I minori e il modello Caivano: “Il carcere è l’unico destino” di Nello Trocchia Il Domani, 2 febbraio 2025 Il Governo ha sconvolto il sistema penale minorile che somiglia sempre più al carcere degli adulti. “Mia madre non rideva mai”: le parole dei detenuti minorenni che vedono lo Stato come aguzzino. Il decreto Caivano offre una risposta repressiva a un bisogno diffuso di welfare, giustizia e prevenzione. Per capirne gli effetti, a poco più di un anno dall’introduzione, bisogna parlare con chi ha visto il carcere e ora è “rinchiuso” in una comunità. Si tratta di minorenni, per identificarli useremo nomi di fantasia, che sono stati arrestati per rapina, spaccio e anche truffe alle anziane, reati odiosi per chi li subisce. “Chi sbaglia deve pagare, quante volte l’avrai sentita questa frase? E, invece, ancor di più quando hai 16 anni e sei un adolescente a metà, la frase di un paese civile è Chi sbaglia deve cambiare”, dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania che denuncia l’aumento dei minori negli istituti minorili dopo il decreto Caivano. “Mi piacciono assai queste parole che dite, cambiare è una bella parola. Quando ci arrestano ci fanno fare i corsi di formazione, ci portano pure a vedere il mare. Ma non ci potete dare una possibilità prima di sbagliare?”, dice Antonio, 17 anni, dentro per truffa e rapina. I sogni piccoli - Sabato mattina, ore 10. Palazzo di due piani nel centro di un paese a venti chilometri da Napoli. Piove. Qui ci sono sei ragazzini del circuito penale, è una delle tante sedi della cooperativa “Aries”. Appena entro alcuni sono seduti sul divano, in tv passa un brano di Baby Gang, il rapper marocchino che sbanca tra i giovanissimi. “A noi ci piacciono tanto, pure Geolier, Ghali, Lazza, raccontano chi siamo, ci immedesimiamo, ogni tanto mi sogno che vengono a suonare qua sopra al terrazzo. Ho visto che l’hanno fatto nelle carceri minorili”, dice Gennaro mentre fuma un’altra sigaretta. “Prima del guaio non fumavo, ora me ne servono trenta al giorno, alcune me le mette a disposizione la comunità, altre me le compra mia mamma”. I genitori fanno chilometri per venirlo a trovare e sono spese che pesano per chi guadagna un salario che basta a vivere con dignità. “Ho spacciato, vendevo la coca a domicilio. La portavo con il motorino alla gente ricca della mia città, mi hanno arrestato ed è finito il sogno, è cominciato l’incubo”. Il sogno è quello di cartapesta che avvolge una generazione, la dittatura del tutto e subito, le scarpe, l’orologio, lo scooter. “Lì per lì non pensi finirà mai, ma i soldi si consumano. Ora non me ne importa più niente, sto facendo un corso di meccanico e faccio il volontario in un centro per ragazzini disabili”. Vicino a Gennaro c’è Samid, è nord africano come Baby Gang, e ora ha chiare le idee. “Ho capito che a noi toccano solo i sogni piccoli, quelli grandi non ci appartengono. Io mi sono sempre sentito osservato, diverso anche se nato qui. Prima della comunità sono stato anche in carcere, ne ho girati due di istituti minorili, mi sono inguaiato con una rapina. Non sai i psicofarmaci che girano in carcere, ci sedano, io non ho mai preso quella roba, i ragazzi li sdraiano”, racconta. E poi parla del sovraffollamento, il decreto Caivano ha di fatto smontato il sistema della giustizia minorile che ora assomiglia sempre di più agli istituti di pena per adulti: sovraffollamento, farmaci e, talvolta, anche botte. “La convivenza è diventata complicata, ci sono sempre più minori non accompagnati stranieri e il rischio è di perderne il controllo, il disordine è la via seguita per giustificare la repressione”, dice un volontario che lavora negli istituti minorili. “Il decreto Caivano racconta di quanto lo stato abbia fallito, un patetico tentativo di repressione storicamente fallimentare. Noi ci scontriamo con una scarsa offerta formativa, con poche agenzie educative e con la costante frustrazione del ritorno del ragazzo nei quartieri e nel contesto di appartenenza. Quando ho iniziato questo lavoro mi fu detto: “Lavoriamo con la consapevolezza che l’80 per cento sarà un fallimento, ma quel 20 per cento che si salva, è il motore di tutto”“, dice Manuela Scarpinati, vice presidente Aries. È difficile essere giovani in terra di sud, talvolta può essere mortale. Poco distante da qui, a Secondigliano, un’intera comunità piange da giorni Patrizio Spasiano, aveva scelto come tanti la strada della formazione e del lavoro, il lavoro che l’ha ucciso a 19 anni. Torniamo in comunità, dagli adolescenti a metà. La risata di mamma - Ogni storia incrocia drammi irrisolti, ragazze madri, genitori eclissati, welfare polverizzato e, a volte, una fame infame. Nicola, 16 anni, è in comunità per porto abusivo d’arma da fuoco, ricettazione e truffa. Ha il pizzetto, i capelli corti: è orfano d’infanzia. “Papà? Un cartonato con la capa fatta di cocaina. Mia mamma si spacca di fatica, fa le pulizie nei b&b del centro, ma guadagna troppo poco”, dice raccontando il solco tra le due città, tra le due Italie, quelli delle rendite e quelli del lavoro povero. “Mi credi, mia mamma non rideva, non rideva mai. È bello parlare quando i genitori ti mettono i soldi in tasca, a casa mia c’era solo la fame. Io andavo a scuola, portavo anche le pizze a domicilio, ma non si arrivava. Ho cominciato a fare le truffe agli anziani”, continua Nicola. Ogni giorno da Napoli parte un nugolo di ragazzini, la centrale della truffa è in città, i manigoldi cercano sulle pagine bianche anziani ignari da truffare fingendo improbabili incidenti o improvvise urgenze. Quando qualcuno ci casca si attiva il ragazzino, “mi mandarono a Firenze, mi chiamarono dandomi indirizzo e andai a prendere i soldi. Noi prendevamo una percentuale minima, chi si arricchisce sono i grandi, ci utilizzano perché abbiamo un rischio penale ridotto”, raccontano i ragazzi. “Io ci sono stato in carcere per una coltellata, ho incrociato anche i ragazzini che hanno fatto quelle cose brutte a Caivano, ho conosciuto loro, non il loro reato. Certo alcuni di noi non cambieranno mai, ma il carcere ci peggiora soltanto, non serve a niente. Sono otto mesi che sono in comunità e ci sto provando a prendere una strada”, dice un altro ospite. Prima di salutarci Gennaro guarda un bagliore di sole che è uscito, mi mostra il libro che ha letto, un giallo che lo ha conquistato. Poi guarda il terrazzo e dice a Said: “Qua ci starebbe proprio bene un biliardino”. Il futuro è ancora tutto da scrivere. L’assurdo rimpatrio di Ion Nicolae e il diritto all’affettività per i detenuti di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 2 febbraio 2025 2021. Ion Nicolae, all’epoca quarantottenne, è in carcere, vivendo da tempo in una condizione di isolamento totale e solitudine. È privo del supporto di parenti vicini, una situazione che ha contribuito all’emissione di un provvedimento per il suo rimpatrio in Romania. Nicolae però, dopo anni di detenzione a Verona, aveva ottenuto la semi-libertà, intraprendendo un percorso di reinserimento sociale. A fine dello scorso anno, al momento della scadenza del suo contratto di lavoro, è stato prelevato dalla sua abitazione, dove viveva insieme alla compagna e trasferito a Verona, per poi finire al carcere di Rebibbia di Roma, in attesa di essere rimpatriato. Ha dovuto interrompere così, bruscamente, il suo cammino di lento rientro alla vita. La storia di Nicolae è segnata da sofferenze profonde. In un momento di estrema disperazione, a Rebibbia, ha ingerito delle batterie, richiedendo un intervento chirurgico d’urgenza che gli ha salvato la vita. Eppure ha dimostrato grande determinazione nel tentativo di ricostruirsi una vita migliore. Lui e la sua compagna si trovano ora ad affrontare una nuova difficoltà: il loro matrimonio, previsto per il 12 febbraio a Verona, rischia di non poter essere celebrato a causa del trasferimento. Quel matrimonio rappresenta un passo importante verso la stabilità, oltre che un progetto di vita comune. A Verona, gli avvocati Francesco Spanò e Simone Giuseppe Bergamini hanno presentato una richiesta urgente per sospendere e revocare il trasferimento di Ion Nicolae, cittadino rumeno, detenuto con fine pena previsto per il 2027. Quando è è stato trasferito al carcere di Rebibbia, la sua difesa non era stata informata. “Il trattamento riservato a Ion Nicolae è disumano e kafkiano”, denunciano gli avvocati, sottolineando come al loro assistito non sia stata garantita un’adeguata informativa sui suoi diritti e sulla decisione di trasferimento, violando così il suo diritto alla difesa. Chi conosce Nicolae, a cominciare dai suoi avvocati, è preoccupato per le gravi conseguenze sul benessere psicofisico dell’uomo, incluso il rischio di atti di autolesionismo, che potrebbe comportare questa decisione. La sospensione e la revoca del trasferimento sono stati chiesti affinché l’uomo possa scontare il residuo della pena in Italia. “Nicolae sta per sposarsi con una cittadina italiana e ha ricostruito la sua vita sui binari della legalità, richiedendo misure alternative alla detenzione”, spiegano gli avvocati. “In Romania non avrebbe la possibilità di esercitare tali facoltà”. Il diritto al matrimonio è sancito dall’articolo 29 della Costituzione, da trattati internazionali come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 8) e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Per i detenuti il matrimonio rappresenta un elemento essenziale per il recupero di un benessere personale e sociale. Negare questa opportunità a Nicolae significa violare un diritto fondamentale e interrompere un progetto di vita. Tuttavia, il caso di Nicolae non è isolato, anzi mette in evidenza un problema più ampio legato al diritto all’affettività per i detenuti. Nel gennaio 2024, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 10/2024, ha riconosciuto il diritto dei detenuti a vivere momenti di intimità con i propri cari, includendo i legami affettivi e sessuali. Tuttavia questa sentenza, sebbene importante, si scontra con una realtà carceraria che non dispone (né si predispone a farlo) delle strutture adeguate per rendere effettivi tali diritti. La mancanza di spazi adeguati e il sovraffollamento degli istituti compromettono la possibilità di costruire e mantenere relazioni significative, fondamentali per l’equilibrio psicologico e il reinserimento sociale. Tali legami, invece, sono riconosciuti come elementi essenziali per il recupero e la riabilitazione. Nel caso di Nicolae, se l’uomo venisse rimpatriato in Romania, le conseguenze sarebbero molto gravi. Le condizioni delle carceri rumene sono ancora peggiori di quelle italiane: lo spazio vitale per detenuto è spesso inferiore ai due metri quadrati, violando standard minimi di dignità. Inoltre, sono stati ripetutamente riconosciuti maltrattamenti e abusi fisici, tra cui la pratica brutale della “falaka,” che consiste nel colpire violentemente la pianta dei piedi del prigioniero. Nicolae, già emotivamente fragile a causa del suo passato e degli episodi di autolesionismo, rischierebbe di trovarsi in una situazione ancora più critica. Questo trasferimento, oltre a violare i diritti processuali di un detenuto, rappresenta un esempio emblematico delle difficoltà che il sistema penitenziario italiano, strutturalmente violento e ingiusto, riscontra di fronte al tema del rispetto della dignità umana. La vicenda di Nicolae richiama l’urgenza di tradurre in pratica principi base che sono sanciti dalla legge, come garantire ai detenuti il diritto al matrimonio e alla sfera affettiva. Investire in strutture adeguate, come spazi per i colloqui intimi, non deve essere considerato un privilegio, ma una componente fondamentale di un sistema penitenziario che ponga al centro la dignità della persona. Offrire ai detenuti la possibilità di mantenere legami affettivi è un passo indispensabile, a patto che il recupero sociale non voglia essere solo una promessa mancata, ma una realtà concreta. *Associazione Yairaiha ETS Una corda per attaccarsi alla vita L’Osservatore Romano, 2 febbraio 2025 Purtroppo, in carcere, la corda viene usata da molti per togliersi la vita. Ma il Papa l’ha indicata come mezzo per proseguire il viaggio della vita. Papa Francesco ha fatto riferimento anche ad un altro valore fondamentale: la tenerezza, un sentimento ben presente nel cuore di chi è lontano dalla propria famiglia. E per questo, ricordando che “la speranza non delude”, ha invitato tutti a “spalancare i cuori”. La speranza è il cuore di questo Giubileo. Ad essa si affida chiunque abbia un bisogno - dalla salute alla gestione della famiglia. Insomma, tutti vi si aggrappano. E questo è un bene. Papa Francesco, lasciando il carcere di Rebibbia dove ha aperto nella festa di Santo Stefano la seconda Porta Santa di questo Giubileo, ha risposto alla domanda di un giornalista dicendo: “Ognuno di noi può scivolare, l’importante è non perdere la speranza”. Ecco, in queste poche parole pronunciate fuori dall’ufficialità, vedo il senso vero ed autentico del Giubileo che stiamo vivendo: non perdersi per le strade del rancore, del “dente per dente”, della cattiveria, ma avere sempre davanti la speranza, la speranza che si possa andare avanti, migliorare, superare le difficoltà. E questo vale per tutti, sia per le persone libere sia per quelle che sono in carcere, come ce lo ricorderà il pellegrinaggio giubilare dei detenuti a Roma programmato per domenica 14 dicembre. A Rebibbia Papa Francesco ha parlato alla coscienza di chi sta dentro dicendo: “I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza. La speranza non delude, mai!”. E lo ha spiegato facendo l’esempio della corda fissata all’ancora alla quale aggrapparsi per raggiungere la riva e andare avanti. Purtroppo, in carcere, la corda viene usata da molti per togliersi la vita. Ma il Papa l’ha indicata come mezzo per proseguire il viaggio della vita. Papa Francesco ha fatto riferimento anche ad un altro valore fondamentale: la tenerezza, un sentimento ben presente nel cuore di chi è lontano dalla propria famiglia. E per questo, ricordando che “la speranza non delude”, ha invitato tutti a “spalancare i cuori”. Con il suo gesto e con le sue parole Papa Francesco ha portato aria nuova, aria di primavera, nelle carceri e nei cuori di quanti sono oggi coinvolti in percorsi giudiziari. Circa centomila sono le persone che conducono una vita di “attesa” avendo già una condanna definitiva, ma ancora non notificata; circa 62.000 quelle recluse in strutture che potrebbero ospitarne solo 47.000 (altri 4.400 circa sono i posti inagibili). Nel 2024 i decessi in carcere sono stati 246 di cui 90 suicidi, secondo il dossier “Morire di carcere” redatto da “Ristretti orizzonti”. In questo panorama la pena comminata dai tribunali viene scontata dentro strutture ove raramente le norme vengono rispettate e nelle quali il sovraffollamento e le carenze economiche sono la quotidianità. Dalle carceri ci si attendono gesti concreti proprio da chi è andato a complimentarsi con Papa Francesco per quanto ha detto e per l’appello a compiere gesti di misericordia indirizzati verso una gestione più umana delle carceri. Chissà? Stop al corteo anti-toghe, ma l’assedio non si ferma. Si studia la nuova stretta di Federico Capurso e Francesco Malfetano La Stampa, 2 febbraio 2025 In Fratelli d’Italia si teme lo scontro col Colle. I capigruppo incalzano: ma non devono deriderci. Le voci, oggi, hanno intensità e volumi diversi. Il messaggio che arriva dal governo e da Fratelli d’Italia torna un millimetro dietro la linea rossa dello scontro finale. Giorgia Meloni e i suoi hanno deciso di non scendere in piazza per manifestare contro i giudici. L’ipotesi paventata in un sondaggio inviata agli iscritti nei giorni scorsi viene derubricata a “pazzia” dal deputato di FdI Giovanni Donzelli, a capo dell’organizzazione del partito. Non sono cambiate, invece, di molto le recriminazioni nei confronti delle toghe. “Una parte della magistratura ci rema contro” è il mantra meno impetuoso e più circostanziato che si intercetta facilmente all’uscita della direzione nazionale del partito tenuta ieri. Una calma quasi ostentata tra le mura sicure del centro congressi di via Alibert, a due passi da piazza di Spagna, che a riunione terminata cede però il passo all’ormai consueto appuntamento con un atto d’accusa. Stavolta il caso Almasri e il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi non c’entrano. Né ha qualcosa a che fare l’affaire Daniela Santanchè, sfilata ieri a testa alta tra gli sguardi del partito che sta cercando di farla fuori. Il mirino è puntato sui 5 giudici della Corte d’Appello che hanno disposto il rientro in Italia - già compiuto ieri, a Bari - dei 43 migranti che si trovavano in Albania. “Provengono tutti dalla Sezione specializzata del Tribunale di Roma” è l’affondo congiunto con cui i capigruppo di FdI Galeazzo Bignami e Lucio Malan indicano come vanificata la scelta di “governo e Parlamento” di trasferire per decreto la competenza alla Corte di Appello proprio “per sottrarla alle Sezioni specializzate del Tribunale”. Una “presa in giro” è la denuncia. “Si può essere d’accordo o meno con una legge dello Stato, ma in democrazia la legge si rispetta e si applica”, invece, la tesi. Principio su cui Bignami e Malan pungono anche l’opposizione, teorizzando la necessità di un loro sdegno. E infatti FdI starebbe ragionando in queste ore su un provvedimento ad hoc per evitare che i giudici delle sezioni dei tribunali passino alle Corti d’Appello. Il canovaccio è quello già seguito negli ultimi giorni. Eppure i resoconti di molti degli interventi di ieri potevano far presupporre qualcosa di diverso. “Il problema sono i giudici politicizzati, non i giudici. Questo è il senso della discussione che stiamo facendo” spiega, ad esempio, il deputato Federico Mollicone. Idem per la decisione, maturata già nei giorni scorsi, di non scendere in piazza per una grande manifestazione nazionale a Roma. Una mossa alla Silvio Berlusconi che nel 2013 portò in corteo tre ministri, compreso il vicepremier e titolare dell’Interno del governo di larghe intese Angelino Alfano. “Lo abbiamo valutato seriamente” racconta una fonte ai vertici del partito di via della Scrofa. “Non ci sarà alcuna manifestazione di piazza, nessun corteo contro la magistratura. Figuriamoci, saremmo dei pazzi”, assicura a La Stampa Donzelli. Sa bene che una manifestazione del genere provocherebbe una frattura tra poteri e non troverebbe di certo l’approvazione del Quirinale. Tra propaganda e fatti, per Sergio Mattarella, passa tutta la differenza del mondo. “Stiamo facendo una riforma per i giudici, non contro”, precisa infatti Donzelli. Drammatizzare oltre, non è un’opzione. Ora è più utile modulare l’intensità, creando un “movimento” della base che possa essere capitalizzato in vista del referendum per la separazione delle carriere oppure qualora lo scontro dovesse sfuggire di mano. Prove generali di consenso. Tant’è che non è escluso che il partito, sull’onda di quella organizzata a favore delle forze dell’ordine in questo fine settimana, organizzi una raccolta firme di solidarietà a sostegno della premier e dei ministri indagati, con tanto di gazebo nelle principali piazze italiane. È il segno che si vuole modulare l’impeto dello scontro. La magistratura è ancora vissuta come una minaccia, ma il problema viene incanalato in un’altra direzione, anche attraverso gli interventi dal palco. Quello di Guido Crosetto, ad esempio. “In questo Paese - dice prendendo un po’ alla larga il tema - c’è un problema di democrazia decidente. Trump, nel tempo intercorso tra la cerimonia di insediamento e il successivo ricevimento, ha firmato decreti per far uscire gli Stati Uniti dall’Oms e dai patti di Parigi. Qui una cosa del genere sarebbe impossibile”. E permettere al governo di decidere qualcosa senza che altri poteri si frappongano, in una conflittualità tutta politica, “è ormai una questione di competitività del sistema”, sottolinea il ministro della Difesa. Un sistema che per Crosetto sta crollando anche a causa dei colpi dei pm. Dal palco sciorina infatti la vicenda del senatore dem Stefano Esposito, dal 2015 al 2018 intercettato per 500 volte - senza la preventiva autorizzazione del Parlamento - su richiesta del pubblico ministero di Torino Gianfranco Colace. La posizione di Esposito è stata poi archiviata, ricorda il ministro chiudendo l’intervento tra gli applausi, ma lo stesso pm pochi giorni fa “sventolava la Costituzione per protestare contro la riforma della giustizia”. Le correnti vogliono un’Anm unitaria, ma Mantovano cerca di spaccarla di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 febbraio 2025 Il sottosegretario al lavoro su Mi per piazzare il lealista D’Amato alla presidenza. Area e Md insieme sono maggioranza relativa: un dato che peserà sui nuovi assetti. Non ci sono solo gli assalti al capo della procura di Roma Francesco Lo Voi e ai giudici della Corte d’appello che, ancora una volta, hanno dato torto a Meloni smontando i suoi piani per la deportazione dei migranti in Albania. La partita sulla giustizia si gioca anche, forse soprattutto, sul neoeletto parlamentino dell’Anm, che sabato sceglierà i suoi vertici. Il Sottosegretario Alfredo Mantovano sta osservando molto da vicino la situazione e il perché è presto detto: la corrente di destra, quella di cui faceva parte quando vestiva la toga, Magistratura indipendente, si è piazzata al primo posto alle elezioni della settimana scorsa e, con ogni probabilità, sarà chiamata a esprimere il nuovo presidente del sindacato dei giudici. L’obiettivo comune a tutti gli schieramenti, ad ogni modo, è di arrivare a una giunta unitaria. Il momento lo richiede più che mai, del resto: la riforma della giustizia è alle porte, i passaggi parlamentari finiranno senza sorprese e poi comincerà la campagna per il referendum costituzionale, con i magistrati che hanno un bisogno vitale di mostrarsi compatti se vogliono avere almeno una possibilità di spuntarla. La battaglia sarà durissima, la destra ha già cominciato a impostare la partita come un sondaggio di gradimento sui giudici, lasciando perdere la sostanza della riforma, di cui ai cittadini interessa tra il poco e il niente. Prova ne sia il fatto che quando nel giugno del 2022 furono lanciati 5 referendum sulla giustizia (e uno dei quesiti riguardava proprio la separazione delle carriere), l’affluenza si assestò ai livelli più bassi della storia repubblicana, con il quorum che restò lontano anni luce. Qualche mese dopo la destra avrebbe stravinto le politiche, senza che questi temi entrassero più di tanto nella sua campagna elettorale. “Certo che siamo unitari, lo siamo sempre”, dice al manifesto un esponente di Magistratura democratica. “A meno che non vogliano mettere alla presidenza Nordio o Mantovano”. La battuta nasconde un identikit, quello di Antonio D’Amato, procuratore a Messina, secondo classificato per preferenze nella lista di Mi e ritenuto molto vicino all’esecutivo. A palazzo Chigi non dispiacerebbe affatto se fosse lui l’interlocutore da qui in avanti: il profilo di cui parliamo, infatti, è l’opposto di quello battagliero rappresentato dall’uscente Giuseppe Santalucia. Mantovano, all’apertura romana dell’anno giudiziario, aveva ampiamente lasciato intendere che un’eventuale “guida moderata” dell’Anm potrebbe riaprire il confronto sulla riforma. I risultati del voto per il parlamentino, però, hanno visto prevalere la linea dura: ha sì vinto Mi, ma il primo degli eletti è stato il palermitano Giuseppe Tango, uno che non ha mai risparmiato critiche acuminate nei confronti dei piani del governo in materia di giustizia e che gode della stima di vari esponenti delle correnti progressiste. Mi, tra le altre cose, sta attraversando una fase strana: la parte “lealista” verso i partiti della maggioranza è sempre più in difficoltà, perché gli attacchi che arrivano contro le toghe sono sempre più duri e di conseguenza sempre più difficili da smorzare. Non si può non ricordare, in questo quadro, che Lo Voi è un nome di peso tra la magistratura conservatrice e il massacro a cui viene sottoposto da quando ha indagato Meloni, Mantovano, Nordio e Piantedosi è ormai impossibile da giustificare. Bisogna considerare, inoltre, che le toghe di sinistra, insieme, sarebbero ampiamente la forza di maggioranza relativa del comitato direttivo centrale dell’Anm: un antipasto di quello che potrebbe significare in futuro si è visto nell’ultima assemblea di dicembre, quando Magistratura democratica ha lanciato la proposta della sciopero e subito Area democratica per la giustizia ha detto sì, contribuendo in maniera decisiva alla proclamazione del 27 febbraio come giornata di astensione nei palazzi di giustizia. La frangia centrista, Unicost, infine non sembra disposta a seguire l’ala destra, anzi, quando i suoi esponenti parlano in pubblico mostrano sempre una certa intransigenza verso Nordio e i suoi piani. E se, in ogni caso, un’apertura al centro di Mi è scontata, difficilmente si potrà fare sulla base di un improbabile rapporto più disteso con l’esecutivo. Nell’ultima settimana di trattative sui nuovi assetti, comunque, è plausibile che le correnti terranno un profilo assai basso, evitando il più possibile di esporsi: la priorità, come detto da tutti più e più volte, è che si formi una giunta unitaria e solo dopo si passerà alla riflessione sui nomi da mettere in cima, accordandosi magari sulla rotazione degli incarichi. Che preservare l’unità sia per i giudici un punto irrinunciabile, però, Mantovano lo sa bene. E sa anche che la cosa più importante non è tanto scegliere i capi dell’Anm, quanto dividerla. Che in fondo è il primo passo per comandarla. Gianrico Carofiglio: “Il Governo ha avvelenato i pozzi” di Francesca Schianchi La Stampa, 2 febbraio 2025 Lo scrittore ex magistrato: “La premier sbaglia a ripetere che non è ricattabile: fa pensare a un’excusatio non petita”. “In una democrazia di buona qualità, il potere sa prendere le decisioni, riconoscere gli errori e assumersi le sue responsabilità”. Gianrico Carofiglio ha vissuto tante vite: ormai da anni è uno scrittore di successo. Prima, ha avuto una parentesi da senatore Pd durata una legislatura. Ma prima ancora, ha lavorato per lungo tempo in magistratura. Con lui si possono ripercorrere le tappe della vicenda del libico Almasri arrestato e poi scarcerato e riaccompagnato in Libia, cercando di fare chiarezza su alcuni passaggi contestati. Partiamo dall’inizio: una persona inseguita da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale rimessa in libertà, non si poteva fare altrimenti? “Premessa: ho molti dubbi che la decisione della Corte d’Appello sia corretta. Ha ritenuto che fosse indispensabile l’interlocuzione con il ministro della Giustizia, ma quasi tutti gli studiosi di diritto internazionale la pensano diversamente. Forse avrebbero potuto convalidare l’arresto. Dopodiché, resta che il ministro, interpellato, non ha risposto”. Morale, Almasri è stato liberato e riportato in Libia… “È una cosa che ci scandalizza? Sì, certo, ma fa parte del backstage della politica. L’Italia con la Libia ci parla non a partire da oggi, si sa. Quello che è insopportabile è la fuga dalla verità e dalla responsabilità di questo governo”. Dicono di averlo fatto per motivi di sicurezza dello Stato. “Ovvio. Ma allora abbiano il coraggio di spiegarlo al Paese in Parlamento. E invece hanno messo in atto una duplice strategia di distrazione: attaccare l’avvocato Li Gotti e il procuratore Lo Voi, e inviare un’imbarazzante lettera ai presidenti delle Camere per sottrarsi al confronto parlamentare”. Quella in cui dicono di non poter riferire in Parlamento perché c’è il segreto istruttorio... “Il segreto istruttorio è stato abrogato nel 1989, oggi si chiama segreto investigativo: per un errore simile all’esame di procedura penale ti bocciano”. È un errore formale o sostanziale? Potrebbero o no fare comunicazioni? “Sostanziale: non c’è nessun segreto investigativo perché, fra l’altro, non c’è nessun atto investigativo”. C’è la trasmissione dell’esposto di Li Gotti al Tribunale dei ministri. Pensa che quella denuncia farà strada? “Nel merito, anch’io ho molti dubbi sulla sussistenza dei reati ipotizzati”. Ma la trasmissione del procuratore Lo Voi al Tribunale dei ministri era un atto dovuto, come dice l’Anm, o voluto, come dice la premier? “Lasciamo perdere i giochi di parole. Certo che era dovuto. Poteva non farlo solo nel caso di manifesta infondatezza”. La premier però dice: le procure hanno una discrezionalità nel decidere. “Ognuno dovrebbe parlare delle cose di cui è competente. Al di fuori della manifesta infondatezza, della manifesta inverosimiglianza - che non ci sono nel caso di specie - il procuratore è obbligato a trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri, senza fare alcun accertamento. Se si fosse regolato diversamente, allora sì che avrebbe fatto un errore e, forse, anche un abuso”. Altra obiezione di Fratelli d’Italia: Lo Voi avrebbe potuto aspettare di sentire i ministri in Parlamento prima di trasmettere l’atto. È così? “Ma per quale motivo? Il magistrato è tenuto al rispetto delle procedure, non a valutazioni politiche”. La premier invece ha considerato tutto questo un attacco della magistratura... “Ha preso al volo l’occasione di spostare l’attenzione su un altro piano. In retorica si chiama argomentum ad hominem: non vuoi rispondere nel merito e attacchi l’avversario. Su questo Meloni è specializzata: ricordo una volta, qualche anno fa, ci fu una manifestazione contro le morti in mare dove tutti indossavano una maglia rossa. Lei fece un video con la t-shirt rossa dicendo: ora mi mancano solo il Rolex e un appartamento a New York per manifestare anch’io. Ma che c’entra? Distrai l’attenzione per non stare sul merito rispetto al quale non sai rispondere”. Che effetto le fa questo scontro tra politica e magistratura? “Lo chiamerei più l’attacco di alcune parti della politica contro il controllo di legalità esercitato dalla magistratura”. Secondo Meloni però ci sono piccole parti della magistratura che esondano dal loro ruolo: si sente di escluderlo? “Certo che esistono casi simili, ma devi riferirti ai casi specifici. Se parli in generale di “pezzi della magistratura”, fai un’accusa destabilizzante: se fossero chiacchiere da bar sarebbe qualunquismo, se lo dicono le istituzioni è avvelenamento di pozzi”. E invece pare che FdI stia pensando a una manifestazione contro le toghe... “Spero non accada, sarebbe un ennesimo danno alla qualità della democrazia”. Che effetto le fa quel richiamo a “non sono ricattabile”? “Mi fa pensare alla lezione del linguista di Berkeley George Lakoff: tu dici “non pensare all’elefante” e tutti ci pensano. È come la storia dell’excusatio non petita. Meloni è brava nella comunicazione, ma nel ripetere ossessivamente questa frase secondo me sbaglia”. Da FdI arrivano attacchi anche sulla scelta di non convalidare i trattenimenti dei migranti in Albania: andremo avanti, insistono… “Questa determinazione ostinata, la totale chiusura alla possibilità di riconoscere un errore, è un segnale preoccupante. Se una certa soluzione non va, fermati un attimo e rifletti, no?”. La ministra Santanché si dovrebbe dimettere? “Avrebbe già dovuto farlo. Il suo tenere duro mi sembra un segno di caduta di autorità della premier, a cui di solito basta alzare un sopracciglio per ottenere quel che vuole. La sua permanenza al governo è un regalo all’opposizione”. Come le sembra si stia muovendo, l’opposizione? “Stanno governando la situazione. Ma io penso che, per convincere chi non vota più, non basti il richiamo sia pur giusto a questioni come la sanità, serve una proposta capace di coinvolgere in un futuro possibile”. Magari marciando divisi e poi unendosi con un accordo sui collegi alle elezioni, come si comincia a ipotizzare? “Quello andava fatto la volta scorsa. Per la prossima, mi pare un’idea un po’ difensiva, di retroguardia, più per non perdere che per vincere. Mi piacerebbe una prospettiva più strategica. Anche se ovviamente non è facile”. L’AI cambierà anche la Giustizia? Io dico che solo un giudice può cogliere certe sfumature di Agostino Imperatore* Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2025 Come cambierà la Giustizia nell’era dell’intelligenza artificiale? L’AI sta riscrivendo le regole del gioco: automatizza processi, semplifica attività complesse e apre nuove possibilità. Tuttavia, questa trasformazione pone un interrogativo cruciale: come integrare il progresso tecnologico con i valori umani che da sempre guidano il sistema legale? A dire il vero, per lungo tempo il diritto è rimasto ancorato a prassi consolidate, resistendo ai cambiamenti imposti dalla digitalizzazione. Solo con la progressiva dematerializzazione dei processi e l’introduzione di software gestionali, questa resistenza si è affievolita. Ora, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, il settore legale si trova nuovamente di fronte a una svolta radicale, che non solo ottimizza i flussi di lavoro, ma offre strumenti innovativi per l’analisi e la previsione. Grazie a sistemi di revisione documentale automatizzata, è infatti ora possibile esaminare grandi volumi di documenti legali, identificando incongruenze o criticità in pochi minuti, così come con l’introduzione della giurimetria, che applica metodi quantitativi al diritto, si mira a prevedere l’esito di scenari complessi sulla base di innumerevoli precedenti giurisprudenziali, migliorando di conseguenza la qualità delle decisioni. Tra le applicazioni dell’AI in ambito legale spiccano poi i chatbot, che forniscono risposte rapide e guidano i clienti nelle consulenze iniziali, così come gli agenti AI, capaci di gestire flussi complessi e richieste specifiche dei professionisti. Questi cambiamenti non si limitano a trasformare i processi operativi, ma incidono profondamente sulla struttura stessa del sistema giuridico, richiedendo un approccio istituzionale che sappia guidare l’integrazione dell’IA in modo strategico ed efficace. Non a caso, il Ministero della Giustizia, sotto la guida del ministro Carlo Nordio, ha istituito l’Osservatorio permanente per l’uso etico dell’intelligenza artificiale nell’attività giurisdizionale, con il compito di promuovere un uso etico della tecnologia, garantire l’affidabilità degli algoritmi e sostenere la formazione continua per gli operatori del diritto, creando un dialogo efficace tra tecnologia e giurisdizione per rendere il sistema legale più moderno e trasparente. ?Tuttavia, se da un lato l’IA promette di innovare profondamente il settore, dall’altro solleva questioni che vanno ben oltre l’efficienza tecnica o la fruibilità da parte degli addetti ai lavori, tra cui la necessità di garantire algoritmi equi e privi di bias o di adottare strumenti capaci di bilanciare automazione e controllo umano. La vera sfida sarà infatti la capacità degli operatori del diritto di adattarsi ad un cambiamento tecnologico senza precedenti, acquisendo le competenze necessarie per gestire con consapevolezza strumenti avanzati e assicurare trasparenza e responsabilità nei processi decisionali e nell’erogazione dei servizi legali, con conseguenti benefici tra cui la riduzione dei costi operativi e un conseguente incremento dell’accesso alla giustizia per i cittadini. Eppure, nessuna tecnologia può sostituire il giudizio critico, l’empatia e l’intuizione necessarie per affrontare questioni complesse e controversie di natura profondamente umana. Questi aspetti, esclusivi del dominio umano, continuano a occupare un ruolo centrale in un sistema giuridico che non può permettersi di sacrificare i valori fondamentali della Giustizia sull’altare della produttività. Solo un giudice, ad esempio, può cogliere le sfumature emotive di una testimonianza o comprendere il contesto sociale di una controversia, così come unicamente un avvocato può adattare la strategia difensiva alle dinamiche emotive e relazionali, interpretando le esigenze del cliente o rispondendo alle reazioni delle parti in aula. Questi elementi, impossibili da replicare per una macchina, evidenziano il ruolo centrale dell’uomo nel mantenere l’equilibrio tra innovazione e giustizia. L’intelligenza artificiale non rappresenta la fine delle professioni legali, ma la loro naturale evoluzione; un’occasione, quindi, per riconsiderare il ruolo di magistrati, avvocati e degli altri operatori del diritto come garanti di equità, giustizia e umanità. Il futuro del diritto sarà scritto non dalle macchine, ma dalla nostra capacità di utilizzarle con saggezza e consapevolezza, preservando ciò che rende la giustizia autentica: la sua essenza profondamente umana. *Avvocato Ricettazione per il detenuto che riceve in carcere un telefono introdotto abusivamente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2025 Lo afferma la Cassazione, sentenza n. 4189 depositata oggi, respingendo il ricorso che chiedeva la riqualificazione del reato in “Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”. Scatta il più grave reato di “ricettazione” per il detenuto che riceva un apparecchio telefonico (o altro dispositivo idoneo alla comunicazione) da chi lo ha introdotto abusivamente nell’istituto penitenziario, senza un previo accordo con lo stesso detenuto. Una simile condotta infatti “appare integrare il reato di ricettazione, per avere il detenuto ricevuto una cosa (il dispositivo) proveniente dal delitto di cui all’articolo 391-ter, primo comma, cod. pen.”. Lo afferma la Corte di cassazione, sentenza n. 4189 depositata oggi, con la quale ha respinto il ricorso dell’imputato che chiedeva la riqualificazione del reato in quello di “Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti” e confermando la condanna del Gip a 1 anno e 8 mesi di reclusione (e mille euro di multa). Per i giudici il ricorrente non considera che per effetto della clausola di riserva “[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato” con cui si apre il terzo comma dell’articolo 391-ter cod. pen., il reato di ricettazione, ove ritenuto in concreto più grave, “prevale”. La II Sezione penale ricorda poi che in caso di applicazione della pena su richiesta la riqualificazione del reato, con ricorso per Cassazione, è ammessa soltanto quando essa sia stata palesemente “eccentrica”, condizione nella fattispecie non ricorrente. La Suprema corte ricorda poi che l’articolo 391-ter cod. pen. è stato inserito nel codice penale dal cosiddetto “Decreto sicurezza bis” nel 2020 per contrastare il fenomeno, che era divenuto ormai endemico, dell’introduzione in carcere di apparecchi cellulari, essendo risultata impraticabile la cd “schermatura” delle carceri. L’articolo 391-ter cod. pen stabilisce che: “Fuori dei casi previsti dall’articolo 391-bis, chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni [primo comma]. Si applica la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense [secondo comma]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena prevista dal primo comma si applica anche al detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni [terzo comma]”. Con riguardo a tale ultimo comma, l’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o” implica che, affinché il reato sia integrato, non è necessario che il detenuto utilizzi il dispositivo ma è sufficiente che l’agente ne sia in possesso per averlo ricevuto. Il presupposto di entrambi i reati di cui al primo e al terzo comma dell’articolo 391-ter cod. pen., spiega la decisione, è che l’accesso a dispositivi idonei alla comunicazione sia indebito, cioè non autorizzato dall’Amministrazione penitenziaria. Mentre con riguardo all’oggetto dei due reati, la Corte di cassazione ha escluso che esso possa essere costituito da una scheda SIM (n. 42941/2024). La Suprema corte afferma che il bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice “appare essere l’effettività della pena detentiva e della custodia cautelare in carcere, le cui finalità possono risultare frustrate dall’indebito accesso, da parte dei detenuti, a dispositivi idonei alla comunicazione dei quali gli stessi detenuti si potrebbero servire non solo per coltivare il proprio diritto all’affettività, comunicando con i propri cari, ma anche per continuare a gestire i propri affari illeciti”. In conclusione, siccome il terzo comma dell’articolo 391-ter cod. pen. si apre con una clausola di riserva - “[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato” -, la quale comporta la sussidiarietà del reato rispetto all’intera categoria dei reati più gravi, ai quali il legislatore ha assegnato, perciò, la prevalenza; la condotta della ricezione del dispositivo integra il reato di “ricettazione” e non di “accesso indebito a dispositivi”, in quanto il detenuto ha ricevuto un dispositivo che a sua volta era frutto del delitto previsto dal primo comma dell’articolo 391-ter, Cp. Messa alla prova e arresti domiciliari sono compatibili ildiritto.it, 2 febbraio 2025 I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni. La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024. La vicenda - Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova. In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse. L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse. Presupposti della messa alla prova - La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni - spiegano infatti i giudici di legittimità - si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale, attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”. Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”. Portata rieducativa e afflittiva - L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022). L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali. Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena. “In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio - proseguono i giudici - la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”. Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.”. La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”. Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare - In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”. Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”. La decisione - Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poiché muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio. Lombardia. La Camera Penale della Lombardia Orientale denuncia: sistema carcerario al collasso aprovinciacr.it, 2 febbraio 2025 Da gennaio 2024, 100 detenuti si sono suicidati. Episodi quotidiani di autolesionismo. La situazione nelle carceri italiane è oggi al centro di un acceso dibattito, dopo che il direttivo della Camera Penale della Lombardia Orientale “Giuseppe Frigo” ha lanciato un forte appello contro il sistema penitenziario, definito ormai insostenibile. Secondo il documento, redatto a seguito di una drammatica escalation degli eventi, da gennaio 2024 ad oggi ben 100 persone detenute, affidate allo Stato, si sono tolte la vita. L’ultimo episodio, avvenuto a Vigevano, ha visto la morte di un detenuto incarcerato per una rapina commessa per un modico importo di 50 euro, già risarciti alla persona offesa. Il direttivo denuncia inoltre che, quotidianamente, si registrano numerosi gesti di autolesionismo all’interno degli istituti penitenziari e che non sono da meno i suicidi tra il personale di polizia penitenziaria, con 6 agenti che hanno perso la vita in questo modo. La camera penale attribuisce questo inquietante incremento di tragedie a molteplici fattori. Tra questi, spiccano la grave e costante situazione di sovraffollamento degli istituti, accompagnata da croniche carenze sia strutturali sia di personale. Un esempio lampante sono le carceri del distretto della Corte d’Appello di Brescia, dove gli indici di sovraffollamento superano il 200%. Il documento evidenzia come, nonostante le numerose iniziative promosse dalle camere penali e dall’UCPI - tra cui, recentemente, un’astensione che ha coinvolto il personale il 10, 11 e 12 luglio - la politica nazionale non abbia ancora superato la visione carcerocentrica della pena. La priorità, secondo il direttivo, dovrebbe essere la tutela della vita e della salute dei cittadini, anche se detenuti. Nel testo si sottolinea come le condizioni di vita in carcere siano deteriorate: il frequente uso di psicofarmaci e sedativi, la mancanza di lavoro e di attività risocializzanti, e la carenza di figure fondamentali come educatori, medici, psichiatri e agenti, dipingono un quadro di inaccettabile degrado. Tali condizioni violerebbero il principio costituzionale sancito dall’articolo 27, secondo il quale le pene non devono consistere in trattamenti degradanti e contrari al senso di umanità. Il direttivo critica aspramente la politica, definita “sorda” ai ripetuti richiami della società civile, delle associazioni, dell’Unione delle Camere Penali, del Presidente della Repubblica e perfino del Papa, tutti intervenuti per denunciare le condizioni inammissibili delle esecuzioni penitenziarie. Gli interventi normativi recenti, come il Decreto 92 del luglio scorso, sono stati giudicati del tutto inefficaci, nonostante la proclamata volontà di adottare “misure urgenti in materia penitenziaria”. La camera penale conclude con un appello deciso: “Non ci rassegniamo e chiediamo con forza di tutelare la vita e la dignità delle persone detenute”. La soluzione proposta per riportare la pena alla legalità è l’adozione immediata di strumenti come l’amnistia, l’indulto e una liberazione anticipata speciale. In un contesto in cui il ripetersi di tragedie quotidiane sembra diventare la nuova normalità, il direttivo della Camera Penale della Lombardia Orientale “Giuseppe Frigo” si fa portavoce di una richiesta di cambiamento urgente, auspicando che la politica nazionale possa finalmente porre al centro l’essenziale valore della vita umana anche all’interno del sistema carcerario. Parma. La carrozzina non esce dalla cella. Al recluso negata pure l’ora d’aria di Thomas Mackinson Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2025 Quindici mesi senza uscire dalla cella, senza mai andare all’aperto. Non perché lo imponga la pena, ma perché la sedia a rotelle su cui è costretto non passa dalla porta. Privato tre volte della libertà, tutti giorni della dignità. Pasquale Quagliariello, napoletano di 68 anni, dal 2021 è recluso nel carcere di Parma dove sconta una condanna a 21 anni per associazione a delinquere inflitta nel 1996 di cui sette già scontati. Da tre anni alterna scioperi delle terapie e della fame per protesta, ma nessuno lo sente. “Non vengo curato. I termosifoni sono spenti, non c’è l’acqua calda e i sacchetti delle feci me li cambio da solo”. Dalla sua cella ieri si è appellato al ministro Carlo Nordio: “Lei che può, venga con le sue gambe a vedere come curano i malati”. Parla in videocall con la figlia Fabiana. Racconta che i termosifoni sono spenti e l’acqua calda non c’è. Per questo indossa un berretto e un piumino come fosse all’aperto, fuori di lì, quando il punto è che si ritrova invece tre volte recluso: invalido al 100% dopo una stomia per un melanoma maligno, è costretto su una sedia a rotelle perché non viene operato, la carrozzina però è più grande della porta della cella, per cui non esce di lì, salvo che un altro detenuto si prenda la briga di aiutarlo. “Se venissi operato alle anche potrei almeno alzarmi con un deambulatore, ma non potrei fare la fisioterapia. Una volta chiuso qui è come se avessero buttato via la chiave”. Racconta che spesso si deve cambiare i sacchetti stomici da solo, “a volte finiscono e devo usare quelli del pattume, con rischio di infettarmi”. In un esposto del 2021 già denunciava tutto questo. La stessa relazione medico legale definiva la terapia di cura “non applicabile al carcere di Parma”. E tuttavia le sue richieste di detenzione domiciliare, compresa l’ultima del maggio del 2024, sono state tutte respinte. “Non chiedo di non scontare la pena, chiedo solo di farlo in condizioni di dignità che ai malati sono negate” insiste. Il legale che lo assiste ha chiesto più volte il trasferimento al carcere di Bologna, dove avrebbe almeno vicino la famiglia e un ospedale di riferimento per le terapie. L’avvocato Fausto Bruzzese si aggrappa allora alle recenti parole del ministro Carlo Nordio sul fenomeno del sovraffollamento e dei suicidi in carcere da contrastare non con l’amnistia, perché “sarebbe un incentivo alla recidiva”, ma con la “detenzione differenziata”. È a quel “ce la stiamo mettendo tutta” che però viene smentito nei numeri e nei fatti: ancora 15 mila detenuti in più rispetto alla capienza effettiva, lo stesso Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che da oltre un mese è senza una guida dopo le dimissioni di Giovani Russo. Parole che dalla cella di Pasquale Quagliariello risuonano vuote e distanti. “Questo non sarà il solo caso, ma certamente è un caso estremo” sostiene l’avvocato Bruzzese. “Un detenuto che è anche un paziente rischia di morire per le privazioni che gli sono inflitte ogni giorno. Un quadro che rasenta la tortura perché vanno ben oltre la libertà personale e finiscono per trattare un malato come un ostaggio o un oggetto da curare non coi mezzi adeguati e necessari, ma con quelli che si hanno a disposizione, tra deficit organizzativi e di personale”. Dieci giorni fa, il Guardasigilli ha riferito al Parlamento sullo stato delle carceri e commentando la sua relazione ha steso una coperta lunga e comoda sui veri problemi: “Non si entra in prigione per volontà del governo, ma perché si compie un reato e perché la magistratura ritiene che non ci siano alternative al carcere per l’espiazione di questi reati”. Tutto vero, ma la storia del carcerato tre volte, insieme a tante che si potrebbero raccontare, buca la sua arringa auto-assolutoria come una matita col foglio. “Esistono diritti sanciti dalla Costituzione - afferma l’avvocato che segue il caso - e non possono essere sospesi. I cittadini sanno che se commettono un reato saranno privati della libertà personale, è un rischio calcolato, ma non è scritto da nessuna parte che si ritrovino in condizioni tali da non riuscire a esprimere neppure la loro stessa umanità”. L’avvocato ha un elenco di esempi così, ma ne fa uno per tutti. “Una delle cose che mi colpisce di più e trovo persino raccapricciante è il fatto che avendo lui una stomia e quindi necessità di fare i suoi bisogni in un sacchetto la sostituzione se la deve fare da sé, anche se si è lamentato talvolta di non avere addirittura gli strumenti minimi indispensabili per farlo in condizioni di sterilità ed esponendosi a un rischio gravissimo di infezioni”. Anche la condizione psicologica ne viene compromessa. “Quagliariello in questi anni ha sospeso più volte le terapie e la consumazione dei pasti per protesta ma non è servito a nulla. La privazione delle ore di socialità per via della carrozzina che non passa dalla porta dà la misura della situazione”. Le parole della figlia. “Anche le privazioni minori per un carcerato fanno la differenza. Mio padre dovrebbe seguire una dieta per il colesterolo e il diabete prescritta dall’ospedale. Tanti anziani la fanno, ma a lui non viene somministrata. Di recente ha perso l’udito da un orecchio per un’otite non trattata che è diventata cronica. Poi il freddo, la mancanza di acqua calda. È una cosa bruttissima vivere consapevole che ogni mese gli portano via un pezzo di lui, per via del fatto che le cure non gli vengono elargite. Una tortura lunga e indeterminabile. Una pena che nessuno ha sancito ma che i malati in carcere scontano ogni giorno”. In serata abbiamo contattato il carcere di Parma per chiedere almeno dei termosifoni. Ci dicono che il direttore non c’è, la sorveglianza è impegnata e in ogni caso non fornisce informazioni all’esterno. “Mandi una email e domani o lunedì le risponderanno”. Busto Arsizio. Quegli “Intrecci” che conducono a una nuova vita: intervista a Sabrina Gaiera di Elena Padovan interris.it, 2 febbraio 2025 Sostegno, rieducazione e reinserimento: le sfide e gli obiettivi della Cooperativa sociale Intrecci. Nella mentalità comune, il carcere è visto principalmente come il luogo in cui chi ha commesso un reato deve scontare la propria pena. Purtroppo, non è ancora radicata la piena consapevolezza che anche chi sbaglia ha il diritto di pentirsi e di ottenere una seconda possibilità. Questo processo di rinascita non è facile, ma rappresenta un’opportunità per scrivere un nuovo capitolo della propria vita. In occasione della Giornata per la Vita, Interris.it ha intervistato Sabrina Gaiera, della Cooperativa Sociale Intrecci. Questa realtà nasce con l’obiettivo di costruire comunità locali che riconoscano la dignità di tutti, a partire dai più vulnerabili, come i bambini e le persone ai margini della società. Tra queste, anche coloro che stanno scontando una pena in carcere, per i quali la cooperativa offre percorsi di accoglienza e affiancamento per un reinserimento sociale. Sabrina, ad oggi in Italia, il sistema carcerario riesce a mettere il detenuto nella condizione di iniziare un percorso di riflessione sui propri errori e di ripartenza? “Purtroppo, questo è ancora un’utopia. Tale possibilità si realizza solo in alcune strutture particolarmente attrezzate e riguarda un numero molto limitato di detenuti. Solo pochi, infatti, hanno accesso a percorsi psicologici di supporto per le patologie e le dipendenze comuni in carcere, e a programmi di rieducazione che li aiutino a riflettere sul reato commesso. Al contrario, il carcere si trasforma in un luogo di ozio, dove il tempo sembra non passare mai, e questa dura realtà non offre alcun valore positivo alla vita del singolo. Inoltre, la continua “migrazione” dei detenuti da una struttura all’altra non facilita la costruzione di progetti solidi e percorsi duraturi”. Quali misure andrebbero adottate per ridurre la recidiva attraverso una formazione mirata? “È stato dimostrato che la recidiva può arrivare fino al 70% se un detenuto esce dal carcere senza aver mai avuto accesso a misure di detenzione alternativa. Tra queste misure ci sono gli arresti domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali e il supporto terapeutico per chi ha disturbi legati alla dipendenza. La recente Legge Cartabia, ad esempio, si basa proprio su queste misure alternative e ha l’importante compito di responsabilizzare anche il territorio di riferimento, chiamato a rispondere in modo propositivo e concreto”. Secondo lei, la nostra società è pronta a gestire il reinserimento di chi ha commesso un reato? “Purtroppo no, e credo che si tratti ancora di una visione utopistica. Oggi prevale un atteggiamento vendicativo che vede nel carcere unicamente il luogo della punizione, un luogo da tenere distante dalla società, quasi come se fosse un’area “isolata”. Non a caso, molte case circondariali si trovano nelle periferie, lontano dagli occhi della maggior parte della cittadinanza, come se fossero realtà estranee da evitare”. Quali sono i sentimenti più comuni tra i detenuti? “Molti di loro, soprattutto stranieri, si trovano senza legami familiari, senza casa, senza lavoro e, in alcuni casi, anche senza documenti. Dopo mesi o anni di reclusione, senza un adeguato supporto, si trovano in uno stato di confusione e rabbia, che spesso li porta a tornare a delinquere. È fondamentale ascoltarli, offrire loro supporto e sostegno per evitare che tutto ciò si ripeta. Noi di Intrecci lavoriamo proprio in questa direzione, mettendo al centro la persona, aiutandola a riconoscere e rielaborare il proprio errore, ridandole dignità e speranza”. Quanto è forte il desiderio di rinascita tra i detenuti? “La volontà di cambiamento è molto forte in molti di loro, ma è fondamentale che le proposte di reinserimento vengano fatte al momento giusto. Ci sono molti detenuti che vogliono davvero chiudere con il passato e aprire un nuovo capitolo della loro vita. Certamente, il percorso non è facile, ma i numeri parlano chiaro. Da quando ho iniziato nel 2006, posso testimoniare che, seppur ci siano stati alcuni episodi di fughe da permessi premio e di allontanamenti da misure di affidamento, la grande maggioranza dei detenuti si è mostrata recettiva e motivata a seguire i percorsi proposti. La voglia di cambiamento c’è, ed è ciò che ci spinge a proseguire con il nostro lavoro”. Il vostro è un compito molto delicato. Come avviene? “Si tratta di un intervento impegnativo che spesso presenta degli ostacoli. Per questo motivo, per raggiungere l’esito sperato, è fondamentale lavorare in sinergia con altre figure professionali. Crediamo dunque nella costante collaborazione con i servizi che operano sul territorio, anche nel volontariato, e con altre realtà del terzo settore”. Imperia. Il Garante dei detenuti: “Chi è in carcere ha diritto agli affetti” di Alessandra Boero La Stampa, 2 febbraio 2025 Saracino: fuori gli agenti durante gli incontri con i famigliari. “I detenuti hanno diritto a colloqui senza controllo visivo. Non lo dico io ma una sentenza della Corte Costituzionale, dello scorso anno. Una sentenza che apre gli spazi anche alla sessualità, se parliamo di coppia consolidata, che può continuare anche attraverso questi incontri a vivere una propria dimensione di coppia e di affettività”. Così Doriano Saracino, Garante dei diritti dei detenuti, a margine di un incontro alla biblioteca civica di Imperia. “Parliamo di affettività - prosegue Saracino - anche in senso largo perché, sempre la Corte Costituzionale, include anche la genitorialità e un momento di vita familiare in un ambiente che sia più vicino alla realtà”. Secondo Saracino, il detenuto che non vive un incontro con il proprio coniuge, con i propri figli in uno spazio diverso dal parlatorio, dove ci sono anche gli altri detenuti, è un detenuto che probabilmente, quando uscirà dal carcere, non troverà più una famiglia ad attenderlo. “Questo vale tanto per le donne quanto per gli uomini in carcere. Non dimentichiamo, lo dice sempre la Corte, che vengono condannate a privarsi di questo diritto anche persone innocenti, perché il coniuge che è fuori paga per una cosa che lui non ha commesso, paga l’interruzione di un rapporto con la persona amata”. Una questione molto delicata, una sentenza inequivocabile che potrebbe comunque portare a delle polemiche. Durante l’incontro si è invece parlato dell’importanza dell’integrazione. “È una sfida, perché la popolazione detenuta è un po’ isolata dalla città. Ad Imperia abbiamo un carcere che è dentro la città, una casa tra le case”. Ma è una casa le cui finestre sono oscurate e bloccate da alcuni pannelli filtranti che impediscono la vista stessa del carcere. “Il carcere deve aprirsi alla città, facendo entrare persone, volontari, accogliendo iniziative per dare modo alla città di prepararsi ad accogliere persone che escono dal carcere”. Per Saracino la retorica del buttiamo via la chiave, non serve “perché prima o poi le persone escono. Se lavoriamo perché trovino un’occupazione, abbiano una formazione professionale quando usciranno alcune saranno pronte, altre magari no. Ma è una sfida. Se non facciano nulla, le cose si ripeteranno e tornerà tutto come prima”. Ferrara. Un’interrogazione sul progetto “Territori per il reinserimento Emilia-Romagna” ferraratoday.it, 2 febbraio 2025 A rivolgere le domande all’Amministrazione comunale in relazione al progetto è la consigliera comunale di opposizione Anna Zonari. La presidente del Gruppo La Comune ha ricordato che “la programmazione di zona è un passaggio cruciale per l’efficace attuazione del progetto”, in quanto “consente di adattare gli interventi alle specifiche esigenze del territorio”, e che “la partecipazione di diversi soggetti del territorio è essenziale per garantire un approccio integrato”. Da qui a una serie di domande all’Amministrazione comunale per sapere se “sono stati convocati degli incontri sul progetto ‘Territori per il reinserimento Emilia-Romagna’ nell’ambito della programmazione dei Piani di zona, al fine di coinvolgere gli enti di terzo settore, in particolare quelli già attivi in progetti con la popolazione detenuta o dimittente”, e “se sì, in quali date”. La consigliera comunale ha inoltre chiesto: “Quali sono stati i soggetti del territorio formalmente invitati a partecipare alla fase di programmazione di zona? In particolare, è stato formalmente invitato il Comitato locale esecuzione penale adulti? E i rappresentanti del Terzo settore, del volontariato, delle associazioni datoriali, dei servizi sanitari e altri soggetti rilevanti? Se sì, quali?”. Gli ulteriori quesiti hanno riguardato i criteri che “sono stati utilizzati per la ripartizione dei fondi tra le diverse aree di intervento a livello locale, in conformità con quanto stabilito dalla Regione per le aree 1, 2, 3 e 4”, e le misure che “sono state adottate per garantire la trasparenza e la diffusione delle informazioni relative alla programmazione di zona e all’attuazione del progetto Tpr-ER nel nostro territorio”. Infine, Zonari ha chiesto se “sono state previste azioni specifiche per i dimittendi dal carcere, e se sono state valutate le segnalazioni dell’equipe della casa circondariale in merito ai percorsi di uscita”, e “se esistono verbali delle riunioni mensili svolte dall’equipe composta da Comune, Asp, Ausl, Uepe, Uffici esecuzione penale e Centro servizi volontariato e quanti sono i progetti di inclusione realizzati negli ultimi 5 anni”. Modena. Sofocle ed Eschilo escono dal carcere di Maurizio Porro Corriere della Sera, 2 febbraio 2025 Da 28 anni Stefano Tè è regista, talent scout e ispiratore di un teatro pensato in carcere e recitato dai detenuti, attivando ogni volta un meccanismo che metta in contatto i tragici greci con i sentimenti di oggi. Nell’anno del ventennale della sua fondazione, la compagnia modenese Teatro dei Venti (“Il nome? Era un vicolo della mia Napoli, dove spirano venti contrari”), che dal 2020 ha il sostegno di Emilia-Romagna Teatro (Ert), sta preparando Trilogia dell’assedio, progetto da Sofocle (Edipo Re, Antigone) ed Eschilo (I sette contro Tebe) con la drammaturgia dello stesso Tè, di Vittorio Continelli e Azzurra D’Agostino, in scena dall’11 al 23 febbraio a Modena, con l’aggiunta di due maratone domenicali dei tre spettacoli. Spiega il regista: “Quale può essere un’idea, una spinta comune? Credo sia l’assedio del destino, qualcosa che sembra ineluttabile, la città, la guerra, la ragion di Stato, la convenzione sociale, tutto questo rivissuto dai singoli attori che si sentono parte in causa creando ognuno un muro tra il reato e il destino, analizzando vie di fuga, l’accettazione o la ribellione. È un moto comune ai tre cast, che provano le tragedie separatamente, grazie a un bel teatrino-presidio di cento posti che ci serve per prove e riunioni, e che si confronteranno solo nelle maratone”. Tre rami della casa circondariale di Modena e della casa di reclusione di Castelfranco Emilia, maschile e femminile: scene e costumi, musiche, un lavoro complesso anche per ragioni giudiziarie e burocratiche. “Per ora - aggiunge Tè - reciteremo alle Passioni di Modena, dodici giorni già esauriti, dopo un lungo lavoro di preparazione che nasce da un appello per partecipare. Poi, in autunno, inizieremo l’attività radunando i 50 detenuti che hanno fatto richiesta, con un laboratorio di selezione: sono loro che in qualche modo chiamano il ruolo, non viceversa. Ci sono reclusi con cui collaboriamo da dieci anni, come quello che interpreta Edipo nella tragedia (nella prima foto dall’alto, di Chiara Ferrin, un momento delle prove), anche un volto da cinema; e poi c’è un ragazzo che sarà con noi anche se è già ai domiciliari, ma ha avuto il permesso di rientrare per le prove come Eteocle nei Sette contro Tebe. Certo, ci sono imprevisti legati a cose che possono accadere d’improvviso nel carcere, a detenute che stanno finendo di scontare la pena, a stop improvvisi dei permessi... Non badiamo alla verosimiglianza dell’età, abbiamo una signora per Antigone (seconda foto dall’alto, sempre di Ferrin) ma tendiamo a premiare i detenuti con una paga”. Tutto questo diventa positivo anche per gli altri, è come un germe che si diffonde, con uomini e donne che ripassano la parte e ne si confrontano. “Il luogo resta così felicemente contaminato da quest’esperienza, perché l’efficacia del progetto si vede quando le parti in causa remano nella stessa direzione, con la comprensione delle regole che diventano d’incanto i comandamenti del teatro”. Como. “Corpo a corpo”, l’arte entra nella Casa Circondariale del Bassone di Asia Angaroni espansionetv.it, 2 febbraio 2025 Da diverso tempo, in città, la Fondazione Como Arte è impegnata in progetti dagli importanti risvolti sociali. Nel dicembre 2023, dopo un incontro con il direttore del carcere Bassone di Como, Fabrizio Rinaldi, è nata l’idea di allestire una collettiva contemporanea all’interno del penitenziario. “Il carcere - ha dichiarato il direttore Rinaldi - è sempre più espressione del forte disagio che la società sta vivendo”. “Ho accolto con favore la proposta di allestire una mostra all’interno del Bassone - ha aggiunto - coinvolgendo le persone detenute al fianco degli artisti”. Sarà un’occasione, conclude il direttore Rinaldi, “per conoscere una realtà complessa come quella del carcere” Da oggi apre al pubblico “Corpo a corpo”, una mostra a cura di Giovanni Berera che rappresenta un importante seme di speranza e di fiducia. Molti gli artisti che hanno deciso di aderire al progetto ed essere parte della mostra. “Questa mostra è stata per noi un percorso importantissimo, un continuo momento di riflessione. È stata una delle esperienze più importanti per la nostra Fondazione”, commentano Paola Re e Chiara Anzani, presidente e vice presidente della Fondazione Como Arte. Il carcere raccontato nel film “Qui è Altrove: buchi nella realtà”. Proiezione alla Camera dei deputati di Carlo Baroni La Nazione, 2 febbraio 2025 L’esperienza di Volterra che vede Armando Punzo animare da ben 35 anni il gruppo dei detenuti attori. “Qui è Altrove: buchi nella realtà” è un film documentario che racconta le attività della Compagnia della Fortezza, impegnata nella realizzazione di Atlantis cap.1 - La Permanenza, sotto la direzione di Armando Punzo, alternandole con quelle delle altre compagnie teatrali ospiti a Volterra per il progetto Per Aspera ad Astra. Questo progetto, promosso da Acri e sostenuto da 12 fondazioni di origine bancaria, coinvolge 16 compagnie teatrali che operano negli istituti di detenzione italiani. E ora ecco la presentazione a Roma per domani, 3 febbraio, alle 16 nella Sala della Regina della Camera dei Deputati. Il film documenta il lavoro artistico svolto sia all’interno che all’esterno del carcere durante la masterclass di alta specializzazione con la Compagnia della Fortezza, seguita da trenta allievi provenienti da tutta Italia. Alla proiezione del film saranno presenti il regista Gianfranco Pannone e il fondatore e regista della Compagnia della Fortezza Armando Punzo. Porterà i saluti istituzionali l’onorevole Sergio Costa, vicepresidente della Camera dei Deputati. Interverranno Giuseppe Morandini vicepresidente di Acri e l’onorevole Raffaele Buno primo firmatario Pdl Teatro in ogni carcere, film documentario “Qui è altrove: buchi nella realtà” di Gianfranco Pannone è stato presentato come evento speciale in apertura della 65° edizione del Festival Dei Popoli. La prima mondiale del film si è tenuta nei mesi scorsi al cinema La Compagnia di Firenze, cui sono seguite altre presentazioni. “A Volterra un altro carcere è possibile - le parole del regista Gianfranco Pannone alla prima del film - A Volterra, infatti, sotto la guida di Armando Punzo è nata la Compagnia della Fortezza che ogni anno, in carcere, allestisce il suo spettacolo Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. “Qui è altrove: buchi nella realtà - dice Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. L’esperienza di Volterra, che vede Armando Punzo animare da ben 35 anni la Compagnia della Fortezza, composta, insieme a dei professionisti del teatro, da detenuti-attori, è un’isola in un panorama per molti versi desolante, che ci dice una cosa semplice e chiara: un altro carcere è possibile”. Don Mazzolari ai detenuti. Pioniere della giustizia riparativa di Giovanni Panettiere Il Giorno, 2 febbraio 2025 Il libro “Oltre le sbarre, il fratello” (editore Edb), a cura di Bruno Bignami e Umberto Zanaboni, con la prefazione dell’arcivescovo di Ferrara, Gian Carlo Perego, raccoglie gli scritti inediti e storici di don Mazzolari dedicati al carcere e ai detenuti. Il filo rosso della redenzione negli scritti sul carcere. In questo Giubileo votato alla speranza la redenzione è il sottile filo rosso che unisce papa Francesco a don Primo Mazzolari (1890-1959), a distanza di 135 anni dalla nascita del prete di Bozzolo, nel Mantovano. Riscatto e speranza per tutte e tutti, al punto che papa Bergoglio non ha esitato ad aprire la seconda Porta Santa, dopo quella in San Pietro, proprio in un carcere, a Rebibbia. In questo modo ha inteso indicare ai detenuti un simbolo per guardare all’avvenire con fiducia e un rinnovato impegno di vita. Come dire che c’è un domani anche per chi, a causa dei suoi crimini, vive un oggi di reclusione. Quello stesso presente di detenzione in cui fu costretto a suo tempo don Mazzolari per via della sua ferma e coraggiosa opposizione alla dittatura fascista. È stato anche in questo contesto che “La tromba dello Spirito Santo in Val Padana”, così come lo definì papa Giovanni XXIII, iniziò a considerare il carcere non solo come un luogo di pena, ma anche e soprattutto come spazio di redenzione e rinascita. Il libro “Oltre le sbarre, il fratello” (editore Edb), a cura di Bruno Bignami e Umberto Zanaboni, con la prefazione dell’arcivescovo di Ferrara, Gian Carlo Perego, raccoglie gli scritti inediti e storici di don Mazzolari dedicati al carcere e ai detenuti. Tra gli approcci più salienti e innovativi del “parroco d’Italia” spicca quello a favore della giustizia riparativa che, nell’ottica d’impegnare il reo a rimediare alle conseguenze del reato commesso, mette in relazione lo stesso, la vittima e la comunità civile. Un ponte per tre pilastri, redenzione e non più mera punizione. D’altronde, avrebbe detto Mazzolari evocando la sua più celebre e dirompente omelia, persino “Giuda è mio fratello, voglio bene anche a lui”. Da Piazza dei Mestieri al teatro dei detenuti: i nuovi premiati di Mattarella di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 febbraio 2025 Sono 31 le nuove onorificenze che il capo dello Stato consegnerà il 26 febbraio a persone che si sono distinte per il loro impegno civile. La volontaria di Lampedusa Livia Cecconetto e l’influencer dell’accessibilità Marta Russo. Cristiana Poggio e Dario Odifreddi per la Piazza dei Mestieri. Armando Punzo con il suo progetto Per Aspera ad Astra e la Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra. Giorgio Zancan e Luisa Mondella, capaci di far nascere dal dolore per la perdita del loro piccolo Alessandro un progetto come Grande Ale, dedicato agli altri. Ci sono anche loro fra le 31 persone a cui Sergio Mattarella ha deciso di conferire altrettante onorificenze al merito della Repubblica. Sono persone che il Capo dello Stato ha deciso di premiare per attività volte a favorire il dialogo tra i popoli, contrastare la violenza di genere, per un’imprenditoria etica, per un impegno attivo anche in presenza di disabilità, per l’aiuto alle persone detenute in carcere, per la solidarietà, per la scelta di una vita nel volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, del diritto alla salute e per atti di eroismo: casi, fra i numerosissimi presenti nel nostro Paese, di impegno civile, di dedizione al bene comune e di testimonianza dei valori repubblicani. La cerimonia di consegna delle onorificenze si svolgerà presso il Palazzo del Quirinale il 26 febbraio alle 11 e 30. Ecco l’elenco e le motivazioni dei nuovi insigniti dal Capo dello Stato. Sono Cavalieri dell’Ordine al Merito le seguenti persone. Giovanni Arras e Giuseppina Sgandurra 29 e 49 anni, “per il supporto offerto alla ricerca con coinvolgimento e professionalità”. Giovanni ha intrapreso un percorso di studio motivato anche dalla voglia di contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica sulla paralisi cerebrale, di cui soffre da quando è nato. Nel corso dei suoi studi incontra la professoressa Sgandurra, responsabile del progetto sull’applicazione dell’intelligenza artificiale nelle paralisi cerebrali (AInCP), per sviluppare strumenti clinici volti a facilitare la diagnosi della paralisi cerebrale infantile. Chiara Ciavatta, 50 anni, “per l’aiuto offerto a persone e famiglie che vivono la difficilissima problematica dei disturbi alimentari”. Chiara, viste le numerose richieste di aiuto pervenute al suo blog sulla tematica dei disturbi alimentari, ha deciso di dedicarsi quotidianamente tramite l’istituzione del Centro Mondo Sole, alle persone che vivono quotidianamente gli effetti di patologie derivanti da disturbi alimentari. Carmine Falanga, 47 anni, “per la sua attività volta a creare una sinergia tra le mura del carcere e le imprese”. La cooperativa “Idee in fuga” di cui Carmine è presidente è concepita come spazio in cui il mondo esterno sconfina e riesce ad entrare nei limiti inaccessibili dell’istituto penitenziario. Angela Isaac, 28 anni, “per aver salvato un uomo, senza pensare al pericolo che correva, durante la recente alluvione a Catania del 19 ottobre 2024”. Durante il forte maltempo che ha investito la città di Catania, Angela ha soccorso un uomo travolto dall’acqua nel pieno centro della città, tirandolo per le braccia e portandolo in salvo con molta fatica. Nicolas Marzolino, 27 anni, “per portare avanti una importante testimonianza di pace illustrando con la sua storia le conseguenze terribili delle guerre”. Nicolas, dopo aver riportato conseguenze invalidanti a seguito dello scoppio di una bomba non esplosa, gira per le scuole illustrando ai ragazzi le disastrose conseguenze dei conflitti. Massimiliano Parrella, 47 anni, “per proseguire l’opera di Don Calabria aiutando le persone più povere e sofferenti”. Continua a perseguire l’obiettivo di offrire, attraverso le Case calabriane nel mondo, un’accoglienza dei minori in difficoltà anche attraverso centri di aggregazione per minori migranti e centri di recupero per tossicodipendenti. Cavalieri dell’Ordine al Merito anche i seguenti. Marta Russo, 24 anni, “per la sua attenzione al mondo della disabilità e al suo impegno volto a facilitare i loro spostamenti all’interno delle città”. Marta vede il mondo dalla sua carrozzina e si rende conto delle barriere architettoniche che limitano gli spostamenti. Si impegna quindi per rimuovere queste barriere proponendo alle istituzioni competenti soluzioni di facile realizzazione. Si definisce “influencer dell’accessibilità”. Antonio Stellato e Domenica Turi, 23 anni e 24 anni, perché “liberi dal servizio presso la Polizia di Stato hanno praticato manovre salvavita ad un bambino di 7 anni appena tratto fuori dall’acqua di una piscina privo di sensi”. Antonio e Domenica sono due agenti di polizia e in una giornata di svago presso una piscina di un Centro sportivo, accorgendosi della gravità delle condizioni di un bambino, non hanno esitato e sono prontamente intervenuti praticando manovre salvavita. Federico Vanelli, 33 anni, “per aver usato la sua esperienza di atleta per trarre in salvo un ragazzino che stava annegando trasportato dalla forte corrente del fiume Adda”. Durante un pomeriggio in compagnia di amici Federico, sentendo urla di aiuto, si è tuffato nel fiume e ha nuotato controcorrente per trarre in salvo un ragazzino. Sono Ufficiali dell’Ordine al Merito le seguenti persone. Pietro Barteselli, 52 anni, “per aver guardato oltre al mero profitto imprenditoriale”. Ha offerto ad un lavoratore assunto presso la sua impresa, con un contratto temporaneo, la possibilità di prolungare l’impiego per tutto il tempo della malattia. Paola Benini, 55 anni, “per offrire a ragazzi con difficoltà di apprendimento un aiuto concreto per la loro formazione”. Tramite la cooperativa Hattiva lab Onlus di cui è presidente, offre alle persone con disabilità, servizi informativi, di orientamento al lavoro e di aiuto allo studio. Realizza anche attività (biscottificio e catering) per dare lavoro a persone con disabilità. Adriano Blundo, 53 anni, “per essere intervenuto, libero dal servizio che svolge presso la Polizia di Stato, in soccorso di una donna rimasta coinvolta in un incidente stradale, salvandole la vita”. Mentre si trovava in auto con la famiglia durante il suo tempo libero dal servizio presso la Polizia di Stato, ha salvato una donna dall’abitacolo di una vettura dalla quale già fuoriusciva fumo a causa di un incidente stradale. Marco Camandona, 54 anni, “per aver fatto diventare la sua passione per la montagna uno strumento di aiuto per gli altri”. Alpinista di fama internazionale. Insieme alla moglie, attraverso i fondi raccolti per le scalate, hanno istituito un orfanotrofio in Nepal che seguono costantemente ideando progetti anche attraverso l’erogazione di borse di studio. Marisa Coccato, 69 anni, “per aver trasformato una tragedia familiare in un volontariato a fianco dei bambini con malattie renali”. Dopo la fine di suo figlio Stefano a soli 18 anni, Marisa si dedica a sostenere i giovani pazienti malati di rene, aiutandoli a avere una vita normale. Elena De Filippo, 61 anni,”per dedicarsi all’accoglienza e all’integrazione delle persone immigrate”. Insieme alla cooperativa Dedalus di cui è presidente, svolge un’importante attività di integrazione delle persone immigrate, agendo sulla povertà educativa, sull’orientamento al lavoro e sull’accoglienza. Daniele Mauro, 51 anni, “per la tenacia e la costanza con cui persegue la finalità della cura dei soggetti più fragili della società”. Attraverso diverse iniziative quali la costruzione e la cura dell’Orto di Paolo, ideate dalla cooperativa sociale “Pagefha” di cui è presidente, mira alla promozione e allo sviluppo della persona in ogni fase della vita. Cristiana Poggio e Dario Odifreddi, 62 e 63 anni,”per aver deciso di creare un’alleanza con il mondo del lavoro offrendo ai giovani un punto di aggregazione e di conoscenza dei possibili impieghi”. Dando vita ad una struttura di 7.500 mq, Piazza dei Mestieri a Torino, con sedi successivamente aperte a Milano e Catania, promuovono incontri con il mondo del lavoro e facilitano l’occupazione dei giovani. Armando Punzo, 64 anni, “per aver messo a disposizione delle persone detenute la sua esperienza di regista e attore di teatro”. Con il Suo progetto “Per Aspera ad Astra” realizza percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro per i detenuti nelle carceri italiane. Anselmo Sanguanini, 64 anni, “per dedicare parte del suo tempo ad ideare biciclette che possano consentire anche a persone con disabilità di poter realizzare il loro sogno di andare in bicicletta”. Costruisce biciclette per persone con difficoltà di deambulazione dando vita anche ad una solidarietà contagiosa per cui molte famiglie si offrono di pagare anche per quelli che non possono permettersi questa spesa. Sono Ufficiali dell’Ordine al merito anche i seguenti. Tarcisio Senzacqua, 63 anni, “per essere intervenuto nei confronti di una persona che frequentava un tirocinio presso la sua azienda, consentendogli di curarsi tempestivamente anticipando i soldi occorrenti per un intervento chirurgico d’urgenza”. Ha subito offerto la propria disponibilità nei confronti di un Ingegnere del Congo, tirocinante presso la sua azienda, anticipando i soldi per un delicato intervento chirurgico che doveva effettuarsi in tempi rapidissimi. Carlo Stasolla, 59 anni, “per supportare persone e gruppi in condizione di estrema segregazione e discriminazione”. Da molti anni con l’Associazione 21 luglio, tocca con mano le problematiche del disagio e delle discriminazioni diventando un punto di riferimento anche per organismi internazionali ed europei. Maria Trapanese, 63 anni, “per il lavoro svolto per formare professionalmente i ragazzi con sindrome di Down e lievi deficit intellettivi”. Maria con l’Associazione “La Bottega dei Semplici pensieri” punta ad individuare le capacità personali dei ragazzi allo scopo di formarli professionalmente e avvicinarli al mondo del lavoro. Giorgio Zancan e Luisa Mondella, 58 e 54 anni, “per aver trasformato il loro dolore in un aiuto concreto per bambini e ragazzi con leucemia”. Dopo la fine in giovanissima età del loro figlio Alessandro Maria, con la Fondazione istituita a suo nome, aiutano i bambini malati e sofferenti a sognare un futuro più felice. Sono Commendatori dell’Ordine al Merito le seguenti persone. Livia Cecconetto, 80 anni, “per la sua lunga attività di volontariato anche a favore delle mamme e bambini migranti che arrivano nell’isola di Lampedusa”. Da molti anni Livia è impegnata al fianco della Croce Rossa Italiana in una lunga e costante attività di volontariato. Carlo Pulcino, 72 anni, perché da “carabiniere in congedo, ha salvato una donna dall’aggressione di un uomo”. Carlo era in auto quando ha visto un uomo aggredire una donna. Senza pensarci troppo ha cambiato senso di marcia e ha bloccato l’uomo consegnandolo ai carabinieri, nel frattempo intervenuti. Vittoria Tognozzi, 87 anni, “per la sua attività di testimone dell’eccidio di Fucecchio dove persero la vita molte donne anziani e bambini”. Vittoria racconta nelle scuole la sua storia, di come ha visto uccidere dalla “furia nazista” componenti della sua famiglia e molte altre persone intorno a lei, bambina di neanche 10 anni. Adolfo Tundo, 73 anni, “per la sua azione volta a sostenere il valore degli anziani come risorsa sociale”. Riesce a coinvolgere gli anziani del territorio attraverso la promozione di progetti di natura culturale e formativa anche attraverso la realizzazione di iniziative di solidarietà e cittadinanza attiva. Migranti. Il Viminale tira dritto: “Nel 2026 in tutta l’Ue il Protocollo Albania” di Grazia Longo La Stampa, 2 febbraio 2025 I 43 richiedenti asilo al Cara di Bari. Il Governo non arretra: “Combattiamo i trafficanti”. Schlein: “I giudici in linea con la Corte europea”. Calenda: “Soldi pubblici al vento”. I volti aperti in un sorriso dei migranti che arrivano in Italia e quello chiuso a pugno del Governo. Nessun dietrofront sul Protocollo Albania. Nonostante lo schiaffo della Corte d’Appello di Roma che non ha convalidato il trattenimento dei 43 migranti al Cpr di Gjader, il Viminale insiste: “Andiamo avanti”. Mentre la nave De Grazia della Guardia Costiera entra nel porto di Bari e i 43 passeggeri vengono trasferiti nel centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Bari Palese, l’esecutivo fa quadrato. Il ministero dell’Interno, in una nota, ribadisce che “andrà avanti nella convinzione che il contrasto all’immigrazione irregolare che si avvantaggia dell’utilizzo strumentale delle richieste di asilo sia la strada da perseguire per combattere gli affari dei trafficanti senza scrupoli”. E ancora: “Le corti di appello scelgono di rinviare alla corte di giustizia europea sostanzialmente per prendere tempo, quando si tratta di un sistema già previsto dal nuovo Patto europeo immigrazione e asilo che entrerà al più tardi in vigore nel 2026, inoltre il “modello Albania” dell’Italia è largamente condiviso in Ue”. Il sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, la butta sullo spirito dei tempi: “La sinistra non si rende conto dove stanno andando il mondo e l’Europa. Da Trump alle politiche francesi e tedesche di parla sempre più spesso di respingimento e rimpatrio. Dobbiamo portare avanti le procedure accelerate, come in Albania. I Paesi sicuri li determinano gli Stati non i magistrati. La storia ci darà ragione: i rimpatri sono un fenomeno globale”. Secondo Molteni “la politica di rigore del governo sull’immigrazione non cambierà di un millimetro. I cittadini chiedono meno immigrazione e più espulsioni. Va approvato subito il ddl Sicurezza della Lega”. Anche FdI non lascia spazio a tentennamenti. Per Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, “siamo allo scontro all’interno della magistratura pur di impedire al governo di mettere in pratica legittime politiche migratorie. Uno scontro della Corte d’appello nei confronti della Cassazione, che aveva stabilito che spetta all’Italia fare la lista dei Paesi sicuri”. Parole condivise dal responsabile organizzazione del partito, Giovanni Donzelli, e il senatore Andrea De Priamo, convinto che “alla fine il governo Meloni riuscirà a contrastare l’immigrazione irregolare”. Alzando ancora di più il tiro, “c’è la sensazione che una parte minoritaria della magistratura che persegua obiettivi politici e utilizzi il proprio potere per cercare di arginare un’azione di governo che naturalmente ha una legittimazione popolare e parlamentare forte” dice l’europarlamentare FdI, Carlo Fidanza. Sulla stessa lunghezza d’onda Forza Italia. Alessandro Battilocchio, responsabile immigrazione del partito osserva: “I centri in Albania sono un modello che si inserisce in una strategia complessiva che governo e maggioranza stanno portando avanti sulla gestione dei flussi migratori”. Va invece ovviamente all’attacco l’opposizione. Per la segretaria del Pd, Elly Schlein: “I giudici non hanno fatto altro che applicare una sentenza della Corte di giustizia europea”. La vicepresidente del M5S Chiara Appendino stigmatizza: “Gli agenti impiegati a vuoto in Albania potevano presidiare le nostre periferie”. E il leader di Azione Carlo Calenda chiosa: “Ho sempre pensato che il “modello Albania” non potesse funzionare, sono soldi pubblici buttati al vento”. Migranti. Perché la strategia del governo sui centri in Albania è fallimentare di Vitalba Azzollini* Il Domani, 2 febbraio 2025 La Corte di Appello non ha convalidato il trattenimento dei migranti, sospendendo la decisione in attesa che si pronunci la Corte di Giustizia Ue: una non-decisione annunciata. La premier Giorgia Meloni sa che accusare i magistrati di ostacolare l’operazione è un comodo alibi. È la cronaca di una non-decisione annunciata, quella della Corte di Appello di Roma, che ha sospeso il giudizio di convalida del trattenimento in Albania di 43 migranti, bengalesi ed egiziani, e operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. I giudici di Roma hanno chiesto a quelli dell’Ue di valutare “se il diritto Unitario consenta o meno di designare un paese sicuro quando le condizioni sostanziali per la sua designazione non sono soddisfatte per alcune categorie di persone”. L’opinione della Corte di Appello, espressa nel provvedimento, “è che il diritto unitario non consenta di designare sicuro un paese con esclusione di categorie - e a maggior ragione di dichiararlo sicuro per intero quando risulti che per alcune categorie di persone non lo sia - per considerazioni che corrispondono sostanzialmente a quelle già espresse nella motivazione della sentenza del 4 ottobre 2024 dalla Grande sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea con riferimento alla esclusione per parti del territorio, sentenza pregiudiziale avente efficacia erga omnes”. Dinanzi alla Corte già pende più di un rinvio pregiudiziale avente il medesimo contenuto. L’udienza sarà il 25 febbraio, ma le motivazioni si conosceranno solo ad aprile. Ora i migranti torneranno in Italia. Non saranno sottoposti alla procedura accelerata di esame delle loro richieste di asilo, ma a quella ordinaria, provvista di maggiori garanzie, che consentirà di accertare se, a livello individuale, corrono rischi in caso di rimpatrio nei paesi di origine. I precedenti - La pronuncia della Corte di Appello fa seguito a quelle della Sezione specializzata in materia di immigrazione del tribunale di Roma, che nell’ottobre scorso non aveva convalidato il fermo in Albania di 12 migranti provenienti da paesi - Egitto e Bangladesh - dove i diritti di alcuni gruppi sociali sono a rischio; e che a novembre aveva sospeso la convalida per altri nove stranieri, originari degli stessi paesi. Al governo non è bastato togliere la competenza a decidere sulle convalide dei fermi in Albania ai giudici del Tribunale di Roma e attribuire la competenza stessa alla Corte di Appello per ottenere decisioni più gradite. Così come, nell’ottobre scorso, non era bastato a blindare la lista dei paesi sicuri il fatto di spostarla da un decreto interministeriale a un decreto-legge, fonte primaria. Avevamo scritto subito che i tribunali avrebbero potuto disapplicare anche quest’ultimo, perché il principio della prevalenza del diritto dell’Unione rispetto a quello nazionale vale per qualunque fonte. E così poi è stato. La strategia di Meloni - Ci si aspettava che il governo, dopo i primi due fallimentari trasferimenti di migranti nei centri albanesi, attendesse la pronuncia della Corte di Giustizia Ue che - come detto chiarirà se un paese sicuro dev’essere tale non solo in ogni parte di territorio, ma anche per ogni categoria di persone. Evidentemente, Giorgia Meloni doveva dimostrare che stava concretizzando le affermazioni fatte ad Atreju - “i centri per migranti in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano” - e perciò ha proceduto al nuovo trasferimento di migranti. Ma forse c’è anche altro, ed è una strategia ben precisa. La presidente del Consiglio sa che imputare alla magistratura il flop dell’operazione Albania rappresenta un comodo alibi. Quindi, insistere con i trasferimenti dei migranti, trasferimenti cui continuano a seguire decisioni che non ne convalidano il fermo, le consente di non ammettere che tale operazione non regge né dal punto di vista giuridico né tantomeno da quello economico. Meloni sa pure che mostrarsi vittima della magistratura le porta consenso, come attestano i sondaggi successivi alla sua iscrizione nel registro degli indagati, insieme ad altri componenti del governo, per il caso Almasri. E insistere con i trattenimenti in Albania, senza attendere la pronuncia della Corte Ue, permette a Meloni di dimostrare al proprio elettorato che, se il problema dell’immigrazione non si risolve grazie alla soluzione albanese - che soluzione non è, e non lo sarebbe nemmeno se i centri funzionassero a pieno ritmo - la colpa non è sua. Ora i centri in Albania restano di nuovo vuoti, e non a causa dei giudici, ma di una strategia attuata in spregio agli italiani, i cui soldi continuano a essere spesi per finanziare l’operazione, e agli stranieri che vengono trasportati avanti e indietro come pacchi postali. Fino a quando, al momento non è dato sapere. *Giurista L’intrigo libico. Nel Governo cresce la tesi del “complotto” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 2 febbraio 2025 Bongiorno valuta la strategia giudiziaria. Laici di centrodestra al Csm: pratica disciplinare per il procuratore. Fdi: via l’obbligo di azione penale. Quando, a sera, arriva la decisione della Corte d’appello di Roma che boccia per l’ennesima volta i trattenimenti di migranti in Albania, da Palazzo Chigi filtra “grande stupore, perché a nostro avviso non c’è la necessità di aspettare il pronunciamento della Corte di giustizia europea”. Un’irritazione ribadita apertamente dal ministro per gli Affari europei Tommaso Foti: “Una decisione che sconcerta, la magistratura si sostituisce al governo”. In sintonia perfetta il partito della premier, FdI, che col capogruppo alla Camera Galeazzo Bignami depreca “l’atteggiamento di resistenza di un pezzo della magistratura italiana” che “assume una connotazione politica e ostacola l’azione del governo”, ma “il centrodestra non si lascerà intimidire”. Nei fatti, era ipotizzabile che la linea seguita dai giudici fosse coerente con le precedenti ordinanze, liberando i trattenuti in attesa della decisione della Corte Europea. Ma ciò non toglie nell’esecutivo l’amaro in bocca per l’ennesima bocciatura del funzionamento del Protocollo con Tirana. E contribuisce a tenere alta la temperatura dello scontro con la magistratura, rinfocolata dal caso Almasri (e che neppure il “fermo” delle attività parlamentari fino a martedì riesce a far scendere). La presidente del Consiglio resta convinta che - nel dare corso alla denuncia dell’avvocato ed ex parlamentare Luigi Li Gotti per favoreggiamento e peculato a carico dei ministri di Interno e Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, del sottosegretario Alfredo Mantovano e di lei stessa - il procuratore di Roma Francesco Lo Voi abbia effettuato un “atto voluto, non “dovuto”, che “ha fatto un danno alla Nazione”. E mentre l’Anm respinge quella lettura, invitando “i politici a non fare i magistrati”, sulla scia della premier si scatenano le truppe della maggioranza. FdI: via obbligo di azione penale. Fratelli d’Italia, col capogruppo al Senato Lucio Malan, auspica che “l’obbligatorietà dell’azione penale sia affrontata nella riforma della giustizia ed eliminata”, visto che “nonostante la riforma Cartabia qualcuno continua a ritenere che si debba procedere alle indagini sempre e comunque”. Rincara la dose Forza Italia, col portavoce Raffaele Nevi: “Ragionerei sulla reintroduzione dell’immunità parlamentare”, giacché “parte della magistratura ha il pallino di mettere sotto processo il Governo per le scelte politiche”. Il clima di tensione si riverbera in Rai, accendendo la miccia fra il giornalista Bruno Vespa e le opposizioni, che gli rimproverano di aver fatto, nella puntata di giovedì di Cinque Minuti, “il portavoce dell’esecutivo”, per alcune sue valutazioni (“In ogni Stato si fanno cose sporchissime, anche trattando con i torturatori, per la sicurezza nazionale”) e per aver evocato fatti relativi a quando erano premier Matteo Renzi e Paolo Gentiloni (“Sul generale Almasri sanno qualcosa”), come la liberazione dei due tecnici Bruno Cacace e Danilo Colonego, rapiti in Libia nel 2016. Allusioni che Renzi respinge: “Se Vespa sa di “cose sporche”, le provi. Altrimenti, prima di usare il mio nome, si sciacqui la bocca”. Si apre il fronte del Csm. La tensione monta pure a Palazzo Bachelet, coi consiglieri laici in quota centrodestra pronti a chiedere al comitato di presidenza del Csm l’apertura di una pratica per individuare “eventuali profili disciplinari, in relazione a modalità e tempi” dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato fatta da Lo Voi. Nel documento, si ritiene l’atto “non conforme” al codice di procedura penale”, alla prassi dettata nel 2017 dalla Procura di Roma, all’interpretazione della Cassazione e ai pareri del Csm. Ma per Lo Voi, oltre alla mediatizzazione della querelle sui voli di Stato bocciati da Palazzo Chigi, potrebbero aggiungersi strascichi relativi a un documento dell’Aisi segreto, ma depositato agli atti di un procedimento, cosa che potrebbe esporre il procuratore alla richiesta, sempre al Csm, di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale. A Palazzo Chigi si studia la strategia giudiziaria. In attesa che il Tribunale dei ministri sorteggi il collegio di tre magistrati, che avranno 90 giorni per decidere se archiviare il fascicolo o chiedere l’autorizzazione a procedere alle Camere, il governo valuta i prossimi passi. La senatrice leghista Giulia Bongiorno, avvocato di tutti e quattro gli esponenti dell’esecutivo finiti sotto indagine, va di nuovo a Palazzo Chigi per ragionare con loro su due possibilità: chiedere di essere ascoltati dai giudici o inviare memorie difensive. Ma ancora c’è tempo e persiste la convinzione che il fascicolo sarà archiviato. Le opposizioni intanto alzano il pressing: “Meloni deve riferire in aula, si fa vedere solo sui social. Basta scappare, devono spiegare”, incalza la segretaria dem Elly Schlein. Nessuno conferma, ma fra i rumours c’è pure quello che l’informativa possa aver luogo nei prossimi giorni, senza l’apposizione del segreto di Stato, ma con la rivendicazione di una decisione politica, in nome della “Ragion di Stato”. La tentazione dei sondaggi e il monito di Bruxelles. Sul piano mediatico, la premier per ora non retrocede. Da quando ha informato il capo dello Stato della comunicazione giudiziaria, è partita con un tam tam martellante: prima il video-annuncio al Paese; poi l’intervento in collegamento con il giornalista Nicola Porro; e in mezzo altri messaggi sui social. I sondaggi sembrano ripagarla, come quello di Supermedia Youtrend in cui FdI tocca il 30,1%. Lei lo pubblica, chiosando come “nonostante gli attacchi gratuiti quotidiani e i tentativi di destabilizzare il governo, il sostegno degli italiani rimane solido”. Ma, senza un abbassamento dei toni, lo scenario potrebbe farsi burrascoso: proseguire sulla strada dello “scontro totale” con le toghe forse pagherebbe elettoralmente, ma moltiplicherebbe le incognite sulla tenuta del sistema, accrescendo le preoccupazioni del Colle. Alle quali andrebbero a sommarsi quelle già esistenti a Bruxelles, dove il mancato rispetto della richiesta d’arresto della Corte penale internazionale da parte di Roma non è piaciuto. Tanto che, col linguaggio felpato delle istituzioni internazionali, la Commissione europea manda un segnale di fumo, osservando tramite un portavoce che gli Stati membri debbono “garantire la piena cooperazione con la Cpi, compresa la tempestiva esecuzione dei mandati d’arresto” e che la Commissione europea sostiene la Corte e ne rispetta “l’imparzialità e l’indipendenza”. A buon intenditor, poche parole. Caso Almasri e migranti: l’Europa e l’Italia tornino dalla parte giusta della Storia di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2025 L’indebito rilascio del presunto torturatore e stupratore di bambini libico Al Masri tiene banco nella politica italiana: mentre la nostra Giorgia si esibisce penosamente nella caricatura di Mussolini (molti nemici, molto onore), annunciando di essere “invisa a molti” e denunciando, in compagnia dei suoi accoliti, l’ennesimo “complotto giudiziario” contro il suo governo, sarà opportuno tentare di situare in un contesto più ampio le relative vicende. Il rifiuto dello Stato di diritto che emerge con sempre maggior nettezza dai comportamenti del governo delle destre, che non a caso trova significative corrispondenze con quello di Trump e di altri, è l’altra faccia, insieme alla crescente propensione alla guerra, dell’evidente declino dell’Occidente di cui le destre, ma anche molti esponenti del Pd, sono fedeli e tristi gregari. In tale ottica prendono piede ovunque soluzioni razziste e discriminatorie del problema migratorio, più che mai cruciale e complesso, ma del quale le destre danno una lettura puramente propagandistica. Come acutamente osservato da Pino Arlacchi, gli spasimi agonici di cui i governi occidentali - a partire dal caporione Trump - danno prova, sono l’indizio più sicuro dell’accelerazione della decadenza. Ne scaturisce un enorme problema che non riguarda solo l’Italia ma l’Europa nel suo complesso. L’alternativa è addirittura banale. Recidere il cordone ombelicale con Stati Uniti e Nato o perire affogati venendo trascinati a fondo da Washington, che agitandosi scompostamente per non perire a sua volta assesta colpi micidiali ai suoi vassalli europei, penalizzandone le merci e imponendo loro nuovi insostenibili aumenti delle spese militari, mentre vessa i migranti per guadagnare demagogicamente consensi all’insegna del sadismo più sfrenato. Il modello trumpiano non è altro che l’esasperazione del dominio del capitale finanziario che produce sempre più gravi diseguaglianze e catastrofi ambientali e sociali in tutto il mondo. Non è un caso che l’aspirante ideologo del trumpismo Elon Musk fomenti in Europa le forze della destra peggiore, come ad esempio i neonazisti più o meno confessi dell’AfD, perché evidentemente ritiene che l’ascesa al potere di tali forze costituisca la migliore garanzia per la tenuta dell’Occidente e il successo dei suoi progetti fallimentari, che significherebbe la fine definitiva di ogni destino europeo degno di questo nome. Per salvare l’Europa occorre viceversa spazzare via non solo le destre ma i governi corrotti e asserviti alle lobby, da Gentiloni a von der Leyen, che hanno aperto loro la strada, proprio come Rimbabiden e Kamala Harris hanno preparato l’avvento di Trump. L’Europa potrà avere un futuro solo se recupererà le sue tradizioni storiche migliori, dalla Rivoluzione francese a quella russa, dalla Comune di Parigi alla Resistenza antifascista condotta sotto l’egida dell’Unione sovietica, imponendo la giusta pace e la neutralità dell’Ucraina, l’autodeterminazione del popolo palestinese e rapporti di cooperazione paritaria e costruttiva col resto del mondo, oggi in irresistibile crescita non solo economica: Cina, Russia, India, America Latina e Brics in genere. Strategica si rivela in questo quadro la questione migratoria, che va gestita tenendo conto da un lato di un nuovo rapporto coi Paesi di provenienza dei migranti (altro che Piano Mattei e simili!) e dall’altro del fatto che proprio sulle spalle dei migranti poggia oggi, in Italia come nel resto d’Europa, gran parte del peso dell’economia e della società. La questione della migrazione è quindi anche e soprattutto una questione di classe, dato che obiettivo delle attuali classi dominanti non è tanto l’espulsione dei migranti stessi, pur sbandierata da repellenti demagoghi per solleticare i peggiori istinti delle masse indigene, ma tenere i migranti in condizione permanente di soggezione, paura e mancanza di diritti per poterli sfruttare meglio a scapito sia loro che dei lavoratori italiani. Un contributo importante per risolvere in modo positivo la questione migratoria è l’esperienza di accoglienza realizzata a Riace, di cui oggi il suo principale ideatore e protagonista Mimmo Lucano chiede la generalizzazione. Bisogna adottare tale prospettiva innovativa nella consapevolezza che una giusta soluzione della questione migratoria è decisiva sia per nuovi rapporti tra Europa e resto del mondo, sia per la costruzione di una nuova identità antifascista della quale è parte integrante la lotta senza quartiere a ogni forma di razzismo. In sintesi la nascita di una nuova Europa alternativa e contrapposta a quella morente attuale richiede lo sganciamento dell’Europa dal carro occidentale, avviato verso il baratro e ovviamente la sostituzione dell’attuale classe dirigente di sottonisti ricattati perfino dai torturatori e stupratori di bambini, come bambini sono i piccoli palestinesi massacrati a decine di migliaia da Netanyahu con l’appoggio del governo italiano e le piccole vittime del naufragio di Cutro, nell’assoluta indifferenza di quello stesso governo che ebbe la faccia tosta di organizzare, subito dopo, la festa di compleanno del campione dei respingimenti Matteo Salvini (altro che l’orgoglio nazionale sbandierato ridicolmente dalle sorelle Meloni). *Giurista internazionale Dall’Aja. Ecco gli atti della Corte penale: così Almasri picchiava e torturava di Nello Scavo Avvenire, 2 febbraio 2025 Nelle 42 pagine con cui L’Aja ha chiesto l’arresto del generale una lista di atti disumani. Chi veniva torturato, dopo strisciava. Ai detenuti ordinava di picchiare i propri compagni. Nient’altro che merce. Da vendere, alcune volte acquistare, oppure concedere in prestito e perfino barattare. Il tragico mondo del generale Almasri è riassunto nelle 42 pagine con cui la Corte internazionale il 18 gennaio ha convalidato la richiesta di arresto. Una sintesi, con 214 allegati. Nella vita da grossista delle vite scartate, prima di uccidere qualcuno bisogna far di conto, e considerare se anziché essere buttato via può essere buono almeno per prendergli il sangue, che servirà per le trasfusioni ai miliziani feriti in battaglia. I magistrati dell’Aja scrivono al passato, avendo esaminato migliaia di pagine di testimonianze, referti, riscontri raccolti sul terreno, per il periodo 2014-2024. Si comincia dagli schiavi: “Sulla base del materiale fornito, sembra che alcuni detenuti, in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana, siano stati costretti a svolgere lavori forzati. Altri sono stati costretti a combattere”. E poi quelli venduti: “Ha esercitato (Almasri) uno o tutti i poteri connessi al diritto di proprietà su una o più persone, ad esempio acquistando, vendendo, prestando o barattando le persone”. Da qualche secolo non capitava di leggere del “diritto di proprietà” su altri esseri umani, alcuni dei quali, scrivono i giudici, “sono stati costretti a “donare” il sangue”. Il Tribunale non ha fatto sconti ad Almasri e neanche alla procura. Ad esempio quando l’accusa sostiene che “alcuni detenuti sottoposti a diritto di proprietà venivano anche indotti a compiere atti di natura sessuale”. Secondo i giudici “non c’è un riscontro probatorio”. Ma i dubbi della Corte finiscono qua. Il resto è un assortimento del peggior sadismo. “Sulla base del materiale disponibile, la maggioranza (due giudici su tre, ndr) ritiene che i detenuti dell’Africa subsahariana siano stati notevolmente mal-trattati nella prigione di Mitiga. Venivano trattati come “schiavi”, assegnati ai lavori forzati, utilizzati per compiti di gestione dei detenuti (ad esempio il trasporto e le perquisizioni dei detenuti stessi, ndr) e per abusare fisicamente di loro, anche tenendoli sospesi in posizioni di stress, rinchiudendoli in una bara in piedi e picchiandoli con il metodo Falqa”. Una tortura antica arrivata fino ai giorni nostri, dopo che ne ha fatto largo uso la Germania nazista e i Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia negli anni ‘70. Gambe distese e piedi legati a un bastone per impedire di muoverli obbligando a distenderli. Poi bastonate furiose sulla pianta, fino a stordire e perdere i sensi, fino a non poter più camminare per settimane. Chi ci è passato dice che per muoversi si può solo strisciare, di modo che chiunque intorno veda che un uomo da quel momento non è più un uomo. La “Falqa” lascia segni anche per dieci anni e nella prassi internazionale quei segni facilitano la concessione dello status di rifugiato. Un errore che il generale cerca di non commettere più. I giudici hanno accertato che Almasri “ha ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo da garantire che le ferite non fossero visibili”. In fondo al male, un barbaglio di umanità appare da chi non te lo aspetti. Non è un lavoro per gente dal cuore tenero. E Almasri non può permettersi cedimenti. Perciò ha fatto punire “le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a ottenere cibo migliore”. Del resto, “le percosse ai detenuti erano una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti di turno che riferivano al signor Njeem (Almasri). In alcune occasioni Njeem era presente mentre le guardie picchiavano i detenuti o sparavano contro di loro”. Il castigo per i reietti non si esaurisce mai nella sola oscurità della gattabuia. Per sopravvivere, come in ogni campo di concentramento, serve mettere gli uni contro gli altri. La paura delle guardie è nella natura delle cose. Ma avere terrore dei propri compagni toglie ogni speranza. Per la Corte Njeem ha compiuto “come autore diretto o incaricando altri di farlo, i seguenti atti nei confronti dei detenuti del carcere di Mitiga: percosse, ordine ai detenuti di picchiare altri detenuti; torture; sparatorie; violenze sessuali”. Fino a causare la morte. I riscontri raccolti suggeriscono che all’occorrenza “Njeem ha personalmente picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente e ucciso detenuti nel carcere di Mitiga e ha ordinato alle guardie di picchiare e torturare i detenuti”. Tra i prossimi potrebbe esserci Hamed Hamza, presidente del Comitato libico per i diritti umani. E come lui decine di esponenti della società civile libica che ci hanno contattato nelle ore dell’arresto a Torino ringraziando la Polizia italiana. Un’illusione durata il tempo di un volo diretto per Tripoli. Almasri è tornato al suo posto “libero e continua a lavorare. Il ministro della Giustizia dice Hamza - non gli ha impedito di lavorare né ha aperto un’indagine interna. Lo sta coprendo e si adopererà per cercare vie legali per difenderlo”. Vie legali, in un Paese senza legge. Malta. Il Difensore civico fa luce sugli “orrori” del Corradino Corriere di Malta, 2 febbraio 2025 Prigionieri sottoposti a trattamenti degradanti sotto la guida di Dalli. Cattiva amministrazione sistemica, ignoranza, abusi, intimidazioni e razzismo. Per garantire ordine e disciplina sarebbe stato impiegato “qualsiasi mezzo”. Una realtà inquietante, disumana, aberrante è quella dipinta nel rapporto redatto dal difensore civico (ombudsman, a Malta) circa ciò che si verificava all’interno del Corradino Correctional Facility (CCF), il principale istituto penitenziario dell’arcipelago. L’indagine, avviata nel 2021 a seguito di ripetute denunce da parte dei media e di un esposto dell’Ong Moviment Graffitti, ha messo in luce gravi violazioni dei diritti umani, trattamenti degradanti e una gestione carceraria caratterizzata da intimidazioni e disfunzioni sistemiche. L’inchiesta ha esaminato il periodo compreso tra luglio 2018, quando il colonnello Alexander Dalli fu nominato direttore delle prigioni, e dicembre 2021, quando lasciò l’incarico. Tuttavia, è emerso che molte delle problematiche affondano le loro radici in un passato ancora più remoto e non è detto che si siano del tutto estinte. Uno dei punti centrali riguarda la sistematica violazione dei regolamenti carcerari e la mancanza di protocolli operativi standardizzati. Il nuovo direttore, Robert Brincau, subentrato dopo l’era Dalli, ha confermato di non aver trovato registri obbligatori o procedure documentate, evidenziando il livello di caos amministrativo all’interno della struttura. “Non esisteva alcuna chiara distinzione tra compiti e responsabilità”, si legge nel rapporto, sottolineando come questa assenza di linee guida abbia facilitato abusi ed ingiustizie a danno dei detenuti. Le condizioni di detenzione sono state descritte come “inumane e degradanti”. Il rapporto cita testimonianze di ex detenuti e membri dello staff che parlano di punizioni arbitrarie, isolamento prolungato e una cultura dell’intimidazione radicata nella gestione del penitenziario. A tal proposito, un prigioniero ha affermato che il colonnello Dalli era solito circolare per le carceri con un’arma da fuoco infilata sotto la giacca che, occasionalmente, esibiva ai detenuti. Secondo l’indagine, l’intimidazione era impiegata sistematicamente non solo per mantenere la disciplina, ma anche per scoraggiare l’introduzione di droga e altri materiali illeciti all’interno del carcere. Tuttavia, il metodo utilizzato spesso oltrepassava i limiti della legalità e della dignità umana, esacerbato da una diffusa ignoranza e mancanza di formazione adeguata da parte delle guardie. Un ex detenuto ha raccontato: “Ogni giorno vivevamo nella paura. Le perquisizioni erano violente, l’isolamento punitivo era usato come minaccia costante, e chi osava protestare subiva conseguenze peggiori”. La questione delle morti e dei suicidi dietro le sbarre è un altro aspetto drammatico emerso dall’indagine. Sebbene il difensore civico non si sia espresso su specifiche responsabilità penali, ha evidenziato come il clima di oppressione e la mancanza di supporto psicologico abbiano contribuito a situazioni estreme. La relazione afferma che “i detenuti più vulnerabili hanno subito un impatto negativo dal trattamento ricevuto fin dal loro ingresso in carcere, il che potrebbe aver contribuito a esiti tragici”. Il problema della droga all’interno del Corradino è stato un altro tema chiave dell’indagine. Durante la direzione di Dalli, le misure repressive hanno ridotto la presenza di sostanze stupefacenti, ma i metodi adottati sono stati fortemente criticati. Secondo il rapporto, la politica del “pugno di ferro” ha portato a un incremento dell’uso della forza e delle intimidazioni, piuttosto che a un reale recupero dei detenuti. “La lotta alla droga è una necessità, ma non può giustificare abusi e violazioni dei diritti fondamentali”, ha dichiarato il difensore civico. A tutto questo si sarebbe aggiunto anche un clima di “razzismo dilagante” nei confronti delle persone di colore, spesso derise e schernite dalle guardie carcerarie. In particolare, quando ad Hal Far scoppiò una rivolta, i migranti irregolari che furono trasferiti al Corradino vennero fatti inginocchiare e ammanettati, poi colpiti con il getto degli idranti mentre gli venivano aizzati contro dei cani. L’indagine ha anche sottolineato la necessità di una maggiore trasparenza e supervisione. Il rapporto raccomanda di consentire un accesso più ampio ai media per monitorare la situazione carceraria, nonché di attuare una riforma strutturale che includa valutazioni psicologiche per il personale e il rafforzamento del ruolo del commissario per il benessere dei detenuti, affinché venga percepito come un’autorità indipendente e non come un semplice dipendente del Ministero. Le conclusioni del difensore civico sono chiare: il carcere di Corradino, durante il periodo analizzato, ha violato sistematicamente i diritti dei detenuti, trasformando la pena detentiva in una punizione aggiuntiva e non prevista dalla legge. Il rapporto afferma con forza che “l’incarcerazione è già una privazione della libertà, e non deve essere aggravata da trattamenti disumani”. Il colonnello Alex Dalli lasciò la guida del Corradino nel novembre 2021 sull’onda di una serie di suicidi dietro le sbarre, quando emersero i metodi “poco ortodossi” praticati all’interno del penitenziario. All’epoca, attivisti, Ong e opposizione chiesero a gran voce le dimissioni del ministro dell’Interno, Byron Camilleri, per aver “sostenuto il comportamento dispotico di Dalli nonostante il ritmo allarmante con cui i detenuti lasciavano la prigione nei sacchi per cadaveri”. Di Dalli non si seppe ufficialmente più nulla, ma si dice che, dopo l’accaduto, gli sia stato affidato in men che non si dica un incarico in Libia, in qualità di rappresentante speciale di Malta, con uno stipendio di circa 98mila euro l’anno. In risposta alla relazione redatta ora dal difensore civico, il Ministero dell’Interno guidato da Camilleri ha sottolineato che si tratta di considerazioni che fanno riferimento ad un periodo risalente ad oltre tra anni fa e che, da allora, “numerosi cambiamenti sono stati intrapresi” come, per esempio, il contrasto alla piaga della droga, l’incremento dell’organico, la ristrutturazione dell’unità forense e del centro di formazione ufficiali, l’introduzione di un piano di assistenza per ogni detenuto e l’inserimento di quaranta procedure operative standard relative al funzionamento quotidiano dell’agenzia. Dura la reazione del leader del Partito Nazionalista, che sentenzia: “sotto la guida di Byron Camilleri, il Ministero della sicurezza nazionale si è trasformato in un Ministero dell’insicurezza nazionale e del trattamento disumano”. Bernard Grech ha dichiarato che il rapporto del difensore civico non ha fatto altro che confermare che “la gestione del carcere di Corradino sotto Alex Dalli, difesa per anni da Byron Camilleri, era disumana”. Elencando poi una serie di “scandali” avvenuti da quando Camilleri è ministro degli Interni, il PN ne ha chiesto le dimissioni: “abbiamo bisogno di una nuova leadership, una che certamente non includa Byron Camilleri”. Siria. Dieci alauiti giustiziati ad Hama. Al-Sharaa: “Normali atti di vendetta” di Marinella Correggia Il Manifesto, 2 febbraio 2025 Ong e abitanti denunciano arresti ed esecuzioni. Andranno avanti 2-3 anni, dice il neo presidente. Protesta dei partiti comunisti dopo l’ordine di scioglimento deciso da Damasco. L’ultimo episodio di violenza settaria nella “nuova Siria” si è verificato venerdì nella località alauita di Arza, nord-ovest di Hama. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, uomini armati hanno ucciso dieci abitanti. Gruppi per i diritti umani e abitanti denunciano esecuzioni, arresti arbitrari, torture, saccheggi, umiliazioni soprattutto nella provincia di Homs e lungo la costa. Pochi giorni fa, nel villaggio alauita di Fahel nei pressi di Homs, le vittime sarebbero state sedici, altre sette persone sono scomparse, le case sono state saccheggiate. Nella stessa giornata è stato attaccato Maryamin, abitato da alauiti e dalla comunità religiosa dei Murshidi: gli uomini sono stati costretti a umiliazioni pubbliche e pestaggi e inermi, quattro i morti. La giustificazione delle autorità (come il governatore di Homs) è che “si tratta di gruppi criminali che si fingono agenti” impegnati in operazioni per individuare persone ricercate e armi. Si promettono punizioni. Ma, nella migliore delle ipotesi, il Dipartimento delle operazioni militari chiude un occhio. Del resto, secondo una fonte citata dal sito libanese The Cradle, il neo-presidente siriano Ahmed al-Sharaa avrebbe parlato di legittime vendette, di atti “normali” che andranno avanti per due o tre anni. Sul fronte politico, lo scioglimento - decretato dal governo de facto - dei partiti politici, senza possibilità di ricostituzione con nuovi nomi, ha suscitato le proteste del Partito comunista siriano e del Partito comunista siriano unificato, che facevano parte del Fronte nazionale progressista. Molto duro il primo, forse facilitato dal fatto che i suoi membri sono ormai quasi tutti all’estero: sottolinea che l’abolizione della Costituzione del 2012 e lo scioglimento del Parlamento e dei partiti sono avvenuti dopo che il “governo dittatoriale sotto mandato turco” aveva tenuto “incontri con rappresentanti di paesi imperialisti e dei regimi arabi reazionari”. Denunciando “l’oscura cricca arrivata al potere che ha licenziato decine di migliaia di lavoratori pubblici e discrimina i cittadini sulla base dell’appartenenza e delle convinzioni” e le violazioni dei diritti umani in corso, il comunicato spiega che il partito, centenario, non si assoggetterà e continuerà la lotta “in difesa delle masse popolari e per l’indipendenza della patria”, cercando alleanze con altre forze. Meno battagliero il Partito comunista unificato, che invita a “ritirare una decisione che non contribuisce all’unità dei siriani”. La nota ricorda che nel 2011 il partito “fu favorevole a soddisfare le richieste popolari, politiche economiche e sociali”, chiedendo una soluzione politica e pacifica. Ma quando in Siria si passò alle armi, ha precisato l’Unione della gioventù democratica siriana, branca giovanile del partito, i comunisti avevano chiesto ai siriani di “proteggere il paese dalla guerra civile, dall’intervento straniero e dalla partizione colonialista”.