Meloni “giudizializza” la lotta politica, ma è una mossa rischiosa di Lorenzo Castellani Il Domani, 3 febbraio 2025 Per la premier l’indagine aperta dalla procura di Roma è un’occasione da cavalcare, dato che una fetta consistente degli italiani pensa che la magistratura sia politicizzata. Lo scontro con le toghe però carica di maggior peso politico la riforma della separazione delle carriere. Giorgia Meloni è una politica abile e sa cavalcare le occasioni. Non v’è dubbio che la magistratura, pur nell’esercizio legittimo dei suoi uffici, abbia ripetutamente offerto negli ultimi mesi delle occasioni alla premier per eccitare il suo elettorato nella crociata contro la magistratura. Quest’ultima è una istituzione che ha vissuto anni di crisi sul piano della legittimazione pubblica a casa della politicizzazione interna. Basti pensare che in un sondaggio della fine del 2024 mostrava che soltanto poco più del 30 per cento degli italiani ha fiducia nei giudici e che oltre la metà degli intervistati ritiene che siano politicizzati. Agli occhi dell’elettorato di centrodestra, sin dai tempi di Silvio Berlusconi, la magistratura, o comunque una parte di essa, è l’avversario che cerca di rovesciare con le inchieste i risultati elettorali. I pm sono avvertiti come attori che mirano a imporre una moralizzazione della politica o una costrizione della sovranità popolare che non vengono riconosciute né accettate. Le questioni di moralità, legalità nazionale e internazionale non rilevano quasi mai per l’elettore di destra, per il semplice motivo che la magistratura non è percepita come istituzione imparziale. Il fatto che i magistrati, alti funzionari dello stato va ricordato, disertino l’aula in cui parla il ministro della Giustizia per protesta o si prestino a partecipare al dibattito mediatico ingaggiando una dialettica con il governo non aiuta il potere giudiziario a rafforzare la propria autorevolezza di fronte alla maggioranza degli italiani. Meloni è di tutto ciò ben consapevole e per questo, anche con toni populisti, rilancia la propria offensiva e la riforma costituzionale della giustizia. È pericoloso che un capo di governo asserisca che se vogliono fare politica “i giudici si candidino”? Certo che lo è, come lo è ogni conflitto tra poteri, e in particolare quelli che coinvolgono in modo diretto l’esecutivo. È parte di un processo di delegittimazione e discredito delle istituzioni che può far male al paese. La “giudizializzazione” della politica, cioè concentrare il cannone della propaganda contro il potere giudiziario, operata dalla destra è la stessa faccia della medaglia della politicizzazione della giustizia. Entrambe esistono, entrambe possono mettere in crisi la governabilità del sistema politico. Qui però esiste anche un problema legato all’opposizione. Troppo a lungo il centrosinistra si è nascosto dietro la magistratura, ha negato la politicizzazione della giustizia, ha sperato che le inchieste dessero una mano ad indebolire gli avversari, ha sabotato ogni tentativo di riforma del potere giudiziario quando è stata al governo. In questo scenario, la sinistra preferisce lasciar che sia Meloni a dettare l’agenda, a confidare in uno scontro tra destra e magistratura nella speranza che il conflitto indebolisca il governo. Un atteggiamento dannoso anche questo verso la giustizia, che contribuisce ad esacerbare, e rendere credibili per una fetta consistente di elettori, le accuse di politicizzazione scagliate dalla destra. Per altro sul caso Almasri la pistola del centrosinistra è scarica per due motivi. Il primo è che il governo avrà anche pasticciato nella gestione, ma è evidente che la partita rientra nella più ampia logica della ragion di stato. Accordi con i poteri libici sulla limitazione dei flussi migratori richiedono il sacrificio di alcuni aspetti del diritto internazionale e la prevalenza di una logica di intelligence e sicurezza nazionale. Senza contare che questi rapporti diplomatici per fermare l’immigrazione sono iniziati e continuati quando il Pd era al governo ed è pertanto difficile oggi attaccare con credibilità e decisione Meloni. Il secondo motivo è che, come sulla magistratura, la premier sulla ragion di stato per limitare l’immigrazione ha gioco facile poiché gli indirizzi dell’opinione pubblica in materia sono chiari e vanno nella direzione della destra. Questo quadro, in conclusione, proietta il governo in una fase nuova: da quella dell’amministrazione prudente per legittimarsi a livello internazionale a quella della riforma costituzionale, con toni duri e populisti, in una logica di scontro tra poteri. La riforma della giustizia diviene così cruciale per la maggioranza poiché è l’unica riforma istituzionale, viste le difficoltà di premierato e autonomia regionale, che può avere successo e cambiare la sostanza del potere. Questa è certo una opportunità per Meloni, ma è anche un rischio perché da ora in poi quella riforma si carica di significati politici forti e spingerà la magistratura inquirente a setacciare con minuzia ogni attività del governo. Da ultimo, una eventuale sconfitta al referendum sulla separazione delle carriere dei giudici, dopo uno scontro di tale portata, potrebbe trasformare la forza di oggi in una debolezza di domani. Contro i giudici che si sentono i veri interpreti della volontà popolare di Pier Luigi Portaluri Il Foglio, 3 febbraio 2025 L’attivismo giudiziario tra interpretazioni espansive della legge e crisi della sovranità parlamentare. La questione vera - la montagna che si vede sullo sfondo, neanche molto lontana - consiste nel tipo di stato di diritto che vogliamo per l’Italia del XXI secolo, visto nell’ottica della separazione dei poteri e - più in particolare - del judicial lawmaking: cioè dei limiti al potere dei giudici di creare diritto andando oltre, o addirittura contro, la legge. Siamo, inutile nasconderlo, su di un piano inclinato. In crisi è l’idea stessa di Costituzione e di legalità, entrambe stravolte da un uso ipocrita e strumentale: ridotte al ruolo di santini, di immaginette sacre brandite per coprire disinvolture interpretative a fini politici e di potere, nobili o meno che siano. Il quadro, almeno da questo punto di vista, è diventato ancora più incerto e fosco con l’apertura del nostro ordinamento giuridico al diritto dell’Unione europea, che prevale su quello degli stati membri. Risultato: qualunque giudice può ignorare una legge italiana se decide - in base a criteri abbastanza elastici - che essa è in contrasto con ciò che ha stabilito l’Ue. Lo stiamo vedendo nella emblematica vicenda del centro in Albania per l’accoglienza dei migranti. La partita vera, insomma, ruota intorno alla “conquista” - da parte della magistratura intesa nell’integralità dei componenti (quindi giudici e pm, insieme) - di una quota di sovranità o - se si preferisce - di legittimazione democratica: che sarebbe in questo modo condivisa con gli organi rappresentativi, cioè col Parlamento. Il giudiziario otterrebbe così, almeno di fatto, il riconoscimento della sua funzione di contropotere, deputato - nella costituzione materiale del nuovo millennio - a tutelare i diritti fondamentali nel caso in cui essi fossero minacciati dalla “dittatura della maggioranza”. Il controllo giudiziario, infatti, è per definizione contro-maggioritario: ma quando vanifica una legge, vanifica la volontà dei rappresentanti del popolo. Sul piano alto dell’architettura costituzionale la separazione delle carriere, al di là dei suoi effetti benefici di distanziamento verso lo scivoloso e oscuro sentimento di colleganza che unisce le due componenti togate, ha questo di positivo: scindere il Judiciary non significa affatto indebolire l’indipendenza dei pm, poiché questo timore infondato è semplicemente uno dei tanti pretesti vacui usati nel tempo per opporsi ai tentativi di riforma (come la misteriosissima “cultura della giurisdizione”). Significa, invece, bloccare o quantomeno rallentare questa marcia di conquista, sinora non abbastanza resistita, verso un nuovo e preoccupante modello di separazione di poteri. O, forse, verso la sua stessa fine, a vantaggio del potere emergente: quello giurisdizionale. Nei circoli più o meno esoterici dei giuristi, proposte del genere circolano ormai da molto tempo: il buon vecchio Montesquieu avrebbe oramai fatto il suo tempo; la separazione dei poteri sarebbe quindi un arrugginito arnese ottocentesco da smaltire al più presto; nelle attuali società, con le loro esigenze complesse e contraddittorie, la decisione proveniente dal Parlamento democraticamente eletto, cioè la legge, è solo un fastidio, un incidente di percorso che si interpone fra il popolo e il suo vero interprete: il giudice. Il quale, di conseguenza, non sarebbe più tenuto a individuare la regola per decidere un caso cercandola nel quadro delle norme esistenti, ma potrebbe invece crearla in base al suo personale sentire: chiamando poi tutto questo “legalità”, o interpretazione della legge conforme alla Costituzione. Dare legittimazione democratica in senso stretto al giudice è insomma un’operazione molto insidiosa, sopra tutto in realtà come quella italiana in cui la magistratura non trabocca certo di sane “virtù passive”; non pratica cioè la cristianissima strada del self restraint: l’astensione dalle spire della tentazione, che qui assume il sembiante malioso dell’attivismo marcatamente interventista anche nei media e nelle istituzioni estranee al mondo della giustizia. La separazione delle carriere da sola non basta di Marcello Pera Il Foglio, 3 febbraio 2025 Porsi il problema di come 1.300 pm non diventino una falange che non risponde a nessuno: l’equilibrio tra i poteri è essenziale per la democrazia. La dura guerra in corso fra la magistratura e la politica è una vera e propria lotta di potere perché da entrambe le parti è combattuta all’insegna della domanda: “chi ha la supremazia?” o “chi comanda?”. Io, dice il Parlamento o il governo, perché, compiendo le mie scelte, sono legittimato dalla volontà popolare. Io, dice la magistratura, perché, applicando la legge, sono legittimato dalla mia autonomia e indipendenza. Due effetti perversi di questa guerra si stanno già producendo. Il primo è il discredito che oggi investe la magistratura; l’altro è che le riforme costituzionali proposte dal governo diventano intoccabili. La separazione delle carriere (meglio sarebbe dire dei ruoli) è un atto dovuto, anzi, obbligato. Lo è dal 1988, quando entrò in vigore il processo accusatorio e dal 1999, quando fu approvata la riforma del giusto processo. Se la Costituzione ora dice che il giudice che presiede il contraddittorio fra le parti, durante il quale soltanto si forma la prova, deve essere “terzo e imparziale”, non usa una endiade, cioè una figura retorica che usa due parole per esprimere il medesimo concetto. Qui i concetti sono due e distinti. Se “imparziale” si riferisce alla disposizione del giudice verso la causa in esame, “terzo” si riferisce alla posizione del giudice riguardo alle parti coinvolte. Terzo è quel giudice che, per sua natura e ruolo, non appartiene e non è commisto alle altre parti coinvolte nel processo. Terzo è il giudice che, per avanzare di carriera, non deve iscriversi ad alcun sindacato guidato dai pm. Terzo è perciò il giudice separato dal pubblico ministero. E se così dice la Costituzione, allora la Costituzione (oltre al codice Vassalli) impone la separazione dei ruoli. Chi riformò l’articolo 111 della Costituzione ne era ben consapevole: sapeva che istituiva un principio da cui la separazione dei ruoli sarebbe seguìta come un teorema. Che oggi si finga di dimenticarlo significa solo che il dibattito parlamentare si è spaventosamente abbassato di qualità. E però la separazione dei ruoli va coordinata bene con ciò che è scritto in altre parti della Costituzione, ché altrimenti si produce ciò che il procuratore generale presso la Cassazione, Luigi Salvato, ha chiamato una eterogenesi dei fini: “perché - egli ha detto - la riforma non tocca l’indipendenza e l’autonomia del pm garantiti attualmente, e dunque ci troveremo di fronte a un pm che conserva struttura e status del giudice, ma separato, e quindi più forte”. Ed è chiaro che un pm più forte, significa poteri sbilanciati e dunque un pericolo per la democrazia. Si immagini la situazione. Il nuovo pm è autonomo e indipendente, ha l’obbligatorietà dell’azione penale, lavora in un ufficio ma non è inserito in alcuna gerarchia, perché è e si considera un potere diffuso che non risponde alle direttive di alcun capo. Separato dal giudice, con un Consiglio superiore suo proprio, non acquisisce un potere in più, ma mantiene gli stessi poteri con una forza moltiplicata e con effetti devastanti accresciuti. Può fare quello che crede, può perseguire chi crede, può inviare “atti dovuti” ai ministri che crede. E se crede che sia compito suo perseguire la giustizia sociale, morale, politica, interpretando la legge scritta o applicando quella non scritta, è autorizzato a farlo e nessuno può fermarlo. Il procuratore Salvato, che vede bene la stortura pensa di rimediarvi così: “gli errori vanno corretti attraverso le regole processuali”, e “l’equidistanza non si ottiene con la separazione delle carriere, ma realizzando pienamente il principio che la prova si forma in dibattimento, senza dare peso a tutte le acquisizioni del pm al di fuori della fase dibattimentale”. Giusto ma fino a un certo punto, perché quella è l’equidistanza nel processo, ma prima che cosa accade? Provi il dottor Salvato a ricevere un “atto dovuto” con cui lo si accusa, poniamo, di corruzione; provi a stare in prima pagina per giorni e mesi; provi ad andare a processo dopo anni; e provi a sentirsi richiedere di dimettersi: sarebbe soddisfatto del rimedio endoprocessuale dell’equidistanza? O non penserebbe anch’egli che un altro rimedio occorre, riguardo ai limiti da porre alla libertà di scorribande dei pm? Quando un “atto dovuto” ti avrà rovinato la reputazione, bloccata la carriera, fatto perdere onore e prestigio, fallita l’azienda, disgregata la famiglia, rovinata vita, l’equidistanza processuale non serve più. Sembra chiaro allora che la sola separazione non basta. Su questo il procuratore Salvato ha ragione. Ma che cosa in più occorre? Occorre rivedere la Costituzione proprio nei punti che ancora si ritengono intoccabili e di cui purtroppo ci si fa ancora titolo di merito di non toccarli. L’obbligatorietà dell’azione penale è una norma manzoniana: nella pratica non può funzionare per ragioni di principio. La gerarchia dei pm è necessaria, perché in un ufficio non si sta come al bar, dove chiunque entri ordina ciò che gli piace e nessun altro avventore può dirgli alcunché sui suoi gusti. E l’autonomia e indipendenza del pm non può essere la stessa di quella del giudice, perché il pm deve sottostare a criteri di priorità, utilità, convenienza, che non può essere lui a darsi. Chi deve darglieli? Un corpo elettorale che lo sceglie? Un assessore che lo nomina? Un organismo politico che è responsabile di fronte ai cittadini? Ci sono tante soluzioni. Una se la inventò il noto giurista Piero Calamandrei alla Assemblea costituente. Al vertice dei pm, egli pose un procuratore generale della giustizia e fece la seguente proposta: “Il procuratore generale Commissario della giustizia è nominato dal Presidente della Repubblica … Esso è il capo degli uffici del pubblico ministero, dei quali vigila e coordina l’azione; … E’ l’organo di collegamento tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato; e come tale prende parte al Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponde di fronte alle Camere del buon andamento della Magistratura. Rimane in carica per tutta la legislatura anche in caso di cambiamento del Gabinetto; ma deve dimettersi qualora una delle Camere gli dia uno speciale voto di sfiducia”. Significa, questa soluzione, sottoporre il pm all’esecutivo, secondo lo spauracchio attualmente ventilato? No, significa porsi il problema di come 1.300 pm non diventino una falange che non risponde a nessuno, come è oggi, e come resterebbe anche dopo la separazione. Sembra già di sentirli. Siamo autonomi e indipendenti, siamo un potere diffuso, abbiamo l’obbligo dell’azione penale, disponiamo della polizia giudiziaria, e per di più siamo separati, cioè, come diceva Calamandrei, “non collegati con gli altri poteri dello Stato”: di cosa vi lamentate quando ricevete gli “atti dovuti”? Volete forse asservirci? Volete impedirci di manifestare con la Costituzione in mano? Volete tapparci la bocca? No, i sinceri liberali e democratici non lo vogliono, ma neppure vogliono che la separazione diventi la foglia di fico per pratiche giudiziarie anche peggiori di quelle di oggi. Perciò la separazione da sola non basta. Se non si tocca davvero la costituzione complessiva sull’ordinamento della magistratura, la riforma da benemerita potrebbe diventare immeritevole. Non è un caso che, là dove c’è la separazione (praticamente in tutto il mondo occidentale), il pm è, in un modo o in un altro, collegato al potere politico. Chi altri potrebbe dargli le direttive di politica anticriminale, di priorità, di opportunità, di rilevanza, di urgenza? È un problema serio e ci si dovrebbe pensare seriamente, perché una democrazia senza separazione giudici-pm soffre, ma senza equilibrio fra poteri soccombe. Ipocrisia dell’atto dovuto e del caso complesso. La questione Almasri di Piero Tony* Il Foglio, 3 febbraio 2025 Sulla vicenda della scarcerazione del presunto torturatore libico il Ministero della Giustizia offre una versione dei fatti troppo sciatta per essere creduta. La Procura di Roma per indagare un pezzo di Governo si nasconde dietro un obbligo che non c’è. Atteniamoci ai fatti. Già dal 4 novembre 2024 l’Almasri era sottoposto a “sorveglianza discreta”, su richiesta della Corte penale internazionale (da ora Cpi) del precedente 10 luglio indirizzata in un primo tempo alla sola Germania e il successivo 17 gennaio a sei paesi tra cui l’Italia. Il 2 ottobre 2024 il procuratore presso la Corte penale internazionale aveva chiesto nei suoi confronti l’emissione di mandato di arresto internazionale. Il 17 gennaio la Cpi viene informata dalla polizia tedesca che l’Almasri è stato fermato in Europa, l’immediato mandato di arresto internazionale viene eseguito la successiva domenica 19, dopo essere stato diramato “per allerta” attraverso Interpol e notificato a sei paesi, tra cui l’Italia nella persona del magistrato di collegamento, che lavora presso l’ambasciata olandese e che, allo stato, non risulta averlo trasmesso a via Arenula. L’art. 2 L.237/2012 così regola i rapporti tra Cpi e Italia: “I rapporti con la Cpi sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito”. E’ sicuro che la Digos di Torino non consultò Via Arenula prima di procedere all’arresto, come invece avrebbe dovuto fare non trattandosi di procedimento di estradizione ordinaria, ma che ne abbia dato notizia solo ad arresto avvenuto. Il 20 gennaio, secondo il procuratore generale di Roma, il ministro Nordio sarebbe stato avvertito dell’arresto irrituale e della necessità di una regolarizzazione a fine di sanatoria. Martedì 21 un Falcon 900, verosimilmente dei Servizi, da Roma atterra intorno a mezzogiorno all’aeroporto di Caselle Torinese, per riportare in patria Almasri con volo di stato partito poco prima delle ore 20. Intorno alle ore 16 dello stesso giorno - ossia alcune ore dopo l’approntamento del predetto rimpatrio - il ministro Nordio, interpellato su cosa avesse in animo di fare in relazione all’arresto, aveva singolarmente dichiarato che stava approfondendo e valutando, trattandosi di caso molto complesso. Con ordinanza dello stesso giorno 21 gennaio 2025 la Corte di appello di Roma - su conforme parere del procuratore generale che aveva rilevato che, pur debitamente informato, il ministro “ad oggi non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito” - preso atto della mancanza nel procedimento della “prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il ministro della Giustizia e la procura generale presso la Corte di appello di Roma… prevista dall’art. 2, comma1 L.237/2012”, dichiarava non luogo a provvedere sull’arresto e ordinava l’immediata scarcerazione dell’Almasri. In data 23 gennaio l’avv. Luigi Li Gotti presentava denuncia in ordine a tali fatti, che il procuratore Lo Voi inviava al Tribunale dei ministri dopo aver iscritto i ministri denunciati nel registro degli indagati. Rovente la polemica, perentorie le reciproche accuse. Solo supposizioni, ma pesanti. Quanto alla scarcerazione di Almasri, escludiamo che il ministero della Giustizia sia così disorganizzato e sciatto da restare latitante, per un intero weekend, su di una sua competenza tanto importante e di risalto (nel mondo del diritto quanti sono gli interventi ministeriali necessari a pena di nullità?). Allora non pare irragionevole immaginare che l’arresto del supposto boia possa essere stato allarmante per molti, che si sia pensato alla necessità di disinnescare l’ordigno che rischiava di far crollare un castello di interessi - i più vari e percepiti, tipo migranti e gas e petrolio, ecc. - faticosamente da anni tenuto su con gli spilli, che il disinnesco più agevole e meno vistoso sia parso quello legato al mare magnum delle disfunzioni giudiziarie. A tale ipotesi non è di poco conforto il rilievo della preparazione del rientro aereo in corso d’opera, quasi fosse previsto e certo l’esito della procedura. Che, a dire il vero, non poteva non essere certo vista l’assenza della interlocuzione fondante. Né è di poco conforto la convinzione, solo dello scrivente sia chiaro, che è sempre più imperante la cultura bypassante del “bando alle chiacchiere, il problema va risolto a tutti i costi”. Ma ovviamente trattasi di supposizioni. Quanto all’atto dovuto, atto dovuto o obbligato - così spiega Lo Voi l’invio al Tribunale dei ministri - si impongono purtroppo ancora mere supposizioni. Quale spiegazione del proprio operato è più tranchant, comoda, definitiva di queste due semplici paroline che dicono tutto e niente ma riescono a tappare qualsiasi bocca: atto dovuto. Il più delle volte sono scuse, anche perché le due paroline a ciò si prestano, non dicendo nulla ma abbracciando tutto. Ora sono rispuntate, le due magiche paroline, proprio a proposito dell’ultima scandalosa vicenda, il guazzabuglio attorno alla figura del supposto carnefice Almasri. Non è avviso di garanzia ma atto dovuto o per meglio dire obbligato, ossia una rituale comunicazione di indagine, per favoreggiamento e peculato, a seguito di denuncia sporta da un cittadino, dice giustamente il procuratore Lo Voi. Anche se si può obiettare - qui casca l’asino - che l’atto dovuto ha una sua gestibile tempistica, limitata solo dal fatto che non possa più produrre i suoi effetti; che aveva 15 giorni di tempo e invece è apparso precipitoso, quasi impaziente di liberarsi di un caso troppo delicato ma al contempo... a rischio di ustioni; che il suo non è ruolo da passacarte perché - a seguito delle perplessità sull’automatismo espresse dalle circolari 2017 Procura Roma e molto prima, 2012, Procura Prato - l’art.335 cpp., cioè la norma che regola l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, così come novellato dalla riforma Cartabia, subordina l’iscrizione alla verifica sia pure sommaria che il fatto rappresentato sia determinato, non inverosimile e “riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice”. E allora? Cosa dire? Che nessuna di codeste supposizioni è astrusa e che il Tribunale dei ministri tra qualche tempo archivierà gli atti dopo aver inutilmente ricercato fondamenti probatori. De profundis. *Ex magistrato L’antimafia imbalsamata e la perdita della capacità di dubitare di Gery Palazzotto Il Foglio, 3 febbraio 2025 Mentre i boss cambiano faccia e chi li denuncia è sotto scorta, i vecchi santoni pensano a come succedere a se stessi. L’ultimo aggiornamento del sito ufficiale della Fondazione Falcone è dell’ottobre 2023, un anno non qualunque nella storia dell’antimafia, l’anno delle due manifestazioni concorrenti per il 23 maggio a Palermo, l’anno delle manganellate agli studenti e ai sindacalisti che stavano nel corteo “sbagliato”, quello non ufficiale, quello senza santi e santoni. Oggi, all’alba del 2025, l’icona di una resistenza invecchiata, fiaccata dal tempo e dalla noia c’è, si vede, ma si preferisce guardare da un’altra parte. E non è d’aiuto il trito refrain gattopardesco che si tira fuori quando la discussione di queste cose langue, per il quale tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima, perché qui nulla è cambiato, ma proprio nulla, e la salma dell’antimafia aspetta solo la mummificazione. Cosa nostra invece sì che si è data da fare, purtroppo: spara di meno, tiene la testa bassa, investe di più soprattutto nella droga, premia i nuovi padrini senza dimenticare i vecchi che a poco a poco tornano in libertà per condanne scontate o per permessi premio (una specie di welfare parallelo senza regole scritte). Salvo Palazzolo, il cronista palermitano che ha documentato per primo queste scarcerazioni allarmanti, è stato messo sotto scorta la settimana scorsa dopo che gli investigatori hanno rilevato nel corso di alcune indagini “gravi ostilità nei suoi confronti”: una goccia di duro realismo nel mare di scorte e tutele secolari, molte delle quali sembrano ormai puri elementi di sceneggiatura. Intanto, sul palcoscenico dell’antimafia da messa cantata sfilano gli antichi protagonisti dei bui tempi che furono. Uno su tutti: Gaspare Mutolo, il collaboratore di giustizia che nella foga di confessare si autoaccusò anche di delitti che non aveva commesso. Oggi, da uomo libero, il “pentito” torna alla ribalta in occasione della riapertura delle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella per dire che si dimenticò di riferire a Borsellino che il killer dell’ex presidente della Regione siciliana era un mafioso e non un terrorista nero: eh sì, gli era passato di mente. E per non deludere gli astanti, sorpresi dalla ritrovata pulsione dichiaratoria, butta giù il canovaccio utile a rileggere l’antico delitto di uno spacciatore palermitano ucciso 49 anni fa per aver sfregiato una ballerina ceca: in fondo i cold case sono come il nero, stanno bene con tutto. A volte ritornano, magari con calma, magari con rassegnata sincerità. E’ riapparso dopo anni Tano Grasso, fondatore 35 anni fa a Capo d’Orlando della prima associazione antiracket d’Italia. Ed è tornato per dire di un obiettivo mancato clamorosamente: “Oggi, se va bene, su cento commercianti e imprenditori che pagano le cosche ce n’è uno che denuncia. Tanti, troppi operatori economici ritengono conveniente pagare”. Ci vuole tempo per capire ma anche per cambiare. Uno degli ambiti pericolosi dell’antimafia impietrita, incapace di generare figure nuove, è stata proprio la perdita della capacità di dubitare. Molto spesso buona parte dell’antimafia prêt-à-porter che ha impastato il cemento delle false certezze con la sabbia del giudizio sommario ha fatto un torto alla verità storica. L’ex magistrato Roberto Scarpinato, sempiterno polemista, scrittore e alacre collaboratore di Micromega ha messo la sua esperienza al servizio della politica, diventando senatore per il Movimento 5 stelle. Solo che una cosa è la ratio giudiziaria, un’altra è la speculazione politica. In questo, Scarpinato è riuscito a tenere sempre la barra a dritta, restando fedele a un’unica visione dei fatti e del mondo: laddove c’è un mistero, nel migliore dei casi c’è un complotto, e laddove c’è un complotto nel migliore dei casi c’è bisogno del suo utile operato. Solo che lui ha un chiodo fisso (del resto questa è una storia di storie immobili e di punti fermi quasi eterni). Il chiodo fisso di Scarpinato si chiama Mario Mori, ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri ed ex direttore del Sisde. L’ex magistrato, quando non era ancora ex, ci ha provato in ogni modo a incastrarlo, dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina a un presunto aiutino al boss Bernardo Provenzano per la sua latitanza. Lo vede dappertutto, dietro ogni sussurro malevolo o peggio ancora dietro ogni complotto: e che si tratti di una coda polemica in Commissione antimafia o di un rigurgito d’indagine sullo stragismo nero applicato alle cose di Cosa nostra poco importa. Anche se assolto a ripetizione, Mori c’entra sempre e chi non la pensa così è passibile di fatwa. L’ex capo del Ros è uno dei tanti motori immobili attorno al quale si sviluppa questo gioco di incastri senza evoluzione. Un altro che, da sempre, non gli vuole troppo bene è Nino Di Matteo, sostituto della Procura nazionale antimafia e grande architetto del processo sulla presunta trattativa stato-mafia (con Mori protagonista, ovviamente) schiantatosi contro l’assoluzione di massa decisa dalla Cassazione. Da mesi Di Matteo attacca la Suprema Corte (ci ha pure scritto un libro sul “processo che non si doveva fare”, quello della Trattativa s’intende) e rivendica il suo sacrosanto diritto di parola. Solo che quando è lui a criticare, si erge il baluardo dell’articolo 21 della Costituzione, quando sono gli altri che criticano lui, si sprofonda nell’attacco pericoloso e delegittimante. Nell’aria immobile dell’antimafia il magistrato Di Matteo, che pure ha condotto e conduce un’azione coraggiosa e costante contro i boss, tenta da anni di sottrarsi al clima di sospetti del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Un atteggiamento che non ha mai convinto Fiammetta Borsellino, la quale ha stigmatizzato più volte il “suo tentativo di discolparsi e la mancanza di volontà di dare un contributo alle indagini”. Quello del depistaggio è il monolite dell’ipocrisia di stato applicata al blabla militante. Tra mille cortei, comizi, rivelazioni rateizzate, propalazioni a effetto, processi moltiplicati, verità dimezzate e dignità centellinata, non si è riuscito a trovare mezzo colpevole (ancora in vita) della creazione del pentito farlocco Vincenzo Scarantino che per sedici anni ha mandato fuori strada le indagini sull’attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Di Matteo che si è sempre detto estraneo alla gestione di Scarantino si ritrovò invece a difenderlo a spada tratta quando lo stesso Scarantino, chissà forse in un lampo di rara consapevolezza, decise di ritrattare le false accuse. E lo fece con una teoria acrobatica secondo la quale la ritrattazione in realtà “avvalorava ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”. Di Matteo è anche inconsapevole pietra angolare della divisione tra i Borsellino. Salvatore, fratello del magistrato assassinato, nella ricerca della sua verità lo ha difeso sempre e comunque criticando i suoi nipoti, i figli di Paolo - Lucia, Fiammetta e Manfredi - e il loro avvocato Fabio Trizzino che invece hanno più volte messo in dubbio la sua versione dei fatti. Le famiglie delle vittime non sono immuni da spaccature e polemiche, e anzi l’unica prova di una evoluzione nel pensiero libero, non allineato con gli stereotipi e i luoghi comuni di un movimentismo sbadigliante, viene proprio da certe accese dialettiche come quelle dei Borsellino. C’è poi il caso della discordanza di opinioni tra Alfredo Morvillo, ex magistrato ora in pensione e fratello di Francesca Morvillo (moglie di Giovanni Falcone morta con lui nella strage di Capaci in cui persero la vita anche gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro) e Maria Falcone, la grande sorella dell’antimafia ecumenica, creatrice di una Fondazione che si è fatta museo con tre sedi (Palermo, Bressanone e Roma), che ha aperto un “American corner” in collaborazione con l’ambasciata Usa, che ha inaugurato una sede a Malta, che raccoglie finanziamenti senza troppi problemi e che rilascia benedizioni antimafia che talvolta destano perplessità. Negli ultimi anni Alfredo Morvillo ha criticato la vicinanza di Maria Falcone a “impresentabili” sostenuti politicamente da Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, entrambi condannati per fatti di mafia (un riferimento era al sindaco di Palermo Roberto Lagalla). Lei lo ha gelato stigmatizzandone i “commenti dottorali”, e dichiarandosi contro chi “gioca a ping pong con la memoria”. L’impegno politico come segno di memoria personale e famigliare, talmente resistente al tempo da slalomare tra destra e sinistra, da risultare vincente anche quando perde. Caterina Chinnici, figlia di Rocco Chinnici, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1983 e considerato l’ideatore del pool antimafia, era stata eletta eurodeputata come indipendente nelle liste del Pd (nel 2014 e nel 2019). Sempre il centrosinistra l’aveva poi candidata alla presidenza della regione Sicilia contro Renato Schifani. E aveva perso. Ma Chinnici non si era data per vinta e aveva pensato bene di cambiare coalizione, aderendo al partito di colui il quale l’aveva sconfitta, Schifani appunto: dal Pd a Forza Italia il passo, anzi il salto è breve, basta avere un guardaroba ben assortito. Insomma col centrodestra aveva ritentato la corsa per un posto a Strasburgo. Ma anche lì non ce l’aveva fatta. Solo per la magnanimità del recordman delle preferenze, quell’Edy Tamajo che da solo aveva totalizzato 121.452 voti (cioè in un colpo quanto tutti i voti della lista dell’Alleanza Verdi e Sinistra nell’intero collegio Isole) e che aveva rinunciato al posto, era riuscita ad arrivare al Parlamento europeo in quanto prima dei non eletti. Dettaglio non proprio dettaglio: la foto sui manifesti elettorali di Chinnici uno (versione Pd) e Chinnici due (versione Forza Italia) è sempre rimasta la stessa. In qualche modo coerenza fu salva. Resistenza e inossidabilità sono fondamentali quando si cerca di perpetrare la successione a se stessi. Il fondatore di “Libera” don Luigi Ciotti ha navigato con fermezza nei mari tempestosi delle polemiche più dure, cioè quelle innescate da lui medesimo. Una volta si ritrovò a essere accusato dal sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca di “gestire i beni sequestrati attraverso cooperative non sempre affidabili”. Il magistrato fu lapidario: “Ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. Putiferio, solidarietà a don Ciotti, allarme democrazia, puf!: tutto rientrato. Ma l’agguerrito presbitero è uno che porge con la giusta cautela la parola di Dio, un po’ meno la propria. Ad esempio per bocciare il progetto del ponte sullo stretto di Messina ha tirato fuori un argomento molto affilato e poco raffinato: “Non unirà solo due coste, ma certamente due cosche”. Anche qui putiferio, solidarietà a don Ciotti, allarme democrazia, puf!: tutto rientrato. E nulla ci fa se si mescola la cultura del sospetto con l’incultura del sottosviluppo, l’idea del progresso con il pregiudizio dell’irredimibilità. L’agar, il terreno di coltura dell’antimafia immobile è proprio il massimalismo, sebbene la storia insegni che si tratta di una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. Gli anni passano e persino le scuole e gli studenti che, all’indomani delle stragi del 1992, erano stati la prima scommessa nei piani di contrasto alla criminalità organizzata, sono diventati l’ambito che interessa meno. Nelle linee guida dell’educazione civica del ministero dell’Istruzione, alla lotta alle mafie è riservato un minimo accenno, ben inferiore a temi più attuali, anzi “attuali”, come l’educazione stradale. Il direttore dell’Ufficio scolastico regionale della Sicilia Giuseppe Pierro aveva creato un gruppo di lavoro per integrare i programmi secondo regole più in linea con la situazione locale (della serie la Sicilia non è Disneyland). Ma poi ha lasciato il suo incarico e tutto è finito nel dimenticatoio. L’immobilismo ha ripreso il controllo. Claudio Fava, figlio del giornalista Pippo assassinato da Cosa nostra a Catania nel 1984, a lungo esponente della sinistra nelle sue varie sfaccettature partitiche, ha testimoniato che nulla nell’universo antimafioso è cambiato, a cominciare dalle commemorazioni che riguardano suo padre: “In questi 41 anni non ho mai visto davanti alla lapide un sindaco della mia città. Mai. Poco è contata la patria politica dei vari sindaci, sedici in tutto: mai ho incrociato uno di loro quando, alle cinque del pomeriggio di ogni 5 gennaio, la famiglia, gli amici, i catanesi si raccolgono ai piedi della lapide che vollero e posero, non a caso, gli studenti di Catania, non i suoi amministratori”. I giovani cercano di farsi spazio nei meandri polverosi e bui di un sistema di militanza che pare blindato, vietato ai non imbalsamati. Qualche giorno fa i ragazzi di Addiopizzo, a trentaquattro anni dalla famosa lettera al “Giornale di Sicilia” dell’imprenditore Libero Grassi che denunciava pubblicamente il suo estortore (poco prima di essere ucciso dalla mafia), hanno lanciato una app del consumo critico, “Pago chi non paga”, per conoscere gli esercenti che hanno aderito alla campagna antiracket. Un soffio di novità seppur in un panorama incupito dalle nubi dell’immutabilità. C’è solo un dettaglio non ininfluente ai fini della nostra storia: i ragazzi che continuiamo a chiamare ragazzi, oggi hanno superato i quarant’anni. L’Anm già si spacca sulla gestione del potere: è corsa alla presidenza di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2025 A pochi giorni dalla prima riunione del Cdc, trattative e tensioni agitano le correnti. Manca meno di una settimana alla prima riunione del nuovo Comitato direttivo centrale dell’Anm. L’ 8 febbraio molto probabilmente verrà eletta la nuova giunta e il presidente che prenderà il posto di Giuseppe Santalucia. Non si può fare altrimenti: c’è da organizzare lo sciopero del 27 febbraio. In queste ore c’è grande fermento all’interno delle correnti e tra i gruppi associativi. Gli sceneggiatori di House of Cards o del Trono di Spade potrebbero prendere spunto per riscrivere nuove serie su ancora più complessi intrighi di potere. Ad oggi sperare di avere un quadro verosimile di quello che sarà il futuro vertice dell’Anm, a cui aderisce il 96 per cento di tutta la magistratura italiana, è quasi impossibile. È pratica quotidiana ricevere infatti le più diverse indiscrezioni. Partiamo da Magistratura indipendente, la corrente moderata, che ha preso più voti e seggi delle altre, benché non sia andata bene come sperava non riuscendo a sottrarre voti ad Unicost e a far confluire al suo interno tutti gli ex di Autonomia e Indipendenza. Il primo della lista è Giuseppe Tango, giudice del lavoro a Palermo, e presidente dell’Anm del capoluogo siciliano. Ha ottenuto 688 preferenze. Il secondo è Antonio D’Amato, procuratore della Repubblica a Messina con 652 preferenze. Uno scarto minimo tra i due, ma inatteso, perché i pronostici davano D’Amato vincente con un bel distacco rispetto al secondo. E invece è andata diversamente. Sembra, da quanto appreso, che questo risultato sia stato accolto con molto nervosismo dallo stesso procuratore, ma soprattutto dai vertici di Mi, Claudio Galoppi e Loredana Micciché. Partendo dal presupposto che molto probabilmente la presidenza dell’Anm toccherà proprio alla corrente posizionata più a destra, verrebbe naturale pensare che quel posto spetterebbe a Tango: giovane magistrato, che qualcuno definisce un indipendente all’interno di Magistratura indipendente, aperto al dialogo interno ed esterno alla magistratura, gradito pure ad AreaDg, che, secondo qualche battuta carpita nei corridoi, lo avrebbe voluto cooptare. E però i vertici di Mi vorrebbero comunque puntare su D’Amato, con più esperienza e più allineato ai desiderata dei capi corrente. Quindi al momento in Mi c’è un problema: la base che punta su Tango, Galoppi e soprattutto Micciché che vorrebbero il secondo arrivato. In tutto questo Mi starebbe trattando con Unicost per proporre un ticket D’Amato presidente e segreteria in mano ad una donna del gruppo centrista per il primo anno. Poi si vedrà se e come fare la rotazione. Tuttavia nulla è detto al momento. Per varie ragioni. La prima: innanzitutto i presidenti e i segretari dei gruppi devono fare una riunione con gli eletti in Cdc e poi sentire gli altri presidenti e segretari. Al momento tutto questo non è stato ancora fatto. Secondo: il volto del presidente della nuova Anm è quello che condurrà la campagna comunicativa per provare a vincere il referendum per la separazione delle carriere. Dalla parte progressista di Area e Magistratura democratica, che insieme hanno raccolto il 42 per cento di preferenze, non vedrebbero bene la figura di D’Amato, troppo ingessata e pacata. Occorre una persona che sappia dialogare con un linguaggio più fresco ed innovativo con i cittadini, ma comunque far valere fermamente le ragioni contrarie alla riscrittura dell’ordinamento giudiziario e Tango potrebbe essere quello giusto. Terzo: i posti da assegnare in giunta sono presidenza, segretario e vice presidenza. Anche qui parrebbe scontato che a dividerseli fossero Mi, Area, Unicost ma Md, che è la vera vincitrice, è pronta a reclamare una poltrona. Area al momento resta a guardare e aspetta di capire che forma vuole prendere MI: di lotta o di governo? Non è escluso che il gruppo guidato da Zaccaro possa tirarsi fuori dall’accaparramento delle poltrone: se non sei ai vertici dell’Anm sei più libero nel prendere posizioni pubbliche forti contro la maggioranza e il ministro Nordio. Lombardia. Carceri, “troppi suicidi”. Penalisti in stato di agitazione di Sara Pizzorni cremonaoggi.it, 3 febbraio 2025 Il direttivo della Camera Penale della Lombardia Orientale “Giuseppe Frigo” ha dichiarato lo stato di agitazione dei penalisti per le condizioni di vita in cui versano i carcerati italiani. “Da gennaio 2024 ad oggi”, si legge ina nota del direttivo, “100 persone detenute ed affidate allo Stato si sono tolte la vita, l’ultimo a Vigevano, era in carcere per una rapina di 50 euro risarciti alla persona offesa. A ciò si sommano i gesti di autolesionismo che quotidianamente si verificano in tutti gli istituti penitenziari e i suicidi di 6 agenti di polizia penitenziaria”. “Stiamo tenendo il conto di questa tragedia da più di un anno”, ha dichiarato Micol Parati, presidente della Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi”. “Tragedia che ha riguardato anche Cremona con il suicidio di un detenuto che si è tolto la vita lo scorso 3 agosto. Anche la nostra Camera Penale sezionale, insieme alle altre, ha organizzato la maratona oratoria, ha aderito all’astensione nel mese di luglio, ha fatto svariati appelli alla politica, non ultimo tramite la presidente della Camera Penale della Lombardia Orientale Maria Luisa Crotti all’inaugurazione anno giudiziario in Corte a Brescia. Fino ad ora i nostri appelli sono stati inascoltati, ci auguriamo che ora i numeri impressionanti dei suicidi portino a qualche intervento, ormai urgentissimo”. Per la Camera Penale della Lombardia Orientale, “lo spaventoso aumento di questi tragici episodi è ascrivibile a molti fattori, tra i quali spiccano la grave, endemica e costante situazione di sovraffollamento degli istituti e le croniche carenze strutturali e di personale, di ciò sono esempio le carceri del distretto della Corte D’appello di Brescia con indici al di sopra del 200%. La frequenza con la quale si verificano suicidi ed episodi di autolesionismo, le condizioni di vita in carcere, l’alto uso di psicofarmaci e sedativi, l’assenza di lavoro e attività risocializzanti, la cronica mancanza di educatori, medici, psichiatri e agenti, danno atto di un sistema penitenziario non più rispondente al principio costituzionale di cui all’art. 27 per cui le pene non possano consistere in trattamenti degradanti e contrari al senso di umanità. La politica si è dimostrata sorda ai costanti richiami fatti dalla società civile, dalle associazioni, dall’Unione delle Camere Penali, dal Presidente della Repubblica e persino e ripetutamente, dal Papa; tutti hanno stigmatizzato e richiamato la politica e il Governo sulle condizioni inammissibili di esecuzione delle pene, ma nulla è stato fatto. A prescindere dai proclami, nessuna reale soluzione è stata prospettata, circostanza che, nella migliore delle ipotesi, è dovuta a una sottovalutazione del problema e nella peggiore, ad una totale assenza di volontà politica di porvi rimedio. Ciò che tragicamente accade ogni giorno negli istituti penitenziari del nostro Paese sta diventando una abitudine”. I penalisti non si rassegnano, e chiedono con forza di “tutelare la vita e la dignità delle persone detenute con strumenti previsti dal nostro ordinamento che sono l’unica concreta soluzione possibile per riportare la pena alla legalità. Amnistia, indulto e liberazione anticipata speciale devono essere adottate subito, qui e ora”. Palermo. Carcere Pagliarelli, 400 detenuti in sciopero della fame contro le nuove restrizioni di Fabio Geraci Giornale di Sicilia, 3 febbraio 2025 Da giorni nel carcere dei Pagliarelli ha risuonato il rumore delle stoviglie sbattute contro le sbarre. Un segnale ripetuto con costanza tre volte al giorno per manifestare un disagio profondo. Una polveriera pronta a esplodere per le condizioni di vita che stanno portando il livello di esasperazione al limite. E ora la protesta si inasprisce: da oggi (3 febbraio) oltre 400 detenuti del reparto di alta sicurezza rifiuteranno il cibo in segno di protesta. La decisione di attuare lo sciopero della fame arriva dopo l’emanazione di una circolare del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che prevede una serie di restrizioni tra cui il divieto di introdurre beni come coperte e maglioni in pile, ufficialmente per prevenire il rischio di incendi nelle celle. Il provvedimento ha amplificato il malessere della popolazione carceraria: “Questa misura non solo è punitiva, ma anche priva di logica”, afferma l’avvocato Cinzia Pecoraro, che assiste alcuni detenuti e si è fatta portavoce delle loro richieste. “Se il problema è il rischio incendi, perché vengono ancora consentiti i fornelletti per cucinare all’interno delle celle?”, si chiede il legale. “Inoltre - continua Pecoraro - imporre l’acquisto di coperte solo dentro all’istituto penitenziario significa penalizzare chi non ha possibilità economiche. Dobbiamo accettare che chi non può permettersi una coperta resti a soffrire il freddo mentre i riscaldamenti continuano a non funzionare? Questi provvedimenti ledono i diritti fondamentali dei detenuti privandoli di condizioni minime di dignità e benessere”. L’avvocato Pecoraro presenterà un’istanza al magistrato di sorveglianza per sottoporre la circolare a una revisione. La protesta non è un caso isolato. Negli ultimi anni, infatti, le condizioni precarie al Pagliarelli sono state più volte denunciate come due anni fa quando un gruppo di reclusi scrisse al Giornale di Sicilia per segnalare celle sovraffollate, impianti di riscaldamento inesistenti, mancanza di acqua calda e assistenza sanitaria inadeguata. Contro la circolare del Dap è intervenuto anche Pino Apprendi, il garante dei detenuti di Palermo. “Sono 90 i suicidi avvenuti fra i detenuti in carcere in Italia e migliaia i casi di autolesionismo, nello scorso anno, numeri record che non hanno suscitato nessun interesse in chi governa. Tutt’altro, a chi chiede un carcere che non mortifichi la persona che non lo umili per mancanza degli elementi di base per farlo sentire persona, si risponde con una disposizione ancora più restrittiva. Si tratta di una circolare che vieta, vieta tutto ciò che al momento gli consente un legame di vita con l’esterno, dalla farina, al lievito, ai salumi, alla pasta al forno, ai sughi confezionati ai maglioni in pile”. Per Apprendi si tratta di “restrizioni che contribuiscono a creare ulteriore nervosismo nelle carceri dove spesso manca l’acqua calda per una doccia, dove se hai gravi patologie non riesci a curarti e rischi la cecità per la mancanza di un intervento per cataratta - aggiunge il garante-. Per quanto abbiamo solo qualche mese di basse temperature, nelle nostre carceri palermitane mancano i riscaldamenti e c’è molto freddo fra le mura delle celle. Sono cominciate le proteste già a dicembre nel carcere di Siracusa e adesso al Pagliarelli di Palermo inizieranno lo sciopero della fame. Auspico un intervento che ponga rimedio a queste disposizioni”. Ivrea (To). Il giornale “La Fenice”, realizzato dai detenuti del carcere, è stato silenziato quotidianocanavese.it, 3 febbraio 2025 La direzione ha segnalato una generica “immagine negativa” della vita in carcere che sarebbe emersa dagli articoli e la presenza all’interno dei pc di elementi non attinenti alla attività di redazione. Da ormai due mesi è stata silenziata la voce dei detenuti del carcere di Ivrea. Il giornale online “La Fenice” è stato sospeso fino a data da destinarsi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera dell’associazione culturale Rosse Torri e della redazione di Varieventuali coinvolte nel progetto. “Ribadendo l’importanza trattamentale dell’attività in oggetto (…) si chiede l’individuazione di altri operatori quali “soggetti incaricati del progetto”. Si conclude così la lettera che “il direttore della Casa Circondariale di Ivrea” ha inviato nei giorni scorsi all’associazione Rosse Torri (editrice del giornale varieventuali) e al direttore responsabile del giornale. La “attività in oggetto” alla quale fa riferimento la lettera è la redazione dell’inserto La Fenice (attiva dal 2018) del giornale online varieventuali, che dal dicembre scorso non pubblica nuovi articoli provenienti dall’interno della Casa Circondariale di Ivrea. Perché? Cos’è successo? Semplicemente l’attività è stata sospesa a fine novembre per decisione della direzione, ufficialmente per effettuare accertamenti sui computer, peraltro da sempre periodicamente effettuati, senza alcuna ulteriore spiegazione o contestazione. Spiegazioni che non sono arrivate neanche in un incontro, svoltosi a metà dicembre, chiesto dai responsabili esterni della redazione della Fenice e di varieventuali. In quell’occasione la direzione segnalava una generica “immagine negativa” della vita in carcere che sarebbe emersa dagli articoli, la presenza all’interno dei pc di elementi non attinenti alla attività di redazione (file musicali e giochini) e la necessità di ridurre, per ragioni di personale disponibile, l’orario di apertura della stanzetta adibita a redazione interna al carcere. Passato un altro mese, ad attività sempre sospesa, il 20 gennaio la redazione esterna della Fenice e l’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” hanno chiesto congiuntamente un incontro alla Direzione della Casa Circondariale di Ivrea “per chiarire se il contributo (sempre oggetto di miglioramento e di ridefinizione delle modalità di collaborazione) di associazioni esterne alla struttura penitenziaria, ma radicate nella società locale, sia o meno benvoluto e incoraggiato”. Una richiesta nata dalla condivisa “convinzione che l’apporto della comunità locale e il rapporto con questa siano risorse per la funzione rieducativa svolta negli istituti penitenziari- ma, aggiungono - ci dispiace dover rilevare come, in questi ultimi mesi, tale apporto e rapporto ci appaiano considerati come problemi. In particolare - proseguono i richiedenti l’incontro - le incertezze sulle attività di redazione dello storico giornale “L’Alba” e della “Fenice” (inserto del giornale Varieventuali), si protraggono ormai da diverse settimane senza che ad oggi sia sopraggiunto alcun chiarimento”. Pochi giorni dopo, il 24 gennaio, arriva all’associazione Rosse Torri la lettera, che fa seguito all’incontro di metà dicembre, nella quale l’attività della redazione della Fenice viene valutata come “un’ottima occasione non solo per garantire il pieno diritto all’informazione (lato sensu intesa), ma anche per assicurare la tutela alla libertà di pensiero”, tuttavia “previa rivisitazione della Convenzione siglata in data 20.04.2023” [un protocollo che definiva le modalità di svolgimento dell’attività N.d.R.] e poiché “si ritiene venuto meno il rapporto di fiducia verso gli operatori incaricati del medesimo progetto” si chiede all’Associazione Rosse Torri “l’individuazione di altri (…)”. In sostanza: pareri positivi sull’attività svolta dalla Fenice, ma sfiducia nei due volontari che quell’attività l’hanno messa in piedi (peraltro attivandosi per procurare anche tutti i pc per la redazione interna) e svolta per oltre sei anni. Senza alcuna altra spiegazione e senza alcuna contestazione mai avanzata ad alcuno degli “operatori incaricati del progetto”. Francamente sembra un modo “elegante” per far cessare un’attività che, al di là delle belle parole probabilmente può aver talvolta dato fastidio, essendo facile a chiunque comprendere che i volontari non sono sostituibili in qualsiasi momento e per qualsiasi attività. Un’esperienza di lavoro redazionale di sei anni all’interno di una struttura complicata come quella di un carcere non si improvvisa. E poi, quand’anche faticosamente si trovassero altri volontari con competenze e capacità personali adeguate, non sarebbero sempre soggetti a una insindacabile “sfiducia”? In pratica si tratta della scelta di chiudere di fatto un’esperienza che riusciva in qualche modo a far arrivare la voce, le vite e i percorsi delle persone detenute al di fuori del carcere. Basta guardare nell’archivio della Fenice gli articoli scritti dai redattori detenuti (che negli anni sono quasi tutti cambiati per i frequenti trasferimenti in altre carceri o per termine pena) per verificare quanto siano affrontati vari argomenti: dai difficili rapporti con altre persone in ambienti ristretti alla voglia di mantenere vivi i rapporti famigliari, dagli errori commessi in gioventù alle speranze di una vita diversa una volta liberati, dai commenti alle proposte legislative in tema di carceri ai racconti di fortunosi arrivi sulle coste italiane. Certo non sono tutti ottimisti sul futuro né possono magnificare la vita nelle celle, però diverse volte hanno voluto esprimere l’apprezzamento per il lavoro degli agenti penitenziari quando sopperivano alle carenze della struttura o dell’organico. Nessun problema di sicurezza, questione che giustamente preoccupa molto il Dipartimento Penitenziario, perché ogni articolo è sempre stato vagliato prima della eventuale pubblicazione, e ovviamente nessuno ha mai riguardato i casi personali, arrivando a rispettare anche la misura richiesta a Ivrea di non firmare con il proprio nome (cosa che invece si verifica normalmente in altri giornali redatti in carceri italiane). Attività certamente migliorabile, che ha contribuito a ridare consapevolezza ai partecipanti nel sentirsi persone pensanti e non semplici numeri e a cercare un qualche collegamento con il mondo esterno dove dovranno reinserirsi. Ora l’inserto La Fenice resta aperto e pubblicherà quanto riguarda “l’universo carcerario”, mentre faremo il possibile perché questa esperienza non divenga parte, come spesso è accaduto, del “glorioso passato di Ivrea”, ma torni ad essere una espressione di un “quartiere della città” o “un villaggio del territorio”. Sulmona (Aq). Emergenza carcere: detenuti in aumento, struttura al collasso laquilablog.it, 3 febbraio 2025 “La situazione all’interno del carcere di massima sicurezza di Sulmona sta raggiungendo livelli allarmanti. La struttura, già sovraccarica, sta accogliendo un numero sempre maggiore di detenuti senza che siano stati predisposti spazi adeguati. Solo nelle ultime 24 ore, l’istituto ha visto l’ingresso di dodici nuovi reclusi, mentre soltanto due hanno lasciato la struttura. Un flusso che, nei prossimi giorni, continuerà con l’arrivo di altri detenuti, mettendo ulteriormente sotto pressione un sistema già fragile - così il Vice Segretario Generale SPP Mauro Nardella. Questa crescita della popolazione carceraria sta avvenendo nonostante il nuovo padiglione del penitenziario non sia ancora stato aperto. Una scelta incomprensibile che sta rendendo ancora più difficile la gestione della struttura, già segnata da carenze organizzative e logistiche. La necessità di garantire spazi adeguati ai detenuti è fondamentale per mantenere un equilibrio all’interno del carcere, ma la mancata attivazione della nuova ala costringe l’amministrazione a trovare soluzioni di emergenza. L’incremento della popolazione detenuta sta generando notevoli difficoltà nella gestione quotidiana dell’istituto. Per far fronte alla carenza di spazi, si è resa necessaria una riorganizzazione forzata delle sistemazioni, con la conseguente revoca della possibilità, precedentemente concessa ad alcuni ergastolani, di scontare la pena in celle singole. Sebbene il pernottamento in isolamento non sia un diritto garantito, la sua revoca forzata rappresenta un segnale chiaro delle difficoltà strutturali che il carcere sta affrontando. L’Amministrazione Penitenziaria, responsabile della gestione delle carceri sul territorio nazionale, sembra aver agito con estrema rapidità nell’invio di nuovi detenuti a Sulmona, senza però predisporre soluzioni adeguate per gestire questo afflusso. Una decisione che lascia perplessi e che pone seri interrogativi sulle strategie adottate per garantire la sicurezza e la qualità della detenzione. Nel frattempo, a partire da domani, inizieranno il proprio servizio dieci nuovi agenti di polizia penitenziaria, giovani leve che arrivano direttamente dal 184° corso di formazione. Sebbene il loro ingresso rappresenti un piccolo passo verso il rafforzamento dell’organico, la loro inesperienza potrebbe renderli vulnerabili in un contesto tanto delicato e complesso come quello di Sulmona. La gestione di un carcere di massima sicurezza richiede tempo e formazione, e il rischio è che l’arrivo contemporaneo di nuovi detenuti e di personale ancora in fase di apprendimento crei ulteriori difficoltà all’interno della struttura. Mauro Nardella, vice segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (SPP), ha lanciato un duro monito sulla situazione del carcere di Sulmona, descrivendo lo scenario come un vero e proprio “gioco al massacro”. Secondo Nardella, la decisione di trasferire un numero così elevato di detenuti senza prima aver reso operativo il nuovo padiglione è stata una mossa azzardata, che rischia di compromettere la sicurezza e il funzionamento dell’istituto. Le criticità non riguardano soltanto l’ordine e la sicurezza, ma si estendono a tutti gli aspetti della vita carceraria. Il sovraffollamento comporta un aggravio per i servizi sanitari, amministrativi e trattamentali, rendendo sempre più difficile garantire condizioni dignitose ai detenuti e agli operatori che vi lavorano. Il rischio, secondo il sindacato, è che questa situazione possa incidere negativamente anche sul percorso rieducativo dei reclusi, elemento centrale previsto dall’articolo 27 della Costituzione italiana. La decisione di sovraccaricare il carcere di Sulmona con nuovi detenuti senza prevedere una reale soluzione alle problematiche già esistenti appare difficile da comprendere. La mancata apertura del nuovo padiglione, che avrebbe potuto rappresentare una valvola di sfogo per il sovraffollamento, aggrava ulteriormente la situazione, esponendo il personale penitenziario a maggiori rischi e rendendo ancora più difficile la gestione quotidiana. L’auspicio è che l’Amministrazione Penitenziaria possa rivedere le proprie strategie, adottando misure che garantiscano condizioni migliori sia per i detenuti che per il personale. In caso contrario, la tenuta del sistema carcerario di Sulmona rischia di essere compromessa, con conseguenze imprevedibili per la sicurezza dell’istituto e per il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse” - conclude Nardella. Novara. Panificio e nuova infermeria: gli interventi al carcere di Elena Mittino novaratoday.it, 3 febbraio 2025 Alcuni lavori sono stati già effettuati. In carcere a oggi sono presenti 170 detenuti. Un panificio e una nuova infermeria come recupero dell’ex carcere femminile con un milione di euro di investimenti. Il carcere di via Sforzesca di Novara è tra i protagonisti del dossier redatto dalla regione Piemonte alcuni mesi fa e anche tema di una commissione consigliare che si è tenuta nei giorni scorsi a palazzo Cabrino. Un tema affrontato per la prima volta in una commissione da quando c’è il garante comunale appunto, Natalie Pisano. Nell’elenco delle modifiche e migliorie da attuare ci sono: sistemazione e recupero degli alloggi demaniali (climatizzazione, caldaia, box doccia); revisione dell’impianto fognario; revisione dell’impianto anti scavalcamento; rispristino del muro di cinta e delle garitte; realizzazione del panificio; miglioramento della connessione internet e fornitura di nuovi pc per la realizzazione di corsi di formazione. Da rivedere anche le stanze di pernottamento: si tratta di “cameroni” da 4/5 posti letto, che dispongono di un unico bagno, privo di doccia e senza porte divisorie tra l’area in cui i detenuti scaldano i pasti e la zona adibita a toilette. Come si legge nel dossier della Regione, nelle stanze non sono presenti frigoriferi (è presente un unico frigorifero con congelatore in ogni sezione) e, soprattutto in estate, la mancanza di refrigerazione delle vivande rappresenta una criticità particolarmente sentita di cui la direzione si sta prendendo carico. L’adeguamento delle stanze di pernottamento è stato segnalato al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (dap) come una delle priorità della struttura, e si attende autorizzazione. L’iter è stato avviato già nel corso del 2024. I locali, ormai da anni in disuso, sono stati indicati come soluzione per collocare i locali adibiti ai servizi medico infermieristici, valorizzando il presidio sanitario regionale interno al carcere e razionalizzando l’accesso alle ambulanze in una struttura che ha esigenze particolari, connesse alla presenza del circuito detentivo ex art.41 bis. Il progetto di riqualificazione strutturale è stato oggetto di valutazione tecnica da parte del Ministero e, nel luglio 2024, il dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha espresso parere favorevole all’intervento, stimato in circa 1 milione di euro. Lo spostamento dei locali sanitari dalla attuale posizione alla palazzina “ex femminile” permetterebbe inoltre di creare nuove aree di socialità e recuperare spazi preziosi per lo sviluppo delle attività trattamentali che attualmente devono essere limitate in termini di offerta formativa proprio per la carenza di aree adeguate. Durante il 2024 la direzione dell’istituto ha individuato e inserito nel quadro “esigenziale” del carcere un buon numero di lavori e forniture necessarie indicandone le relative priorità. Gli interventi realizzati nel corso dell’anno sono: smaltimento e differenziazione di rifiuti e materiali tecnologici; adeguamento dell’impianto elettrico dell’intero istituto con la sostituzione della cabina elettrica; adeguamento dell’impianto di illuminazione; bonifica del tetto della palestra; impianto anti droni; transito per i detenuti dell’ex art 32; realizzazione di un’area adibita a orto; spostamento e ampliamento di una delle due biblioteche; potenziamento dell’impianto di videosorveglianza dell’intero istituto. Sostituita anche una prima caldaia e realizzato un primo intervento di ammodernamento delle centrali termiche e delle linee di distribuzione. Il carcere di Novara ha una capienza di 156 detenuti e a oggi ne ospita 170 (secondo il dossier di fine anno erano 172), di cui 71 al 41-bis. Gli agenti effettivi sono 160, cui vanno aggiunti 40 agenti come Gruppo operativo mobile (Gom). Reggio Calabria. Al via in Commissione le audizioni sulla mozione carceri reggiotoday.it, 3 febbraio 2025 Si è riunita la VIII Commissione consiliare di palazzo San (pari opportunità, pace, diritti umani, relazioni internazionali, immigrazione), presieduta dal consigliere Filippo Quartuccio, per discutere la mozione sulle carceri a firma dei consiglieri comunali del Gruppo Red Carmelo Versace, Antonino Castorina e Filippo Burrone. Il documento politico è stato presentato dal consigliere Antonino Castorina ed ha registrato il contributo attivo del garante regionale dei diritti dei detenuti Giovanna Russo nonché del presidente della camera penale di Reggio Calabria Francesco Siclari. Sostanzialmente tale documento mira ad aprire un focus sulla questione carceraria; partendo, infatti, dall’analisi delle situazioni di difficoltà che vivono le due strutture detentive presenti a Reggio Calabria si propone di richiedere nuove risorse, nuovo personale e avviare un’intesa con le varie anagrafi comunali per la regolarizzazione dei documenti di identità dei detenuti realizzando, parimenti, un percorso di reale recupero del condannato anche attraverso intese e protocolli adottabili rispetto a formazione professionale e a lavori stagionali. Durante il dibattito in commissione, coordinato dalla consigliera Maria Ranieri, sono intervenuti il consigliere Giuseppe Marino del Pd e il vice sindaco della Città metropolitana di Reggio Calabria Carmelo Versace il quale ha offerto il pieno supporto anche della metrocity rispetto a quelle attività da porre in essere in favore della popolazione carceraria quale atto susseguente alla mozione presentata. Il presidente della Camera Penale, avv. Francesco Siclari, si è soffermato sull’importanza di dare concreta attuazione alle tematiche oggetto della mozione facendo un’importante analisi sulla funzione rieducativa che dovrebbe assumere la detenzione in carcere. La garante Giovanna Russo, nel ripercorrere il lavoro svolto con il Comune, si è resa disponibile ad attuare anche a livello regionale tutte le attività possibili per rendere concreta la mozione. I lavori della commissione si aggiorneranno per procedere con la calendarizzazione delle audizioni prima di giungere alla fase del voto finale del testo che, una volta approvato, passerà al vaglio del consiglio Comunale “Il gruppo Red- dichiara l’avv Castorina relatore della mozione - chiede massima attenzione sui diritti umani e sul rispetto della dignità quali valori fondanti della democrazia; ragione per cui ritiene prioritario che anche questo tema possa entrare a pieno titolo nel dibattito politico cittadino”. “L’amministrazione comunale guidata da Giuseppe Falcomatà - spiegano i consiglieri comunali del gruppo Red promotori della mozione - ha da sempre dato massima attenzione alla questione carceraria e, a oggi, ritiene importante (di concerto con gli altri enti) trasformare gli intenti in attività tangibili e concrete a favore della popolazione carceraria a partire da lavoro, formazione e adeguate condizioni di vita in regime di detenzione”. Alba (Cn). Bando per la nomina del Garante comunale dei detenuti ilcorriere.net, 3 febbraio 2025 Il Sindaco di Alba Alberto Gatto deve nominare il “Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” istituito con deliberazione del Consiglio comunale n. 56 del 26/06/2015, in seguito alle dimissioni della Garante Paola Ferlauto che si è dimessa il 31 gennaio 2025. Il garante resta in carica cinque anni e può essere confermato una sola volta. Requisiti: esperienza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali in istituti di prevenzione e pena e/o l’ufficio per l’esecuzione penale esterna, nel campo delle attività sociali; possesso di specifica comprovata esperienza nei settori di esercizio delle funzioni. Tale ruolo è incompatibile con altre cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi di responsabilità in partiti politici. Il Garante non può essere un dipendente del Comune di Alba e dell’amministrazione giudiziaria. Non possono essere candidati coloro che hanno riportato condanne definitive o condanne per delitti contro l’Amministrazione della Giustizia. Il Garante non ha diritto ad indennità od emolumenti per l’attività prestata, solo il diritto al rimborso delle spese sostenute, debitamente autorizzate e documentate. Le candidature devono essere presentate alla Segreteria Generale del Comune di Alba - Ufficio Contratti (Piazza Risorgimento n. 1 - 12051 - Alba) tramite PEC all’indirizzo: comune.alba@cert.legalmail.it. In oggetto scrivere: “Candidatura per il Garante dei Detenuti”. Le domande devono essere presentate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 21 febbraio 2025 La domanda, completa di generalità (nome e cognome, luogo e data di nascita, residenza, domicilio, codice fiscale, recapito telefonico, e-mail ed eventuale indirizzo PEC), deve essere accompagnata dai seguenti allegati: curriculum vitae dettagliato, sottoscritto in calce e dichiarato veritiero sotto la propria personale responsabilità, dal quale si evinca il possesso dei requisiti richiesti; titolo di studio; attività lavorativa svolta. Altri dettagli sui requisiti e sulle competenze del Garante dei detenuti sono sul bando pubblicato sul sito: https://www.comune.alba.cn.it/ e sull’Albo Pretorio del Comune di Alba dal 31 gennaio 2025. Per ulteriori informazioni: tel. 0173292271. Pordenone. Gli studenti del “Kennedy” in visita al carcere cittadino di Giovanna Pasqualin Traversa agensir.it, 3 febbraio 2025 Il desiderio di riscatto, la volontà di cambiare, la speranza di costruirsi una vita migliore. Rimane questo nel cuore degli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Kennedy” di Pordenone dopo la visita al carcere cittadino alla vigilia dell’apertura del Giubileo. Una profonda esperienza umana e civile perché, incontrando i detenuti, i ragazzi hanno compreso il valore della libertà, del perdono, del riflettere prima di agire. Ed anche del non giudicare una persona senza conoscerne la vita. “Il carcere - dice uno di loro - non è un mondo ‘altro’, ma è parte integrante della nostra società, con le sue sfide e la sua umanità”. Alla vigilia dell’apertura della Porta santa a Rebibbia lo scorso 26 dicembre da parte di Papa Francesco, la 5a B Meccanici dell’Istituto tecnico settore tecnologico J.F. Kennedy di Pordenone si è recata nel carcere cittadino. A promuovere l’iniziativa in occasione dell’Anno Santo, l’insegnante di religione Roberto Marinaccio per mettere in contatto i ragazzi con le realtà meno conosciute del territorio. Qualcuno di loro ignorava perfino l’esistenza dell’istituto di pena. “Non sapevo- ammette Jacopo - che in città ci fosse un carcere e l’idea che avevo di un luogo simile era molto diversa da ciò che ho visto. La struttura è piccola ma accogliente e, a differenza di come viene rappresentata nei film o nelle serie tv, si percepisce un’atmosfera più umana e vivibile”. A raccontare l’esperienza giubilare al Sir è Silvio Ornella, docente di lettere al Kennedy. “La Casa circondariale - spiega - è sembrata ai ragazzi un istituto di pena a conduzione familiare, grazie alla rete competente e sensibile che sostiene i detenuti e che va dalla Direzione, al supporto psicopedagogico, al sostegno morale di un prete di lunga esperienza come Piergiorgio Rigolo e alla correttezza degli agenti penitenzi”. “Appena varcato l’ingresso - ricorda Daniele -, ho avvertito un senso di oppressione: il silenzio e l’austerità dell’ambiente mi hanno fatto capire immediatamente il peso del luogo”. Ma una volta entrati, il carcere di Pordenone stupisce e commuove: “i muri - rammenta Riccardo - sono colorati e su di essi sono raffigurati prati verdi con fiori colorati; questo forse serve ai detenuti per immaginare la libertà”. Intenso l’incontro con i detenuti nella sala in cui si tengono i corsi di musica. Le domande preparate insieme al docente rompono il ghiaccio. “I detenuti - racconta ancora Daniele - hanno condiviso riflessioni toccanti sulla loro esperienza: la rabbia iniziale, la speranza di uscire, la rassegnazione e, infine, l’accettazione della loro condizione”. A colpire i ragazzi la sincerità con cui hanno parlato dei propri errori e l’appassionato invito da “fratelli maggiori” a riflettere prima di agire, perché “basta un istante per uscire dalla legalità e dalla vita da liberi”. Alla domanda su cosa farebbero se potessero uscire subito la risposta è unanime: “Rivedrei i familiari”. “Mi sono profondamente commosso - annota Daniele - quando ho visto due di loro emozionarsi parlando del legame con i propri cari”. “Molti di loro - aggiunge Leonardo - erano visibilmente commossi mentre parlavano con noi perché in qualche modo ricordavamo loro i parenti più cari: fratelli, cugini, figli o nipoti. Abbiamo scoperto che, anche se detenuti, possono avere un cuore pure migliore del nostro, e sentirli parlare ci ha fatto riflettere su quanto sia facile giudicare una persona senza conoscere la sua vita e le sue motivazioni”. Al dialogo hanno partecipato anche gli agenti penitenziari e Michele rimarca “il clima di armonia che sembra esistere tra detenuti e agenti… Mi aspettavo rapporti più tesi e conflittuali, ma ho percepito un’atmosfera di rispetto reciproco che contribuisce a rendere la convivenza più umana e tollerabile”. Il carcere, prosegue, “è certamente un luogo di punizione, ma può anche essere uno spazio di riflessione e crescita, sia per chi lo vive dall’interno sia per chi come noi lo osserva dall’esterno”. “Attraverso le loro parole - sottolinea Matteo - ho percepito il peso degli errori commessi e l’impatto che questi hanno avuto sulle loro vite, ma anche il loro desiderio di riscatto, la volontà di cambiare e la speranza di poter ricostruire una vita diversa e migliore”. Ma i ragazzi hanno compreso anche l’eccezionalità di questa realtà carceraria. “Il carcere di Pordenone - rileva Davide - non è molto grande, quindi la rieducazione ed il recupero delle persone può avvenire con relativa facilità. Le guardie carcerarie ci hanno spiegato che in Italia esistono carceri con più di 800 detenuti e che quindi il recupero della persona non viene posto in primo piano, come invece dovrebbe essere”. Forse l’insegnamento più incisivo è stato il valore inestimabile della libertà su cui tutti i detenuti hanno insistito. “La libertà - dice Riccardo - è la cosa più importante che abbiamo e, testa sulle spalle, dobbiamo essere consapevoli delle nostre decisioni perché nessuno ci obbliga ad intraprendere una brutta strada; siamo noi che lo facciamo”. E Michele aggiunge: “Quello che mi ha lasciato questa esperienza è che la libertà non ha prezzo, e che si può perderla in un attimo. Bisogna essere sempre rispettosi di sé stessi, ma soprattutto degli altri, perché prima di pretendere rispetto, bisogna darlo”. “La visita al carcere mi ha permesso di riflettere sull’importanza del perdono, sulla possibilità di cambiamento e sul ruolo di noi giovani nella società”, annota Marco. “Abbiamo la responsabilità - prosegue - di contribuire ad un cambiamento culturale che possa ridurre il numero di persone che arrivano a vivere queste esperienze”. Daniele mette in luce la valenza didattica, ma prima ancora umana e civile, dell’esperienza: “Promuovendo queste iniziative la scuola offre un’opportunità unica per educare alla riflessione, all’empatia e alla responsabilità sociale. Esperienze di questo tipo dovrebbero essere incoraggiate e moltiplicate perché il carcere non è un mondo ‘altro’, ma è parte integrante della nostra società, con le sue sfide e la sua umanità”. Siena. L’evento “Pena e speranza. La vita in carcere, le riforme necessarie” arcidiocesi.siena.it, 3 febbraio 2025 Lunedì 10 febbraio 2025, alle ore 17, nel salone d’onore del Palazzo Arcivescovile di Siena, in piazza Duomo, 4, nell’ambito delle iniziative giubilari dell’arcidiocesi, si terrà l’evento “Pena e speranza. La vita in carcere, le riforme necessarie”, promosso dall’Arcidiocesi di Siena-Colle di Val D’Elsa-Montalcino e dalla Fondazione Derek Rocco Barnabei. Intervengono: il card. Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena - Colle di Val D’Elsa-Montalcino; Anna Carli, presidente della Fondazione D. R. Barnabei; Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio; Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti per la Regione Toscana. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di focalizzare l’attenzione sulle tante criticità che coinvolgono le persone che scontano una pena all’interno del carcere ed anche a sostegno della moratoria e dell’abolizione della pena di morte. Un tema di grande attualità soprattutto in vista del prossimo Giubileo dei detenuti che si terrà a dicembre di quest’anno. “Papa Francesco - spiega il card. Lojudice - ha voluto aprire una porta santa all’interno di un carcere indicando a tutti la strada da percorrere per trasformare i luoghi di detenzione in “laboratori” dove coltivare la speranza. Per questo abbiamo deciso, con la Fondazione Barnabei, di iniziare un percorso che ci porterà a vivere a dicembre il Giubileo dei detenuti”. “Un primo momento di riflessione, quello del 10 febbraio - aggiunge il cardinale - per rimettere al centro l’uomo e i suoi inalienabili diritti anche dietro le sbarre. Per tale occasione verrà anche istituito un comitato organizzatore che dovrà definire contenuti e modalità per lo svolgimento dell’evento di dicembre”. “La Fondazione Derek Rocco Barnabei - dice la presidente Anna Carli - fu costituita dalle Istituzioni senesi per dare seguito al testamento morale di questo giovane italo-americano la cui esecuzione della condanna a morte non fu scongiurata nonostante una campagna internazionale a suo sostegno, per la quale Siena si impegnò a fondo anche per i legami che la famiglia di origine aveva avuto con la nostra Città. La Fondazione, oltre a sostenere la moratoria e l’abolizione della pena di morte, è impegnata per il riconoscimento di tutti i diritti umani e per la dignità delle persone che scontano una pena all’interno del carcere”. “Il Giubileo dei Detenuti e la collaborazione con l’Arcidiocesi - conclude la Presidente della Fondazione - sono opportunità di riflessione e di impegno per tutti noi, credenti e non credenti, che hanno a cuore la dignità della persona e il rispetto delle finalità previste dalla nostra Costituzione per la pena detentiva. La perdita della libertà deve essere accompagnata da una condizione di vita attenta alle potenzialità e alle fragilità della personalità del detenuto o della detenuta, e quindi umanamente rispettosa e tale da dare nuovo senso al futuro e da scongiurare scelte personali drammatiche e irreversibili”. Sassari. Il 15 febbraio un convegno sulle carceri organizzato dal Partito Socialista Italiano avantionline.it, 3 febbraio 2025 Dopo la celebrazione del congresso e la costituzione degli organismi dirigenziali, la federazione provinciale e il direttivo cittadino del Partito Socialista Italiano di Sassari hanno avviato la loro attività politica con una prima iniziativa incentrata sulle tematiche della realtà carceraria, con particolare riferimento al carcere di Sassari (casa circondariale “Giovanni Bacchiddu”), dove le emergenze dovute al sovraffollamento, alla convivenza forzata tra detenuti comuni e quelli sottoposti al regime restrittivo dell’art. 41 bis e un’alta incidenza di atti di autolesionismo commessi da alcuni detenuti, hanno fatto emergere una serie di criticità balzate anche agli onori della cronaca locale. Il convegno, che si terrà nella “Sala Angioy” di Palazzo Sciuti il prossimo sabato 15 febbraio a partire dalle ore 9:30, è stato organizzato dal Partito Socialista della provincia di Sassari in collaborazione con l’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e la garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale della Sardegna, e si propone di portare all’attenzione delle istituzioni comunali, delle forze sociali e di tutti i cittadini, la difficile “questione carceraria”, e di sensibilizzare tutti i soggetti interessati alle problematiche legate alla detenzione e alle criticità sopra citate. Oltre al segretario cittadino del Psi Vinicio Tedde (che introdurrà i lavori) e al segretario provinciale Roberto Desini (che farà da moderatore del dibattito e che trarrà le conclusioni), saranno presenti rappresentanti delle istituzioni, delegati e attivisti di diverse realtà associative e di volontariato (civili e religiose) che, da diverso tempo, sono impegnati e operano in tale difficile campo sociale: il Sindaco di Sassari, Giuseppe Mascia, che porterà i saluti dell’amministrazione comunale; Maria Grazia Caligaris (presidente associazione “Socialismo Diritti Riforme”); Domenico Arena (provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna); padre Stefano Gennari (tra i relatori del convegno) e padre Salvatore Morittu (entrambi dell’associazione “Mondo X”); Irene Testa (garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale); Gianfranco Favini (garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Sassari); Agostinangelo Marras (avvocato penalista); don Gaetano Galia (cappellano del carcere di Bancali); Gianluca Carboni (presidente comunità “Giovani in Cammino”); Giampaolo Cassitta (scrittore e giornalista); Andrea Dessì (scuola di teatro “La Volpe Bianca”); Matteo Piga (associazione “Progetto Gensper Onlus”); Pietrina Putzolu (avvocato e presidente federazione provinciale Psi); Lalla Careddu (assessore alle Politiche sociali Comune di Sassari); Vannina Masia (presidente commissione Politiche sociali Comune di Sassari). Giubileo 2025. “Le giornate che vivremo in carcere porteranno speranza ai detenuti” di Gigliola Alfaro agensir.it, 3 febbraio 2025 “Cercheremo di coinvolgere il più possibile il mondo esterno negli eventi che organizzeremo”, ci dice l’ispettore generale dei cappellani. “Ogni mese distribuito un foglio di catechesi in tutti gli istituti. Questo è un modo anche per vivere insieme un cammino unitario, che ci porterà poi a celebrare il 14 dicembre il Giubileo dei detenuti”. Si è aperto, il 9 gennaio scorso, il “Giubileo della speranza nelle carceri” italiane, con la celebrazione presieduta, nella basilica di San Pietro, dal cardinale arciprete Mauro Gambetti, alla presenza dell’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, insieme ad altri quindici delegati regionali e alcuni membri della Commissione per il Giubileo dei detenuti. Abbiamo sentito proprio don Raffaele Grimaldi per sapere come si preparano le carceri a vivere questo tempo di grazia. È stato avviato il cammino giubilare nelle carceri? Con la celebrazione presieduta dal card. Gambetti a Roma è iniziato il cammino. Durante il rito il cardinale ha benedetto le “lampade della speranza”, giare in ceramica recanti il simbolo del Giubileo 2025, realizzate dai reclusi nella casa circondariale di Salerno. Simboli di luce e rinascita, il porporato le ha consegnate ai delegati regionali, che nel mese di gennaio le hanno portate in tutti gli istituti di pena. La celebrazione del 9 gennaio è stata preceduta di un giorno dalla presentazione delle attività per il “Giubileo della speranza nelle carceri” presso la casa circondariale di Regina Coeli, a Roma, con la partecipazione di numerose autorità civili e delle più alte cariche legate al mondo carcerario. Così abbiamo iniziato tutto il percorso delle attività che andremo a svolgere in questo Anno Santo e che richiama i nostri istituti soprattutto a vivere pienamente la speranza del Vangelo. Come prosegue adesso questo cammino? Prima di tutto cerchiamo di percorrere lo stesso cammino che la Chiesa ci ha proposto con le diverse tappe e iniziative, da vivere anche all’interno dei nostri istituti penitenziari. Nelle carceri italiane, quindi, vivremo delle giornate particolari che richiamano quelle giubilari, ad esempio il Giubileo degli ammalati, considerando che in tutte le carceri ci sono le infermerie, i reparti psichiatra. Sarà una giornata di attenzione verso detenuti malati o in sofferenza e operatori, con momenti di preghiera e di condivisione. Ugualmente avremo delle giornate dedicate al Giubileo dei migranti, a quello dei giovani o dello sport. Le diverse giornate giubilari che vivremo a livello di Chiesa universale cercheremo di viverle nel piccolo, all’interno dei nostri istituti penitenziari. In che modo sono pensate queste giornate giubilari? Avranno un canovaccio comune o saranno organizzate in maniera differente in ogni penitenziario? Per l’Anno Santo abbiamo creato una Commissione giubilare che prepara questi eventi. Tale Commissione rimarrà attiva in tutto questo tempo, incontrandoci ogni 15-20 giorni per definire le varie giornate giubilari. Infatti, la Commissione propone come potrebbe essere vissuta la giornata nei diversi istituti penitenziari. Poi sappiamo che ogni istituto avrà le sue esigenze, le sue difficoltà, le sue priorità, quindi saranno delle giornate con una base comune, con un’attenzione particolare alla categoria al centro dell’evento, poi ogni penitenziario cercherà di viverle secondo le necessità e secondo anche la disponibilità dell’ambiente. Per esempio, per il Giubileo dello sport, stiamo cerchiamo di coinvolgere anche Polisportive esterne, per poter vivere una giornata così gioviale, con i detenuti. Le giornate giubilari saranno, quindi, anche un’occasione di avvicinare il mondo esterno al carcere? L’obiettivo è proprio questo: cercare di coinvolgere il più possibile la comunità esterna e far conoscere una realtà che spesso resta emarginata, come quella carceraria, e accendere l’attenzione sul nostro mondo. Ci auguriamo che le direzioni degli istituti siano disponibili. Chiaramente abbiamo coinvolto il Ministero della Giustizia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ad intra ci sarà qualcosa che accomunerà il cammino giubilare? Sì, ogni mese sarà distribuito un foglio di catechesi in tutti e 200 gli istituti penitenziari. Questo è un modo anche per vivere insieme un cammino unitario, che ci porterà poi a celebrare il 14 dicembre il Giubileo dei detenuti. Il foglio di catechesi è sempre frutto del lavoro della Commissione giubilare, che prepara le schede e ogni mese le invia in ogni istituto. I cappellani e i volontari utilizzeranno le schede per le catechesi con i detenuti. Questo sarà un modo anche restare uniti tutti insieme noi cappellani. È la prima volta che si fa un percorso del genere e l’occasione viene data proprio dal Giubileo. In questo primo periodo di Giubileo ci sono state iniziative per l’Anno Santo? Nel mese di gennaio, a livello regionale ci sono state solenni concelebrazione con i vescovi locali dove sono state consegnate le lampade delle speranze a tutti i cappellani della regione che a loro volta le portano in tutti gli istituti. Sempre a gennaio ogni carcere ha vissuto l’inizio del Giubileo del della speranza con i pastori delle diocesi. Come stanno vivendo i detenuti questo avvio di Giubileo? Nei nostri istituti penitenziari, dove si vive la tristezza della carcerazione, queste attività rigenerano in modo particolare la speranza nei detenuti, perché sanno che la Chiesa è accanto a loro, che la Chiesa promuove iniziative per dare speranza e futuro ai detenuti e sollecita, in questo Anno giubilare, anche ad avere un’attenzione di clemenza verso i detenuti. E i cappellani come stanno affrontando questo momento così importante per la Chiesa? I cappellani stanno vivendo pienamente quest’Anno Santo con diverse iniziative. È anche molto bello incoraggiare gli stessi cappellani a vivere delle esperienze positive all’interno dei nostri istituti. Tante volte sappiamo bene che per mancanza di personale, le iniziative promosse in carcere rischiano di abortire, ciò provoca una forma di delusione nei cappellani che fanno di tutto per cercare di promuovere la speranza all’interno degli istituti. Il Giubileo è una grande opportunità per gli istituti per uscire da quelle chiusure che non generano la speranza ma, piuttosto, depressione. “La cattiva strada” all’interno delle carceri minorili: il reportage di Sky TG24 tg24.sky.it, 3 febbraio 2025 Giovani, aggressivi e sempre più spesso prendono La cattiva strada. Sky TG24 dedica un approfondimento speciale al tema dei reati minorili, fenomeno in crescita e sempre più preoccupante. Più appuntamenti, ma un’unica indagine per comprendere le cause e gli effetti della criminalità giovanile: il nuovo episodio di Feedback e il reportage “La cattiva strada - Viaggio nelle carceri minorili italiane” lunedì 3 febbraio alle 21.00 su Sky TG24. Il primo appuntamento con Feedback è lunedì 3 febbraio alle 21.00 su Sky TG24. Alessandro Marenzi, insieme ai suoi ospiti, il criminologo Guido Travaini e Gianluca Guida, direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida, analizzerà il fenomeno attraverso dati statistici e testimonianze. Verranno date risposte alle domande più urgenti: dove e perché nascono queste forme di violenza? Come si sviluppano? Quali sono i segnali da non sottovalutare? L’approfondimento proseguirà con La Cattiva Strada - Viaggio nelle carceri minorili italiane, il reportage a cura di Gaia Mombelli, in onda in quattro appuntamenti da martedì 4 a venerdì 7 febbraio, alle 14.40 e alle 20.45 su Sky TG24. Il viaggio entrerà in sette Istituti Penali per Minorenni, da Nord a Sud, dando voce ai giovani detenuti che hanno deciso di raccontare la propria storia: il momento in cui tutto è cambiato, l’istinto incontrollabile che li ha portati a commettere un crimine, il percorso di rieducazione intrapreso. Da Nord a Sud - Un racconto che restituisce tre differenti prospettive: i ragazzi del Nord, spesso coinvolti in aggressioni con coltelli per motivi futili, cercano un riconoscimento sociale che non trovano in famiglia o a scuola. La loro percezione della realtà è influenzata dai social media, rendendo difficile il riconoscimento del limite tra giusto e sbagliato; i ragazzi del Sud, crescono in contesti legati alla criminalità organizzata, dove l’adesione a certe logiche sembra inevitabile. Molti credono che il loro destino sia già scritto; le ragazze, un tempo coinvolte principalmente in furti e spaccio, oggi sempre più spesso commettono reati contro la persona. Rispetto ai maschi, dimostrano maggiore consapevolezza nel raccontare le proprie motivazioni e il disagio che le ha portate a delinquere. Io sono la nazione, io sono il popolo di Andrea Malaguti La Stampa, 3 febbraio 2025 Tema della settimana: Meloni, le toghe, la ragion di Stato, le tre regole dell’avvocato Roy Cohn (feroce mentore del Signore di Tutti i Dazi, Donald Trump) e la capacità ormai perduta della politica di pensare nei limiti, sbriciolando gli auspici di Hanna Arendt. Non abbiamo più il senso del pudore. Sembra un dettaglio. È l’inizio di un nuovo mondo in cui prevale chi è più forte e selvaggio. Trumpismo quintessenziale. Un’aria non esattamente salubre che si respira anche qui da noi. Confesso che non sapevo cosa fosse il metodo “Falqa”, tortura utilizzata dai nazisti, dai Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia e dal generale libico Nijem Osama Almasri, sadico in capo delle prigioni in Tripolitania, disumano protagonista di questi nostri infelici giorni che contrappongono Palazzo Chigi alla magistratura, nella stucchevole, decennale, ripetizione di un modello suicida, destinato ad azzerare la fiducia già ridicola nelle istituzioni e a radere al suolo la voglia di partecipazione democratica della collettività. Il metodo “Falqa”, dicevo. Si individua un prigioniero - e in Libia chiunque è prigioniero, se così decide l’onnipotente Almasri - gli si distendono le gambe e le si legano ad un asse di legno di modo che non si possano più muovere. Poi si prendono a bastonate le piante dei piedi del malcapitato fino a quando vomita, implora e perde i sensi. Una volta rianimato, lo si lascia agonizzante a strisciare in mezzo ai cumuli di sporcizia della sua cella, affinché sia chiaro a tutti che quell’uomo non è più un uomo. Succede ogni giorno. Suppongo anche oggi. Banalmente perché il generale Almasri vuole così. A noi fa comodo. Impedisce le partenze fuori controllo dei migranti, parrebbe. I numeri di queste ore dicono il contrario. Dettagli. Nelle quarantadue pagine in cui la corte penale internazionale dell’Aja chiede il suo arresto, il generale Almasri, felice di passare i suoi fine settimana in giro per l’Europa a guardare partite di pallone con gli amici, è accusato di avere consentito lo stupro di un bambino, l’assassinio di trentaquattro persone e di avere autorizzato, previsto e richiesto l’applicazione costante e inflessibile di trattamenti disumani. Vale la pena averlo presente prima di ragionare sul resto. Aggiungo, anche se sarebbe più che sufficiente il quadro appena fatto, la rapida sintesi della testimonianza di un prigioniero ascoltato dalla psicologa di Medici Senza Frontiere, Maria Eliana Tunno. Le sue parole: “Sentivo di non avere più un’anima”. Il generale Almasri, criminale probabilmente non ignoto ai servizi americani, italiani e inglesi, forse per questo intoccabile, è un uomo che strappa l’anima. Perché lo abbiamo rimandato a casa? Per la sicurezza dello Stato ha spiegato Giorgia Meloni, formula all’interno della quale si può nascondere (persino legittimamente) qualunque cosa. Iscritta intempestivamente nel registro degli indagati per peculato e favoreggiamento dal procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, la premier ha preso la palla al balzo per scatenarsi contro i magistrati, rei - giura - di volere affossare la presidente del Consiglio e assieme a lei il Paese, dato che, nella sua visione, tra le due cose non c’è differenza. Io sono la Nazione. Io sono il Popolo. In suo aiuto - mi auguro non richiesto - è intervenuto un indignato Bruno Vespa che, autoproclamatosi maestro Manzi del melonismo, ha spiegato a tutti noi ingenui e manipolabili abitanti della penisola che “in ogni Stato si fanno cose sporchissime, anche trattando con i torturatori per la sicurezza nazionale”. Perché stupirsi, dunque? Gridiamolo con orgoglio: se ci servono le canaglie usiamo le canaglie. E tu pensa a quei fessi della corte penale convinti che l’Italia fosse legata ai trattati internazionali. Inutile spiegare che tra “fare” cose forse utili, certamente ignobili, “dirle”, “legittimarle” e addirittura “rivendicarle”, passa tutta la variegata scala dell’opportunità, del buongusto, della decenza, del decoro, del rispetto della politica e della sensibilità collettiva. Merce avariata che non interessa più a nessuno. Altrettanto inutile sottolineare che il segreto di Stato o è, appunto, segreto, oppure è una vergogna. Va da sé che dopo avere scatenato questo nuovo incandescente dibattito sui motivi per cui “le toghe rosse” vogliano la rimozione di Giorgia Meloni, le possibilità di capire davvero cosa nasconde il pasticcio Almasri sono precipitate nello scantinato delle illusioni. Pausa e passo indietro. Tra le telefonate fatte in settimana per ragionare di questi temi, due mi sono rimaste in testa. La prima con l’ex presidente del Consiglio e leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte. Era in macchina. In mezzo alle gallerie. La conversazione era disturbata, ma il senso chiarissimo. La riassumo sbrigativamente perché in qualche modo contiene la linea delle opposizioni: “Il comportamento di Giorgia Meloni sul caso Almasri denota irresponsabilità politica, insipienza giuridica e vergogna morale”. Non esagera? “No. La premier usa modi intimidatori. È diventata berlusconiana. E sottrae l’Italia alle norme di diritto internazionale. Quello che vale per Almasri d’ora in avanti varrà per i rapporti con tutti gli Stati canaglia?”. Bella domanda. Che sarebbe stato utile rivolgere ai ministri Piantedosi e Nordio in Parlamento. Peccato che questo disastro abbia congelato assieme ai lavori dell’Aula, la possibilità di un dibattito vero. Per la premier un risultato niente male. Seconda telefonata, Gustavo Zagrebelsky. Anche qui riassumo rapidamente il pensiero del professore. “È un caso che ogni volta che la magistratura si occupa della politica, la politica parli di complotto? Sono i magistrati ad essere dei cospiratori comunisti, sempre disponibili per iniziative ad orologeria, o magari è la politica che non tollera i limiti del diritto? Noto, peraltro, che a far venire fuori la notizia dell’iscrizione di Meloni sul registro degli indagati è stato Palazzo Chigi. Perché? La mia risposta è semplice: perché Meloni è furbissima”. Siamo di fronte ad un verminaio o ad esigenze di sicurezza? “Chi lo sa”. Ne usciamo, professore? “Solo se manteniamo viva l’intelligenza e l’ironia”. Auguri. In questo marasma l’unica cosa certa è che Giorgia Meloni, straordinaria cercatrice di pepite d’oro, forse confortata dalla distruzione dei freni inibitori prodotta dal Trump II la Vendetta, ha impresso una svolta radicale al suo stile narrativo. Difficile capire fino a che punto voglia spingersi. Se davvero immagini, come ritengono alcuni osservatori, di arrivare addirittura alle urne anticipate. La premier vive di consenso. Ha bisogno dell’acclamazione collettiva. Un’identificazione - impropria, considerato che un italiano su due non vota e che lei è titolare del trenta per cento dell’altra metà - che le consente di derubricare a fastidiosi orpelli i contrappesi democratici. Per i prossimi due anni e mezzo di legislatura sembra non avere in mano molte carte. L’economia frena, i soldi mancano, le riforme (giustizia a parte) sono al palo. La creatività che dimostra all’estero, in Italia si vede a fatica e di certo Meloni non vuole diventare l’ennesimo campione della democrazia dell’impotenza. Da qui i ritornelli muscolari. Un discreto paradosso. Per un decennio, quello appena trascorso, le destre italiane hanno avuto il problema di rendersi democraticamente presentabili. Mostrarsi in grado di accettare le consuetudini e le regole. Adesso fanno marcia indietro, perché essere “impresentabili” improvvisamente paga, da Washington a Buenos Aires, dunque torniamo impresentabili. Perciò mi riaggancio inutilmente ad Hannah Arendt: “la vera sfida, in politica, è imparare a pensare nei limiti”. Ci interessa ancora o abbiamo deciso di impiccarci ad una deriva da saloon? In queste ore rimbalzano un po’ ovunque le tre regole di Roy Cohn, protagonista del film “The Apprentice, alle origini di Trump”. Cohn, spietato avvocato newyorkese, teorico del maccartismo negli Anni Cinquanta e mentore del giovane Donald, declina così il podio del successo. Regola numero uno: “attacca, attacca, attacca”. Regola numero due: “non ammettere niente, negare ogni cosa”. Regola numero tre: “dire che hai vinto e non ammettere mai la sconfitta”. Adesso chiudete gli occhi e chiedetevi se pensando a questo schema vi viene in mente Trump, Milei, Putin o Meloni. È lo Spirito del tempo. Ma attenzione a fingere che tra cinismo e buonismo, tra aggressività e mediazione, non ci sia differenza. Ad alzare le spalle e a fingere che non ci riguardi, perché - e sono per la terza e ultima volta ad Hannah Arendt - “la triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive”. La politica della paura. Dobbiamo spezzare questo circolo vizioso tra odio e violenza di Mauro Magatti Avvenire, 3 febbraio 2025 L’odio strumentalizzato a fini politici è una strategia che sfrutta sentimenti negativi - paura, risentimento, rancore - per manipolare l’opinione pubblica e consolidare il consenso. Questo meccanismo divide la società in un “noi” e un “loro”, individuando un nemico comune, reale o immaginario, su cui scaricare frustrazioni collettive. Un metodo antico, ricorrente nella storia, che finisce per trasformare la politica in schiava della violenza. Una strada in discesa, facile da percorrere alimentando istinti primordiali, ma poi impossibile da invertire: una volta liberati, gli spiriti sanguinari sfuggono al controllo. Gli orrori del Novecento - dai campi di sterminio nazisti ai gulag staliniani - dovrebbero insegnarlo: l’odio seminato e coltivato nel tempo finisce per generare mostri. Le tappe di questa strategia tossica seguono un copione ben preciso. Si comincia con la creazione del nemico: gruppi etnici, religiosi o sociali vengono dipinti come minacce alla comunità. La società viene divisa in due fronti opposti, esasperando differenze e cancellando ciò che é comune. Questo comporta la semplificazione del discorso, con slogan emotivi che alimentano ansie e paure, amplificate attraverso i media e i social network. Si costruisce così la cornice ideale per giustificare soluzioni autoritarie. Una volta avviata, la macchina dell’odio erode il dialogo democratico, sostituendo la cooperazione con la contrapposizione. L’altro, ormai ridotto a nemico, viene rappresentato come un pericolo per l’identità culturale, la stabilità economica o la sicurezza. Fino a essere disumanizzato, privato della sua dignità umana e trasformato in un bersaglio “legittimo”. L’incitamento alla violenza apre la strada a aggressioni fisiche e discriminazioni sistematiche. Le società democratiche stanno scivolando lungo questa china da diversi anni. E le immagini degli immigrati incatenati - recentemente diffuse dalle autorità americane - segnano un salto di livello. Parole come “deportazione”, “immondizia”, “remigrazione”, “pulizia etnica” sono usate non solo nei social, ma da presidenti e ministri, normalizzando linguaggi un tempo confinati ai gruppi più estremisti. Ma da dove nasce tutto questo odio? La ricerca neuroscientifica ha dimostrato che il cervello umano registra un’alterazione fisiologica di fronte a volti percepiti come “estranei” al proprio gruppo. Alla base c’è dunque uno stimolo ancestrale: un meccanismo cognitivo che, a partire dalla nostra tendenza a categorizzare, distingue il simile dal dissimile. Il problema è l’elaborazione culturale di questo stimolo che va sempre di più nella direzione del razzismo e della xenofobia. Ci troviamo dunque in un momento in cui sono pezzi importanti delle istituzioni che vanno in questa direzione. Ciò a causa del combinarsi della lotta politica e ideologica in corso da anni con la perdita di empatia che caratterizza le società contemporanee. Il mito del cosmopolitismo “neutro”, coltivato in alcune correnti culturali contemporanee (fino agli eccessi della woke culture), ha esagerato nel negare le differenze. Le tradizioni, i valori e le identità culturali sono elementi costitutivi delle società. Il tentativo di appiattirli ha finito col generare reazioni opposte, trasformandoli in armi identitarie. Uno slittamento che sfrutta l’indebolimento della trama dei legami sociali e il disorientamento di un’opinione pubblica sempre più frammentata, indifferente e assuefatta alla violenza. Col risultato di ritrovarci in balia di una oscillazione da una polarità all’altra: dopo l’utopia di un mondo senza confini, siamo oggi nel bel mezzo di una deriva nazionalista che esalta i muri e l’esclusione. Per rompere il circolo vizioso odio-violenza, non servono nuove ideologie, ma il recupero di una “ragione critica” capace di riconoscere la complessità dei problemi che dobbiamo affrontare. Problemi che richiedono tempo, pazienza, solidarietà e giustizia. Serve comprendere l’utilità di confini che proteggano storie e culture, ma che siano anche porosi, in grado di permettere scambi e incontri. Serve valorizzare le diversità, sviluppando la capacità umana di dialogare, come condizione per un rapporto tra culture che si confrontano senza annullarsi, preservando specificità e diritti. Serve cercare vie medie, fondate su dati e empatia. Il ritorno dell’odio oggi non è più un’astrazione, ma un dato di fatto con cui è necessario confrontarsi. Le immagini di ieri (i lager) e di oggi (le catene agli immigrati) ci ricordano che la violenza inizia sempre con una parola. Contrastarla richiede vigilanza attiva, educazione alla complessità e il coraggio di difendere una verità oggi scomoda: la convivenza si costruisce nell’equilibrio tra radici e aperture, non nella negazione dell’altro o di se stessi. “I ragazzi col coltello sono figli di disagio psicologico e povertà” di Giulia Merlo Il Domani, 3 febbraio 2025 Il fenomeno dei giovani che girano armati e di omicidi e lesioni all’arma bianca è in aumento da dopo il Covid. La causa è duplice: più famiglie in difficoltà economica e figli meno socializzati e fragili psicologicamente. Escono di casa con in tasca il coltello “per difesa”. Questa è la giustificazione che i magistrati sentono ripetere più spesso dai ragazzi che poi finiscono imputati: per lesioni nei casi meno gravi, per omicidio in quelli peggiori. L’ultimo caso è avvenuto a Tortona, appena giovedì scorso. Secondo il ministero dell’Interno, i numeri sono cresciuti subito dopo il Covid: se nel 2019 le segnalazioni di minori per lesioni dolose erano poco più di 2500, dal 2022 sono cresciute a 3569 e il numero è in continuo seppur lieve aumento. Eppure il reato è solo la conseguenza visibile di qualcosa di molto più radicato. Paola Ortolan, giudice minorile al tribunale di Milano, lo osserva tutti i giorni. Fissiamo un elemento temporale. Il fenomeno è davvero esploso dopo la pandemia? Sì, e si possono identificare due ordini di ragioni. Gli anni del lockdown hanno aumentato le difficoltà personali dei genitori, sia dal punto di vista economico che psicologico. Questo ha reso più deboli gli adulti, provocando conseguenze sui loro figli. Dal canto loro, questi bambini e ragazzi hanno perso due anni di scuola e quindi di socializzazione. La mancanza di contatti sociali in alcuni ha fatto emergere difficoltà che già esistevano: fragilità psicologica dovuta al periodo di crescita, difficoltà di entrare in contatto con i propri pari e di provare empatia per gli altri. Si tratta di qualcosa che è anche connesso al tipo di educazione che viene impartita oggi: più improntata alla solitudine e alla competizione e meno alla condivisione e al mettersi sullo stesso piano degli altri. Come si lega questo con il fatto di girare armati? I ragazzi considerano i coltelli un’arma di difesa. Prima ci si difendeva coi pugni, oggi si tira fuori il coltello che è prima strumento di minaccia, poi di aggressione. Evitando le generalizzazioni, posso dire che l’istinto di difendersi viene messo in atto da questi ragazzi molto prima di come accadeva in passato e probabilmente la causa è appunto la loro difficoltà di stare in relazione con gli altri. Usciti dalla pandemia, i più grandi hanno sentito il bisogno di ricostruirsi una socialità. Ma il gruppo genera identificazione e, quando si innescano azioni violente o sbagliate, aderire ai principi del gruppo significa anche non riuscire a distaccarsene. E questo non vale solo per i coltelli. A cosa si riferisce? L’età della prima assunzione di droga è sempre più bassa, con poca consapevolezza o sottovalutazione delle conseguenze. Le droghe leggere vengono assunte in età precoce, si passa facilmente alla cocaina e alle droghe sintetiche che danno dipendenza e sempre più spesso a questo si aggiunge anche l’abuso di farmaci e psicofarmaci, anche a causa della semplicità nel reperirli anche sul web. Quali giustificazioni danno, quando i ragazzi vengono fermati armati? La prima scusa è quella di dire che avevano il coltello per difendersi. Raccontano di avere paura quando escono in strada da soli e senza il loro gruppo, quindi escono armati. Poi però non sono in grado di rispondere alla seconda domanda: perché, se era per difesa, hai tirato fuori il coltello e hai attaccato? Questo è il passaggio che più va indagato: questi ragazzi passano molto facilmente all’atto violento, senza essere capaci di valutarne le conseguenze. Siamo davanti a nuove generazioni poco portate a comprendere le conseguenze delle loro azioni, a tutti i livelli, ed è un problema educativo enorme. Pensa alle conseguenze giudiziarie? Anche. Molti ragazzi sono francamente stupiti quando vengono imputati di concorso in rissa, rapina oppure lesioni. Faticano a comprendere come dal solo fatto di essere presenti e di non distaccarsi dal gruppo possano avere conseguenze penali. Lei fa risalire l’origine del problema a un connubio tra fragilità familiari e carenze educative... Non è un caso che i problemi di cui parliamo inizino a manifestarsi in ragazzini di prima media, con la fine del tempo pieno a scuola. Non sono più impegnati nel pomeriggio, tornano a casa a mangiare e magari non trovano nessuno. Qui si innesca la questione familiare: spesso si tratta di giovani che non possono essere accuditi dai genitori, che appartengono alle fasce del lavoro povero, lavorano su turni pesanti e non sono in grado di seguire i loro figli nelle ore pomeridiane, lasciandoli con ampia libertà di uscita. È un problema che colpisce di più i figli di famiglie immigrate? È statistico che nei ruoli di udienza più della metà siano stranieri. Tuttavia è sbagliato pensare che questo sia il problema. Molti sono figli di famiglie straniere assolutamente integrate, ma i genitori fanno lavori che li costringono a turni di molte ore con stipendi bassi e magari l’esigenza di mandare qualcosa ai parenti nei paesi d’origine. Questo fa sì che loro stiano poco in casa e che i loro figli abbiano meno opportunità: per esempio non possono permettersi di praticare una attività sportiva o fare corsi pomeridiani. Così, soprattutto nelle grandi città e nei quartieri ad alta densità di immigrazione, i ragazzi non possono fare altro che scendere in strada e cercare rifugio nel gruppo. E vale per stranieri e italiani. Esistono differenze tra italiani e stranieri? I giovani esprimono il disagio con atti violenti eterodiretti come le aggressioni, o con atti contro di sé, come l’autolesionismo. La radice però è molto simile, affonda nel loro profondo dolore psichico. Il fenomeno di atti di autolesionismo è trasversale, ma posso dire che forse è più frequente che siano i ragazzi italiani ad arrivare in ospedale con tagli autoinflitti. La sintesi sembra essere che tra le principali cause della violenza ci sia la povertà... Influisce in modo determinante. I ragazzi che arrivano al tribunale dei minori per la maggior parte provengono da famiglie disastrate sia dal punto di vista economico che delle relazioni. La scuola da sola non basta né a contenerli né a gestirli e il loro disagio esplode in forme che assumono comportamenti pregiudizievoli. Lei è giudice presso tribunale per i minorenni, nel settore civile. Il suo è un osservatorio privilegiato sul sostrato culturale che poi rischia di produrre la patologia penale... Il tribunale per i minorenni è così importante perché interviene proprio con funzione di supporto e sostegno alle famiglie, così da tentare di anticipare o prevenire future derive peggiori, che portino il ragazzo a entrare nel circuito penale, prescrivendo la presa in carico dell’intera famiglia con interventi di supporto e di sostegno focalizzati sia sui ragazzi che sui genitori. Eppure io posso scrivere i provvedimenti più utili del mondo, ma se i servizi territoriali non sono sufficienti, incidere per un cambiamento è impossibile. Può fare degli esempi? Se ho davanti un ragazzino difficile, provvedo a chiedere ai servizi sociali di fornire sostegno alla famiglia e, per esempio, impongo a lui l’obbligo di prendere parte alle attività nei centri diurni di aggregazione giovanile. Se però il territorio non ha il centro, oppure i sono già 20 ragazzi in lista d’attesa, quelli che restano fuori continuano a passare i loro pomeriggi in strada senza niente da fare. Arginare i fenomeni di disagio minorile non è solo una questione di giustizia ma sociale: occorre un servizio territoriale dotato di risorse, non solo competente. Migranti. Caso Albania, Forza Italia frena sul decreto anti magistrati: “Parlerà la Corte europea” di Niccolò Carratelli e Francesco Grignetti La Stampa, 3 febbraio 2025 Evitare altri falli di reazione e aspettare il nuovo pronunciamento della Corte di giustizia europea sul tema dei Paesi sicuri per il rimpatrio dei migranti. Nella triangolazione tra Palazzo Chigi e i ministeri dell’Interno e della Giustizia pare prevalere la linea della cautela. Soprattutto fonti di Forza Italia frenano sull’ipotesi di un altro decreto per risolvere quella che, comunque, viene considerata un’anomalia. Il fatto che nelle Corti d’appello, ora titolari della convalida dei trattenimenti dei migranti, siano finiti gli stessi magistrati della sezione speciale del tribunale di Roma, che già avevano disposto il ritorno in Italia dei migranti trasferiti in Albania. “Una presa in giro del Parlamento”, secondo i capigruppo di Fratelli d’Italia, Lucio Malan e Galeazzo Bignami, che hanno prospettato un nuovo intervento normativo per ottenere un vero ricambio dei giudici chiamati a esprimersi sui trattenimenti in Albania. Nessuno è entrato nel dettaglio, i contorni legislativi di un eventuale provvedimento non sono chiari, ma la sola ipotesi suona un’ulteriore minaccia nei confronti dei magistrati, ritenuti politicizzati e nemici del governo. Si ipotizza un emendamento FdI per aggirare i dubbi del Colle. Una posizione che dal partito della premier Meloni confermano, con la responsabile Immigrazione, la deputata Ylenia Lucaselli, che si lamenta della “pervicacia di alcuni magistrati, portatori di evidenti ideologie politiche, a voler bloccare impunemente un modello che è apprezzato da tutta Europa”. Di qui l’obiettivo di far fuori dalla Corte d’Appello di Roma i giudici sgraditi. Le opposizioni, ovviamente, daranno battaglia, convinte che il governo si sia cacciato in un vicolo cieco: “Prima Meloni ci ha provato modificando arbitrariamente la lista dei Paesi sicuri, e non le è andata bene - ricostruisce il segretario di Più Europa, Riccardo Magi. Poi ha cancellato le sezioni speciali dei tribunali sostituendole con le Corti di appello, e non le è andata bene. Ora, dato che nemmeno la Corte d’appello le ha dato ragione, vuole cambiare i giudici delle Corti di appello. Se ci proverà, andrà a sbattere di nuovo”. Un timore che, evidentemente, viene condiviso da qualcuno al ministero della Giustizia e dentro la maggioranza, dove emerge una tattica più attendista. “Servono calma e pazienza, non dobbiamo inseguire i social - predicano fonti di Forza Italia - conviene aspettare fine mese quando la Corte di Giustizia europea dirà una parola definitiva e farà giurisprudenza”. L’udienza è prevista per il 25 febbraio e c’è la convinzione che dal Lussemburgo arriveranno buone notizie, con un’interpretazione meno stringente e favorevole al governo sulla definizione dei Paesi sicuri. Ad esempio, precisando la differenza tra criteri oggettivi, come una guerra civile in atto, e quelli soggettivi, come il rischio di essere perseguitati per motivi religiosi, razziali odi orientamento sessuale: nel primo caso il Paese non può essere considerato sicuro, mentre nel secondo la valutazione andrebbe fatta su ogni singolo migrante, consentendo così il rimpatrio per molti. Se così fosse, avrebbero esito positivo anche i ricorsi in Cassazione fatti dal ministero dell’Interno contro le decisioni dei giudici che hanno svuotato i centri albanesi. Proprio per questo, il Viminale vuole impugnare anche le ultime disposizioni della Corte d’Appello di Roma sui 43 migranti portati in Albania (e ora a Bari), sebbene all’inizio fosse filtrata l’intenzione di rinunciare a un ulteriore passaggio giuridico. Ma è una mossa utile anche a non far percepire come definitiva la decisione dei magistrati. Allo stesso tempo, però, non verranno organizzati altri sbarchi al porto di Shengjin, proprio per non ripetere un copione segnato. Puntando a riprendere i trasferimenti dei migranti in primavera dopo il via libera della Corte europea. Migranti. Incarcerati, deportati, torturati, espulsi: l’umiliazione dei poveri è senza limite di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2025 L’eliminazione delle categorie “pericolose” si perpetra ormai a cielo aperto. Nella storia sono stati utilizzati campi di concentramento, di sterminio e ogni altro tipo di segregazione. Oggi non più. Tutto accade sotto i nostri occhi resi opachi dall’assuefazione, il controllo e una propaganda martellante che ci conduce a sinistri ricordi. Il politico e filologo Joseph Goebbels, ministro della Propaganda durante il regime nazista in Germania scrisse che: “Una menzogna detta una volta rimane una menzogna ma una menzogna ripetuta mille volte diventa una verità”. Ciò accade coi mezzi di comunicazione in mano a coloro che trasformano la realtà a immagine e somiglianza del loro potere di dominazione. Il disprezzo dei poveri, una delle perpetue categorie pericolose della società, si esprime nella politica, nell’economia e persino nella religione che di fatto è spesso legata ad entrambe. Essi, i poveri, sono letteralmente scomparsi da ogni agenda politica che si rispetti. Gli interessi sono ben altri e il neoliberalismo imperante e sfacciato di questi tempi lo evidenzia attorno al pianeta terra. Dal vergognoso vertice di Davos in Svizzerra, nato per governare il capitale, alle ultime politiche del neo rieletto presidente Donal Trump dell’America prima di tutto. Per finire poi alle nostrane politiche saheliane governate dalla sabbia e dal vento. I poveri sono semplicemente cancellati perché inutili. Senza pudore e senza pietà è in atto, da tempo, una lotta di classe che neppure si nasconde: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”, così disse Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del pianeta, commentando qualche anno fa l’ennesimo sgravio fiscale per i redditi più alti negli Stati Uniti. La grande menzogna si riferisce anzitutto a questa guerra reale che si maschera a seconda delle stagioni politiche ed economiche con lo sfruttamento, la sottomissione, l’egemonia del pensiero nelle università, i think tank e la fabbrica dei ‘giovani leaders’ del futuro. Una guerra spietata che usa la guerra delle idee e le armi della guerra per governare con il timore di perdere i privilegi di classe. Non apparirà casuale che le categorie ritenute vulnerabili nelle varie società siano come non mai sottoposte alla ferocia della violenza, giustificata per assecondare l’ordine della classe dominante. Sarà sufficiente osservare, ad esempio, come una parte dei migranti, rifugiati e sfollati diventino sempre più ‘ingombranti’ a livello globale. Incatenati, deportati, torturati, venduti, osteggiati, sfruttati e infine espulsi. Senza saperlo si trasformano in uno specchio del nostro mondo violento che riduce alla marginalità coloro che non entrano nel sistema controllato dei potenti. Eludono le frontiere armate che permettono a soldi, petrolio e affini di passare mentre le persone sono considerate come dei ‘disertori’. Mai fidarsi dei potenti che promettono pace e giustizia col denaro, le armi e l’inganno. L’umiliazione dei poveri è senza limite. Non contano quando vivono e meno ancora quando muoiono. Nel Sahel sono i poveri contadini ad essere uccisi e spesso, come nel mare Mediterraneo, scompaiono senza bandiera, lutto o menzione di onore. I poveri sono traditi da promesse, parole e illusioni che si tramandano da regime a regime con, non raramente, l’avallo dei capi religiosi che godono della loro fiducia. Solo che questi ultimi, come diceva un amico, temono più le creature che il Creatore e dunque tacciono oppure si trasformano in garanti del sistema. Eppure, come dice il saggio… vanità delle vanità, tutto è vanità… e cioè soffio che il vento disperde. Dei potenti quel giorno non rimarrà nessuna traccia di eternità. Il mattino di quel giorno comincerà la storia, mai raccontata, dei poveri. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia “Scarcerate mio figlio!”. La madre del Gramsci d’Egitto al quinto mese di sciopero della fame di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2025 Laila Soueif, madre di Alaa Abd el-Fattah, il più famoso prigioniero di coscienza egiziano, chiamato il “Gramsci d’Egitto”, è entrata nel quinto mese di sciopero della fame nell’inverno londinese. A Londra, sì. Perché suo figlio ha anche passaporto britannico. Per questo, da oltre 120 giorni, l’anziana madre sosta tutte le mattine dei giorni lavorativi di fronte a Downing Street chiedendo un intervento del governo del primo ministro Keir Starmer, finora sordo alle sue richieste. Alaa Abd el-Fattah avrebbe dovuto essere scarcerato alla fine di settembre, quando era terminato il suo ultimo periodo di detenzione: una condanna a cinque anni, l’ennesima, inflittagli il 20 dicembre 2021 al termine di un processo gravemente iniquo per “diffusione di notizie false”. Tenuto conto del fatto che era stato arrestato il 29 settembre 2019, il tempo trascorso in detenzione preventiva avrebbe dovuto essere conteggiato come parte della condanna. Invece, così non è stato. Intorno a Laila Soueif si è creato un grande movimento di solidarietà: artisti, parenti di ex detenuti, persone comuni, qualche parlamentare, rappresentanti di organizzazioni per i diritti umani. Pochi giorni fa Sanaa, la sorella minore di Alaa Abd el-Fattah, si è recata in visita al fratello in carcere: “Gli ho detto che mamma sta resistendo ma che sta arrivando al limite, che ho paura che venga ricoverata in ospedale a Londra mentre siamo entrambi bloccati qui in Egitto, lui dentro e io fuori dal carcere. Il livello di zuccheri nel sangue è sceso del 50 per cento, è a rischio di ipoglicemia. Ha le gambe gonfie, la tiroide sta messa male. Alaa mi ha detto di starle vicino, di smetterla con quest’idea di farla salire su un aereo per andarlo a trovare: troppo pericoloso, non può viaggiare in queste condizioni. È stata un incontro dolce, se si può usare questo aggettivo in mezzo a tutta la crudeltà delle nostre vite”. Come suo fratello, anche Sanaa entra ed esce dal carcere. C’è stata tre volte: nel 2014 quando aveva 20 anni, poi nel 2017 e nel 2020. Continua a chiedere dal Cairo, insieme alla madre a Londra, la scarcerazione del fratello e di tutti gli altri prigionieri di coscienza in Egitto. *Portavoce di Amnesty International Italia