Respirare un’aria diversa di Filomena Giannotti lafonte.tv, 5 febbraio 2025 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Queste note parole attribuite a Voltaire non suonano solo come un frammento di saggezza sempre attuale, ma anche come una condanna senza appello al grado di (in)civiltà della nostra nazione. Perfino Bolzano, finita sul podio delle città italiane in cui si vive meglio nella classifica annuale del quotidiano “Il Sole 24 Ore”, ha una delle carceri più fatiscenti d’Italia. A sostenerlo è Rita Bernardini, ex deputata del Partito radicale e attuale presidente dell’associazione internazionale “Nessuno tocchi Caino”, che si batte per l’abolizione della pena di morte. Arrivando a Bolzano, si rimane colpiti dall’ordine, dalla pulizia, dalla bellezza delle aree verdi. Ma proprio sui prati e tra i fiori di uno dei parchi della città sorge il carcere, che fu costruito nell’Ottocento e ormai versa nel degrado totale. La fotografia delle carceri nel resto d’Italia non è migliore: detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile dalle strutture; agenti della polizia penitenziaria, viceversa, sotto il livello minimo; operatori sanitari (medici e psicologi) sempre più rari. Per non parlare delle celle: talmente piccole in alcuni casi che i detenuti sono costretti a organizzare dei turni semplicemente per poter stare in piedi; roventi in estate, soprattutto se esposte al sole, gelide in inverno, a causa del riscaldamento spesso mancante. Molte/i di voi ricorderanno quell’ordinanza con cui un giudice di sorveglianza, lo scorso luglio, aveva rigettato il ricorso di un detenuto: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”. Su questa argomentazione il Garante dei detenuti ha poi avviato degli accertamenti. Così come delle verifiche da parte del Garante sono in corso su un altro fronte inquietante, quello dei suicidi nelle carceri italiane, che, dopo un costante aumento, nel 2024 hanno toccato la cifra record di 89. In questo caso, il Garante si è soffermato in particolare sull’ordinanza con cui un altro magistrato di sorveglianza ha rigettato la richiesta di liberazione anticipata di un detenuto della casa circondariale di Firenze che aveva tentato il suicidio. La motivazione sarebbe che “il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera educativa”. Ancora più toccante, e per certi versi incredibile, la vicenda riportata da Francesca de Carolis nel libro da lei curato, Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai, prefazione di don L. Ciotti, Pitigliano (GR), 2012. Un pastore sardo, umile ma di grande intelligenza, si diede al banditismo per rivalsa contro una lunga e ingiusta detenzione, e fu poi condannato all’ergastolo. In una sua brillante provocazione chiese la pena di morte (con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) al posto dell’ergastolo, per dare soddisfazione a tutti coloro che, anche dopo 32 anni di carcere, avrebbero voluto vedere morto un delinquente. Era il 2009 e il Tribunale di Sorveglianza di Perugia rispose così, nel suo freddo burocratese: “Poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla Costituzione, si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”. Anche se è ormai già un lontano ricordo, vale la pena di tornare sul discorso di fine 2024 del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in particolare su una sua dichiarazione che Voltaire avrebbe sottoscritto: “l’alto numero dei suicidi è indizio di condizioni inammissibili”. Non è forse un caso che in questo stesso discorso il Presidente abbia dichiarato anche: “i detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine”. In questa metafora del “respi- rare” alcuni hanno colto un implicito ri- ferimento alle parole pronunciate dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro il 13 novembre 2024 sulla gioia da lui provata al sapere in difficoltà respiratorie i detenuti del 41 bis in trasferimento sulle nuove auto della polizia penitenziaria. Per inciso, non è stato questo l’unico caso in cui altolocate figure dell’attuale Governo abbiano formulato dichiarazioni che hanno poi suscitato notevole sconcerto nell’opinione pubblica. (Non) ultima quella del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, che, a proposito di Cecilia Sala, detenuta per tre settimane in Iran, aveva sostenuto che era “in una cella singola”. Di questa cella - in cui era invece in isolamento totale - Cecilia ha dato tutt’altra descrizione: dormiva sul pavimento con due coperte, una con cui difendersi dal freddo intenso e una su cui distendersi. Nella cella, grande quanto il suo corpo, non c’era nulla, soltanto una luce al neon sempre accesa, notte e giorno. Il cibo (riso e datteri) le veniva passato attraverso una fessura e le avevano confiscato perfino gli occhiali da vista. Mentre si susseguono i suicidi nelle carceri italiane (alla data del 15 gennaio 2025 se ne sono registrati già otto) e persistono dati statistici impressionanti per chiunque abbia una coscienza, non vi è invece nessuna novità significativa da segnalare, se non l’apertura di una Porta Santa all’interno del carcere di Rebibbia. Ma più che per il tema scelto da Papa Francesco, “Pellegrini di speranza”, e il suo impegno ad aprire una speranza anche per tutti i detenuti, questa sua iniziativa va segnalata perché ricorda un altro significativo frammento di saggezza, del grande Pietro Calamandrei: “Bisogna vederle le carceri per poterne parlare”. Affettività in carcere: cosa dice una sentenza della Consulta di Ida Angela Nicotra interris.it, 5 febbraio 2025 Nel messaggio che ha rivolto agli italiani, nell’ultimo giorno dell’anno, il Presidente Mattarella si è soffermato sul dovere imprescindibile di osservare le norme che riguardano la detenzione in carcere. Mettendo in luce il tema del sovraffollamento carcerario che rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti, prosegue il Capo dello Stato, devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine, che passa dalla dignità di ogni persona e dei suoi diritti. L’alto numero di suicidi in carcere è indice di tale inammissibile situazione. Le riflessioni presidenziali si riannodano al più recente orientamento della giurisprudenza costituzionale. Ha compiuto un anno la sentenza con cui la Corte ha dichiarato illegittimo il divieto di intrattenere relazioni intime dentro gli istituti penitenziari tra il detenuto e le persone a lui (o a lei) legate da un rapporto affettivo. In mancanza di ragioni obbiettive di pericolosità, privare la persona ristretta di un aspetto fondamentale della propria personalità - osserva la Consulta - finisce per costituire una misura arbitraria. Anche il potere punitivo dello Stato deve rispondere a precisi limiti nel rispetto del principio di dignità umana. In particolare, il Giudice delle leggi ritiene lesivo di alcuni parametri costituzionali l’art. 18 delle norme sull’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che il detenuto possa essere ammesso a svolgere i colloqui con il coniuge o con il partner stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando tenuto conto del comportamento della persona in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. La disposizione censurata precludeva in maniera tassativa la possibilità di garantire una sfera di riservatezza con i familiari durante il colloquio, dovendosi, lo stesso, tenere in appositi locali con il controllo a vista ad opera degli agenti di polizia. Ovviamente per rendere effettivo il diritto ai colloqui intimi occorre l’allestimento di “appositi spazi riservati ai colloqui”. Già un decennio prima, la questione era giunta all’esame della Consulta; in quella occasione la decisione era stata di inammissibilità. Tuttavia, quella stessa pronuncia (n. 301 del 2012) aveva elevato il diritto all’intimità a “un’esigenza reale e fortemente avvertita”, poiché rispondente alla pretesa “di avere relazioni intime, anche a carattere sessuale” a quella parte di popolazione carceraria non ammessa a fruire dei permessi premio. Sulla base di tali premesse, la Corte invitava il legislatore a prestare attenzione a tale problema, “anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali”. Ma il monito è rimasto per anni disatteso. La decisione n.10 della Corte si sofferma sulle ripercussioni negative che l’assenza di momenti di intimità causano sul detenuto e sulle prospettive future di un suo reinserimento in società. Del resto, la motivazione non manca di riflettere sulle conseguenze punitive che il divieto di un rapporto di intimità fa ricadere anche sul coniuge incolpevole, costretto a subire restrizioni alla propria sfera sentimentale, sebbene non abbia commesso alcun reato. Tali deficit di segmenti significativi della libertà personale sono in contrasto con numerose previsioni costituzionali. In primo luogo, essendo il carcere annoverabile tra le formazioni sociali, in cui la persona svolge la propria personalità, vanno tutelati i diritti inviolabili del singolo che, pur in stato di detenzione, mantiene la pretesa a quel “residuo” di libertà che non gli può in ogni caso essere sottratto. La proibizione assoluta a vivere la sessualità con il proprio partner può incidere negativamente sui rapporti di coppia, rischiando di spezzarli e azzera, per il periodo della detenzione, il diritto alla genitorialità. L’aspirazione a mettere al mondo la prole è protetta dall’art. 31 della Costituzione e dall’art. 8 della Cedu, al cui rispetto l’ordinamento italiano è tenuto per via dell’obbligo al rispetto del diritto sovranazionale. Secondo l’art.8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il rifiuto al diritto alle visite coniugali deve essere giustificato “da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine” e rispondere al principio di proporzionalità, bilanciando gli interessi pubblici con quelli privati. E non va dimenticato che il diritto “affettivo” costituisce declinazione del “diritto fondamentale alla salute” e del benessere psico -fisico della persona, anche sottoposta a detenzione, consacrato nell’art. 32 della Costituzione. Le celle iraniane indignano tutti, quelle italiane nessuno le vede di Ciriaco M. Viggiano L’Edicola del Sud, 5 febbraio 2025 La detenzione della giornalista Cecilia Sala in Iran è stata accompagnata da un’ondata di indignazione per le disumane condizioni in cui versano gli ospiti del carcere di Evin. Celle sovraffollate e spesso senza finestre, zero letti o brandine ma solo un tappeto e una coperta per ripararsi dal freddo, cuscini infestati dagli insetti, luce accesa giorno e notte per impedire ai reclusi di dormire, senza dimenticare pessime condizioni igieniche e sistematiche violazioni dei diritti umani: quanto basta, insomma, per far sì che anche i manettari più convinti si stracciassero le vesti. Peccato, però, che altrettanta attenzione non sia stata e non sia tuttora riservata al tema della detenzione in Italia. Intendiamoci: qui nessuno vuole paragonare le carceri nazionali a quelle del regime degli ayatollah. Ma se la civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni in cui versano i suoi penitenziari, beh, l’Italia non se la passa proprio benissimo. Basta analizzare i numeri che, si sa, hanno il pregio di non mentire mai. Il sovraffollamento medio sfiora il 150%, con picchi del 225 a Milano San Vittore, 205 a Brescia Canton Mombello, 200 a Como e a Lucca, 195 a Taranto e a Varese del 194. E il 2024 è stato caratterizzato da una drammatica sequenza di suicidi, ben 89 tra i detenuti e sette nel personale della polizia penitenziaria. Eppure, davanti a una situazione tanto drammatica e lesiva dei diritti costituzionali, nessuno sembra scandalizzarsi. Nemmeno Andrea Delmastro, sottosegretario al Ministero della Giustizia, che in estate ha visitato le carceri di Taranto e Brindisi precisando di non volersi “inchinare alla Mecca dei detenuti”. E forse nemmeno lo stesso guardasigilli Carlo Nordio che continua a escludere provvedimenti ormai indispensabili come amnistia e indulto, pur di assecondare le istanze securitarie del suo elettorato. “Parigi apprezza il 41 bis? Assurdo. E sulle caserme c’è ben poco da copiare” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Il ministro Nordio ha incontrato l’omologo francese Gérald Darmanin. Dall’incontro è emerso un interesse dei francesi verso i nostri modelli di lotta alla criminalità ma soprattutto di gestione delle carceri. Ne parliamo con Mauro Palma, già Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura ed ex Garante nazionale dei detenuti. I francesi vogliono copiare il nostro modello carcerario. Che ne pensa? Non mi è chiaro se l’interesse francese sia rivolto al circuito dell’” alta sicurezza” o al regime speciale ex articolo 41bis. In quest’ultimo caso va osservato che non si tratta di un regime rivolto a chi ha commesso reati molto gravi in senso generico o è una persona detenuta ritenuta pericolosa. Il 41bis ha una sua origine, una sua caratteristica e una sua connotazione delineata da sentenze della Corte costituzionale e della Cedu che lo definiscono sul piano dei destinatari a esponenti di spicco della criminalità organizzata di tipo mafioso (o di analoghe situazioni territoriali) e sul piano della finalità l’interruzione di collegamenti con le organizzazioni criminali all’interno e all’esterno del carcere. Non altro (e non è poco). Esiste questa necessità in Francia? Penso ci si riferisca ai Dps (détenus particulièrement signalés) inseriti in un particolare “elenco”, ma la loro connotazione è molto mista - non solo criminalità organizzata, ma anche e soprattutto presunto rischio di evasione - e la Corte europea ha in passato condannato la Francia (caso Khider c. Francia) per il continuato isolamento, le perquisizioni corporali, in generale la durezza ingiustificata della detenzione. Anche il “Difensore dei diritti” è intervenuto un anno fa su questo tema. Che si voglia introdurre il sistema italiano, che però ha una logica diversa, per sanare queste inaccettabili situazioni? I francesi sarebbero interessati anche al progetto di recupero delle caserme dismesse e alla “politica di gestione delle carceri e il sovraffollamento che affligge anche loro”... Qui mi sfugge il nesso, soprattutto relativamente al tema della detenzione speciale. Attenderei un po’ gli esiti dell’azione del Commissario e del relativo utilizzo di caserme, prima di ritenerle un metodo esportabile, come sembrerebbe emergere da quel comunicato. Ci sono addirittura voci di spostamento di giovani adulti dagli istituti minorili a una sezione di un carcere per adulti - a Bologna - per risolvere il sovraffollamento minorile, figuriamoci le lezioni che riusciamo a dare. Certo, la Francia ha un problema grave di sovraffollamento; certo occorre ipotizzare soluzioni nuove, se non si intende intervenire con un provvedimento emergenziale che dia il tempo per elaborare una riforma sostanziale del sistema. Quello che è evidente è che un sistema di indistinta detenzione non è in grado di reggere. Le persone in carcere per pene brevi o brevissime sono il risultato di una debolezza sociale che richiede altri strumenti nel territorio, non certo strumenti meramente penali, e qualora a questi si sia giunti, differenti luoghi e diverse modalità per l’esecuzione della sanzione e una diversa presenza degli enti territoriali. I francesi guardano con ‘particolare interesse’ al 41 bis. Secondo lei serve ancora nel nostro Paese? L’interruzione delle possibilità di comunicazione con le organizzazioni criminali da parte di persone che a esse appartengono è un dovere da parte dello Stato. Quindi, questa finalità deve essere perseguita. Il problema è poi sulle forme e sugli strumenti. Il fatto stesso che il numero di persone sottoposte a tale regime sia più o meno sempre lo stesso, con lievissime oscillazioni, indica che di fatto non funziona e che rischia di diventare anche nell’immaginario esterno una esemplare punizione - da qui il nome di “carcere duro”, inaccettabile in un ordinamento democratico - piuttosto che un regime che semplicemente eviti tali contatti. Molte volte è dovuta intervenire la Corte costituzionale per rimuovere singole imposizioni vessatorie non giustificabili sul piano della finalità per cui tale regime è sorto e entro il cui limite deve attenersi. Che la Francia venga a prendere informazioni per ipotizzarlo per situazioni gravi, ma diverse, è indicativo di questa generica idea di durezza in sé. E prima della Francia sono già venute l’Albania e l’Olanda. Come è cambiato nel tempo questo regime di ‘carcere duro’? Il regime è sostanzialmente inalterato dopo l’ultimo intervento normativo del 2009. Si è aggiunta una circolare minuziosa nel 2017 emanata dall’allora Capo Dap, pur con il mio parere negativo come Garante nazionale, che pretendeva di definire aspetti minuziosi e ha aperto a una valanga di inutili prescrizioni e relativo contenzioso. È invece cambiata la tipologia delle persone assegnate a tale regime perché diversa è l’attuale impostazione della criminalità organizzata: molto più interessata al controllo politico- imprenditoriale su larga scala e all’imposizione della propria capacità di ‘ governare’. È cambiata la tipologia dei reati ed è così cresciuta la quota di persone in carcere in tale regime per pene temporanee: questo apre a una specifica criticità di questo regime. Quali sono le maggiori criticità di questo sistema? Appunto, la maggiore criticità la vedo nelle persone che, condannate a pena temporanea scontano in 41bis la pena fino all’ultimo giorno. Per poi passare direttamente alla libertà. Anche sul piano della sicurezza tutto ciò è insensato; come pure lo è sul piano della finalità del positivo reinserimento sociale. Mi chiedo come mai se si sa che la fine della pena avverrà durante il biennio di un rinnovo del 41bis (che, some sappiamo è inizialmente 4 anni poi rinnovabile di 2 in 2) tale rinnovo è proposto e approvato? Non è meglio far passare la persona al circuito dell’alta sicurezza per l’ultima parte della sua pena e dare così la possibilità di sperimentare, spesso dopo molti anni, una situazione di maggiore gradualità verso l’esterno? O molti rinnovi avvengono quasi automaticamente anche per il simbolismo che portano con sé (nel passato venne rinnovato il regime anche a un morente per il valore simbolico della sua figura)? Vale la pena ricordare che se la norma sospende il “trattamento! per le persone sottoposte a questo regime, non sospende certamente - né potrebbe farlo - la finalità della pena. Che deve restare integra anche per loro. Nelle carceri arrivano telecamere visualizzabili direttamente dalla Sala Situazioni del Dap lapresse.it, 5 febbraio 2025 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta predisponendo un sistema di controllo centralizzato che consentirà alla Sala Situazioni di Roma di avere accesso diretto e in tempo reale a tutte le telecamere installate negli istituti penitenziari italiani. Michele Miravalle, dell’Osservatorio Antigone: “Dove ci sono telecamere, i processi sugli abusi in carcere vanno avanti. Dove non ci sono, no”. L’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), per il tramite del segretario generale Leo Beneduci, porta all’attenzione dell’opinione pubblica quello che giudica “un fatto di estrema gravità che sta per consumarsi silenziosamente all’interno del sistema penitenziario italiano”. “Non stiamo parlando di un semplice sistema di videosorveglianza”, sottolinea Beneduci, “ma di un vero e proprio sistema di controllo centralizzato che permetterà di osservare in diretta ogni movimento all’interno delle strutture penitenziarie. Questo significa che ogni operatore di Polizia Penitenziaria, ogni magistrato in visita, ogni avvocato che incontra il proprio assistito, ogni medico che svolge il proprio dovere, ogni familiare in visita, potrà essere posto costantemente sotto l’occhio delle telecamere, con le immagini disponibili in tempo reale a Roma”. “La questione assume contorni ancora più preoccupanti se si considera che questo sistema viene implementato senza alcuna preventiva valutazione d’impatto sulla protezione dei dati e delle immagini, senza consultazione sindacale (come stabilisce lo Statuto dei Lavoratori) e senza informare adeguatamente i diretti interessati. Chi garantisce la sicurezza di queste immagini? Chi può accedervi? Come vengono conservate? Queste sono domande che richiedono risposte immediate”, incalza il leader dell’Osapp. “Il sistema si configura come una forma di sorveglianza di massa la cui finalità non sembra riguardare le maggiori sicurezza e funzionalità delle carceri italiane, bensì l’assoluto controllo centrale di ogni momento della vita penitenziaria e che coinvolge non solo il personale penitenziario e i detenuti, ma anche tutti coloro che, per ragioni professionali o personali, varcano la soglia di un istituto penitenziario. I corridoi, gli atrii, le sale colloqui, le portinerie: ogni area videosorvegliata diventerà accessibile in tempo reale dalla sala situazioni del DAP”. Secondo Michele Miravalle, dell’Osservatorio Antigone, occorre sempre un “surplus di trasparenza” nelle carceri. “Laddove ci sono prove video i processi per torture e violenza vanno avanti, dove non c’è nulla, falliscono”, aggiunge. “Ben venga un controllo da remoto centralizzato, se questo permetterà di avere maggior certezza di poter conservare le immagini e renderle disponibili per eventuali accertamenti dell’autorità giudiziaria. E questo sarà a garanzia anche degli operatori penitenziari. Ovviamente tutto ciò deve essere fatto nel rispetto delle normative sulla privacy e del diritto sindacale” conclude Miravalle. La giustizia tra il dire e il fare di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 febbraio 2025 Annunci e malfunzionamenti: la piattaforma informatica che non funziona, le carenze di personale, l’ingolfamento delle Corti d’Appello, il sovraffollamento delle carceri. Proclamare in teoria una cosa, e poi - per incapacità attuativa o per calcolo interessato - produrre nella realtà l’esatto contrario per i cittadini: nell’approccio del governo Meloni-Nordio ai temi della giustizia esiste una questione morale, ma diversa da quelle cicliche dei tre decenni scorsi, e persino più insidiosa delle commistioni affaristiche di questo o quell’esponente. Ed è un peccato che l’inflazionata rappresentazione di un eterno derby tra magistratura e politica/avvocatura, quasi la giustizia fosse affare solo di addetti ai lavori, oscuri ai cittadini la percezione di quanto invece la questione morale dello scarto tra dire e fare incida direttamente sulla vita concreta delle persone. Quattro esempi, colti dalle recenti relazioni dell’Anno Giudiziario, possono essere istruttivi. Dappertutto viene segnalato che il numero delle archiviazioni di persone indagate si è letteralmente dimezzato: succede perché i pm hanno fatte meno richieste di archiviazione? No, accade perché, pur fatte, sono rimaste per mesi ammassate negli armadi. E sono rimaste ammassate negli armadi perché il nuovo applicativo informatico ministeriale App, intempestivamente imposto sulle archiviazioni come primo gradino obbligatorio da un Ministero della Giustizia sordo a tutti gli avvisi di débâcle, ne ha congelato a lungo lo “scarico” nelle cancellerie a causa del proprio malfunzionamento annunciato, denunciato, conclamato eppure negato dai pervicaci comunicati “va tutto bene” di via Arenula, di colpo peraltro comicamente appassiti alla luce della (pur riluttante) tardiva ammissione di “criticità” proprio da parte del Guardasigilli. Con il paradossale effetto che nei mesi scorsi molte migliaia di persone in tutta Italia sono rimaste più a lungo del dovuto alle prese con le conseguenze negative della pendenza di un procedimento penale per colpa proprio di quella politica sempre pronta a solennemente pontificare quanto sia di per sé già una pena essere sottoposti a un procedimento penale. Secondo esempio arriva dalla perdurante contabilità allarmante delle carenze di personale, più ancora che tra i magistrati, soprattutto nei cancellieri e ufficiali giudiziari. Uffa che noia? Eh no, prova a far comprendere ad esempio la relazione del presidente Ondei di un distretto (Milano) che pure nel complesso vanta performance europee: stanti le percentuali di scopertura che elenca, “per eseguire uno sfratto un cittadino deve aspettare 2 anni, o un anno per eseguire un pignoramento al fine di avere quanto una sentenza ha riconosciuto che gli spetti”. Terzo esempio: siccome a Roma i giudici del Tribunale sull’immigrazione avevano preso decisioni sgradite al governo sulla convalida o meno dei trattenimenti di migranti nel centro delocalizzato in Albania, il governo a costo zero ha spostato per legge alcune competenze alle già gravate Corti d’Appello. Gravissimo come precedente di sistema, ma non indolore nemmeno per i miopi che sorvolino sui principi e tengano solo al proprio particolare: “Infatti subiranno inevitabilmente un consistente ritardo nella trattazione e definizione le cause civili ordinarie non prioritarie, che sono quelle che interessano molti cittadini, a Milano in particolare le cause di famiglia e minori, separazioni e divorzi”. Il quarto esempio viene dalle carceri. Nel luglio 2024, quando il ministro Nordio vantò che l’appena varato suo decreto legge avrebbe semplificato taluni meccanismi e così notevolmente diminuito il sovraffollamento carcerario “senza cedimenti” a indulti o amnistie, tutti gli fecero notare che in realtà il modo di fare quella modifica di legge nulla avrebbe mutato, se mai qualcosa avrebbe complicato. Risultato: in quel luglio 2024 i detenuti erano 61.510 (in 47.003 posti disponibili su 51.209 teorici), dopo sette mesi sono saliti a 62.010 (in 46.852 posti disponibili). Ecco perché replicare stancamente la disfida d’Albania, gettare la maschera dell’intento punitivo dei magistrati ormai persino dichiarato dietro la separazione tra giudici e pm, e persino scappare sino a oggi dallo spiegare in Parlamento perché per liberare il torturatore capo della polizia libica si sia fatta carta straccia degli impegni dell’Italia con la Corte Penale Internazionale, conviene forse al governo comunque più di confrontarsi con l’eventualità che, prima o poi, qualcuno unisca i puntini dei vari proclami in tema di giustizia, tiri una riga, tragga una somma e ne chieda conto a chi aveva propagandato il contrario. “Ora serve un patto istituzionale. Tra politica e magistratura basta guerra dei 30 anni” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 5 febbraio 2025 Crosetto: sì all’immunità parlamentare, caposaldo dell’equilibrio tra poteri. Il suo sogno sarebbe un “grande patto istituzionale” tra poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) per far cessare “la Guerra dei Trent’anni”, modernizzare le strutture dello Stato e rendere l’azione del governo “più rapida, efficiente”. Utile - spiega - a contrastare le autocrazie che vanno a manetta, contro “vecchi meccanismi”, quelli delle democrazie, costruiti decenni fa. E non lasciare il vecchio continente sempre indietro, frenato da vincoli e regole “ideologiche”, surclassato dall’avanzare di nuovi Paesi emergenti e dal passo rapidissimo di Trump. Il ministro Guido Crosetto al sogno contrappone la realtà: “Mi preoccupa molto, specie per i nostri figli”. Una situazione bloccata che, se non si cambia “prospettiva”, costringerà l’Italia a non poter competere con i Paesi emergenti, in una lotta quotidiana tra poteri che paralizza non solo noi, ma la Ue. Compreso il rapporto con la magistratura: dovrebbe cambiare radicalmente. Anche ristabilendo guarentigie come l’immunità parlamentare o accogliendo, senza “troppi drammi ideologici”, l’istituzione di una commissione di inchiesta sul lavoro dei magistrati: “Non vedrei scandalo a tornare alla responsabilità civile. I giudici sono gli unici che, se sbagliano, non pagano dazio”. Ecco: vi sentite sotto tiro? “Non sono particolarmente colpito da ciò che accade. Lo riscontro da trent’anni. Non parlo di atteggiamenti della magistratura in generale, ma di sue frange, pezzi di correnti che pensano che il potere legislativo ed esecutivo debbano essere sottoposti a una sorta di controllo e autorità morale che si sono auto-attribuiti, tenendo sotto scacco gli altri”. Tutto solo per un’indagine sul caso Almastri? “È un piccolo pezzo del puzzle, pur clamoroso. Non esiste automatismo nell’iscrivere sul registro degli indagati un premier, ministri, un sottosegretario! Esiste sempre la possibilità del magistrato di valutare i fatti come deve. Tanto varrebbe eliminare la norma dell’obbligatorietà dell’azione penale: ognuno di loro la usa come gli pare”. Ma se non c’è nulla di penale, si chiuderà... “Questo è il punto, il vero “potere” che io temo, da parte dei magistrati: la capacità di distruggere la reputazione di una persona. Migliaia di cittadini sono sottoposti alla gogna di indagini, magari anche di condanne che poi, dopo anni, finiscono in assoluzioni. Nel mentre, la loro vita è stravolta. Non parlo di Berlusconi, ma di esponenti di tutti i governi, da Renzi a Mastella, da Calogero Mannino alla Boschi fino all’ex deputato del Pd Stefano Esposito. Chi paga per loro? Perché il magistrato che ha fatto svolgere 500 intercettazioni incostituzionali all’onorevole Esposito può alzarsi e sventolare la Costituzione all’inaugurazione dell’anno giudiziario e il giorno dopo ricominciare a violarla? Qui c’è un problema di responsabilità, non solo nei confronti di terzi, ma verso se stessi e verso il ruolo fondamentale che dovrebbero svolgere in democrazia: la terzietà del giudice”. Lei vorrebbe reintrodurre l’immunità parlamentare? “Lo dico io che non sono parlamentare e non ne usufruirei, ma se la nostra Costituzione è considerata “la più bella del mondo”, perché quella è l’unica parte che è stata cassata? Era uno dei capisaldi dell’equilibrio tra poteri. In tutte le nazioni chi esercita funzioni così delicate gode, finché dura il mandato, di una protezione”. State già lavorando alla separazione delle carriere... “Sì, ma, a differenza di molti, io mi preoccupo anche della possibilità che questa riforma possa creare “caste” ancora più chiuse e forti, come dice Marcello Pera. Il punto vero, però, è un altro: può un governo avere il potere di decidere in fretta, stando al passo con i tempi, sempre più rapidi, delle scelte? Lo fa Trump, ma anche autocrazie che oggi si muovono con disinvoltura e ci scavalcano. Possono decidere in un giorno, noi in tre anni”. Scusi, sta chiedendo pieni poteri al governo? “No, al contrario. Vorrei, che ogni potere avesse i suoi compiti e limiti. Non solo un esecutivo rapido, e pronto a decidere, ma un Parlamento non ridotto, come è da troppi anni, a fare il passacarte di decreti legge, bensì un organo “davvero” legislativo e di controllo. Negli Usa, il presidente può decidere su alcune materie, ma è sottoposto all’approvazione del Senato su molte altre. Chi si presenta davanti al Senato Usa - militare o industriale che sia - trema: deve dare testimonianza di verità. Lì c’è davvero la rappresentanza e la forza di un Paese. In Europa, per anni, ci siamo illusi che i nostri temi indirizzassero il mondo, impiccandoci a regole che sono già obsolete. Penso al cambiamento climatico. Intanto, gli altri se ne sono infischiati e sono andati avanti. La democrazia è fatta di decisioni, controlli, sanzioni, se serve. Non immobilismo”. Come rispondere alla minaccia dei dazi? “Non, come ho sentito dire a Bruxelles, “mettiamo i dazi anche noi”. I tedeschi hanno 155 miliardi di surplus commerciale con gli Usa, noi 44, è follia solo pensarlo. Non possiamo andare in competizione, la Ue non ha la forza”. Quindi, che fare? “Serve una politica industriale comune, lavorando insieme su approvvigionamento di materie prime ed energia e sulla difesa comune. Comunque, sburocratizzare è la prima cosa, eliminare regole e regolamenti che uccidono la produzione, essenziale al di là dei dazi. Mentre noi facevamo norme su norme, gli altri innovavano e costruivano nuovi modelli economici. Poi, per quanto riguarda un rapporto equilibrato con gli Usa, possiamo e dobbiamo aumentare la spesa militare, come dico da tempo. L’Italia è molto sotto il 2%. Alla fine, la Nato ci chiederà non meno del 2,5-3%”. Dove li troviamo? “Lo dico da anni: quei fondi vanno scorporati dal Patto di stabilità. Se l’Europa non fa nemmeno questo, oltre a modernizzarsi e sveltire i suoi processi decisionali, è destinata a un declino precipitoso. Alla totale irrilevanza”. L’Italia ha un rapporto privilegiato con gli Usa: è possibile che tratti da sola? “È sempre stato così. Mai visto i francesi muoversi per interessi comuni su industria, politica estera, etc. Ognuno tratta per sé sulle cose che contano e, poi, tutti insieme, decidiamo i tappi di plastica per le bottiglie... Oggi, muoversi insieme in alcuni settori (la difesa ad esempio) è l’unica strada che abbiamo. Serve pragmatismo e velocità per rispondere alle sfide di Trump e delle autocrazie. Oggi vedo pronte solo Meloni e, in parte, Ursula von der Leyen. Ma tutta la Ue, tutti noi, non possiamo più perdere tempo”. Arriva la stretta sulle intercettazioni. Ma è polemica sul limite dei 45 giorni di Francesco Grignetti La Stampa, 5 febbraio 2025 I magistrati avranno un mese e mezzo di tempo per ascoltare gli indagati. La maggioranza tira dritto: sarà legge entro febbraio. Il destra-centro non si è dimenticato della riforma delle intercettazioni, approvata al Senato nel novembre scorso. Si ricomincia di slancio alla Camera. I capigruppo della maggioranza hanno deciso che la riforma s’ha da completare entro la fine di questo mese. Nella commissione Giustizia soltanto per un sovrapporsi di casualità non comincia oggi l’esame degli emendamenti, ma il rinvio è di pochissimi giorni. Data la determinazione della maggioranza è sicuro che a breve la riforma sarà legge. E a quel punto cominceranno i dolori, perché la riforma è draconiana. Come regola generale si concedono ai magistrati 45 giorni al massimo di intercettazione salvo i reati di mafia e terrorismo. Unico caso di proroga per intercettare oltre il mese e mezzo, “qualora emergano elementi specifici e concreti” che dovranno comunque “essere oggetto di espressa motivazione”. Erano i primi giorni del novembre scorso quando il Senato ha approvato il ddl che porta la firma di Pierantonio Zanettin, Forza Italia. L’associazione nazionale magistrati quel giorno suonò quasi le campane a morte. “Migliaia di inchieste saranno a rischio. Parliamo di uno strumento fondamentale nella lotta al crimine che va salvaguardato e non limitato”, commentò l’allora vicepresidente dell’Anm, Alessandra Maddalena, che rovesciò un ragionamento sempre brandito dai garantisti contro i magistrati. “La stretta sulle intercettazioni determina un rischio concreto di ridurre la tutela dei diritti della persona”, disse la giudice. Intendeva dire che la giustizia girerà a vuoto senza poter ricorrere com’è oggi alle intercettazioni e che a quel punto le vittime dei reati non saranno più tutelate. Spiegò anche Francesco Menditto, procuratore capo di Tivoli, intervistato dal Fatto quotidiano: “Complicherà le indagini sui reati che più impattano sulle persone comuni: maltrattamenti, usura, violenza sessuale, sequestri di persona. E sarà sempre più difficile individuare i responsabili”. Quarantacinque giorni gli sembravano davvero poco, perché in media, per avere prove a sufficienza nei procedimenti contro reati seri, occorrono almeno tre mesi di intercettazione. Da parte della maggioranza (al Senato c’era anche il supporto di Italia viva, chissà come andrà alla Camera), però, non ci sono tentennamenti. Tanto più con l’ira contro le toghe di questi giorni. E addio anche all’appello di quattro parlamentari del destra-centro ad esentare dalla tagliola i reati contro le donne. Dicevano infatti Martina Semenzato, presidente della commissione d’inchiesta sul Femminicidio, più Mara Carfagna, Michela Vittoria Brambilla e Ilaria Cavo: “Il ddl Zanettin è una norma di assoluta civiltà giuridica, ma occorre prevedere una deroga per reati come lo stalking, la violenza domestica e quella di genere, che molto spesso sono l’anticamera di un femminicidio”. Invece no, su tutto prevalgono le considerazioni politiche. Dice Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia, di Forza Italia: “È ora di concludere con questa riforma”. Molto meno convinto dall’opposizione è Federico Gianassi, Pd, che ritiene, come pure dissero i suoi colleghi al Senato, che “il limite dei 45 giorni è troppo stretto per alcuni reati complessi e ci vuole più elasticità”. Quanto più i magistrati protestano, tanto più la maggioranza ha voglia di fare presto. Disse infatti, sarcastico, il senatore Zanettin il giorno dell’approvazione del suo ddl: “Questo testo è stato pesantemente criticato in particolare dal dottor Di Matteo, secondo il quale le indagini di mafia diventeranno più difficoltose. Secondo Di Matteo ogni reato sostanzialmente è mafia, perché perseguendo quel reato si può individuare un mafioso. È la teoria dei cosiddetti reati-spia. Perseguendo il responsabile di un semplice divieto di sosta, in effetti, si può incappare in un pericoloso mafioso”. E aggiunse: “Sono rimasto assai sorpreso anche dall’intervista rilasciata dal procuratore di Genova, secondo il quale l’inchiesta sul presidente Toti non si sarebbe potuta concludere se fossero state in vigore le norme che oggi proponiamo. Vogliamo fare un bilancio di questa inchiesta? Tre anni di intercettazioni e cosa hanno portato? A 1.500 ore di lavori socialmente utili. Un risultato di cui una procura deve andare particolarmente orgogliosa”. “Dite quanti sono i beni confiscati agli innocenti” di Errico Novi Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha interrogato il governo sui dati delle “misure antimafia”, attuabili in via definitiva pure quando il processo è ancora in corso. Vediamo se il governo riuscirà a spiegare la follia dei beni sequestrati agli innocenti. Dovrà farlo. Perché Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, segretario di Presidenza a Montecitorio, vero e coraggioso erede delle battaglie pannelliane (è iscritto anche a Partito radicale e Nessuno tocchi Caino) ha rivolto all’Esecutivo, lo scorso 17 gennaio, un’interrogazione parlamentare chiarissima e “disarmante” in materia di prevenzione antimafia. Fra i quesiti trasmessi alla Presidenza del Consiglio, oltre che ai ministeri della Giustizia e delle Imprese, ce n’è uno a cui è semplice rispondere, ma che rischia di rivelare in modo spietato il grado di barbarie raggiunto dalle “misure di prevenzione”: quante sono le aziende confiscate (dunque sottratte “in via definitiva” ai legittimi proprietari) dai giudici e poi restituite (in seguito a istanza di revoca) ai malcapitati nel frattempo assolti, nel processo penale vero e proprio, dalle accuse di 416 bis. In altre parole: quanti sono gli innocenti ai quali i magistrati, dunque lo Stato, hanno portato via tutto. Certo, la domanda è semplice per chi conosca il delirio della prevenzione antimafia. Provoca invece un comprensibilissimo mal di testa al profano. Il quale si chiederà come sia mai possibile confiscare beni, aziende, e anche le proprietà personali come l’abitazione in cui si vive, a chi sia stato sì accusato, da un pm, di contiguità ai boss, ma che non sia stato ancora condannato in via definitiva. Più banalmente: com’è possibile che la legge consenta di infliggere una confisca definitiva a un presunto innocente? Domanda legittima, sacrosanta. Ma chi non è profano sa: il “procedimento di prevenzione” previsto dal Codice antimafia (tecnicamente il decreto legislativo 159 del 2011, come ricorda Giachetti all’inizio della propria interrogazione) può essere attivato “anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale”. Si può essere spogliati di tutto semplicemente perché un pentito dice che sei organico alla sua cosca, anche se non si è ancora concluso il processo penale vero e proprio in seguito al quale si scoprirà che le parole di quel pentito erano falsità propalate per ottenere un programma di protezione; o anche se il pm ha travisato il senso delle parole carpite a qualche mafioso in un’intercettazione. Così è. Ora, queste follie, abnormità, per dirla tutta questa barbarie legalizzata è esattamente il cuore del ricorso (il 29614/ 16) che le più “celebri” tra le vittime del tritacarne antimafia, i fratelli Cavallotti, hanno proposto alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Dai giudici di Strasburgo che già nelle domande “interprocessuali” rivolte allo Stato italiano hanno lasciato trapelare loro stessi una certa incredulità, potrebbe arrivare a breve una sentenza capace di stroncare almeno parte delle norme sulla prevenzione antimafia. Ma intanto i fratelli Cavallotti sono rimasti schiacciati da una versione se possibile “hard” del Codice del 2011: come ricorda infatti sempre Giachetti nel proprio atto - a cui, per scelta dell’Esecutivo, risponderà il ministero della Giustizia - “la giurisprudenza di legittimità ritiene che al procedimento di prevenzione non si applichino le garanzie penali e i principi del giusto processo, e consente la possibilità, non prevista espressamente dalla legge, di disporre la confisca nei confronti di soggetti assolti dal reato di associazione mafiosa”. I più fortunati (più fortunati dei fratelli Cavallotti, ma il superlativo relativo nasconde un atroce paradosso), dopo l’assoluzione hanno potuto proporre, in base all’articolo 28 del Codice, “revocazione della confisca definitiva” in quanto questa era stata smentita da “una sentenza di assoluzione”. Ma inesorabilmente, tutte le vittime di questo sistema- Attila hanno ritrovato le loro aziende fallite, svuotate di ogni bene e stracariche di debiti, contratti dagli amministratori giudiziari che non avevano badato a spese nel drenare, dalle imprese loro affidate, compensi spesso milionari. Ci sarebbe poco da aggiungere, a fronte di tanta ferocia sanguinaria (dello Stato), se non la formulazione testuale di quella domanda posta da Giachetti: il governo fornisca “dati puntuali relativi a quante aziende siano state confiscate nell’ambito di procedimenti di prevenzione in danno di soggetti che: a) sono stati definitivamente assolti dal reato di associazione mafiosa; b) non sono mai stati indagati per fatti di mafia; c) dopo essere stati indagati, hanno ottenuto l’archiviazione del procedimento penale”. Sì, sarà il caso che lo Stato parli. Altrimenti rischia di procurarsi una condanna per violazione dei diritti umani più rapida di quella auspicabile per il caso Cavallotti. Messa alla prova per i minori, il “Decreto Caivano” non è retroattivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Con la sentenza numero 8 del 2025, la Corte Costituzionale italiana ha chiarito che l’esclusione dell’accesso alla messa alla prova minorile per alcuni reati gravi, introdotta dal cosiddetto “Decreto Caivano”, non può essere applicata retroattivamente. La decisione della Consulta respinge l’interpretazione secondo cui la modifica normativa avesse natura meramente processuale, ribadendo invece il carattere sostanziale dell’istituto e la necessità di rispettare il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Il controverso Decreto-Legge n. 123/ 2023 (convertito nella Legge n. 159/ 2023), noto come “Decreto Caivano”, è stato adottato per contrastare emergenze sociali come il disagio giovanile e la criminalità minorile, anche alla luce di gravi episodi di cronaca. Tra le novità, l’articolo 6 ha introdotto il comma 5- bis all’articolo 28 del D. P. R. 448/ 1988 (legge sul processo penale minorile), escludendo la messa alla prova per minori imputati di reati particolarmente gravi, come l’omicidio aggravato (art. 575 c. p.), la violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo aggravate, e la rapina aggravata, La messa alla prova, istituto cardine del processo minorile, consente di sospendere il processo e avviare un percorso rieducativo: se positivo, porta all’estinzione del reato. Il nuovo comma 5- bis, però, negava questa possibilità in modo automatico per i reati elencati, senza valutare le circostanze specifiche del caso. Sono due i procedimenti presso il Tribunale per i Minorenni di Bari che hanno portato alla decisione della Corte. Il primo riguarda M. P., un minorenne imputato di violenza sessuale di gruppo aggravata (fatto del 2019), che aveva richiesto la messa alla prova nel 2022. L’altro procedimento riguarda C. A., un minorenne accusato di violenza sessuale aggravata (2021), in una situazione analoga. Con l’entrata in vigore del Decreto Caivano (novembre 2023), il giudice si interrogava sull’applicabilità del nuovo divieto. Per questo motivo ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale, sostenendo che il comma 5- bis violasse l’articolo 31, secondo comma, della Costituzione, il quale impone alla Repubblica di proteggere l’infanzia e la gioventù favorendone il recupero. La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni per difetto di rilevanza, ma non senza analizzare nel merito i profili costituzionali. In primo luogo, ha rigettato l’interpretazione secondo cui la messa alla prova sarebbe unicamente un istituto di natura processuale. Pur riconoscendone una componente procedurale, la Corte ha sottolineato come l’esito positivo di tale istituto comporti l’estinzione del reato, incidendo direttamente sulla punibilità e configurandosi così come una norma di diritto sostanziale. Di conseguenza, essa è sottoposta al principio di irretroattività previsto dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione e dall’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Un ulteriore aspetto trattato riguarda il principio di irretroattività in relazione alla modifica introdotta dal Decreto Caivano. Secondo la Corte, l’esclusione della messa alla prova per alcuni reati, che rappresenta un regime più gravoso rispetto alla disciplina precedente, non può essere applicata retroattivamente ai fatti commessi prima del 15 novembre 2023. Tale applicazione retrospettiva violerebbe infatti i principi costituzionali, lesi il diritto all’affidamento del minore nella normativa vigente al momento del fatto. La Corte ha infine criticato la presunzione di irrecuperabilità implicita nel comma 5- bis, che attribuisce una pericolosità assoluta sulla base del solo tipo di reato, trascurando le reali possibilità di recupero del minore. Questo approccio, secondo il giudice costituzionale, contrasta con la finalità rieducativa che caratterizza il processo minorile e che richiede una valutazione individualizzata, in linea con quanto stabilito dall’articolo 31 della Costituzione. A supporto delle proprie conclusioni, la sentenza si è riferita anche alla giurisprudenza europea, citando casi come quello Scoppola c. Italia, per ribadire che norme processuali aventi effetti sostanzialmente penalizzanti non possono essere applicate in maniera retroattiva. In sostanza, la messa alla prova, che offre la possibilità di evitare una condanna, viene riconosciuta come un vantaggio sostanziale che va tutelato nel rispetto dei principi costituzionali ed europei. La sentenza porta con sé importanti implicazioni per il trattamento dei minori già coinvolti in procedimenti giudiziari. In primo luogo, i minori imputati di reati commessi prima del 15 novembre 2023 potranno continuare a beneficiare della messa alla prova, anche per quei delitti che, secondo il Decreto Caivano, sarebbero stati esclusi. Questa decisione garantisce che il regime normativo applicato al momento dei fatti continui a proteggere il diritto del minore all’affidamento e alla possibilità di recupero, evitando una retroattività che potrebbe penalizzare ingiustamente i soggetti coinvolti. Inoltre, la sentenza sottolinea che il legislatore non può procedere a preclusioni automatiche basate esclusivamente sul titolo di reato, senza una attenta valutazione delle specificità del caso concreto. Tale limitazione rafforza il principio che ogni situazione debba essere considerata in modo individualizzato, evitando che regole rigide possano oscurare le reali potenzialità di rieducazione del minore. Infine, la decisione della Corte riafferma l’importanza del modello educativo e rieducativo che caratterizza il sistema minorile, respingendo derive puramente repressive. Si conferma così un orientamento che privilegia il recupero e il reinserimento sociale dei minori, nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La sentenza n. 8/ 2025 riafferma con forza l’importanza di un processo penale minorile che sappia coniugare la necessità di garantire la sicurezza collettiva con il rispetto dei diritti fondamentali dei giovani. In particolare, la Corte ha sottolineato come strumenti essenziali, quali la messa alla prova, non debbano essere sacrificati a favore di tendenze eccessivamente punitive. Al contrario, la Costituzione ci impone di mettere al centro il recupero e la reintegrazione dei minori, anche quando si trovano a dover rispondere di reati gravi. Questa pronuncia dovrebbe configurarsi come un monito per l’azione legislativa futura, invitando a una riflessione più profonda sui principi di proporzionalità e personalizzazione della giustizia minorile. Essa rappresenta un chiaro richiamo a non ridurre il sistema a mere logiche repressive, ma a valorizzare il potenziale trasformativo degli interventi educativi e rieducativi. In sostanza, la decisione della Corte rimette al centro della questione l’approccio più umano e mirato, capace di favorire il recupero della devianza giovanile e, al contempo, tutelare l’interesse collettivo. Maltrattamenti, il Gip non può negare l’incidente probatorio sulla testimonianza del minore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2025 Per la Cassazione è abnorme il diniego di anticipazione della prova se il Gip decide in base al peso del quadro indiziario invece di attenersi alla sola valutazione della sua ammissibilità. È abnorme il provvedimento con cui il Gip rigetti la richiesta di raccogliere anticipatamente la testimonianza del minore, con lo strumento dell’incidente probatorio, nell’ambito di un procedimento in materia di maltrattamenti in famiglia. Si tratta, infatti, di uno dei casi di incidente probatorio “obbligatorio” dove, a fronte di alcune ipotesi di reato, il Gip è tenuto ad accogliere la richiesta, che non può rigettare per l’assenza di elementi denotanti un sufficiente spessore indiziario a carico dell’indagato. Inoltre, come afferma la sentenza n. 4534/2025 della Cassazione penale, nel caso concreto il Gip non poteva fondare il rigetto dell’istanza sulla circostanza che il Pm non avesse ancora proceduto alla preventiva assunzione di sommarie informazioni dalla parte offesa. Come spiega la decisione, è il solo fatto che l’iscrizione nel registro degli indagati riguardi uno dei delitti elencati nel comma 1 bis dell’articolo 392 del Cpp a determinare l’obbligatorietà dell’incidente probatorio. Infatti, il giudice nella fase delle indagini preliminari su reati a sfondo sessuale o maltrattamenti familiari, che vedano coinvolte persone minorenni, non può denegare l’anticipazione della testimonianza della giovane vittima, al fine di scongiurare qualsiasi fenomeno di vittimizzazione secondaria della stessa. Ciò anche nel rispetto degli impegni assunti dallo Stato in ambito internazionale a tutela di vittime di reati che necessitano di tutele particolari. Come nel caso di minori coinvolti in reati in ordine ai quali va sempre valutata - ad esempio - la strada dell’assunzione della testimonianza in modalità protetta. La regola dettata - Quando il reato per cui si procede è tra quelli indicati nel comma 1 bis dell’articolo 392 del Codice di procedura penale il Giudice delle indagini preliminari, a cui venga chiesto di procedere all’incidente probatorio per assumere la testimonianza della parte offesa, non può rigettare l’istanza sul presupposto che non sia delineato e consistente il quadro indiziario nei confronti dell’indagato. Ciò che può valutare il giudice è solo l’ammissibilità della richiesta in base alla norma suindicata e all’articolo 190 dello stesso Codice di procedura che governa il diritto alla prova. Il che vuol dire che il Gip deve limitare il proprio esame sull’istanza di acquisizione della prova al solo perimetro di ammissibilità ossia che non risultino violati i divieti probatori e che non si travalichi il thema decidendum. Valorizzare lo spessore indiziario al fine di accogliere o meno l’istanza di incidente probatorio avanzata nei casi previsti dal comma 1 bis dell’articolo 392 del Cpp è fonte di illegittimità o meglio di abnormità del rigetto della domanda, che può provenire tanto dalla persona indagata come dal pubblico ministero anche su input della stessa parte offesa. Conclude la Cassazione facendo rilevare che all’accoglimento dell’istanza il Gip è tenuto in base al titolo per cui vi è stata la notizia di reato. Il caso deciso - Quindi, nel caso concreto, la Cassazione ha annullato con rinvio il diniego del Gip all’anticipazione della testimonianza di una delle parti offese minorenni contro la condotta di maltrattamenti in famiglia imputata al padre. La notizia di reato scaturiva da chiamate fatte al telefono azzurro da parte delle figlie dell’indagato e il Gip, erroneamente, aveva anticipato un giudizio di mera conflittualità familiare, poi rientrata, originata dalla rigidità educativa di una famiglia di cultura musulmana. Veniva quindi ritenuta non giustificata l’anticipazione della testimonianza protetta anche per la mancata preventiva assunzione di sommarie informazioni dalle minori. Al contrario delle considerazioni esposte dal Gip la Cassazione indica come sia sufficiente in sé, ad accogliere l’istanza di incidente probatorio, la sola iscrizione della notizia di una tale categoria di reati. Livorno. Tragedia in carcere: detenuto trovato morto in cella a 41 anni di Stefano Taglione Il Tirreno, 5 febbraio 2025 Tragedia alle Sughere, dove alle 8 di mattina di martedì 4 febbraio è stato trovato morto nel letto della sua cella Manuel Morgon, un detenuto livornese di 41 anni. Un decesso, al momento, senza spiegazione: per questo, in carcere, sono intervenuti i poliziotti della scientifica e sul corpo verrà eseguita l’autopsia. Il giovane, l’estate scorsa, era stato condannato in primo grado a sette anni di reclusione per lesioni gravissime dopo che nel maggio di due anni fa aveva massacrato di botte sugli scali Novi Lena Massimo Galleni, 52 anni, titolare del “Sunset”, un locale sul pontile di Lido di Camaiore, da quel momento ridotto in stato vegetativo. Una vicenda, questa, che fece molto scalpore e per la quale a breve era prevista l’udienza in corte d’appello. Morgon, nato e cresciuto nella nostra città, era molto conosciuto e i suoi amici, dopo aver appreso la notizia, si sono radunati in lacrime fuori dal penitenziario. Il quarantunenne sarebbe stato ucciso nel sonno da un malore. Le cause, però, non sono chiare: per questo la procura farà luce sull’accaduto. A dare l’allarme i poliziotti della penitenziaria, dopo la classica “conta” mattutina, il controllo che viene svolto ogni giorno nel penitenziario. Morgon si trovava, in regime di custodia cautelare, nella sezione “transiti”, dove sono ospitati i detenuti senza condanne passate in giudicato. Divideva la cella con due compagni, che però non si sarebbero accorti di nulla. Gli agenti, trovandolo immobile nel letto, hanno dato l’allarme, ma purtroppo il medico di turno, per salvarlo, non ha potuto fare niente: era morto da ore, dalla notte. Da capire, ora, perché: il malore è stato indotto da qualcosa? È avvenuto per cause naturali? Domande alle quali potrà rispondere solo l’autopsia. I poliziotti della questura, sopraggiunti nel penitenziario, stanno cercando di capire chi abbia incontrato il detenuto nelle precedenti, sia in carcere che durante gli eventuali colloqui. Morgon in passato era stato condannato per omicidio preterintenzionale, dato che nel 2005, nel corso di una lite condominiale, si era messo in mezzo spingendo un pensionato di 64 anni, morto il giorno dopo a causa delle gravissime ferite riportate dopo aver sbattuto la testa in seguito all’aggressione. Una pena che aveva già scontato, infatti ora si trovava alle Sughere in regime di custodia cautelare in quanto la sentenza per le lesioni gravissime non era passata in giudicato, ma in corso d’appello. Negli ultimi mesi era stato trasferito in altre carceri a causa del sovraffollamento delle Sughere, ad esempio a Solliciano, poi era tornato a Livorno. Il garante livornese dei detenuti, Marco Solimano, lo conosceva bene: “Nonostante le difficoltà - le sue parole - era una persona gentile e molto disponibile alle relazioni. Ora bisogna capire che cosa abbia rotto questo equilibrio vitale, spero che le indagini della polizia e l’autopsia lo evidenzino”. “Mi diceva sempre che ero la sua zia del suo cuore, nonostante non fosse mio nipote - così lo ricorda l’amica Rossella Bernardini - e lo vedevo spesso in pescheria. Era una persona buona con chi conosceva e avrebbe fatto qualsiasi cosa per darti una mano”. Napoli. Detenuto muore in ospedale per le conseguenze di un pestaggio subito a dicembre di Armando Proietti gaeta.it, 5 febbraio 2025 Antonio Nocera, detenuto presso il carcere di Poggioreale a Napoli, è deceduto in ospedale a causa delle conseguenze di un grave pestaggio subito all’interno del penitenziario lo scorso 23 dicembre. La morte dell’uomo solleva molte domande sul sistema carcerario e le condizioni di sicurezza. Questo triste fatto si inserisce in un contesto più ampio riguardante le violenze all’interno delle strutture penitenziarie italiane. Il 46enne Nocera fu arrestato nel luglio scorso per reati legati alla droga e all’evasione. Due giorni prima di Natale, si trovò coinvolto in una violenta rissa all’interno del carcere di Poggioreale. Le circostanze che hanno portato a questa violenza rimangono in gran parte sconosciute. Non ci sono ancora dettagli chiari riguardo chi fossero gli aggressori e quali fossero le motivazioni dietro l’attacco. Le conseguenze per Nocera furono gravi. I medici riscontrarono numerosi traumi sul suo corpo, comprese fratture multiple e ematomi estesi. Il detenuto cadde in coma per dieci giorni, ma nonostante una parziale ripresa, le sue condizioni di salute continuarono a deteriorarsi. Infine, Nocera è deceduto nel letto di un ospedale napoletano, segnando la fine di una lunga e dolorosa agonia. La famiglia chiede risposte - La famiglia di Antonio Nocera ha espresso la sua profonda angoscia e preoccupazione per quanto accaduto. Tramite l’avvocato Felice Galluccio, hanno richiesto chiarezza riguardo alle circostanze dell’aggressione. È importante notare che l’assenza di informazioni precise lascia spazio a molteplici interpretazioni sull’episodio. I familiari vogliono che siano rese note l’identità degli aggressori e che siano chiarite le ragioni di tanta violenza. L’avvocato ha evidenziato la necessità di una verifica approfondita da parte delle autorità competenti, insistendo sul fatto che i detenuti hanno diritto a un trattamento umano e sicuro. In attesa di risposte, la salma di Nocera è stata posta sotto sequestro e verrà sottoposta ad autopsia. Questa indagine mira a fare chiarezza sulle ferite che hanno causato la sua morte. È previsto che gli esami autoptici possano rivelare informazioni cruciali sull’eventuale responsabilità di terzi, così come sulla dinamica dell’aggressione. Le indagini e il contesto carcerario - Le autorità locali hanno avviato un’inchiesta per far luce su questo tragico episodio, al fine di garantire giustizia per la vittima e per la sua famiglia. I funzionari del carcere di Poggioreale sono stati avvisati della situazione, ma le prime comunicazioni non hanno soddisfatto le richieste di chiarezza da parte della famiglia e degli attivisti per i diritti umani. L’episodio di Nocera si inserisce in un panorama più ampio di problemi legati alle violenze e alle condizioni delle carceri italiane, in particolare in quelle strutture con problemi di sovraffollamento e gestione. I diritti dei detenuti continuano a essere un tema caldo, con richieste di riforme e miglioramenti nella gestione dei penitenziari. La speranza di una risoluzione di questo caso potrebbe contribuire a una maggiore attenzione su temi di giustizia e trattamento in carcere. L’attenzione del pubblico e dei media su queste questioni è fondamentale, affinché episodi simili non passino inosservati e affinché vengano adottate misure più efficaci per garantire la sicurezza e i diritti dei detenuti. Modena. Quarto morto in un mese al carcere di Sant’Anna. Il direttore: “Situazione difficile” di Valentina Lanzilli Corriere di Bologna, 5 febbraio 2025 Mohamed Doubali, 27 anni, in cura per tossicodipendenza, è stato trovato senza vita in cella: si tratterebbe di decesso accidentale, dovuto ad abuso di farmaci. Il Sappe: “Serve un carcere che rispetti la dignità dei reclusi”. Il carcere di Sant’Anna conta un altro morto, il quarto in un mese. Si tratta di un 27enne marocchino trovato senza vita lunedì mattina dagli agenti della polizia penitenziaria nella sua cella. Mohamed Doubali, questo il suo nome, non si sarebbe suicidato. A dirlo il direttore del carcere di Sant’Anna Orazio Sorrentini, intervenuto a margine della presentazione di un progetto teatrale che da anni coinvolge i detenuti. “La situazione è preoccupante certo, ma delle quattro persone decedute nell’ultimo mese, solo due sono suicidi”, sottolinea il direttore del penitenziario. Sarebbe infatti accidentale la morte di Doubali, deceduto per abuso di farmaci, che circolano con facilità tra le celle dei detenuti, anche tra i tossicodipendenti. Era stato visitato da uno psicologo - Sulla morte è intervenuto anche il garante regionale per i detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, che ha reso noto che mercoledì scorso il ragazzo era stato visto da uno psicologo che aveva ritenuto di declassare a zero il suo rischio suicidario che prima era lieve. Era in terapia per dipendenza da sostanze stupefacenti e in cura con il dipartimento di salute mentale, per questo assumeva farmaci specifici. Overdose da medicinali. Sarebbe questa la causa della morte anche del 27enne, originario del Marocco, che a fine dicembre era finito in coma irreversibile ed era stato dichiarato morto lo scorso 4 gennaio. Due suicidi e due morti per intossicazione da farmaci - Secondo il direttore della casa circondariale sono dunque due i suicidi. Quello di Andrea Paltrinieri, il 49enne modenese accusato dell’omicidio della ex moglie Anna Sviridenko che si è tolto la vita inalando gas lo scorso 7 gennaio e quello del 37enne macedone morto il 31 dicembre sempre per intossicazione. La causa della morte, overdose e non suicidio, di certo non alleggerisce il mese nero del penitenziario modenese, che conta quattro morti nelle ultime settimane. A questo si aggiunge poi l’episodio del 16 gennaio, quando due detenuti appiccarono il fuoco in cella. Uno di questi, un 25enne straniero, è tutt’ora ricoverato in prognosi riservata al centro grandi ustionati di Parma in gravissime condizioni. Sovraffollamento e fatiscenza - Una situazione difficile dovuta in primis alla presenza di 584 persone in una struttura che ne potrebbe ospitare 372. Secondo il direttore Sorrentini occorrerebbe lavorare anche su “un miglioramento della struttura, troppo vetusta”. Il riferimento è a delle operazioni di rinfresco e riverniciatura, che sarebbero necessarie per risolvere il problema di intonaco vecchio e umidità presente in alcune celle. Una situazione pesante che non riguarda di certo solo il Sant’Anna. Dalla Dozza a Bologna in mattinata è intervenuto anche Donato Capece, segretario generale del sindacato Sappe, che ancora una volta ha ribadito che quel serve è un carcere diverso, “che privi della libertà ma non della dignità”. C’è poi la questione delle continue aggressioni agli agenti, “in carcere ci sono psichiatrici e tossicodipendenti. Non è quello il luogo nel quale devono stare”. Intanto sul corpo di Mohamed Doubali è stata disposta l’autopsia, mentre la famiglia del giovane ha chiesto di poter vedere la salma. Modena. Morti in carcere, la mobilitazione. Dal Pd interrogazione al ministro di Stefano Marchetti Il Resto del Carlino, 5 febbraio 2025 Il direttore: “C’è preoccupazione”. Quattro detenuti deceduti, di cui due suicidi accertati. 584 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 372. I numeri parlano da soli: la situazione al carcere di Sant’Anna è a livello altissimo di criticità, e le quattro morti in cella nell’arco di poche settimane (due detenuti suicidi e altri due morti per cause accidentali, forse attribuibili all’abuso di farmaci) l’hanno riportata tragicamente in primo piano. “Non si può andare avanti così: una condanna alla detenzione al Sant’Anna non può equivalere al rischio di una condanna a morte”, scrivono i parlamentari modenesi del Pd Enza Rando, Stefano Vaccari e Maria Cecilia Guerra che hanno rivolto un’interrogazione al Ministro della Giustizia. “Se le carceri sono spazi sovraffollati, fatiscenti, in cui gli individui sono abbandonati a se stessi, con i farmaci come unica via di fuga, come si può pensare che potranno essere reinseriti nel tessuto sociale?”. Di certo al Sant’Anna la tensione è palpabile, e ieri mattina inevitabilmente questo tema è emerso anche durante la presentazione della “Trilogia dell’assedio” che porterà in scena alcuni detenuti al teatro delle Passioni. “C’è preoccupazione e noi senz’altro ci diamo da fare, anche con il supporto degli uffici superiori e delle altre autorità che ci hanno dimostrato vicinanza e solidarietà - ammette Orazio Sorrentini, direttore della casa circondariale di Modena -. Il sovraffollamento è sicuramente il problema fondamentale, peraltro comune anche ad altri istituti penitenziari. In più credo che sia necessario intervenire con risorse materiali che permettano anche il miglioramento della struttura. Si avverte infatti la vetustà di alcuni impianti, la presenza di umidità in alcune celle, la necessità di sistemare intonaci e di effettuare riverniciature”. Nel carcere di Modena “oggi la fragilità si sta esprimendo al massimo livello”, sottolinea Alessandra Camporota, ex prefetto, oggi assessore comunale alla sicurezza urbana e alla coesione sociale. Non possiamo pensare che il carcere sia un mondo a parte, lontano dagli occhi e quindi lontano dal cuore: “Credo che sia necessaria una mobilitazione cittadina, e avverto l’urgenza di fare iniziative”, aggiunge. In un clima delicato e pesante come quello che sta vivendo il carcere modenese, emerge ancor più forte l’importanza di progetti di recupero sociale rivolti ai detenuti, come la sartoria attivata al Sant’Anna dalle volontarie di Manigolde di Finale, il laboratorio di pasticceria, e a Castelfranco anche la collaborazione con l’Istituto superiore Spallanzani, le lezioni delle sfogline, le cene allestite all’interno della casa di reclusione con il servizio in sala curato dagli stessi reclusi, così da favorire il ‘dialogo’ fra due mondi apparentemente separati. “Il percorso che abbiamo attivato con il Teatro dei Venti è una bella pagina di teatro e una splendida pagina di socialità”, osserva Giuliano Barbolini, presidente di Ert. Dai prossimi giorni, alcuni detenuti saranno anche impegnati in corsi di formazione come tecnici, macchinisti, scenografi teatrali. “Se nel carcere ci fossero più attività come queste - conclude il direttore Sorrentini - il clima sarebbe migliore, perché un’attività come quella teatrale tiene impegnati veramente il corpo e l’anima”. Cassino (Fr). Detenuto morto in carcere, rinviato a giudizio il compagno di cella di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 5 febbraio 2025 La lunga battaglia per la verità da parte dei familiari di Mimmo D’Innocenzo ha consentito l’apertura di un processo in tribunale a Cassino. Un processo che servirà a fare piena luce sulla morte di Mimmo D’Innocenzo, il 31enne romano morto nel carcere di Cassino (Frosinone) il 27 aprile 2017. Un decesso avvenuto in circostanze mai chiarite e che ha portato la madre del giovane, Alessandra, ad una lunga battaglia per la verità. Perché la morte di Mimmo ha rischiato di cadere nell’oblio dopo una lunga serie di intoppi ieri, i Gup del tribunale di Cassino, ha rinviato a giudizio il compagno di cella del giovane. Ora sarà il processo, che partirà l’8 maggio, a stabilire cosa sia accaduto in quella cella della casa circondariale di via Sferracavalli. Il Gup di Cassino ha disposto l’apertua del processo a carico di Paolo Ciardiello, all’epoca detenuto insieme al 32enne. Mimmo D’Innocenzo era deceduto 8 anni fa nel carcere cittadino. Un malore, si era detto, poi l’improvviso decesso. Sul braccio un foro di siringa. Ma i familiari non hanno mai creduto all’ipotesi di una possibile overdose: non faceva uso di eroina dicono. “Ora il dibattimento processuale - conclude la mamma Alessandra - potrà rivelare la verità”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). L’agente addetto alle telecamere: “Mi fu chiesta la distruzione delle immagini” di Mirko Labriola, 5 febbraio 2025 Corriere del Mezzogiorno Al maxi-processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere il racconto dell’agente in qualità di teste. Nei giorni seguenti alla perquisizione straordinaria avvenuta il 6 aprile 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), durante la quale circa 300 agenti penitenziari picchiarono altrettanti detenuti del reparto Nilo, i poliziotti che avevano preso parte all’operazione erano molto preoccupati per le immagini delle telecamere interne, che avevano appunto ripreso le violenze, tanto da chiedere all’agente addetto alla sala regia di manomettere il sistema di videosorveglianza relativamente al giorno 6: a raccontarlo durante l’udienza del maxi-processo in corso all’aula bunker del carcere sammaritano - 105 imputati tra agenti, funzionari del Dap e medici Asl - è il testimone Domenico Migliaccio, sovrintendente della Penitenziaria addetto all’epoca dei fatti alla sala regia del reparto Nilo e attualmente in servizio all’istituto napoletano di Poggioreale. Migliaccio fu inizialmente indagato ma poi la sua posizione è stata archiviata, anche perché il 6 aprile non era in servizio causa permesso dovuto per la legge 104. Rispondendo alle domande del sostituto della Procura di Santa Maria Capua Vetere Alessandra Pinto, Migliaccio ha raccontato che “nei giorni successivi al 6, era il 10 aprile, mi fu chiesto se era possibile manomettere i dvr delle immagini, i colleghi erano molto preoccupati. La richiesta mi fu fatta telefonicamente dall’ufficio di sorveglianza da un collega qualificatosi come ispettore; credo di aver parlato con l’ispettore ... (imputato) ma non sono sicuro che fosse lui, visto che all’ufficio c’erano vari ispettori; mi fu comunque detto che sarebbe venuto un collega ... (non imputato, ndr) che avrebbe dovuto distruggere le immagini con un liquido, mi sembra candeggina, ma io mi rifiutai categoricamente, e risposi che se fosse venuto qualcuno lo avrei denunciato; a quel punto lasciai la sala regia e andai in infermeria per un forte stress dovuto ad un mal di pancia, mi feci fare certificato medico; prima di andarmene - aggiunge - incontrai la Commissaria ... (imputata, ndr) cui raccontai della richiesta fattami di distruggere le immagini; lei si spaventò e la prese a male, e mi disse, “non ti devi permettere di fare una cosa del genere” e io le risposi che così avevo fatto, che avevo detto no”. Migliaccio ha anche ricordato che quando tornò in servizio il giorno dopo la perquisizione straordinaria, un altro agente addetto alla sala regia, sempre imputato al processo, gli riferì che il 6 aprile, prima dell’inizio delle operazioni, dopo le 16, aveva ricevuto l’ordine di spegnere le telecamere ma senza riuscirvi, perché invece di spegnerle aveva “solo disattivato i monitor” ma non la registrazione. Migliaccio ricorda poi che diversi agenti dopo il 6 gli chiesero “se le telecamere erano funzionanti” e fa il nome di un altro agente non imputato al processo, in servizio al carcere di Secondigliano, “con cui parlammo fuori servizio”. Il teste ammette anche che una cosa del genere non era mai avvenuta a Santa Maria Capua Vetere. “Quello del 6 aprile fu un evento straordinario, fino ad allora lavoravamo in maniera tranquilla, rimasi sconvolto”. Dopo il 6 nel reparto Nilo la gestione dei detenuti cambiò, “era più severa con più perquisizioni del solito, mentre prima c’era una gestione più soft”, e in seguito alla contestazione del pm, Migliaccio fa i nomi di alcuni agenti imputati che dopo il 6 si comportavano in modo aggressivo verso i detenuti, con “atteggiamenti spavaldi”, “con spintonamenti e strattonamenti”. “Ha denunciato questi fatti?” gli ha chiesto Carlo De Stavola, avvocato difensore degli agenti. “No”. “Allora ha omesso di denunciare”, ha concluso il legale. Migliaccio ha anche raccontato di aver parlato con due detenuti, “uno dei quali - riferisce - mi disse di aver ricevuto una manganellata nei testicoli da un agente donna”. E di Hakimi Lamine, detenuto morto un mese dopo i pestaggi, del cui decesso rispondono 12 dei 105 imputati, Migliaccio dice che “stava male, litigava sempre con altri detenuti, dava fuoco alle stanze, e spesso dovevamo intervenire”. Bologna. Una sezione della Dozza per i “giovani adulti” trasferiti dagli Ipm sovraffollati di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 5 febbraio 2025 Una sezione specifica del carcere della Dozza in cui far convergere una settantina di detenuti “giovani adulti”, cioè maggiorenni sotto i 25 anni, per liberare gli istituti minorili sovraffollati. È una possibilità che scatena la levata di scudi dei sindacati della Penitenziaria. Dal Ministero della Giustizia filtra la conferma che effettivamente in via Arenula si sta vagliando la possibilità di accorpare una quota di detenuti giovani adulti, attualmente in Ipm, in una sezione di un penitenziario ordinario, ma garantendo “assoluta separazione” dai detenuti adulti. E l’istituto individuato sarebbe proprio la Dozza, sostengono i sindacati, visto anche che nei giorni scorsi c’è stata una visita del capo del dipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano. “Le scriventi organizzazioni sindacali esprimono serie preoccupazioni - si legge in una nota unitaria firmata da tutte le sigle della Penitenziaria e inviata a Dap, Ministero, provveditorato regionale e ai direttori della Dozza e del Pratello - in merito alla notizia che circa settanta detenuti “giovani adulti”, provenienti da tutta Italia e in carico alla giustizia minorile, presumibilmente i più problematici e poco inclini alle regole, potrebbero essere trasferiti per un periodo di tempo presso la casa circondariale Rocco D’Amato”. “Riteniamo che tale decisione - proseguono - non tenga conto di importanti criticità già esistenti nella struttura e nei servizi offerti. Chiediamo, con urgenza, dove verranno ubicati, visto che la “Rocco D’Amato” ospita oltre 850 detenuti a fronte dei 490 posti disponibili”. A preoccupare la penitenziaria sono non solo le difficoltà di gestione e il sovraffollamento già insostenibile della Dozza, ma anche l’impossibilità di garantire ai detenuti giovani adulti, che hanno commesso reati da minorenni, un percorso socializzante e rieducativo diverso rispetto agli adulti, come la legge impone. Per quanto la proposta sia ancora in fase embrionale, secondo il Ministero, al Pratello ci sarebbe invece già una data imminente e la direzione starebbe lavorando in questo senso. Tutto ciò, secondo i sindacati, comporterebbe “un rischio concreto di compromettere ulteriormente la sicurezza e il benessere dei detenuti e degli operatori: l’intero distretto dell’Emilia Romagna soffre di un sovraffollamento di oltre il 130%. Questo modus operandi, metterà ancora di più a rischio il percorso rieducativo dei giovani detenuti, costretti a convivere con reclusi più anziani, spesso criminali con una lunga esperienza, rischiando di trasformare il carcere in una “scuola del crimine”. Bologna. Detenuti degli Ipm trasferiti alla Dozza: i Garanti si oppongono Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Desta forte preoccupazione la decisione del Dipartimento della giustizia minorile di collocare 60-70 giovani reclusi in una sezione dedicata all’interno della Casa Circondariale di Bologna. L’emergenza sovraffollamento negli istituti penali per i minorenni sta spingendo il Dipartimento della giustizia minorile a valutare soluzioni straordinarie, ma la proposta che circola in questi giorni sta sollevando forti dubbi e preoccupazioni tra i Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo fonti sindacali, il piano prevede il trasferimento di 60-70 giovani adulti detenuti in diversi istituti minorili verso una sezione dedicata all’interno della Casa Circondariale di Bologna. Pur rimanendo separati dalla popolazione detenuta adulta, questi giovani sarebbero comunque collocati in un ambiente diverso da quello previsto per la giustizia minorile, in un contesto che verrebbe considerato, a livello formale, un’appendice dell’Istituto Penale per i Minorenni di Bologna. L’iniziativa, definita temporanea, dovrebbe durare alcuni mesi, fino alla creazione di nuovi posti all’interno del circuito detentivo minorile, anche con l’apertura di nuove strutture dedicate. L’intento sembra essere quello di spostare quei giovani che, all’interno degli istituti minorili attuali, non hanno mostrato una reale adesione ai progetti educativi in corso. Tuttavia, questa ipotesi organizzativa ha generato forti perplessità tra i Garanti della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Bologna, che hanno espresso le loro preoccupazioni in una nota congiunta. L’allarme dei Garanti: “Soluzione che desta enorme preoccupazione” - “I presupposti di amplificate difficoltà sembrano già essere concreti. Se tale soluzione organizzativa sarà davvero messa a terra, la pezza sembra già essere peggio del buco”, si legge nella nota diffusa dai Garanti. Nel documento si evidenziano diversi punti critici, a partire dall’alta concentrazione di detenuti con situazioni personali e comportamentali complesse, che potrebbe creare un ambiente ancora più problematico. Le principali criticità riguardano il rischio di una debole offerta educativa e rieducativa, nonché la possibilità che i giovani detenuti possano subire influenze negative dalla popolazione carceraria adulta, nonostante la separazione fisica prevista dalla struttura. “Si è appreso da fonti sindacali di un’inedita soluzione organizzativa dipartimentale per fronteggiare a livello nazionale l’attuale sovraffollamento negli istituti penali per i minorenni che consisterebbe nel concentrare 60-70 ragazzi giovani adulti provenienti da vari istituti - all’interno di una sezione detentiva della Casa Circondariale di Bologna, comunque tenuti separati dalla popolazione detenuta adulta, con personale applicato della giustizia minorile. Tale contesto verrebbe considerato, a tutti gli effetti, parte del circuito detentivo minorile, come se fosse un’appendice dell’Istituto Penale per i Minorenni di Bologna”, si legge nel documento. I Garanti temono che questa misura possa peggiorare le condizioni già difficili all’interno degli istituti di detenzione minorile, senza fornire soluzioni concrete e strutturali al problema del sovraffollamento. “Tale soluzione organizzativa, se confermata, suscita enormi perplessità e grave preoccupazione nella misura in cui si prefigura un’alta concentrazione di vicende personali e detentive più problematiche di altre, anche incardinata nella prospettiva concreta di una precaria e incongrua offerta di interventi educativi, e anche non escludendo che possano comunque prendere corpo forme di pericolosa e negativa influenza da parte della popolazione detenuta adulta in danno dei ragazzi, benché tenuti separati”. Richiesta di chiarimenti al Dipartimento della giustizia minorile - Di fronte a queste criticità, i Garanti hanno inviato una nota ufficiale ai vertici del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, chiedendo un chiarimento sulla veridicità di questa proposta e, nel caso in cui venga confermata, un confronto per approfondire i dettagli del piano. “Con apposita formale nota congiunta, indirizzata ai vertici del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, si è chiesto un riscontro rispetto alla effettiva sussistenza di tale soluzione organizzativa, anche chiedendo, in caso affermativo, un confronto per avere il dettaglio di tale opzione”, conclude la nota. Il dibattito resta aperto e il tema del sovraffollamento negli istituti penali minorili continua a rappresentare una sfida urgente per il sistema della giustizia minorile italiana. Resta da vedere se il Dipartimento risponderà alle preoccupazioni sollevate e se si troveranno soluzioni alternative per garantire un trattamento più adeguato ai giovani detenuti. Milano. L’Arcivescovo Delpini: “Mi chiedo se il carcere abbia un senso” ansa.it, 5 febbraio 2025 “Io non ho mai capito se il carcere abbia un senso, se la forma di pena nella detenzione sia una cosa giusta o che ha un senso. Le condizioni attuali del carcere certamente rendono ancora più problematico questo”. È l’osservazione dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, a margine dell’evento promosso dall’Università Cattolica, “Ricostruire la speranza: pena e comunità in dialogo”. “Lo sforzo di tutto l’impianto di chi si occupa di giustizia, del giudizio penale penso debba essere quello di una riforma profonda, non saprei indicare una via da percorrere se non una che cerca il bene comune - ha aggiunto -. Che vuol dire anche il bene di chi lavora in carcere, di chi è detenuto e il bene possibile da chiedere a coloro che hanno fatto dei danni alla società, secondo la logica della giustizia riparativa che sta diventando un’ipotesi realistica”. “L’opera di visitare i carcerati è una testimonianza che queste persone in qualche modo fanno parte della comunità e non sono estranei, non sono vite finite in un mondo a parte inaccessibile - ha osservato ancora Delpini. Le mura del carcere come si devono interpretare, la società si protegge da coloro che l’hanno danneggiata con il loro comportamento delittuoso, le mura impediscono la fuga di coloro che subiscono la pena come privazione della libertà”. “Le mura contribuiscono a dissuadere dal creare rapporti tra fuori e dentro. La visita ai carcerati è però una forma di riconoscimento dell’appartenenza del carcere alla città - ha concluso -, di coloro che sono costretti lì o che ci lavorano”. Catania. Con la Colletta Alimentare i detenuti tornano a sentirsi utili bancoalimentare.it, 5 febbraio 2025 Quando Ciccio ogni sabato si reca al carcere di Piazza Lanza di Catania respira un odore che, per molti, può essere improbabile e banale: oltre le sbarre ci sono uomini, persone, con spaccature di vita, certo, ma con occhi pieni di solidarietà. È l’odore di umanità e di generosità ad essere vivo tre le stanze dei detenuti, quasi a contrastare il rumore delle chiavi che aprono e chiudono porte. Il sabato della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare questo odore diventa più forte. Da 10 anni, Francesco Denaro (per noi Ciccio), che fa parte dello staff di Banco Alimentare della Sicilia, è la persona che indossa la pettorina della Colletta un po’ speciale. Il suo volto, insieme a quello degli altri volontari, è quello che i detenuti conoscono e riconoscono, perché proprio la Colletta è una parte importante del percorso che il Gruppo dei volontari della Cappellania del carcere di Piazza Lanza costruisce oltre le sbarre. C’è la confessione, c’è la speranza, c’è il racconto di cosa fa Banco Alimentare insieme alle proprie organizzazioni partner. “In occasione degli incontri che facciamo, racconta Ciccio, abbiamo l’opportunità di spiegare cosa fa Banco Alimentare e il valore della Colletta. La diffidenza che spesso accompagna iniziative come queste e che porta le persone a chiedersi che fine farà il cibo raccolto, è il più delle volte superata tra i detenuti, perché molti dei loro familiari vive la povertà alimentare e sono accolti dalle organizzazioni partner di Banco Alimentare”. Mani oltre le sbarre che donano pasta o passata di pomodoro; biscotti per quel bambino affinché possa fare colazione al mattino come tutti gli altri; un grazie per ciò che fate sussurrato. E poi umanità e gratitudine, tanta. “Ciò che mi sorprende ogni volta, aggiunge Ciccio, anche se sono trascorsi 10 anni dalla prima Colletta, è la grande umanità e solidarietà che c’è tra i detenuti. Solidarietà che poi si trasferisce verso l’esterno; gesti come la Colletta rappresentano la parte pratica di questa grande umanità”. “Alle volte penso che servirebbe una sorta di muro trasparente proiettato dal carcere all’esterno per percepire tutta questa solidarietà. Per vedere gli armadietti che si aprono quando un nuovo detenuto non ha vestiti e allora ecco buste piene di maglioni e pantaloni che vengono donate”. La Colletta al carcere di Piazza Lanza è strutturata così: qualche giorno prima i detenuti vengono informati dell’evento, l’agente penitenziario che si occupa di raccogliere la lista delle cose da comprare aggiunge anche ciò che i detenuti scelgono di donare per la Colletta. “Al valore umano e solidale, aggiunge Ciccio, che la Colletta racconta, va anche aggiunto il gesto intenso che i detenuti fanno, perché per loro donare un pacco di pasta o una passata di pomodoro ha un valore molto più alto. Noi, magari, possiamo andare al supermercato e scegliere i prezzi più bassi, loro certamente non possono fare questo”. Al di là nel raccolto complessivo, in questi 10 anni c’è sempre più consapevolezza del gesto della Colletta tra i detenuti tanto che ormai quasi l’80% di loro partecipa. La bellezza di tutto questo è certamente legata al fatto che la Colletta viene donata per stanza, seguendo quindi il ritmo della condivisione, dell’io che diventa noi, del “se tu non puoi, insieme però possiamo” ma anche e soprattutto che la Colletta fa sentire le persone oltre le sbarre utili per la società”, aggiunge Ciccio. “Una delle principali difficoltà che vive un detenuto è proprio questa, perdere il senso, non sentirsi più utili per il territorio, per la propria famiglia o i propri bambini. La Colletta restituisce la bellezza del sentirsi parte di qualcosa e di fare un gesto per qualcuno”. Pasta e biscotti, tonno in scatola e passata di pomodoro: buste che si riempiono e portano speranza dentro e fuori le sbarre. Nel carcere di Piazza Lanza la Colletta ha l’odore di Gratitudine. Modena. Dal violare le regole a farle rispettare, le persone detenute diventano arbitri di Veronica Rossi vita.it, 5 febbraio 2025 Il Comitato territoriale del Csi di Modena da molti anni lavora all’interno dei penitenziari della zona, utilizzando lo sport come leva per abbattere i pregiudizi e per instaurare un dialogo. Tredici persone detenute sono state anche formate per diventare arbitri di calcio. “Qualunque persona può essere risocializzata, se viene inserita in una situazione appropriata, che miri al recupero e alla formazione, offrendo possibilità diverse a chi spesso è stato destinato solo alla criminalità dall’ambiente di provenienza”. Sono tanto forti quanto vere le parole che una persona detenuta ha condiviso con il Comitato territoriale del Csi di Modena poco prima della scarcerazione. Si può dire che lavorare all’interno dei penitenziari attraverso la pratica sportiva sia una missione per l’associazione, che ha una lunga storia in questo campo, che inizia nel 2003, nella sezione femminile della casa circondariale di Sant’Anna di Modena. Poi ha continuato nella sezione maschile dello stesso istituto, per poi entrare anche nelle case di reclusione di Saliceta San Giuliano e Castefranco Emilia. “Vent’anni di carcere dedicati all’educare attraverso lo sport”, dice Emanuela Carta, presidente del comitato territoriale del Csi di Modena, “al pensare l’attività sportiva come strumento di relazione e incontro dell’altro lasciando fuori dal campo i pregiudizi, lavorando sulla condivisione delle regole e sul rispetto dell’avversario, sulla pratica motoria come momento di allentamento delle tensioni e di riattivazione psico-fisica. Lo sport come linguaggio universale e per questo interculturale, fare sport per imparare a gestire le emozioni, anche le più negative, e per insegnare a saper vincere e perdere, per creare un ponte fra l’esterno e l’interno grazie alla disponibilità di tanti volontari, allenatori e società sportive del nostro territorio”. Il lavoro del Csi di Modena è stato possibile perché l’associazione si è messa in dialogo e in collaborazione con la polizia penitenziaria, la direzione dell’istituto e l’ufficio educatori, che hanno supportato i percorsi all’interno delle carceri. Fare sport non vuol dire solo tenersi in forma. Anzi: è un linguaggio universale, che abbatte barriere e crea legami. “Attraverso lo sport, i detenuti e le detenute imparano il valore della collaborazione, del rispetto e della disciplina. In un ambiente come quello carcerario, dove le tensioni sono alte e le relazioni spesso segnate dalla difficoltà, l’attività fisica rappresenta una valvola di sfogo che aiuta a ridurre lo stress e a migliorare il benessere psicofisico”, commenta Carta. “Inoltre, lo sport favorisce una crescita personale, permettendo ai partecipanti di sviluppare competenze come la resilienza, la capacità di lavorare in team e di affrontare le sfide con spirito positivo”. L’attività motoria è anche un ponte di comunicazione per volontari e operatori che arrivano dall’esterno, per favorire il dialogo, aprendo spazi di confronto. Col tempo, l’associazione si è resa conto che la pratica motoria non era sufficiente, ma doveva essere arricchita da un percorso culturale e formativo che servisse a rimettere in moto la mente. È così che è nata la “palestra del confronto”: progetti di lettura e scrittura per interrompere l’isolamento del singolo, per accrescerne la capacità di riflessione, dandogli la possibilità di comprendere il proprio vissuto attraverso le vicende narrati in testi letterari. Tutto questo, aumentando anche la capacità di comprensione del testo in lingua italiana. “In questa palestra atipica sono arrivati anche gli studenti delle scuole di secondo grado di Modena, Istituto Tecnico Fermi, Liceo Sigonio e Istituto Professionale Cattaneo”, continua la presidente. “La presenza degli studenti ha favorito ulteriormente la partecipazione delle persone recluse che attraverso il confronto su temi complessi ha permesso loro di attivare una discussione paritaria e di interagire adeguatamente”. Attualmente, l’associazione sta seguendo quattro progetti, due a Modena e due a Castelfranco Emilia, rispettivamente “Il mio campo libero” e “Sportivi: dentro e fuori”. Le attività sono finanziate da Sport e Salute attraverso i bandi Sport di Tutti Carceri 2023 e 2024, nonché dalla Regione Emilia Romagna e dalla Cassa delle Ammende, grazie al progetto “Territori per il reinserimento”. “A Castelfranco Emilia, dal 2023, abbiamo attivato un percorso di formazione per l’acquisizione della qualifica di arbitro di calcio” dice Carta. “I detenuti e internati selezionati per il corso prestano il proprio servizio durante le partite amichevoli mensili all’interno dell’Istituto e in futuro nelle partite dei campionati esterni organizzati dall’associazione. Inoltre, grazie alla convenzione con la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, i detenuti in regime di art. 21 hanno l’opportunità di svolgere attività di volontariato in associazione e di partecipare agli eventi e alle manifestazioni sportive organizzate dal Csi, favorendo così una maggiore integrazione con la società civile”. Fare gli arbitri non è solo un passatempo: grazie alla recente normativa è diventata una professione: è così che il corso organizzato dal comitato di Modena, in collaborazione con il Csi nazionale nell’ambito del progetto “Sportivi sempre” è particolarmente importante. Le persone detenute coinvolte - in tutto tredici -hanno ottenuto una qualifica ufficiale riconosciuta. “A settembre 2024, alcuni degli arbitri formati hanno preso parte al raduno generale, un’occasione per confrontarsi con i colleghi esterni e condividere una testimonianza significativa”, racconta la presidente. “La riflessione sul rispetto delle regole, fondamentale sia nello sport che nella vita, è stata particolarmente toccante: per coloro che hanno trasgredito, la possibilità di diventare ‘custodi delle regole’ è stata un’importante opportunità di crescita e di riflessione personale, non solo come arbitri, ma anche come persone”. Le attività del Csi all’interno della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia sono diventate anche oggetto di una mostra al Laboratorio aperto di Modena, dedicata al progetto “Il mio campo libero”. In esposizione 24 scatti dei fotografi Dante Farricella e Diego Camola, che raccontano l’impegno del comitato a favore delle persone detenute. “Abbiamo cercato di raccontare l’effetto dell’attività sportiva a livello di socializzazione e di benessere di chi è recluso”, spiega Farricella, “prendendo come spunto un allenamento e una partita. Abbiamo voluto comunicare l’incontro con le persone, con la squadra. Lo sport ti porta ad aprirti: anche se sei tra quattro mura per quelle due ore sei una persona che si apre al resto del mondo e che si mette in contatto con i compagni in maniera diversa. Sul campo siamo tutti uguali, ci relazioniamo in maniera perfettamente naturale, non nel modo innaturale che si ha di solito a tutti i livelli nella relazione carceraria”. Dove ci porta un potere fuori controllo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 5 febbraio 2025 I giudici fanno politica quando omettono di sanzionare i comportamenti illegittimi del governo, non quando esercitano l’azione penale nei confronti dei potenti. Il principio della divisione dei poteri è all’origine del costituzionalismo moderno. “Perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere”, tuonò Montesquieu. Senza separazione dei poteri a garanzia dei diritti nessuna società ha una costituzione, sancì la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789. È questo il principio che viene messo in discussione quando si afferma che la magistratura non può sindacare le scelte politiche del governo. È ben possibile che alcune decisioni del potere giudiziario siano sbagliate: si ricorra in appello, si utilizzino tutti gli strumenti che il nostro ordinamento prevede per assicurare il diritto di difesa e il giusto processo. Si può certamente criticare l’operato di qualunque procura o le sentenze di qualsiasi tribunale, quel che invece non può essere messo in discussione è la legittimità del controllo giurisdizionale sugli atti dei governanti. I giudici fanno politica quando omettono di sanzionare i comportamenti illegittimi del governo, non quando esercitano l’azione penale nei confronti del potere. Sbaglia chi afferma che non si può processare chi difende i confini, perché anche le politiche di sicurezza e migratorie sono tenute a rispettare il diritto, tanto quello nazionale, quanto quello internazionale. Ogni volta che si è difronte ad un fatto determinato e non inverosimile, astrattamente qualificabile come reato, un’indagine giudiziaria è doverosa. Un’obbligatorietà dell’azione penale che potrà condurre, auspicabilmente, alla non iscrizione del reato, alla archiviazione ovvero all’assoluzione dell’indagato, ma ciò solo dopo che l’autorità giudiziaria avrà svolto le sue indagini per l’accertamento dei fatti. Tanto più sarà obbligata l’azione se essa coinvolge la responsabilità di un ministro nell’esercizio delle sue funzioni, dove il controllo deve essere ancor più severo, nel rispetto del principio della soggezione dei poteri alla legge. L’idea opposta secondo la quale chi viene eletto - per il solo fatto di avere una indiscutibile legittimazione popolare - sia al di fuori da ogni controllo giurisdizionale è premoderna. La sovranità non appartiene al governo, bensì al popolo, il quale l’esercita nelle forme ed entro i limiti posti dalla costituzione, dalle leggi nazionali e dai vincoli derivanti dagli ordinamenti sovranazionali. È questo che rende inaccettabile la vicenda legata alle ripetute deportazioni di migranti in Albania. Non siamo qui davanti ad una decisione isolata di un giudice che non viene condivisa e che potrebbe tranquillamente essere impugnata in Cassazione senza tanto clamore, ma ci troviamo di fronte ad una caparbia volontà di imporre una decisione politica contra ius. Come è stato scandito: il centro albanese e le procedure abbreviate di rimpatrio “funzioneranno” perché così vuole il governo, oltre ogni regola di diritto. E allora, è certamente possibile dire che chi ostacola questo disegno si pone contro il governo, ma si deve aggiungere che si colloca a difesa della costituzione. Chi invece continua a cercare strade per eludere quanto stabilito dai giudici (derogando al principio del giudice naturale e andando alla ricerca di tribunali proni, che per fortuna non trova), senza neppure attendere che altri giudici - quelli europei - rispondano alle questioni loro poste, mostra una preoccupante propensione alla trasgressione della legalità. Se questi sono i poteri costituiti c’è da riflettere sulla tenuta dello stato di diritto. Vero è che esistono “immunità” a tutela della rappresentanza parlamentare e di chi ricopre cariche di governo che valgono a salvaguardare le funzioni. In questi casi sono previste procedure particolari che i magistrati devono adottare (richiesta di autorizzazione al parlamento, limiti alle proprie capacità di indagine, trasferimento degli atti loro pervenuti ad altri tribunali). Ci sarebbe da preoccuparsi se il potere giudiziario non rispettasse tali procedure speciali, non quando diligentemente le segue, avvisando poi gli interessati degli atti compiuti, come doverosamente gli impone la legge costituzionale. L’ultimo caso è quello che appare il più significativo della crescente propensione degli “eletti” a non sottoporsi più ad alcun controllo: né giurisdizionale, ma ora neppure politico. Un’immunità che si traduce in privilegio, rendendo insindacabile ogni atto compiuto durante il mandato. Sarà poi solo la folla plaudente a decidere se confermare o meno l’operato del sovrano, secondo il rito barbaro dell’acclamazione del capo. Nella vicenda che ha visto coinvolto il presunto torturatore Elmasry bisogna partire dal fatto che la Corte penale internazionale ha richiesto all’Italia l’arresto e l’estradizione, mentre è stato scarcerato dalla Corte di appello di Roma e poi riportato in Libia dal governo del nostro Paese. Non v’è dubbio, dunque, che l’Italia deve rispondere per non aver dato seguito ad un obbligo internazionale cui pure è vincolata (dalle norme che hanno dato attuazione al Trattato istitutivo della Cpi). Può darsi - come fa intendere senza dirlo - che vi siano state ragioni legate agli accordi con la Libia che si sono ritenute di dover far prevalere rispetto agli obblighi contratti con la Corte penale internazionale, né può escludersi che siano stati fatti valere motivi di tutela della sicurezza nazionale. Ma proprio ciò - la necessità di chiarire i fatti per poterne poi valutare le responsabilità politiche ed eventualmente giuridiche - rende necessario, per la salvaguardia dello stato di diritto e della democrazia costituzionale, che il governo dia conto del suo operato. In sede politica, dinanzi al parlamento; in sede giurisdizionale, quando dovrà necessariamente rispondere alla Cpi. Mentre al giudice nazionale è richiesto di verificare se tutto si è svolto nel rispetto della legalità. Essendo attività compiuta nell’esercizio delle funzioni di governo da ministri responsabili per gli atti dei propri dicasteri e dal presidente del Consiglio in qualità di responsabile della politica generale del governo, tale verifica, conformemente a quanto definito dalle prerogative costituzionali, dovrà essere eseguita dal tribunale dei ministri. Dov’è lo scandalo? Il controllo è dovuto, ma dovrebbe essere anche voluto. Le “zone rosse” nelle città e la sicurezza al primo posto: perché è un gioco pericoloso di Luigi Testa* Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2025 Nei giorni di Capodanno, la scelta della Prefettura di Milano di istituire “zone rosse” in città aveva avuto una certa eco. L’eco è passata, ma la misura no. L’ordinanza, infatti, ha un tempo di vigenza che dura fino al prossimo 31 marzo, e dunque è tuttora in vigore. La misura può occasionare riflessioni importanti sui rischi della nostra democrazia; se ci si mette, beninteso, nella prospettiva di accettare che la nostra democrazia possa conoscere dei rischi. Forse non siamo ancora usciti del tutto, infatti, da una stagione di eccessiva self-confidence riguardo alle conquiste democratiche, che ha preso avvio nel secondo dopo-guerra. La stessa eccessiva self-confidence che, sempre da allora, ci aveva riguardato quanto alla impossibilità di una nuova guerra sul territorio europeo: impossibilità oggi francamente smentita. Così è per l’impossibilità di una regressione della democrazia verso forme di autocrazia; e speriamo di non essere smentiti anche qui con tanta evidenza. Più si approfondisce la conoscenza dei sistemi democratici, delle loro pur ben costruite garanzie, dei loro pur sofisticati e attenti meccanismi, più si capisce in realtà quanto deboli essi siano, e quanto sia facile, al di là dell’illusione, farli scivolare in forme di autocrazia. Con passi lenti, inavvertiti, e non necessariamente parte di una regia perversa e occulta, ma che semplicemente anestetizzino rispetto a forme intollerabili di restrizione della libertà, con un fraintendimento delle garanzie in una logica mortifera che oppone pragmatismo a proceduralismo. Il tutto, sulla base di ragioni che appiano, in fondo, bonariamente condivisibili. Come è per l’esigenza securitaria che fonda l’ordinanza milanese, anche se questo non ne attenua i dubbi sulla legittimità, o almeno le ragioni di perplessità democratica. Alcune ragioni riguardano la natura dello strumento: la libertà personale e la libertà di circolazione, entrambe tutelate costituzionalmente, possono essere limitate da provvedimenti adottati con legge, e, in alcuni casi, motivati dall’autorità giudiziaria. Qui siamo invece davanti ad un provvedimento prefettizio, che è un atto accompagnato da ben minori garanzie di quelle del controllo democratico garantito dal procedimento legislativo. Che è un procedimento pubblico, partecipato dalle minoranze, e che peraltro è soggetto allo scrutinio prima del Presidente della Repubblica e poi eventualmente anche della Corte costituzionale. Altri motivi di perplessità riguardano le categorie dei soggetti destinatari. Si parla di “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti”: o queste condotte sono già reato - e allora non c’è bisogno di aggiungere altro -, o, se non lo sono, la formulazione è di una vaghezza intollerabile laddove si parla di limitazione di diritti fondamentali. E poi - peggio - si parla di soggetti “destinatari di segnalazioni dell’Autorità giudiziaria” per determinati reati. Attenzione: non soggetti condannati, o almeno indagati, no: appena “destinatari di segnalazioni”. Con una grave violazione della presunzione di non colpevolezza. Sospendiamo per un attimo il giudizio sull’efficacia e sulla validità della misura. Diciamo solo, incidentalmente, che provvedimenti simili innalzano l’allarme sociale, con effetti più criminogeni che deterrenti; e che ci sarebbe da affrontare il tema del fraintendimento del concetto di “sicurezza”, ridotto ad “ordine pubblico”, mentre della “sicurezza sociale” nessuno si occupa più. Ma qui il punto è un altro, e riguarda il pretesto della misura. Sarebbe sbagliato liquidare sbrigativamente l’esigenza di arginare l’azione di “soggetti molesti e aggressivi, dediti alla commissione di reati e non in regola”. La “percezione di sicurezza dei cittadini” è oggettivamente un tema di cui il potere pubblico deve tener conto. Ma è proprio qui che la china è scivolosa. La domanda di protezione dei cittadini, infatti, riceve una immediata risposta da misure di questo tipo, e, poiché nella gerarchia istintuale di ciascuno l’autoconservazione viene prima della libertà, finiscono per perdere ogni valore le considerazioni sulle garanzie che tali misure infrangono. È un gioco pericoloso, questo, sintomo di una democrazia ormai in crisi: perché è in crisi una democrazia dove alle garanzie democratiche si preferisce la sicurezza. Una crisi - absit iniuria - di stupidità, perché una volta che tali garanzie sono esizialmente indebolite, esse smettono di operare non solo nei confronti del “nemico” di turno, ma nei confronti di chiunque. Compresi quelli che si son sentiti rassicurati dalle misure di “daspo urbano”. E se nessuno insinua che dietro a questa china ci sia malafede, o una regia occulta, si deve però almeno riconoscere una certa baldanzosa superficialità. Ma attenzione: di disinvoltura, la democrazia muore. *Docente di Diritto pubblico comparato Salute mentale. Il nuovo Atto di indirizzo del Ministero non è affatto rassicurante di Andrea Angelozzi* quotidianosanita.it, 5 febbraio 2025 Raccontano che un signore era alla fermata del bus da 4 ore: notato da un passante che nel frattempo era andato e tornato dal lavoro, ha spiegato che in realtà lui aveva atteso il bus solo per 30 minuti… il resto del tempo era solo per la curiosità di vedere quando arrivava. Confesso che ormai è con la stessa sensazione che mi avvicino ai documenti programmatici, e con questo spirito ho letto l’Atto di Indirizzo del Ministero 2025 del quale puntualmente ci riferisce Quotidiano Sanità. Sarebbe ingiusto dire che mancano i riferimenti alla salute mentale. La maggior parte sono riferimenti indiretti. Colgo in tal senso il rilievo dato alla attività formativa ma mi domando in che senso può aiutale la salute mentale l’attenzione alle infezioni ospedaliere. Ed ho molti dubbi che la sicurezza per gli operatori psichiatrici sarà meglio garantita da una aspra repressione degli episodi di violenza, da un filtro degli accessi e dalla video sorveglianza, quando si sa da tempo che solo una adeguata continuità di cura tutela dalla violenza relativa ai disturbi psichiatrici. Certo, continuerà attuazione del Programma Equità, che però, con investimenti molto modesti, riguarda la salute mentale di solo sette regioni; probabilmente qualche maggiore collaborazione fra professionisti nascerà dallo sviluppo del fascicolo elettronico (sempre che non serva per sostituire il parlarsi con il guardare un monitor), mentre la telemedicina darà l’illusione di poter seguire adeguatamente pazienti psichiatrici attraverso videochiamate, per le quali peraltro occorre come minimo che all’altro capo qualcuno ci sia nei Centri di Salute Mentale, sfidando la progressiva desertificazione. Colgo le promesse di un potenziamento della medicina territoriale, ma vedo che si parla di MMG, di Case della comunità e di farmacie, dimenticando i servizi che operano sul territorio. Alla salute mentale è dedicato un paragrafo specifico di ben 20 righe (su circa 1600), di cui cinque dedicate alla demenza ove proseguono le attività in atto; cinque righe sono dedicate all’ambito penitenziario in cui si include la continuazione di quanto i DSM fanno attualmente per i pazienti autori di reato e quanto fa la psichiatria nelle carceri; quattro sono dedicate all’autismo dove proseguiranno gli interventi in atto. Evidentemente c’è grande soddisfazione per i risultati ottenuti. Le restanti sei righe spiegano che “particolare attenzione sarà rivolta al settore della salute mentale e alle misure volte a rafforzare i servizi di supporto psicologico e psichiatrico” cosa che dovrebbe avvenire anche con una interessante ma non meglio precisata “stipula di Protocolli di Intesa e Accordi di collaborazione interistituzionali finalizzati al rafforzamento della sinergia operativa intersettoriale su tematiche di grande interesse e rilevanza per la salute pubblica.” Molto interessante, ancora di più se venisse spiegato cosa significa, e soprattutto se qualcuno pensa che la “sinergia operativa intersettoriale” possa risolvere le carenze di progetto e di risorse che ormai impregnano la salute mentale. Per quelle probabilmente si pensa all’ “aggiornamento del Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale (Pansm) del 2013 in coerenza con il piano del WHO “Comprehensive Mental Health Action Plan 2013- 2030”, che però rischia, come il precedente, di illustrare una serie di cose bellissime da fare per talune patologie, senza dire con quali risorse, e senza nemmeno sfiorare le tante questioni più generali: da un TSO a rischio di illegittimità insieme alla legge 81/2012, alla posizione di garanzia, alla sempre minore rispondenza dei servizi alle problematiche attuali, al crescente ruolo dei privati, al progressivo allontanarsi da un modello di psichiatria di comunità, all’impoverimento di personale, giusto per citarne qualcuna mentre sono alla fermata del bus. Quanto alla salute mentale dei minori, probabilmente rientra nella “promozione della salute delle donne, dei bambini e degli adolescenti” che “rappresenta un fondamentale investimento per lo sviluppo e il benessere della società nella sua interezza”, in un generico “promuovere il benessere psicofisico degli adolescenti” ed in un ancor più generico “rafforzare il ruolo dei Consultori Familiari e valorizzazione dell’accessibilità e della prossimità dei servizi di base garantiti dal SSN”. Il programma alla fine fa due cose: rassicura che la salute mentale è fondamentale e riceve attenzione particolare, e promette che di prosegue quello che si sta facendo. E dal momento che la attenzione particolare da anni non ha minimamente affrontato, tantomeno risolto i vari problemi della salute mentale, e che quello che si sta facendo, e che il SISM ci testimonia, è il progressivo impoverimento dei servizi, con il ripristino di una logica, o di abbandono con delega alle famiglie, o neoistituzionale, non pare affatto rassicurante. Mentre aspetto il bus, mi vengono alcune domande di fondo. Cosa serve scrivere un progetto che per almeno per quanto riguarda la salute mentale si limita a fare promesse che mi ricordano quelle che scrivevo da bambino per Natale e che per giunta in sostanza promettono di continuare l’attuale drammatico stato delle cose? E chi ha scritto queste cose ha provato a vedere i dati relativi al funzionamento della salute mentale in Italia? A cosa serve il Sistema Informativo Salute Mentale se nessuno ne tiene conto e non ha mai portato ad alcuna effettiva programmazione? E soprattutto, chi ha scritto queste righe ha mai sentito dei tanti problemi che costantemente, in ogni sede, operatori, pazienti, familiari ed associazioni scientifiche pongono circa quello che non funziona nella attuale organizzazione? *Psichiatra Migranti. Il Decreto Cutro fa flop: impossibile applicare l’aggravante dell’articolo 12 bis di Simona Musco Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Il decreto Cutro? Un flop. Non solo per i trattenimenti, annullati perché ritenuti illegittimi, ma anche in Tribunale, dove finora la specifica aggravante derivante dalla morte della persona trafficata non è stata mai applicata a livello sanzionatorio. L’ultimo caso come riporta Il Reggino - è quello di Locri, dove un processo celebrato a seguito di uno sbarco - nel quale ha perso la vita un giovane pakistano, Ashfaq Husnain, poco più che ventenne - si è concluso con due condanne e cinque assoluzioni. Condanne che, però, si fondano sulla derubricazione dell’articolo 12 bis introdotto dal decreto Cutro con l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, non essendo emersa la prova certa che il decesso del giovane sia da ricondurre alle condizioni della nave approdata sulle coste calabresi nel marzo 2023. Si tratta del primo processo incardinato con la nuova norma: il procedimento è infatti partito il 24 marzo 2023, pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge nata dalla tragedia di Cutro. La Corte d’Assise di Locri ha disposto la condanna a 5 anni e 8 mesi ciascuno per due imputati, mentre sono stati assolti con formula piena gli altri cinque migranti finiti a processo. La procura aveva invece chiesto la condanna a 20 anni e 1 mese ciascuno a carico di cinque imputati e l’assoluzione per altri due. In aula, gli avvocati Roberto Germoleo, Carmine Murdaca, Giancarlo Liberati, Carlo Bolognino, Nicola Veneziano e Olesya Dzedzinska hanno sottolineato che nonostante l’introduzione della cornice edittale specifica, che non aggiunge nuovi reati punibili, il trattamento sanzionatorio previsto sembra eccessivamente rigido, superando la discrezionalità legislativa. La pena massima di 30 anni per la morte non volontaria si avvicina, infatti, a quelle previste per reati gravi come il sequestro di persona o la tortura, situazioni in cui la morte è una conseguenza non voluta. In confronto ad altri reati con pene dure, dunque, l’articolo 12 bis rientra tra quelli che puniscono eventi dannosi non intenzionali, ma con una severità che non trova corrispondenze nelle altre categorie di reati. “Questo decreto - spiega l’avvocato Bolognino al Dubbio - prevede per una fattispecie fondamentalmente colposa fino a 30 anni di carcere, al pari dei reati più efferati previsti dal nostro ordinamento giuridico, come l’associazione mafiosa, il narcotraffico internazionale, il sequestro di persona a scopo estorsivo eccetera. Emerge, dunque, un’incongruenza di sistema, già evidenziata in processi celebrati a Reggio Calabria, Messina e presto, sicuramente, anche a Palermo. In tutti questi casi, com’è successo a Locri, i giudici hanno derubricato il reato, per collocare il processo nella realtà dei fatti. Su quei barconi non viaggiano certo i membri delle organizzazioni dedite al traffico dei migranti - ha aggiunto - ma poveri sventurati”. Insomma, la repressione si è rivelata uno slogan sostanzialmente vuoto, dal momento che l’aumento delle pene non è stato accompagnato da “un ragionamento di carattere logico- giuridico che si incastri in un sistema processual-penalistico”. L’aspetto doloso del reato, in questo caso, è connesso al favorire l’immigrazione clandestina, ma non a procurare la morte dell’eventuale vittima della traversata. Una fattispecie di dolo mista a colpa già enucleata all’interno del nostro sistema, con l’articolo 586 - morte come conseguenza di altro reato - e rispetto alla quale, dunque, esisteva già una tutela giuridica. “La riforma ha avuto un contenuto propagandistico, se vogliamo, creando nell’immaginario collettivo l’idea di un’azione incisiva del governo contro un fenomeno problematico come l’immigrazione clandestina ha concluso Bolognino -. Questi processi sono, però, la dimostrazione tangibile che da un punto di vista tecnico c’è un chiaro problema, del quale presto o tardi dovrà occuparsi la Corte costituzionale”. Migranti. Perché il Patto europeo sulla migrazione non risolverà i guai italiani in Albania di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 febbraio 2025 “Con il nuovo regolamento europeo sulla migrazione, in vigore dal 2026, gli Stati potranno stilare un elenco di Paesi di origine sicuri con eccezioni di territori o persone, ma non avranno carta bianca”, spiega Fabio Spitaleri, professore di Diritto dell’Unione europea. L’entrata in vigore del nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo risolverà veramente tutti i problemi dell’Italia relativi ai trattenimenti dei migranti per le procedure accelerate d’asilo, inclusi quelli legati al centro di rimpatrio realizzato in Albania? Al Governo ne sono convinti: dopo l’ennesima sentenza sfavorevole della Corte d’appello di Roma, fonti del ministero dell’Interno hanno sottolineato che la giurisprudenza dei giudici italiani appare “di corto respiro” ed è “destinata a essere superata dagli eventi”, alla luce del “sistema già previsto dal nuovo Patto europeo”. La risposta alla domanda, però, è “nì”. A spiegare il perché al Foglio è Fabio Spitaleri, professore associato di Diritto dell’Unione europea all’Università di Trieste. La prima annotazione di Spitaleri riguarda le tempistiche: la nuova normativa europea entrerà in vigore nel giugno 2026, cioè tra un anno e mezzo. Prima di allora è inutile per l’Italia farsi illusioni: “La procedura accelerata per l’esame delle richieste d’asilo può essere applicata solo ai migranti provenienti da paesi sicuri - spiega Spitaleri - Nel decreto dello scorso ottobre il governo italiano ha inserito alcune nazioni, tra cui Egitto e Bangladesh, nell’elenco dei paesi di origine sicura, fatta eccezione di alcune categorie di persone. Allo stato, tuttavia, questo non può essere fatto. Con la normativa attuale è necessario che la situazione di sicurezza sia diffusa in tutto il paese, senza eccezioni di porzioni di territorio o di determinate categorie di persone”. Da qui deriva la decisione di diversi giudici italiani di non convalidare il trattenimento dei migranti provenienti dai paesi non totalmente sicuri nel centro di rimpatrio costruito in Albania, rinviando la questione alla Corte di giustizia europea, dalla quale è presumibile che arriverà una sentenza negativa per il governo italiano. Una novità, però, è in arrivo: “Il nuovo regolamento europeo 2024/1348 prevede esplicitamente la possibilità di designare un paese come sicuro con eccezioni di determinati parti del suo territorio o categorie di persone”, sottolinea Spitaleri. Questo, tuttavia, “non significa che i governi avranno carta bianca”. In virtù del nuovo Patto europeo, sarà stilato un elenco di paesi sicuri a livello europeo. I singoli stati avranno la facoltà di stilare un proprio elenco di paesi sicuri con eccezioni di territori o persone, considerando le valutazioni compiute dai propri organismi interni ma anche di quelli internazionali. Cosa accadrà in caso di contrasto tra l’elenco dei paesi sicuri definito dal governo italiano e quello definito a livello europeo? “Interverrà il giudice. Quest’ultimo dovrà applicare l’elenco dei paesi sicuri definito a livello europeo. Potrà però contestare la designazione di un paese sicuro da parte delle autorità nazionali, se la designazione non trova riscontro nell’elenco europeo. Insomma, non è che con la nuova normativa i giudici non avranno un potere di valutazione”, chiarisce Spitaleri. Un altro elemento di riflessione è legato al fatto che nel regolamento europeo “manca qualsiasi riferimento alla possibilità di creare centri per il rimpatrio fuori dai confini nazionali, come nel caso del centro in Albania”. Affermare, dunque, che il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo risolverà tutti i problemi del governo italiano risulta azzardato. Piuttosto, bisognerebbe prendere atto che “si è di fronte a una rivoluzione nella gestione del fenomeno delle migrazioni”. Il nuovo regolamento, infatti, stabilisce che gli stati saranno obbligati ad attuare le procedure accelerate, in particolare la procedura di asilo alla frontiera, nei casi in cui i cittadini abbiano tratto in inganno le autorità, se costituiscono un pericolo per la pubblica sicurezza, oppure se provengono da paesi con un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 per cento. “Questo significa che l’Italia dovrà fare uno sforzo organizzativo enorme per trattare queste richieste entro i termini stabiliti, cioè accertamenti entro sette giorni, esame della richiesta di protezione internazionale entro 12 settimane (compresa la fase dell’impugnazione) e rimpatrio entro altre 12 settimane”, evidenzia Spitaleri. “In Italia il dibattito è molto concentrato sul centro in Albania, però sarebbe opportuno concentrarsi sulla macchina che occorrerà mettere in piedi per gestire queste procedure. Saremo capaci di esaurire l’esame delle richieste secondo le tempistiche previste? Saremo in grado di rispettare le tempistiche anche per i rimpatri?”. Nel caso ciò non avvenisse, le procedure accelerate diventerebbero ordinarie, e la loro durata sarebbe di diversi mesi, se non anni. Migranti. La storia dei 130 salvati che riscrive quella di Cutro di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 febbraio 2025 L’altra notte nelle stesse acque della tragedia di due anni fa, con il mare in tempesta, la Guardia costiera è intervenuta prontamente e la macchina dei soccorsi s’è mobilitata. Risultato: tutti salvi. Mare impetuoso, forza cinque. Onde imponenti, fino a quattro metri. Venti gelidi e taglienti come lame, sopra i trenta nodi. Sono le “condizioni meteo-marine avverse” - per dirla in gergo marinaresco - con cui domenica gli equipaggi delle motovedette “Cp 303” e “Cp 321” della Guardia costiera si sono dovuti misurare per poter trarre in salvo centrotrenta migranti: 74 uomini, 27 donne e 29 bambini, partiti il 30 gennaio dalla Turchia su un vecchio peschereccio. Quando è stato intercettato, a 90 miglia nautiche a sud-est di Isola di Capo Rizzuto, lo scafo andava in direzione del tratto di costa dove si trova la spiaggia di Steccato di Cutro. Un toponimo impresso nella memoria di milioni di italiani dal 26 febbraio 2023, quando su una secca di quel lembo di Calabria si infransero i sogni e le speranze di molte persone, annegate a pochi metri dalla riva. La strage di Cutro, così la battezzarono i media, contò 94 vittime accertate, compresi 35 minori, dieci dispersi e 81 sopravvissuti. Ora, a tre settimane dal secondo anniversario di quella tragedia, colpisce come questo nuovo evento sia quasi sovrapponibile - stessa rotta, stesso mare infuriato, stesso barcone stracarico, stesse nazionalità dei migranti (afghani, iraniani, iracheni e pachistani) e perfino lo stesso numero di bambini a bordo. Tutto uguale, insomma, a parte l’epilogo differente. Due anni fa, nonostante Frontex avesse segnalato il barcone stracarico in arrivo, le vedette inviate per i soccorsi rientrarono per il mare grosso e non ne furono mandate altre. Domenica invece, in risposta a un sos di un telefono satellitare, il Centro regionale di soccorso marittimo di Reggio Calabria ne ha mobilitate due, una da Crotone e l’altra da Roccella Ionica, per intercettare il natante. Lo spezzone del video diffuso dalla Guardia costiera mostra un salvataggio da manuale, col trasbordo dei migranti in ipotermia (compresi bambini, un uomo disabile e una donna incinta), poi condotti in salvo a Crotone, dopo sette ore di navigazione. Un’operazione di ricerca e soccorso compiuta nell’area Sar italiana, informa una nota, in “uno scenario operativo particolarmente complesso”. Due anni fa, purtroppo, non andò così. Ora, non tocca a noi giudicare: non siamo giudici, né giuria. Sulle presunte negligenze e omissioni di quella vicenda c’è, com’è noto, un’inchiesta della procura di Crotone. E fra un mese il giudice dell’udienza preliminare dovrà valutare se i sei indagati per disastro colposo e omicidio colposo (4 militari della Guardia di Finanza e 2 della Guardia costiera) debbano o no andare a processo, mentre i familiari delle vittime, che avevano cosparso di lacrime i feretri dei loro cari nel Palamilone crotonese, attendono giustizia. Nel frattempo, l’intervento con lieto fine di domenica ci dice qualcosa non di poco conto: stavolta, in “condizioni meteomarine” simili, c’è stata la volontà, anzi l’abnegazione di comandanti ed equipaggi di andare a cercare un barcone che poteva affondare. Certo, le lancette dell’orologio della storia non tornano indietro. Tuttavia, mentre si avvicina il secondo anniversario dell’affondamento di Steccato, ci piace pensare che l’intervento di domenica abbia un valore simbolico, capace di sommarsi a quello già straordinario di aver sottratto alla furia del mare 130 vite. Un segnale, o se volete un segno, rispetto all’approccio di chi ha la responsabilità gravosa di valutare se affrontare i flutti per salvare altri esseri umani. Perché, se i tanti soccorsi in questi anni ci hanno mostrato come, quando il mare è in tempesta, occorrano coraggio, perizia e buona sorte, quello esemplare di due giorni fa in Calabria ci ricorda quanto sia importante, per prima cosa, scegliere di tentare. Migranti. Denuncia dal Cara di Bari: “Abbiamo protezione internazionale ma viviamo per strada” di Giacomo Guarini Il Manifesto, 5 febbraio 2025 “Si è interrotto il legame diretto tra la prima e la seconda accoglienza. Una volta ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, molti migranti ospiti del Centro accoglienza richiedenti asilo di Bari si ritrovano a vivere per strada, senza casa e cibo, privi di diritti”. Un limbo che, secondo lo sportello sindacale Fuorimercato, “è funzionale a soddisfare la richiesta di manodopera da parte di quei settori produttivi che necessitano di forza lavoro usa e getta” e che trova un forte bacino di prelievo in un contesto caratterizzato da profonda incertezza. Da un lato, infatti, la presenza di una struttura di prima accoglienza, pensata per una permanenza transitoria e ubicata all’interno di una base militare in prossimità dell’aeroporto di Bari Palese, totalmente sconnessa dal tessuto cittadino. Dall’altro una Commissione territoriale che presenta “lunghissimi tempi di attesa” per ascoltare i richiedenti asilo e concedere il riconoscimento della protezione internazionale (oltre un anno a fronte di un iter stimato tra i tre ai sei mesi, con ritardi estremi anche nella comunicazione dei risultati del colloquio). “La protezione, una volta ottenuta, rimane di fatto mera formalità. Con lo smantellamento delle strutture del Sistema di accoglienza e integrazione - prosegue Fuorimercato - la sorte delle persone migranti che ricevono la protezione internazionale non cambia. Il diritto a un alloggio, sia pure per un tempo limitato, è uno dei tanti a non essere riconosciuto. Il paradosso è che senza un domicilio non possono tramutare in documenti la protezione internazionale, cioè ottenere quella card che gli permette di accedere ai servizi di base come l’assistenza sanitaria o di circolare liberamente. Così vengono messi in una specie di lista d’attesa dai comuni. Nel frattempo dove e di cosa vivranno? Sta succedendo qualcosa di gravissimo. Si ha l’impressione che queste persone debbano rimanere invisibili, dunque facilmente ricattabili. È per questo che sul posto di lavoro non esistono contratti, buste paga e protezione medica o legale”. Un ex utente del Cara: “Vivo già per strada. A molti altri è stato detto di lasciare il centro entro la prossima settimana. Non sappiamo dove andare. Sono in tanti nella mia condizione e se ne aggiungeranno altri”. Numerosi sono i casi di persone che restano nella struttura per oltre un anno. E se è vero che spesso gli ospiti, a causa di stress e incertezza circa il proprio destino, manifestino i maggiori problemi di natura psicologica, il dopo Cara presenta gli stessi oscuri presagi. Le condizioni igienico sanitarie quantomai precarie di container dormitorio sovraffollati non si scostano particolarmente da quelle del ciglio di una strada in periferia. Dalla sensazione di isolamento sociale e segregazione degli ospiti dalla comunità di riferimento, all’emarginazione sociale più tangibile. In questa realtà, invisibile che continua a essere alimentata, per la terza volta sono trasferiti i migranti inizialmente trattenuti nel centro in Albania, a Gjader. L’ultima volta dopo la sentenza della Corte d’appello di Roma di non convalidare della detenzione. I migranti, ancora una volta, hanno chiesto alla prefettura e alle istituzioni locali di porre rimedio alla situazione: “Consentire la procedura per avere quanto previsto con apposite leggi”. Dopo la controversa morte di Bangaly Soumaoro all’interno del centro barese, lo scorso 4 novembre, e le rimostranze per le pessime condizioni igienico sanitarie successive, la lotta degli “invisibili” che ruotano attorno al Cara di Bari non si arresta. Migranti. Il caso Almasri finalmente in Parlamento. E adesso è scontro sulla diretta tv di Paolo Delgado Il Dubbio, 5 febbraio 2025 Alla fine l’informativa sul caso Almasri si farà. E passerà anche in diretta Tv. Ci saranno i ministri della Giustizia Nordio e dell’Interno Piantedosi, ma non ci sarà la premier Meloni, che non ha alcuna voglia di legare il suo volto a una vicenda così opaca e scivolosa. Niente premier e, per un pomeriggio intero, niente diretta tv dalla Camera. Ma la conferenza dei capigruppo del Senato decide diversamente da quella di Montecitorio e dopo qualche ora anche i deputati di adeguano, così anche la trasmissione televisiva sarà bicamerale. Riferiranno sull’increscioso caso Almasri i ministri della Giustizia Nordio e degli Interni Piantedosi. Gli stessi che avrebbero dovuto affrontare il Parlamento la settimana scorsa ma che avevano invece rinviato dopo l’informazione di garanzia sull’indagine che li riguarda, come riguarda la premier e il sottosegretario Mantovano. L’opposizione avrebbe voluto che a occuparsi dell’incombenza fosse Giorgia Meloni, come sarebbe stato giusto e corretto dal momento che la principale responsabile della gestione dell’arresto del torturatore libico, o più precisamente della sua scarcerazione, è lei. Ma la premier non ha alcuna voglia di collegare il suo volto a una vicenda dalla quale uscire a testa alta è impossibile. Il meglio che si possa dire delle scelte del governo è che sono state assunte sotto ricatto. Il che però non è precisamente encomiastico per una leader che ripete da anni di ‘non essere ricattabile’. Anche senza Meloni in aula l’informativa di oggi segna uno scacco netto per lei e per tutto il governo. L’obiettivo era tenere molto bassa la vicenda, evitare a ogni costo che finisse sotto gli occhi di tutti, illuminata impietosamente dai riflettori. Un po’ perché governo e servizi si sono mossi molto maldestramente, un po’ perché tenere un caso così clamoroso in sordina non era possibile, è finita esattamente all’opposto. Il governo è stato costretto ad arretrare metro dopo metro. Nordio, il principale responsabile della gestione disastrosa della faccenda, doveva evitare a tutti i costi l’aula. E’ stato costretto a ripensarci dal clamore crescente della vicenda. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati della premier e dei ministri, l’opzione preferita, che sino a due giorni fa pareva certa, era evitare di esporli incaricando qualcun altro dell’informativa. Giorgia deve essersi resa conto del disastro d’immagine che una simile disordinata fuga avrebbe comportato. Alla Camera, nella capigruppo di ieri, Fi e Lega si erano opposti alla diretta tv ma al Senato non ci sono stati veti. Anche in questo caso deve aver pesato la consapevolezza di aver restituito un’immagine devastante ma anche, probabilmente, un calcolo più sottile: permettendo la diretta a palazzo Madama la destra non potrà essere accusata di volersi nascondere ma le telecamere spente a Montecitorio impediranno ai leader del centrosinistra di tenere banco e muovere le loro accuse di fronte al grande pubblico. Su cosa diranno oggi i due ministri vige il segreto assoluto. Comunque non faranno una bella figura. Anche se nessuno esce davvero bene sa questa scabrosa storia. Non la Corte penale internazionale, il cui ritardo nello spiccare il mandato di cattura contro Almasri desta inevitabilmente il sospetto di uno sgambetto intenzionale ai danni del governo italiano. Non il ministro della Giustizia, che ha evitato di far pervenire il suo parere alla Corte d’appello in tempo per evitare il rilascio dell’aguzzino e non ha ordinato il riarresto subito dopo la scarcerazione, come avrebbe potuto fare. Non il ministro degli Interni Piantedosi, che si è mosso con scomposta fretta per portare l’accusato di crimini contro l’umanità al sicuro a casa sua prima che lo scandalo deflagrasse e gli impedisse di farlo. Non la procura di Roma, che ha sì iscritto mezzo governo nel registro degli indagati ma avrebbe potuto disporre il riarresto immediato e si è guardata bene dal farlo. Non la Corte d’appello, la cui sentenza sulla scarcerazione doveva evidentemente essere nota a governo e intelligence ancor prima di essere emessa, dal momento che l’aereo destinato a riportare in Libia Almasri si è mosso con ore d’anticipo su quella sentenza. Non l’opposizione, che giustamente accusa la premier di aver preso una decisione sotto ricatto ma glissa sullo strumento di ricatto per non ammettere di aver siglato per prima il turpe accordo con i capi di Almasri, quello in base al quale possono torturare, segregare e uccidere purché tengano i migranti lontani dalle coste italiane. Non la premier, soprattutto, che in tutta evidenza deve aver seguito la crisi a ogni passo salvo negare l’evidenza e nascondersi dietro alibi ridicoli. Proprio perché tutti, nessuno escluso, hanno la loro parte di responsabilità in un caso che copre di vergogna non la premier o il governo ma l’Italia oggi probabilmente il dibattito in Parlamento finirà con molto rumore e pochissima sostanza. Migranti. Già a dicembre 2024 anche l’Onu accusava Almasri di crimini e abusi di Nello Scavo Avvenire, 5 febbraio 2025 Un dossier degli esperti che rispondono al Consiglio di sicurezza, precedente all’arresto su mandato della Corte penale dell’Aja e al rilascio in Italia, descrive gli affari del generale libico. È il 13 dicembre 2024 quando gli investigatori Onu consegnano al Consiglio di sicurezza il nuovo report annuale sulla Libia. Il caso Almasri, con il controverso viaggio in Europa e l’arresto in Italia su mandato della Corte penale dell’Aja concluso con l’accompagnamento di Stato a Tripoli, non è neanche in preventivo. Ma il generale libico per la seconda volta dal 2023 è uno dei protagonisti dell’investigazione internazionale. Per il Panel of experts, che ancora una volta dal Consiglio di sicurezza Onu non hanno visto muovere alcun rilievo al loro lavoro, i crimini di Almasri hanno “seguito un modello coerente di privazione illegale della libertà, sparizione forzata, tortura e altri maltrattamenti e negazione dei diritti”. Non è che la sintesi della serie di prove raccolte direttamente dagli investigatori delle Nazioni Unite. Nel mirino c’è soprattutto la rete del nuovo apparato di Sicurezza libico denominato “Dacot”, che sta per “Deterrence Apparatus for Combating Organized Crime and Terrorism”, in cooperazione con Isa, il servizio segreto interno. A seguire il calendario viene da dire che la Corte penale internazionale, e non il contrario, ha confermato con proprie autonome indagini le accuse del Panel of expert. Non è un caso che nel mandato di cattura per Almasri, i giudici dell’Aja avessero indicato tra le fonti delle proprie inchieste il lavoro degli esperti Onu incaricati dal Consiglio di sicurezza. Solo il giorno dopo, il 14 dicembre, il procuratore internazionale Kharim Khan preannunciava l’emissione di nuovi mandati di cattura. I nomi sono stati coperti dal segreto investigativo. Ma ora sappiamo che uno di loro è proprio il generale Najim (Almasri). Così lo presentano gli ispettori delle Nazioni Unite. “Tra i comandanti dell’Apparato coinvolti, il Gruppo di esperti ha identificato Osama Najim (Almasri, ndr) come responsabile dell’amministrazione e della facilitazione dell’arresto illegale e del maltrattamento dei detenuti nella struttura di detenzione di Mitiga”. Il Gruppo di esperti ha esaminato le numerose testimonianze e prove documentali a proposito del carcere di Mitiga, a Tripoli, raccolte a partire dal giugno 2021. Oltre alle vittime sono state ascoltate “persone che hanno assistito alle violazioni commesse in quella struttura”. Non viene precisato chi siano questi testimoni, dovendone tutelare l’incolumità. “Tra questi, cinque ex detenuti e tre testimoni oculari hanno identificato Osama Najim come responsabile diretto di aver ordinato e commesso personalmente atti di tortura e altre forme di maltrattamento come parte di una politica organizzativa di gestione della struttura di detenzione di Mitiga”. Il Gruppo di esperti ha corroborato queste testimonianze “con prove documentali indipendenti, tra cui rapporti medici, decisioni giudiziarie ufficiali e documentazione interna del Dacot, nonché con fonti terze affidabili che hanno tutte confermato sia la natura sistematica delle violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale umanitario, sia la responsabilità del personale del Dacot per tali violazioni”. Nelle 299 pagine di relazione, cui sono allegati centinaia di documenti, foto, filmati, registrazioni, è ricostruita l’intera filiera del traffico di esseri umani, che vede in particolare 17 boss libici, tutti con una divisa da militare o la grisaglia di funzionario pubblico. Almasri è il sistema di cui fa parte, è un ingranaggio tra i più robusti. Perché ai detenuti, specialmente ai subsahariani, viene offerta una chance per sopravvivere alle torture: arruolarsi nella milizia e combattere per conto dei libici. E questo, spiegano gli ispettori, perché la milizia di Almasri è screditata presso la popolazione libica, specialmente quella di Tripoli, dove a causa delle malefatte della “cupola” fatta di generali e politici, chi può si sottrae all’arruolamento. Dalla lettura si apprendono particolari abietti, Non solo i prigionieri vengono “picchiati e presi a calci per ore durante i giorni di detenzione”, non solo “minacciati di morte”, ma “esposti a continue brutalità perpetrate sui compagni di cella” dai detenuti stessi e alla presenza dei loro familiari. Venezuela. Non dimentichiamo Alberto Trentini, detenuto da novembre di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 5 febbraio 2025 Di Trentini non si hanno notizie dal 15 novembre. Il governo Maduro è una democrazia per finta. Ora in Italia serve una mobilitazione come quella per Cecilia Sala. L’appello dei genitori di Regeni va ascoltato. Un altro italiano che scompare, come di recente Cecilia Sala, solo che stavolta dal buco nero che sembra averlo inghiottito in Venezuela non arrivano segnali di alcun tipo, né motivazioni ufficiali per le quali sarebbe stato arrestato, né dove si trova, come sta (soffre di pressione alta e deve assumere farmaci), in che condizioni è costretto. Si chiama Alberto Trentini, 45 anni, veneziano, cooperante per studio e professione, una bella faccia buona con i capelli corti, barbetta leggera, occhi chiari, ma il suo volto e il suo nome dicono poco a troppi e sulla sua sorte non sembra montare quell’ondata di partecipazione e di mobilitazione che tante volte è stata decisiva, l’ultima proprio con Cecilia. La perdita di qualsiasi contatto con Alberto risale ormai al 15 novembre. Ottanta giorni senza che nessuno abbia potuto vederlo, senza che gli sia stata concessa una telefonata ai genitori Armanda ed Ezio o alla sua compagna, senza che sia stato consentito ad alcuna delle autorità italiane di poterlo almeno incontrare. Il governo di Nicolás Maduro, la cui rielezione nel luglio scorso non è stata riconosciuta da molti Paesi tra cui l’Italia per sospetti brogli elettorali, è una democrazia per finta. Toglie di mezzo i nemici, o presunti tali, senza dare spiegazioni o inventandosele: terrorismo, agenti destabilizzatori, spie al servizio delle opposizioni interne o internazionali. Laureato in Storia a Ca’ Foscari, master in assistenza a Liverpool e in sanificazione dell’acqua a Leeds, decine di esperienze sul campo (Ecuador, Bosnia, Etiopia, Paraguay, Nepal, Grecia, sei mesi in Perù nel 2017 ad assistere migliaia di famiglie colpite dalle inondazioni) Trentini era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, “Humanity and Inclusion”, prevalentemente dedicata agli aiuti alle persone con disabilità, isole abbandonate nella corrente di un Paese precipitato nella miseria e con 5 milioni di migranti per disperazione. Perché l’hanno arrestato? Perché lo stanno tenendo, come parrebbe, in qualche cella di Caracas e non si sa neanche quale? Perché come Paese veniamo rimbalzati di fronte alla richiesta non soltanto di rilasciare un nostro connazionale, ma persino a quella di poterlo contattare? Non si può proprio trascurare l’appello che Paola e Claudio, genitori di Giulio Regeni, hanno lanciato da Fabio Fazio durante l’ultima puntata di Che tempo che fa. “La famiglia di Alberto Trentini non ha più notizie dal 15 novembre. Chiediamo che il governo si dia una mossa perché è passato troppo tempo. Vogliamo che questo giovane italiano torni a casa sano e salvo. E venga rispettato come portatore di pace”. Loro che conoscono l’angoscia e il dolore per la perdita di un figlio in terra straniera per ragioni mai chiarite; loro che da 9 anni, dal 3 febbraio 2016, hanno dedicato ogni stilla dell’energia vitale rimasta per ottenere la verità e quindi la giustizia per lo scempio che è stato fatto del loro Giulio in una prigione egiziana; proprio loro hanno sentito il dovere di spendersi per un altro italiano, che come Giulio, Cecilia e tanti altri e altre, vanno in giro per il mondo per raccontarlo, per capirlo, per aiutare, per fare del bene. Evitare con ogni mezzo che si ripetano tragedie come quella che ha devastato il ricercatore Giulio Regeni: firmato da chi quella tragedia la porterà sulle spalle e nel cuore per sempre. Forse queste parole, e la credibilità di chi le ha pronunciate, hanno spinto ad accelerare la marcia della nostra diplomazia. Il terreno è minatissimo, l’interlocutore non appare tra i più affidabili, una mossa improvvida può fare precipitare la situazione e chi, malauguratamente, ci si trova dentro. L’avvocato che si occupa di Alberto Trentini è lo stesso di Giulio, Alessandra Ballerini, e anche questa è una garanzia che ogni passo verrà tentato, con coraggio ma anche con la necessaria sapienza. Ma l’elemento decisivo, pur rispettando la raccomandazione del ministero degli Esteri di non entrare nei dettagli, è che la vicenda esca dall’anonimato e diventi quello che è: un caso nazionale, che sta a cuore alla nazione. La petizione per il suo rilascio, organizzata da Change.org, ha raggiunto le 40 mila firme: ne servirebbero il doppio, il quadruplo. Se Cecilia Sala è già tornata al lavoro dopo i 21 giorni di incubo in una prigione iraniana, lo si deve in parte anche a questo, cioè all’azione forte di un governo, sostenuto da una spinta altrettanto forte dalla base del Paese. Nel fine settimana il Comune di Bologna esporrà uno striscione per la libertà di Alberto Trentini, confidando che altri Comuni seguano l’esempio come fu per Patrick Zaki, che proprio Bologna mai dimenticò durante la sua detenzione. E sabato ci sarà una fiaccolata davanti alla chiesa di Sant’Antonio al Lido di Venezia, sperando che il riflesso di quelle luci arrivi in qualche modo a illuminare il muro di omertà costruito intorno a un cooperante molto esperto, descritto da tutti come accogliente, preparato, spiritoso, il contrario dell’avventuriero. Non riuscire a salvarlo da un destino tremendo e ingiusto sarebbe una resa a chi i portatori di pace preferibilmente li sopprime.