Un altro carcere, nel solco delle idee di Grazia Zuffa di Franco Corleone L’Espresso, 28 febbraio 2025 Guardare agli strumenti di risocializzazione non più come concessioni ma come diritti. Tanti anni fa Giorgio Gaber scrisse una canzone che andava al nocciolo della politica e chiedeva scusa se parlava di Maria, la libertà, la rivoluzione, la realtà. Mi è venuta in mente in occasione della recente morte improvvisa di Grazia Zuffa, mia compagna di vita, femminista, psicologa, componente del Comitato Nazionale di Bioetica, già senatrice, che per lungo tempo ha costruito un pensiero originale sulle droghe, sul carcere, sulla differenza femminile. Nel momento della tragedia abbiamo scoperto che per molte persone è stata una maestra e una guida: sicuramente ne sarebbe stata sorpresa, perché era esigente e rigorosa, non faceva sconti e non apprezzava la retorica, l’approssimazione. Grazia ha offerto materiali preziosi di analisi e riflessione su tante questioni irrisolte e che rimangono ferite aperte: dalla salute in carcere, in particolare la salute mentale, all’ergastolo, dal caso Cospito al peso del proibizionismo sulle droghe come causa del sovraffollamento. La giurista Tamar Pitch, in un intenso ricordo, ha sottolineato che “Grazia non è stata solo una studiosa rigorosa e brillante, ma, insieme, come si conviene a una femminista seria, ha “praticato”, ossia ha fatto su queste cose un’intensa attività politica e sociale”. Una delle più recenti - l’aveva lanciata il 14 maggio 2023 - è stata la campagna “Madri fuori”, fuori dallo stigma e dal carcere; era fiera e orgogliosa delle tante adesioni individuali e collettive ricevute. Suo anche lo slogan “ogni bambino e ogni bambina ha il diritto di nascere in libertà”, diventato uno striscione nel corteo contro il disegno di legge sulla sicurezza. Come ha scritto il professor Andrea Pugiotto, i pensieri di Grazia erano affilati e spiazzanti. Rifiutava il paternalismo in ogni sua forma ed esaltava il diritto alla autonomia del soggetto, soprattutto quello più fragile. Eccezionale il suo saggio L’ergastolo come pena di morte nascosta, nel volume Contro gli ergastoli. Di particolare interesse la riflessione sul pensiero di Aldo Moro che guardava al reato come espressione della libertà dell’uomo. “Il gancio etico della legittimità della pena è nella persona, che diventa misura (etica) dell’afflittività, tollerabile o no, della pena: nella persona, nella sua libertà e responsabilità”. Ripensare il carcere, dall’ottica della differenza femminile è invece il titolo di un saggio di Grazia di dieci anni fa: questo sguardo su “tutto” il carcere che muove dall’ottica della soggettività femminile, per uscire dalle ambiguità di un trattamento penitenziario sempre in bilico tra approcci retributivi e prospettiva correzionale, può essere la via per sperimentare un sistema che trasformi i corpi da custodire in soggetti responsabili e che alla logica dei premi sostituisca quella dei diritti. In questo tempo di disumanità verso il carcere, abbiamo così un manifesto della riforma per un’alternativa di teoria e prassi: occorre restituire alle autrici (e agli autori) di reato la piena responsabilità, nella prospettiva del reinserimento sociale. Occorre dunque togliere gli strumenti di risocializzazione dalla sfera della discrezionalità e declinarli più come diritti che come concessioni. Si tratta di rendere il carcere una extrema ratio, eliminando la detenzione sociale e affidando le persone emarginate a case di reinserimento sociale, varare amnistia e indulto, chiudere le “case lavoro”, frutto delle misure di sicurezza lombrosiane, respingere la tentazione di riaprire i manicomi giudiziari. Punti ineludibili di una rivoluzione, con grazia. La politica sta violando il diritto dei detenuti a coltivare i propri affetti di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 28 febbraio 2025 Più di un anno fa la Corte costituzionale aveva affermato che “l’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario”. Alcuni tribunali hanno riconosciuto questo diritto, ma il governo non si è ancora mosso. I diritti all’affettività e alla sessualità non si perdono con la detenzione. Lo aveva stabilito un anno fa, nel gennaio 2024, la Corte costituzionale e negli ultimi mesi lo hanno ribadito alcuni tribunali italiani. In tutto questo, governo e parlamento non si sono mossi per portare avanti iniziative che soddisfacessero questi diritti. Su questa base, il Garante nazionale delle persone private della libertà ha scritto nei giorni scorsi una lettera al ministro della Giustizia Carlo Nordio per sollecitare un intervento. Ma andiamo con ordine. Ad oggi nelle carceri italiane non è possibile avere rapporti intimi con i propri partner. Una pena accessoria rispetto a quella detentiva che non colpisce solo le persone condannate, ma di fatto anche quelle che continuano ad amarle e che, per questo, devono a loro volta rinunciare a una sfera fondamentale della propria vita relazionale. Una sessualità sana - lo ha ricordato anche l’Organizzazione mondiale della sanità - contribuisce al benessere fisico, mentale e sociale degli individui, promuovendo relazioni affettive equilibrate e una migliore qualità della vita. Che hanno un’importanza enorme anche per quanto riguarda la vita in carcere, dove benessere fisico, mentale e sociale sono messi a dura prova, nonché nella fase successiva del ritorno in libertà, dove sono proprio le relazioni affettive a giocare un ruolo fondamentale nel percorso di reinserimento sociale. Proprio sul divieto di avere rapporti intimi si era pronunciata la Consulta a proposito di una questione di costituzionalità sollevata da un magistrato di sorveglianza di Spoleto. Nel farlo la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario che, in materia di colloqui visivi, imponeva il controllo a vista. Vale la pena citare un pezzo di quella sentenza: “L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto a un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione. Da questo punto di vista si evidenzia la violazione dell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione. Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione” Questo avevano scritto i giudici costituzionali (qui la sentenza completa), lasciando la palla in mano al decisore politico che avrebbe dovuto impegnarsi al fine di dotare gli istituti di pena di luoghi idonei a questi incontri. “Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, dinanzi all’iniziativa intrapresa nella casa di reclusione di Padova dove doveva partire la sperimentazione delle cosiddette “stanze dell’amore”, dichiarò che non esisteva alcuna autorizzazione specifica per simili iniziative”. Cosa che già avviene in alcuni paesi, compresa la vicina Francia dove dai primi anni 2000 esistono delle “sale dell’affettività”, spazi dedicati agli incontri prolungati tra i detenuti e i loro familiari, compresi partner e figli, che mirano a preservare i legami affettivi e sociali delle persone detenute. Queste strutture sono di fatto mini-appartamenti situati nelle carceri, separati dalle aree di detenzione tradizionali, all’interno del quale le visite possono durare da alcune ore fino a 72 ore, a seconda delle normative della struttura e dello status del detenuto. Non che questo dovesse essere per forza l’esempio da seguire per l’Italia, ma rappresenta certamente un modello virtuoso su cui, tuttavia, dopo la sentenza della Consulta non sono stati fatti passi conseguenti e concreti. Dal governo era anzi arrivato uno stop da parte del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari che, dinanzi all’iniziativa intrapresa nella casa di reclusione di Padova dove doveva partire la sperimentazione delle cosiddette “stanze dell’amore”, dichiarò che non esisteva alcuna autorizzazione specifica per simili iniziative, né a Padova, né in altri istituti italiani, aggiungendo che si sarebbe istituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione. Eravamo a febbraio 2024 e, dopo un anno, anche di questo tavolo si sono perse le tracce. *Responsabile comunicazione di Antigone Affettività in carcere dopo la sentenza della Consulta n. 10/2024 di Lucio Motta filodiritto.com, 28 febbraio 2025 I Giudici di Sorveglianza pungolano l’inerzia legislativa. Questioni aperte e problemi pratici ma è questa la strada giusta? A distanza di più di un anno da quella decisione - Sentenza Corte Costituzionale n. 10/2024 - due magistrati di sorveglianza hanno autorizzato altrettanti colloqui privati: uno nel carcere di Parma e uno in quello di Terni. In entrambi i casi l’istituto penitenziario aveva negato la richiesta, prima perché in attesa di specifiche da parte degli uffici superiori sulle modalità per far concretizzare i colloqui intimi, e poi per mancanza di spazi. Dopo mesi di tira e molla, il magistrato di sorveglianza competente di Reggio Emilia, Elena Bianchi dopo aver esaminato la vicenda e stabilito che il detenuto non intenderebbe usare il tempo degli incontri intimi per scopi illeciti, ha accolto il richiamo presentato dall’avvocata Pina Di Credico, che segue altri due casi simili, “contro la negazione del diritto all’affettività”, e dato il nullaosta. Il provvedimento, datato 7 febbraio, stabilisce che entro 60 giorni il carcere debba allestire spazi idonei dove il detenuto e la moglie possano appartarsi, nel rispetto della loro privacy. Una questione quella dell’individuazione di stanze destinate ai colloqui intimi, piuttosto spinosa, che ha generato diversi rigetti di autorizzazione simili nei mesi scorsi in molte altre carceri italiane, a causa della mancata specifica su chi dovesse occuparsene. Originariamente sembrava toccasse agli stessi istituti di pena, poi al DAP (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) mentre ora la palla pare essere tornata definitivamente alle strutture. Come a Parma, anche a Terni le cose sono andate un po’ per le lunghe, anche per questo motivo. Il detenuto, infatti, in carcere per cumulo di pene per reati come tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro, aveva chiesto già alcuni mesi fa di incontrare la compagna in modo riservato. Se nell’autunno 2024 il permesso gli era stato negato, a gennaio 2025 dopo il reclamo, che ha portato tra le motivazioni della richiesta anche il desiderio di paternità, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha ordinato al carcere di consentire l’incontro e di attrezzarsi entro due mesi per fare in modo che avvenga in spazi adeguati. La sentenza di oltre un anno fa ha rappresentato dunque una svolta epocale, riconoscendo come la privazione della libertà personale non possa comportare anche la negazione di altri diritti fondamentali, tra i quali quello di mantenere relazioni affettive e intime. “Finalmente l’affettività e la sessualità non sono più un tabù” aveva dichiarato il presidente dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei carcerati, Patrizio Gonnella. “Così ci si avvicina ad altri Paesi che da tempo hanno previsto tale opportunità nei loro ordinamenti”. Circa un anno fa, con una storica decisione (sentenza n. 10 del 2024, rel. Petitti), la Corte costituzionale aveva riconosciuto e tutelato il diritto all’affettività in carcere dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 ord. penit. “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. La Corte si era mostrata “consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. A fine ottobre il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams) chiedeva l’attuazione della sentenza della Corte: “il tempo, non breve, ormai decorso dal 31.1.2024 senza che in alcun istituto penitenziario del Paese sia stata data esecuzione alla decisione della Consulta, di per sé dotata di immediata efficacia dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ci impone, dunque, di porre all’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria tale tema, auspicando un pronto adeguamento della stessa ai dettami costituzionali”. Sul tema e sul problema interviene ora anche la Cassazione, con la sentenza Cass. Sez. I, ud. 11.12.2024 (dep. 2.1.2025), n. 8, Pres. Mogini, Rel. Masi, ric. Sbordone. La Casa di reclusione di Asti aveva negato a un detenuto di avere un colloquio in intimità con la propria moglie, motivando sic et simpliciter in ragione del dato di fatto che “la struttura non lo consente”. Il Magistrato di Sorveglianza di Torino aveva ritenuto inammissibile il reclamo del detenuto con una motivazione che, di fatto, sterilizzava la decisione della Consulta relegandola sulla carta: la richiesta del detenuto non configurerebbe un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale. Di diverso avviso è la Cassazione, che ha riaffermato la forza e la portata dei principi affermati dalla Consulta: “non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Il reclamo proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma, essendo relativo all’esercizio di un diritto che il detenuto riteneva illegittimamente pregiudicato dal comportamento dell’istituto penitenziario di appartenenza, doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen. Il provvedimento impugnato, pertanto, deve essere annullato, con rinvio al magistrato di sorveglianza di Torino, perché provveda sul reclamo proposto”. Per altro verso, nonostante i principi sanciti dalla legge, l’applicazione del diritto all’affettività è ostacolata dalla situazione critica delle carceri italiane. Il sovraffollamento è una delle principali problematiche: molte strutture ospitano un numero di detenuti di gran lunga superiore alla loro capacità, rendendo difficile, se non impossibile, destinare spazi specifici per incontri privati. In carceri come Poggioreale, dove i detenuti superano le duemila unità, ogni possibile soluzione appare logisticamente inapplicabile. Un altro aspetto delicato riguarda l’estensione del diritto all’affettività a partner non coniugati o dello stesso sesso. Sebbene la Corte costituzionale abbia incluso queste categorie nel riconoscimento del diritto ai colloqui privati, emergono perplessità sulla verifica della stabilità del rapporto. La mancanza di criteri chiari potrebbe rendere difficile distinguere tra relazioni autentiche e situazioni fittizie, aprendo potenziali margini di abuso. Le prospettive per il futuro - Indubbiamente, il riconoscimento del diritto all’affettività rappresenta un passo avanti per i diritti umani in ambito penitenziario. Tuttavia, la sua realizzazione pratica richiede interventi strutturali e organizzativi significativi, che tengano conto delle condizioni attuali delle carceri italiane. La realizzazione di ambienti adeguati e l’introduzione di permessi speciali potrebbero rappresentare soluzioni complementari, ma è fondamentale che ogni iniziativa venga attuata in modo uniforme e sostenibile. In Europa, le modalità con cui i detenuti possono mantenere relazioni affettive variano significativamente da paese a paese. Alcuni Stati membri dell’Unione Europea prevedono permessi speciali che consentono ai detenuti di trascorrere periodi di tempo con i propri coniugi o partner nelle rispettive abitazioni, altri hanno realizzato spazi dedicati all’interno dei penitenziari e altri, infine, non prevedono specifiche misure per l’affettività. L’Ocf (Organismo congressuale forense) esprime “profonda preoccupazione per il mancato adeguamento delle strutture penitenziarie italiane alla storica sentenza della Corte costituzionale numero 10/ 2024 sul diritto all’affettività dei detenuti, nonostante sia trascorso oltre un anno dalla sua pubblicazione”. Lo si legge in una nota diffusa dall’Organismo congressuale forense, in cui si ricorda come la Cassazione, a propria volta, abbia “ribadito che il diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari costituisce un diritto fondamentale, non una mera aspettativa, e come tale deve essere tutelato in via giurisdizionale”. L’Ocf ha segnalato come “ad oggi, in nessun istituto penitenziario italiano sia stata data concreta attuazione al diritto riconosciuto dalla Consulta”. E “questa inaccettabile inerzia non solo crea una disparità di trattamento tra detenuti, in palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione, ma vanifica anche la portata rivoluzionaria della sentenza della Corte”, dichiara in particolare Elisabetta Brusa, componente del dipartimento Detenzione e carceri di Ocf. L’Organismo congressuale forense ha chiesto dunque al ministero della Giustizia e al DAP di “adottare con urgenza misure concrete per garantire l’effettività del diritto all’affettività in tutti gli istituti penitenziari, individuando e predisponendo spazi adeguati per i colloqui intimi. L’inerzia istituzionale non può più essere tollerata: si tratta di un diritto che non può rimanere sulla carta, ma deve trovare una concreta attuazione”. Non è accettabile, per Ocf, che “un diritto fondamentale, riconosciuto dalla Corte costituzionale, resti lettera morta per mere difficoltà organizzative o strutturali”. È tempo dunque che “l’amministrazione penitenziaria si assuma le proprie responsabilità e si adoperi concretamente per garantire l’esercizio di questo diritto, senza più alcun indugio. L’Ocf monitora la situazione e sosterrà ogni iniziativa volta a garantire l’effettiva tutela del diritto all’affettività delle persone detenute”. Una battaglia serrata per difendere l’intimità in carcere: da un lato, le garanzie costituzionali; dall’altro, l’ostinata resistenza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione, insieme alle ordinanze della magistratura di sorveglianza, l’amministrazione penitenziaria si oppone invano a un diritto riconosciuto. È il caso di un detenuto in alta sicurezza nel carcere di Parma che, grazie al ricorso dell’avvocata Pina Di Credico, ha costretto la direzione penitenziaria ad accettare, entro 60 giorni, il diritto a colloqui intimi con la moglie, per decreto del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia. Tutto sembra finire per il meglio? No: il Dap ha presentato istanza di opposizione, ma il magistrato ha respinto con fermezza la richiesta di sospensiva. La vicenda risale alla sentenza n.10/2024 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti, riconoscendo tale diritto come espressione del diritto fondamentale all’affettività e alla vita familiare. Nonostante ciò, la Direzione della Casa di reclusione di Parma aveva inizialmente negato al detenuto la possibilità di incontrare la moglie in condizioni di intimità, motivando il diniego con presunti “profili di pericolosità sociale”. Il magistrato di Sorveglianza Elena Bianchi con l’ordinanza del 7 febbraio scorso, che imponeva all’istituto di consentire i colloqui entro 60 giorni. Il Dap ha però reagito chiedendo una sospensione, sostenendo che il recluso - pur essendo in regime di alta sicurezza - rappresenta ancora un rischio. Una richiesta che il magistrato ha definito “infondata”, rigettandola in tutte le sue parti. Il magistrato sottolinea che la richiesta di sospensiva non soddisfa i requisiti legali: né la fondatezza del diritto (fumus boni iuris) né il pericolo di un danno irreparabile (periculum in mora). Il Dap ha basato la sua opposizione su una nota della Dda di Napoli del 2022, che “non escludeva” legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, tale documento - non aggiornato e non incluso negli atti - viene smentito dalla relazione del 22 gennaio scorso, che descrive un detenuto profondamente cambiato: condotta esemplare, percorso di riflessione e pentimento sincero. Il magistrato evidenzia un paradosso: mentre il Dap definisce il detenuto “pericoloso” per i colloqui intimi all’interno del carcere, allo stesso tempo proponeva di avviarlo alla sperimentazione premiale all’esterno, un regime che comporta rischi oggettivamente maggiori. Una contraddizione logica che mina la credibilità delle argomentazioni dell’amministrazione. Il Dap aveva sollevato anche questioni procedurali, sostenendo che, in assenza di una “cornice normativa” specifica dopo la sentenza della Consulta, le direzioni carcerarie non possono autonomamente regolare i colloqui. Il magistrato ribatte citando la stessa Corte costituzionale: in attesa di un intervento legislativo, spetta alle autorità garantire subito il diritto all’affettività, adottando soluzioni temporanee (come locali adattati) senza ulteriori ritardi. L’ordinanza stessa ricorda che la richiesta di del detenuto risale ad aprile 2024: oltre 10 mesi fa. I 60 giorni concessi nel febbraio 2025 sono già un compromesso, considerando che l’istituto avrebbe dovuto attivarsi tempestivamente per adeguare gli spazi. Se la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2024 nella la limpidezza della motivazione, appare come una pronuncia che esprime un reale controcanto ai quadri mentali dominanti, nell’opinione pubblica generale e anche in quella specializzata. Nel collegare direttamente l’esercizio dell’affettività con il finalismo rieducativo della pena, la sentenza scolpisce il valore indiscutibilmente relazionale della risocializzazione. Un’opera tesa a favorirla, dunque, non può cominciare a sottrarre i due baluardi fondamentali della relazione: affettività e sessualità. Ricomporli, restituirli ai detenuti, sarà proficuo per la società intera, che dopo il tempo della pena potrà accogliere persone integre e più responsabili. La possibilità di godere di un’affettività piena con i propri cari finisce tuttavia per dipendere dalle condizioni e dalle caratteristiche strutturali del carcere in cui si è reclusi, con evidente discriminazione di alcune persone detenute e dei loro cari, che potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontrarsi nonostante la sentenza in commento. Persone che andrebbero ad aggiungersi a quelle escluse dal godimento di un diritto - pur ritenuto fondamentale! - per scelta espressa della stessa Corte (i ristretti in regime di carcere duro o di sorveglianza particolare). Il pervicace tentativo di dilazione attuativa, tuttavia, non si annida unicamente nei ben noti deficit strutturali dei penitenziari italiani, ma anche nella strumentalizzazione di tali carenze per evitare di dare seguito al principio affermato dai giudici costituzionali, specie se si considera che ad essere gravati dalle richieste di questo nuovo tipo di colloqui saranno i direttori delle carceri e, soltanto in seconda battuta, i magistrati di sorveglianza. Nonostante la clausola inserita in sentenza che valorizzava la gradualità dell’attuazione del principio e la compatibilità con lo stato degli istituti, si è verificato e si verifica che la predisposizione di locali dedicati ai colloqui intimi, anche laddove disponibili, è posticipata il più possibile per allontanare le complicazioni che certamente derivano dalla gestione delle visite nella quotidianità del penitenziario. Senza contare che, anche una volta garantiti degli spazi idonei all’interno del carcere, risulterebbe opportuno riservare la decisione circa la possibilità di fruire in concreto dell’affettività inframuraria al magistrato di sorveglianza. Se la stessa Corte evidenziava che la questione di legittimità non potesse essere risolta mediante il ricorso ai permessi premio, non potendosi condizionare l’esercizio di un diritto fondamentale ai requisiti della premialità, nella pars construens della pronuncia si afferma che possono ostare alla concessione del colloquio intimo anche “irregolarità di condotta e precedenti disciplinari”. È dunque, preferibile evitare che a decidere sull’accesso a tale tipo di visite sia il direttore dell’istituto, lo stesso soggetto, cioè, che delibera le sanzioni disciplinari o che presiede il consiglio di disciplina che le irroga, per evidenti ragioni di garanzia e per evitare che questa novità si trasformi in uno strumento di disciplinamento. Un intervento del legislatore risulta, allora, necessario e non più procastinabile. Non solo per emendare questa o quella disarmonia derivante dall’attuazione del principio contenuto nella sentenza in commento, ma anche e soprattutto per confrontarsi con l’insufficienza cronica di spazi all’interno delle carceri. La questione, più volte citata dalla Corte, non può essere ignorata se si vuole assicurare davvero alle persone recluse la possibilità di esercitare il diritto all’affettività, come pure le altre libertà loro negate. Le questioni aperte e non trascurabili - L’esercizio del diritto all’affettività nella sua accezione più profonda e completa, quindi alla sessualità della coppia, apre scenari e diritti ulteriori che, l’angusto spazio, per quanto garantito da riservatezza, di luoghi opportunamente approntati all’interno del carcere, non possono garantire e che comunque pongono ulteriori questioni. Nel caso di detenute donne, che incontrano partner dell’altro sesso, possono inevitabilmente decidere di addivenire alla procreazione che una volta determinatasi apre il problema delle detenute gravide, a cui sarebbe garantita la facoltà di uscire dalla detenzione intramuraria. In stretto collegamento a tale libera determinazione si apre il tema del diritto del concepito, a non vedere la luce all’interno di un istituto penitenziario subendo la condizione detentiva da incolpevole. La recente norma voluta dal Governo che limita se non inibisce definitivamente la scarcerazione delle donne gestanti, è di segno oggettivamente opposto a quanto si auspica e la Corte ha inteso tutelare con la pronuncia n. 10/2024. Il tema apre quindi ad una ulteriore riflessione che non può essere sorvolata ma che di contro richiede ed investe la più complessa riflessione circa la effettiva costituzionalità della struttura carceraria così come la conosciamo nei suoi connotati di privazione / limitazione della libertà. L’analisi concentrica del diritto alla affettività che riconosciuto amplia i soggetti coinvolti portatori a loro volta di loro propri diritti, financo quelli dei soggetti non ancora concreti ma che dalla manifestazione di questa affettività possono prendere vita, travolge la struttura carcere entro al quale tale diritto deve trovare rispetto e rispondenza evidenziando tutta l’inadeguatezza della struttura stessa che alla fine si dimostra per se stessa illegittima ed incostituzionale. È per l’appunto in fondo a questo crinale che si deve riconoscere come la pena detentiva, oggi unica e dominante, non sia e non possa essere la pena adeguata in attuazione all’art. 27 della Costituzione, ma è divenuto non più procrastinabile il tempo per affrontare e risolvere una volta per tutte il tema della diversificazione delle pene, non già nella declinazione delle pene alternative, bensì nella nuova e costituzionalmente ispirata declinazione di diversificazione delle pene tali da rendersi differente e sempre più attenuate nel coso stesso della espiazione, essere differenti rispetti alla tipologia di reato, insomma individuarsi soluzioni rispetto alle violazione differenti ed appropriate rispetto alle violazioni stesse, evitando di curare “diversi mali con la stessa medicina” Più sole e con meno occasioni: aumentano le donne in carcere di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2025 Detenzione femminile. Molte non possono contare sul supporto familiare; ai Tribunali di sorveglianza, istanze relative soprattutto ai figli. Affollate le strutture principali, una sola detenuta nel Messinese. In 1.254 lavorano. All’ora d’aria, quando ragazze, donne o altro siri - trovano insieme nel cortile di cemento, le riflessioni teoriche diventano immagini concrete: capelli lunghi, corti, ricci, lunghi si avvicinano, si confondono, si toccano. Come i vestiti stesi sulle grate ad asciugare. Perché se per ogni uomo detenuto (tranne molti stranieri) c’è quasi sempre una compagna, una figlia, una madre a portare cibo e vestiti, per quasi ogni donna in carcere è il senso di colpa ad entrare molto più spesso dei pacchi con gli effetti personali. Così dietro le sbarre ciascuna sa di poter contare principalmente sulle compagne di cella. Per un sostegno come per la cura del corpo. “Non hanno mai capelli o mani trascurate: d’altra parte a loro il tempo non manca”, sorride una delle agenti, mentre apre la stanza adibita a salone da parrucchiera. Nel corridoio, tende verdi e rosa filtrano la luce del mezzogiorno di Lecce. Entrare in un carcere femminile è come passare alla tv a colori dopo un viaggio in bianco e nero. Il sole dell’estrema punta del tacco d’Italia fa brillare il rosa del locale dedicato all’estetica; ravviva il rosso, il verde, il giallo delle casette disegnate nella sala colloqui e proiettai riflessi dei drappi variopinti di quasi tutte le finestre. Qui ragazze, donne o altro da 20 ad oltre 70 anni scontano la pena in prevalenza per furti, ma alcune anche per aver fatto parte di associazioni a delinquere. In tal caso sono destinate al circuito di alta sicurezza, con maggiori vincoli e maggiore solitudine. Perché sono mandate in carceri lontane dal proprio territorio e dalla famiglia, non di rado anch’essa in parte reclusa. Così in questa palazzina di due piani, sorvegliata da una colonia di gatti neri, ci sono donne provenienti da tutto il Paese. Quasi tutte italiane, quasi tutte con prole, in maggioranza trentenni. Ora il nido è vuoto, ma nel 2023 una ragazza portò con sé un neonato. Nei racconti dal carcere, frasi come “i miei figli non vengono mai”, “i miei genitori sono anziani e lontani” o storie come quella della signora con “marito, primogenito e nonna arrestati a loro volta” si ripetono convissuti sovrapponibili a quelli delle donne che nel 2018 in questo istituto dialogarono con l’allora giudice della Consulta, Daria de Pretis, nel viaggio nelle carceri della Corte. Le questioni relative al distacco dai figli, all’accudimento dei minori odi quelli disabili o alla cura dei genitori caratterizzano molte delle istanze inviate ai Tribunali di Sorveglianza dalle 2.718 detenute (764 le straniere) presenti al 31 gennaio nei penitenziari italiani. Sono in carcere in prevalenza per reati contro il patrimonio (1.496 a fine 2024), contro la persona (958) o per violazione delle leggi sulla droga (727). Ma non sono poche (209) quelle arrestate per associazione mafiosa e in 14 sono dentro per reati contro la personalità dello Stato, neo-brigatiste o irriducibili degli annidi piombo. Le donne detenute rappresentano circa il 4% della popolazione penitenziaria. Una minoranza, sia pur con numeri aumentati negli anni (erano 1.892 nel 1991); che vive in strutture pensate per uomini. A San Vittore, ad esempio, nelle celle della sezione femminile solo l’anno scorso le vecchie turche sono state sostituite con i wc. Di questa minoranza, poi, solo un quarto si trova nei tre penitenziari esclusivamente femminili (Roma Rebibbia Femminile, 379 - che avremmo voluto raccontare, ma la direzione ha negato l’autorizzazione alla visita senza spiegazioni; Venezia- Giudecca, 107; Trani, 32; con l’ultima emergenza bradisismo nei Campi Flegrei le 98 donne di Pozzuoli sono state trasferite a Secondigliano). La maggior parte delle detenute vive in sezioni femminili create all’interno di complessi più grandi. Come questa di Lecce, una delle più affollate con una media di tre ospiti in celle da due. Pur essendo stato inaugurato solo nel 1997, questo carcere, come molti altri, è senza docce all’interno delle camere, pur previste dall’ordinamento penitenziario. E senza nome. In compenso, le detenute - “grazie anche ad un territorio molto sensibile”, sottolinea la direttrice Maria Teresa Susca - soffrono meno di quell’isolamento nell’isolamento che rappresenta una delle cifre ricorrenti e faticose della carcerazione femminile. Perché si trovano più distanti da casa per la minor disponibilità di posti; perché negli istituti più piccoli una donna può essere addirittura da sola, come a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina); o possono essere in cinque a Paliano (Frosinone), sette a Mantova, 12 a Sulmona (L’Aquila) o 15 a Sassari. Numeri esigui che si traducono in esigue occasioni di reinserimento. “Qua a Lecce al contrario hanno un’agenda fitta di impegni”, si inorgoglisce una delle educatrici, Viviana Zizza, seduta davanti a pannelli gialli e blu targati Uni-Salento a ricordare le attività del polo universitario. “Tre sono iscritte a scienze della comunicazione, economia aziendale e beni culturali, mentre altre 15 - elenca la direttrice - frequentano corsi scolastici in collaborazione con l’Istituto tecnico”. Al 30 giugno 2024, in tutta Italia erano 1.254 le donne impiegate sul totale di 20.240 detenuti lavoranti: la maggior parte sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (1.025, soprattutto per pulizie o cucina) e in quota ridotta (229) di cooperative o aziende esterne. Percentuali basse, ma in proporzione migliori di quelle maschili. A Lecce, corsi per aspiranti estetiste e parrucchiere si sono alternati a laboratori di panetteria o perla coltivazione ortofrutticola. Tra le principali attività si è affermata la sartoria che realizza borse, toghe, gadget - anche col riciclo di tessuti destinati al macero - con l’etichetta “made in carcere”: il solido collegamento con l’esterno costituisce un viatico verso le misure alternative. Anche per questo i detenuti si rivolgono ai giudici, ma soprattutto scrivono del sovraffollamento dell’intero complesso:170 le istanze arrivate al Tribunale di Sorveglianza di Lecce nel 2022, 370 l’anno scorso con un’impennata proporzionale alle presenze in tutti i penitenziari pugliesi. A breve anche i giudici salentini, dopo quelli di Spoleto e Parma, si pronunceranno sul diritto all’affettività a fronte di quattro reclami: e al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si rivolge anche il Garante nazionale dei detenuti Riccardo Turrini Vita. Il legame con i congiunti e quello con i figli. Sta facendo discutere la chiusura - “improvvisa”, assicurano dal territorio - dell’Istituto a custodia attenuata per madri di Lauro nell’avellinese, col trasferimento in Lombardia e Veneto delle ultime due donne e dei rispettivi bimbi. Unico Icam del centro sud, in media era quello con più presenze, sia pur poche unità. La ragione della chiusura sarebbe - secondo più versioni - destinare il personale (una ventina di agenti, alcuni dei quali prossimi alla pensione) al “carcere vero”. Così madri e figli sono stati sradicati da un contesto che per quanto - secondo più osservatori - andrebbe superato a favore di più case famiglia, bilanciava esigenze di sicurezza e interesse del minore. Temi affrontati nei giorni scorsi anche dalla conferenza internazionale di Bangkok sulle regole delle Nazioni Unite relative alla detenzione femminile, da aggiornare dopo 15 anni. Dal 2.000, è emerso alla Women in Corrections Conference, il numero delle donne arrestate è aumentato del 60% (si stima siano 740mila, con un picco negli Stati Uniti 211mila e Cina 145mila). E sono stati illustrati anche due progetti dell’Università Bocconi e Bicocca di Milano nelle carceri di San Vittore e Bollate. Il primo, curato da Melissa Miedico e Maria Falcone, è un legai desk rivolto a donne straniere, che possono rivolgersi ad esperti di diritto penale e di immigrazione: iniziative - come il dialogo tra studenti e detenuti intorno alla Costituzione viva - molto sostenute dalla prorettrice Marta Cartabia. La seconda esperienza, condivisa da Claudia Pecorella e Noemi Cardinale per la Bicocca, si occupa di quanto avviene prima della detenzione, molto spesso violenze e abusi che influiscono sul reato: l’incontro con personale specializzato aiuta le detenute ad aprirsi sui loro traumi, in una prospettiva anche di prevenzione della recidiva. E di superamento di quell’isolamento nell’isolamento causa, talvolta, dei suicidi (3 le detenute che si sono tolte la vita nel 2023, due l’anno scorso). Perché è sempre vero che “il futuro è nel passato e il passato è nel presente”, come scriveva Bernardine Evaristo in “Ragazza, donna, altro”. Detenuti suicidi? Per Nordio non c’è notizia, basta scorrere il giornale online Gnews di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2025 In questo 2025 sono già 14 i suicidi nelle nostre carceri. Puntualmente comunicati dal sindacato Uilpa che racconta dove e come ciò sia accaduto. Erano 89 al 31 dicembre 2024. Ma per il Guardasigilli Carlo Nordio non sono una notizia. Semplicemente non esistono. Basta scorrere Gnews, il giornale online di via Arenula che ogni giorno celebra le gloriose gesta di Nordio. Sappiamo tutto di lui, dove ha parlato, cosa ha detto, chi ha incontrato. Foto, video, discorsi. Uno storytelling monografico. Dove niente sfugge, neppure un passo o una visita del monarca della Giustizia. Parla alla Camera? Ed ecco il filmato, senza che risuoni la bagarre dell’opposizione. Incontra gli avvocati? E qui le ole sono garantite. Qualunque sia l’organizzazione che incontra. Parla in tv? Il video è assicurato. Più che Gnews il sito dovrebbe chiamarsi “Nordionews”. E le galere? Quelle invece esistono solo se il reuccio di via Arenula fa sfoggio di una delle sue genialate. Come quando, il 22 gennaio, ricorda che il 14 marzo 2023, cioè ben due anni prima, “è stato istituito uno specifico gruppo di lavoro per lo studio e l’analisi degli eventi suicidiari delle persone detenute”. Perché fare un gruppo simile suona sempre bene. Ma a dominare tra gli argomenti è soprattutto la separazione delle carriere tra pm e giudici, che tutto è fuorché un’emergenza. Ma tale la considera il Guardasigilli che ne parla di continuo. Il 13 febbraio, “No modifiche alla riforma del Csm, avanti la separazione delle carriere”. Il 24 gennaio lui da Vespa, “Separazione, il giudice sarà più libero”. Lo stesso giorno a Napoli per l’apertura dell’anno giudiziario, quando le toghe si alzano e se ne vanno, possiamo leggere su Gnews “Con la riforma si attua il giusto processo”. E il 15 gennaio ecco citata online la sua “storica” battuta alla Camera, “La riforma è nei miei libri”. Inutile invece cercare traccia dei suicidi, non ci sono proprio. E se parla di carceri, nei fine settimana nel suo Veneto e dintorni, le news penitenziarie sono solo positive. Come questa del 22 febbraio: “Nordio a San Vito al Tagliamento: nuovo carcere modello da sogno”. Entusiasmo alle stelle perché dopo oltre due anni che se ne parla l’ex caserma militare Fratelli Dall’Armi sarà trasformata in una prigione e potrà ospitare 300 detenuti. E i suicidi? Quelli rovinano il sito e l’epopea di Nordio. Meglio far finta che non esistano. Conviene all’opposto l’entusiasmo per le guardie - “Aggressione alla polizia penitenziaria sventata a Casal Del Marmo” la news del 21 febbraio - e naturalmente l’essere “disorientato” per la condanna di Delmastro che giganteggia sul sito. I detenuti suicidi non sono da Gnews. Riesce lo sciopero dell’Anm, che dice: “Nessuna trattativa col Governo” di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 febbraio 2025 Tra il 75 e l’80 per cento dei magistrati ha aderito alla protesta dell’Anm, che però per bocca del suo segretario Maruotti ha ribadito che “non ci sono margini di trattativa” sulla riforma sulla separazione delle carriere. È riuscito lo sciopero di ieri dell’Associazione nazionale magistrati. Con un’adesione tra il 75 e l’80 per cento dei magistrati, la protesta ha raggiunto la soglia che era stata prefissata informalmente da diversi esponenti del sindacato. Una dimostrazione di compattezza, che tuttavia sembra rinsaldare la linea più intransigente interna all’Anm, quella contraria a ogni forma di confronto con il governo. Proprio ieri mattina, ancor prima che venissero diffusi i dati sulla partecipazione allo sciopero dell’Anm, a Palazzo Chigi si è tenuto un vertice sulla giustizia durato circa un’ora, a cui hanno preso parte la premier Meloni, i vicepremier Tajani e Salvini, il Guardasigilli Nordio, il leader di Noi moderati Maurizio Lupi, ma anche i presidenti delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato (Pagano e Balboni), e quelli delle commissioni Giustizia (Maschio e Bongiorno). Una riunione finalizzata a preparare le consultazioni già programmate per mercoledì prossimo con l’Unione delle camere penali e con l’Anm, e dalla quale è emersa la conferma della disponibilità della maggioranza a “dialogare” con i magistrati. Peccato che questi sembrano proprio non averne alcuna intenzione. Ieri mattina, dopo un flash mob realizzato sulla scalinata della Corte di cassazione (con addosso coccarda tricolore e con in mano la Costituzione), non proprio esaltante visti i concomitanti lavori di ristrutturazione della facciata del “Palazzaccio”, l’Anm si è riunita in assemblea pubblica al cinema Adriano. Qui il segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti ha ribadito quanto già sostenuto dalla dirigenza nei giorni scorsi: “Siamo contrari a una riforma che incide sul principio di separazione dei poteri. Non ci sono margini di trattativa. Autonomia e indipendenza della magistratura non sono negoziabili. Per cui sia chiaro: non ci sono per noi soluzioni di compromesso”. Insomma, per l’Anm la riforma costituzionale va ritirata e basta. Con queste premesse diventa molto difficile pensare che l’incontro di mercoledì possa portare a un avvicinamento fra le parti e che le ipotesi di modifica alla riforma Nordio avanzate da vari settori della maggioranza possano soddisfare le toghe. La più radicale, finora circolata, prevede l’eliminazione dei due Csm (uno per i giudici e uno per i pm) e il mantenimento di un unico Csm, diviso in due sezioni. Questa modifica, però, richiederebbe un intervento sul testo di riforma costituzionale ora in esame al Senato. Ieri dal governo sarebbe invece arrivata un’apertura sull’eliminazione del sorteggio secco per l’elezione dei consiglieri togati al Csm, e la sua sostituzione con un sorteggio temperato. Questo ritocco avrebbe il vantaggio di essere realizzabile in fase di attuazione della nuova legge costituzionale. Dall’altra parte, però, appare ben poco credibile che l’Anm si accontenti di così poco. Se poi, come ripetuto dai magistrati, non sono immaginabili “soluzioni di compromesso”, allora il confronto appare negato alla radice. Toghe in sciopero, adesione all’80% contro la riforma: “Nessun margine di trattativa” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 febbraio 2025 L’Anm scende in piazza contro la separazione delle carriere: “Lo facciamo per i cittadini”. Circa l’80 per cento dei magistrati ha scioperato contro il ddl di riforma costituzionale per la separazione delle carriere: a comunicare il dato è stato il segretario generale dell’Anm Rocco Maruotti al termine dell’assemblea che si è tenuta questa mattina al Cinema Adriano di Roma, dopo il flash mob sulla gradinata della Cassazione. I numeri saranno affinati nelle prossime ore ma si attendono comunque quelli ufficiali che verranno forniti dal ministero della Giustizia nella tarda mattinata di domani. Intanto, però, i magistrati esultano e tirano un sospiro di sollievo: l’Anm si riscopre compatta dopo il flop dell’astensione contro la riforma Cartabia che vide l’adesione solo del 48 per cento delle toghe. “Risultato molto positivo”, ha commentato a caldo con il Dubbio il presidente del “sindacato” delle toghe Cesare Parodi. Gli abbiamo chiesto anche un commento su quanto detto dal presidente della Repubblica e del Csm, Sergio Mattarella, due giorni fa durante il plenum che ha nominato il nuovo Pg della Cassazione, quando ha sottolineato la necessità di “assicurare l’irrinunciabile indipendenza dell’ordine giudiziario”. “Direi che il Presidente Mattarella ancora una volta ha dimostrato una straordinaria sensibilità e intelligenza andando al cuore del problema - ha commentato Parodi -. È una garanzia per tutti noi, le sue parole sono quanto di meglio noi ci possiamo aspettare in tutte le occasioni e anche in questo caso mi pare abbia sottolineato un aspetto fondamentale del rapporto tra la magistratura e la società civile, ossia la nostra indipendenza. Se noi non siamo indipendenti non siamo in grado di garantire gli interessi e i diritti di tutti”. In prima fila sui gradini del Palazzaccio la presidente di Magistratura democratica, Silvia Albano: “Il significato di questa giornata è cercare di far conoscere ai cittadini le conseguenze della riforma della Giustizia. D’altro canto, il governo in più occasioni ha lasciato intendere quali siano gli obiettivi. Ogni volta che sono stati adottati provvedimenti sgraditi alla maggioranza di governo è stato detto “ci vuole la riforma della giustizia”. Mi pare che gli obiettivi reali di questa riforma siano molto chiari”. Mentre in tutta Italia si tenevano le manifestazioni pubbliche dei magistrati, dalla riunione di maggioranza di Palazzo Chigi filtravano voci di una possibile apertura al dialogo con Anm, ma a frenare il tutto ci ha pensato lo stesso Maruotti nel suo intervento ufficiale: “Lo voglio dire ancora una volta, chiaramente: di fronte ad una riforma così non ci sono margini per una trattativa, in quanto autonomia e indipendenza della magistratura non sono negoziabili, semplicemente perché sono beni comuni e non sono nella disponibilità dei magistrati, per cui, sia chiaro, che non ci sono per noi soluzioni di compromesso o possibili accomodamenti al ribasso”. Diverse le reazioni alla giornata di astensione. “Scioperare è legittimo”, ha detto il vicepremier e segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, a margine del question time in Senato. “Il problema è che lo sciopero non crea problemi al governo, allunga però i tempi dei processi”. Mentre Tommaso Calderone, capogruppo FI in Commissione Giustizia alla Camera: “Desidero complimentarmi, pubblicamente, con i magistrati italiani che hanno deciso di non aderire a uno sciopero, sostanzialmente, contro una legge e quindi contro i poteri dello Stato”. Severo anche il giudizio del senatore di Fratelli d’Italia Sergio Rastrelli, segretario della Commissione Giustizia di Palazzo Madama: “La sollevazione di arroccamento corporativo organizzata dall’Anm contro il disegno di riforma costituzionale della separazione delle carriere appare viziata nel merito, inaccettabile nel metodo, ed eversiva nei fini”. Diverso il parere del segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: “Giorgia Meloni è molto attiva nell’attaccare i magistrati, cui va tutta la nostra solidarietà perché scioperano per difendere la Costituzione. Lei, che ha detto tante volte di aver cominciato a fare politica per Paolo Borsellino, oggi forse dovrebbe fare una riflessione di fronte a tutta la magistratura, tutte le componenti, a prescindere dagli orientamenti politici, che scioperano unitariamente per difendere l’autonomia e la Costituzione”. Gli ha fatto eco Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, per cui i magistrati “hanno il nostro totale sostegno, noi abbiamo anche partecipato ad alcune loro iniziative: noi siamo al loro fianco, le sosteniamo perché in realtà loro stanno difendendo la Costituzione del nostro Paese”. Ha parlato anche l’ex magistrato Antonio Di Pietro: “L’agitazione di oggi dell’Anm non la considero né eccessiva né contro il governo, ma semplicemente incomprensibile. Lo sciopero si fa quando c’è una parte debole contro una forte, come ad esempio lavoratori che rischiano il licenziamento. Ma in questo caso siamo di fronte a poteri dello Stato che hanno tutte le sedi per confrontarsi, che non sono la piazza, ma le commissioni Giustizia in Parlamento, il Csm e poi c’è il Capo dello Stato che coordina tutto”. Toghe unite in sciopero contro la riforma. Il governo apre, ma blinda la separazione di Giulia Merlo Il Domani, 28 febbraio 2025 Il presidente Anm, Parodi: “Non scioperiamo contro qualcuno ma per difendere la Costituzione”. Il successo di partecipazione. Vertice della premier con Nordio e i vicepremier: “Disponibilità a un confronto costruttivo”, ma solo sulle leggi attuative del sorteggio. Costituzione in mano, coccarda tricolore al bavero e toga sopra i cappotti: a Roma il sole è quasi primaverile, ma fa freddo all’ombra del Palazzaccio di piazza Cavour. I magistrati si sono dati appuntamento sui gradoni davanti alla Cassazione circondata dalle impalcature per dare il via allo sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma costituzionale della giustizia voluta dal governo Meloni. Il presidente dell’Associazione Cesare Parodi, espressione dei conservatori di Magistratura indipendente, ha ribadito le ragioni delle toghe: “Non è uno sciopero contro qualcuno ma a difesa di una serie di principi della Costituzione in cui fermamente crediamo e che sono fondamentali per i cittadini. È tutto fuorché una difesa di casta. Noi non difendiamo nessun privilegio”, e ancora “in molti avvertiamo il rischio concreto che il pubblico ministero possa essere condizionabile e condizionato dall’Esecutivo e dai poteri forti”. La linea del presidente, tuttavia, è di tenere aperta la porta del dialogo, in particolare in vista dell’incontro del 5 marzo già calendarizzato con la premier Giorgia Meloni e con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che in quella giornata incontreranno anche gli avvocati delle Camere penali. “Dobbiamo parlare con tutti, essere credibili, far capire che la nostra battaglia è davvero in favore dei cittadini”, è il ragionamento di Parodi. La giornata è densa di impegni: dopo il flash mob in piazza, poi l’assemblea al cinema Adriano. La sala sola da trecento posti non è bastata, se ne è dovuta aprire un’altra per ospitare tutti i presenti. Manifestazioni analoghe poi si sono tenute in tutta Italia per dire no alla separazione delle carriere, la creazione di due Csm e una Alta corte disciplinare e il sorteggio di tutti i membri. Per tutta la mattina tra i partecipanti però è serpeggiata una sola domanda: “Quanti siamo?”. Nonostante i buoni pronostici della vigilia, infatti, il timore era quello di replicare il flop del 2022 contro la riforma Cartabia con meno del 50 per cento di adesioni. A metà pomeriggio il sospiro di sollievo, quando il segretario dell’Anm Rocco Maruotti ha dato il numero definitivo: “L’adesione allo sciopero è intorno all’80 per cento”. Il sentimento finale è quello del successo raggiunto grazie alla buona volontà di tutti: tutti i gruppi associativi insieme, infatti, hanno lavorato per far riuscire l’iniziativa unitaria - la prima sotto la guida del neo presidente Parodi - e dare un segnale di solidità agli interlocutori istituzionali in vista del 5 marzo. “Il punto è cosa si andrà a dire in quell’occasione”, ragiona infatti una toga progressista. Parodi, infatti, appartiene alle toghe più moderate anche nei confronti del governo e le sue prime uscite pubbliche molto diplomatiche nei confronti dell’esecutivo hanno fatto alzare più di un sopracciglio tra i duri e puri. Tuttavia, ora l’imperativo è abbassare i toni. “È presidente da poco, deve solo crescere. Anche Santalucia (l’ex presidente in quota Area ndr) all’inizio non piaceva a tutti, poi è stato capace di unirci”, spiega un altro magistrato d’area. Non c’è solo l’incontro con il governo ad agitare le toghe, però. Lo sciopero “dovrebbe essere il primo passo per parlare alla cittadinanza”, spiega un magistrato conservatore, “il timore è che questo non passi ma rimanga un dibattito da addetti ai lavori”. Tradotto: la riforma è ormai incardinata e la mobilitazione servirà in vista del referendum costituzionale, dove i cittadini andranno mobilitati in favore della magistratura. Esercizio tutt’altro che facile. Intanto, il governo è rimasto a guardare. In contemporanea con lo sciopero, la premier ha tenuto un vertice con il sottosegretario Alfredo Mantovano, i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, il guardasigilli Nordio, il leader di Noi moderati Maurizio Lupi, il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Nazario Pagano e delle commissioni giustizia di Camera e Senato, Ciro Maschio e Giulia Bongiorno. Al centro, proprio la riforma costituzionale della giustizia. Da palazzo Chigi è trapelato un messaggio dai toni decisamente diversi rispetto alle ultime settimane, ma in linea con il prudente ammorbidimento dopo la nomina di Parodi alla guida dell’Anm. “Disponibilità a un confronto costruttivo” con l’Anm, perché la riforma “non è concepita contro i magistrati, ma nell’interesse dei cittadini”. L’interrogativo, però, è su che cosa ci si possa confrontare, visto che la riforma è già stata approvata in prima lettura e corre veloce, forte del fatto di essere l’unica condivisa dentro la maggioranza. “Il testo è blindato”, confermano fonti di governo, tuttavia “si più discutere su come scrivere le leggi ordinarie che le daranno attuazione”. In altre parole, nulla da fare sulla separazione delle carriere ma ci saranno aperture per “temperare” il sorteggio nei due Csm sia per i laici che per i togati, con attenzione anche per le quote rosa. Intanto, la linea è quella di tenere a zero le polemiche in vista dell’incontro calendarizzato, che viene considerato uno snodo strategico. Il ministro Nordio è pronto a partire per un viaggio istituzionale in Sud America che lo terrà lontano dalle questioni italiane fino a quel momento e anche Meloni non intende cadere in nuovi scontri. “Non è il momento di alzare altri muri”, si ripete nel centrodestra, nonostante il malcelato fastidio per lo sciopero. Tanto il cuore della riforma è blindato. L’offerta di Meloni all’Anm: sorteggio temperato al Csm di Errico Novi Il Dubbio, 28 febbraio 2025 In contemporanea con lo sciopero delle toghe, vertice di maggioranza a Palazzo Chigi: ecco la via (stretta) per la tregua sulla separazione delle carriere. L’idea è chiara: smorzare la tensione. Spegnere la miccia. Nel giorno in cui l’Anm sciopera, Giorgia Meloni riunisce i leader di tutto il centrodestra ed elabora una piattaforma per la distensione con le toghe. Dopo l’incontro a cui in mattinata intervengono, con la premier, Alfredo Mantovano, Carlo Nordio, Antonio Tajani, Matteo Salvini e Maurizio Lupi, Palazzo Chigi fa sapere che sulla separazione delle carriere “la maggioranza ha confermato la propria disponibilità a un confronto costruttivo, con particolare attenzione al dialogo con l’Anm. La riforma della giustizia”, si aggiunge per fissare un punto destinato a diventare slogan, “non è concepita contro i magistrati, ma nell’interesse dei cittadini”. Poche parole che da una parte alludono a una data, il 5 marzo, ormai vicinissima: quel giorno il nuovo vertice dell’Associazione magistrati, la nuova giunta guidata da Cesare Parodi, incontrerà la presidente del Consiglio. Tutto noto, tutto già programmato. Ma non si tratta solo di smorzare i toni e attenuare l’attrito prima di sedersi al tavolo. Nel confronto tra la premier, il sottosegretario alla Presidenza, il guardasigilli e gli altri leader, si è concordato di lasciare uno spiraglio aperto sul sorteggio dei togati Csm. È il solo argomento negoziabile. Ma è anche un argomento, un tema, importante - L’ipotesi è semplice: derubricare il “sorteggio puro” ora previsto dalla riforma Nordio a “sorteggio temperato”. In pratica, come previsto da un ddl che il capogruppo Giustizia di FI al Senato Pierantonio Zanettin aveva presentato già nella scorsa legislatura, verrebbe sorteggiata una platea di magistrati eleggibili, all’interno della quale tutti i giudici, da una parte, e tutti i pm, dall’altra, voterebbero i togati dei due futuri Csm. Con un pur minimo margine d’incidenza, dunque, recuperato dalle correnti dell’Anm. Poche ore dopo, da via Arenula preciseranno che non c’è alcuno spazio per ripensare invece un altro aspetto, che poi è il cuore della riforma, vale a dire il doppio Csm. Nei giorni scorsi, come riferito in più occasioni anche da questo giornale, Mantovano aveva prospettato a Nordio un correttivo, sulla separazione delle carriere, piuttosto radicale: trasformare il Consiglio superiore sdoppiato (uno per i giudicanti e uno, distinto e separato, per i requirenti), previsto ora dal ddl costituzionale, in un Csm unico con due sezioni. L’idea è parsa fin da subito impercorribile, al ministro della Giustizia: sarebbe insensato un Consiglio unico senza un’assemblea plenaria unica, ma con uno schema del genere, quasi identico a quello in vigore da oltre mezzo secolo, resterebbero immutati i pericoli di condizionamento esercitati, sulle carriere dei giudici, dai pm, più forti e veri “azionisti di maggioranza” delle correnti Anm. Resterebbe immutata, rispetto al Csm del “Sistema”, la condivisione dell’autogoverno, cioè delle nomine e degli avanzamenti di carriera, che neutralizza la “terzietà” del giudice introdotta all’articolo 111 nel 1999. Nordio lo sa, e lo ribadito. E ieri, dai suoi uffici, hanno ripetuto che “il doppio Csm deve per forza restare nella riforma, è un punto imprescindibile”. Si potrà casomai rivedere, insieme col sorteggio, l’aspetto delle quote di genere, non previste, nel testo all’esame del Parlamento, né per i togati né per i laici. In realtà nella maggioranza si frena, da parte di alcuni, persino sulla negoziabilità dell’estrazione a sorte per i magistrati nei due futuri Csm: secondo questa versione “minimal” della prospettiva da presentare all’Anm, non ci sarebbe alcun intervento sul ddl costituzionale, già approvato una volta alla Camera e ora all’esame del Senato. In realtà, dicono i più intransigenti, il “sorteggio puro” non cambierebbe di una virgola, casomai lo si attenuerebbe in seguito - dopo che la riforma costituzionale sarà stata suggellata dal referendum confermativo - con una legge ordinaria. Ma è un’ipotesi problematica. Di fatto, per com’è scritta ora la norma nella separazione delle carriere disegnata da Nordio, sarebbe impossibile introdurre una qualche forma di “elezione”. E perciò, l’ipotesi di rivedere il testo della riforma esiste, anche se vorrà dire rassegnarsi a un nuovo passaggio alla Camera (al quale dovrà poi seguire la seconda “navetta”, a distanza di tre mesi come sancisce l’articolo 138 della Costituzione): davvero il 5 marzo si prospetterà all’Anm - in vista di un reciproco “disarmo” - di “stemperare” il sorteggio puro in una versione addolcita. Basterà a spegnere gli ardori dell’Anm? No. Lo hanno detto con chiarezza, ieri, i vertici del “sindacato”. Non se ne parla. Lo scontro continuerebbe. Ma non si può escludere che la proposta del governo produca una frattura tra le correnti, e seduca per esempio la “moderata” Magistratura indipendente, a fronte dell’intransigenza di Area e Md, i gruppi “progressisti”. Altro aspetto da non trascurare: fonti di FI assicurano che, se si aprisse il vaso di pandora, loro, i berlusconiani, tornerebbero alla carica per ottenere anche il ritorno a una vera e propria elezione, da parte delle Camere, dei consiglieri laici. Vedremo. Di certo, il 5 marzo, prima di Parodi e della sua giunta, Meloni incontrerà l’Unione Camere penali. L’associazione presieduta da Francesco Petrelli lo ha confermato ieri in una nota, e dirà solo una cosa: rivedete pure il sorteggio, ma se rinunciate al doppio Csm, ammazzate la riforma. Codice penale come strumento di governo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 febbraio 2025 La bulimia degli esecutivi e la regressione del giudiziario da potere a strumento di governo non sono fenomeni nazionali ma tendenze mondiali. Non basta il titolo per giudicare una riforma. Una volta scritte in Costituzione, le norme vanno fatte vivere ed è facile prevedere che le modifiche di marca governativa all’ordinamento della magistratura avranno effetti negativi sulla già pessima situazione della giustizia italiana. Ormai la polemica politica si nutre di modifiche costituzionali immaginate, le etichette e gli slogan che le accompagnano servono a confondere. Meglio guardare alle intenzioni di chi propone le riforme, soprattutto quando sono apertamente dichiarate. Così il monocameralismo che voleva Renzi non era quello di Ingrao, il presidenzialismo che spinge Meloni non è quello sul quale ragionava Calamandrei, la separazione delle carriere sulla quale ha messo la firma Nordio non è quella sostenuta da Vassalli. Le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici sono già profondamente separate. Molte norme sono intervenute negli anni per alzare una barriera e oggi i giudici che passano a fare i pm sono meno dell’1%, quelli che da pm vanno a fare i giudici ancora meno. Non è un bene. Discorso diverso è quello della familiarità tra requirenti e giudicanti che però ha a che vedere con le routine di lavoro e che dunque riguarda anche i rapporti tra magistrati di primo grado e di appello, tra magistrati e avvocati. Rapporti ineliminabili, per quanto un imputato che spera di essere assolto o di vedere la sua condanna riformata non li considera tali, a buon diritto. Ma questo è l’ambito dell’etica personale: se è scarsa non si recupera scrivendo una legge. C’è invece un’altra separazione che la Costituzione prevede sia netta e che netta non è: la separazione tra la magistratura e il potere politico. È soprattutto a questa che alludono le previsioni costituzionali di autonomia e indipendenza e che troppe volte in concreto vanno a sfumare. Per responsabilità della politica ma non solo. Per esempio è assai problematica l’abitudine dei magistrati di contendersi gli uffici di diretta collaborazione con il governo di turno e di assegnarseli con logiche di corrente. È per tradizioni del genere che la magistratura in questo paese non rappresenta affatto, storicamente, un contropotere, come insistono invece i tanti ministri a caccia di nemici. Alla favoletta della casta rossa non crede evidentemente neanche Nordio, che ne ha a lungo fatto parte, la smentiscono i risultati delle elezioni interne all’Associazione magistrati e la realtà di tanti uffici giudiziari nel paese, dove toghe inamovibili sono un pezzo del potere costituito. Proprio per questo i proclami della destra al governo dicono molto di più del testo della sua riforma. L’intenzione dichiarata è quella di “limitare il potere” dei giudici, e più ancora dei pm, dove il potere di cui si parla è quello di andare contro i desideri dell’esecutivo. Lo scandalo nasce infatti ogniqualvolta ordinanze e sentenze non coincidono con le idee o gli obiettivi repressivi del governo. Quando invece si procede contro attivisti come fossero terroristi, quando si assecondano teoremi sulla pericolosità delle ong, quando si riempiono le carceri di persone ai margini, non c’è alcun problema. Certo, non basta ancora. Meglio, soprattutto per una coalizione al potere che fa del codice penale uno strumento di governo, molto meglio sarebbe portare pienamente la pubblica accusa nell’ambito dell’esecutivo (riportare, guardando alla storia). Il pm che è il terminale delle indagini della polizia giudiziaria ha questa inclinazione naturale, oggi però non è (solo) l’avvocato dell’accusa e gode delle garanzie e delle tutele di autogoverno dei giudici. Potrebbe perderle. La bulimia degli esecutivi e la regressione del giudiziario da potere a strumento di governo non sono fenomeni nazionali ma tendenze mondiali. Dagli ordini esecutivi di Trump agli attorneys in giù, c’è già un ricco panorama di pessimi esempi. Proprio per questo quando il governo cita sistemi imparagonabili al nostro per spingere la separazione delle carriere è il caso di spaventarsi. Tutti sistemi, peraltro, dove l’indipendenza non è prevista. In definitiva non uno dei disastri della giustizia italiana può trovare giovamento da una modifica costituzionale, per curarli ci vorrebbero investimenti e depenalizzazione. I magistrati sono parte di una macchina che produce più ingiustizie che giustizia, più sofferenze che ristoro, e i cittadini tendono a vederli come corresponsabili. Anche per questo lo sciopero non scalda i cuori dei dannati, nei gironi dei tribunali (pur avendo effetti scarsissimi sui tempi dei processi, eterni in ogni caso). Ma è bene sapere che se il quadro oggi è desolante non è detto che non possa peggiorare. Con la riforma accadrebbe senz’altro. Una giornata di lotta in toga: “Non esiste alcuna trattativa” di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 febbraio 2025 L’Anm: “Adesione allo sciopero oltre il 75%”. A Roma il presidio sulla scalinata della Cassazione e l’assemblea “da centro sociale” al cinema Adriano. Il presidente Parodi verso l’incontro a Chigi: “Spiegherò le nostre ragioni”. Davanti al palazzaccio della Cassazione i magistrati arrivano alla spicciolata: c’è chi si presenta già in toga, chi la tiene in mano, chi nello zaino. Chi si fa scortare dai figli piccoli, chi tiene le distanze, chi si incrocia e sembra non vedersi da un secolo. Le troupe dei programmi televisivi inseguono i volti più noti: il presidente dell’Anm Cesare Parodi, il segretario Rocco Maruotti, la presidente di Magistratura democratica Silvia Albano, il segretario di Area democratica per la giustizia Giovanni Zaccaro. È caccia aperta alle dichiarazioni da mandare in onda durante le trasmissioni della mattina. L’opinione generale nei confronti della riforma della giustizia del governo Meloni però non è una notizia: sono tutti contrari. Da sempre. E tutti per gli stessi motivi. “Vogliono i pm sottomessi all’esecutivo”. “Il problema non sarà nostro ma dei cittadini”. “Non è una difesa della casta ma della Costituzione”. A rompere il ghiaccio ci pensano, come al solito, i fotografi: “Vi mettete sulla scalinata?”. I togati si sistemano in buon ordine, tutti con la loro copia blu della Costituzione in mano. Peccato che siamo un quarto d’ora in anticipo sull’orario della convocazione - le 10 - e i presenti sono ancora pochi. C’è, tra gli spettatori, chi ghigna e pregusta il flop dello sciopero. Poi però, come sempre - che si tratti di magistrati, insegnanti o metalmeccanici è uguale - da un momento all’altro avviene il miracolo della moltiplicazione dei manifestanti. Alla fine il conto supera le centinaia. Non solo “operatori della giustizia”, ma anche un po’ di “società civile”, laici si direbbe in altra sede. Passa Nichi Vendola sullo sfondo. Si ferma Franco Coppi, forse il più grande penalista italiano vivente. Appoggia, a differenza di altri avvocati meno noti di lui, i motivi della protesta: “Non ho mai perso un processo perché il giudice apparteneva alla stessa categoria del pm”. Dopo, al momento dell’assemblea aperta al cinema Adriano, dall’altra parte di piazza Cavour, Maruotti lo citerà strappando applausi alla platea. Ecco, all’Adriano, l’atmosfera è simile a quella dei centri sociali quando c’è l’appuntamento importante, arriva più gente del previsto e l’organizzazione si fa impossibile. Infatti nella sala riservata all’Anm (280 posti) non ci si entra, le maschere invitano quelli che si sono messi in piedi sulle scale a uscire “per motivi di sicurezza”. Qualche malumore. C’è chi, in toga, rivendica il proprio stato di servizio per accedere ma le regole del cinema sono ferree. Viene aperta un’altra sala (300 posti) e tutti si rallegrano. Alla tavola rotonda, intanto, si alternano magistrati (Giuseppe Santalucia, Enrico Scuditti), giuristi (Tania Groppi, Gaetano Azzariti), scrittori (Gianrico Carofiglio), avvocati (Giuseppe Iannaccone), giornalisti (Donatella Stasio, che introduce e modera). Parodi, alla prima uscita pubblica di un certo rilievo da quando guida l’Anm, usa le parole di Rita Levi Montalcini: “È nelle difficoltà che affiora il meglio. Non temetele”. Questo pm torinese, che come il tenente Colombo riesce a infilare in ogni intervista una citazione della moglie, è l’osservato speciale di giornata. Un po’ perché è asceso al vertice del parlamentino delle toghe a sorpresa e un po’ (molto) perché comunque è di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice a torto o a ragione vista come la più disponibile al dialogo col governo. Anzi, alla trattativa. “Ma non c’è alcuna trattativa possibile”, taglia corto Maruotti. Il ragionamento è noto: si tratta sulle questioni sindacali, non sulla Costituzione. Dunque anche le timide e non del tutto verosimili aperture del governo alla revisione di alcune parti della riforma non sembrano un elemento così convincente in questa fase. Almeno fino a un certo punto. Che farà Mi? “Chiedetelo a loro”, dice un giudice di sinistra. Loro, cioè Parodi: “Spiegherò a Meloni le nostre ragioni”. L’incontro è in programma per il 5 marzo. Prima, lo stesso giorno, la premier si confronterà con gli avvocati. “Deve prendere la linea”, punge un’altra nota toga rossa. L’attesa in chiusura è tutta per i numeri. Girano, da giorni, voci incontrollate e pazzesche. C’è chi ragiona sul fatto che alcuni diranno di aver scioperato anche se in realtà non è vero perché bisogna sempre garantire alcuni servizi (vale la stessa cosa per i ferrovieri e i sanitari, ma quando scioperano loro nessuno si pone il problema). Chi sostiene che un dato lo avrà il governo e un altro l’Anm. Chi guarda lo smartphone e dà i numeri: “A Siena oltre il 90%”. “A Milano quasi tutti”. Maruotti, dal palco, offre la versione ufficiale: “Siamo tra il 75% e l’80%”. Il dato preciso al millimetro uscirà dal ministero di via Arenula solo nella tarda mattinata di oggi, ma il punto politico è già chiaro: rispetto all’ultima astensione, quella contro la riforma Cartabia, nel 2022, si può legittimamente parlare di successo. Del resto allora la partecipazione si fermò a un tremendo 48%. C’erano gli strascichi dello scandalo Palamara a inquinare l’aria. Altri tempi, molto peggiori di questi, per la magistratura organizzata. Ad essere molto peggiore, stavolta, è la riforma. La custodia cautelare per associazione dedita allo spaccio non scatta per presunzione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2025 L’adeguatezza della misura di massima limitazione personale può però emergere da altri fattori quali il rischio di mantenimento dei rapporti “illeciti” con i consociati se il soggetto venga ammesso ai domiciliari. In caso di indagato per associazione dedita al traffico di stupefacenti non scatta la presunzione che la custodia cautelare sia la misura personale più adeguata a prevenire la commissione di nuovi reati, in assenza di radicamenti di stampo mafioso. Non si applica cioè la presunzione, recata dal comma 3 dell’articolo 275 del Codice di procedura penale, prevista per il reato dell’articolo 416 bis del Codice penale, che persegue l’associazione di stampo mafioso. La Cassazione ha però respinto le doglianze contro la misura cautelare carceraria avanzate dal ricorrente, indagato per la partecipazione ad una rete organizzata per lo spaccio di droga. Infatti - come spiega la sentenza n. 7737/2025 - al ricorrente erano stati negati gli arresti domiciliari, ma non per l’errata applicazione della presunzione prevista per le associazioni di stampo mafioso, bensì per l’inadeguatezza della misura domiciliare richiesta e rifiutata. L’indagato aveva interposto appello con esito negativo e quindi ha fatto ricorso per cassazione lamentando un’erronea applicazione della suddetta presunzione e la mancata considerazione dell’ampio lasso di tempo trascorso tra i fatti imputati e l’adozione della misura personale restrittiva. Per la Cassazione non è rilevabile l’errore dei giudici di appello, in quanto non è in base al comma 3 dell’articolo 275 del Cpp che essi hanno confermato la custodia in carcere, bensì in base alla circostanza che nel domicilio del ricorrente convivessero ancora i figli con i quali era coimputato del reato ascrittogli. Ciò avrebbe determinato la possibilità di proseguire/reiterare il reato associativo attraverso la relazione con i familiari che non erano stati colpiti da misure restrittive. Infine, la Cassazione esclude l’esistenza di un obbligo per il giudice di dare rilevanza all’ampiezza del tempo trascorso - prima della sottoposizione alla restrizione in carcere - come elemento automaticamente indicativo di una diminuita pericolosità sociale o di ravvedimento del soggetto. Giudizio abbreviato, intercettazioni utilizzabili anche se la motivazione è secretata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2025 Lo ha chiarito la Cassazione, sentenza n. 7647/2025, aggiungendo che la possibilità di eccepire la compressione del diritto di difesa esiste a fronte di un interesse processuale meritevole di tutela. In tema di indagini preliminari, la Cassazione (sentenza 7647/2025) ha affermato che la possibilità di secretare singoli atti attribuita al pubblico ministero (dall’art. 329, co. 1, Cpp) a tutela della segretezza dell’attività investigativa in corso di svolgimento, esclude che la formazione di atti probatori in parte secretati ne comporti l’inutilizzabilità in sede di giudizio abbreviato, ferma restando la facoltà dell’imputato di eccepire la compressione del diritto di difesa derivante dalla mancata piena conoscenza degli atti secretati, ove deduca un interesse processuale meritevole di tutela. La causa riguardava diversi imputati coinvolti in un procedimento per traffico di droga. L’eccezione comune sollevata da tre degli imputati riguardava l’inutilizzabilità e/o nullità delle intercettazioni disposte in altri procedimenti ed utilizzate ex art. 270 Cpp come prove a carico degli imputati. La doglianza, in particolare, verteva sul fatto che i decreti di autorizzazione erano privi di motivazione perché omissata ai sensi dell’art. 329, comma 3, Cpp, ragion per cui le difese degli imputati nel corso del primo grado, svoltosi con il rito abbreviato, non erano state messe in grado di valutare la legittimità dei decreti autorizzativi, divenuti del tutto ostensibili (anche con i motivi in precedenza soggetti ad omissis) solo nel giudizio di appello a seguito della produzione dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma. In altre parole, le difese hanno lamentato, sotto diversi profili, la compressione del diritto di difesa, quantomeno nel giudizio abbreviato, in relazione alle prove acquisite da altri procedimenti penali che sarebbero state decisive ai fini della sentenza di condanna, a nulla valendo la successiva produzione in appello in quanto tardiva rispetto ai termini per la produzione di atti nel giudizio abbreviato. Per la II Sezione penale, correttamente i giudici sia di primo che di secondo grado hanno rigettato le diverse eccezioni richiamando il principio secondo cui: “L’obbligo di deposito, a pena di inutilizzabilità, contestualmente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, degli atti relativi alle intercettazioni telefoniche effettuate nel corso delle indagini a carico dell’imputato trova espresso riconoscimento normativo nell’art. 268, co, 4, 5 e 6, Cpp, incontrando un limite nell’esercizio legittimo del potere di secretazione degli atti attribuito all’organo inquirente dall’art. 329, comma 3, cod. proc. pen., nei casi in cui l’ostensione al difensore dell’indagato dei risultati dell’attività captativa sia idonea a pregiudicare le indagini ancora in corso nei confronti di altri soggetti o dello stesso imputato, ma per altri reati, in relazione ai quali le investigazioni non siano ancora concluse e risultino tuttora soggette all’obbligo del segreto” (n. 22164/2017). La possibilità di secretare singoli atti, attribuita espressamente all’organo inquirente dall’art. 329, comma 3, cod. proc. pen. a tutela della segretezza delle indagini in corso, argomenta la Cassazione, “esclude in radice che si sia in presenza di prove assunte in violazione di legge, risultando perciò infondata sotto questo profilo l’eccezione di inutilizzabilità del contenuto delle intercettazioni indicate dai ricorrenti, che, senza dubbio, furono autorizzate legittimamente nei diversi procedimenti penali in cui furono disposte”. Del resto, osserva la sentenza, le difese non hanno mai eccepito che si trattasse di intercettazioni illegali, perché non autorizzate o effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Quanto alla possibile sussistenza di profili di nullità ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen., per la Corte “va sottolineato che nel giudizio di appello le difese hanno potuto vagliare integralmente i decreti autorizzativi in precedenza omissati, senza però eccepire in quella sede alcuna violazione delle norme processuali in materia di intercettazioni”. Le deduzioni poste dalle difese, conclude sul punto, sono, perciò, infondate anche in ragione del fatto che la pienezza del diritto di difesa si era, per così dire, “riespanso” nel giudizio di appello. Mentre la riproposizione della questione in sede di ricorso per cassazione non può essere accolta perché i ricorrenti non hanno dedotto un interesse processuale meritevole di tutela. Se anche i difensori, aggiunge la Corte, avessero potuto accedere, già nel corso del giudizio abbreviato, ai decreti autorizzativi senza gli omissis, non avrebbero potuto sollevare alcuna eccezione relativamente alla legittimità delle intercettazioni, “poiché esse erano state autorizzate nei limiti fissati dal codice di rito ed acquisite nel rispetto dell’art. 270 cod. proc. pen. Non a caso, all’esito della “pur tardiva discovery, nessuna doglianza è stata in proposito formulata”. Le odierne eccezioni, conclude la Cassazione, risultano, pertanto, sollevate in assenza di un effettivo interesse processuale, “come ricostruito dalla Suprema Corte in termini di concreto interesse volto a rimuovere una situazione di pregressa illegalità processuale”. Ivrea. (To). Nel carcere grande sovraffollamento, scarsissimo lavoro di Francesco Curzio rossetorri.it, 28 febbraio 2025 Le proposte e le criticità emerse nella seduta del Consiglio Comunale. Quando la realtà viene maldestramente nascosta da belle parole prima o poi trova il modo di saltare fuori. E come in un classico prison movie alla fine della seduta del Consiglio Comunale in carcere la realtà ha fatto irruzione costringendo consiglieri e giornalisti a restare chiusi nel salone e poi a essere scortati fuori mentre urla, rumori metallici e sirene impazzavano e i rinforzi della Polizia Penitenziaria arrivavano per sedare quella che sembrava essere, e poi è stato confermato, una rivolta. Nella sala polivalente della casa Circondariale, di volta in volta cappella, sala teatro o proiezione, incontri, oltre a Sindaco e consiglieri comunali, erano presenti solo la Direttrice Alessia Aguglia, le responsabili dei corsi di istruzione e professionali, il responsabile sanitario, il Comandante dei Carabinieri e una sparuta rappresentanza dei detenuti, 4 cioè uno per piano, con esclusione dei collaboratori (che hanno fatto avere al Sindaco una lettera). Presenti inoltre il Garante Orso Giacone e Armando Michelizza a rappresentare la Associazione Volontari Penitenziari (AVP) Tino Beiletti. Palpabile lo sconcerto dei consiglieri per il mancato confronto con un numero più alto di detenuti e per la assenza di operatori dell’area trattamentale (educatori) e della Polizia penitenziaria, anche se tutt’ora manca di Comandante. Le prime “belle parole” erano state quelle della Direttrice, in carica da poco più di un anno, che dopo aver ringraziato il Consiglio Comunale per l’interesse della Città verso la Casa ha rivendicato il proprio ruolo di “garante della Costituzione”, e quindi ha iniziato ad elencare le attività svolte in carcere. Dai corsi di istruzione affidati al CPIA 4 (centro Provinciale istruzione Adulti) di Chivasso, a quelli professionali curati dalla Casa di Carità che coinvolgono detenuti di diversi piani che normalmente invece vivono separati. Tra le attività svolte anche l’attività teatrale, sempre tramite il CPIA 4 e la redazione del giornale L’Alba. Vi sono inoltre iniziative per aiutare la genitorialità (eventi di compresenza di detenuti genitori con i figli) e si sta aumentando i numeri degli educatori, ora 3 su 4 previsti, mentre gli psicologi continuano a essere solo 2 (su una capienza ormai di 260 detenuti). Le maggiori criticità sono sul versante del lavoro, poco, e della sanità, anche se la ASL promette di trovare medici disponibili entro giugno. Non una parola per la redazione del giornale La Fenice, attiva da sei anni, evidentemente non ritenuto dalla Direttrice una “cosa buona”, visto che l’ha chiusa di punto in bianco senza motivazioni nè chiare nè comprensibili, quindi tutte ancora da verificare. Altre belle parole sono arrivate dall’assessora Colosso che ha ricordato lo sportello lavoro curato da Sinapsi e Cooperativa Mary Poppins con fondi regionali, i pochi posti (2) di cantieri di lavoro, altri pochi (2) di volontariato all’esterno, altri pochi (8) di lavori di pubblica utilità. Più disincantato l’intervento del Garante Orso Giacone che ha ricondotto la diffusa disperazione presente nelle carceri italiane alla indifferenza a livello governativo a problemi che esistono da molto tempo e non vengono affrontati, primo tra tutti il sovraffollamento. Dal lato della politica non vi sono indicazioni nè in questo senso né in generale su come migliorare la situazione della detenzione e tutto ciò porta alla perdita della speranza nella popolazione detenuta. Unica voce del mondo del volontariato che agisce all’interno delle carceri ammessa a parlare è stata quella di Armando Michelizza, dell’AVP Tino Beiletti, (associazione che aveva presentato un proprio documento ai consiglieri che ha scelto poi di non leggere in aula) che ha fortemente richiamato l’attenzione delle istituzioni sulla grave carenza di possibilità di lavoro e più in generale di un processo di reinserimento nella società per chi esce dal carcere, come peraltro richiederebbe la normativa vigente. Ora solo 10 persone ogni giorno, su 260 detenuti, escono per lavorare all’esterno, pensare di raddoppiare il numero sarebbe già un segnale positivo, ha affermato Michelizza. Al termine la maggioranza ha presentato una mozione che in 13 punti impegna il Sindaco e la Giunta a sostenere il Terzo Settore nel promuovere percorsi di inclusione e socializzazione delle persone detenute, attraverso attività culturali, ricreative, sportive, e opportunità formative, la cura dell’affettività e il ricorso alla giustizia riparativa, promuovere e sostenere le attività dell’UEPE (Ufficio per la esecuzione penale esterna), prevedere una relazione annuale sulle iniziative promosse coinvolgendo anche i parlamentari del territorio e i rappresentanti del Governo. Anche qui tante belle parole anche se l’effetto è quello della nutrita lista dei desideri che si enumerano senza considerarne la realizzabilità. La mozione è stata approvata anche con l’emendamento proposto da Massimiliano De Stefano, consigliere di minoranza, che richiama l’attivazione del programma previsto dal Decreto 30 giugno 2000, n. 230, Art. 88: Trattamento del dimittendo, come richiamato da Michelizza: “Nel periodo che precede la dimissione, possibilmente a partire da sei mesi prima di essa, il condannato e l’internato beneficiano di un particolare programma di trattamento, orientato alla soluzione dei problemi specifici connessi alle condizioni di vita familiare, di lavoro e di ambiente a cui dovranno andare incontro”. A questo punto è chiassosamente intervenuta la realtà e i presenti, dopo una rapida chiusura del Consiglio e bloccati nella sala, fatti velocemente uscire. La sensazione finale è quella di un doveroso tentativo dell’Amministrazione pubblica di entrare in contatto con un mondo chiuso come quello degli istituti di pena e offrire un contributo per il miglioramento di alcune situazioni senza però trovare altrettanta disponibilità al confronto. Già l’organizzazione della seduta sembrava limitare più che favorire la partecipazione: solo un giornalista per testata e solo se iscritto all’Ordine, solo un detenuto per piano, solo un volontario, nessun operatore interno a parte la Direttrice. Certo è difficile chiedere proprio all’Istituzione carcere di offrire spazi di comunicazione e coinvolgimento, eppure in alcuni più fortunati casi è possibile, anche in Italia. Basta volerlo. Perché alla fine il malfunzionamento del carcere si riflette su tutti noi. Non sono solo i detenuti a scontare male la loro pena, sono anche gli operatori che lavorano all’interno del carcere a patire la situazione, gli agenti di Polizia i cui tassi di suicidio sono troppo alti, e più in generale tutti noi cittadini che accettiamo di perpetuare un circolo vizioso che porta malviventi a commettere crimini, passare in carcere, tornare in libertà senza alcuno strumento per restarci e quindi ricommettere crimini e così via. Le carceri modello esistono e funzionano, con un tasso di recidiva abbattuto dal 70 al 17 per cento. Ma in Italia invece si preferisce rispondere sempre con un bel aumento di pena e il problema, qualunque problema, sembra risolto. Vasto (Ch). “Casa di Lavoro, realtà barbara”. Al Teatro Rossetti una riflessione sulla giustizia di Emanuele Fiore zonalocale.it, 28 febbraio 2025 Mons. Bruno Forte: “Come si può trovare occupazione dietro quattro sbarre?”. Si è svolta ieri, al Teatro Rossetti di Vasto, la presentazione del libro “Un ossimoro da cancellare. Misure di sicurezza e Case di Lavoro”, scritto da Giulia Melani con i contributi di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa. Il titolo stesso del volume è un’inevitabile contraddizione che non lascia spazio a fraintendimenti: misure di sicurezza che, lungi dal garantire una vera reintegrazione nella società, finiscono per compromettere ogni possibilità di riscatto per chi ha scontato una pena. Le “case di lavoro”, infatti, oggi più che mai dovrebbero appartenere al passato, ma sono ancora una realtà viva e pulsante, a Vasto come in altre città. Non è una novità che il sistema penale italiano sia invecchiato, con misure che sembrano più un retaggio di tempi lontani che una risposta alle esigenze della giustizia contemporanea. Le “case di lavoro” sono un esempio lampante di un impianto giuridico che fatica a rinnovarsi e ad adattarsi ai tempi. A Vasto, una di queste realtà è ancora attiva. Sia il sindaco Francesco Menna che l’assessore alla Cultura Nicola Della Gatta hanno appoggiato con convinzione le tesi degli esperti intervenuti, poiché il fenomeno delle case di lavoro non è più una mera teoria giuridica, ma una condizione concreta che tocca da vicino la comunità. Nel corso della presentazione, i contributi degli esperti sono stati chiarissimi. Giulia Melani e i suoi relatori, tra cui il deputato Riccardo Magi (+Europa), primo firmatario della proposta di legge di modifica al Codice Penale (AC. n.158 del 13 ottobre 2022), hanno sottolineato l’urgenza di una riforma. Una riforma che non può più essere procrastinata, visto che le misure di sicurezza come quelle legate alle “case di lavoro” non solo non rispondono più alle necessità di un sistema penale evoluto, ma diventano esse stesse parte di un sistema di punizione che non ha alcuna ragione di persistere. Monsignor Bruno Forte, presente all’evento, ha definito queste strutture “barbare”, un giudizio netto che non ammette interpretazioni sulla gravità della situazione. Anche Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti della Regione Toscana, ha utilizzato un’espressione significativa per descrivere questo tipo di realtà, parlando di un “ergastolo bianco”, un concetto che racchiude tutta la disperazione di un sistema che non sa come rieducare o reintegrare, ma solo come escludere. Ed è proprio questo il cuore del problema. La riforma proposta da Riccardo Magi rappresenta una speranza concreta di cambiamento. Si tratta di un intervento legislativo che va nella direzione di un’umanizzazione del sistema penale, in cui la sicurezza non venga più intesa come una mera reclusione, ma come una vera e propria opportunità di reinserimento. Firenze. Detenuti a fine pena, Confcommercio al fianco delle imprese confcommercio.it, 28 febbraio 2025 L’Associazione fiorentina a sostegno del lavoro come riscatto sociale. Il direttore Franco Marinoni: “crediamo fortemente nella responsabilità sociale d’impresa”. Il lavoro come strumento di riscatto e reinserimento sociale: è con questo obiettivo che, con il supporto della Confcommercio fiorentina e la collaborazione dell’associazione Seconda Chance, il licenziatario McDonald’s di via Cavour a Firenze, Giuseppe Troisi, ha deciso di assumere due detenuti, offrendo loro una concreta opportunità professionale. Entrambi stanno concludendo un periodo di tirocinio organizzato da Fondazione Caritas con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, a conclusione del quale continueranno il loro rapporto di lavoro con il locale. Attualmente sono ospiti della struttura di Fondazione Caritas, il Samaritano, in permesso premio orario o temporaneo di qualche giorno. Ma dal prossimo 15 aprile uno dei due sarà accolto dalla stessa struttura in Misura Alternativa alla Detenzione. L’iniziativa di inserimento lavorativo fa parte di in un percorso più ampio di promozione delle buone pratiche nel settore del terziario. “Avevo sentito di un’esperienza analoga realizzata da un collega in Sardegna - ha raccontato Giuseppe Troisi - così ho deciso di replicarla qui a Firenze, attivandomi con Seconda Chance e Fondazione Caritas per individuare due detenuti prossimi alla scarcerazione che avessero voglia di rimettersi in gioco. Dopo un’attenta selezione e alcuni colloqui, da due settimane sono in staff nel nostro punto vendita; lavorano di giorno rientrando in carcere la sera. Sono volenterosi e pieni di entusiasmo, sanno che si tratta di una bella opportunità. Diffidenze? Prima del loro arrivo c’era qualche preoccupazione tra gli altri dipendenti, dettata più da pregiudizi che da altro, ma conoscerli ha dissipato ogni dubbio”. “Crediamo fortemente nella responsabilità sociale d’impresa - ha spiegato il direttore di Confcommercio Toscana, Franco Marinoni - per questo sosteniamo l’iniziativa, come esempio concreto di impresa generativa che chiunque potrà seguire, se lo vuole, contattando l’associazione Seconda Chance, con cui Fipe Confcommercio ha firmato un protocollo d’intesa nazionale. Non è la prima volta che ci collaboriamo: nei mesi scorsi abbiamo patrocinato un corso di ristorazione per detenute nel carcere di Sollicciano, coinvolgendo chef celebri del panorama fiorentino come docenti. Un impegno costante, volto a favorire il reinserimento lavorativo e a dimostrare come il terziario possa essere un motore importante di inclusione e riabilitazione contribuendo attivamente alla crescita del territorio e al futuro di chi cerca una seconda possibilità. Un modello virtuoso che può e deve essere replicato”. “Il lavoro ai detenuti fa bene anche agli imprenditori che li assumono”, ha aggiunto Stefano Fabbri, della no profit Seconda Chance, che dal 2022 opera su tutto il territorio nazionale per dare opportunità di lavoro a detenuti, organizzando il loro incontro diretto con veri e propri colloqui di lavoro con le imprese, grazie anche al protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “La legge Smuraglia - ha spiegato Fabbri - offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Ma soprattutto sempre più imprese grandi e piccole partecipano ai nostri progetti perché convinte di svolgere un importante ruolo per tutta la società. I dati Cnel parlano chiaro: il rischio di tornare a compiere reati riguarda 6 detenuti su 10, ma tra coloro che trovano lavoro la percentuale può scendere al 2%”. “Progetti come questo - ha infine concluso l’assessore al Welfare del Comune di Firenze, Nicola Paulesu - vanno nella direzione giusta, quella di promuovere un reinserimento lavorativo come leva per la costruzione del proprio futuro. Come amministrazione siamo impegnati per mettere a sistema tutte le realtà come questa con un tavolo dedicato proprio alle tematiche del carcere per fare rete e provare sempre di più a condividere proposte progettuali. Un sempre maggiore coordinamento è un’azione fondamentale per provare a dare risposte concrete sul fronte della situazione carceraria”. Torino: “Ricomincio da me”, percorso di formazione in carcere con Corporate Academy Bosch italpress.it, 28 febbraio 2025 Un percorso di formazione all’interno della Casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino per favorire la crescita personale e professionale dei detenuti e facilitarne l’inserimento nel mondo del lavoro e, in particolare, nel settore della climatizzazione residenziale. Questo l’obiettivo della terza edizione di “Ricomincio da me”. Il progetto è stato ideato dalla Corporate Academy Bosch Tec, in collaborazione con Seconda Chance, un’associazione del Terzo Settore impegnata, con il supporto del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), nel reinserimento sociale dei detenuti. Partner dell’iniziativa sono Gi Group, e LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners. Quattordici detenuti del carcere di Torino hanno avuto così la possibilità di seguire un corso di formazione della durata di 82 ore per acquisire non solo nozioni tecniche, ma anche soft skills utili per la propria crescita personale. Nelle prossime settimane, i partecipanti verranno inoltre coinvolti in una sessione orientamento al lavoro a cura di Gi Group che permetterà loro di apprendere come scrivere un curriculum vitae efficace e sperimentarsi in un colloquio di lavoro. Il progetto “Ricomincio da me” vuole restituire fiducia e motivazione a coloro che non sono inseriti nella società educativa, formativa e produttiva, fornendo gli strumenti utili per acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacità e agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro, per costruire un nuovo futuro ricominciando da se stessi. Treviso. “Rieducare o punire?”: domani il convegno dedicato al carcere minorile di Treviso trevisotoday.it, 28 febbraio 2025 L’appuntamento alle 16 all’auditorium del Museo di Santa Caterina. In mattinata visita nella struttura di Nessuno Tocchi Caino e dei Radicali di Venezia con alcuni consiglieri comunali di minoranza. Per i cittadini di Treviso il carcere e? qualcosa di sconosciuto, quasi un tabu? di cui non bisogna parlare, non e? roba nostra. La percezione dei trevigiani sul tema carcere e? molto annebbiata e legata a certi luoghi comuni sulla questione della pena, granitici da sfatare. “Mesi fa sono intervenuta in consiglio comunale sulla grave emergenza del carcere sovraffollato, dopo una visita alla casa circondariale, organizzata da Nessuno Tocchi Caino, per sostenere e pubblicizzare la figura del garante dei detenuti Lorenzo Gazzola” ha spiegato Carlotta Bazza, consigliera comunale del Pd “Questa Amministrazione ha senz’altro il merito di aver nominato un Garante, che pero? va aiutato, oltre che dal punto di vita pratico, dandogli le condizioni necessarie per poter svolgere il suo incarico cosi? importante e delicato - sede, telefono, rimborsi…-, anche organizzando eventi per sensibilizzare l’opinione pubblica al problema che comunque tocca molte famiglie, mogli, mariti, figli, compagni, compagne delle persone che scontano una pena. A seguito del mio intervento e? stato istituito un “tavolo carcere “su modello di quello di Venezia, in cui saranno presenti tutte le persone che ricoprono ruoli istituzionali e informali - volontari ecc. - all’interno del carcere. Questa decisione, ha sveltito l’iter delle richieste espresse dal Garante nella sua relazione, amplificando la sua voce in consiglio comunale. Mi auguro che vengano ora creati i contatti mail per comunicare con il Garante e che si applichi un rimborso spese, comunque previsto dal regolamento, per sostenere la sua attività”. “Facendo seguito a questi primi passi, ho ritenuto poi necessario organizzare un incontro pubblico per sensibilizzare la cittadinanza sui gravi problemi delle carceri, grazie anche alla disponibilita? dell’associazione Nessuno Tocchi Caino e ai Radicali di Venezia, che hanno organizzato per il prossimo sabato 1 marzo, alla mattina, una visita nel Carcere minorile di Treviso, in cui saranno presenti alcuni rappresentanti dei Consiglieri comunali di minoranza di Treviso” continua Bazza “Sempre il sabato 1 marzo, nel pomeriggio, alle 16.00, presso l’Auditorium di Santa Caterina di Treviso, ci sarà un incontro pubblico che avrà come tema principale l’Istituto Penale Minorile di Treviso, affrontato dal punto di vista di chi ci lavora all’interno. In questo modo vogliamo dare una fotografia della situazione dell’istituto fedele alla realtà, facendo emergere le criticità e i bisogni. Sara? un momento di informazione e formazione per i cittadini, in cui potranno rendersi conto che a 2 km di distanza dal centro storico della impeccabile e linda Treviso, c’e? un luogo che dovrebbe avere come finalità primaria rieducare, e non di punire, il detenuto, come appunto viene sottolineato nel titolo di questo convegno. E sappiamo che la situazione nell’istituto minorile di Treviso, il più sovraffollato d’Italia, e? di forte criticità, per usare un eufemismo”. I relatori del convegno saranno il garante dei detenuti di Treviso, Lorenzo Gazzola, la direttrice dell’Istituto penale minorile Barbara Fontana, il cappellano dell’Istituto minorile Don Otello Bisetto, Luca Bosio, polizia penitenziaria e delegato Funzione Pubblica Cgil Treviso, insieme ci descriveranno la situazione del nostro carcere, dopo di che ascolteremo la grande esperienza di chi ha fatto di questi temi una ragione di vita, come Rita Bernardini (Presidente Nessuno Tocchi Caino), Sergio D’Elia (Segretario Nessuno Tocchi Caino), Elisabetta Zamparutti (Tesoriera Nessuno Tocchi Caino) e Enrico Marignani (Presidente Unione Giuristi cattolici di Treviso) che ci parlerà della giustizia riparativa. Non manchera? il punto di vista dell’eurodeputata del PD Alessandra Moretti, che sarà con noi nella visita e per tutta l’iniziativa. Infine, Il porterà i suoi saluti il Segretario provinciale del PD Giovanni Zorzi. “Stiamo valutando di invitare il ministro Nordio che potrebbe darci di persona una risposta alle gravi criticità? dell’Istituto penale minorile della sua citta?” chiude Carlotta Bazza. Asti. Presentato il libro “Una penna per due mani” scritto da studenti e detenuti lanuovaprovincia.it, 28 febbraio 2025 Ieri nella casa di reclusione di Quarto la tappa finale del percorso che ha coinvolto due classi del liceo Monti. Si intitola “Una penna per due mani” ed è un libro caratterizzato da una doppia copertina, che introduce a pagine ricche di riflessioni, ricordi, emozioni e pensieri. Da un lato a firma di un gruppo di studenti del liceo Monti (classi VUA e V UC del liceo Scienze umane, anno scolastico 2023/2024), dall’altro di un gruppo di detenuti della casa di reclusione di Quarto. Sì, perché il volume, pubblicato da Team Service Editore, è il risultato di un percorso di studio, che ha coinvolto gli studenti, inerente alle principali teorie della devianza e agli incontri con le diverse figure dell’area trattamentale (educatori, garanti, poliziotti penitenziari). Un percorso che ha compreso, oltre alle classiche lezioni frontali a scuola, anche la partecipazione allo spettacolo “Fine pena ora” nel teatro del carcere e ad incontri con i detenuti. La presentazione - A presentare il libro, ieri (mercoledì) nel teatro della Casa di reclusione, Beppe Passarino, volontario dell’associazione Effatà, che opera all’interno della struttura penitenziaria, insieme al comandante del personale in servizio nella casa circondariale, il commissario capo della Polizia penitenziaria Leonardo Colangelo, al dirigente del liceo Monti quando il progetto era partito, Giorgio Marino, affiancato dalla professoressa Lombardi che ha seguito i ragazzi nel percorso, e alla nuova dirigente della scuola, Claudia Cerrato. Presenti, tra gli altri, il Questore di Asti, Marina Di Donato, studenti e detenuti protagonisti del percorso. “Il libro - ha spiegato la professoressa Lombardi - presenta una doppia linea di lettura. Tra le due parti, scritte da detenuti e ragazzi, c’è una precisa correlazione. Infatti ad ogni pagina di una sezione corrisponde nell’altra, in modo speculare, un testo analogo per stile espositivo e tema affrontato. Le due letture convergono nelle pagine centrali, precisamente in due disegni, che rappresentano una camera arredata con cura e una cella disadorna”. Il percorso - La docente ha quindi raccontato la reazione degli studenti e dei detenuti. “In occasione del primo incontro, al termine della visione dello spettacolo teatrale “Fine pena ora” - ha affermato - i ragazzi apparivano impacciati e timorosi, mentre i detenuti mostravano una sorprendente disinvoltura e un forte desiderio di condividere i loro stati d’animo. Col passare del tempo, l’iniziale distanza tra i due gruppi ha cominciato a ridursi. Particolarmente toccante, in tal senso, è stato l’ultimo incontro del 23 aprile, quando studenti e detenuti, scambiandosi i testi che avevano scritto a mano, si sono potuti confrontare su fatti di attualità ed esperienze personali, anche molto drammatiche. Un momento che dimostra come sia possibile, oltre che doveroso, appropriarsi di uno spazio solitamente isolato dalla città affinché i detenuti, grazie ad una relazione costante e costruttiva con il mondo esterno, possano riappropriarsi della loro vita, anche se condannati all’ergastolo”. Molto soddisfatto Beppe Passarino, che ha annunciato la decisione di presentare il volume in altre tre occasioni (nella maggior parte dei casi in date da definire): alla Biblioteca Astense, a FuoriLuogo e al Salone internazionale del libro di Torino, il 18 maggio a Lingotto Fiere, all’interno dello stand del Centro servizi per il volontariato Asti Alessandria. In occasione dell’incontro è stato anche proiettato un video, a cura degli studenti del “Monti” che stanno frequentando il laboratorio di Produzione video tenuto da Alessio Mattia, incentrato su interviste a funzionari della Polizia penitenziaria e sulle opinioni di studenti e detenuti in merito al progetto che li ha coinvolti. Nel primo caso sono emersi spesso i concetti della necessità dei detenuti di riscoprire la loro identità, chi sono e cosa vogliono fare nella vita. “Mi aveva colpito - ha affermato un funzionario - un detenuto proveniente dalla criminalità organizzata, che mi aveva detto che in carcere aveva trovato la libertà di non uccidere”. Da parte dei protagonisti, poi, è risultata frequente una considerazione che accomuna studenti e detenuti, ovvero la necessità di trovare un posto nel mondo e di cercare l’indipendenza. I ragazzi, inoltre, si sono dichiarati soddisfatti del percorso svolto, giudicato “un’esperienza unica, profonda, che ha instillato la consapevolezza dell’importanza di consentire la riabilitazione dei detenuti”. Armando Punzo. La voce libera dei carcerati è arrivata fino a Mattarella di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 febbraio 2025 Il drammaturgo e regista, fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza di Volterra, ha ricevuto dal capo dello Stato Sergio Mattarella l’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. “È facile che le persone dicano, di me: “lui si è dedicato ai detenuti in carcere”. No, io mi sono dedicato soprattutto a un’idea di libertà, a un’idea di potenza, della forza eventuale dell’arte. Di un’arte che esce dai luoghi canonici ed entra in dei luoghi non canonici”. Fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza di Volterra, Armando Punzo, drammaturgo e regista, è appena stato insignito dell’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana dal Presidente Sergio Mattarella. “Un giorno ho pensato che avrei potuto mettere alla prova l’arte, il teatro, a confronto con una realtà che io, in maniera ingenua, pensavo un luogo difficile, un luogo che non avesse niente a che vedere con l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza”. Da quel giorno sono passati 37 anni. La Compagnia della Fortezza nasce come progetto di laboratorio teatrale nella casa di reclusione di Volterra nell’agosto del 1988, a cura dell’associazione culturale Carte Blanche e con la direzione di Armando Punzo. Partiamo dall’inizio. Come ha cominciato a fare teatro in carcere? Una volta, per mettere un punto a questa mia storia, ho avuto bisogno di fare un libro dal titolo Un’idea più grande di me, scritto con Rossella Menna (Luca Sossella editore), dove ho ripercorso tutti questi anni e i motivi di questo lavoro. Scrivere questo libro è stato un momento importante, mi sono confrontato con me stesso, mi sono chiesto perché effettivamente io fossi entrato in un carcere. A distanza poi di tanti anni, mi sono fermato e ho dovuto riflettere su questa cosa. Non c’è niente da fare: il motivo è artistico. Per me era impensabile, 37 anni fa, pensare ai temi, che oggi si dicono, del “teatro sociale”, della “rieducazione”. Io ero un giovane artista che stava cercando la sua strada, il motivo per cui sono entrato all’interno del carcere era per risolvere una mia questione prettamente artistica. Sicuramente non sono andato lì per il carcere, non sono andato lì per i detenuti, per come si potrebbe intendere oggi. A una parte di persone non piace, questa idea. Perché? Sembra troppo creativa, troppo particolare. A molti piace di più l’idea che ci sia una persona che è entrata in un posto, che è andata a dedicare la sua vita alle persone che hanno delle difficoltà, che vivono fragilità sociali e personali. Io capisco che c’è questo tipo di afflato, in questa direzione, però non è stato il mio motivo. E, secondo me, è stata la grande fortuna di questa esperienza, messa al riparo dalla retorica. E anche dalle buone intenzioni, che a volte non hanno uno sguardo reale sulle situazioni di cui si occupano. È facile che le persone dicano, di me: “Lui si è dedicato ai detenuti in carcere”. No, io mi sono dedicato soprattutto a un’idea di libertà, a un’idea di potenza, della forza eventuale dell’arte. Di un’arte che esce dai luoghi canonici ed entra in dei luoghi non canonici. In questo, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Ci spieghi meglio... Io entro nel solco di una serie di artisti, di correnti, penso al neorealismo nel cinema, fondamentalmente, che è la cosa che più mi ha ispirato, mi ha dato da pensare. Se penso a Ladri di biciclette o altri film, con attori presi dalla strada, dove c’è un regista che usa degli attori non professionisti, in vista di un risultato artistico, non in vista di chi era in quel momento l’attore che lavorava con lui. Come è entrato in carcere, la prima volta? Il carcere mi ha affascinato 37 anni fa. Io venivo da letture che mi avevano avvicinato al teatro, come quelle di Gurdjieff, dove l’idea dell’uomo come prigioniero, in quanto essere non consapevole di se stesso, è qualcosa che mi aveva toccato molto e mi aveva fatto avvicinare al il teatro. Ero a Volterra, era finita un’esperienza importante con il Gruppo internazionale L’Avventura. Dovevo decidere cosa fare da grande. Ho visto il carcere per la prima volta, ho alzato gli occhi, non ci avevo mai pensato, non ne sapevo. Un giorno ho pensato che avrei potuto mettere alla prova l’arte, il teatro, a confronto con una realtà che io, in maniera ingenua, pensavo un luogo difficile, un luogo che non avesse niente a che vedere con l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza: tutti questi termini che tante volte vengono utilizzati, sempre di più. Non volevo fare altro, non volevo tornare nei teatri, non volevo lavorare con gli attori professionisti. Avevo una serie di limiti che mi ero posto perché non mi interessava. Questo è il motivo per cui io sono entrato nel carcere. Poi tutto è diventato mille volte più interessante, più complesso, pieno di sfaccettature, di ricchezza, incredibili come esperienza. Infatti sono ancora lì dopo 37 anni. Perché tutto “è diventato mille volte più interessante”? Non conoscevo la realtà all’interno del carcere. Per prima cosa, ho scoperto una comunità intera di napoletani, io sono napoletano. Ho conosciuto delle persone con delle difficoltà sociali e ho cominciato a capire che, in un carcere, ci sono persone che hanno sicuramente compiuto azioni e atti, ma dietro questo c’è anche una questione sociale importante. Molte persone sono quasi a un livello di analfabetismo, vengono da livelli veramente poveri, socialmente e culturalmente. Poi scoprii che non c’era solo Napoli, non c’era solo la Calabria, non c’era solo Roma, non c’era solo la Sicilia. Il Nord c’era pochissimo. E c’era anche il Sud del mondo. Mi sono reso conto che nel carcere c’era tutto il Sud del mondo. E questo mi raccontava tanto. Cominciò ad essere interessante il fatto di parlare di teatro, della libertà dell’attore, di lavorare su delle improvvisazioni stando dentro una cella, che è fatta per costringere le persone. Era inevitabile ragionare su una questione. Quale? Eravamo uno spazio di libertà o uno spazio di costrizione? Questo luogo fisico, architettonico che ci conteneva era in quel momento uno spazio di libertà massima (quello che è quando si fa teatro) o il massimo di reclusione? Questa contraddizione l’ho trovata estremamente straordinaria, Tutto devo dire a favore soprattutto dell’arte e del teatro. Con il tempo mi sono reso conto che dava dei grandissimi risultati. Quali risultati? Alla fine ho scoperto che il teatro si è arricchito, ha potuto scoprire attraverso me delle potenzialità enormi, che erano fatte proprio di questo rapporto strettissimo con una realtà che nega la tua esistenza, la tua possibilità. Faceva questo e ancora oggi è così. Il carcere nega il tuo dna, la tua esistenza, la tua filosofia, è fatto proprio all’opposto rispetto al teatro. Il rapporto tra questi due opposti è qualcosa di straordinario. Quante persone che ha incontrato in carcere poi sono diventate veramente attori? Pensare ai risultati è importante, un nome è quello di Aniello Arena, è diventato attore di cinema, aveva l’ergastolo, ormai da diversi anni ha finito di scontare la sua pena e vive del suo lavoro. Ma al di là dei risultati, mi colpisce quelli che sono stati tutti gli slanci vitali che ho visto nelle persone che hanno frequentato il teatro. Cioè, tutte le volte che delle persone sono emerse da se stesse, hanno avuto l’opportunità di tirarsi fuori dal luogo, dalla biografia, dalla storia, da quel momento, da quell’ora, da quel secondo, da quella che è veramente la loro vita, che fosse una vita di 30 anni, di 40 anni, di 20 anni. Di slanci vitali proiettati verso un futuro luminoso, straordinario, libero, meraviglioso ne ho visti tantissimi, e ancora io lavoro e vedo questo nelle persone: è quello che mi interessa perché è quello che il teatro deve fare. Il teatro deve creare opportunità non ai detenuti, ma agli attori, a noi come essere umani. Deve creare l’opportunità di avere degli slanci vitali, intesi come ciò che ci allontana da quello che è una quotidianità, dal nostro io più ordinario, che è la vera prigione per tutti quanti noi. Poi non tutti hanno l’opportunità di poter proseguire un cammino del genere. Questo è un fatto che dipende tante volte non da loro, ma dalla società fuori, dalle condizioni economiche e dalle diverse difficoltà. So che moltissime persone in questi anni hanno assaporato questa esperienza. Come l’hanno fatta e la fanno tantissimi attori che lavorano in tutto il mondo. Quante persone lei ha seguito in questi 37 anni? Saranno un migliaio, io sono lì tutti i giorni. Il mio studio d’artista sta in un carcere, per me è normale stare lì sempre. Io sto lì anche quando non ci sono fisicamente: il mio posto è quello, il mio vero luogo è lì. Ci sto tutto il tempo che mi è possibile starci perché ho bisogno di quello, abbiamo bisogno di lavorare. Cosa ha pensato quando le hanno detto che sarebbe stato premiato con l’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana? La prima cosa che ho pensato è che il mio riconoscimento serve alle esperienze che sono fuori dal coro. L’esperienza della Compagnia della Fortezza è sicuramente fuori dal coro. Allo stesso tempo, mi ha colpito perché facilmente si pensa che quelle che sembrano delle esperienze di nicchia, che interessano solo a pochi, se fatte e condotte in profondità nel tempo, con ostinazione, con abnegazione, con passione, con intensità, arrivano agli altri. Io mi sono sentito molto onorato, soprattutto dal presidente Mattarella, che reputo una persona di grande equilibrio, una brava e ottima persona: questo comunica, standogli anche per pochi minuti vicino. Il fatto che sia stata notata questa esperienza crea una speranza. Secondo me è un indicatore per tutte le voci fuori dal coro che alla fine, alla lunga, il proprio lavoro viene riconosciuto anche dallo Stato, dalle cariche più ufficiali. Questo è un aiuto e, secondo me, è un ottimo e straordinario risultato. Nelle carceri ci sarebbe molto bisogno di attività come il teatro, ma non sempre è possibile che vengano realizzate... Sarebbe falso dire che non ci sono attività nelle carceri, secondo me bisogna prenderla da un altro punto di vista: bisogna vedere quanto le attività vengano messe nelle condizioni di dare il meglio dei risultati che potrebbero dare, quanto le istituzioni ci credano davvero e mettano nelle condizioni di operare al meglio. Questo forse è un problema, ci sono dei grandi limiti, un bel po’ di attività sono fatte all’esterno dell’istituto di pena. Il teatro, per la nostra esperienza, è stato un apripista. Il carcere di Volterra rimane all’avanguardia anche per altre attività che sono arrivate dopo. Il teatro ha “aperto”, non si è fermato a se stesso, ha aperto la strada a molti altri attività all’interno del carcere. C’è un progetto che noi sviluppiamo, che era anche menzionato nell’Onorificenza che mi è stata conferita dal capo dello Stato Mattarella. Quale progetto? Per Aspera ad Astra, progetto di rete promosso da Acri e sostenuto da 12 fondazioni di origine bancaria in corso oggi in 16 carceri italiane, dal Nord al Sud Italia, che realizza percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Nato come progetto pilota, adesso siamo all’ottava edizione. È un modo e un’indicazione di come si dovrebbe operare, che la Compagnia della Fortezza ha sempre praticato e che stiamo esportando come una modalità che può, se ci sono le condizioni, dare straordinari risultati, su tutti i fronti. Quei 7mila diciottenni abbandonati dallo Stato: “Agevolando” li aiuta di Micaela Romagnoli Corriere della Sera, 28 febbraio 2025 L’impegno dell’associazione Agevolando di Bologna per i ragazzi diventati maggiorenni e senza più tutele dallo Stato. La storia di Margarette, costretta a essere adulta da bambina. “Tutti gli anni Novanta li ho vissuti in una comunità per minori, quando ci sono entrato ero un bimbo di 10 anni. È stata un’esperienza forte, faticosa, significativa. Mio padre non c’era, mia mamma era tossicodipendente”. Federico Zullo è stato un care leaver e ha rischiato di essere uno di quelli, tra migliaia, di cui lo Stato perde le tracce non appena compiuti i 18 anni. Oggi ne ha 45 ed è il presidente e fondatore di Agevolando, un’organizzazione di volontariato nata a Bologna nel 2010 che lavora proprio per loro e con loro: i care leaver, neomaggiorenni in uscita dai percorsi di accoglienza in casa-famiglia, nelle comunità, in affido; ragazzi e ragazze che hanno passato parte dell’infanzia e dell’adolescenza lontano dalle loro famiglie d’origine, per problemi di assenza o di inadeguatezza. Agevolando li affianca per costruire insieme il loro futuro. Sono circa 42 mila i bambini e i ragazzi che in Italia vivono “fuori famiglia”. Ogni anno 7mila di loro, al soffio della diciottesima candelina, perdono il supporto dello Stato. In un soffio gli è richiesto di diventare adulti, capaci di occuparsi di sé, carichi del peso emotivo di storie complesse fatte di mancanze e strappi dolorosi da ricomporre. “È molto difficile per i neomaggiorenni perdere all’improvviso la tutela dello Stato - sottolinea Federico - e trovare dove stare nel mondo. Con Agevolando ci impegniamo perché a tutti i giovani sia garantito il diritto al futuro, alla serenità, a stare bene”. È lavorando da educatore in una comunità simile a quella in cui era cresciuto, stando tutti i giorni accanto a ragazzi come era stato lui, che Federico ha colto ancor di più l’urgenza di colmare un vuoto normativo nel post-tutela. La sua storia ha ispirato Agevolando, che ogni anno accoglie le storie di mille ragazzi e ragazze, li accompagna per evitare che finiscano in un cono d’ombra e si perdano: nuove amicizie, consapevolezza di sé e delle proprie capacità, studio, formazione, opportunità di lavoro, soluzioni abitative, per sentirsi protagonisti e non più ai margini della società. Tra i giovani di Agevolando c’è Margarette, 18 anni lo scorso dicembre, da sempre una bambina adulta tra adulti adolescenti che l’hanno fatta sentire “uno sbaglio, perché non sarei dovuta nascere”. Lei è stata il genitore dei suoi genitori: “Pensavo io a gestire soldi e bollette, soprattutto a ricordarmi che andavano pagate. Non è un pensiero da bambina, o da ragazzina. Sono sempre stata più grande dell’età che avevo”. Margarette ha fumato le prime sigarette a sei anni, rubandole a mamma e papà che si accusavano a vicenda su chi le avesse prese all’altro. E poi: “Ho imparato a vivere giorno per giorno. Da quando sono piccola penso di meritare di morire. Questo è ciò che mi hanno trasmesso e io non voglio che il mio pensiero nel futuro sia questo. Quindi non ci penso”. Invece pensa che i sogni non siano per lei. L’incontro con Agevolando è avvenuto quando ha lasciato la casa dei genitori ed è andata a vivere in comunità. Margarette è entrata anche a far parte del Care Leavers Network, promosso dall’associazione: una rete di ragazzi e ragazze distribuita in otto regioni italiane, che hanno vissuto esperienze simili, s’incontrano per condividerle, si danno forza a vicenda, crescono insieme. Lei sta imparando a prendersi cura di sé, a volersi bene, a sentire di meritare i sogni da realizzare. A partire da un corso di cucina che potrebbe diventare poi una scuola professionale di pasticceria. “Non so cosa sia la felicità - ammette - ma ora ho voglia di scoprirlo e imparare a sentirmi importante”. Margarette si vede. Agevolando s’impegna, perché nessun care leaver finisca non visto. I diritti dei minori e quei tentativi Ue di riconoscere la genitorialità di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 28 febbraio 2025 Il Parlamento dell’Unione Europea è sempre stato favorevole al diritto del minore, nato a seguito di un contratto di maternità e riconosciuto come figlio della coppia o del singolo committente, di conservare anche nel proprio Paese analogo status filiationis. Una possibilità di contro non prevista nel nostro Paese che dal 2014 è stato contrario alla registrazione in Italia di un minore nato all’estero a seguito di un contratto di maternità. Per favorire il riconoscimento del rapporto di filiazione in una situazione transfrontaliera viene approvata il 14 dicembre 2023 dal Parlamento UE la proposta di un Regolamento sui rapporti di filiazione. Secondo questa proposta, tutti gli Stati membri dovranno riconoscere la genitorialità comunque acquisita anche da single o da coppie gay in un altro Paese dell’Unione, e garantire all’intero nucleo famigliare gli stessi diritti concessi alle altre famiglie, così da evitare qualsiasi discriminazione. Da Bruxelles viene spiegato che “la proposta è incentrata sull’interesse superiore e sui diritti del bambino”, e mira a tutelare le diverse forme di genitorialità (anche quelle “arcobaleno”) e il diritto delle famiglie “di ottenere il riconoscimento a tutti gli effetti della filiazione all’interno dell’Unione”. L’Unione Europea con questo regolamento specifica che il diritto di famiglia comunque resta in mano al singolo Paese, e non impone che gli Stati introducano nel loro ordinamento il riconoscimento delle coppie gay e del contratto di maternità, ma vuole stabilire che, se tale riconoscimento viene accettato in un Paese membro, questo impedisca agli altri Stati di rifiutare il riconoscimento dell’acquisito status filiationis. Da qui la ragione per la Commissione di creare il Certificato europeo di filiazione. Un documento che potrà essere richiesto dai figli, o dai loro rappresentanti legali, allo Stato membro “che ha accertato la filiazione” e potrà essere utilizzato “come prova della filiazione in tutti gli altri Stati membri”. Dunque, il Regolamento fornirà chiarezza giuridica a tutti i tipi di famiglie che si trovano in una situazione transfrontaliera all’interno dell’UE. “Nessun bambino dovrebbe essere discriminato a causa della famiglia di appartenenza o del modo in cui è nato. Attualmente, i bambini possono perdere i loro genitori, dal punto di vista legale, quando entrano in un altro Stato membro. Questo è inaccettabile. Con questo vuoto, ci avviciniamo all’obiettivo di garantire che se si è genitori in uno Stato membro, si è genitori in tutti gli Stati membri”, ha dichiarato la relatrice Maria Manuel Leita Marques dopo il voto in plenaria. Tuttavia, questo riconoscimento non copre altri diritti in situazioni transfrontaliere derivanti dal diritto nazionale, quali il mantenimento dei minori, la cura della salute, la successione, il diritto dei genitori di agire in qualità di rappresentanti legali del minore. Il Commissario europeo della giustizia Didier Reynders chiarisce che con questa normativa non si vuole sovvertire il modo in cui alcuni Stati della UE concepiscono la famiglia. Si tratta solo di mettere al primo posto i bambini e i loro diritti e se il diritto europeo non può disciplinare il diritto di famiglia, può però regolamentare il diritto di circolazione dei minori. La Commissione delle Politiche europee del nostro Senato ha, comunque, assunto una posizione contraria all’ipotesi del Certificato di filiazione europeo. Il documento di opposizione, approvato dal governo, ha ritenuto che il Regolamento UE contrasti anche con le sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale che vietano la maternità surrogata e la registrazione dei bambini nati all’estero a seguito di contratto di maternità. Una lettura totalmente rovesciata arriva dal PD che ritiene che il Regolamento ha il compito di riconoscere per i minori uguaglianza e civiltà. Si accusa la maggioranza di essersi assunta la responsabilità di violare i diritti dei bambini che, surroga o non surroga, di fatto già esistono. Si può aggiungere che le sentenze sopra citate, pur condannando la surrogata e aderendo al divieto della registrazione nel nostro Paese del nato, hanno mirato a proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i genitori attraverso la “adozione particolare”. Ora, a seguito del ddl che presenta il contratto di maternità in tutte le sue forme come un “reato universale” pare normativamente impossibile che i genitori del minore per conservare il loro status possano far ricorso all’adozione, in quanto equiparati a dei criminali comuni. Migranti. Viminale condannato dal Consiglio di Stato per i ritardi nel regolarizzare gli stranieri di Flavia Amabile La Stampa, 28 febbraio 2025 Possibile un danno erariale per svariati milioni di euro. Il Consiglio di Stato ha condannato il ministero dell’Interno per i ritardi ingiustificati, strutturali con cui è stata gestita nel 2020 la regolarizzazione delle persone immigrate che lavoravano in Italia. Sei mesi erano i termini previsti per completare la procedura, quattro anni sono i tempi che invece sono stati impiegati creando le premesse per un danno erariale che potrebbe ammontare a svariati milioni di euro perché le persone sono state costrette a rimanere in una situazione irregolare e ricattabile nonostante avessero compiuto tutti i passi richiesti per essere regolarizzati. La decisione si riferisce alla sanatoria del 2020, la sanatoria Bellanova, che all’epoca era ministra dell’Agricoltura. Nelle intenzioni di Teresa Bellanova avrebbe dovuto far emergere circa 500-600mila persone che lavoravano in modo irregolare nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona. In realtà su 230mila domande presentate, ai primi di agosto 2021 risultavano rilasciati solo 60mila permessi dal ministero dell’Interno, appena il 26% del totale delle richieste. A febbraio del 2023, le pratiche per la regolarizzazione straordinaria delle cittadine e cittadini stranieri che erano arrivate a termine erano ferme al 37,7% del totale con 83.032 permessi rilasciati come denunciava la campagna Ero Straniero. Chi era irregolare restava irregolare nonostante la sanatoria. Di fronte a questo fallimento, ASGI, Attiva Diritti, Cild, Nonna Roma, Oxfam italia Progetto Diritti, Spazi Circolari hanno promosso una class action, presentando i dati della campagna per 2.103 pratiche pendenti presso la prefettura di Roma. Per arrivare alla convocazione chi aveva fatto richiesta per la sanatoria ha atteso tre anni i pareri della Questura o dell’Ispettorato territoriale del lavoro. Come sottolinea l’ASGI (Associazione studi giuridici per l’immigrazione) la legge, invece, impone “alla prefettura di dover comunque decidere entro e non oltre 180 giorni, anche in assenza dei suddetti pareri”. Il procedimento è stato seguito, oltre che dagli avvocati e avvocate in procura e che hanno partecipato alle udienze, anche dal collegio legale composto dagli e dalle avvocate Gennaro Santoro, Giulia Crescini, Valeria Capezio. Come è scritto nelle motivazioni della sentenza: “Un simile dato denota una non episodica od occasionale inefficienza, non dovuta a limiti strutturali, ma unicamente ad una organizzazione e gestione dei procedimenti del tutto avulsa dalla considerazione del fattore temporale”. “Questa importante sentenza - affermano i promotori della class action - lancia un messaggio che incoraggia il ricorso alle azioni collettive strategiche da parte di un crescente gruppo di soggetti della società civile che vedono nei ritardi e nelle inadempienze della Pubblica amministrazione uno snodo cruciale della sistematica violazione dei diritti delle persone straniere, ma non solo. Tra queste, ad esempio, i ritardi delle Ambasciate italiane nel mondo nel rilascio dei visti di ingresso per motivi familiari, già denunciati in una recente interrogazione parlamentare e nel progetto Annick, i ritardi nel rilascio dei permessi di soggiorno, i ritardi nella formalizzazione della domanda di asilo”. Droghe. Analisi sul posto, dialogo e consapevolezza di Francesca Lequaglie e Virginia Tallone Il Domani, 28 febbraio 2025 A cosa serve la riduzione del danno per i consumatori di stupefacenti. Riconoscere le persone che consumano sostanze come portatrici di diritti. Questo alla base di una pratica portata avanti da realtà su tutto il territorio nazionale che da anni si occupano di ridurre rischi e danni correlati all’uso di stupefacenti sul piano sanitario e sociale. Si chiama “Riduzione del danno” e parte da due presupposti: che il consumo di sostanze non si combatta solo con repressione e carcere; e che anche chi usa stupefacenti ha diritto alla tutela della salute. L’uso di sostanze è un fenomeno complesso. Esistono diversi profili e stili di consumo, nonché un’infinità di stupefacenti. L’approccio della Riduzione del danno mira, appunto, a ridurre rischi e danni legati all’uso di sostanze. È uno dei quattro pilastri della politica europea sulle droghe (insieme a prevenzione, cura e riabilitazione, lotta al narcotraffico). Il sottosegretario con delega alle politiche antidroga, Alfredo Mantovano, nell’ultima edizione della relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze, aveva affermato “il fallimento della riduzione del danno”. Ma la Rdd è uno strumento fondamentale a tutela della salute. Infatti è inserita nei livelli essenziali di assistenza (Lea, le prestazioni obbligatorie del servizio sanitario pubblico) dal 2017. Un disclaimer è necessario: l’esistenza di associazioni per la Riduzione del danno, anche storiche e finanziate con fondi pubblici, non va vista come un invito a usare sostanze ma al contrario come un metodo per tutelare la salute dei consumatori e contestualmente fornire strumenti di consapevolezza sui rischi e sulle possibilità di cura. Tre principi - “La riduzione del danno riconosce la persona che usa sostanze come portatrice di diritti. Si basa su tre principi: uno, il consumo di droghe è un costume umano conclamato. Due, gli inviti a smettere di consumare non sono efficaci. Tre, la “War on drugs” ha fallito”, come hanno stabilito anche le Nazioni Unite, ha spiegato Giuseppe Ialacqua, sociologo e assistente sociale, coordinatore del progetto di riduzione del danno Fuori Binario a Bologna. “Un approccio totalmente repressivo non funziona. Se si punta solo a estirpare il consumo, quello che farà la persona sarà nascondersi per farne uso”, ha detto Ilaria Fineschi Piccinin, chimica del progetto torinese di riduzione del danno e limitazione dei rischi Neutravel. Nata negli anni Settanta in Olanda, la Rdd si è poi sviluppata nei contesti dei rave e dei free party, luoghi dove c’è una forte cultura della cura reciproca, così come anche nel clubbing: “È uno spazio di forti esperienze fisiche e ci si supporta a vicenda”, ha detto Enrico Petrilli, ricercatore dell’università di Torino che ha indagato la cultura e il piacere nei contesti del clubbing. Rdd e tutela della salute - Le realtà che si occupano di riduzione del danno e limitazione dei rischi sono diffuse in tutta Italia e fanno spesso parte del Servizio sanitario nazionale. A Torino Neutravel se ne occupa dal 2006. A Roma, Nautilus dal 2003. Nei contesti del divertimento notturno allestiscono banchetti informativi sulle sostanze, mettono a disposizione gratuitamente materiali puliti, tra cui stagnola, pippotti, acqua per pulirsi il naso. Forniscono la possibilità di fare dei counselling per parlare con gli utenti di bisogni, effetti e rischi delle sostanze. Spazi senza giudizio in cui creare una relazione di fiducia e in cui il rapporto tra pari fa la differenza. Strumento fondamentale è anche il drug checking, l’analisi chimica delle sostanze per evitare effetti non voluti o pericolosi. “A volte analizziamo delle sostanze che se la persona assumesse potrebbero avere delle conseguenze sanitarie gravi, tra cui la morte”, ha detto Massimo Lazzarino, educatore socio sanitario di Neutravel. Se rilevano sostanze pericolose, scatta un sistema di allerta, sia informale all’interno delle feste, sia formale attraverso il sistema di allerta nazionale dell’Istituto superiore di sanità. “La riduzione del danno è un diritto di tutti: tutti devono sapere che possono accedere a servizi di questo tipo”, ha detto Isabella Iommetti, responsabile del progetto Nautilus di Roma, finanziato dalla regione Lazio. Nautilus da 22 anni si occupa di riduzione dei rischi e riduzione del danno, principalmente intervenendo nei contesti della festa autorizzati e non. L’equipe è formata da educatori professionali, medici e psicologi. “Gira tutto attorno all’importanza della relazione. Le persone sono fatte da tanti pezzetti, il consumo non le totalizza né definisce”, ha detto Iommetti. L’obiettivo del progetto è “portare sanità dove, presumibilmente, può esserci un consumo di sostanze”, ha aggiunto precisando che includono anche alcol e nicotina. Forniscono anche servizi di screening per infezioni sessualmente trasmissibili. Si occupano inoltre di monitorare il mondo dei consumi, condividendo informazioni con i servizi per le dipendenze. “Il nostro lavoro punta anche a ridurre l’impatto sul sistema sanitario a lungo e breve termine”, ha spiegato Iommetti. “Il progetto Neutravel nasce nel 2006, ma la riduzione del danno in Piemonte si pratica da tanti anni prima”, ha raccontato Lazzarino. Dal 2009 è entrato a far parte del piano sanitario regionale. È un servizio anonimo e gratuito, basato su un approccio pragmatico: “Questa è la situazione, pensiamo a cosa possiamo fare perché sia tutelata la salute delle persone, affinché siano attori consapevoli del consumo”, ha detto Fineschi. A Torino, Neutravel ha offerto il primo servizio stabile di drug checking. Con l’utilizzo di appositi macchinari, viene erogato sia agli eventi sia in strada con un’unità mobile insieme a un altro servizio dell’Asl di Torino. “Durante l’analisi con il chimico c’è sempre un operatore sociale, perché cerchiamo di avere un momento di confronto con le persone”, ha spiegato Fineschi. L’equipe è formata da educatori, operatori e assistenti sociali, psicologi e chimici. “Un’equipe multidisciplinare permette di avere più punti di vista che possano restituire la complessità sia dei consumi che dei contesti”, ha spiegato Lazzarino. Neutravel ogni anno forma dei volontari: molti vengono a contatto con il progetto direttamente agli eventi. Come è successo a Edoardo Bin e Chiara (il nome è di fantasia). Bin ha incontrato Neutravel nel 2021: “Mi ha trasmesso una forte sensazione di sicurezza”, ha detto il volontario. “Quello che facciamo non è promuovere il consumo, ma renderlo consapevole”, ha aggiunto Bin. “L’esperienza da volontaria è arricchente, anche perché c’è un forte stigma su queste tematiche”, ha detto Chiara. Non solo nei contesti notturni: a Bologna la riduzione del danno è anche all’interno della cornice dei servizi di prossimità del Comune, gestiti da Asp Città di Bologna, che a tutto tondo intervengono nei luoghi di vita delle persone, tra cui la strada. Poi c’è Fuori Binario, “un laboratorio di comunità per persone senza dimora che fanno uso di sostanze”, ha spiegato Marina Padula, coordinatrice di Asp. Nello spazio, che conta una settantina di accessi al giorno, le persone trovano un team di educatori. Fuori Binario lavora “sull’autodeterminazione dei percorsi di vita per raggiungere l’equilibrio vita-consumo”, ha detto Giuseppe Ialacqua, coordinatore di Fuori Binario. Si parte dal counselling, che permette di ottenere informazioni sulla persona, sulla città e sulle abitudini di consumo. Distribuiscono gratuitamente materiale pulito, effettuano test rapidi per le infezioni sessualmente trasmissibili e si occupano di ricerca scientifica. Inoltre hanno creato insieme a chi vive lo spazio tre laboratori: il cinema, la falegnameria e lo spazio donne. “Tutto va nell’ottica di creare la relazione educativa. I servizi di riduzione del danno funzionano perché sono i servizi di frontiera con cui le persone stringono rapporti”, ha spiegato Ialacqua. “Qui c’è una persona con alle spalle quasi quarant’anni di eroina, che aveva smesso di occuparsi di sé. Ora è un punto di riferimento per la comunità dei consumatori e per noi”, ha raccontato Ialacqua. “Questo scambio è il cuore della riduzione del danno. Costruire insieme una dimensione di cura”, ha concluso. La Rdd oltre l’Italia - Ci sono Paesi in cui la riduzione del danno ha fatto un passo istituzionale ulteriore. “In Catalogna a livello sanitario ci sono i Cas, centri con delle sale per il consumo sicuro, che forniscono anche il supporto di psicologi, educatori e assistenti sociali”, ha spiegato Chiara Cocci, operatrice e attivista della riduzione dei rischi che collabora con la realtà spagnola Energy Control, progetto che da quasi trent’anni si occupa di questi temi. Nella sede di Barcellona “c’è un laboratorio avanzato che analizza sostanze provenienti da tutto il mondo. È un punto di riferimento fondamentale per la consapevolezza del mercato globale delle droghe”, ha raccontato Cocci. La riduzione dei rischi “dà gli strumenti che vengono negati a livello statale, perché le sostanze rimangono criminalizzate. In una società stigmatizzante la persona che usa sostanze finisce per essere una figura marginalizzata”, ha concluso Cocci.