Sovraffollamento delle carceri, un nodo irrisolto tra promesse e cruda realtà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2025 Mercoledì scorso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha presieduto un vertice d’emergenza sul piano carceri, con l’obiettivo dichiarato di risolvere il cronico sovraffollamento dei penitenziari. All’incontro hanno partecipato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il sottosegretario Andrea Delmastro, il neo-commissario per le carceri Marco Doglio, oltre a rappresentanti del Mit e del Dap. La proposta non è certamente nuova, se ne parla già da oltre un anno: realizzare 7.000 nuovi posti detentivi entro la fine della legislatura. Presentata come una soluzione strutturale per “migliorare le condizioni della pena e delle strutture” è stata accolta con scetticismo dall’opposizione. Secondo fonti di Palazzo Chigi, il piano prevede la costruzione di nuovi padiglioni e la riconversione di ex caserme, con l’obiettivo di aumentare la capienza del sistema penitenziario. “In questa legislatura porremo fine all’annosa questione del sovraffollamento”, ha dichiarato fiducioso il sottosegretario Delmastro. Il governo punta a velocizzare gli iter burocratici, sfruttando anche fondi del Pnrr, e a sbloccare progetti fermi da anni. Tra questi il completamento del padiglione per il 41- bis a Cagliari e la costruzione di nuovi spazi a Sulmona, Bologna e Ferrara. “Si tratta di un’azione determinata”, hanno sottolineato i partecipanti al vertice, “per garantire dignità ai detenuti e sicurezza al personale”. La retorica governativa, però, si scontra con i dati e con le obiezioni delle opposizioni. Ivan Scalfarotto (Italia Viva) ricorda, infatti, che alla fine del 2024 “i detenuti in sovrannumero erano già 11.000. Realizzare 7.000 posti in due anni è impossibile: i tempi tecnici per costruire nuove strutture sono ben più lunghi”. Una posizione condivisa da Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi- Sinistra), che accusa il governo di nascondersi dietro la solita propaganda. “Il sovraffollamento non si risolve aumentando i posti - spiega Cucchi - se intanto si creano nuovi reati e si inaspriscono le pene”. Un riferimento ai provvedimenti tipo il reato di rivolta penitenziaria e il ddl Sicurezza, che secondo le associazioni rischiano di far aumentare la popolazione carceraria di 16.000 anni di detenzione cumulativa. Per la senatrice “la destra vuole trasformare le carceri in discariche sociali, senza investire su misure alternative o sul reinserimento”. Dietro l’ennesimo annuncio di nuovi posti, però, emerge un quadro desolante di ritardi, progetti incompiuti e promesse non mantenute. L’esperienza del Commissario straordinario per le carceri, istituito nel 2013 e chiuso con un bilancio fallimentare e strascichi giudiziari, dovrebbe suonare come un monito. Eppure, il governo ripropone la stessa ricetta, nominando Marco Doglio senza chiarire come intenda superare gli ostacoli del passato. La Relazione del ministero della Giustizia 2023, d’altronde, conferma che la storia delle caserme dismesse non è fattibile: l’unico intervento concreto degli ultimi anni è la riconversione della caserma Barbetti di Grosseto, un progetto avviato negli anni 90 e ancora incompleto. Per quanto riguarda i penitenziari basti pensare al nuovo carcere di Pordenone, citato come fiore all’occhiello, in fase di progettazione da tre decenni, con gare d’appalto bloccate dai ricorsi al Tar. Persino i padiglioni “nuovi” celebrati dal governo nascondono verità scomode. Quello di Cagliari, presentato come un’aggiunta al carcere di Uta, in realtà è un’opera mai finita dal 2009 per il fallimento dell’impresa costruttrice. A Sulmona, i 200 posti promessi fanno parte di un piano del 2015 che prevedeva 3.000 posti in 13 strutture: solo due sono stati completati. Il governo ha inserito alcuni progetti nel Pnrr, come il padiglione di Ferrara, ma qui emerge un altro paradosso: le risorse europee sono vincolate a tempi stringenti (entro il 2026), mentre la realizzazione di una struttura carceraria richiede in media 5- 10 anni tra progettazione, appalti e costruzione. E rischiamo di dover restituire i soldi. Il nodo centrale, però, è un altro: aumentare i posti senza ridurre gli ingressi è come svuotare il mare con un secchio. Secondo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, “se il tasso di ingresso supera quello di uscita, il carcere si riempirà comunque”. E in Italia, le politiche di inasprimento penale stanno accelerando il flusso in entrata. Intanto, le carceri esistenti cadono a pezzi. Il rapporto di Antigone rivela che il 35,6% degli istituti è stato costruito prima del 1950; il 48,3% non garantisce acqua calda tutto l’anno; il 25,3% non ha spazi per attività lavorative. Mentre il governo insiste sull’edilizia, le proposte per ridurre il numero di detenuti restano nel cassetto. Basti pensare a Roberto Giachetti (Italia Viva), che ha rilanciato la liberazione anticipata per chi ha scontato i due terzi della pena. Senza dimenticare che diverse personalità chiedono di considerare un indulto parziale. Serve, di fatto, un piano nazionale per le misure alternative, ma il governo preferisce cavalcare la retorica dell’ordine e dell’edilizia. Intanto, i detenuti continuano a dormire, in alcuni casi su materassi per terra, e nella maggioranza dei casi in celle malsane, mentre l’Italia accumula condanne dalla Cedu. E la domanda sorge spontanea: i 7.000 posti saranno l’ennesimo slogan, o l’inizio di una svolta? La Storia insegna il contrario, ma purtroppo continua a non avere scolari. Più celle e meno spazio per le attività: ecco il “piano carceri” del Governo di Francesca Polizzi ed Elisa Rossi Il Domani, 7 febbraio 2025 Sette mila nuovi posti detentivi nelle carceri italiane. Lo prevede il Piano carceri annunciato dopo un incontro a Palazzo Chigi tra la premier Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il sottosegretario Andrea Delmastro e il commissario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio. “In questa legislatura porremo fine al sovraffollamento carcerario”, ha detto Delmastro. Ma queste strategie che puntano ad aumentare gli spazi detentivi non migliorano le condizioni delle persone detenute. Sulle carceri si continua a ragionare in ottica emergenziale, ma come fa notare Domenico Alessandro de Rossi, architetto e presidente di Cesp (Centro europeo studi penitenziari): “La costruzione di nuovi padiglioni è un intervento palliativo, non basta dare una camera dove dormire, bisogna pensare a tutta una serie di servizi”. Quello che avviene nella Casa circondariale Costantino Satta di Ferrara ne è un esempio. In via Arginone, infatti, è prevista la costruzione di un nuovo padiglione detentivo che sottrarrà un’area per le attività all’aperto. Così le persone detenute sono private di uno spazio dignitoso dove vivere e sono messi a rischio laboratori e attività lavorative per il reinserimento sociale. L’ampliamento occuperà una superficie di 5mila metri quadri e aggiungerà 80 posti ai 244 regolamentari, a fronte di 392 persone attualmente detenute. L’architetto de Rossi dice che “se gli spazi all’aperto sottratti sono parcheggi o parti di viabilità può essere presa in considerazione l’idea di edificare. È un problema se a venir meno sono zone dedicate alla socialità”. Il padiglione di Ferrara rientra nel piano nazionale 2021 dell’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, che prevede l’investimento di 30,6 miliardi per la realizzazione di 30 interventi di edilizia carceraria grazie ai fondi del Pnrr, a cui si aggiungono quelli del Pnc (Piano nazionale per gli investimenti complementari). Quest’ultimo assegna alla giustizia 133 milioni. Di questi, 84 sono destinati alla costruzione di 8 nuovi padiglioni carcerari. Prima di approdare all’Arginone, il progetto era destinato al carcere di Asti. In entrambi i casi, la decisione del luogo in cui collocare il padiglione è stata calata dall’alto. “Dopo la nostra opposizione, nell’indicare un altro istituto e non Asti credo sia stato decisivo l’intervento della ministra e dei suoi collaboratori”, dice Bruno Mellano, garante dei diritti delle persone detenute del Piemonte. Dopo la valutazione d’impatto, il consiglio comunale ha dato l’ok. L’Impresa Devi Impianti srl si è aggiudicata la gara: costo dell’opera 15,5 milioni, soggetto attuatore il ministero Infrastrutture e trasporti. Stefano Di Lena, ex direttore ad interim del carcere, ha detto di non avere avuto voce in capitolo: “Noi possiamo fare qualche proposta, ma la scelta è del ministero”. Anche con il Comune di Ferrara nessuno ha mai discusso perché “la titolarità dell’opera - dice l’assessora Francesca Savini - è del Mit”. Contattato da Domani, il referente Calogero Mauceri non ha risposto sullo stato di avanzamento. L’Italia deve spendere le risorse del Pnrr entro il 2026, ma l’avanzamento dei lavori degli 8 padiglioni procede a rilento. Secondo Roberto Cavalieri, garante dei diritti delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, bisognava fare un investimento diverso: “Potenziare l’edilizia, creando spazi che non fossero quelli reclusivi tradizionali”. Il progetto del padiglione infatti rischia di sacrificare le attività all’aperto. “L’estensione dell’orto è di 250 metri quadri. Il nuovo padiglione ne sottrarrebbe una parte, rendendo le attività parziali. Non si sa neppure quando inizieranno i lavori”, dice Domenico Bedin, presidente dell’associazione Viale K e coordinatore del GaleOrto. Un’altra attività a rischio è Raee in carcere, gestito dalla cooperativa sociale Il Germoglio. Come spiega Nicola Cirelli, membro del cda della cooperativa: “Rispetto al nuovo padiglione, non sappiamo se l’attività di lavorazione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche verrà ridimensionata”. GaleOrto e Raee in carcere sono solo due delle attività che si svolgono all’Arginone. Teresa Cupo, funzionaria dell’area pedagogica, racconta che la riuscita di laboratori, tirocini e percorsi di lavoro dipende da “fondi pubblici non gestiti dal carcere, ma dal comune o dalla regione”. Negli ultimi anni i finanziamenti per le attività in carcere sono aumentati. “C’è stata una crescita delle attività, ma la presenza di sette circuiti detentivi rende complessa la gestione”, dice Annalisa Gadaleta, comandante della polizia penitenziaria. Manuela Macario, garante dei diritti delle persone detenute del comune di Ferrara, spiega che la gestione degli spazi è già complessa e si dice “preoccupata per la costruzione del padiglione di cui nessuno parla”. Giovani perduti in celle-carnaio di Alice Dominese L’Espresso, 7 febbraio 2025 Under 25 insieme con gli adulti, senza percorsi di reinserimento e in carceri al collasso. L’effetto travaso del decreto Caivano ha peggiorato la situazione con 1.800 reclusi in più. A inizio gennaio, un detenuto romeno di 23 anni si è tolto la vita impiccandosi nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Era stato arrestato un mese prima e si trovava in un carcere che contiene oltre mille reclusi, quasi il doppio della capienza prevista. A distanza di alcuni giorni, nel carcere fiorentino di Sollicciano, a impiccarsi è stato un ragazzo egiziano di 25 anni con una storia di atti di autolesionismo alle spalle. Sono loro i più giovani detenuti morti suicidi finora nel 2025. L’anno scorso, i ragazzi tra i 18 e i 25 anni che si sono tolti la vita in carcere sono stati dieci. In maggioranza non vivevano separati dai detenuti più anziani. Per poter essere più tutelati e seguiti dagli operatori, coloro che appartengono a questa fascia di età dovrebbero scontare la detenzione all’interno di sezioni dedicate. Lo prevede la legge, che li chiama “giovani adulti” e individua per loro “necessità educative e sociali specifiche diverse da quelle degli adulti”. Di fatto però, gli ultimi dati condivisi con L’Espresso dall’associazione Antigone, che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, rilevano che in media nell’80 per cento delle carceri la separazione tra adulti e giovani adulti non esiste. Soltanto in una manciata di istituti, tra cui quelli di Biella e San Vittore a Milano, gli under 25 sono collocati in sezioni autonome. Nella crisi generale delle carceri italiane, tra vulnerabilità e condizioni critiche, i giovani nelle carceri per adulti non hanno lo spazio che dovrebbe essere loro garantito. Alla fine del 2024, il tasso di sovraffollamento negli istituti di pena italiani per adulti ha sfiorato il 133 per cento, il più alto di sempre in trent’anni di rilevazioni. “Tutto il sistema carcerario salta in situazioni di sovraffollamento, compresa la suddivisione per gli under 25. Dovrebbero essere tra le categorie protette, ma con l’aumento dei giovani negli Ipm, gli istituti penali per i minorenni, a seguito del decreto Caivano, aumentano anche i loro trasferimenti nel carcere per adulti, dove diventano più facilmente preda di ricatto e situazioni nocive”, dice Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Roma. La convivenza tra età molto diverse, spesso turbolenta, è un problema che esiste da tempo, ma dall’adozione del decreto Caivano il numero degli under 25 nelle carceri per adulti è lievitato del 35 per cento. I dati ministeriali, fermi a giugno 2024, mostrano che in un anno sono entrati negli istituti di pena 1.800 giovani in più, per un totale di oltre cinquemila under 25 che si trovano a scontare il carcere a stretto contatto con detenuti più anziani, in condizioni di sovraffollamento estremo. Allo stesso tempo, nei 17 Ipm italiani, 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Se il decreto Caivano da una parte ha ampliato le possibilità di ricorrere al carcere in fase cautelare, contribuendo ad accrescere il numero di minori detenuti, dall’altro, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulle carceri minorili di Antigone, “ha reso più facile il trasferimento dei ragazzi che hanno compiuto la maggiore età a un carcere per adulti”. Il risultato è un circolo vizioso che riguarda tutti gli istituti, dove nuovo sovraffollamento si aggiunge a quello già esistente, con conseguenze negative anche per i più giovani. A loro gli Ipm dedicano strumenti di reinserimento sociale specifici, ma i percorsi si interrompono quando i maggiorenni vengono trasferiti negli istituti per adulti. Spesso questo passaggio avviene per motivi disciplinari, come nel caso di alcuni maggiorenni coinvolti nella rivolta del carcere minorile di Torino l’estate scorsa. Dopo aver preso parte alla sommossa nell’Ipm Ferrante Aporti, dove erano entrati quando non avevano ancora 18 anni, sono stati spostati nel carcere per adulti. Per Pasquale Ippolito, che da anni si occupa di realizzare progetti formativi all’interno del carcere minorile torinese, chi viene trasferito dall’Ipm va incontro a una situazione di sostanziale abbandono dal punto di vista formativo: “Nel carcere per adulti l’investimento su questo fronte è totalmente insufficiente. Negli istituti minorili invece questa possibilità esiste per tutti, le attività sono individualizzate e occupano i ragazzi dalla mattina alla sera”. Secondo Alessio Scandurra, coordinatore nazionale dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, inserire i giovani adulti in contesti devianti più consolidati può equivalere a mandarli a scuola dai più grandi: “Quando non rischiano di venire sopraffatti, vengono messi di fronte a modelli di riferimento non auspicabili, l’ultima cosa di cui hanno bisogno”. Entrare nel carcere per adulti, per molti under 25 significa anche sprofondare in situazioni di ulteriore fragilità. Secondo le ricerche, la maggior parte dei giovani reclusi è di origine straniera, è entrata in Italia senza genitori e ha un vissuto di violenza e abbandono. Spesso ha anche problemi di tossicodipendenza. Negli Ipm e ancora di più in carcere, l’uso massiccio di psicofarmaci diventa allora la risposta per gestire le persone con problemi di droga e salute mentale. Proprio gli psicofarmaci, secondo le rilevazioni di Antigone, vengono utilizzati “come strumento di gestione e neutralizzazione dei ragazzi con problemi di disagio sociale e comportamentale” L’amore in carcere, la lunga attesa di un diritto già riconosciuto di Adriano Sofri Il Foglio, 7 febbraio 2025 Fabio Gianfilippi (1977) è dal 2006 magistrato di sorveglianza a Spoleto e nel Tribunale di sorveglianza di Perugia. L’elenco corposo delle sue pubblicazioni, sul mondo penitenziario, la sorveglianza, l’esecuzione delle pene e le alternative, i diritti dei detenuti, testimonia la vocazione per il suo incarico, in troppi casi burocraticamente e fastidiosamente svolto in attesa di destinazioni più ambite. Lo scorso 29 gennaio ha depositato un’ordinanza riguardante il reclamo di un detenuto che si era visto rigettare dalla direzione del carcere di Terni la richiesta di svolgere colloqui intimi con la sua convivente, senza controlli a vista, “come ormai consentito dopo la sentenza Corte Costituzionale 20 gennaio 2024”. Il detenuto segnalava il tempo trascorso dalla sentenza, quasi un anno, e oltretutto la provata volontà “di genitorialità” della sua compagna e sua. La Direzione d’altra parte attestava che il detenuto, nella condizione del 4 bis - non ostativa secondo la Corte Cost. alla concessione dei rapporti affettivi - lavorava all’interno e teneva un comportamento encomiabile e infatti encomiato. Tuttavia ribadiva di avere ancora bisogno di tempo e di autorizzazioni superiori per rendere logisticamente praticabile l’incontro richiesto, senza precisare scadenze. Il magistrato Gianfilippi, con l’opinione del P.M. favorevole al reclamo, ha ricordato il giudizio della Consulta sulla “indifferibilità” dell’attuazione del provvedimento, e con esso “del volto costituzionale della pena”, e l’indicazione dettagliata dei modi provvisori di realizzarla. E ha affermato che il rigetto sine die comporta “un grave ed attuale pregiudizio al diritto all’affettività del condannato”. (Non occorre ripetere che “affettività” è la pudica denominazione del diritto, peraltro molto condizionato, delle persone cioè dei corpi reclusi a fare l’amore). In conclusione, il magistrato ordina alla direzione del carcere di provvedere “con la massima urgenza”, anche con soluzioni temporanee, prima che finalmente arrivino quelle “più strutturate”. L’ordinanza è depositata in cancelleria, e fissa entro 60 giorni l’adempimento. Proprio ieri, i garanti piemontesi dei diritti dei detenuti avevano denunciato che nella loro regione, “finora, tutte le richieste di incontri intimi presentate sono state respinte”. La decisione del giudice di Spoleto, e il favore preventivo del P.M., sarebbero superflui e ordinari senza l’ipocrisia e il cinismo burocratico delle autorità costituite, a cominciare dalle politiche. Poiché il riconoscimento di quell’elementare diritto è antico di decenni e la sua elusione altrettanto, sono invece molto importanti. Ieri ne dava notizia solo il Corriere in una colonna del bravissimo Luigi Ferrarella, che dava notizia di “due detenuti”. Ora si può sbizzarrirsi a immaginare i pensieri più diversi di direttrici e direttori di carcere, di funzionari ministeriali, di benpensanti a piede libero e mente incatenata. Si può anche, chi sa, immaginare i pensieri della donna e dell’uomo nei due mesi che li separano da un appuntamento. Di lei io non so. Di lui sì, e della sua finestra, parole e musica: “Tu sarai la mia compagna, Maria / Una speranza e una follia”. Da Triaca agli ex Br al 41-bis, il lungo flirt tra Italia e tortura di Frank Cimini L’Unità, 7 febbraio 2025 Il tipografo della colonna romana denunciò di essere stato seviziato. Stessa sorte toccò ai sequestratori di Dozier. E poi c’è il carcere duro. L’Italia come del resto altre democrazie ha un rapporto non molto chiaro (eufemismo) con la tortura. Infatti non esiste una legge che sanzioni la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale soprattutto per l’opposizione storica dei sindacati di polizia che vorrebbero abrogare o comunque ridimensionare quel minimo di normativa attualmente in vigore. Su questo urge una riflessione da contestualizzare proprio nel momento in cui il torturatore libico ricercato dal Tribunale penale internazionale è stato liberato e riaccompagnato a casa. L’utilizzo della tortura caratterizzò gli anni in cui c’era da reprimere la sovversione interna. Al di là delle “belle parole” nel 1982 del presidente della Repubblica Sandro Pertini: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. Questa sera nel centro sociale Bruno a Trento viene proiettato il documentario dal titolo Il tipografo sulla vicenda di Enrico Triaca, militante della colonna romana delle Brigate Rosse arrestato a maggio del 1978. Venne torturato. Un agente dei Nocs Danilo Amore testimonia l’esistenza di quelle sevizie. All’epoca il tipografo denunciò di essere stato torturato e fu condannato per calunnia. A distanza a di circa 40 anni la condanna fu annullata dal Tribunale di Perugia. Era tutto vero. Ovviamente i reati commessi ai suoi danni nel frattempo prescritti. La stessa sorte era toccata ai sequestratori del generale Dozier ma a coprire il misfatto furono le parole dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni che se la cavò brillantemente dicendo: “Siamo in guerra”. Le carceri speciali furono luoghi in cui si annullava l’identità politica dei reclusi applicando l’articolo 90, l’antenato del 41bis del regolamento penitenziario che attualmente riguarda oltre 700 detenuti. In stragrande maggioranza sono mafiosi e il loro numero risulta superiore a quanti vi erano sottoposti ai tempi delle stragi. Nell’elenco ci sono anche Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi che fecero parte delle nuove Br, organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Nonostante ciò le istanze per la revoca del 41 bis vengono regolarmente rigettate a causa del rischio di collegamenti con un esterno che non c’è. E poi c’è Alfredo Cospito protagonista di un lunghissimo sciopero della fame (considerato di fatto a scopo di terrorismo) per protestare contro il carcere duro a tutela degli altri 700 più che di se stesso. L’illusione arbitraria di misurare le colpe: il diritto penale non può sondare il cuore di una persona di Massimo Donini L’Unità, 7 febbraio 2025 Azione, intenzione e animo sono tre realtà ben differenti. I tribunali, dovrebbero occuparsi di accertare i fatti, le azioni. Sulle intenzioni già aleggia il rischio di un arbitrio investigativo e probatorio. Una delle più famose esortazioni di Gesù riguarda l’ammonimento a non giudicare (Matteo, 7, 2; Luca, 6, 37). In realtà, i Vangeli ci hanno trasmesso una versione esplicativa che conserva un vago sapore retributivo: non giudicate per non essere giudicati. Perché saremo giudicati con la stessa severità con la quale abbiamo giudicato gli altri (v. anche Marco, 4, 25). Eppure, in questa problematica tradizione testuale, che mira soprattutto alla moderazione, se non al perdono, e a disvelare l’ipocrisia di chi giudica senza conoscere le persone che sta valutando e senza autocritica, sembra che il metro del giudizio lo scegliamo noi, e dunque la corrispettività (e la c.d. proporzione) del premio o del castigo sia affidata a imperscrutabili e arbitrarie opzioni soggettive della stessa persona incolpata. Non pare, allora, che la lettura tramandata sia davvero convincente, anche se una certa relatività di giudizio, in campo morale e religioso, dipende sicuramente dalla persona, dal suo cuore, e non dalle sole azioni. Questa spiegazione ci avvicina di più al nucleo del precetto, che riguarda le intenzioni degli uomini, ma soprattutto, appunto, il loro animo, la realtà interiore della persona, il vero giudizio sull’anima. Perché azione, intenzione, e animo interno sono tre realtà ben differenti. I tribunali, di solito, dovrebbero occuparsi di accertare i fatti, le azioni, mentre sulle intenzioni già si aprono scenari di più facile arbitrio investigativo e probatorio. Quanto all’anima, poi, siamo del tutto oltre le umane competenze, anche per chi la confina nella dimensione laica della psyche. Eppure, all’interno di queste distinzioni si annidano controversie mai veramente risolte e sempre rinnovate. Non abbiamo mai attuato, né tantomeno superato, l’ammonimento di Gesù. Raramente questo precetto è stato interpretato come delegittimazione della giustizia umana, dei tribunali. Il teologo tedesco Eugen Drewermann, famoso per i suoi commenti alle parabole evangeliche in chiave di psicologia del profondo, e il suo impegno pacifista, ha dedicato tre corposi volumi al non giudicare (Richtet nicht! Strafrecht und Christentum, Bd. 1-3, Patmos, 2021-2023), che contengono una storia millenaria del rapporto tra Cristianesimo e diritto penale. Senza entrare ora nel merito dell’afflato riconciliativo della giustizia riparativa come esito contemporaneo di quella storia (cfr. il vol. 3 dell’opera), è ben possibile ritenere che il contenuto autentico del non giudicare sia declinabile come un avviso drammatico alla giustizia punitiva, a quella penale, che si spinge ben oltre la responsabilità per i fatti commessi, e oltre la valutazione sulla pericolosità di un autore, per indagarne l’anima, gli interna, l’atteggiamento interiore, la c.d. colpevolezza. Un monito perenne e non nuovo. Giudicare il peccato e non il peccatore è rimasto un avvertimento per la vita privata, ma non per quella sociale e tanto meno per quella giudiziaria. Nei processi penali si giudica l’imputato. È solo in quelli civili, salvo materie più contaminate da aspetti etici, o dall’ingresso di danni “punitivi”, che ci si limita al danno patrimoniale, all’inadempimento, alla condotta, senza coinvolgere la persona. Giudicare l’imputato determina un coinvolgimento morale, che non si riduce all’accertamento di un fatto illecito e del coefficiente soggettivo con il quale una condotta è stata realizzata. Si presume di potere e di dovere andare oltre, fino a sondare aspetti interni alla persona. I moventi, i motivi, la sua colpevolezza. Tutta una cultura, che è montata nella letteratura, nella ideologia e nelle aspettative sociali dai primi del Novecento, ha celebrato l’idea della colpevolezza come rimprovero personale. Di questo rimprovero sono pieni i manuali penalistici delle culture giuridiche occidentali oggi più influenti nel mondo: quella di common law e quella di lingua tedesca, ampiamente sedimentata nelle opere di lingua spagnola, che ha diffusione ancora più estesa. Su queste opere “didattiche” si formano generazioni di professionisti del diritto e del processo che vengono solitamente influenzati dalla tendenza rimproverante. Il rimprovero è la categoria più odiosa del diritto pubblico, anche se - si noti bene - non è una categoria tecnica. Infatti, nessuno lo può accertare, perché esso costituisce in sé una valutazione, ma forse meglio sarebbe dire una reazione emotiva. Dunque, come mai i penalisti, gli “scienziati” del diritto penale, riempiono di blame, di Vorwurf, di reproche, le loro opere di ricerca, e il loro insegnamento? È questo il segno di un singolare ingresso della sociologia criminale o della antropologia culturale dentro alla tecnica e alla scienza del diritto? Una sorta di occupazione abusiva o di inevitabile commistione dell’essere sociale con il dover essere normativo? Operari sequitur esse. Da questa premessa tomistica di metafisica sull’anima come principio di ogni operazione discende l’idea che il comportamento sveli la persona, e abbia pertanto un valore “sintomatico”. Nel corso del Novecento questa idea ha sorretto le tesi criminologiche della Scuola positiva (Lombroso, Garofalo, Ferri), che escludeva un giudizio etico-giuridico di rimprovero sulle persone, ritenute prive di vera libertà di agire diversamente e bisognose invece di controllo e neutralizzazione della pericolosità sociale. Ma le condotte restavano sintomi di pericolosità. La maggioranza dei giuristi, invece, per responsabilizzare tutti, tranne i veri infermi, ha ritenuto che di regola la condotta criminosa esprima una colpevolezza interiore e non una pericolosità soggettiva. E la colpevolezza dipende dal libero arbitrio, dalla possibilità di agire diversamente. Eppure, attraverso questa idea responsabilizzante, si è diffusa una ideologia del rimprovero retributivo, che alimenta prassi e culture che coesistono con l’idea che il diritto penale sia laico e separato dalla morale. Non è vero. Esso vive di contraddizioni. Il giudizio giuridico-penale non è etico, ma il rimprovero di colpevolezza diventa socialmente un rimprovero alla persona, e non al solo fatto commesso. Sono realtà che riesce difficile distinguere. L’unico modo per liberarsi di ingerenze indebite nell’interiorità è di chiarire che la colpevolezza non è oggetto di prova, nel processo, e dunque è fuori della tecnica del diritto. Noi non conosciamo il cuore della persona. E neppure siamo autorizzati a sondarlo. Infatti, i moventi, le cause psichiche dell’agire entrano solo in modo eventuale nelle carte processuali. Provare il fatto e provare la volizione o la colpa, non richiede la conoscenza della motivazione, che può restare sconosciuta. È utile, ma non è essenziale, non è nel capo di imputazione. Ciò significa che il giudizio non attinge la colpevolezza interna, ma una valutazione di tipo sociale su azione ed elemento soggettivo della condotta. È questo un grande insegnamento di civiltà del diritto. Anche se esistono persone pericolose, o che hanno commesso malvagità, e saranno neutralizzate ed escluse a lungo dalla vita sociale, noi non le disprezziamo moralmente, ma continuiamo a trattarle come persone e come valori. Anche un delitto orrendo non esaurisce in quel fatto il valore della persona fino a renderla una non persona. Mai. E il giudice non rimprovera nessuno in sentenza, anche se valuta e gradua le responsabilità. Il fatto non esaurisce il valore del soggetto in un disvalore perenne fotografato o scolpito nel suo male. La colpevolezza rimane dunque laica perché riguarda il fatto e non la persona staccata da quel fatto: se era, rispetto al fatto commesso, motivabile normalmente o condizionata da scusanti, da malattie psichiche o da costrizioni esterne, per es. Oppure se non poteva essere motivata dalla legge perché la legge stessa era troppo oscura e inconoscibile. Questi deficit di motivazione e di esigibilità possono anche solo diminuire la colpevolezza, ma pure in tal caso il giudizio penale non attinge la vita interiore, che è aspetto sacro della persona. Non c’è accountability perché la stessa persona, troppo spesso, anche se libera e capace di intendere e volere, non comprende le ragioni che spiegano perché ha agito o ha omesso di agire, e vorrebbe magari non averlo mai fatto. E un’altra persona, al suo posto, è solo stata fortunata per non essersi trovata in quella situazione o per non aver avuto gli stessi condizionamenti. Se poi dovesse mancare la prova dell’elemento soggettivo del fatto, neppure si porrebbe il problema della colpevolezza come sfera motivazionale anomala, oppure pienamente responsabile. Non si è colpevoli a prescindere, per una sorta di responsabilità di posizione, per essere coinvolti in una vicenda, per tutta una condotta di vita o un modo di pensare che sembra riflettersi nello stile e nelle forme di quanto si è oggettivamente realizzato. Perché si può essere colpevoli per la realizzazione di un fatto proprio, commesso, che sia sorretta da un elemento soggettivo tipico, e non sia legittimata da una causa di giustificazione (adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, stato di necessità etc.). Torniamo così al dato di partenza. Noi possiamo giudicare politicamente, moralmente, e anche giuridicamente tutti i fatti. Quando invece si tratta delle persone noi non le stiamo disprezzando o biasimando se accertiamo che un determinato illecito lo hanno commesso “apposta” (dolo) o per errore, negligenza o imprudenza (colpa). Questi atteggiamenti soggettivi di distinta gravità ancora non esprimono un giudizio sulla persona, ma sul fatto. E se dopo il fatto si passa a pensare di “misurare la colpevolezza”, come dicono di poter fare i penalisti, ci si accorge che questa operazione è la meno scientifica di tutto il diritto penale: c’è una arbitrarietà estrema nel pensare di avere una qualche unità di misura non del “danno”, ma della colpa. Nessuno ne conosce veramente l’entità, e la stessa cornice astratta della pena, da un minimo a un massimo, è riempita di così tante valutazioni politiche approssimative, da esigenze preventive non verificabili, da paure sociali strumentalizzate, da raffronti del tutto empirici e occasionali con altre incriminazioni simili, da scoraggiare ogni tentativo di costruire un edificio normativo basato su una tavola di valori misurabili in ragione soprattutto di parametri personologici. La libertà e la vita delle persone sono sacrificate ad esigenze generali contingenti e variabili. E come il rimprovero non si può misurare né accertare, e dunque non esiste come categoria tecnica, così la colpevolezza che si accerta non è il rimprovero, ma solo un qualche grado di maggiore o minore esigibilità di un comportamento lecito, e la sussistenza (se verificabile) dei motivi che hanno condizionato o limitato la persona nella realizzazione del fatto. Ma quanto tali motivi siano abietti o futili, quanto di valore morale o sociale, e quanto, invece, costituiscano le normali passioni o i bisogni, o le illusioni, che determinano al delitto, è un universo del quale il giudice non può ergersi a specialista. L’abbiamo messo lì a inventarsi misure che non hanno un metro, né una vera episteme. L’idea di incentrare il nucleo della commisurazione della pena su questa colpevolezza non verificabile è una delle più grandi illusioni dei penalisti. Per questo occorre che si sappia, fin dall’educazione primaria, oltre che nei corsi di formazione dei giuristi, che il giudizio dovrà riguardare soprattutto i fatti, oggettivi e soggettivi, il danno, l’offesa, la sua riparazione, mentre la individualizzazione e personalizzazione della pena, indispensabile per i giudizi e i provvedimenti di prognosi e di risocializzazione o rieducazione, non potrà consegnare ai magistrati come all’opinione pubblica nessuna autorizzazione a violare il sacro limite dell’intangibilità delle persone come valori morali e metafisici: al di là di ciò che si vede. Le toghe (quasi) unite rispondono a Nordio: “Noi ti fermeremo” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 febbraio 2025 La magistratura raccoglie la sfida lanciata dal guardasigilli in Aula: “Siamo pronti a mobilitarci contro le riforme”. Ma in Anm è battaglia. “L’altro giorno un magistrato ha ringraziato ironicamente il Ministro perché finalmente aveva compattato la magistratura. Sono io che ringrazio questa parte della magistratura, perché ha compattato la nostra maggioranza come mai si era visto: se agli inizi vi erano delle esitazioni, oggi non vi sono più. Andremo avanti, andremo avanti fino in fondo, senza esitazione e fino alla riforma finale”: così ieri alla Camera il ministro Nordio ha concluso la sua informativa sul caso Almasri facendo capire alla magistratura che nulla fermerà la maggioranza e il Governo nel finalizzare la riforma sulla separazione delle carriere. Ma le toghe non restano a guardare e rilanciano. Lo ha fatto AreaDg con un comunicato del coordinamento in cui tra l’altro si legge: “Non ci interessano le alchimie elettorali, ci interessa una Anm forte e credibile nel programma e nelle persone che la guideranno”. “Una Anm - sottolineano le toghe progressiste - non chiusa in se stessa ma che spieghi ai cittadini i rischi della riforma. Una Anm coraggiosa che si mobiliti in vista del referendum. Una Anm compatta che difenda, senza se e senza ma, i colleghi denigrati, solo per avere preso decisioni non gradite alle maggioranza di turno. Ci sono i volti, le idee e le energie per farlo: non le sprechiamo”. Insomma una delle anime più dure del sindacato delle toghe lancia la sfida al Guardasigilli: i magistrati usciranno dagli uffici giudiziari e scenderanno in piazza per spiegare ai cittadini che “la riforma Nordio vuole mortificare la magistratura italiana e rischia di consegnare i pubblici ministeri al controllo del potere politico. Lo abbiamo ripetuto mille volte e non serve più ripetercelo fra di noi, dobbiamo spiegarlo ai cittadini che saranno chiamati al voto referendario”, conclude la nota del coordinamento guidato da Giovanni Zaccaro. Quello di dialogare con i cittadini è un concetto spesso ripetuto nei documenti ufficiali dei gruppi associativi, però adesso si avverte maggiormente la necessità di mobilitarsi quanto prima perché ormai è guerra aperta tra politica di destra e magistratura. In più AreaDg ha fatto aggiungere all’ordine del giorno del Comitato direttivo centrale di sabato un altro punto: come gestire lo sciopero del 27 febbraio proclamato contro la modifica costituzionale. L’obiettivo: mettere in campo azioni eclatanti. Non si può pensare semplicemente di astenersi dalle udienze. Occorre far sentire prepotentemente la propria voce contro la maggioranza che ogni giorno è sempre più convinta di vincere la battaglia per separare i destini della magistratura giudicante da quella requirente. Insieme ad AreaDg a mantenere la barra dritta contro il responsabile di via Arenula è Magistratura democratica, secondo la quale Nordio ha utilizzato l’affaire Almasri “per attaccare ancora una volta l’indipendenza della giurisdizione, e non più solo la magistratura italiana, ma tutte le autorità giurisdizionali, anche internazionali e sovranazionali. Il messaggio è chiaro: nessuna autorità giudiziaria, nazionale o sovranazionale, potrà emettere atti sgraditi alla maggioranza politica di turno, e se ciò avverrà l’atto giudiziario sgradito sarà in qualche modo vanificato nei suoi effetti e l’autorità giudiziaria che lo ha emesso verrà additata all’opinione pubblica come nemica della nazione. Una pericolosa deriva - ha concluso la corrente guidata da Stefano Musolino - rispetto alla quale tutta la comunità giuridica, tutti coloro che hanno a cuore la democrazia liberale, dovrebbero prendere posizione”. Insomma una chiamata alle armi della società civile per contrastare il Governo. Per il momento ufficialmente tacciono sia Magistratura Indipendente che Unicost. Tutto questo si intreccia con il fatto che appunto sabato il parlamentino dell’Anm dovrà eleggere la nuova giunta e il nuovo presidente. Da quanto appreso si è ancora in alto mare, le chat dei magistrati sono frenetiche, i posizionamenti ancora incerti. In Mi il discorso prevalente è: abbiamo preso più seggi di tutti, il più votato è Giuseppe Tango, ergo la presidenza spetta a lui. Tuttavia i vertici, Claudio Galoppi e Loredana Micciché, vorrebbero piazzare il procuratore capo di Messina, Antonio D’Amato: più istituzionale, con più esperienza e al quale spetterebbe il posto considerato che data la sua età non avrebbe un’altra occasione per ricoprire quel posto. AreaDg però non sarebbe d’accordo: ricopre un posto di dirigente di ufficio, come fa contemporaneamente a fare il presidente dell’Anm, soprattutto in momento così particolare in cui occorre impegno massimo pubblico per comunicare le ragioni del “no” al referendum? Molto meglio Tango, che lavorerebbe anche in perfetta sinergia con il possibile Segretario Rocco Maruotti. Inoltre, posto che tutte le correnti sono contrarie alla separazione delle carriere, AreaDg per prendere una decisione sul nuovo vertice vuole capire anche come Mi si comporterà quando in futuro un magistrato prenderà una decisione sgradita alla maggioranza: avrà l’appoggio e la difesa incondizionata di tutti o ci saranno dei distinguo e delle posizioni più morbide, ad esempio come già accaduto in Csm? Dalla risposta a questa domanda, lanciata in maniera più o meno diretta con la nota, dipenderà cosa accadrà sabato. Infatti tutti i gruppi si riuniranno separatamente venerdì sera a Roma per definire le strategie ma pare che la decisione finale sul nuovo vertice dell’Anm arriverà proprio sabato mattina e non si escludono scontri e sorprese dell’ultimo minuto. Certo l’ipotesi di una spaccatura, che pure sta circolando qualora non si trovasse un accordo per una giunta unitaria, è da scongiurare perché sarebbe una sconfitta dinanzi al Governo sempre più galvanizzato sull’andamento della riforma e sul consenso che gli italiani stanno dando alla maggioranza. Controversie sulla Giustizia. Intervista a Bruti Liberati su magistratura, riforme e rischi di Maurizio Crippa Il Foglio, 7 febbraio 2025 L’atto “dovuto” dell’iscrizione nel registro degli indagati, feticcio di tanto giornalismo giudiziario e dogma incrollabile di molta parte della magistratura, per lui invece “non è mai automatico”, c’è sempre un aspetto di valutazione. Però il caso della comunicazione del procuratore Lo Voi ai membri del governo sulla base di un esposto “è esattamente il caso particolare in cui l’atto è davvero e inevitabilmente dovuto”. La separazione delle carriere è un danno per il sistema giudiziario, ma l’equilibrio reale tra accusa e difesa va garantito dal corretto funzionamento del processo. Sulle inchieste della procura di Milano per le ipotesi di reato in materia di edilizia premette subito di non voler commentare, essendo ex procuratore, come i cardinali emeriti. Ma indica l’elogio, inserito nel suo ultimo libro, della sostituta procuratrice di Prato, Laura Canovai, “secondo cui i magistrati non devono indagare i fenomeni”. Per la precisione: “Indagheremo solo i fatti concreti”, disse dopo l’alluvione del 2023, “non posso indagare il ciclone e non è detto che per forza ci sia una causa riferibile all’uomo”. Conversare con Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, saggista e giurista acuminato, è una sfida interessante. Quasi tutte le sue convinzioni cozzano con quelle sostenute da questo giornale (e va anche peggio per quelle sostenute dall’attuale governo), ma le motivazioni sono sempre lontane da certune grossolanità che caratterizzano in molti casi il dibattito, politico e giornalistico. E il risultato delle sue analisi è spesso condivisibile anche dai critici del potere giudiziario. Ad esempio sul debordare dannoso della magistratura nei fatti della politica: “Il lavoro dei pm è fortemente sotto pressione da parte dell’opinione pubblica. Io, ci tengo a ricordarlo, ho scritto nel 1993 - attenzione alla data - il mio primo commento su Mani pulite: ‘Non spetta alla magistratura risolvere i problemi politico-sociali, la magistratura non indaga fenomeni, ma deve indagare su responsabilità giuridiche personali, con le garanzie del processo”. Il suo più recente saggio ha per titolo “Pubblico ministero - Un protagonista controverso della giustizia” (Raffaello Cortina Editore) ed è una riflessione che vuole essere imparziale, anche tecnica, su una figura specifica del sistema della giustizia: “Il pm è la posizione più difficile, perché fa il primo passo nel percorso penale, quindi viene criticato se fa o anche se non fa. E’ fortemente sotto pressione. Nel sistema francese, ad esempio il pm è definito come il primo ‘gardien des libertées’, la figura che si frappone tra la polizia e il giudizio rispetto anche alla pressione dell’opinione pubblica”. Per questo lei ritiene che separarne la carriera dal corpo intero della magistratura possa indebolirlo? “Sì, e credo che la non separazione sia di maggiore garanzia per il cittadino”. C’è invece chi sostiene, e la riforma in corso segue questa idea, che per meglio delimitare il ruolo del pubblico ministero, l’accusa, non c’è di meglio che separarne la carriera da quelle dei giudici. La Costituzione parla di terzietà, e dal tempo della riforma Vassalli che ha introdotto il processo accusatorio molti sostengono questa divisione, che del resto esiste in altri paesi. A questa lettura Bruti Liberati oppone una serie di argomenti tecnico giuridici, prima che politici (ma ne ha anche di questi). “Perché sono contro la divisione delle carriere? Appunto perché, come scrivo nel libro, il pm deve avere questa ‘corazza’, mentre nei sistemi in cui c’è la separazione è più possibile una pressione da parte politica. Poi, questa storiella della separazione perché se no bevono il caffè insieme è assurda: tutti i giorni ci sono processi in cui il giudice smentisce l’accusa, e poi in appello spesso viene smentito il giudice di primo grado, e spesso la Cassazione smentisce tutti e tre. L’autonomia tra i due ordini esiste e funziona”. Ci sono molte opinioni diverse, e autorevoli, opposte alla sua. Da Sabino Cassese, “l’indipendenza della magistratura, infine, non sarà piena finché vi saranno magistrati che non svolgono le due funzioni proprie dei magistrati, quella dell’accusa e quella del giudizio, con carriere parallele”. A Giovanni Falcone, che a Mario Pirani nel 1991, riferendosi proprio alla riforma Vassalli, diceva che il pm “nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice”; specificando al contempo di non essere “un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. Perché lei è convinto di avere ragione? “Per precisione, aggiungo che Falcone aveva una posizione diversa, era prima ancora a favore del pm all’americana, con fortissimo accentramento e, a quel livello, anche con un forte input politico. Ma la mia posizione si basa su altro. Il processo penale è basato su questo presupposto: le prove si raccolgono e si confrontano nel dibattimento, e questo segna l’uguaglianza tra accusa e difesa. Però questa uguaglianza è di tipo particolare, perché il dovere del difensore è trovare tutte le prove a difesa. Il pm invece ha un dovere di imparzialità, non deve trascurare nessuna prova”. Quindi a suo avviso le due figure possono funzionare bene anche così? Lei ne fa una questione di professionalità, di “accountability” e deontologia. “Sì, inoltre trovo sbagliato insistere sulla cosiddetta ‘non terzietà’. Il problema sono le garanzie e le regole del processo, non la collocazione istituzionale del pubblico ministero”. Però i casi nei quali equilibrio e accountability mancano sono tanti. “Parlo per esperienza e dato statistico: qualcuno stima il 40 per cento, anche se è un po’ meno, di assoluzioni. In ogni caso, è evidente che i giudici non esitano a dare torto ai pm. Non è la colleganza che conta”. C’è poi la presunta sottomissione dei magistrati al potere politico. Condivide? “Quanto a questa a obiezione - posta anche da Panebianco qualche giorno fa - che nessuno voglia sottoporre i pm al potere politico… be’, quando poi Nordio esprime certi giudizi, è difficile da accettare”. Molti ritengono però che i cittadini sarebbero più garantiti. “Attenzione, non stiamo discutendo in una accademia astratta di separazione delle carriere, abbiamo un contesto. In molti paesi esiste una separazione delle carriere che inevitabilmente porta a una maggiore influenza del ministro della Giustizia. E questa influenza viene esercitata con grandissima discrezione. Ma da noi, possiamo aspettarci una simile discrezione?”. Il suo è dunque anche un giudizio politico, non solo in punta di dottrina. “Non stiamo parlando in astratto, ma del disegno di legge costituzionale C 1917 Meloni-Nordio. E allora qui le mie obiezioni diventano radicali. Ad esempio, il punto dell’Alta corte di giustizia disciplinare. Che fu proposta nella Bicamerale D’Alema - una corte per tutte e tre le magistrature, ordinaria, Consiglio di stato e Corte dei conti. Non poteva esistere, perché non si possono unificare i sistemi disciplinari di magistrature così diverse. Allora perché riproporla oggi solo per la legislatura ordinaria? Prendo ad esempio la recente relazione del Procuratore generale della Cassazione, relativa al 2024: ci sono state 24 condanne disciplinari, due rimozioni, ma ci sono anche 8 ‘non doversi procedere per cessata appartenenza all’ordine giudiziario’, cioè magistrati usciti volontariamente prima di un procedimento. I procedimenti aperti erano circa il doppio: 50 e 50. Quindi il lassismo è smentito dai fatti”. Lei critica anche l’idea del sorteggio dei membri del Csm. “Un Parlamento che si autodefinisce incapace di scegliere i propri rappresentati, a me pare una auto-umiliazione. E per i magistrati, peggio. La quotidianità del Csm è gestione di ordinaria amministrazione. E in questo non è vero che uno vale uno, perché sappiamo che in magistratura non tutti sono portati, ci sono ottimi giuristi che sono pessimi organizzatori del lavoro. Così come avere due Csm divisi, senza un canale di condivisione: non è logico se poi devi risolvere problemi che sono comuni”. Le alzate di scudi, plateali e irrituali, di parte della magistratura contro un disegno di riforma costituzionale - in sé perfettamente legittimo - non sono un eccesso di politicizzazione? “Possiamo discutere le manifestazioni all’anno giudiziario… Siamo nella società dell’immagine e la Costituzione era l’immagine che funzionava. Io lo avevo fatto come presidente Anm nel 2002, ma non condivido le uscite dall’aula, perché esiste un aspetto di ritualità che va rispettato. Ma certo non si può dire che fossero una ‘minoranza’ e che ci sia una maggioranza silenziosa invece avversa. E va tenuto presente che questa riforma cambia sostanzialmente l’assetto complessivo del sistema del governo della magistratura, si devitalizza totalmente il Csm”. Sul caso Almasri il governo ha riferito in Parlamento. Facciamo un passo indietro, il caso Lo Voi. Lei ha sostenuto che è un atto dovuto, ma c’è chi autorevolmente afferma esattamente il contrario. “Guardi, un capitolo intero del libro è proprio contro lo sproposito dell’uso dell’atto dovuto, che viene invocato dai magistrati. L’atto dovuto di iscrizione degli indagati non è mai automatico. C’è solo un caso, con buona pace di Salvini, ed è quello del gioielliere che spara e uccide, perché lì c’è di mezzo una autopsia, eccetera. Quindi è davvero garanzia del gioielliere. Ma il resto non è mai automatico: né il se, né il quando né il dove. In certi casi si possono fare riscontri preventivi, iscrivendo al cosiddetto modello 45, con indagini su fonti aperte, e poi si dà notizia quasi contestualmente della richiesta di archiviazione”. Invece in questo caso? “E’ un caso molto particolare. Perché per proporre l’archiviazione occorre una cosa fondamentale: che il ministro della Giustizia dichiari ‘ho fatto questo, ho preso questa iniziativa per ragioni di tutela dell’interesse primario della nazione’. Perché altrimenti, astrattamente - a parte il peculato che è fragilissimo, inesistente - l’ipotesi del favoreggiamento si pone. Insomma: nonostante l’abuso dell’atto dovuto, questo è il caso in cui l’atto dovuto sussiste”. Mercoledì è stato il giorno delle informative dei ministri Nordio e Piantedosi al Parlamento, è apparso chiaro che la vicenda Almastry è stata una scelta politica in ragione dell’interesse nazionale. Come giudica i loro interventi? “Lo ha detto molto chiaramente, nel suo preciso burocratese, il ministro dell’Interno (e per fortuna rimane una classe di prefetti di elevata qualificazione)”. E le ragioni addotte da Nordio? “Il ministro della Giustizia ha fatto tutti i pasticci possibili: si è attribuita una valutazione nel merito del mandato di arresto della Corte penale internazionale, che in questa fase gli è preclusa dallo Statuto della Corte, non ha attuato tempestivamente una interlocuzione con la Cpi, prevista dallo Statuto, se avesse ritenuto necessari chiarimenti e, soprattutto, ha lasciato trascorre il tempo senza dare alla Corte di Appello di Roma quella risposta che era stata richiesta”. Lei dunque evidenzia soprattutto una incapacità di gestione politica. “Se questa assunzione di responsabilità politica, in nome dell’interesse nazionale, vi fosse stata subito da parte del ministro della Giustizia la vicenda penale probabilmente non sarebbe nemmeno iniziata. Ora, a mio avviso, è aperta la strada per una archiviazione diretta da parte del Tribunale dei ministri. Chiuso, e mi auguro nei più brevi tempi possibili, il versante penale, rimane aperta la delicata questione dei rapporti del nostro paese con la Corte penale internazionale”. Lasciamo il “porto delle nebbie”, torniamo a Milano. Dove difficilmente si può contestare che i pm stiano facendo indagini su “un fenomeno sociale” legato all’edilizia, attraverso proprie interpretazioni di leggi e regolamenti. L’ex procuratore Bruti Liberati mantiene l’impegno a non commentare, ma rimanda per analogia ad alcune riflessioni di carattere generale. “Ad esempio le indagini della procura di Bergamo sul Covid, tema che cito molto a lungo nel mio libro. Il procuratore di Bergamo, ottima persona, dice ‘be’ io comunque fornisco elementi per l’analisi scientifica’… No, la magistratura indaga reati, non ‘fornisce elementi’. Certo poi c’è una crescente pressione dell’opinione pubblica, ad esempio sui reati colposi. Prendiamo il caso della sindaca di Genova condannata in sostanza per non aver previsto l’alluvione, o il caso dell’ex ad di Ferrovie Moretti condannato per la strage di Viareggio. Io ho qualche perplessità, sono stato sempre per una assoluta restrizione dell’intervento penale. Allo stesso modo, non credo che la magistratura debba indagare su quelle che sono scelte di discrezionalità amministrativa delle amministrazioni locali. Il caso poi delle legislazioni urbanistiche è particolarmente complesso”. Forzature che, in generale, riguardano molti casi di indagini che spesso hanno avuto delle ricadute politiche, comprese dimissioni da cariche elettive. “Questo è vero, e io credo che l’etica politica la debba definire la politica. Abbiamo tanti casi in cui questo non è accaduto. Invece può accadere che sia disonorevole politicamente una cosa che non è reato, ma che non sia disonorevole una cosa che pure è reato, non di particolare rilevanza. Dimissioni o meno di un amministratore o di un politico devono essere scelte autonome della politica, con assunzione di responsabilità”. “La separazione delle carriere non mi spaventa. Da Anm chiusura ideologica” di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 febbraio 2025 Parla D’Avino, procuratore di Parma: “La riforma Nordio non riduce l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. L’Anm sembra subordinata alle visioni più estreme e politicizzate della magistratura”. “La riforma della separazione delle carriere non mi fa paura, perché non vedo in nessuna parte del disegno di legge uno stravolgimento della giustizia, oppure gravi ripercussioni per la tutela dei diritti dei cittadini, né tantomeno il rischio - che viene da paventato da qualcuno - di riduzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. Lo afferma, intervistato dal Foglio, il procuratore di Parma, Alfonso D’Avino. “Nel nuovo articolo 104 della Costituzione non viene detto da nessuna parte che il pm verrà sottoposto all’esecutivo. Allora mi chiedo, e chiedo ai miei colleghi, sotto quale comma sarebbe nascosto questo rischio? È inutile dire che oggi la sottoposizione all’esecutivo non c’è ma potrà avvenire un domani. Un domani potrà avvenire anche se dovesse rimanere l’attuale situazione”. “Mi sembra che una parte della magistratura veda la Costituzione come un totem, come un qualcosa di assolutamente immutabile. Lo trovo esagerato, perché nulla vieta che la Costituzione possa essere modificata”, aggiunge D’Avino, che poi critica la linea fortemente aggressiva e di protesta dell’Associazione nazionale magistrati: “Pur essendo da sempre iscritto all’Anm, penso che in questi ultimi tempi ci sia una sorta di subordinazione alle visioni più estreme e politicizzate della magistratura”. “Nell’ottica del processo accusatorio, in cui il giudice è terzo e il pm è considerato parte, purché conservi autonomia e indipendenza, non vedo nulla di scandaloso nel fatto che pm e giudici seguano due percorsi di carriera separati. Con due Csm anch’essi separati”, dichiara D’Avino. “La circostanza che i Consigli verrebbero comunque presieduti dal capo dello stato mi sembra la conferma ulteriore della garanzia di autonomia e indipendenza per i magistrati”, aggiunge. Il procuratore di Parma racconta di non aver aderito alla protesta svolta dall’Anm all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Non sono andato in toga, non ho indossato la coccarda tricolore, non ho agitato la Costituzione e non mi sono allontanato quando ha parlato il rappresentante del ministro della Giustizia. Mi è sembrato un gesto non degno della nostra categoria e inopportuno sul piano del rispetto istituzionale”, dice D’Avino. “Di fatto in questo modo si vuole vietare al Parlamento di esercitare le sue prerogative, tra cui c’è anche quella di modificare la Costituzione, basandosi sul principio secondo cui ciò che dice la magistratura è Vangelo. Questo non mi pare accettabile. Come magistrati abbiamo tutto il diritto di intervenire ma nelle sedi istituzionali”. D’Avino si dice contrario anche allo sciopero indetto dall’Anm per il 27 febbraio: “Non lo condivido affatto. Noi magistrati costituiamo un organo fondamentale dello stato e quindi è come se scioperassimo contro noi stessi. In questo momento lo sciopero sarebbe visto come una forma per opporsi ad altri organi dello stato, l’esecutivo e il Parlamento”. In un’intervista al nostro giornale, il procuratore di Padova Antonello Racanelli ha criticato la chiusura al dialogo dell’Anm sulla riforma. Con un confronto aperto e franco col governo, ha spiegato Racanelli, la magistratura avrebbe potuto ottenere miglioramenti al testo di riforma costituzionale. “Sono assolutamente d’accordo”, dice D’Avino. “Non condivido questo allarmismo esagerato, che è frutto di una lettura distorta del disegno di legge. Il dialogo è sempre lo strumento migliore. Invece di fare muro contro muro ci si poteva, e forse si potrà ancora, sedersi a un tavolo per discutere e migliorare la riforma”. Come il ricorso al sorteggio secco per l’elezione dei togati al Csm. “In questo momento storico la magistratura è forse al livello più basso di credibilità e fiducia da parte dei cittadini, sia per il noto caso Palamara sia per altre vicende che non hanno fatto bene alla nostra immagine (penso a certi casi in cui sono addirittura state nascoste prove favorevoli alla difesa)”, dice D’Avino. “In una fase di questo genere inevitabilmente può accadere che la politica intervenga con riforme, come quella del sorteggio, che certamente non sono ideali. Ma se la magistratura non è stata capace di risolvere i suoi problemi, soprattutto legati alla degenerazione delle correnti, è anche normale che qualcuno intraveda nel sorteggio un modo per garantire maggiore trasparenza nelle decisioni del Csm”, spiega il procuratore. “Pur non ritenendola pericolosa, tuttavia, escludo che questa riforma risolverà i problemi concreti della giustizia, che sono legati soprattutto alla carenza di magistrati e di personale amministrativo”, conclude D’Avino. Affossata di nuovo la Giornata per le vittime degli errori giudiziari. Maggioranza divisa di Valentina Stella Il Dubbio, 7 febbraio 2025 Oggi in commissione Giustizia alla Camera si sarebbe dovuto accelerare l’iter della proposta di legge sull’istituzione della giornata per le vittime degli errori giudiziari, cominciando ad esaminare gli emendamenti. Ma è stato tutto rimandato a data da destinarsi. Probabilmente la commissione tornerà a riunirsi tra quindici giorni, come ha comunicato il presidente Ciro Maschio. Ufficialmente, come ha spiegato il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, si è concordato tra le forze di maggioranza insieme anche al deputato di Italia viva Francesco Bonifazi, il primo a proporre il tema, di istituire prima un tavolo di confronto anche con le opposizioni per valutare insieme i 36 emendamenti arrivati al provvedimento da parte di tutte le forze politiche. L’obiettivo è quello di arrivare ad un testo unitario, evitando ulteriori polemiche già emerse nei giorni precedenti. Ufficiosamente invece ci sarebbe del malcontento soprattutto in Forza Italia ma anche in Fratelli d’Italia per questo rinvio e altresì per il fatto che ancora non è stato posta all’ordine del giorno l’”istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’applicazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario e organizzazione della magistratura, di tutela della presunzione di non colpevolezza e di riparazione per l’ingiusta detenzione”, proposta dal deputato di Forza Italia Enrico Costa, e sulla quale ci sarebbe anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini. Dall’alto, probabilmente dallo stesso Palazzo Chigi, sarebbero arrivate infatti indicazioni di non irritare troppo la magistratura con queste nuove iniziative che già avrebbero raccolto il dissenso ufficiale dell’Associazione nazionale magistrati. In pratica: già l’Esecutivo e la maggioranza starebbero picchiando duro con la separazione delle carriere e con il contrasto in sede giurisdizionale ma anche pubblico rispetto alle decisioni assunte dalle toghe sul protocollo Italia- Albania, non bisogna andare oltre ed esasperare gli animi. Si potrebbe surriscaldare un clima già troppo bollente. Un’ala di Forza Italia però starebbe notando che mentre il ministro della Giustizia Carlo Nordio va in Parlamento e dichiara apertamente guerra alla magistratura, come avvenuto due giorni fa al termine dell’informativa sul caso Almasri, contemporaneamente le iniziative dei forzisti sarebbero congelate. Basti pensare che alla Camera l’emendamento che avrebbe soppresso dal ddl di riforma costituzionale il sorteggio per la scelta dei membri laici dei due Csm, previsti dalla modifica dell’ordinamento giudiziario, era stato cassato proprio dopo una riunione con Nordio e Mantovano. Due i motivi probabili: non perdere tempo sull’approvazione della riforma, non irritare ancora di più la magistratura per la quale rimarrebbe il sorteggio pure dei membri laici del Csm. E già gli azzurri avrebbero ingoiato delle decisioni prese senza discuterne con loro: pensiamo all’emendamento della deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany che, su input del Viminale, ha trasferito le competenze sulle convalide dei trattenimenti sui migranti portati nei Cpr in Albania dalle sezioni speciali del Tribunale di Roma alla Corte di Appello civile. Battaglie tra gli apparati dello Stato di Salvatore Merlo Il Foglio, 7 febbraio 2025 Meloni vuole “bonificare” le agenzie di sicurezza. Ecco un elenco di fatti strani e di pasticci: da Almasri ad Abedini, dai cronisti spiati fino all’auto di Giambruno. Un sistema di schegge impazzite, tra Mr Bean e John Le Carré. Ora altissime fonti di governo ci dicono che Giorgia Meloni voglia “bonificare” (questa l’espressione usata) gli apparati di sicurezza. Di sicuro qualcosa non va. Poiché da sempre il complotto è il più banale rifugio del cretino, nonché il più cretino dei rifugi, e poiché l’Italia è un paese dove il Cretino Collettivo evoca complotti dalla mattina alla sera, bisognerebbe evitare di cercare una unità nella complessità. Tuttavia nell’ultimo anno e mezzo, con una preoccupante accelerazione negli ultimi mesi, tra i servizi segreti e gli apparati di sicurezza in generale, si è verificata una serie di fatti - sospesi tra il pasticcio e il mistero, tra Mr. Bean e John Le Carré - che merita di essere messa in fila. A segnalare che più di qualcosa, anche se che cosa non è ben chiaro, non funziona. L’altro giorno Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, in una relazione al Copasir, l’organismo parlamentare di controllo dei servizi segreti, ha pronunciato una frase che suonava all’incirca così: “Se i servizi segreti sono ogni giorno sulle prime pagine dei giornali, qualcosa non va”. Ecco. Appunto. Ma cosa sta succedendo? Ecco un elenco di fatti apparentemente scollegati, chissà, ma che rendono l’idea di un certo subbuglio. A cominciare dal fatto, decisamente non secondario, che il 15 gennaio, Elisabetta Belloni, il direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, ovvero l’organismo che dirige e coordina i servizi segreti interni ed esterni, ha lasciato il suo incarico per ragioni ancora non del tutto chiare. Ma andiamo in ordine cronologico. Il 30 novembre 2023 due persone venivano viste armeggiare da un agente di Polizia intorno all’automobile del giornalista Mediaset Andrea Giambruno parcheggiata davanti alla residenza della sua ex compagna, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Identificate dalla polizia di stato queste due persone si qualificavano come “colleghi” mostrando tesserini dell’Aisi, servizio segreto interno. Nello stesso periodo a Giambruno, come raccontato all’epoca dal Foglio, veniva rubata un’altra automobile, usata anche dalla premier, una Fiat 500 poi riconsegnata dagli strani ladri sulla via Tuscolana a pochi metri da un commissariato di polizia: l’auto intonsa ma con l’asse del motore smontato come se qualcuno avesse rimosso un dispositivo. A ottobre 2024 era scoppiato il già dimenticato scandalo degli accessi abusivi da parte di pubblici ufficiali infedeli nella banca dati della procura nazionale antimafia. Quegli accessi abusivi avevano riguardato un’enormità di persone famose o politicamente esposte tra cui alcuni ministri. Il 22 gennaio 2024 a Roma, davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, Guido Crosetto, ministro della Difesa, spiega di essere “preoccupato”. Il ministro Crosetto, in quei giorni, ritiene che l’Aise, Agenzia informazioni e sicurezza esterna, non l’avrebbe informato su fatti importanti. E la cosa viene messa a verbale: “Non ho notizie specifiche ma i miei rapporti con l’Aise in precedenza non erano particolarmente buoni perché ho contestato in più di un’occasione mancate informazioni al ministero della Difesa che avrebbero potuto anche creare problemi alla sicurezza nazionale”. Il 16 dicembre, all’aeroporto di Malpensa, viene arrestato Mohammad Abedini Najafabadi, ingegnere iraniano. È accusato negli Stati Uniti di terrorismo e di violazioni legate alla tecnologia dei droni. È un pezzo grosso. Viene arrestato in Italia, ma nessuno negli apparati di sicurezza fa scattare un allarme che avverta l’ambasciata italiana a Teheran di rischi su possibili ritorsioni affinché prenda provvedimenti e avverta i cittadini italiani presenti in Iran. Tre giorni dopo infatti, il 19 dicembre, con un pretesto la polizia iraniana arresta la giornalista del Foglio Cecilia Sala e instaura un negoziato per riavere Abedini che mette in difficoltà il governo impegnato nella liberazione di Sala e costringe la presidente del Consiglio Meloni e il governo italiano a intavolare delicate trattative anche con gli Stati Uniti. L’8 gennaio Cecilia Sala atterra libera a Ciampino su un volo dei servizi segreti italiani. A Ciampino si presentano a sorpresa anche i Ros dei Carabinieri che irritualmente, e senza delega dell’autorità giudiziaria, interrogano la giornalista per l’enormità di quattro ore assumendo informazioni sensibili e segrete che dopo qualche giorno in forma edulcorata sono comparse su due quotidiani. Quei Carabinieri non dovevano essere lì, proprio come non si erano presentati a novembre del 2022 quando era stata liberata Alessia Piperno dal carcere iraniano di Evin. “Guerra tra apparati”, si disse. “Dispetti”. Ma non finisce qua. Arriviamo alla cronaca recentissima. Il 19 gennaio la Digos arresta a Torino il generale libico Njeem Osama Almasri Habish. Come l’ingegnere iraniano Abedini, anche Almasri è un pezzo grosso. Enorme. È il capo della Polizia giudiziaria, è un funzionario che opera con l’apparato di deterrenza per il contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata libico. Un esponente di primo piano di un governo (o regime) con cui l’Italia ha rapporti consolidati da tempo: dai flussi migratori, al petrolio, al gas. E infatti, come Abedini, viene rispedito nella sua patria per ragioni (pur non rivendicate dal governo italiano) di stato. Ma la domanda vera è: perché è stato arrestato visto che il suo fermo avrebbe comportato un grave imbarazzo politico? Davvero i vertici della Digos e della polizia, oltre a non aver inviato i documenti di arresto al ministero della Giustizia come prevede la legge, non si sono coordinati con i servizi segreti? Non sapevano chi era? Ma in questo insieme di stranezze, pasticci e omissioni apparentemente scollegate c’è ancora altro. Il 27 gennaio, dopo un articolo che il quotidiano Domani è in grado di scrivere perché incredibilmente la procura di Roma ha inviato ad alcuni giornalisti indagati delle carte coperte da segreto, si è scoperto che i servizi segreti effettuavano controlli attraverso le banche dati riservate su Gaetano Caputi, capo di Gabinetto della premier Meloni. Perché? Che volevano? Cosa cercavano? E chi lo sa. L’ultima vicenda poco chiara che riguarda i nostri apparati di sicurezza è di appena due giorni fa. Si è scoperto che un software spia chiamato Graphite e prodotto dalla società israeliana Paragon Solutions è stato usato per violare il telefono di almeno due cittadini italiani, un giornalista, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, e un attivista politico, l’ex tuta bianca Luca Casarini. Fino alla scorsa settimana questo software era in dotazione ai servizi segreti italiani ma l’azienda Paragon ha rescisso il contratto convinta del fatto che qualcuno che lavora in queste agenzie non abbia rispettato le condizioni contrattuali secondo le quali il software deve avere un utilizzo “etico” ovvero, per esempio, non può essere rivolto allo spionaggio dei giornalisti la cui libertà e riservatezza va rispettata. Almeno in democrazia. Ora può darsi che nessuno dei fatti elencati in questo articolo sia collegato da un filo rosso e che non siano tutti fatti tra di loro dipendenti. Tuttavia una certezza complessivamente emerge: più di qualcosa nel comparto sicurezza italiano non funziona, è fuori controllo o si muove secondo logiche non precisamente limpide. Via D’Amelio, crolla la pista nera: l’ennesima cantonata di Report di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2025 “Rivelazione shock sulla strage”, così il programma di Rai3 Report aveva lanciato la sua bomba giornalistica ricacciando fuori la pista nera, conferendo credibilità a una delle tante dichiarazioni del neofascista Alberto Volo, morto nel 2020. L’inchiesta dava per certo non solo che Paolo Borsellino, nel giugno 1992, lo avesse ascoltato in gran segreto mentre illustrava la fase esecutiva della strage di Capaci, ma addirittura che il magistrato si fosse confidato con lui. Sì, proprio quell’uomo che - come già riportato da Il Dubbio - era stato definito un “mitomane” dallo stesso Giovanni Falcone. Report era arrivata a sostenere, come dato acquisito, che Borsellino fosse convinto della non autonomia della mafia nella strage. Un’affermazione che stride non solo con le parole dello stesso magistrato, come dimostra l’intervista rilasciata al compianto Beppe D’Avanzo, ma soprattutto con le recenti conclusioni del gip nisseno Santi Bologna. Nel recente provvedimento di archiviazione della pista nera, scrive nero su bianco che le dichiarazioni di Volo non solo sono completamente prive di riscontro, ma prenderle per vere equivarrebbe a un insulto alla serietà di Borsellino. I servizi di Report su Capaci e Via D’Amelio sono indubbiamente ben costruiti: montaggi curati, ricostruzioni avvincenti, colonne sonore incalzanti. Nessun dubbio sulla forma, perfetta per una serie tv cospirazionista su Netflix. Ma il giornalismo d’inchiesta non può ridursi a un romanzo fantasy, che alimenta la morbosità di un pubblico incline a leggere la storia attraverso lenti dietrologiche. Una deriva - è bene ricordarlo - pompata da diversi giornalisti e che coinvolge anche alcuni magistrati con una forma mentis dietrologica, proprio come già denunciava Falcone in vita. Basterebbe leggere le sue interviste, i suoi interventi al Csm, e il suo ultimo libro scritto a quattro mani con Marcelle Padovanì. La prima puntata del ciclo di inchieste di Report sulla cosiddetta pista nera si apre, del resto, con un presunto fatto inedito: Falcone avrebbe interrogato Alberto Volo in relazione all’omicidio Mattarella. Una notizia presentata in modo da suggerire al pubblico non esperto che il giudice, poi ucciso a Capaci, avesse preso in seria considerazione le sue dichiarazioni. La realtà, però, è un’altra. Non si tratta di una novità: che Falcone avesse ascoltato il neofascista è documentato da anni. Tutto è scritto nero su bianco nella requisitoria sui delitti eccellenti, nella quale lo stesso magistrato, peraltro, aveva definito Volo del tutto inattendibile, bollando le sue ricostruzioni come opere completamente fantasiose. Un servizio, quindi, esclusivamente sensazionalistico e del tutto suggestivo. Successivamente, Report ha nuovamente affrontato l’argomento, rivelando il presunto incontro tra Borsellino e Volo. A questo punto, è utile riportare nero su bianco quanto scritto dal gip Santi Bologna nel provvedimento di archiviazione. Ha sottolineato che “si tratta di una ricostruzione assolutamente improponibile a meno di non considerare il dott. Borsellino come un magistrato talmente sprovveduto da mettersi a parlare delle proprie impressioni in ordine alle responsabilità per la strage di Capaci con un mitomane come Alberto Volo”. Non solo. Il gip scrive che vale la pena ricordare un fatto avvenuto nel 1974 che rende l’idea della personalità del soggetto. Ovvero aveva tentato di farsi pubblicare un falso necrologio sul Giornale di Sicilia per “far credere alla sua ragazza e ai suoi amici di essere al centro di oscure trame politiche”. A ciò si aggiunge il fatto che non sia stato fornito alcun riscontro - o almeno un principio di riscontro - al racconto che Volo espone in merito all’incontro con Paolo Borsellino. Pertanto, secondo il gip, non vi è alcun fondamento per desumere dalle dichiarazioni di Alberto Volo che Borsellino abbia seguito la cosiddetta “pista nera”. Il provvedimento di archiviazione riguarda il presunto ruolo degli esponenti della destra eversiva, tra cui il noto Stefano Delle Chiaie, nelle stragi del 1992. Dal punto di vista mediatico, il caso è esploso dopo l’ennesima puntata di Report, che ha trasmesso un’intervista inedita all’ex brigadiere Walter Giustini. Questi aveva come informatore (e poi pentito, recentemente scomparso) Alberto Lo Cicero, il quale sosteneva di averlo indirizzato verso la cattura di Totò Riina già nel 1991. Ma lo “scoop” che ha scosso l’opinione pubblica è l’intervista all’ex compagna di Lo Cicero, Maria Romeo, che parla della presenza di Stefano Delle Chiaie a Capaci, arrivando ad accusarlo di aver organizzato l’attentato. Anche in questo caso, però, ci troviamo di fronte a una narrazione fantasiosa spacciata per giornalismo d’inchiesta. Bastava razionalità e un’analisi incrociata delle dichiarazioni con i verbali dell’epoca per rendersi conto della totale inconsistenza di queste testimonianze, per di più de relato. Non solo: la procura di Caltanissetta ha accusato gli stessi testimoni di depistaggio, calunnia e false informazioni al pubblico ministero. Significativo è il giudizio del gip sulla testimonianza di Maria Romeo. In sostanza, il giudice l’ha definita come una “dichiarante che tende a rielaborare a suo piacimento notizie apprese casualmente, orientandole nella direzione a lei più favorevole”, una propensione che rende impossibile dare credito alle sue accuse senza riscontri solidi su ogni punto. Lo stesso Giustini, sentito dalla procura, ha smentito quanto però era emerso nel servizio di Report, escludendo categoricamente di aver avuto anche solo sospetti su Delle Chiaie e confermando l’infondatezza delle dichiarazioni della Romeo. Intanto, la procura di Caltanissetta ha chiesto l’archiviazione anche per il presunto coinvolgimento nelle stragi del ‘ 92 del neofascista Paolo Bellini. La gip nissena Graziella Luparello aveva sollecitato nuovi accertamenti basandosi anche su un articolo di Antimafia2000 che però conteneva informazioni errate. Si sosteneva che nel ‘ 91 Bellini avesse soggiornato in un hotel siciliano insieme a Vincenzo Giammanco, indicato come parente dell’ex capo della procura di Palermo e prestanome di Provenzano (tra l’altro di una società presente nel dossier mafia- appalti). In realtà, si trattava di un caso di omonimia. Altro elemento chiave è l’attività documentata di Bellini nel settore del recupero crediti, ambito in cui sarebbe avvenuto il riavvicinamento con il mafioso Antonino Gioè (poi suicidatosi in carcere), dopo la comune detenzione. La procura conferma che tra il 1991 e il 1992 Bellini operò effettivamente in Sicilia per recuperi crediti: nessun indizio ha dimostrato che si trattasse di una copertura per giustificare la sua presenza sull’isola. La cosiddetta “pista nera”, sempre più evidentemente una traccia depistante, sembra dunque dissolversi. Restano in campo ipotesi altrettanto problematiche: dalla richiesta di archiviazione emerge che la procura nissena - in particolare il pm Pacifico - ha preso in esame l’esposto dell’ex colonnello Riccio, storico accusatore di Mario Mori, accuse già naufragate in sedi processuali. Inoltre è ancora in corso un procedimento contro i familiari dell’ex superpoliziotto Arnaldo La Barbera in relazione all’agenda rossa di Borsellino. Ipotesi che appaiono fragili quanto la pista nera. Nei fatti permangono interrogativi irrisolti. Ad esempio, come si può spiegare la sparizione dei documenti dalla borsa del magistrato, se almeno uno di loro - il fascicolo Mutolo - risulta essere giunto al suo ufficio? Chi lo ha portato lì? E perché non quadra la testimonianza dell’ex poliziotto Paolo Maggi riguardo il passaggio della borsa e altro ancora? Forse è in questi aspetti che va cercata la chiave di volta, soprattutto se si considerano le indagini di Borsellino sugli appalti e i collegamenti con Capaci, nonché le “cose terribili” (parole di Borsellino stesso) individuate all’interno dell’allora procura di Palermo. Per ora, nessun chiarimento. Violenza di genere, viola l’obbligo di allontanarsi l’imputato che fa entrare in casa la vittima di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2025 Per la Cassazione l’obbligo di allontanamento si impone anche quando l’avvicinamento tra “carnefice” e vittima si sia determinato per caso fortuito non imputabile in alcun modo al comportamento o alla volontà del primo. Nei casi di violenza domestica o di genere la violazione del divieto di avvicinamento e/o dell’ordine di allontanamento può essere imputata alla persona sottoposta alla misura anche se è la vittima che volontariamente ha reso possibile l’incontro tra i due. Per tali motivi la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 4936/2025 - ha accolto il ricorso della parte pubblica annullando l’ordinanza con cui il tribunale aveva cancellato la misura degli arresti domiciliari inizialmente disposta dal Gip a seguito dell’episodio in cui era stata la stessa vittima a recarsi a casa dell’imputato accusato di diversi fatti violenti nei confronti della donna. Nello specifico all’imputato veniva contestato il reato previsto nel secondo comma dell’articolo 387 bis del Codice penale che sanziona la violazione dell’obbligo di allontanamento. In effetti, tale obbligo si impone anche quando l’avvicinamento tra “carnefice” e vittima si sia determinato per caso fortuito non imputabile in alcun modo al comportamento o alla volontà del primo. Ma, nel caso concreto, emergeva addirittura che l’incontro vietato tra i due si fosse realizzato per spontanea volontà della vittima che si era recata a casa dell’imputato. Ciò non costituisce una scriminante del comportamento omissivo tenuto dall’imputato che non provveda ad allontanarsi dalla persona offesa. Al contrario i giudici del riesame avevano in tale circostanza ravvisato l’inesigibilità del dovere di allontanarsi dalla vittima in quanto l’imputato veniva da questa avvicinato presso la propria abitazione. Ma per la Cassazione se è pur vero che l’imputato non fosse tenuto al gravoso onere di uscire dalla sua stessa abitazione è pur vero che avrebbe potuto chiedere l’intervento delle forze dell’ordine al fine di non violare la prescrizione impostagli a seguito della contestata violenza. Tra l’altro, va sottolineato come l’uomo avrebbe ben potuto evitare di aprire alla donna che si era presentata a casa sua evitando così in radice la violazione dell’ordine impostogli. Infatti, la violazione non è esclusa per il solo fatto che la persona soggetta all’ordine abbia tenuto un comportamento solo passivo rispetto alla verificazione dell’incontro personale vietato. L’aspetto della passività della condotta dell’uomo in effetti era stato proprio l’elemento che aveva fatto propendere il tribunale per la non imputablità del reato ex articolo 387 bis, comma 2, del Codice penale. Invece, la Corte di cassazione tenendo conto degli aspetti psicologici della violenza domestica sulle donne afferma che questa può essere frutto anche del loro atteggiamento ondivago o spiccatamente contraddittorio verso l’autore del reato. Ma ciò non esclude o limita la responsabilità del soggetto violento il quale di fatto non fa che approfittare di tali atteggiamenti, sintomo semmai di debolezza e sottomissione femminile o sociale. Tant’è vero che per questi reati anche il ritiro della querela non comporta la fine del procedimento a carico di chi agisce la violenza in relazioni connotate da subalternità o da difficoltà a procedere contro l’aggressore in quanto frequentemente si tratta di figura di riferimento affettivo e familiare per le vittime. La Cassazione per tali motivi ritiene integrato il profilo di responsabilità, che avrebbe giustificato i domiciliari per l’imputato che si era passivamente prestato all’incontro con la vittima escludendo quindi come valida giustificazione la circostanza valorizzata dal tribunale del riesame secondo cui non si poteva pretendere che l’uomo fosse tenuto ad allontanarsi egli stesso dalla propria abitazione a fronte della volontà della donna di incontrarlo. Infatti, conclude la sentenza di legittimità, non era onere inesigibile dall’imputato quello di allertare le forze dell’ordine affinché ponessero termine all’incontro vietato e apparentemente non voluto e subito. Inoltre, dalla vicenda emerge un profilo di responsabilità non solo omissiva, ma fatta di vera e propria collaborazione per aver l’uomo acconsentito a una non irrisoria permanenza della donna nel proprio appartamento per diverse ore se non addirittura giorni. Lombardia. Gli interventi regionali per la tutela dei detenuti ilpuntonotizie.it, 7 febbraio 2025 Inclusione lavorativa, diritto alla casa e continuità degli interventi. Sono questi i fattori più efficaci degli interventi regionali per la tutela delle persone detenute come evidenziato dalla relazione, illustrata da Claudio Mangiarotti e Onorio Rosati, approvata ieri all’unanimità dal Comitato paritetico di controllo e valutazione (CPCV) sull’attuazione della legge regionale n. 25/2017 in tema di tutela delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria. Il documento riporta l’esito dell’esame condotto dal Comitato Paritetico sulla Relazione n. XII/57, la terza trasmessa dalla Giunta al Consiglio regionale dall’approvazione della legge regionale in materia, aggiornando lo stato di attuazione al biennio 2022-2023. “Il Comitato paritetico di controllo e valutazione restituisce sempre importanti contributi sulle politiche regionali” ha affermato Claudio Mangiarotti (FdI), Presidente del Comitato Paritetico di controllo e valutazione. “Nel caso della relazione oggi approvata, sono state evidenziate le criticità attualmente presenti nelle carceri, ma anche diverse proposte per evitare il sovraffollamento, come la possibilità di offerta di percorsi formativi e lavorativi che tendano alla rieducazione del condannato. Per fare in modo che questo accada è tuttavia fondamentale fornire agevolazioni agli imprenditori che decidono di aderire a tale iniziativa”. Il Comitato ha inoltre recepito alcune indicazioni proposte dal Consigliere Rosati(AVS), tra cui inserire nella prossima Relazione il dettaglio delle risorse stanziate da Regione Lombardia e il tipo di effetto dei singoli progetti. “Sovraffollamento, tutela delle fragilità, applicazione delle misure alternative e diritto abitativo sono i temi su cui occorre un impegno maggiore per un pieno recupero sociale e lavorativo delle persone”, ha sottolineato Rosati. La relazione riporta i dati dell’Osservatorio penitenziario adulti e minori (GNPL) aggiornati al 10 gennaio 2025 che confermano in Lombardia presenze in crescita (8.829 detenuti): erano 8.722 persone al 31 dicembre 2023, a fronte di una capienza complessiva prevista di 6.154 posti e di una disponibilità effettiva pari invece a 5.833 posti. L’Osservatorio registra, inoltre, un peggioramento dell’indice regionale di sovraffollamento al 150%, tendenza che interessa anche altre regioni (Puglia-Basilicata: 163,5%; Lazio-Abruzzo-Molise: 131,5; Emilia Romagna - Marche: 130%), a fronte di un dato nazionale al 130%. Si aggravano le situazioni per 13 istituti mentre sono in miglioramento in 6. Rispetto a dicembre 2023, infatti, l’indice di sovraffollamento aumenta in modo più sensibile per Sondrio (+27 punti percentuali), Mantova, Lecco e Varese, collocando 9 istituti lombardi nei primi 21 in Italia per gravità. Risulta in lieve diminuzione per Lodi, Milano, Verziano (BS) e Vigevano (PV). La capienza, infatti, resta pressoché invariata tra il 2020 e il 2023 (+8 posti) ma diminuiscono i posti regolari realmente disponibili per l’inagibilità di celle o intere sezioni detentive, come nel carcere di San Vittore a Milano. “Questo - si legge nella Relazione - ha incrementato l’indice di affollamento delle carceri lombarde e ha aggravato una situazione già critica in alcuni istituti: in San Vittore, ad esempio, l’indice è passato da 195% a 229%”. Per quanto riguarda le caratteristiche degli adulti in carcere, a fine settembre 2024, i condannati definitivi in Lombardia con durata della pena residua fino a 3 anni sono 3.478, mentre si stima in oltre 3.100 i possibili fruitori di misure alternative alla detenzione. Aumentano le situazioni di fragilità: le persone con dipendenze aumentano del 20%. Quattro i pilastri dell’azione regionale nel sistema di intervento di esecuzione penale: parità di condizioni di vita e di opportunità, inclusione attiva, sistema integrato di interventi, coinvolgimento della comunità territoriale. Al finanziamento complessivo - che la Relazione indica in 28 milioni di euro - concorrono risorse europee (Fondi FSE 2014-2020 e FSE+ 2021-2027), Fondi statali (Cassa delle Ammende e risorse del Ministero della Giustizia), risorse autonome regionali. Gli ambiti di intervento nel biennio 2022-2023 hanno riguardato: * interventi territoriali inclusione sociale e lavorativa: comprendono progetti di recupero, reinserimento socio-lavorativo, percorsi di empowerment e di sostegno all’accoglienza abitativa. Avviata nella programmazione 2020-2021, la misura ha coinvolto 209 soggetti (al 78% organizzazioni private non profit) e ha raggiunto 7.767 destinatari: il 57% di origine italiana, il 78% nella fascia di 18-50 anni, principalmente con titolo di studio medio basso (59%) e in condizione di disoccupazione. * Giustizia riparativa e interventi per vittime di reato: in partnership con 12 enti (di cui 11 locali) offre sportelli di ascolto e supporto alle vittime, realizza percorsi di sensibilizzazione, informazione e formazione, consperimentazioni in contesti educativi e formativi, che hanno permesso di raggiungere 2.383 persone e 4.690 alunni di 37 istituti scolastici. Lo sviluppo dell’esperienza prevede un progetto di 24 mesi avviato nel 2024 (Comunità attive, finanziato da Cassa delle Ammende e risorse del bilancio regionale), rafforzato da interventi di sostegno finanziati dal Fondo del Ministero della Giustizia. * Centri diurni: sostegno all’accoglienza di persone in condizione di fragilità fisica e psichica, adulti e giovani adulti in misura penale interna o esterna con interventi di carattere educativo, relazionale, informativo e sociale per accompagnarli nel passaggio dalla struttura penitenziaria al territorio e creare una rete di relazioni (Progetto Incubatori di comunità). La Relazione rendiconta i 10 centri diurni interni agli Istituti Penitenziari (IP) e 4 centri diurni esterni oggi in attività e le numerose attività che vi si erogano. Lo sviluppo del progetto nella nuova programmazione (Un centro in rete per la fragilità) ha una durata prevista di 18 mesi da attuarsi nel biennio 2023-2025 * accoglienza genitori detenuti con bambini: i progetti di accoglienza abitativa e percorsi socio-educativi-riabilitativi hanno coinvolto 2 madri con 2 bambini nel 2022 e un nucleo famigliare nel 2023. La gestione del fondo è stato oggetto di un Accordo di Partenariato (Dgr 1365/2023) entrato in vigore nel gennaio 2024. Tra gli aspetti di maggior interesse risalta la valutazione d’impatto degli interventi di inclusione lavorativa, misurazione condotta sui risultati affidata dalla Regione a ICRIOS Bocconi. La Relazione riferisce esiti soddisfacenti a conclusione delle attività valutative: * un tasso di completamento del tirocinio pari al 66%, con il 24% di chi non l’ha concluso già assunto prima del termine del progetto. * la ripresa di un nuovo percorso di tirocinio per il 39% dei soggetti, nei 6 mesi successivi alla fine dell’intervento, con l’80% di casi che riporta un impiego al termine dell’attività offerta * la riduzione di comportamenti sanzionabili e miglioramento della condizione di esecuzione della pena (in particolare per le donne) * l’accesso a una soluzione abitativa indipendente per il 41% di chi ha partecipato a interventi di housing temporaneo, soluzione spesso individuata grazie al sostegno di familiari e amici, fattore che indicherebbe anche il miglioramento delle relazioni sociale e familiari del soggetto * il successo nel portare a termine l’intervento per il 41% dei minori, con l’84% di casi di miglioramento nell’esecuzione della pena, il 64% di continuazione di percorsi educativi o lavorativi, con reperimento di un lavoro retribuito nel 51,3% dei casi. Altro aspetto messo in luce dalla Relazione è l’importanza della casa, chiave determinante per il successo delle misure in quanto è il punto di partenza per l’accesso a qualsiasi percorso riabilitativo offerto in misura esterna. Inoltre, i percorsi risulterebbero capaci di ristabilire legami positivi con la famiglia nei più giovani e anche le attività di supporto alla genitorialità produrrebbero effetti positivi, aumentando il tasso di completamento del percorso (+24,6%). La misura prevista nella nuova programmazione con l’Avviso reti territoriali per l’inclusione sociale delle persone (minori e adulti) sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, ha una dotazione di 9 milioni di euro (FSE+ 2021-2027) e vede un coinvolgimento di 201 soggetti (in prevalenza di organizzazioni private non profit), con l’approvazione di 36 progetti di cui 14 rivolti ai minori(per 3,2 milioni di euro), il 32% in esecuzione penale esterna e 6% in IPM; 22 progetti rivolti ad adulti (per 5,3 milioni di euro), il 54% in IP e l’8% in esecuzione penale esterna. La loro conclusione sarebbe prevista nei primi mesi di quest’anno. Torino. A processo i detenuti che nel 2022 occuparono il carcere di Elisa Sola, Stefano Scarpa La Stampa, 7 febbraio 2025 Protestavano per chiedere condizioni di detenzione migliori e vennero sgombrati dalla polizia. Dopo sei ore di trattative fallite e sedici dall’inizio dell’occupazione, il comandante urla l’ultimo appello: “Allontanatevi e mettetevi nelle camere. Nessuno si fa male. Assolutamente”. Il dirigente esclama: “Entrare nelle camere! Chi sta fuori si assume la responsabilità di stare fuori. Meglio se entrate”. Sono le nove di mattina del secondo giorno della rivolta. I detenuti della terza sezione del blocco A del carcere delle Vallette sono barricati dal pomeriggio del giorno prima. È una delle proteste più lunghe della storia recente di un istituto affollato da 1.480 detenuti quando potrebbe ospitarne 1.035. Un’occupazione con barricate durata due giorni, dal 10 all’11 febbraio del 2022. Sono dieci gli indagati, dal pm Paolo Toso, che verranno processati in primavera con l’accusa di violenza e resistenza nei confronti di pubblici ufficiali. Ma gli avvocati - tra cui Riccardo Magarelli e Cristina Rey - negano l’uso della violenza. Occupare una sezione non significa usare la forza, ma essere “disperati”, è il senso della tesi difensiva. “Siamo senza medici, psicologi ed educatori”, dicono i giovani carcerati ai poliziotti penitenziari quando si chiudono dietro al cancello. Le chiavi di quello di ingresso e di uscita sono sparite. Un cumulo di materassi, brande e tavoli da ping pong sbarra la visuale degli agenti che tentano di scorgere cosa c’è oltre le sbarre. Oltre la zona che sarà off limits per sedici lunghissime ore. Dentro il braccio occupato ci sono almeno 13 detenuti. Gli altri, che restano fuori, incitano: “Continuate così”. Nella relazione del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria c’è scritto: “Uno ha bloccato con un mestolo la serratura del cancello d’ingresso. In sette hanno accatastato dietro al cancello oggetti per ostacolarne l’apertura. Un detenuto ha minacciato di tagliarsi. Un altro di appiccare il fuoco”. Segue l’elenco delle “persone offese dal reato”. “Lo Stato italiano”, al primo posto. A seguire, i nomi di un dirigente, di un assistente capo, e di tre agenti. Tutti in servizio alle Vallette. Nelle immagini riprese dalla penitenziaria è immortalata anche la scena dello sgombero. È già passata l’alba del secondo giorno. Gli idranti sparano acqua verso i carcerati oltre le sbarre. Il cancello viene spaccato con la fiamma ossidrica. Scatta l’irruzione degli agenti in tenuta antisommossa, con caschi e scudi. Dal soffitto piove l’acqua rimbalzata dal getto dell’idrante. “Fate piano, non scivolate!”. “Le chiavi! Le chiavi!”. “Non tutti insieme”. “Basta, basta!”. Le mani dietro alla schiena, la testa piegata in avanti, un detenuto urla piangendo. Verrà riportato nella sua cella, con gli altri “rivoltosi”. Poche ore dopo, in quelle celle, scatteranno le perquisizioni. Il primo a essere interrogato è il carcerato più giovane. Ha 19 anni. Il pomeriggio prima dell’inizio dei disordini doveva prendere le medicine della sera. Forse non le ha prese, forse sono arrivate in ritardo. Non è chiaro. Ha puntato un mestolo di legno nella serratura del cancello d’ingresso della terza sezione del blocco A. E lo hanno seguito. Ma non è stata una manifestazione improvvisata, secondo la tesi dell’accusa. “Il gruppo aveva scientemente pianificato e sviluppato modalità e mezzi per assicurare al piano criminoso una possibilità di riuscita, perché era stata condivisa prima una petizione tra tutti i detenuti”, scrivono i poliziotti, che aggiungono: “Molti sono stati costretti a firmarla”. Quando i detenuti sono barricati dentro alla sezione appendono un cartello fuori dal cancello: “Solo giornalisti”. Come spiegheranno agli agenti: “Vogliamo parlare con gli organi di stampa per denunciare come ci fate vivere, devono vedere”. Nessun giornalista verrà fatto entrare. I detenuti attaccano pannelli di cartone sulle sbarre. Per non fare vedere cosa c’è dietro. Quello che oggi possiamo documentare, è ciò che è rimasto nelle immagini delle telecamere degli investigatori. Ci sono uomini dietro alle sbarre che gridano. Bombolette di gas appoggiate al cancello. Sei ore di trattativa finiscono nel nulla. “O ci date i giornalisti o diamo fuoco a tutto”. Lo sgombero scatta il giorno dopo perché gli agenti devono dormire almeno sei ore. Così viene scritto in uno dei verbali. Il mattino dopo, alle nove, l’ultima chiamata: “Rientrate nelle camere. Nessuno si farà male”. Un detenuto si taglia: “Mi incido la carotide”. Un altro, finito lo sgombero, quando viene caricato su un furgone, sputa due lamette. La terza resta in gola. Lo convincono a non ingoiarla dopo trenta minuti. Iniziano gli interrogatori. Un testimone dichiara: “Uno di noi che aveva il dito fasciato ha scritto la lettera. L’ha letta ad alta voce e l’ha fatta girare per firmare”. La lettera che i detenuti avrebbero voluto consegnare ai giornalisti, se mai li avessero fatti entrare in prigione, iniziava così: “La situazione è diventata insostenibile. Siamo costretti a barricarci. Il problema più grande è la sanità. Dal mal di testa alla mano rotta, qualsiasi sia il problema, ci sono detenuti che aspettano giorni per essere visitati. Siamo stanchi, è un diritto di ogni essere umano essere curati. Ci ritroviamo a litigare con le guardie fino ad arrivare al suicidio. Ed è per questo che questa sera siamo arrivati a questo punto. Lo stesso di prima”. Locri. La nuova vita di Ilario: condannato a 15 di anni di carcere diventa ormeggiatore al porto di Ilario Balì lacnews24.it, 7 febbraio 2025 Il progetto di giustizia riparativa avviato dalla Caritas in sinergia con il tribunale di Locri. Il presidente del Tribunale Accurso: “Reintegrare i detenuti è possibile”. Il riscatto sociale e l’inclusione passano per il lavoro. La Caritas Diocesana di Locri-Gerace ha avviato un’iniziativa che coniuga occupazione e solidarietà. Un detenuto condannato a una pena di 15 anni, ha iniziato a lavorare al Porto delle Grazie di Roccella Jonica attraverso un percorso di assunzione del progetto di giustizia riparativa “Pro.Me.: profeti di speranza, mendicanti di riconciliazione” che vedrà il coinvolgimento di diversi detenuti nel processo di reinserimento sociale attraverso opportunità lavorative. “L’obiettivo che ci siamo dati e che sto curando da 10 anni è quello di attivare un progetto di inclusione per i detenuti del carcere di Locri che fanno lavori nel luogo dove sono stati condannati per far comprendere loro il senso del ripristino della legalità offerto da chi gli ha inflitto le condanne, come nel mio caso - ha espresso il presidente del tribunale locrese Fulvio Accurso - Un riacquisto della dignità lavorando per la collettività che hanno lacerato con i loro delitti. L’importante - ha proseguito Accurso - è far capire che non tutti i detenuti sono uguali, ci sono quelli incalliti che perseverano e delinquono costantemente, e poi quelli che per vari motivi e superficialità giovanili commettono delitti che vanno a scontare tanti anni dopo, quando sono diventate persone diverse, ma il sigillo dei detenuti è pessimo perché li fa uscire dal contesto sociale. Loro possono pienamente reintegrati”. È il caso di Ilario, condannato a una pena di 15 anni che non ha ancora finito di scontare dallo stesso giudice che oggi siede accanto a lui in conferenza stampa. Da qualche mese lavora come ormeggiatore allo scalo roccellese e nonostante le diffidenze iniziali, si è fatto sin da subito voler bene da tutti. “Per me è una nuova vita - ha detto - sto pagando per errori giovanili ma è una bella esperienza, il lavoro mi piace, mi hanno tutti accolto molto bene. Nel frattempo mi sono sposato e a maggio diventerò padre di una bambina”. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche la direttrice della Caritas diocesana di Locri Carmen Bagalà e il sindaco di Roccella Jonica Vittorio Zito. “L’importanza di questo progetto è l’idea che la giustizia riparativa esca dagli schemi tipici dei tribunali per aprirsi alla società civile e alla comunità - ha rimarcato Bagalà - le persone restano tali a prescindere dal reato commesso. Il porto ha accettato questa sfida nuova per questo territorio e mi auguro possa essere un faro per altre realtà imprenditoriali”. Per il primo cittadino roccellese “Si tratta di un’iniziativa che dà il senso della speranza e lancia un messaggio fortissimo. E poi si fonda sul concetto di responsabilità, concetto che in Calabria conosciamo poco perché siamo alla ricerca di motivi per aggirarla”. La Rai parli di carcere in prima serata di Federica Valcauda L’Unità, 7 febbraio 2025 Il 2024 è stato l’anno orribile per le nostre carceri: non solo il record ma anche un livello sovraffollamento carcerario che ha superato le 16.000 unità. Oggi siamo già a 10 suicidi dall’inizio dell’anno, e il governo non accenna a prendere in considerazione gli atti di amnistia e indulto. La retorica a livello pubblico è quella di governo: in questi mesi abbiamo sentito sottosegretari dire che la loro gioia intima è quella di togliere respiro ai detenuti, mentre il Ministro Nordio ha ribadito che investirà sull’edilizia penitenziaria. Nulla si dice rispetto ai percorsi di rieducazione e progetti relativi alla reale applicazione delle misure alternative, necessarie a decongestionare le carceri e a dare un’effettiva possibilità al detenuto. Il sovraffollamento carcerario non diminuirà se si costruiranno nuove carceri, così come non diminuirà il dato sulla recidiva, uno dei peggiori dell’Unione Europea. Come Europa Radicale nell’agosto del 2024 abbiamo lanciato un appello alla Rai per uno speciale carcere in prima serata, raccogliendo firme di parlamentari, avvocati membri delle Camere Penali, Garanti delle persone ristrette della libertà personale: è necessario parlare di carcere in prima serata, con una prospettiva che rispetti l’articolo 27 della Costituzione, fornendo ai cittadini una visione diversa conforme alla tutela dei diritti umani. Su questo tema è concorde anche il Presidente Mattarella, che nel mese di dicembre ci ha fatto pervenire tramite la sua segreteria i complimenti per l’appello, dandoci il suo sostegno nel merito della richiesta. L’iniziativa sta proseguendo: alla fine di gennaio abbiamo incontrato la Senatrice e Presidente della Commissione di Vigilanza Rai Barbara Floridia, a cui abbiamo presentato l’appello alla Rai e le condizioni disumane che si vivono nei nostri istituti. La Presidente Floridia ha accolto favorevolmente la nostra richiesta, impegnandosi a fare il possibile affinché il nostro appello possa raggiungere i vertici della Rai. In questi giorni abbiamo scritto formalmente ai Consiglieri del CDA Rai, per far si che anche loro si attivino: al momento ha risposto positivamente solo Simona Agnes. Oggi più che mai è necessario rendere giustizia al principio del Conoscere per Deliberare: anche da qui si passa per rendere quel luogo più umano e conforme alla nostra Costituzione e alla Convenzione Europea dei Diritti Umani. Pannone e Punzo. L’utopia concreta del teatro nei penitenziari di Natascia Festa Corriere del Mezzogiorno, 7 febbraio 2025 Una prima napoletana con due napoletani di ritorno è un altro regalo di AstraDoc Viaggio nel cinema del reale. Stasera, nella storica sala di via Mezzocannone, la rassegna propone Qui è altrove: Buchi nella realtà, documentario che racconta la sfida vinta dalla Compagnia della Fortezza la quale con il teatro testimonia che un altro carcere è possibile. I due napoletani sono il regista del film Gianfranco Pannone e il fondatore della compagnia Armando Punzo. Prima della proiezione una “intro” con gli artisti e Antonio Borrelli (Arci Movie, curatore della rassegna), Cinzia de Felice, direttrice organizzativa della compagnia, moderati da Francesca Saturnino. Quello di Volterra è un caso di scuola lungo 35 anni. Nell’istituto di detenzione all’interno della Fortezza Medicea, la compagnia teatrale fondata da Punzo, ogni anno allestisce uno spettacolo. E più di recente, con altri istituti di pena, anima il progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e sostenuto da dodici Fondazioni di origine bancaria. “Per più di due settimane - racconta Pannone - ho con la macchina da presa le prove di Atlantis cap. 1 - La permanenza, compresa la masterclass con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatrocarcere. Ho scelto di non fare interviste, di non narrare esplicitamente nulla e di lasciare sullo sfondo le storie dei detenuti, privilegiando il flusso delle immagini. Man mano che il film va avanti, infatti, il lavoro si fa sempre più corale: allievi, registi, operatori della struttura diventano una vera comunità di persone fuori dai ruoli”. È un’opera (anche) estetica di cinema sul teatro. “Sì, di documentari e film sulla detenzione ce ne sono di ottimi, penso a Cesare deve morire dei Taviani e al lavoro giornalistico di Iannaccone proprio su Volterra. Io ho tentato un’altra strada: un film-flusso in cui, come diceva Rossellini, non dimostro, ma mostro”. Il titolo è già un’operazione teatrale, di spostamento. “All’inizio - continua - era Qui e altrove, con la congiunzione, poi girando ho pensato che il verbo avrebbe reso meglio il senso dell’utopia che stavo filmando e nella quale mi ero immerso. Il teatro è un linguaggio che offre la possibilità di oltrepassare le sbarre, non solo all’interno dei penitenziari, ma anche dentro di noi. Offre l’altrove rispetto all’insostenibilità di certe situazioni. Sappiamo bene, infatseguito ti, che, al netto di Volterra, realtà piccola e gestibile, le carceri italiane, Poggioreale compreso, l’anno scorso hanno registrato almeno 90 suicidi”. Una tragedia. “Il teatro, come dice Punzo, “non salva” ma offre un altrove appunto. È una zona franca, un laboratorio permanente. Finite le prove, c’è chi torna a casa e chi in cella, ma durante lo spettacolo sono tutti attori”. Dal canto suo, Punzo, aggiunge: “All’inizio forse nessuno avrebbe scommesso sul teatro in carcere. Eppure è evidente a tutti che dalla nostra postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi. Ne Il Principio Speranza, Ernst Bloch ha parlato di utopia concreta, del sogno davanti a noi che intravediamo e a cui lavorare giorno dopo giorno per realizzarlo. Ha proposto una filosofia che si oppone a una visione distopica, a una fuga dalla realtà, per arrivare a celebrare con forza le potenzialità dell’essere umano. Ho riconosciuto in questa visione l’idea di teatro mia e delle compagnie che fanno oggi parte del progetto Per aspera ad Astra. Trovo straordinario che il film di Pannone, Qui è altrove, provi a darne precisa e poetica testimonianza. Ringrazio Acri e le Fondazioni di origine bancaria che sostenendo il progetto con convinzione si inseriscono con noi nel dibattito attuale sulla funzione dell’arte”. Il documentario ha aperto la 65a edizione del Festival Dei Popoli ed è prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film con Rsi. Il Governo aveva puntato tutto su sicurezza e contrasto all’immigrazione: è finita in farsa Luigi de Magistris* Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2025 Un Paese in balia dello Stato. Il governo delle destre aveva puntato, soprattutto in campagna elettorale, tutto su sicurezza ed immigrazione e sta, invece, franando rovinosamente su questi temi complessi anche con una buona dose di condotte farsesche che oscillano tra il tragico ed il comico. Cominciamo con la comicità e l’incompetenza giuridica e l’inadeguatezza istituzionale: il pendolarismo di esseri umani migranti tra l’Italia e l’Albania in aperto contrasto con la dignità umana e sociale che la Costituzione riconosce ad ogni essere umano. Il governo si incaponisce a trasferire immigrati, con una evidente prova di forza muscolare, in violazione del diritto e della giurisprudenza. Dal momento che sul piano dell’immigrazione nessuna delle promesse elettorali le destre sono riuscite a mantenere, organizzano una farlocca deportazione, con spreco cospicuo di risorse pubbliche, con una bieca figuraccia internazionale, per poi addossare sulla magistratura il mancato raggiungimento degli obiettivi. Il governo non riesce a perseguire gli obiettivi prefissati per colpa dei giudici che non consentono di trasferire gli immigrati in Albania e, quindi, anche per questo motivo le città sono insicure e la violenza si addossa in gran parte sugli immigrati. E veniamo, quindi, alla sicurezza. Governo e maggioranza parlamentare approvano norme che rendono più difficile e tortuoso il lavoro della magistratura e delle forze di polizia per individuare criminali e processarli e scaricano, però, sulla magistratura colpe di inefficienza e provano anche a saldare un rapporto di sostegno senza e senza ma in le forze dell’ordine cercando di creare una dicotomia ed anche una frattura tra forze di polizia e magistratura. Le prime che fanno sempre bene il loro lavoro e che vanno difese sempre senza se e senza ma e la seconda che è sempre colpevole di garantismo rosso nei confronti delle persone senza potere e giustizialista nei confronti del potere politico. Le città sono più insicure e violente soprattutto perché crescono le disuguaglianze sociali ed economiche e il controllo del territorio per la funzione di prevenzione e controllo non viene garantita in maniera adeguata. Per poi arrivare all’aspetto tragico della vergognosa liberazione del generale di polizia libico sul quale pende un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità. Qui la figura becera del governo è mondiale. Il governo prima scarica la responsabilità della scarcerazione sulla magistratura, poi afferma che è stato espulso in quanto pericoloso, poi la presidente del Consiglio dice di non essere ricattata da nessuno, ma in realtà emerge sempre di più il contrario. Il torturatore libico, con licenza governativa anche italiana, viene liberato e riportato in Libia con gli onori di un volo di stato, perché altrimenti ci sarebbero state conseguenze per l’Italia proprio sugli sbarchi, quindi sul tema immigrazione. Un ricatto di Stato allo Stato. Ed arriva puntuale il soccorso rosso per la Meloni da parte del piddino Minniti che, con quasi tutti i governi degli ultimi anni, è stato tra i fautori di accordi criminogeni con torturatori, assassini, stupratori in Libia pur di frenare gli sbarchi. Condotte che potrebbero anche configurare un concorso in gravi reati e nel traffico di esseri umani. Altro che andremo a prendere i trafficanti di esseri umani nel globo terracqueo come da strabiliante menzogna meloniana. Non è la ragion di Stato che è prevalsa, ma solo gli interessi di parte e di partiti che piegano lo stato di diritto alle loro esigenze. Ed anche, da ultimo, l’attacco frontale alla magistratura è funzionale alle destre per affermare che se nel Paese c’è insicurezza è per colpa dei cattivi pubblici ministeri che pensano ad indagare presidente del consiglio e ministri invece di occuparsi della sicurezza del Paese e delle persone. *Giurista e politico, già sindaco di Napoli Il diritto cancellato dalla Ragione di Stato di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 7 febbraio 2025 L’informativa del Governo alle Camere, attraverso gli interventi dei Ministri Nordio e Piantedosi, ha consentito di fare chiarezza almeno su un punto, ma decisivo. La scarcerazione e la successiva espulsione del cittadino libico Almasry sono una precisa scelta politica del Governo adottata per la tutela dell’interesse nazionale. Lo ha detto limpidamente, in un chiaro burocratese, il Ministro Piantedosi citando “esigenze di salvaguardia della sicurezza dello Stato… unitamente alla difesa dell’interesse dello Stato… nell’obbiettivo di evitare, in ogni modo, un danno al Paese e ai suoi cittadini” (Resoconto stenografico Camera 5 febbraio 2025 p.8). Ma alla stessa conclusione si giunge all’esito del contorto, per certi versi surreale, intervento del Ministro della Giustizia. Alle diverse versioni fatte circolare nei giorni scorsi ha aggiunto, sembra, la difficoltà di valutare un testo, il mandato di arresto della Corte Penale internazionale, di ben quaranta pagine scritte in inglese! L’inglese giuridico internazionale ormai lo maneggiano tutti gli operatori del diritto e tra questi certamente i collaboratori del Ministro a via Arenula. L’intervento alla Camera del Ministro Nordio ha evidenziato ulteriormente tutte le arditezze degli argomenti “difensivi”: egli si è attribuita, arrivando a definirlo “nullo”, una valutazione del merito del provvedimento della CPI, preclusa in questa fase di mera esecuzione del mandato. Se avesse ritenuto necessari chiarimenti, avrebbe dovuto attuare tempestivamente (e mentre permaneva lo stato di arresto) un’interlocuzione con la CPI (art.91 dello Statuto); ha invece lasciato trascorrere il tempo, senza dare alcuna risposta alla Corte di Appello di Roma, rendendo ineluttabile la scarcerazione. Infine il Ministro della Giustizia, tra le tante divagazioni e un attacco alla magistratura del tutto fuori luogo in quella sede, ha detto che vi è stata una interlocuzione “con altri organi dello Stato”: dunque la mancata risposta alla Corte di Appello di Roma è stata dettata dalla considerazione da parte del Governo dell’interesse nazionale. Se questa assunzione di responsabilità politica da parte del Ministro della Giustizia fosse stata tempestiva, la vicenda penale probabilmente non sarebbe nemmeno iniziata. Ora è aperta la strada per una archiviazione diretta sui reati di favoreggiamento e peculato già da parte del Tribunale dei Ministri. Rimaneva e rimane aperta la questione dei rapporti del nostro Paese con la Corte penale internazionale, non essendo stato adempiuto l’”obbligo generale di cooperare” previsto dall’art 86 di quello Statuto di Roma al quale siamo vincolati. La notizia che un cittadino sudanese rifugiato in Francia avrebbe denunciato alla CPI esponenti del Governo italiano per i “reati contro l’amministrazione della giustizia” previsti dall’art. 70 dello Statuto ha suscitato reazioni piuttosto scomposte. Che la denunzia sia stata ricevuta e protocollata dalla cancelleria della Corte è assoluta ovvietà; altro è un eventuale sviluppo, che appare del tutto improbabile, poiché i reati previsti sono di questo tipo: falsa testimonianza, falsi documenti, subornazione di testi, corruzione di un funzionario della Corte etc. Le reazioni di diversi nostri esponenti politici è stata però quella di un attacco frontale alla Corte Penale Internazionale. Non sorprende che l’on. Gasparri si affretti a definire “risibili le indagini della CPI sul Governo italiano”, prima ancora che indagini vi siano. Non uno qualunque, ma il Ministro degli Esteri Tajani, che già nei giorni scorsi aveva mostrato poco rispetto per la CPI, ora arriva ad auspicare “un’inchiesta sulla Corte penale”. Il Ministro Nordio, nel genere boutade che gli è caro, discetta tra giustizia divina e giustizia umana. Eppure proprio chi regge il dicastero intitolato alla Giustizia dovrebbe meditare molto seriamente sullo strappo alla legalità internazionale che si è consumato in nome della Ragion di Stato. La Cpi nel mirino della maggioranza. Arbia: “Gravissimo delegittimarla” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 febbraio 2025 Alta tensione tra l’Aja e Roma legata alla vicenda della scarcerazione di Almasri. Durissima l’ex prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Dopo l’informativa del governo alle Camere sulla scarcerazione e sull’invio a Tripoli del torturatore libico Almasri, lo scontro tra l’Italia e la Corte penale internazionale non è destinato a placarsi. Ieri si è diffusa la notizia di una denuncia, pervenuta ai giudici dell’Aia da un cittadino sudanese, dalla quale sarebbe scaturita un’indagine sul governo italiano, accusato di “ostacolo all’amministrazione della giustizia”, ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma (Reati contro l’amministrazione della giustizia). Pronta la smentita della Cpi: nessun fascicolo è stato aperto nei confronti dell’Italia. La risposta dell’esecutivo, in merito all’eventualità di una iniziativa della Cpi contro l’Italia, non si è fatta attendere. Secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, “bisognerebbe indagare la Corte”. “Ho molte riserve - ha aggiunto il responsabile della Farnesina - sul comportamento della Corte su questa vicenda. Forse bisogna aprire un’inchiesta sulla Corte penale, bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”. In questo clima avvelenato la credibilità del tribunale creato con lo Statuto di Roma del 1998 rischia di essere fortemente indebolita. L’Italia, ventisette anni fa, svolse un ruolo importante per l’istituzione della Corte penale internazionale. Oggi le cose sembrano radicalmente cambiate. Silvana Arbia, magistrata di grande esperienza (è stata, tra le varie cose, Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda), partecipò ai lavori della conferenza che portarono all’istituzione della Cpi. La giurista parte dall’intervento di due giorni fa del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per esporre il proprio punto di vista su quanto sta accadendo. “È stata - dice al Dubbio - un’occasione mancata per il ministro della Giustizia, dal momento che le sue dichiarazioni sono apertamente e direttamente attacchi contro la giustizia e contro lo Stato di diritto che ne è il necessario presupposto. Nordio, in effetti, ha dimostrato che, grazie alla sua idea di giustizia, si può cancellare con semplici dichiarazioni un trattato internazionale, quale è lo Statuto di Roma istitutivo di una Corte penale internazionale, firmato e ratificato dall’Italia con la legge n. 232 del 1999. E tra le norme dello Statuto recepite nell’ordinamento italiano vi sono quelle che prevedono l’obbligo di cooperazione con la Cpi, eseguendo le sue richieste”. Rispetto all’esecuzione di un mandato di arresto, la magistrata di origini lucane chiarisce che in riferimento alla “richiesta della Cpi di arrestare e consegnare un ricercato, lo Stato richiesto, se Paese parte come l’Italia, ha l’obbligo imperativo di eseguire immediatamente l’arresto della persona per il solo fatto che la stessa si trovi nel suo territorio, e, una volta esperite le procedure interne applicabili, deve immediatamente informare il Registrar quando la persona è disponibile per la consegna” . Secondo Arbia, i chiarimenti promessi con l’informativa alle Camere “non sono stati offerti”. Anzi. “La confusione - aggiunge l’ex Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda - che si era creata con dichiarazioni e battute diffuse in precedenza risulta aggravata e le domande che anche i cittadini si pongono sono rimaste senza risposta”. Snodo fondamentale della vicenda la classificazione dell’atto. “La confusione tra la procedura di arresto e consegna - chiarisce Arbia -, come prevista nella legge n. 237 del 2012, e quella di estradizione rimane nelle dichiarazioni del ministro, il quale, sin dall’inizio del suo intervento in Parlamento, ha parlato di una richiesta di arresto a fini estradizionali, mentre non si applicano i principi in materia di estradizione perché, come si evince dallo Statuto di Roma e dalla legge n. 237/ 2012, si tratta di arresto e consegna”. Alla confusione si è aggiunta una mancata collaborazione, senza alcun dialogo, tra via Arenula e l’Aia. Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, è andato giù duro, definendo la Cpi “Corte dei miei stivali”. “La Cpi - riflette Silvana Arbia - è l’unica giurisdizione internazionale in materia penale, permanente, indipendente e potenzialmente capace di operare in qualsiasi parte del mondo. L’impunità di crimini gravissimi come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, e ove ne sussistano le condizioni, l’aggressione, sono crimini che riguardano direttamente o indirettamente tutti gli Stati e tutti i popoli. L’adesione ad un trattato internazionale è libera e libero ne è il ritiro, ma uscire da un sistema che garantisce il perseguimento e la punizione di crimini che costituiscono grave minaccia per la pace e la sicurezza mondiale danneggia soltanto chi si ritira non l’integrità della Cpi, che sta operando in situazioni difficili e con risultati concreti, con rischi enormi per le persone che vi operano e per i testimoni che ritengono meritevole di soddisfazione le istanze delle vittime di atrocità non descrivibili. Peraltro, la grande maggioranza degli Stati parte ha già in passato adottato risoluzioni per proteggere l’integrità della Corte”. L’Italia ha creduto molto nella creazione della Corte penale internazionale. Il “caso Almasri” sta lanciando però segnali preoccupanti. “L’Italia - conclude Silvana Arbia - ha finanziato la Conferenza diplomatica che ha portato all’adozione dello Statuto di Roma, ha nominato giudici di nazionalità italiana, ha posto la sua bandiera accanto al mio nome, ha contribuito a finanziare il budget della Corte, ma non ha dato attuazione agli impegni di cooperare con la stessa e di attuare la complementarietà che implica la realizzazione degli strumenti atti a consentire il perseguimento e la punizione dei crimini di competenza della Cpi, con acquisizioni di capacità specifiche a tal fine da parte dei magistrati, avvocati, e altri operatori nel campo della giustizia. La legge sulla cooperazione è stata adottata con molto ritardo e dopo insistenti richieste anche informali. Una negligenza che probabilmente ha radici nell’opportunismo che certe politiche fanno prevalere sull’esigenza di giustizia”. La denuncia alla Cpi può acuire le tensioni con l’Europa di Massimo Franco Corriere della Sera, 7 febbraio 2025 L’esecutivo è stato esposto inutilmente in una vicenda spinosa e riguardante la sicurezza nazionale. La denuncia arrivata alla Corte penale internazionale sull’operato del governo italiano lascia perplessi. Aggiunge paradosso a paradosso, e amplifica una vicenda che poteva essere chiusa rapidamente e senza l’eco negativa di questi giorni. Il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, reagisce sostenendo che forse bisognerebbe “aprire un’inchiesta sulla Corte penale, per avere chiarimenti su come si è comportata”. In effetti regna una certa confusione perché la Cpi non sembra incline ad aprire un’indagine sulla base della denuncia, rivelata da Avvenire. Forse anche per questo il Guardasigilli, Carlo Nordio minimizza la decisione della Corte dell’Aia. “Ormai”, è la sua tesi, “in questo mondo tutti indagano su tutto”. Avere spiccato il mandato di cattura contro il generale libico e torturatore Almasri quando era in Italia solleva qualche sospetto. Quanto accade fa anche capire, però, come il pasticcio del suo trasferimento con un aereo di Stato, accolto trionfalmente in Libia, sia stato gestito in modo confuso, e sottovalutato. Probabilmente è stata proprio la minimizzazione iniziale a produrre effetti a cascata; e a fare apparire l’Italia il punto debole delle peregrinazioni europee di Almasri. L’esecutivo è stato esposto inutilmente in una vicenda spinosa e riguardante la sicurezza nazionale. La stessa scelta di fare intervenire in Parlamento i ministri di Giustizia e Interno, Nordio e Matteo Piantedosi, e non la premier, ha prodotto altri dubbi. Le versioni non proprio coincidenti offerte dagli esponenti del governo e l’assenza e il silenzio di Giorgia Meloni hanno lasciato intatti gli interrogativi. Il dibattito che ne è seguito ha scatenato le opposizioni, con Pd e M5S in competizione per mostrarsi più duri verso Palazzo Chigi. Quel che è peggio, però, è di avere mostrato di nuovo un Parlamento prigioniero della cultura della rissa. Tutto si è giocato sul filo di battute discutibili, degne più di una zuffa da tv che di un confronto ospitato in sedi istituzionali. Su una vicenda che avrebbe richiesto riserbo, dalle opposizioni sono arrivate richieste dai contorni strumentali. Era prevedibile, visto il clima conflittuale che sovrasta da mesi le forze politiche. Il tema, adesso, è come uscire da una situazione imbarazzante che promette di esporre in modo esagerato l’Italia a livello internazionale. Nel momento in cui Meloni tenta di ritagliarsi un ruolo di mediazione tra l’Europa e gli Stati Uniti di Donald Trump, l’incidente promette di essere utilizzato da chi non apprezza il protagonismo italiano; ed è pronto a additare le responsabilità, vere o presunte, del governo: nelle sedi decisionali a Bruxelles e in alcune capitali europee. La Libia e le (ir)responsabilità politiche: le tessere mancanti di Danilo Paolini Avvenire, 7 febbraio 2025 Esaurito il prevedibile fuoco del dibattito parlamentare scaturito dalle informative dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi sulla vicenda dell’arresto, del rilascio e del rimpatrio del capo della polizia giudiziaria libica Nijeem Osama Almasri, non si può dire purtroppo che sia stato disperso il tanto fumo che l’avvolge. Anzi, le parole dei titolari della Giustizia e dell’Interno, delegati dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che non ha voluto riferire in prima persona alle Camere (preferendo dare la sua versione in un video diffuso sui social), sembrano sollevare perfino qualche interrogativo in più rispetto a quelli di partenza. Come in un puzzle a cui manchi qualche tessera o, peggio, le cui tessere non combacino. Davvero, come ha sostenuto Nordio, l’ordine di cattura della Corte penale internazionale manca di “coerenza argomentativa” ed è perciò “radicalmente nullo”? A fronte di affermazioni così nette, la spiegazione del ministro è apparsa in tutta onestà piuttosto debole: l’atto era “in lingua inglese senza essere tradotto” e c’era “incertezza sulla data dei delitti commessi”, inoltre una giudice della Cpi aveva manifestato “perplessità” sul mandato d’arresto. Certo, nessuno si deve permettere di considerare il guardasigilli “un passacarte” - come ha giustamente rivendicato egli stesso a Montecitorio - tuttavia il suo ruolo nella procedura doveva e poteva essere diverso, perché se è vero che l’arresto a Torino di Almasri è stato eseguito su iniziativa della polizia giudiziaria, quindi fuori dai binari prescritti dalla legge 237 del 2012 che regola i rapporti con la Cpi, è anche vero che il ministro è stato poi informato in tempo e avrebbe dovuto trasmettere le carte alla Procura generale di Roma (la legge dice “il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale”, non accenna a valutazioni), sanando così il vulnus originario. Invece, stando a quanto da lui stesso riferito, si è soffermato appunto su una serie di valutazioni che finiscono per dare alla scarcerazione (e al rimpatrio) del libico accusato di crimini gravissimi il peso di una decisione politica. Anche perché, mentre a via Arenula “si valutava”, il jet dei servizi segreti italiani era già pronto al decollo dall’aeroporto di Torino per ricondurre a casa il generale di Tripoli. Come a dimostrare che la decisione era già stata presa. E che sia stata una scelta politica dell’esecutivo - non attribuibile a magistrati “sciatti” che “non leggono le carte” come ha tuonato in Parlamento l’ex procuratore aggiunto di Venezia Nordio - l’ha confermato Piantedosi. Con una versione per altro non coincidente con quella “in punto di cavillo” del suo collega. Il ministro dell’Interno, infatti, determinato a ribadire la tesi prioritaria per la premier (il governo “non è sotto minaccia o ricatto”), ha assicurato che “ogni decisione è stata assunta nell’esclusiva prospettiva della tutela di interessi del nostro Paese”. Insomma, era una questione di sicurezza nazionale. Ma chi l’avrebbe messa a rischio? Almasri in quanto “soggetto pericoloso”, come ha ribadito ieri il titolare del Viminale? Quindi avrebbe potuto commettere crimini in Italia? Se così fosse, a maggior ragione sarebbe stato il caso di arrestarlo e consegnarlo alla Corte penale internazionale. Se invece, più verosimilmente, la pericolosità è legata alla sua attività di torturatore nelle prigioni libiche, non si spiega perché rimandarlo (peggio, riaccompagnarlo con un volo di Stato) proprio là dove potrebbe continuare a fare il male. Ma non è possibile nemmeno escludere, malgrado l’energia di Piantedosi nel negare qualsiasi “forma di pressione indebita”, che i rischi per la sicurezza nazionale potessero arrivare da soggetti “terzi” collegati ad Almasri. Nei giorni scorsi il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli è stato esplicito, riconoscendo che l’arresto di uno come Almasri “è una cosa che ha degli effetti”. In Italia, sicuramente, li ha avuti. Migranti. I segreti del memorandum firmato con i potenti libici di Francesco Grignetti La Stampa, 7 febbraio 2025 Tutti i Governi da Gentiloni a Conte fino a Meloni hanno sottoscritto gli stessi patti. Aiuti finanziari e attrezzature ignorando però i diritti. Diceva due giorni fa il ministro Matteo Piantedosi, in Parlamento, riferendosi alla Libia: “Scenari di rilevante valore strategico ma, al contempo, di enormi complessità e delicatezza”. Un eufemismo per dire che la Libia preme assai a questo governo essendo un gigantesco deposito di petrolio, ma è anche il suo tallone d’Achille. Perché si può disquisire a lungo del Piano Mattei (che peraltro è ancora sulla carta e gli investimenti per la Libia sono assai scarsi), ma la sostanza è che gli sbarchi proseguono e per frenarli Giorgia Meloni si muove nel solco dei suoi predecessori. Né una virgola in più, né una in meno rispetto a quel che è scritto nel famoso Memorandum del 2017, che lei ha ereditato e coltiva con dedizione. Forse la novità di oggi è che i libici chiedono al nostro governo più tecnologia di un tempo. Adesso vogliono anche vigilanza satellitare, droni, e torri di vigilanza elettronica da sistemare nel Sahara, ma è roba troppo più grande di noi. Vedi le richieste del ministro dell’Interno, Imed Trabelsi, a Piantedosi per meglio fermare i migranti clandestini. Va anche ricordato che il ministro Trabelsi è uno dei grandi sponsor del famigerato Almasri; evidentemente a Roma hanno pensato che a contrariarlo c’era il rischio di una reazione inconsulta. Da quelle parti ci sono particolari suscettibilità. Un solo esempio recente: per un’indagine della Guardia civil spagnola nei confronti del rampollo del generale Haftar, per rappresaglia lo stesso Haftar ha cacciato la società petrolifera iberica Repsol dal suo campo di estrazione nel Sahara, il maggiore che gestiva nel mondo. I rapporti tra Roma e Tripoli sono dunque regolati dal famoso Memorandum del 2017. Prima ancora, in verità, venne Berlusconi. Il Cavaliere srotolò i tappeti rossi e Gheddafi fece una clamorosa quanto scombiccherata visita di Stato in Italia. Intanto si predisponevano le carte perché a Bengasi il 30 agosto 2008 era stato firmato un Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione. Al punto 19 si prevedeva di rafforzare la “collaborazione in atto” nella lotta all’immigrazione clandestina. E subito l’allora ministro Roberto Maroni andò a Tripoli annunciando l’arrivo di sei motovedette, sistemi informatici, equipaggiamenti, autovetture. La Selex avrebbe supervisionato con occhi elettronici i confini terrestri. Come si ricorderà, però, nel 2011, con l’esplodere delle primavere arabe e vista la repressione armata sui civili, l’amico Gheddafi divenne nostro nemico. Fu guerra vera. Come inevitabile contraccolpo dovemmo fronteggiare una prima ondata di immigrazione, poi una seconda, e una terza. Tanti arrivavano, tanti morivano in mare. Con il governo Letta, tra 2013 e 2014, si pensò di risolvere il problema mandando le navi militari a raccogliere i profughi in mare con la missione “Mare Nostrum”. Dopo un anno l’Europa ci impose di chiuderla perché ci stavamo trasformando in un formidabile scalo tecnico per migranti. La Libia intanto era divenuta sinonimo di caos. Nel 2016 arrivarono 180mila migranti. Si calcolava che sarebbero stati 250mila l’anno dopo. Di qui la corsa del governo Gentiloni e del ministro Minniti a chiudere la falla. Costasse quel che costasse. E venne il famoso Memorandum del febbraio 2017, tanto contestato a sinistra, maldigerito fin da subito da mezzo Pd, ora del tutto abiurato. Gentiloni strinse l’accordo con l’allora premier ad interim Serraj (benedetto dalle Nazioni Unite) nella prospettiva di consolidarlo. Gli europei applaudirono e ci misero altri soldi. Molti dettagli del Memorandum restano oscuri, ma si sa di motovedette per la Guardia costiera libica, addestramento agli equipaggi, divise, stipendi, pure una nave-officina nel porto di Tripoli per riparare ai danni dei natanti usati per la caccia al migrante. Militari italiani hanno gestito una sala operativa nel porto. Abbiamo inviato anche jeep, visori notturni, droni e sistemi di rilevamento per controllare la frontiera verso Sud. Nel Memorandum, all’articolo 2, è scritto che le Parti “si impegnano all’adeguamento e al finanziamento dei centri di accoglienza già attivi”. Merito di Minniti è aver preteso che la Libia ammettesse sul suo territorio le diverse agenzie delle Nazioni Unite, tipo Unhcr o Oim, fin lì escluse. Gli italiani avrebbero fornito medicinali e attrezzature mediche. “Inoltre, l’Italia si impegna a sostenere la formazione del personale libico all’interno dei centri di accoglienza”. Questo è forse il punto più sensibile sotto un profilo politico ed etico, perché s’è visto nel tempo che razza di predoni e torturatori sia il personale libico che gestisce i centri. E la politica italiana lo sa. Siccome il Memorandum si rinnova tacitamente ogni tre anni, chiedere a chi lo ha confermato nel 2020 (governo Conte II, maggioranza Pd-M5S) e di nuovo nel 2023 (governo Meloni, maggioranza FdI-Lega-FI). Quel tipo di “aiuti” continua infatti indefesso da 8 anni. Come è evidente, non c’è partito italiano che possa dirsi estraneo a quei patti scellerati. Medio Oriente. Si progettano Grand Hotel su rovine ancora piene di morti di Marina Corradi Avvenire, 7 febbraio 2025 “Ero felice e cantavo lungo la strada del ritorno, ma poi ho raggiunto casa e ho trovato solo distruzione davanti ai miei occhi. Non sarei dovuto tornare”, ha raccontato alla Bbc Imad Ali al-Zain, palestinese, 48 anni. Li si vedeva infatti, dieci giorni fa, dei sorrisi incerti sulle facce delle donne stipate su camioncini, ai margini di Gaza. C’era perfino chi batteva le mani e festeggiava, mentre la folla finora trattenuta dall’Idf, scattato il via libera, quasi di corsa sciamava verso Nord. Verso casa. Come un esodo biblico quell’onda di uomini e donne e bambini in braccio che stracarichi di borse, affannati, marciando verso casa. A casa ci sono tornati. O almeno, nel punto Gps dove le loro case sorgevano, perché Gaza è un tale ammasso di macerie uguali, che è difficile dire. Vedi i profughi di che, giunti all’altezza di casa, si fermano, alzano gli occhi, restano annientati. La loro casa è morta: non ne restano che travi di cemento irte di fili elettrici, finestre buie come orbite vuote. Siedono affranti sulle rovine, nella polvere, i figli attorno. “Torniamo a casa”, avevano promesso ai bambini, e ora non sanno più che cosa dirgli. Ci sono poi quelli, i più giovani e intraprendenti, che si aspettavano di trovare la casa danneggiata, ma, come dice un giovane palestinese, “pensavo che con due amici ce l’avrei fatta a sistemare due stanze, sono un ingegnere”. E ci sono uomini e donne che disperatamente si inerpicano, i piedi nudi nelle ciabatte, sui cumuli di detriti, fino a una porta, dietro cui non c’è più niente. Cercano: non cose, o mobili o ricordi. Cercano figli e padri, che sono ancora lì sotto. Non sono solo pietre, le macerie di Gaza, ma cimiteri. Quando le ruspe, un giorno, rimuoveranno lo sfacelo, troveranno ossa ormai dell’identico colore del cemento; e chissà se si fermerà il fragore del motore, per raccogliere quei resti. (Dare una casa ai morti, è importante. Lungo il cammino a volte gruppi di profughi si fermano sul ciglio della strada: lì, nella fuga, hanno sepolto un figlio, un fratello. La terra è ancora smossa). La vita, tuttavia, non si arrende. Ci sono uomini che tra le macerie fanno incetta di materassi, c’è chi sotto spezzoni di travi stende tende e allestisce giacigli, dove almeno si possa dormire insieme. Una bambina sui sei anni si è rintanata dentro i resti di un grosso elettrodomestico, forse una lavatrice, e da quella sua casetta osserva il formicaio umano che arriva, si dispera, ma poi si mette a cercare una lamiera, per farne un tetto. Rari muli e cavalli sfiniti spingono carretti stracarichi; anche le vecchie auto sotto il peso di dieci passegger si impiantano nella polvere. Allora si scende e si spinge, e ai ragazzini più piccoli sembra quasi un gioco, e ridono. La marcia del ritorno a Gaza ha un che di apocalittico. Un popolo torna in una città rasa al suolo. Mi viene in mente un film di vent’anni fa, Genesis, con Denzel Washington, dove dopo una guerra totale i sopravvissuti fra le rovine si contendono disperati un bicchiere di carta, una forchetta di plastica, quelle minime cose che noi ogni giorno buttiamo. Gaza è un ground zero che atterrisce chi guarda, come un incubo che potrebbe accadere anche altrove, fra noi. Non ci sembra più, come pochi anni fa, del tutto impossibile. Quando giorni fa ho sentito che Trump parlava di portare via i palestinesi e fare di Gaza una riviera di resort, ho creduto scherzasse. Una battuta, ho pensato, dopo due o tre whisky. Invece, lo ha ridetto: vuole mandare via i palestinesi - come se non fosse già drammaticamente accaduto. Vuole mandarli in un posto “così bello, che non vorranno tornare”. Per l’imprenditore Trump evidentemente una città di macerie è solo un luogo da spianare. Quante ruspe occorrono, quanti camion, quanti manovali? Le fosse comuni ripulite con le benne. E poi, via, si ricostruisce. Resort, hotel, casinò. I palestinesi “felici” altrove, chissà dove. Gaza, dall’apocalisse alla fantascienza. In questo Terzo millennio niente sembra più certo, intoccabile, sacro. Come fosse scattato qualcosa nella ruota della storia. Vite, morti, tombe, si spazza via tutto, il clima è ottimo, il mare - lo stesso, peraltro, in cui annegano a migliaia i migranti - bellissimo. L’avvento di un disumanesimo, ecco ciò che pare di avvertire. Vecchio, ma ora digitale, dronizzato, omnisciente di Intelligenza artificiale. Un mondo gaiamente spaventevole, che progetta Grand hotel su rovine ancora piene di morti. Medio Oriente. “Pulizia etnica”. Nominare il tabù, trionfo della barbarie di Valeria Parrella Il Manifesto, 7 febbraio 2025 Pensare di prendere due milioni di persone e di decidere dall’esterno, da fuori, dall’alto di fianco, da sotto, da ovunque fuorché dal punto di vista della loro stessa identità chi e dove debbano essere, ovvero negare la loro esistenza se non riducendola a sopravvivenza è già l’annientamento. Ogni tanto qualcuno nella storia lo dice, non credo che scappi di bocca. L’altra volta, nella precedente amministrazione Trump, lo disse suo genero, Kushner, usò un’espressione sognante da Le mille e una notte, più o meno disse che avrebbe fatto di Gaza una Tel Aviv in stile arabeggiante. Stavolta lo ha detto proprio il presidente: il punto non era blandire Netanyahu, il punto non era neppure immaginare dei resort dove noi abbiamo ascoltato le poesie di Rafaat Alareer, il punto era permettersi di dirlo. Infatti tutti poi a metterci una pezza a colore, i suoi e gli altri, perché queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Eppure Kushner citò dei precedenti storici precisi, per esempio il Libano. Quindi inutile fingere di scandalizzarsi, solo prendere atto che la deportazione, la pulizia etnica, la negazione di un intero popolo alla sua autodeterminazione sono idee che albergano nelle menti di chi fa politica dall’occidente. Nonostante siano la grande paura, il tabù, il rimosso a cui la comunità internazionale cerca di mettere freno, perché non c’è idea più drammatica di questa. Nei carteggi tra Freud ed Einstein si trova questa intuizione, cioè che le pulsioni di morte che trovano la loro esperienza evidente nella guerra, possano però ripiegarsi altrove in forme subdole. Era il 1933, quindi c’era già stata la Prima Guerra Mondiale e c’era già stato il genocidio dei Greci del Ponto, e ci si affacciava a quel Novecento che della pulizia etnica ha fatto una sua caratteristica, fino ad arrivare qui di fronte: nei Balcani, appena trent’anni fa. Pensare di prendere due milioni di persone e di decidere dall’esterno, da fuori, dall’alto di fianco, da sotto, da ovunque fuorché dal punto di vista della loro stessa identità chi e dove debbano essere, ovvero negare la loro esistenza se non riducendola a sopravvivenza è già l’annientamento. Ma non solo dei palestinesi, anche nostro, di chi ascolta: perché dire quelle cose in conferenza stampa significa dire ad alta voce che non esiste la civiltà intesa come possibilità per gli esseri umani di coabitare sul pianeta terra. Dunque dirlo è il trionfo della barbarie. Il presidente che lo ha detto è lo stesso che ha graziato con un colpo di inchiostro i barbari di Capitol Hill, si può ridere perché erano vestiti da barbari ma si può anche riconoscere in che segno volevano vincere e hanno vinto. È un presidente imperialista di una delle forze imperialiste più opprimenti del pianeta. È quello che divide i bambini dai genitori al confine con il Messico. Quello che alla cerimonia di insediamento un mese fa ha schierato davanti a sé i capo tribù che lo avevano aiutato a vincere le elezioni. Inutile sforzo di minimizzazione, credo, sia quello di farla passare come una sua mancanza di tatto, di stile politico o di lucidità. Trump ha detto proprio ciò che pensa sia possibile. E ogni volta che una cosa enorme, mostruosa e che a noi pare impossibile viene detta: diventa leggermente, impalpabilmente più possibile. Si sposta un metro più in là la civiltà, avanza la morte. Stati Uniti. Le aziende delle carceri private guadagneranno grazie alla stretta di Trump sull’immigrazione forbes.it, 7 febbraio 2025 Nonostante i loro centri di detenzione siano stati accusati di negligenza e di far vivere le persone in cattive condizioni, Geo Group e CoreCivic sono destinate a guadagnare grazie alla stretta di Trump sull’immigrazione. Ma sono in grado di gestire milioni di nuovi carcerati? La prognosi di Dulce Atahuaman Carhuancho era infausta. I medici dell’Oschner Lafayette General Hospital, in Louisiana, avevano detto alla famiglia della 21enne che forse non sarebbe sopravvissuta all’emorragia cerebrale. Nonostante la causa delle ferite e dei lividi sul suo corpo non fosse chiara, i suoi avvocati ritenevano fossero dovuti a un trauma che aveva subito nel South Louisiana Ice Processing Center (Slipc), una struttura di detenzione per immigrati gestita da Geo Group, un’azienda privata di carceri valutata 5 miliardi di dollari. Carhuancho, di nazionalità peruviana, era stata trasferita allo Slipc dopo essere stata detenuta in Arizona, dove aveva detto ai funzionari doganali di essere in cerca di asilo politico. Aveva trascorso un mese allo Slipc prima di essere portata d’urgenza all’Oschner Lafayette, dove, stando alle carte della causa intentata contro Geo, è arrivata con “prove consistenti di ripetuti abusi sessuali e traumi, tra cui lividi significativi all’interno e intorno alle natiche”. Carhuancho è sopravvissuta, ma ha riportato danni cerebrali. Rilasciata dalla custodia dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice, l’agenzia federale statunitense che controlla le frontiere e l’immigrazione) dopo essere stata dimessa dall’ospedale nel 2023, fatica ancora a camminare senza assistenza, spesso ha bisogno di aiuto per usare il bagno e ha ricominciato a mangiare da sola a luglio, come hanno raccontato i legali della famiglia a Forbes. Ancora oggi non ricorda nulla di ciò che le è accaduto allo Slipc. E Geo Group non ha fatto molto per spiegarlo. I Carhuancho hanno fatto causa a Geo, accusandola di non avere protetto Dulce e di avere cercato di nascondere la propria negligenza. Affermano che l’azienda non ha comunicato come la ragazza si sia procurata le ferite e non ha fornito quasi nessuna informazione sul periodo allo Slipc. Quando le è stato chiesto di fornire rapporti investigativi, registri dei movimenti e filmati di sorveglianza relativi alle circostanze in cui Carhuancho è stata ferita, Geo ha presentato solo un singolo rapporto medico e un fascicolo della detenuta con informazioni di base. Adesso, un anno e mezzo dopo l’incidente, i Carhuancho dicono che la struttura di detenzione non ha ancora fornito un resoconto di ciò che ha causato le ferite e i danni riportati da Dulce. “Per quanto ne sappiamo, Geo non ha fatto niente”, dice Jill Craft, uno degli avvocati dei Carhuancho, che hanno intentato la causa a settembre. “Ciò che è accaduto alla nostra cliente è farsesco”. Christopher Ferreira, portavoce di Geo, ha detto a Forbes che l’azienda ha negato tutte le accuse che le sono state mosse dai Carhuancho, descrivendole come “prive di fondamento”. Il procedimento è in corso. Che cosa succede nelle carceri private - Ora che l’amministrazione Trump sta accelerando su quello che sostiene sarà il più grande sforzo per i rimpatri di massa nella storia degli Stati Uniti, le accuse dei Carhuancho e di altri come loro sollevano domande su come un sistema già sovraccarico potrà gestire quello che sarà probabilmente un afflusso senza precedenti di nuovi detenuti. Un’analisi condotta da Forbes su oltre 20 procedimenti avviati nell’ultimo anno contro Geo e il suo principale concorrente, CoreCivic, e basata anche su interviste con ex dipendenti, ha trovato ripetute accuse di cattiva gestione, carenza di personale e condizioni pericolose nelle strutture (tutti i procedimenti sono in corso, a eccezione di uno che è stato risolto in via extragiudiziale). Un recente rapporto dell’American Civil Liberties Union (Aclu) sugli incidenti mortali avvenuti nei centri di detenzione Ice tra il 2017 e il 2021 ha osservato che, su 52 morti, 18 sono avvenute nelle strutture di CoreCivic e 13 in quelle di Geo. Il rapporto ha concluso che il 95% era evitabile. Nel 2018, dice ancora l’Aclu, Geo Group è stata anche sanzionata per carenze nell’assistenza medica nel suo centro di detenzione di Aurora, in Colorado, dopo la morte di un detenuto a cui erano stati sospesi i farmaci per il disturbo da uso di oppioidi. Geo ha rifiutato di rilasciare commenti sul rapporto. Il rapporto segnala anche due suicidi in una struttura della Georgia nel 2018, per i quali l’Ice ha sanzionato CoreCivic, giudicando che fosse venuta meno ai suoi doveri di assistenza, per esempio non rispettando le linee guida sulla prevenzione dei suicidi. CoreCivic ha detto che i dati dell’Aclu non specificavano quali morti nelle sue strutture fossero evitabili e hanno sottolineato che tre decessi all’Otay Mesa Detention Center sono avvenuti prima che l’azienda assumesse la responsabilità dei servizi sanitari. CoreCivic non ha risposto a una richiesta di commento sui due suicidi. “Ciò che sentiamo dai nostri clienti e da altre persone detenute [in centri Ice privati] è una fondamentale mancanza di umanità, per quanto riguarda la pulizia, l’assistenza medica, praticamente ogni aspetto della vita”, ha dichiarato Liz Casey, assistente sociale al Florence Immigrant & Refugee Rights Project, che offre assistenza legale gratuita ai detenuti nei centri Ice dell’Arizona, dove operano sia CoreCivic che Geo. Entrambe le società hanno contestato questa descrizione, dicendo che forniscono strutture umane e pulite, con assistenza sanitaria certificata per i detenuti. Quanto valgono CoreCivic e Geo - Geo e CoreCivic, al pari delle due rivali più piccole LaSalle Corrections e Management and Training Corporation (Mtc), attendono un decollo degli affari dovuto all’accelerazione del programma di rimpatri forzati dell’amministrazione Trump. Dopo la vittoria di Trump, l’amministratore delegato di Geo, George Zoley, ha affermato con entusiasmo, durante una conferenza sugli utili, che la posizione del presidente eletto in materia di immigrazione presentava “un’opportunità senza precedenti” e che si era di fronte a “un potenziale raddoppio [degli affari] in tutti i nostri servizi”. Dati 2023 del dipartimento della Sicurezza interna statunitense mostrano che circa il 90% dei detenuti Ice si trovava in istituti privati, e tra loro l’80% in strutture di CoreCivic e Geo. Un buon affare per entrambe. Nel penultimo anno del primo mandato di Trump, il 2019, hanno registrato ricavi record: 1,98 e 2,48 miliardi di dollari rispettivamente. Hanno raggiunto più o meno gli stessi numeri sotto Biden nel 2023: 1,9 e 2,41 miliardi. Entrambe hanno nell’Ice il principale cliente: l’agenzia costituisce il 30% delle entrate di CoreCivic e il 43% di quelle di Geo, secondo le ultime trimestrali delle società. Ora che Trump promette il più grande sforzo di rimpatri forzati nella storia statunitense, le due aziende sembrano destinate a ricevere una spinta significativa: le azioni di CoreCivic e Geo, valutate rispettivamente 2,3 e 4,3 miliardi di dollari, sono salite del 76% e del 75% in conseguenza della vittoria di Trump a novembre. Da allora le due società hanno gettato le basi per assicurarsi contratti con l’Ice che scaturiranno probabilmente da una nuova ondata di arresti. Entrambe hanno presentato proposte di contratto in risposta a una richiesta dell’Ice di allargare la capacità delle strutture. E questo mese l’agenzia ha firmato un accordo da 20 milioni di dollari con Geo e uno da 6 milioni con CoreCivic. La gestione dei nuovi flussi - La domanda è: le aziende sono preparate all’enorme flusso di detenuti - fino a 11 milioni negli anni a venire - se Trump dovesse mantenere le sue promesse elettorali? Sia Geo che CoreCivic sono state accusate di mettere i detenuti in condizioni pericolose e non sane. Nel 2022, un anno prima che Carhuancho entrasse allo Slipc, un’ispezione a sorpresa nel complesso di Geo da parte dell’Ufficio del funzionario per la detenzione degli immigrati ha riscontrato livelli di personale sanitario insufficienti, pianificazione inadeguata della risposta alle emergenze e un’infestazione di insetti, oltre a numerosi altri problemi. Geo non ha risposto a domande sui risultati di questa ispezione. Lo scorso anno la no-profit Robert F. Kennedy Human Rights, la Aclu e altri gruppi che si dedicano all’immigrazione hanno pubblicato un rapporto sulle condizioni in nove prigioni dell’Ice in Louisiana, tra cui quattro gestite da Geo Group. Sulla base di due anni di visite e interviste a oltre seimila persone, dai detenuti ai dipendenti delle strutture, il rapporto ha riscontrato che questi centri “violano abitualmente gli standard minimi di assistenza della stessa Ice e le leggi statali, federali e internazionali”. Tra le violazioni contestate ci sono: “Privazione dei beni di prima necessità, trattamenti abusivi e discriminatori, abusi e negligenze mediche”, tra cui il rifiuto di un intervento chirurgico a un uomo con una grave ernia, ripetuti rifiuti di visite oncologiche a persone malate di cancro e rinvii dei trattamenti per ictus, convulsioni e attacchi cardiaci. Geo non ha risposto a domande sul rapporto. Le accuse - In una causa per licenziamento illegittimo presentata contro l’Otay Mesa Detention Center di San Diego, gestito da CoreCivic, un’operatrice sanitaria ha affermato di essere stata licenziata dopo avere sollevato la questione dei maltrattamenti, delle negligenze e della mancata fornitura di supporto medico adeguato. Le carte descrivono la struttura come gravemente carente di personale e non equipaggiata per gestire le necessità di 1.500 detenuti. Raccontano inoltre numerosi presunti incidenti in cui le vite dei detenuti sono state messe in pericolo. I documenti attestano che l’operatrice sta discutendo un accordo extragiudiziale con CoreCivic, che in precedenza ha negato tutte le accuse contenute negli atti. Brian Todd, public affairs manager di CoreCivic, ha dichiarato che la società ha fornito un alto livello di assistenza sanitaria certificata, aggiungendo che a Otay Mesa tutti hanno accesso a servizi sanitari 24 ore al giorno. Al Cibola County Correctional Center (Cccc) di CoreCivic nel New Mexico, dove sono detenute 220 persone, l’ampiezza del traffico di droga ha stupito perfino gli investigatori dell’Fbi, che hanno parlato di “un enorme volume di sostanze trafficate” nella struttura. “Le quantità di droga sequestrate sono incredibilmente elevate, dato che si trovano dentro una struttura federale”, ha scritto l’Fbi in un mandato di perquisizione. Todd di CoreCivic ha dichiarato che l’azienda stava sostenendo le forze dell’ordine nel tentativo di estirpare il traffico di droga dal Cccc. Anche in questa struttura la carenza di personale sembra essere stata un problema. In una deposizione contenuta negli atti di una causa per omicidio colposo avviata dalla famiglia di una vittima di overdose, una guardia del Cccc ha ammesso di avere fatto sonnellini sul lavoro e di avere dormito in auto tra un turno di 16 ore e l’altro (CoreCivic ha negato le responsabilità e la causa è stata risolta in via extragiudiziale lo scorso anno). William Ontiveros, un ex unit manager di Cccc che sostiene a sua volta di essere stato licenziato ingiustamente, ha dichiarato a Forbes che nei turni di notte c’era spesso meno personale del necessario. “Non avevano staff sufficiente a fornire copertura a tempo pieno”, ha detto. L’Fbi è giunto a conclusioni simili. “CoreCivic fatica a tenere il Cccc operativo in modo sicuro ed efficiente”, hanno scritto gli investigatori nel mandato di perquisizione legato alla droga. Taylor Smith, avvocato di Smith & Marjanovic Law, che ha rappresentato molti clienti che hanno fatto causa a CoreCivic negli ultimi anni, fa una valutazione più dura: “È la peggiore struttura dello stato”. Todd ha negato le accuse di carenza di personale. “Lavoriamo per soddisfare o superare i livelli di personale giornaliero necessario al Cccc”, ha affermato. “Forniamo un ambiente sicuro, umano e appropriato per le persone sotto la nostra custodia e cerchiamo costantemente di offrire uno standard ancora superiore”. Alla Torrance County Detention Facility (Tcdf) di CoreCivic, 210 km a est del Cccc, i detenuti dicono che la condizione in cui si trovano è letteralmente disgustosa. Secondo Innovation Law Lab, che fornisce assistenza legale e si batte contro lo sfruttamento dei migranti, dal 2023 lamentano perdite di liquami fognari che in alcuni casi hanno portato a un’esondazione di escrementi umani nei loro alloggi. Innovation Law Lab ha creato un profilo Instagram in cui i detenuti condividono le loro esperienze. “Camminavamo e calpestavamo le feci”, ha raccontato uno. “Tutti hanno cominciato a vomitare”. Tiffany Wang, avvocato di Innovation Law Lab, afferma che CoreCivic ha ripetutamente evitato di affrontare le perdite in modo tempestivo. “I funzionari del centro di detenzione non fanno entrare nessuno per pulire”, ha dichiarato a Forbes. “Dicono letteralmente che o i detenuti puliscono da soli, o nessuno lo farà”. CoreCivic ha contestato le accuse sulle condizioni non sicure, ha negato che i detenuti siano stati esposti ai liquami delle fognature e ha detto che è stato permesso loro di lasciare l’area interessata. In una dichiarazione l’azienda ha dato la colpa delle perdite ai detenuti, dicendo che, tirando lo sciacquone, avevano fatto finire nelle condutture “oggetti estranei e/o una quantità eccessiva di carta igienica”. Un modello alternativo - Nel dicembre 2023 il senatore Martin Heinrich ha scritto al Dhs per lamentarsi delle condizioni al Tcdf, affermando che il suo staff aveva visitato la struttura quell’anno e aveva rilevato “carenze nella manutenzione” che mettevano a rischio “la sicurezza, il benessere e la dignità degli individui in custodia”. Poi, lo scorso anno, Elizabeth Warren, Bernie Sanders e molti altri senatori statunitensi hanno chiesto all’Ice di smettere di stipulare contratti con CoreCivic per il Tcdf. CoreCivic ha dichiarato che nessun organismo di controllo ha riscontrato condizioni al di sotto degli standard o pericolose al Tcdf. “Le aziende di carceri private non sono pagate per riabilitare le persone. Sono pagate per tenerle in custodia. Perciò le tengono in custodia a basso costo e in modo efficiente”, ha dichiarato Devon Kurtz, direttore delle politiche sulla giustizia penale del Cicero Institute, una no-profit istituita da Joe Lonsdale, cofondatore di Palantir, venture capitalist e sostenitore di Donald Trump. “Non direi che siano peggio delle prigioni governative nella riabilitazione, ma di sicuro non hanno fatto meglio”. Il Cicero Institute sostiene un nuovo modello no-profit per le prigioni tramite il Social Purpose Corrections, una nuova no-profit fondata da Brian Koehn, ex direttore del Cccc e di molte altre strutture di CoreCivic in sette stati. Koehn è convinto che il modello attuale abbia un difetto fondamentale: per aziende a scopo di lucro, la riduzione dei costi porta spesso alla carenza di personale e a investimenti insufficienti nella sicurezza. Social Purpose Corrections, invece, spinge per contratti contenenti incentivi che premino le prigioni e i centri di detenzione per i miglioramenti delle condizioni dei detenuti, assicurando assistenza sanitaria adeguata e abbattendo il tasso di recidiva. “La caratteristica che ci contraddistingue è che non intendiamo nutrire Wall Street e rispettare le proiezioni di guadagno. Vogliamo solo aiutare le persone”, ha dichiarato Koehn a Forbes. “Vogliamo fornire una soluzione umana al presidente Trump e al suo progetto di detenere gli stranieri illegali e criminali”. Se il modello avrà successo, sarà comunque troppo tardi per aiutare persone come Carhuancho, che continua a fare i conti con i suoi problemi. Nel frattempo lei si trova in un limbo dell’immigrazione. I suoi avvocati hanno dichiarato che l’Ice le ha fatto sapere di non essere interessata a deportarla, anche se non ha ottenuto l’asilo. Ma questo accadeva prima dell’insediamento di Trump. Patti con il Vaticano: a Cuba scarcerazioni-frode di Zaccaria Trevi L’Opinione, 7 febbraio 2025 L’ennesimo atto di propaganda a firma Cuba. Il 14 gennaio scorso, il governo dell’Isola ha iniziato la graduale scarcerazione di 553 detenuti, a seguito di un indulto voluto dal Vaticano. Il regime ha presentato quest’operazione come un gesto di apertura, ma per il rapporto di Prisoners defenders si tratta chiaramente di una frode. Infatti, solo 198 prigionieri politici sono stati rilasciati e il 94 per cento di loro aveva già diritto alla libertà condizionata o a un regime aperto mesi prima. Inoltre, non si tratta di una vera liberazione: i detenuti rimangono sotto un rigido regime carcerario-domiciliare, con severe restrizioni e la costante minaccia di essere nuovamente incarcerati. Dei 1.161 prigionieri politici censiti alla fine del 2024, 931 restano dietro le sbarre e 230 sono agli arresti domiciliari. La maggior parte degli scarcerati ha scontato oltre metà della pena e avrebbe dovuto essere già rilasciata. Tuttavia, Cuba ha trattenuto questi detenuti per includerli nell’accordo con il Vaticano, creando un’operazione mediatica priva di reali concessioni. Gli ex detenuti, ora in libertà, sono comunque sottoposti a gravi limitazioni personali. Questi non possono lasciare la città di residenza, tantomeno intraprendere viaggi internazionali; devono svolgere lavori forzati per il regime; sono censurati sui social media e hanno il divieto di rilasciare dichiarazioni pubbliche. Come se non bastasse, gli ex carcerati soffrono quotidianamente di minacce da parte del sistema penitenziario, con la paura di tornare dentro con la minima distrazione. Queste condizioni, secondo il rapporto, trasformano le scarcerazioni in una misura punitiva mascherata da concessione. Il regime cubano ha cercato di attribuire la decisione a una trattativa con la Chiesa cattolica, ma l’amministrazione di Joe Biden - in uno dei suoi ultimi atti - ha successivamente rimosso Cuba dalla lista dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo, scatenando non poche polemiche. Prisoners Defenders critica questa decisione, sottolineando che il governo cubano continua a sostenere e a esercitare repressione sistematica contro il dissenso. L’organizzazione accusa inoltre la comunità internazionale di adottare un atteggiamento “tiepido” nei confronti delle violazioni dei diritti umani a Cuba. Paesi come Canada, Norvegia e alcune Nazioni europee avrebbero contribuito a mantenere lo status quo, complicando qualsiasi tentativo di democratizzazione. Le scarcerazioni, anziché rappresentare un passo avanti, rafforzano il controllo del regime sulla società. Molti ex detenuti stanno cercando di lasciare il Paese per evitare persecuzioni future. José Daniel Ferrer García, un noto dissidente, ha rifiutato di sottostare alle condizioni imposte e ha ignorato la convocazione del tribunale, rischiando di essere arrestato nuovamente. I rapporti di Prisoners defenders mostrano ormai da tempo come Cuba utilizza la repressione sistematica per neutralizzare ogni forma di opposizione e manipola le trattative internazionali per ottenere vantaggi politici senza reali cambiamenti.