violenza sessuale ha comportato un aumento del 400% del numero di vittime bisognose di assistenza delle organizzazioni umanitarie, con un aumento vorticoso di richieste d’aborto per gravidanze in seguito di stupri. Da gennaio a marzo dell’anno scorso la richiesta di aborti è aumentata del 1650 % rispetto all’anno prima. La stragrande maggioranza delle donne in queste condizioni hanno paura di spostarsi, rimangono in condizioni disastrose negli accampamenti dove sono in aumento le nascite senza assistenza medica. Il rapporto della Omct denuncia “la moltiplicazione dei casi di imbarcazioni lasciate alla deriva in mare per diverse ore, senza assistenza, dalla guardia costiera tunisina dopo il sequestro del motore”. Le persone che arrivano nei porti tunisini sono sequestrate in spazi riservati per diverse ore, in attesa di spostamenti forzati e arbitrari verso zone di confine, il rapporto parla di deportazione e di detenzione. Riferisce la Omct che “la modalità operativa delle forze di sicurezza segue lo stesso schema da settembre 2023: nessuna identificazione ha luogo e non viene intrapresa alcuna valutazione indipendente delle esigenze di protezione internazionale”. Tutto ciò avviene dentro quella Sar tunisina, zona di ricerca e soccorso naufraghi, fortemente voluta dall’Italia (si tratta del mare subito a sud di Lampedusa) e ufficializzata nel giugno dell’anno scorso dove però i tunisini non soccorrono nessuno, ma speronano, uccidono e deportano naufraghi. Su trenta organizzazioni della società civile, l’Omct ha documentato almeno sedici che sono state sottoposte a controlli finanziari e amministrativi. Nove organizzazioni hanno segnalato restrizioni di accesso ai loro conti bancari, fino al congelamento dei conti per tre di loro, con o senza giustificazione, a seguito di una decisione giudiziaria. Quattordici organizzazioni hanno denunciato pressioni da parte della polizia e undici di esse hanno subito irruzioni da parte della polizia, compresi pedinamenti degli attivisti. Otto organizzazioni sono state coinvolte in un’indagine come imputate e altre otto hanno visto uno o più dipendenti o ex dipendenti convocati come testimoni. Nove organizzazioni hanno visto uno o più dei loro membri posti in custodia cautelare, poi in custodia cautelare, in relazione alle loro attività. L’accusa più frequente è quella del riciclaggio di denaro (che riguarda otto organizzazioni). Attualmente, otto membri o ex membri di organizzazioni della società civile sono ancora in custodia cautelare. Quattordici organizzazioni hanno parzialmente riorientato le loro attività, mentre cinque hanno sospeso completamente le loro attività. E questo, senza contare le intimidazioni della polizia e le minacce sui social network, così come la criminalizzazione dell’assistenza e della difesa dei diritti dei migranti che peggiorano la situazione, aggiunge l’Omct. Queste restrizioni hanno un impatto diretti sui procedimenti di registrazione delle domande di asilo e della determinazione dello status di rifugiato, l’assenza di assistenza alle persone vulnerabili, dato l’impossibile collaborazione con le autorità tunisine. In un recente rapporto, la mediatrice europea Emily O’Reilly ha ritenuto che la Commissione europea non avesse mostrato sufficiente trasparenza riguardo alle informazioni in suo possesso sulle violazioni dei diritti umani in Tunisia. In particolare, ha criticato la mancanza di una comunicazione chiara da parte dell’UE sugli abusi documentati e le azioni intraprese per porvi fine. Secondo la mediatrice europea, l’accordo firmato tra l’Ue punta alla riduzione del numero dei migranti che arrivano vivi in Europa senza occuparsi della violazione sistematica da parte della Guardia tunisina dei diritti umani basici. Scudo all’Aja per evitare le sanzioni: il piano Ue imbarazza l’Italia di Marco Bresolin e Francesco Malfetano La Stampa, 8 febbraio 2025 La Commissione al lavoro per blindare l’attività dei giudici. L’esecutivo si troverà davanti a un bivio: stare con gli Usa o Bruxelles. Giorgia Meloni, ora, rischia di trovarsi a un bivio vero: tra Bruxelles e Washington, tra Ursula von der Leyen e Donald Trump. Un bivio dal nome sconosciuto ai più ma che, al solo evocarlo, già è motivo di imbarazzo ai vertici del governo italiano. Si tratta dello “statuto di blocco”, lo scudo legale che l’Unione europea è pronta a estrarre per mettere la Corte penale internazionale (Cpi) al riparo dalle sanzioni della Casa Bianca. Un regolamento del 1996 che era stato attualizzato nel 2018 per proteggere le aziende Ue dalle sanzioni del primo Trump all’Iran e che ora potrebbe contrapporre Meloni a Ursula. Il rischio è quello di un’incrinatura nel rapporto che ha portato Raffaele Fitto sulla poltrona di vicepresidente esecutivo della Ue. Specie dopo che von der Leyen, ieri, ha attaccato duramente la scelta americana, invece benedetta dall’Italia. Allo “statuto di blocco” i giuristi della Commissione lavorano da settimane e hanno già completato lo sviluppo a livello tecnico per assicurarne l’applicazione in questa vicenda. Ora manca solo la volontà politica e lo scontro in corso tra il governo italiano e i giudici dell’Aja rischia nella migliore delle ipotesi di complicare le cose. Nella peggiore di farne deragliare l’utilizzo. Di certo è destinato a mettere l’Italia in una posizione scomoda ai tavoli di Bruxelles nel momento in cui il Consiglio (cioè i governi) dovrà vagliare la proposta della Commissione. Intanto la vicenda della lettera non firmata alimenta i sospetti che l’Italia possa in qualche modo cercare di mettersi di traverso. O, in alternativa, che possa provare sfruttarla per sminare il rapporto con la Corte penale internazionale. A confermarlo a La Stampa sono fonti di governo che preferiscono restare anonime: Palazzo Chigi sta ragionando sulla possibilità di difendere il Tribunale internazionale dagli attacchi di Trump, sottoscrivendo in ritardo il testo già firmato da 79 Paesi, a patto che si stabilisca un nuovo canale di dialogo con L’Aja. Difficile immaginare che vada davvero in questo modo. Specie considerando che il ministro della Giustizia Carlo Nordio continua a lavorare con gli uffici di Meloni per redigere una lettera di protesta su come è stato gestito il caso della mancata estradizione del capo della polizia giudiziaria libica Nijeem Osama Almasri. Il testo - che non arriverà prima della metà del mese di febbraio anche per far posare la polvere e provare a favorire un nuovo dialogo - dovrebbe ricalcare grossomodo l’intervento tenuto dal Guardasigilli alla Camera e al Senato pochi giorni fa. Del resto che la presidente del Consiglio abbia in mente di re-impostare il rapporto con la Cpi da quando i giudici diramarono un mandato d’arresto per Bibi Netanyahu lo dimostra il fatto che sta per cambiare l’ambasciatore italiano a L’Aja. A trasferirsi nei Paesi Bassi, non a caso, sarà Augusto Massari, consigliere diplomatico di Nordio. Tornando allo “scudo”, la questione è stata discussa giovedì nel corso dei numerosi colloqui avuti a Bruxelles dalla giudice Tomoko Akane, presidente della Corte. Accompagnata dal primo vice-presidente, l’italiano Rosario Salvatore Aitala, e dal cancelliere Osvaldo Zavala Giler, la giudice ha avuto una girandola di incontri con Antonio Costa (presidente del Consiglio europeo), Kaja Kallas (Alto Rappresentante per la Politica estera) e con i responsabili della presidenza di turno polacca. A tutti ha chiesto una cosa: massimo sostegno politico e, soprattutto, un’accelerata sul “blocking statute”. Lo strumento punta a neutralizzare gli effetti di sanzioni adottate da un Paese terzo che colpiscono società, persone o entità che si trovano sul territorio dell’Unione europea, rendendole inapplicabili. La Corte penale internazionale, i suoi giudici, il suo procuratore e il suo staff rientrano dunque in questa categoria. Tra le altre cose, offre inoltre una sorta di ombrello finanziario per assicurare la piena operatività dal punto di vista economico. Un pressing sulla Commissione, e di rimando sul governo Meloni, che è destinato a intensificarsi nei prossimi giorni. Martedì ci sarà infatti un dibattito al Parlamento europeo di Strasburgo sulla necessità di proteggere la Cpi. “Chiederemo a von der Leyen di richiamare tutti gli Stati ai loro obblighi derivanti dall’appartenenza alla Corte e in particolar modo il governo di Meloni che si è reso protagonista di un atto inaccettabile” anticipa Mounir Satouri, presidente della commissione per i Diritti dell’uomo: “Serve una risposta europea”. E chissà che l’Italia non decida di sfilarsi assieme al resto dell’ultradestra europea. Ovvero, come nel caso della lettera a sostegno della Cpi, che non si isoli assieme ad Austria, Repubblica Ceca e Ungheria. - Ruanda e Yugoslavia sono solo un ricordo, il crepuscolo della Cpi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 febbraio 2025 Dalla stesura dello statuto di Roma, al contributo decisivo per individuare i crimini contro l’umanità, fino al conflitto politico e ideologico di oggi. Quale destino per la Corte dell’Aia? Il caso Almasri e lo scenario disastroso del Medio Oriente hanno aperto un dibattito su scala globale sul presente e, soprattutto, sul futuro della giustizia internazionale con un eventuale ripensamento degli strumenti messi a disposizione nei decenni passati. L’entusiasmo per costruire un mondo migliore, dopo le mattanze nella Ex Jugoslavia e il Ruanda, con i relativi Tribunali internazionali, ha contribuito alla stesura nel 1998 dello Statuto di Roma. L’Italia ha dato un contributo importante per creare una Corte chiamata a perseguire i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e l’aggressione. Oggi l’entusiasmo e le speranze della conferenza di Roma sembrano uno sbiadito ricordo. Tutto da rifare? La risposta dovrà pervenire anche dai “grandi della Terra”. Saranno responsabili? Saranno in grado di trovare soluzioni di mediazione o faranno prevalere l’interesse di parte? La vicenda del torturatore libico Njeem Osama Almasri - trasformatosi da venditore ambulante di polli e volatili in “signore dell’ordine pubblico” -, ha provocato uno scossone con crepe pericolose tra l’Italia e la Corte penale internazionale. Contemporaneamente alle tensioni tra il nostro Paese e i giudici dell’Aia nel dibattito si è inserito il presidente americano Donald Trump nel corso della visita oltreoceano del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, considerato dalla Cpi un criminale di guerra. Trump ha disconosciuto di nuovo il lavoro dei giudici che lavorano in Olanda e rimarcato una linea per il futuro: prevale la giustizia interna per valutare certi fatti e certe condotte. Alle parole sono seguite le azioni. Il presidente degli Stati Uniti ha emesso un ordine esecutivo che autorizza il congelamento dei beni e il divieto di ingresso per i funzionari dell’Aia e per altri che supportano il lavoro della Corte. Trump ha definito “maligna” la condotta della Cpi per alcune attività svolte contro gli Stati Uniti e contro Israele, “alleato di ferro” di Washington. Tra i Paesi che non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, oltre agli Stati Uniti, ci sono, per citarne alcuni, Russia, Israele, Cina, India, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Turchia. L’iniziativa della Casa Bianca apre nuovi scenari e ha indotto l’Aia ad intervenire con una sorta di appello rivolto a chi crede nell’operato della Corte. Le parole utilizzate danno il senso del delicato momento storico. “La Cpi - si legge in una nota - condanna l’emissione da parte degli Stati Uniti di un ordine esecutivo che mira a imporre sanzioni ai suoi funzionari e a danneggiare il suo lavoro giudiziario indipendente e imparziale. La Corte sostiene fermamente il suo personale e si impegna a continuare a fornire giustizia e speranza a milioni di vittime innocenti di atrocità in tutto il mondo, in tutte le situazioni che si presentano. Invitiamo i nostri 125 Stati membri, la società civile e tutte le nazioni del mondo a stare uniti per la giustizia e i diritti umani fondamentali”. Nell’attuale scenario qualcuno ha ipotizzato che la Cpi possa trasformarsi in uno strumento di resa dei conti tra Stati con la possibilità di immaginare un nuovo Tribunale internazionale. A questa ipotesi, però, non crede Marina Castellaneta, professoressa ordinaria di diritto internazionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. “Le reazioni di alcuni Stati rispetto all’attività della Corte penale internazionale - dice al Dubbio Castellaneta - non sono una novità. Gli Stati Uniti, già durante il primo mandato di Trump, avevano adottato sanzioni nei confronti dell’allora Procuratrice Bensouda che aveva aperto un fascicolo d’indagine sui crimini commessi in Afghanistan. Così, la reazione della Russia a seguito del mandato di arresto nei confronti di Putin, che si è concretizzata addirittura nell’emissione di mandati di arresto verso i giudici della Pre-Trial Chamber, non sorprende visti i metodi utilizzati in quel Paese verso ogni forma di dissenso. Queste reazioni rendono sicuramente il lavoro della Corte più complesso, considerando che si tratta di due superpotenze che s’ingeriscono nelle attività degli altri Stati, potendo così innescare reazioni negative contro la Cpi. Tuttavia, non credo che la strada possa essere la costituzione di un nuovo tribunale perché la situazione non cambierebbe. Né in questo clima di scontri si può pensare all’istituzione di un tribunale speciale istituito dal Consiglio di sicurezza che sarebbe un passo indietro rispetto alla Corte penale internazionale che ha già svolto un ruolo molto rilevante nella punizione di gravi crimini”. Per quanto riguarda l’Italia, considerato lo scontro con i giudici dell’Aia, l’uscita del nostro Paese dalla Cpi non è realistica. “Non credo sia ipotizzabile - commenta Castellaneta - al di là delle reazioni scomposte di alcuni membri del Governo che hanno addirittura ipotizzato di mettere sotto inchiesta la Corte. Si tratta di reazioni sorprendenti se consideriamo che la Conferenza, che poi ha condotto all’istituzione della Corte penale internazionale, si è svolta a Roma e che l’Italia si è sempre impegnata a supportare la Cpi. Proprio per questo, lo scontro voluto dall’Italia è sconcertante e immotivato”. L’Italia è uno dei pochi Paesi a non avere un codice di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. “Il ministro della Giustizia - aggiunge la professoressa Castellaneta - aveva annunciato, nel corso di una conferenza a Londra, che sarebbe stato approvato il progetto di codice già pronto, ma nulla è stato fatto. Non penso, però, che sia all’ordine del giorno l’uscita dalla Corte anche perché a quel punto l’Italia sarebbe l’unico Stato membro dell’Ue a non essere parte dello Statuto e anche perché l’Ue ha un accordo di cooperazione con la Corte”. In prospettiva futura Marina Castellaneta auspica un cambio di rotta: “Il limite all’attività della Corte penale internazionale è rappresentato soprattutto dalla violazione degli obblighi di cooperazione da parte di alcuni Stati. La Corte non ha strutture di polizia e, quindi, ad esempio, proprio per l’esecuzione dei mandati di arresto è indispensabile che gli Stati parte cooperino. Un altro limite potrebbe essere costituito dall’impossibilità di svolgere procedimenti in contumacia che impediscono lo svolgimento di un processo se l’imputato non è presente. Tuttavia, vorrei ricordare che dinanzi alla Cpi, per la prima volta nella storia della giustizia penale internazionale, le vittime hanno un ruolo e possono finanche ottenere un indennizzo”. Il ripasso di Storia che serve per capire quanto conta la Corte dell’Aja di Andrea Lavazza Avvenire, 8 febbraio 2025 Affossare l’aspirazione a una giustizia universale, nata dopo il crollo del Muro di Berlino, significa cancellare il principio di convivenza rispettosa fra le nazioni. Perché? “La natura non permette che i crimini rimangano impuniti: a essa devono essere riferiti i crimini commessi contro il diritto delle genti”, scrive Ugo Grozio nella sua celebre opera “Sul diritto della guerra e della pace” (1625). E con “natura’”, il grande giurista intendeva la legge naturale, ovvero quelle regole che la retta ragione suggerisce all’essere umano, indipendentemente dalla sua identità e dal luogo in cui si trova. Il “diritto delle genti” è poi l’estensione universale delle norme concordate sulla base della riflessione precedente, ovvero il diritto internazionale moderno. Sta in questa tradizione razionale e umanitaria la radice di quella straordinaria realizzazione, quattro secoli dopo, che è la Corte penale internazionale. Ci sono voluti quasi 400 anni per arrivare a tale risultato, che è eccezionale e ammirevole per il principio, ovviamente, e non per la concreta attuazione, sempre soggetta, come tutte le cose umane, a errori e imperfezioni. Non si può che salutare infatti come irrinunciabile il principio per cui vi sia una giustizia per crimini gravissimi che vada oltre i confini degli Stati - quando questi non possono o non vogliono perseguirli - e che punisca i singoli responsabili, basandosi sull’idea di dignità umana universale e necessità di proteggere i più vulnerabili. In questo senso, la Cpi è stata l’espressione più alta, il vertice forse, dell’ordine liberale multipolare postbellico e post-Muro di Berlino. Quando nacque, con il Trattato di Roma, nel 1998, il mondo sembrava pronto ad avviarsi verso la condizione che qualcuno definì “fine della storia”, intesa quale superamento del continuo scontro tra visioni inconciliabili del mondo e dei suoi abitanti. Non è stato così, lo sappiamo bene. Oggi sembriamo regredire, incapaci di difendere quelle conquiste che avrebbero potuto essere motivo di orgoglio per l’umanità, sebbene la Corte penale sia nata incompleta, priva dell’adesione di Paesi grandi o strategici come Stati Uniti, Russia, Cina, India, Indonesia, Pakistan, Turchia e Israele. La maggioranza degli Stati la sostiene, ma essa ha giurisdizione diretta solo sul 50% della popolazione globale (anche se chiunque può essere perseguito nel caso si macchi di reati in Paesi membri). Perché oggi la Cpi è sotto attacco e rischia di essere indebolita e delegittimata nel lungo periodo? Vi sono le ragioni politiche che hanno fin dall’inizio tenuto lontane nazioni pur diverse per orientamento ideologico e grado di democrazia. Esse vogliono preservare la sovranità nazionale come valore intangibile e proteggere i propri cittadini quando si rendono responsabili di crimini nell’interesse del proprio Stato (così, per esempio, Putin e Netanyahu interpretano le azioni militari che li hanno portati all’incriminazione, al di là della sostanza delle specifiche accuse, ancora da verificare). Con l’ascesa di governi sempre più nazionalisti, anche in Occidente l’idea di una giustizia sovranazionale è stata messa in discussione con maggiore forza. L’opposizione trova vigore nel non essere i critici più soli e isolati; anzi, riescono a fare blocco, capeggiati da Donald Trump, che addirittura ha deciso sanzioni contro la Cpi. D’altra parte, la gestione della Corte dell’Aja non è stata esente da critiche. I giudici sono chiamati a svolgere il proprio lavoro senza guardare in faccia nessuno, per mirare a quell’imparzialità che li deve contraddistinguere. Considerando la fragilità dell’istituzione nelle sue fasi iniziali, una maggiore prudenza politica avrebbe potuto rafforzarne l’azione. Il fatto che la Cpi abbia messo sotto accusa i vertici di Mosca, Tel Aviv e i nuovi padroni dell’Afghanistan, mentre da vent’anni non riesce a portare in tribunale nemmeno Joseph Kony, leader delle milizie ugandesi, è stato considerato da molti un azzardo. Perché la probabilità di vedere alla sbarra il capo del Cremlino, il premier dello Stato ebraico e i leader di Kabul resta molto bassa, mentre il contraccolpo per i provvedimenti è stato fortissimo. Dispiace, in ogni caso, vedere che il governo italiano, per la mal gestita vicenda del generale libico Osama Almasri, si ponga adesso tra i nemici della Cpi. Si può contestare la conduzione di un singolo caso. Metterne in discussione l’operato e delegittimarla significa però minare il diritto internazionale stesso. E affossare quell’aspirazione a una giustizia universale che è compagna indispensabile della pace e della convivenza rispettosa fra le nazioni.