Carceri, mobilitazione nazionale il 3 marzo contro il sovraffollamento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2025 I Garanti territoriali hanno indetto una giornata di protesta. La priorità dei penalisti è fermare i suicidi: quindici da inizio anno. Una giornata di protesta nazionale contro il sovraffollamento nelle carceri, indetta per il 3 marzo. L’iniziativa è dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che, in un documento congiunto, chiedono la mobilitazione e la solidarietà non solo dei garantisti e dei tanti volontari dell’area cattolica ma anche dell’avvocatura, della magistratura, della politica, oltre che della società civile. Un invito a rompere il silenzio su un problema che può essere arginato solo approvando con urgenza delle misure deflattive. Dalle pene sostitutive per chi deve scontare meno di un anno di carcere, all’accesso alle misure alternative per i 19mila detenuti con una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni. Le misure alternative - Nella “lista” degli interventi richiesti anche l’aumento del numero di telefonate e videochiamate, soprattutto in casi specifici, contatti con i familiari che sono parte integrante del trattamento rieducativo. Già il decreto carceri, approvato nel luglio scorso, prevedeva un incremento dei colloqui telefonici settimanali e mensili, equiparati a quelli visivi che passano da 4 a 6, per tutti tranne per i condannati per reati ostativi o al 41-bis. Un numero che, secondo la norma, può essere anche superiore a discrezione del direttore del carcere. La ratio è quella di accorciare le distanze, rompendo il senso di isolamento, per chi ha i familiari lontani e dunque meno possibilità di incontri in presenza, come quasi sempre accade per gli stranieri. Consulta e Cassazione sui colloqui senza controlli visivi - Per quanto riguarda l’affettività in carcere i Garanti chiedono di attuare la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 sulla tutela del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo). Sulla scia del giudice delle leggi si era mossa la Cassazione con la sentenza n.8 dello scorso gennaio, per rafforzare il diritto riconosciuto dalla Consulta a colloqui senza videocontrolli con il coniuge o il convivente. Infine c’è la richiesta di fare un maggior ricorso ai permessi premio. “Sovraffollamento, carenza di strutture e risorse adeguate, burocrazia. Sono i tre lacci che soffocano da anni il sistema penitenziario italiano, giunto ormai allo stremo - dice Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti nonché Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali - la politica tace. La società civile e la magistratura non possono tollerare che i detenuti vivano in condizioni indegne e inumane”. L’imperativo categorico dei penalisti - Dalla Camera penale del Piemonte occidentale l’indicazione, sempre all’Esecutivo, di un imperativo categorico: fermare i suicidi in carcere, come priorità per chi governa. Siamo al quindicesimo dall’inizio dell’anno, dopo il caso di un detenuto che si è tolto la vita a Frosinone. Un manifesto è stato affisso a Palazzo di giustizia a Torino. “Non c’è più tempo”, è il commento dei penalisti. Le carceri minorili sono allo sbando. E c’è chi se ne vanta di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2025 Visitare un carcere è sempre un’esperienza dolente. Visitare un carcere minorile lo è ancora di più, in quanto recluse dietro quelle mura ci si imbatte in una giovinezza, in un’esplosione di vita, in una pienezza di futuro e di speranza che si avvertono drammaticamente come interrotte, spezzate, mortificate, piangenti. Sono appena rientrata da una visita a un istituto penale per minorenni e l’angoscia di quelle esistenze adolescenti mi è rimasta, come ogni volta, appiccicata addosso. Visitare un carcere minorile è sempre un’esperienza dolente, ma in questa fase storica lo è assai più del solito. Non dirò di che carcere si trattava: il problema è prima di tutto sistemico e riguarda l’intera detenzione dei giovani oggi in Italia. Camminando per i corridoi scrostati e luridi, si vedevano nelle celle i lerci materassi di gommapiuma accatastati sugli altri letti, cosicché la sera si potessero buttare a terra per far sdraiare quei ragazzi aggiuntivi che non avevano trovato posto nelle brande ordinarie. Sì, perché oggi anche gli istituti minorili sono sovraffollati, cosa che non avevamo mai visto nella nostra quasi trentennale esperienza di monitoraggio delle carceri. Non poche celle avevano la luce spenta. Pensando fossero vuote, ho scostato leggermente il blindo, la pesante porta di ferro che si aggiunge a quella più ariosa costituita da sbarre. La poca luce che filtrava allora dal corridoio permetteva di intravedere dei rigonfiamenti sopra i letti, fagotti di coperte tirate a volte fin sopra la testa. Là sotto c’erano ragazzini di quindici, sedici, diciotto anni, che evidentemente non avevano trovato la forza o la motivazione per alzarsi, nonostante fosse quali l’ora di pranzo. Sono copiose le dosi di psicofarmaci che vengono somministrate nelle carceri minorili. ?Tutta Europa guardava al modello italiano di giustizia minorile come a un modello virtuoso da seguire. Questo perché alla mera e inutile punizione, che da sola non potrà mai bastare a far comprendere l’errore commesso, era stato capace nei decenni di sostituire un approccio seriamente educativo, basato sul dialogo e sull’immersione del ragazzo o della ragazza in attività significative e utili al suo futuro, così da allontanare ogni tentazione di vita criminale. Tante differenti misure penali vedevano i giovani immersi nella comunità, piuttosto che rinchiusi tra quattro sbarre dove imparare la vita sociale è ben più difficile. Tutto questo accadeva prima dell’arrivo dell’attuale governo. Il quale ha deciso che il recupero del minore dovesse passare in secondo piano rispetto alla pura e semplice punizione. Sono criminali e devono pagare. Anche se tutti gli organismi internazionali ci parlano del recupero del minore autore di reato, anche se così si mette a rischio la sicurezza delle nostre città (prima o poi i ragazzi usciranno e se non si è investito in recupero sociale torneranno inevitabilmente a delinquere). Qualche giorno fa Andrea Ostellari, sottosegretario con delega alla giustizia minorile, durante un pubblico evento si è vantato dell’aumento di giovani detenuti che si è prodotto dopo il cosiddetto Decreto Caivano. Finalmente combattiamo la delinquenza minorile, ha detto. E i risultati si vedono, ha aggiunto: oggi i detenuti negli istituti penali per minorenni sono una volta e mezzo di più di quelli che erano quando il governo è andato al potere. L’affermazione si commenta da sola, nella sua miopia politica e sociale. E quindi le carceri minorili sono sempre più sovraffollate, i ragazzi dormono sui materassi a terra, non si riesce a gestirli se non imbottendoli di farmaci, il sistema è allo sbando. Nel goffo tentativo di tamponare il problema, è stata aperta una sezione minorile all’interno di un carcere per adulti, precisamente quello di Bologna. Settanta ragazzi da tutta Italia che, dopo aver commesso il reato da minorenni, hanno compiuto i diciotto anni, verranno rastrellati e portati qui, senza curarsi del radicamento territoriale, del percorso che avevano intrapreso, del rapporto con gli operatori. Non si era mai visto nulla di simile. In pochi mesi è stato distrutto tutto. Oggi l’Europa ci guarderà per come mandiamo al macero i nostri ragazzi. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone In carcere aumenta l’occupazione: “Aiuta a non tornare a delinquere” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 27 febbraio 2025 Qualcosa, anche se lentamente, si muove. Sono sempre di più i detenuti che svolgono un’attività lavorativa mentre scontano la loro pena in carcere. E sono sempre di più quelli che lo fanno non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, datore di lavoro naturale (e per molto tempo, l’unico) di chi decide di imparare un mestiere dentro una struttura detentiva, ma assunti da imprese private e cooperative sociali. E i numeri sono destinati a crescere ancora, dal momento che sono stati già individuati (e dovrebbero partire a breve) 200 interventi in decine di penitenziari italiani per la ristrutturazione “totale o parziale” di spazi, anche all’aperto, da destinare ad aree di lavoro: panifici, falegnamerie, aule studio. A certificarlo è l’ultima relazione sullo svolgimento di attività lavorative da parte dei detenuti, stilata dal Dap e consegnata al Parlamento nelle scorse settimane dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che mette in luce come, dopo anni di tentativi per invertire il trend e abbassare i tassi di recidiva per chi delinque, gli sforzi sembrino finalmente cominciare a dare dei frutti. Con benefici per le aziende, che assumendo anche a tempo determinato chi sta scontando una pena godono di una serie di sgravi fiscali, ma soprattutto per i detenuti stessi e per lo Stato. Secondo le stime, infatti, mentre chi esce dal carcere senza aver partecipato ad attività di formazione o di lavoro la possibilità di tornare a delinquere entro pochi anni è del 70 per cento, il tasso di recidiva crolla al 2 per cento se durante gli anni della pena si è imparato un mestiere, che potrà tornare utile una volta fuori. E che magari contribuirà a tener lontano dalla criminalità. Da fare c’è ancora molto: secondo la relazione consegnata al Parlamento, al 31 dicembre 2024 su oltre 61mila detenuti nei penitenziari italiani erano impiegati in attività lavorative “di tipo continuativo” in 21mila: poco più di un terzo (percentuale che per le donne sale al 50 per cento). E quasi 18mila di loro, ossia l’84 per cento, erano impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Solo il 16 per cento, insomma, aveva un contratto con un’impresa privata o una coop. Ma per quanto i numeri siano ancora piccoli, dal 2023 l’aumento è costante, con una crescita dell’11 per cento l’anno stimata anche per il 2025. Le mosse messe in campo dal ministero insomma, a cominciare dalla cabina di regia istituita al Cnel per far conoscere alle imprese la possibilità di assumere detenuti e i relativi sgravi fiscali, sembrano aver smosso le acque. I risparmi non sono da trascurare: si va dal taglio del 95 per cento dei contributi Inps per il detenuto-lavoratore a un credito di imposta per ogni condannato assunto. Fino all’utilizzo gratuito degli spazi e dei macchinari eventualmente presenti nei penitenziari e al prosieguo dei bonus nei due anni successivi la scarcerazione se il rapporto lavorativo non si interrompe. Misure che nel 2023 sono costate allo Stato 9,2 milioni di euro. Una cifra salita a 10,4 nel 2023 e a 11,6 nel 2024 (superiore a quanto era stato inizialmente stanziato). Mentre per il 2025 si stima una spesa superiore ai 12 milioni, in “netto aumento” rispetto al passato.Insomma: se l’anno scorso le imprese e cooperative ad aderire al progetto sono state 694, quest’anno si punta a fare di più. Anche grazie alle convenzioni siglate con diverse aziende (una delle più grandi è Tiscali). E gli interventi previsti nei penitenziari dovrebbero dare una spinta, è l’augurio. Di qui al 2027 il Dap prevede di costruire o ristrutturare, infatti, 60 laboratori di panificazione e di prodotti legati all’enogastronomia, 41 tra officine e falegnamerie, 99 aule di formazione. Nella speranza di dar vita, si legge nella relazione, a un “moltiplicatore di effetti positivi”. Per i detenuti e anche per lo Stato. Polizia penitenziaria: rigorosi standard estetici e controlli sulla libertà di espressione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2025 Obbligo di avere i capelli sempre ben puliti e, se tinti, di colore naturale. Le donne, in particolare, dovranno avere unghie impeccabilmente curate, con uno smalto che sia sobrio. E fuori servizio? Divieto di eccentricità, silenzio imposto sui disagi delle carceri, divieto di commenti irriverenti sui social. Non solo detenuti nel mirino, con il nuovo reato di rivolta che criminalizza anche proteste pacifiche, ma anche agenti penitenziari stretti in una morsa di regole che, come denuncia il segretario Uilpa Gennarino De Fazio, “sono un attacco alle libertà costituzionali”. Parliamo di una recente bozza del nuovo regolamento di servizio del corpo di Polizia penitenziaria, che contiene delle modifiche rispetto all’attuale. Come si legge nel documento, inviato alle rappresentanze sindacali, la revisione è stata effettuata da parte del gruppo di lavoro presieduto dall’attuale capo del Dipartimento penitenziario facente funzioni e coordinato dal direttore generale per la gestione dei beni e servizi e degli interventi in materia di edilizia penitenziaria. L’8 febbraio scorso sono scaduti i termini per far pervenire le osservazioni e, ancora a oggi, non risulta convocata una riunione per discutere di questa bozza. Leggendola, è impossibile non scorgere che questi dettagli estetici paternalistici (sobrietà delle unghie, divieto di capelli eccentrici) si intrecciano a singolari divieti: parlare con giornalisti, attivisti o personalità storiche, come Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, dei problemi interni potrebbe diventare un’infrazione; i social vengono trasformati in campi minati, dove ogni commento “irriverente” nei confronti dell’istituzione è sanzionabile. E, come già detto, mentre i detenuti dovranno affrontare un inasprimento carcerario (la rivolta ora include atti non violenti), gli agenti saranno costretti a una doppia prigionia: uniformare corpo e pensiero, dentro e fuori dal lavoro. Se il linguaggio è un atto politico, la bozza del nuovo Regolamento penitenziario tradisce un’ossessione: trasformare il corpo degli agenti di Polizia penitenziaria in un manifesto di disciplina. Non solo divieti estetici (“capelli puliti, tinte naturali, unghie femminili sobrie”), ma una biopolitica del controllo che invade la sfera privata. Interessante la lettera della Uilpa Polizia penitenziaria che, nell’elenco dettagliato di osservazioni, smonta articolo per articolo questa architettura, rivelando un paradosso: norme presentate come “modernizzazione” rischiano di riportare il Corpo a un’era pre- costituzionale. L’articolo 13 è un manifesto di ambiguità: impone agli agenti, anche fuori servizio, una “condotta irreprensibile” che eviti “pregiudizi all’amministrazione”. Per la Uilpa questa formulazione vaga - non definisce cosa sia “pregiudizievole” - potrebbe criminalizzare persino la partecipazione a scioperi o cortei sindacali. Un agente in libera uscita che indossa una maglietta di protesta diventerebbe, teoricamente, sanzionabile. E qui la critica si fa radicale: si sta equiparando la libertà sindacale a un atto di insubordinazione? Nell’articolo 15, il dettaglio sui “capelli puliti” suona alla Uilpa come una “caduta di stile offensiva”. Ma è il comma 5 a innescare la miccia: impone di evitare “eccentricità ed eccessi” anche fuori servizio. Una clausola che, secondo il sindacato, viola l’articolo 21 della Costituzione (libertà di espressione). “Vuol dire che un agente con un tatuaggio visibile al mare, in vacanza, può essere sanzionato?”, chiede implicitamente la lettera. Il controllo estetico, insomma, non è neutro: è un dispositivo di normalizzazione che colpisce soprattutto le donne, con prescrizioni sulla cura delle unghie dai toni da manuale di bon ton anni 50. L’articolo 17 (“Uso dei social media”) è una minaccia in codice: vieta post “irriverenti”, senza specificare cosa sia irriverente. La Uilpa chiede la cancellazione totale della norma, definendola “censura preventiva”. Il motivo? Già oggi esistono leggi che puniscono diffamazione o abusi, ma qui si introduce un reato di opinione camuffato da decoro. Un agente che twitta contro il sovraffollamento delle carceri potrebbe finire nel mirino. E il silenzio, così, diventa obbligo. Con l’articolo 20, il divieto di divulgare “eventi, servizi, provvedimenti” a estranei assume contorni orwelliani. In effetti, rappresenterebbe un boomerang pericoloso: come denunciare abusi o emergenze se è vietato persino parlarne? Un articolo che rischia di trasformare gli agenti in guardiani del segreto. Mentre si disciplinano smalti e capelli, l’articolo 36 dimentica di imporre ai comandanti l’obbligo di garantire “idoneità di caserme e mense”. La Uilpa ricorda che molte strutture sono insalubri, e lo scandalo è duplice: si controlla l’estetica dei corpi, ma si tollera il degrado degli spazi. Un simbolo di priorità capovolte, dove il decoro umano viene dopo quello formale. Da un lato, si invoca una “professionalizzazione” del Corpo; dall’altro, lo si infantilizza (così come avviene con i detenuti) con divieti paternalistici. Si chiede trasparenza alle istituzioni, ma si impone il silenzio agli agenti. Si pretendono standard estetici impeccabili, mentre le caserme e le carceri crollano. Sciopero delle toghe, vigilia tesa di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 febbraio 2025 Al Csm la destra spacca il plenum davanti a Mattarella. Che poi parla di “irrinunciabile indipendenza”. Gaeta nuovo pg della Cassazione. Oggi incontri e manifestazioni in tutta l’Italia. Una vigilia agitata per lo sciopero dei magistrati che andrà in scena oggi: l’elezione del nuovo procuratore generale della Cassazione al plenum del Csm presieduto dal presidente Mattarella è stata particolarmente complicata. Prima di tutto perché non si è arrivati a una decisione unitaria come auspicato dal Colle, e poi perché la spaccatura non è stata generata solo dai laici di destra, ma anche da quattro dei sette consiglieri di Magistratura indipendente. E così se i numeri del vincitore annunciato Pietro Gaeta sono notevoli (20 voti), quelli dello sfidante Pasquale Fimiani sono stati migliori del preventivato (9). Il vicepresidente Fabio Pinelli, come da prassi, si è astenuto. “Non c’è dubbio che Gaeta avesse molti più titoli di Fimiani - spiega al manifesto un togato che nota la divisione interna ma pensa che non vada enfatizzata troppo -, comunque parliamo di due figure di altissimo profilo”. Gaeta, magistrato di enorme esperienza, è avvocato generale della Suprema corte, dove si è occupato anche di casi pesanti come il crack Parmalat, il quarto processo Borsellino e quello contro i poliziotti responsabili del massacro alla Diaz durante il G8 di Genova del 2001 (in quella occasione sostenne tra le altre cose che “i manifestanti si difesero” e che tra gli agenti c’era “spirito di rivalsa”). In passato è stato anche assistente di tre giudici della Consulta (Flick, Modugno e Gallo). Dal prossimo marzo, dunque, subentrerà come procuratore generale a Luigi Salvato, che va in pensione. Fimiani, dal canto suo, pure è avvocato generale della Cassazione, dove ha seguito soprattutto il settore penale. Le sue speranze di farcela sono sempre state poche, ma il gioco dei laici della destra era semplice: spaccare e fornire all’esterno l’immagine di un Csm diviso. A sera Claudia Eccher (eletta in quota Lega) ha accusato i suoi colleghi consiglieri di essere stati condizionati “dalle solite dinamiche che caratterizzano le correnti della magistratura”. Che dalle sue parti sono considerate alla stregua di un “potere cancerogeno” (definizione del sottosegretario Andrea Delmastro, che così si è espresso pochi giorni fa dopo essere stato condannato a otto mesi per il caso Cospito). In ogni caso, tutti i togati - tranne l’indipendente Andrea Mirenda, favorevole al sorteggio dei membri del Csm - hanno aderito con una nota congiunta alla protesta di domani. Un segnale finale di ricomposizione nel nome dell’opposizione alla separazione delle carriere. E un sospiro di sollievo per il nuovo presidente dell’Anm, Cesare Parodi, esponente di Mi, che ha corso il rischio di vedere la sua componente andare in frantumi. Alla fine dell’intenso pomeriggio di plenum, al momento dei saluti - di solito una pura formalità istituzionale - Mattarella ha fatto qualche considerazione in più del previsto. Parole non meno che ineccepibili da tutti i punti di vista e che però si fanno notare perché pronunciate a poche ore di distanza dallo sciopero. Il presidente prima ha invitato tutti ad applicare al più presto le varie circolari attuative della riforma ordinamentale, poi ha augurato al consiglio di “procedere con impegno nella sua attività di così alto valore costituzionale, provvedendo con tempestività ad assumere le sue decisioni, concorrendo, attraverso il governo autonomo della magistratura, ad assicurare la irrinunziabile indipendenza dell’ordine giudiziario e di contribuire alla serenità della vita istituzionale”. Il richiamo alla “irrinunziabile indipendenza” fa di certo rumore, anche perché tra i motivi per cui le toghe sono contro la separazione delle carriere il più consistente è quello di prospettiva: e cioè che i pubblici ministeri presto o tardi finiranno sotto il controllo del governo, come del resto accade in tutti i paesi il cui ordinamento divide la magistratura requirente da quella giudicante. La protesta delle toghe, a Roma, si consumerà in mattinata: l’appuntamento è alle 10 davanti alla Cassazione per un “incontro con la cittadinanza”. Seguirà dibattito al cinema Adriano, dall’altra parte della strada. L’obiettivo minimo perché si possa parlare di successo dello sciopero è un’adesione al 70%. I primi dati arrivati all’Anm sarebbero incoraggianti. Csm, i togati si schierano con l’Anm. Mirenda contrario di Simona Musco Il Dubbio, 27 febbraio 2025 Ancora divisioni interne alla magistratura in vista dello sciopero di oggi contro la separazione delle carriere. E i penalisti criticano il sindacato. “Noi magistrati componenti del Consiglio superiore della magistratura manifestiamo l’adesione alle ragioni dello sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati. Invero si tratta di uno sciopero che la magistratura associata ha indetto non per tutelare interessi di categoria, ma per porre con forza all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della garanzia dell’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario e, dunque, della tutela dei diritti di tutti”. Con queste parole, 19 consiglieri togati su 20 di Palazzo Bachelet aderiscono, idealmente, alla protesta indetta dall’Anm contro la separazione delle carriere. Non in senso pratico, ma in senso “politico e morale”, per evitare una esposizione mediatica che potrebbe risultare negativa, soprattutto alla luce del parere negativo sulla riforma espresso in Consiglio proprio dagli stessi togati. Eccetto uno, l’indipendente Andrea Mirenda, che dopo essersi astenuto in quella occasione, oggi dichiara la sua contrarietà alla scelta dei colleghi. “Diversamente dagli altri togati, non aderirò alle ragioni dello sciopero, pur nella ferma contrarietà al progetto sull’Alta Corte”, sottolinea, criticando l’Anm per la sua mancanza di volontà nel risolvere la questione morale all’interno della magistratura. Secondo Mirenda, l’Anm non affronta il problema delle correnti e del “nominificio consiliare”, che mina l’indipendenza della magistratura. “Solo il sorteggio, almeno fino a quando non si darà ingresso alla rotazione negli incarichi direttivi, può garantire un argine al potere delle correnti”, afferma, sottolineando che lo sciopero mira a impedire proprio questa riforma. Molti magistrati hanno espresso la loro contrarietà alla protesta organizzata dall’Anm, ricordando che si tratta di un iter legislativo ancora in corso, legittimamente inserito nel programma del governo e che ha ricevuto il sostegno popolare. “Credo che un potere dello Stato debba porsi qualche problema di serietà nel protestare contro il potere legislativo”, afferma ancora Mirenda, sottolineando che il programma del legislatore è stato discusso e validato dal voto popolare. L’appuntamento principale è quello previsto oggi a Roma in piazza Cavour, dove alle ore 10 è previsto un flash mob sulla scalinata della Corte di cassazione. I magistrati indosseranno la toga e la coccarda tricolore e avranno in mano una copia della Costituzione italiana. Alle 11, appuntamento al Cinema Adriano per un’assemblea pubblica, a cui parteciperanno, oltre ai componenti della Ges Roma e della Ges Cassazione, anche personalità della società civile. Apriranno l’assemblea il presidente dell’Anm Cesare Parodi, il segretario generale Rocco Maruotti e il vicepresidente Marcello De Chiara. Tra gli ospiti, Gianrico Carofiglio, i magistrati Giuseppe Santalucia ed Enrico Scoditti, la professoressa Tania Groppi, l’avvocato Giuseppe Iannaccone. Le mail delle giunte locali dell’Anm, intanto, esplodono, con messaggi poco concilianti, come quello di Ida Moretti, ex componente del Comitato direttivo centrale per i 101. “La “partecipatissima assemblea generale del 15 dicembre” ha deliberato lo sciopero in modo unitario a patto che non si manifestasse netta contrarietà al sorteggio - scrive -. A soli due giorni dal proclamato sciopero, la nuova Gec tradisce platealmente il mandato assembleare, ponendo al primo posto la contrarietà al sorteggio e solo “infine” la contrarietà alla separazione delle carriere, lasciando intendere che potrebbe anche passare, a patto di lasciare inalterato l’attuale sistema di occupazione delle istituzioni da parte delle correnti. A queste nuove condizioni io non sciopero”. L’opposizione non è solo interna, ma anche esterna, con l’Unione delle Camere penali che ribadiscono gli effetti “positivi” della separazione sulla giustizia penale, che sarebbe così più moderna e aderente al modello processuale vigente. Avere due Consigli superiori per giudici e pm garantirebbe maggiore indipendenza e autonomia, evitando i condizionamenti derivanti da un governo comune che gestisce carriere e disciplina. “Gli scandali nella gestione delle carriere, come lo scandalo Palamara, non vengono mai citati dai vertici dell’Anm”, rileva l’Unione, criticando la politicizzazione interna del sindacato dei magistrati, oggetto di critiche da ampi settori della magistratura. Secondo i penalisti, infatti, lo sciopero non è mirato a difendere i diritti dei cittadini, ma piuttosto a tutelare i privilegi interni delle correnti. Anche perché la riforma, affermano, non intacca l’indipendenza della magistratura, che rimane garantita dall’articolo 104 della Costituzione, ma al contrario, rafforzerebbe l’autonomia rispetto ai condizionamenti e alle influenze interne. In questo contesto, la protesta dell’Anm appare, a loro dire, come una difesa di un potere corporativo, distante dalla sobrietà e imparzialità che i cittadini si aspettano dalla magistratura. “Scioperi, gadget, coccarde ed assemblee, invasione dei social con discutibili inserti recitati da professionisti, atti giudiziari inviati dalle cancellerie - conclude la nota - utilizzati come veicolo di messaggi di tipo politico e sindacale - per avversare la legittima (ma non gradita) attività del potere legislativo - mostrano il volto di una magistratura distante da quella sobrietà ed imparzialità che i cittadini si attendono”. Dalla parte dei diritti dei cittadini di Stefano Musolino e Giovanni Zaccaro* Il Manifesto, 27 febbraio 2025 Sciopero dei magistrati. Decine di incontri con la cittadinanza organizzati per spiegare che la riforma Nordio non renderà i processi più veloci o le decisioni più giuste, ma separerà i pubblici ministeri dal potere giudiziario, con il pericolo che vengano attratti nella sfera di influenza del potere esecutivo. Lo sciopero è vissuto dai magistrati come una specie di tradimento della loro essenza. Abituati come sono a rendere il loro servizio, nonostante le pessime condizioni di lavoro e anzi supplendo all’inefficienza e all’inadeguatezza delle strutture che il ministero della giustizia dovrebbe garantire, scioperano mal volentieri. E, infatti, non protestano per difendere privilegi, né per chiedere migliori condizioni di lavoro, nonostante ce ne sia un gran bisogno. Piuttosto, scioperano per tutelare il diritto dei cittadini ad avere giudici e pubblici ministeri autonomi e indipendenti, all’interno di quell’assetto di delicati equilibri istituzionali che la Costituzione ha previsto e che la riforma Nordio vorrebbe destrutturare. Perché solo giudici e pubblici ministeri davvero autonomi e indipendenti garantiscono l’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, consentono anche ai ceti meno abbienti di vedere tutelati i loro diritti, garantiscono i diritti fondamentali delle persone, anche dalle iniziative legislative che li pregiudicano. Proprio per questo, i magistrati scioperano, ma non rimangono a casa, piuttosto partecipano alle decine di incontri con la cittadinanza organizzati per spiegare che la riforma Nordio non renderà i processi più veloci o le decisioni più giuste, ma separerà i pubblici ministeri dal potere giudiziario, con il pericolo che vengano attratti nella sfera di influenza del potere esecutivo o del potere legislativo, ossia siano sottoposti al controllo delle maggioranze di turno. Se così fosse, si realizzerebbe il disegno di una magistratura non più autonoma ed indipendente ma al servizio di chi, ogni volta, vincerà le elezioni. Per questo, i magistrati saranno sempre più fuori dai Palazzi di giustizia, per diventare prossimi ai cittadini e spiegare loro quale sia la vera posta in gioco in questo progetto di riforma costituzionale. Non sappiamo quale sarà l’esito di questi confronti sobri, aperti e dialoganti. Sappiamo però che non potevamo tacere, che è nostro dovere indicare all’opinione pubblica il pericolo che incombe sulla tutela dei diritti, per sollecitare un percorso verso una maggiore consapevolezza dei rischi della riforma. L’esito finale non dipenderà da noi. Riconosciamo il primato parlamentare e quello del voto popolare che eventualmente lo confermerà nel referendum costituzionale. Lo rispetteremo qualunque esso sia, ma lo faremo in pace con la nostra coscienza di magistrati costituzionali che si sono impegnati perché la scelta fosse informata e consapevole. Perché solo giudici e pubblici ministeri davvero autonomi e indipendenti garantiscono l’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, consentono anche ai ceti meno abbienti di vedere tutelati i loro diritti, garantiscono i diritti fondamentali delle persone, anche dalle iniziative legislative che li pregiudicano. Proprio per questo, i magistrati scioperano, ma non rimangono a casa, piuttosto partecipano alle decine di incontri con la cittadinanza organizzati per spiegare che la riforma Nordio non renderà i processi più veloci o le decisioni più giuste, ma separerà i pubblici ministeri dal potere giudiziario, con il pericolo che vengano attratti nella sfera di influenza del potere esecutivo o del potere legislativo, ossia siano sottoposti al controllo delle maggioranze di turno. Se così fosse, si realizzerebbe il disegno di una magistratura non più autonoma ed indipendente ma al servizio di chi, ogni volta, vincerà le elezioni. Per questo, i magistrati saranno sempre più fuori dai Palazzi di giustizia, per diventare prossimi ai cittadini e spiegare loro quale sia la vera posta in gioco in questo progetto di riforma costituzionale. Non sappiamo quale sarà l’esito di questi confronti sobri, aperti e dialoganti. Sappiamo però che non potevamo tacere, che è nostro dovere indicare all’opinione pubblica il pericolo che incombe sulla tutela dei diritti, per sollecitare un percorso verso una maggiore consapevolezza dei rischi della riforma. L’esito finale non dipenderà da noi. Riconosciamo il primato parlamentare e quello del voto popolare che eventualmente lo confermerà nel referendum costituzionale. Lo rispetteremo qualunque esso sia, ma lo faremo in pace con la nostra coscienza di magistrati costituzionali che si sono impegnati perché la scelta fosse informata e consapevole. *Stefano Musolino è il segretario di Magistratura democratica, Giovanni Zaccaro è il segretario di Area democratica per la giustizia Lo sciopero delle toghe sfida il Parlamento e la volontà popolare di Oliviero Mazza Il Dubbio, 27 febbraio 2025 È indiscutibile l’elevato tasso di democraticità della riforma, ben lontana dai cupi fantasmi illiberali evocati anche nelle ragioni dell’Astensione. Il dibattito sulla riforma costituzionale della separazione degli ordinamenti si intensifica e si inasprisce proprio in vista dello sciopero nazionale dei magistrati, fatto, quest’ultimo, di per sé indicativo di un’obiettiva patologia. In una democrazia compiuta non può essere ritenuto fisiologico che l’ordine giudiziario si sollevi contro la volontà espressa dal Parlamento e, prima ancora, dal popolo sovrano nel momento elettorale. Non va dimenticato, a titolo di premessa, che la separazione delle carriere non è stata solo oggetto di una legge di iniziativa popolare, promossa da Ucpi e sostenuta da oltre 72.000 firme di cittadini, ma era parte integrante e qualificante dei programmi sui quali l’attuale maggioranza parlamentare ha ottenuto un largo consenso elettorale e, addirittura, dei programmi di alcuni importanti partiti dell’opposizione. In più, come se non bastasse l’investitura popolare, il Parlamento, su proposta del Governo, ha intrapreso la via della riforma costituzionale, quando eminenti costituzionalisti avevano indicato la possibilità di separare le carriere anche con legge ordinaria. Ciò significa che la politica ha scelto consapevolmente di passare attraverso il referendum confermativo, in un ideale cerchio che nasce dal voto espresso nelle elezioni politiche e si chiuderà con il voto referendario. È indiscutibile l’elevato tasso di democraticità della riforma, ben lontana dai cupi fantasmi illiberali che vengono evocati anche nelle ragioni dello sciopero. Altra questione cruciale, che emerge nel dibattito di questi giorni, è la totale assenza del fact-checking nella propaganda di Anm. Non si possono nascondere ai cittadini decisive circostanze di fatto che cercherò di enunciare brevemente, a meno che l’intenzione non sia proprio quella di inquinare la discussione spacciando per verità fattuali quelle che in realtà sono semplicemente opinioni di parte, perdipiù di una parte direttamente interessata dalla modifica del suo stato giuridico. Si dice che la separazione delle carriere sia il preludio dell’avvento di uno stato illiberale in cui la magistratura (tutta o solo quella inquirente non è dato sapere) verrà sottoposta al volere del potere esecutivo. Il fatto storico che non viene riferito riguarda, però, l’origine fascista e autoritaria dell’attuale assetto ordinamentale fondato sulla carriera unica voluta dal Ministro Grandi nel 1941. La riforma intende superare la categoria dell’”autorità giudiziaria” che dal tempo del fascismo rappresenta un’unitaria funzione statale di persecuzione penale declinata in due sotto-funzioni di accusa e di decisione affidate al medesimo corpo dei magistrati. La verifica dei fatti impone di riportare testualmente il pensiero del Ministro fascista Grandi, secondo il quale con la separazione dei magistrati “si determinerebbe la formazione di veri e propri compartimenti stagni nell’organismo della Magistratura, in contrasto con la sostanziale unicità della funzione”. L’unicità dell’organizzazione ordinamentale corrisponde all’idea, di matrice storicamente fascista e culturalmente illiberale, che l’accusatore e il giudice, quali organi della medesima “autorità giudiziaria”, siano chiamati ad adempiere alla medesima funzione statale volta al soddisfacimento dell’interesse punitivo. Il concetto di base è chiaro, a medesime funzioni deve corrispondere un medesimo ordinamento. Riportata la questione ai giorni nostri, in un sistema in cui tutti, compresa ANM, riconoscono la necessità di distinguere le funzioni d’accusa rispetto a quelle di decisione, a funzioni processuali distinte non può che corrispondere la separazione delle carriere. Altro fatto, questa volta non storico, ma giuridico, sparito dal dibattito: la terzietà del giudice non è il sinonimo scialbo della imparzialità, l’art. 111 comma 2 Cost. non delinea un’endiadi e chi lo afferma incorre in un suicidio interpretativo. È vero che la Corte costituzionale non ha ancora sviluppato, dopo 25 anni, il concetto di terzietà, ma non vi è interprete avveduto che non veda come in questa connotazione del giudice, e solo del giudice, vi sia un quid pluris di carattere ordinamentale rispetto all’imparzialità, un distacco netto dallo stato giuridico delle parti processuali. Si sostiene che con la separazione delle carriere il pm perderà l’indipendenza e verrà sottoposto al potere esecutivo. Più che un fatto è la rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, un presagio di sventura che serve a spaventare lo spettatore meno attrezzato, come accade nei film dell’orrore. Il fatto è che il nuovo art. 104 Cost. attribuirà in titolarità piena e autonoma al pm la garanzia di indipendenza da ogni potere dello Stato, mentre oggi l’art. 107 Cost. gli estende graziosamente le garanzie del giudice. Un bel salto di qualità dal quale sembra impossibile trarre la conclusione opposta persino nella visione distopica dei futuri assetti politici. L’art. 104 Cost. è sparito dal dibattito, sostituito dalla descrizione di una callida e perversa volontà politica di costituzionalizzare l’indipendenza del pm per poi sovvertire tale principio. Ogni ulteriore commento è lasciato alla logica, non necessariamente giuridica. Viene poi taciuto il fatto che la riforma italiana è ricalcata sul modello adottato dal Portogallo, salda democrazia europea, in cui da circa cinquant’anni il pm è parte, separata dal giudice e indipendente dall’esecutivo. Dunque, c’è anche un’esperienza concreta che dimostra, nei fatti, come sia possibile separare le carriere e mantenere l’indipendenza del magistrato d’accusa dalla politica. Ci sarebbe poi da dire che nel nostro Paese ogni pm è così indipendente da scegliere autonomamente i criteri di priorità nell’azione penale (id est, decidere quali reati perseguire), criteri implicanti scelte così altamente politiche che nemmeno il Parlamento riesce a delinearli nella legge quadro imposta dalla riforma Cartabia. E si dimentica anche la dipendenza volontaria del pm dalla polizia giudiziaria, vero motore delle indagini, alla quale la prassi delega un deplorevole potere di proposta su misure cautelari, intercettazioni e imputazioni. È come se l’art. 109 Cost. fosse capovolto, potendo la polizia giudiziaria disporre direttamente del pm. Altro argomento travisato è l’imparzialità del pm. La parte imparziale non è solo un ossimoro concettuale, ma è anche distante dalla realtà normativa. L’imparzialità del pm è ben diversa da quella del giudice, come dimostra il fatto che il pm non può essere ricusato, mentre il giudice sì. L’imparzialità del pm è quella di ogni funzionario pubblico che deve agire con obiettività e distacco personale rispetto all’affare che sta trattando, nulla di più. Il feticcio dell’art. 358 c.p.p. è già stato demolito dalla Corte costituzionale (ord. n. 96 del 1997): il pm deve considerare le prove eventualmente a discarico per valutare la tenuta della ragionevole previsione di condanna che sta alla base dell’azione, ma non deve dimostrare l’innocenza dell’imputato, perché questa è presunta dalla Costituzione e non è un tema di prova. Si tratta della grammatica elementare del processo penale. A ben vedere, le ragioni dell’opposizione alla riforma sembrano risolversi nel rifiuto del sorteggio dei componenti togati dei futuri Csm. In un rituale di rimozione collettiva si dimentica la degenerazione correntizia svelata dal caso Palamara e la non meno esecrabile trasformazione politica del Consiglio nella “terza camera”. A mali estremi, rimedi estremi. Il sorteggio (peraltro temperabile con legge ordinaria) è l’amara medicina necessaria per curare una conclamata malattia, come è accaduto dal 2010 ai professori universitari, non a caso altra categoria di pubblici dipendenti non contrattualizzati. Il fact-checking ci restituisce il ragionevole dubbio che la strenua opposizione alla riforma si riduca a una rivendicazione di potere corporativo, con buona pace del giusto processo accusatorio che impone la terzietà del giudice. Riforma della Giustizia: perché lo sciopero dei magistrati è eversivo di Tullio Padovani* L’Unità, 27 febbraio 2025 La protesta dell’Anm di oggi è diretta a contrastare la riforma della giustizia. Ma per la Consulta non si può ostacolare il libero esercizio di un potere legittimo. L’art. 40 della Costituzione garantisce a tutti - come è noto - il diritto di sciopero secondo le leggi che ne regolano l’esercizio: tutti, compresi ovviamente i magistrati, che legittimamente possono astenersi dal prestare la propria opera per le più diverse rivendicazioni, al pari di qualsiasi altro lavoratore. Ma, al pari di qualsiasi altro lavoratore, non proprio per tutte le rivendicazioni. In proposito, occorre ricordare che, quando la falcidia della Corte costituzionale calò sul cespuglio dei delitti di sciopero a suo tempo inseriti nel codice Rocco, la potatura non fu integrale; in particolare, non lo fu nel caso dell’art. 504 c.p., che contempla la “coazione alla pubblica autorità mediante serrata o sciopero”. La sentenza n. 165 del 1983 lo dichiarò bensì illegittimo “nella parte in cui punisce lo sciopero il quale ha lo scopo di costringere l’autorità a dare od omettere un provvedimento o lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa”, ma con una significativa limitazione: “a meno che non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la volontà popolare”. Sopravvive dunque, nel nostro ordinamento, una fattispecie incriminatrice diretta a colpire una peculiare forma di sciopero politico, di indubbia portata offensiva, in quanto eversivo o in quanto diretto a colpire l’esercizio legittimo della sovranità popolare. Fa certo sorridere che alla ‘magnitudo’ del reato corrisponda poi una pena men che bagattellare (reclusione fino a due anni!), ma la curiosa asimmetria dipende solo dal fatto che la fattispecie ricavata in via residuale della Corte costituzionale sarebbe stata accolta, nel testo originario del codice Rocco, oltre che nell’art. 504, in una delle ben più ‘corpose’ incriminazioni dei delitti politici del Titolo I del Libro II, oggi rivisitate in termini restrittivi su cui non è ora il caso d soffermarsi. In sostanza, però, il convento si è fatto più parco, e alla sua mensa questo passa: il brandello dell’art. 504 c.p. relativo allo sciopero in varia guisa anticostituzionale. Si tratta, peraltro, di una disposizione a tutti gli effetti vigente e, all’occorrenza, senz’altro applicabile. La domanda che sorge spontanea è: si profila una tale occorrenza nel caso dello sciopero proclamato dall’Anm contro il disegno legge sulla riforma costituzionale dell’ordine giudiziario, e in particolare sulla separazione delle carriere? Gli indici fattuali sembrano deporre senza dubbio per l’affermativa. Il Parlamento della Repubblica sta infatti discutendo il progetto secondo le modalità previste dalla Costituzione per le modifiche al suo testo; in tali modalità figura anche l’eventualità (tutt’altro che remota) di un referendum popolare approvativo. D’altronde l’Anm proclama lo sciopero non certo per manifestare una contrarietà ideologica già ampiamente espressa e sostenuta, ma per contrastare attivamente l’iter della legge, ricorrendo a una tipica ‘arma’ di lotta sindacale. Per giunta i protagonisti dell’astensione esercitano la giurisdizione, e cioè una funzione sovrana, in cui si stabilisce quando e come debba attivarsi il monopolio statuale della forza legittima; la loro opposizione si dirige in forma attivamente ostile contro un’altra funzione sovrana, quella legislativa del Parlamento, per indurlo a cambiar rotta. Parrebbe davvero un caso di singolare, vistosa pregnanza tipica per la (pur piccola) morsa dell’art. 504 c.p. Che succederà allora quando lo sciopero si sarà consumato? Nonostante tutto c’è da credere che possiamo dormire sonni tranquilli: verosimilmente nulla. In primo luogo, perché - com’è noto - in Italia la legge è uguale per tutti quelli che non sono più uguali della legge. Si tratterà dunque di stabilire chi è più uguale. In secondo luogo, perché è difficile immaginare un pubblico ministero (necessariamente non scioperante) che eserciti l’azione penale nei confronti di altri pubblici ministeri e giudici ascritti alla compagine degli scioperanti: ne scaturirebbe - a tacer d’altro - una sorta di malattia giudiziaria autoimmune (e quindi endodistruttiva) dagli esiti a dir poco paradossali. Meglio lasciar perdere, e ripetere le parole di Gennaro ad Amalia in Napoli milionaria: “Ha da passà ‘a nuttata”. O no? *Accademico dei Lincei, Presidente d’Onore di Nessuno tocchi Caino Così il governo riscrive il sistema che tutela l’indipendenza delle toghe di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 27 febbraio 2025 La ragione dello sciopero dei magistrati: “L’Anm esprime un giudizio fortemente negativo sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario che non è una riforma della giustizia, che non sarà né più veloce né più giusta, ma una riforma della magistratura che produrrà solo effetti negativi per i cittadini”. L’astensione è disciplinata dal Codice di autoregolamentazione adottato dall’Associazione Nazionale Magistrati e approvato dalla Commissione di garanzia. I magistrati hanno dettato in questo Codice un catalogo molto ampio dei “servizi essenziali” da salvaguardare. Per di più: “In ogni caso l’Anm invita tutti i magistrati ad attuare l’astensione non solo salvaguardando i servizi essenziali, ma adoperandosi inoltre per ridurre al minimo i disagi per i cittadini”. Gli “scioperi” proclamati dall’Anm negli ultimi cinquant’anni si contano sulle dita di una mano. Vi è chi contesta questa iniziativa di radicale critica al Ddl Meloni/Nordio, approvato alla Camera nella prima delle sei letture previste. I magistrati sono “soggetti soltanto alla legge” sta scritto in Costituzione (art. 101), non “ai progetti di legge”. La riforma viene presentata come “separazione delle carriere”, ma, come risulta dallo stesso titolo del Ddl governativo, di ben altro si tratta: “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Anche chi, in linea di principio, propende per la separazione non può ignorare che è una radicale riscrittura del sistema che la Costituzione del 1948 ha posto a garanzia della indipendenza della magistratura tutta, giudici e pm. Il Csm, l’organo di “rilevanza costituzionale” al quale il costituente ha attribuito i compiti di “governo” della magistratura, competenza in passato del Ministro della Giustizia, viene ridotto alla quasi irrilevanza. È spezzettato in due organi non comunicanti, gli si sottrae la giustizia disciplinare e, soprattutto, attraverso il sorteggio dei componenti togati (secco o temperato che sia) se ne affida il funzionamento, appunto, al caso. Con un pm isolato e autoreferenziale si pongono le premesse per una progressiva influenza dell’esecutivo. Ma sin da ora con la sostanziale abolizione del modello di Csm “forte” voluto dai costituenti si mette a rischio, anche per i giudici, la garanzia effettiva dell’indipendenza. La riforma costituzionale, fino a ieri “blindata”, domani forse, secondo alcuni rumors, sarà “sblindata” ed aperta a modifiche, ma solo sulle normative più irrazionali e sgangherate, non sul ridimensionamento drastico del Csm, affidato alla sorte più o meno “temperata”. Il tutto in un quadro di attacco e delegittimazione della magistratura da parte dell’esecutivo. La Presidente del Consiglio, ieri aveva attaccato decisioni di giudici su immigrazione, ora sul caso del sottosegretario Dal Mastro rincara: “Condanna vergognosa, fondata sul niente”. Il Ministro della Giustizia va ancora oltre. Ha definito “abnormi”, un termine tecnico preciso della normativa disciplinare, decisioni di giudici solo perché non in linea con le aspettative del Governo; sul caso Delmastro critica la sentenza di condanna e auspicando l’assoluzione in appello non esita a lanciare un segnale ai futuri giudici. Il “bravo” scritto su X il 17 febbraio da Elon Musk sulla proposta di separazione delle carriere, che ormai dunque possiamo chiamare Ddl Meloni/Nordio/ Musk, si aggiunge al “licenziamento” che lo stesso Musk aveva sollecitato per i giudici che in tema di immigrazione avevano adottato decisioni non gradite. Né allora, né oggi alcuna reazione da parte del Governo e del Ministro della Giustizia di fronte a queste pesanti gravissime interferenze. La protesta dei magistrati si colloca in questo quadro: ben al di là della separazione delle carriere si dovrebbe riflettere sul fatto che l’indipendenza della magistratura, e il rispetto nei confronti dei magistrati, è un valore essenziale in democrazia, una garanzia per tutti. Per la Cassazione la morte in cella per overdose è colpa (anche) dello Stato di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 27 febbraio 2025 I giudici civili hanno sancito la corresponsabilità dell’apparato penitenziario, condannando il ministero della Giustizia a risarcire madre e vedova di un ragazzo tossicodipendente deceduto a Regina Coeli. Ventidue anni per avere giustizia. Lo Stato ha il dovere di garantire la tutela della vita delle persone che tiene chiuse in carcere, anche di quelle che in cella riescono a procurarsi sostanze stupefacenti e si espongono a rischi. E se non lo fa, e la droga arriva in cella e uccide, deve risarcire chi perde un figlio o un marito. Sembra un principio sacrosanto, scontato, declinato concretamente in automatico. Ma la Cassazione lo ha dovuto ribadire, chiudendo un caso dopo più di 22 anni, per dare giustizia e ristoro economico ad una madre e una vedova. Il concorso di colpa e i risarcimenti - I giudici della Terza sezione civile, con l’ordinanza 29.826 depositata a fine 2024 e pubblicizzata di recente, hanno reso definiva la condanna del ministero della Giustizia, tenuto a pagare quasi 223 mila euro alla mamma e circa 212mila alla moglie di un giovane detenuto stroncato da un’overdose di cocaina durante la carcerazione a Regina Coeli. Gli “ermellini” hanno dato ragione ai colleghi della Corte d’appello civile di Roma, dopo una girandola di ricorsi e ribaltamenti di decisioni precedenti, inizialmente sfavorevoli alle due donne. Alla struttura carceraria è stata addebitata metà della colpa. Il comportamento rischioso del ragazzo non basta ad escludere del tutto le responsabilità dell’apparato penitenziario, che per legge ha il compito e il dovere di controllo e di vigilanza. Lo Stato ha cercato di chiamarsi fuori - Lo Stato ha cercato in tutti i modi di chiamarsi fuori e opporsi, attraverso l’Avvocatura di Stato, provando a ribaltare sul ragazzo cocainomane l’intero peso di una fine tragica. Ha perso e ora il pronunciamento della Cassazione, richiamate precedenti decisioni in materia, potrebbe spianare la strada a cause simili e ad altri pesanti indennizzi. In Italia, ogni anno, si contano decine di decessi in carcere per suicidi, a volte prevedibili e annunciati, per cause accidentali o non meglio specificate, per abuso di stupefacenti e mix di psicofarmaci, per inalazione di gas dei fornelletti da campeggio utilizzati per cucinare, per malattia o per omicidi (come documenta il dossier Morire di carcere di Ristretti orizzonti, in www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/) Le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria - Quando un detenuto tossicodipendente muore in carcere per un’assunzione di stupefacenti - dice l’ordinanza, sintetizzata sul portale della stessa Cassazione e in siti per addetti ai lavori - c’è la responsabilità della struttura penitenziaria nella misura del 50 per cento. E questo concorso di responsabilità, nel caso trattato, è riconducibile a colpa omissiva e per due ordini di motivi. Non è stato controllato adeguatamente il ragazzo con problemi di droga, pur essendoci segnali da non sottovalutare, e non è stato impedito che la cocaina circolasse all’interno del carcere e arrivasse fino a lui. Ecco le norme di legge violate - Le norme violate, dell’ordinamento penitenziario, sono richiamate nel provvedimento di piazza Cavour. L’articolo 1 della legge 354 del 1975 impone che siano rispettati i diritti fondamentali delle persone ristrette, in primis il diritto alla vita e all’integrità fisica. Il regolamento di esecuzione, il Dpr 230 del 2000, garantisce la sicurezza nei luoghi di detenzione, almeno sulla carta, e individua gli oggetti che i detenuti possono ricevere e possedere in carcere. Invece il personale non ha vigilato adeguatamente su ragazzo fragile con trascorsi di dipendenza e non ha messo in atto le misure necessarie per evitare che la cocaina venisse portata e girasse tra le celle. L’arresto per un furto e la carcerazione - Il giovane detenuto era stato arrestato il 10 marzo 2002 per il furto di un telefonino e portato nella casa circondariale di Regina Coeli. Al momento dell’immatricolazione e della visita d’ingresso aveva dichiarato di essere tossicodipendente ed era stato preso in carico dal Sert interno. Lo avevano dimesso il 12 luglio 2002, e collocato in una cella comune, perché “risultava aver superato il problema” e aveva comunicato “la volontà di condurre una nuova vita”. Morte in cella per overdose di cocaina - Non è andata così. Il 18 luglio 2002 il ragazzo ha sniffato cocaina ed è morto in carcere a 24 anni. L’autopsia ha escluso ipotesi alternative e ha certificato che lo ha stroncato l’assunzione di droga, un’overdose. Mamma e moglie si sono affidate a una avvocata e hanno portato in giudizio il ministero di Giustizia, chiedendo di essere risarcite per il danno e per le sofferenze subite e innescando il procedimento civile concluso dopo anni e anni. Sottovalutazione del rischio di ricadute - Il ragazzo ha assunto droga per libera scelta, riconoscono i giudici di Appello e di piazza Cavour. Ma la sua “situazione era tale da rendere altamente probabile una ricaduta nella tossicodipendenza qualora, una volta dimesso dal Sert, avesse avuto la disponibilità di sostanze stupefacenti”. Il quadro era noto, Nel diario clinico compilato nel carcere romano “emergeva che era tossicodipendente dall’età di 19 anni e che, pur avendo manifestato di aver avviato un percorso di affrancamento, non poteva ipotizzarsi che si fosse definitivamente disintossicato”, come provato anche dall’ammissione ad un programma di recupero in una comunità di Trapani, dove avrebbe dovuto essere ricoverato e curato. Chiusa una indagine nel giorno della morte del ragazzo - Lo stesso giorno del decesso del ragazzo, di cui nelle agenzie si stampa e negli archivi dei giornali consultati non si trova traccia, si era avuta ampia notizia dell’esecuzione di 36 ordinanze di custodia cautelare, un punto fermo messo alle indagini sullo spaccio all’interno dei penitenziari della capitale. Alcuni pregiudicati detenuti a Regina Coeli e a Rebibbia, in una intercettazione paragonata a un villaggio vacanze con tanto di animatore, avevano organizzato l’approvvigionamento di droga con l’aiuto di familiari e di poliziotti penitenziari, finiti in quattro in manette. Cocaina ed eroina entravano negli istituti nascoste in oggetti e cibi, da tacchi di scarpe a forme di pecorino scavate per far posto alle dosi. 41-bis, il no a detenere una pianola e libri di musica viola il diritto allo studio del detenuto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2025 L’amministrazione penitenziaria e il giudice di sorveglianza investito del reclamo devono appurare la sussistenza di un diritto fondamentale della persona e valutare se ragioni di sicurezza ne giustifichino la compressione. Negare al detenuto al 41-bis di poter avere una pianola e materiale per dedicarsi all’apprendimento della musica viola il suo diritto allo studio se il possesso dello strumento non lede diritti riconosciuti all’amministrazione penitenziaria e quindi il diniego risulta ingiustificato. A fronte di una simile richiesta da parte della persona internata in carcere, l’amministrazione penitenziaria prima e il magistrato di sorveglianza poi in caso di reclamo del richiedente si devono chiedere se il detenuto stia agendo al fine di vedersi riconosciuto un diritto soggettivo e se vi siano interessi contrapposti meritevoli di tutela e operare una comparazione tra essi per decidere. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 7546/2025 - ha perciò accolto il ricorso del condannato al carcere duro che aveva domandato di poter avere una pianola ma si era visto opporre il no dalla direzione del carcere e, opposto reclamo contro questo diniego, aveva adito il giudice ottenendo un rigetto de plano della richiesta. Contro la decisione negativa il detenuto ha poi proposto ricorso per cassazione ottenendo l’annullamento con rinvio da parte dei giudici di legittimità. Al centro della questione risolta c’è la corretta interpretazione delle disposizioni degli articoli 35-bis e 69 della legge 354/1975 in base ai quali, secondo la Cassazione penale, il reclamo in questa materia deve sollecitare il giudice a valutare non la tutela di un mero interesse del detenuto alla corretta esecuzione della pena, ma il pregiudizio concreto e attuale sofferto eventualmente dalla persona reclusa a causa della scelta dell’amministrazione che risulti lesiva di una sua posizione di diritto soggettivo. Si tratta di un giudizio mirato ad accertare il riconoscimento della sussistenza di un diritto soggettivo anche quando questo non sia espressamente declinato dalla legge. La decisione ora annullata aveva ritenuto che il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria non incidesse su una posizione di diritto soggettivo del detenuto, anche come “proiezione di un diritto intangibile della persona”. Invece, va affermato che il diniego all’acquisto di testi di studio e di una pianola per esercitarsi incide sul diritto allo studio che è diritto fondamentale riconosciuto ai detenuti anche in base ai principi costituzionali e che non è limitato neanche per i detenuti sottoposti al regime del cosiddetto 41 bis. In effetti, in tale regime è riconosciuta espressamente la possibilità di iscriversi a corsi di studio, svolgere attività da autodidatta e acquistare o detenere libri. Inoltre, va detto che il ricorrente era già stato autorizzato nel precedente carcere a utilizzare un pianoforte e avere materiale per studiare la musica. In conclusione, per la Cassazione emerge il diritto soggettivo del ricorrente mentre non si appalesano particolari esigenze di sicurezza che giustifichino il no dell’amministrazione penitenziaria. Piemonte. Crisi della salute mentale nelle carceri, l’allarme dalla Camera penale di Sara Gatti gaeta.it, 27 febbraio 2025 La Camera penale del Piemonte occidentale lancia un appello urgente per affrontare la crisi della salute mentale nelle carceri italiane, evidenziando l’allarmante aumento dei suicidi tra i detenuti. La salute mentale nelle carceri sta diventando un argomento sempre più urgente di discussione in Italia, dopo un altro tragico episodio che ha colpito il sistema penitenziario del Paese. La Camera penale del Piemonte occidentale ha alzato la voce, sottolineando che fermare i suicidi nelle carceri deve diventare una priorità per chi governa. Arrivando al quindicesimo suicidio dall’inizio dell’anno, i penalisti torinesi hanno deciso di avviare una campagna di sensibilizzazione, e hanno affisso un manifesto significativo presso il Palazzo di giustizia di Torino. La società civile e le istituzioni non possono più ignorare questa drammatica situazione. Un tragico inizio d’anno - Il numero crescente di suicidi nelle carceri italiane è un fenomeno allarmante che solleva interrogativi sui diritti dei detenuti e sulle condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie. Solo nel corso di questo 2025, i dati indicano 15 suicidi tra i detenuti, un fatto che interroga le politiche di gestione della salute mentale e il supporto psicologico disponibile per i prigionieri. Il tragico caso di un detenuto di Frosinone ha scosso l’opinione pubblica; il giovane si è tolto la vita, lasciando un vuoto incolmabile e un altro grido d’allerta nel mondo della giustizia. Questo evento ha riacceso il dibattito sulla necessità di interventi concreti e immediati. Molte delle vite spezzate sono il risultato di una sofferenza profonda, spesso aggravata dall’isolamento e dalle condizioni difficili che caratterizzano la vita detenuta. Il sistema penitenziario, infatti, offre poco supporto per affrontare problemi complessi come la depressione e l’ansia, favorendo, anziché prevenire, atti estremi. I familiari delle vittime e gli attivisti chiedono a gran voce che venga assicurato il diritto alla salute mentale per tutti i detenuti. L’appello della Camera penale - In seguito a questi eventi tragici, la Camera penale del Piemonte occidentale ha lanciato un appello forte e chiaro: non c’è più tempo. Affermando che il sistema carcerario deve farsi carico delle problematiche legate alla salute mentale, hanno chiesto un intervento immediato e preciso da parte delle istituzioni. L’affissione del manifesto presso il Palazzo di giustizia non è solo un segnale di protesta, ma anche una chiamata a riflettere sulla situazione attuale, sottolineando l’importanza di affrontare il tema della salute mentale nei luoghi di detenzione. I penalisti hanno espresso la loro preoccupazione riguardo l’assenza di piani di intervento e di sostegno per i detenuti che vivono situazioni di fragilità psicologica. L’obiettivo di questo appello non è solo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche di invitare le autorità competenti a muoversi in direzione di una riforma radicale del sistema, ponendo particolare attenzione sulla prevenzione del suicidio e il supporto per i detenuti. I prossimi passi verso un cambiamento necessario - Dopo queste dichiarazioni, la richiesta di un piano d’azione si fa sempre più pressante. È necessario un approccio multidisciplinare che coinvolga esperti in salute mentale, educatori e professionisti del diritto, per formare una rete di supporto che possa realmente fare la differenza per i detenuti in difficoltà. Viene chiesto che i programmi di assistenza psicologica siano imposti come parte integrante della vita carceraria e che i detenuti che manifestano segnali di crisi vengano seguiti con attenzione e competenza. Il successo di un simile piano d’azione richiede un impegno costante da parte delle istituzioni, un cambio di mentalità che riconosca i detenuti come soggetti con diritti e bisogni. Senza una mobilitazione adeguata e un’infrastruttura di supporto, le parole della Camera penale rischiano di rimanere solo un appello inascoltato. La salute mentale nelle carceri è una questione che merita l’attenzione di tutti, perché investe la dignità e la vita di persone vulnerabili. Cremona. Si impicca in carcere dopo una lite con un laccio fissato a poco più di un metro di Francesca Morandi Corriere della Sera, 27 febbraio 2025 Aveva 40 anni ed era originario di un paese della Bergamasca il detenuto che due giorni fa si è tolto la vita nel carcere di Cremona, il secondo suicidio a Cà del Ferro dall’agosto di un anno fa, il 13esimo dall’inizio dell’anno nei penitenziari italiani. Il quarantenne si è impiccato in una cella della sezione colloqui, probabilmente mentre era in attesa di parlare con il comandante della Polizia penitenziaria. Accusato di violenza sessuale, alcuni mesi fa dal carcere di via Gleno era stato trasferito a Cremona nella sezione “protetti”, quella in cui si trovano le persone accusate di reati di quella tipologia. Condivideva la cella con altro un detenuto bergamasco. Lunedì qualcosa è accaduto in quella sezione che ospita detenuti che vengono spostati dagli istituti di mezza Lombardia: Bergamo, Brescia, Mantova, Pavia. Da qui, la decisione della direzione di trasferire il quarantenne nella cella situata in un piccolo braccio della sezione dedicata ai colloqui, e frequentata da detenuti che vanno e vengono. È stato messo provvisoriamente in una cella con due porte: una “blindo” composta da una lastra metallica e l’altra “a cancello” con le sbarre. Nel silenzio, la disperazione ha preso il sopravvento. Sulla porta a cancello, il 40enne ha fissato un laccio (forse l’elastico dei pantaloni della tuta che aveva indosso) ad un metro e 20 centimetri di altezza. Il buio, la morte. Quando lo hanno trovato, era già in gravissime condizioni. I soccorritori hanno provato a rianimarlo con il massaggio cardiaco, ma ogni tentativo di salvarlo non è servito. È stata aperta una indagine. Il gesto ha suscitato sgomento al carcere cremonese di Cà del Ferro. Sino al giorno prima, infatti, il detenuto non aveva mai dato alcun segnale che potesse far presagire il suo gesto, la sua intenzione di farla finita. Non si danno spiegazione. Era “uno psichiatrico”, nel senso che aveva accesso a un tipo di assistenza specifica, ma non veniva considerato fra quelli alle prese con patologie serie. “La drammatica situazione delle carceri italiane non ha fine, continua a mostrarsi in tutta la sua atrocità, con il peso di un’altra vita in custodia allo Stato che è stata persa - commenta Micol Parati, presidente della Camera penale di Cremona e Crema. Il carcere è arrivato ad una situazione tra le più critiche della Lombardia, con un tasso di sovraffollamento di oltre il 140 per cento”. Ad oggi, nei due padiglioni ci sono 551 detenuti su 394 posti. Gli agenti sono carenti così come il personale delle aree educativa e sanitaria. La Camera penale torna ad “esortare le forze politiche a porsi il problema della drammatica situazione carceraria italiana e a trovare soluzioni con interventi immediati che possano rendere il carcere un luogo in cui resta viva la parola futuro”. L’ennesimo grido di allarme lo lancia Alessio Romanelli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Cremona. “Questo stillicidio di suicidi nelle carceri dev’essere fermato. A Cremona ci sono oltre 500 detenuti nei due padiglioni, molti provenienti da altri istituti, quindi con difficoltà enormi anche nel gestire la parte pedagogica e socializzante”. Per Romanelli, “sarebbe fondamentale ampliare le possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, efficaci nel ridurre i tassi di recidiva. Chi sconta la pena con misure alternative presenta percentuali di ricaduta nel reato inferiori rispetto a chi la sconta in carcere”. Viterbo. Il Garante regionale dei detenuti: “Sharaf aveva paura di morire” di Valeria Terranova Corriere di Viterbo, 27 febbraio 2025 “Hassan Sharaf aveva paura di morire”, ha affermato ieri il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, chiamato a testimoniare nell’ambito del processo per la morte del detenuto egiziano di 21 anni. Imputati per omicidio colposo E.N. e M.R., rispettivamente medico del reparto di medicina protetta di Belcolle e assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria del carcere di Mammagialla, difesi dagli avvocati Giuliano Migliorati e Fausto Barili. Partecipano al dibattimento in qualità di responsabili civili il ministero dell’Interno e l’Asl. Parti civili, invece, con gli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano, i parenti del detenuto egiziano di 21 anni, deceduto nel nosocomio del capoluogo il 30 luglio 2018, dopo aver tentato il suicidio mentre si trovava nella cella di isolamento della casa circondariale sulla Teverina. Durante una lunga deposizione, Anastasìa ha risposto alle domande del procuratore generale Tonino Di Bona, ripercorrendo le iniziative intraprese e i contenuti degli esposti che presentò tra la primavera e l’estate di 8 anni fa. “A marzo 2018 - ha spiegato Anastasìa -, i miei collaboratori che avevano incontrato Sharaf e il suo compagno di cella, mi riferirono che entrambi lamentavano di aver subito maltrattamenti in occasione di una perquisizione. In particolare, il 21enne egiziano disse di aver riportato lesioni ad un timpano. In quella circostanza, Sharaf mostrò loro anche delle ferite e rivelò di temere di andare incontro ad altri abusi e che aveva paura di morire, ma allora non emersero intenzioni suicidarie”. “Così dopo aver raccolto anche le denunce di altri detenuti che avevano raccontato altri episodi di maltrattamenti o le difficoltà riscontrate nell’accedere ai controlli medici, scrissi al provveditorato regionale Lazio-Abruzzo-Molise - ha continuato -. La provveditrice e il direttore della sezione detenuti mi rassicurarono sulla situazione e mi garantirono l’incolumità del ragazzo e che avrebbero preso provvedimenti adeguati. Alla fine del mese di maggio andai a visitare il penitenziario di Viterbo e depositai un primo esposto in Procura l’8 giugno, in cui citavo questo e gli altri casi. Poi venni a sapere del tentativo di suicidio e successivamente del decesso del ragazzo”. Ivrea (To). Consiglio comunale in carcere: farsa e rivolta di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 27 febbraio 2025 Un Consiglio comunale trasformato in passerella, mentre il carcere di Ivrea è al collasso: detenuti abbandonati, attività cancellate, rieducazione inesistente e un’ennesima rivolta ignorata dalle istituzioni. Il secondo consiglio comunale della storia di Ivrea tenutosi all’interno della casa circondariale. Il secondo per il sindaco Matteo Chiantore e per l’assessora Gabriella Colosso. Del tutto inutile, a giudicare dai risultati. Meglio sarebbe stato non farlo o farne uno nella solita assise. Sulla carta un modo per dare un segnale di attenzione verso la realtà carceraria, nella pratica sono mancate le persone e i contenuti. Solo tre detenuti presenti. Tutti e tre soddisfatti e contenti, o almeno così hanno dichiarato. Assenti i sindacati di Polizia penitenziaria, presente il medico dell’Asl, una rappresentanza della Casa di Carità e del Cpia, che però a ben vedere avrebbero potuto essere incontrata ovunque. Lo ha detto sotto tono, ma con amarezza, la consigliera comunale Vanessa Vidano: “Mi aspettavo di ascoltare e vedere un pubblico diverso”. Tant’è! Tutto inutile, se non fosse che a un certo punto la situazione è degenerata. Prima la sirena che avviso del pericolo, poi urla, vetri rotti, ambulanze che vanno e che vengono. Una rivolta, fomentata da chi, con ogni probabilità, non voleva perdere l’occasione di farsi sentire dalla “società civile”. A dare il via agli interventi la direttrice Alessia Aguglia. Poi, tutti i presenti hanno seguito lo stesso spartito: un elenco di ciò che è stato fatto, senza alcuna riflessione su ciò che si dovrebbe ancora fare. Eppure, nei giorni precedenti, l’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” aveva inviato un documento dettagliato a sindaco, giunta e consiglio comunale, denunciando una situazione insostenibile. Un atto d’accusa che sottolineava come, dentro quelle mura, si consumi ogni giorno un fallimento collettivo, fatto di indifferenza istituzionale, diritti negati e una rieducazione inesistente. La denuncia è chiara: il carcere di Ivrea non è un luogo di rieducazione, ma un contenitore di persone abbandonate a sé stesse. E si comincia con il giornale L’Alba bloccato e censurato, senza alcuna motivazione ufficiale. La biblioteca, che avrebbe potuto rappresentare uno strumento di crescita per i detenuti, è chiusa da anni, lasciata nell’incuria più totale. Il progetto Cinevasioni, nonostante i finanziamenti ricevuti, ha potuto offrire una sola proiezione in un anno. La tipografia del carcere, che potrebbe creare opportunità lavorative, è ferma per mancanza di personale. L’Associazione Volontari Penitenziari denuncia anche l’assenza di un dialogo costruttivo con la Direzione del carcere. “Abbiamo la sensazione di essere considerati dei meri fornitori di servizi assistenziali per indigenti a costo zero”, si legge nel documento inviato al Comune. “Veniamo sollecitati a fornire presidi igienici, a fare movimenti economici per conto dei detenuti, ad acquistare oggetti che dovrebbe acquistare l’impresa con apposito appalto, a sostituirci nelle cure dentistiche con il contributo di un medico volontario”. La situazione per i volontari è diventata insostenibile. Le richieste di ingresso per svolgere attività sono bloccate da mesi. Le attività culturali e formative, fondamentali per la rieducazione e il recupero sociale dei detenuti, vengono sistematicamente ostacolate. Il progetto Artisti dentro, che prevedeva un calendario di eventi per i detenuti, non ha mai ricevuto risposta dalla Direzione. E c’è di più: la diffusione del video dello spettacolo Della mia anima ne farò un’isola, già autorizzato e finanziato, è stato bloccato senza una chiara motivazione. “Il problema più grave - commenta Antonio Michelizza - resta quello del reinserimento sociale”. Molti detenuti escono dopo anni di reclusione senza una casa, senza un lavoro, senza nessun supporto. L’amministrazione carceraria se ne lava le mani e la comunità esterna, invece di accogliere, respinge. Il risultato? La recidiva aumenta, perché chi esce dal carcere senza strumenti per ricostruirsi una vita non ha alternative. L’Associazione “Tino Beiletti” ha cercato di cambiare le cose, coinvolgendo i Sindaci del Canavese per costruire percorsi di reinserimento. Ben 24 Comuni hanno dato la loro disponibilità ad accogliere ex detenuti in programmi di volontariato e formazione professionale. Ma senza una volontà politica forte e un coordinamento istituzionale serio, tutto questo rischia di rimanere solo sulla carta. Nel carcere di Ivrea, oggi, meno di dieci detenuti escono quotidianamente per attività esterne. L’Associazione chiede di raddoppiare questo numero entro un anno. Non è un obiettivo irrealizzabile, ma una necessità. Nessuno dovrebbe uscire dal carcere senza un progetto di reinserimento. “Possiamo impegnarci, tutti insieme, a raddoppiare questo numero nel giro di dodici mesi?” chiedono i volontari. “Sarebbe solo una tappa, perché in dodici mesi saranno molte di più le persone che termineranno la pena, uscendo con gravi problemi di inserimento sociale e lavorativo”. Il messaggio al consiglio comunale è chiaro: basta immobilismo. Il carcere non è un mondo a parte, ma una parte integrante della città. Ignorare i problemi della detenzione significa alimentare un circolo vizioso di esclusione e marginalità che ricadrà su tutta la comunità. “Non è una questione di buonismo, è una questione di sicurezza, di giustizia, di umanità”. L’Associazione ha acceso i riflettori su un problema che nessuno può più fingere di non vedere. Ora la politica e la società civile devono decidere da che parte stare. Il volontariato contro l’indifferenza: il vero motore del cambiamento - C’è un passaggio memorabile in Le ali della libertà, quando Andy Dufresne, dopo aver lottato contro un sistema opprimente, scrive all’amico Red: “La speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose. E le cose buone non muoiono mai”. Peccato che a Ivrea, dentro le mura del carcere, la speranza non trova spazio. Non c’è luce, non c’è riscatto, solo un’apatia che divora ogni tentativo di cambiamento. L’ultimo consiglio comunale, tenutosi dentro quelle sbarre, doveva essere un atto di consapevolezza. Il risultato è stato un teatrino vuoto. Pochi presenti, poche parole, una mozione di 13 punti che vedremo come si evolverà. Eppure, in questo buio soffocante, c’è chi ancora lotta. I volontari dell’Associazione “Tino Beiletti” non si arrendono. Gridano, denunciano, cercano di colmare un vuoto che lo Stato lascia impunemente aperto. Si scontrano con ostacoli assurdi: una tipografia che potrebbe offrire opportunità lavorative e che invece resta inutilizzata; attività formative che dovrebbero dare speranza e che vengono ostacolate dalla burocrazia; un giornale che c’era e non c’è più E il loro grido non è solo per i detenuti, ma per tutta la società. Perché l’indifferenza con cui lasciamo marcire queste persone dentro le celle ci si ritorcerà contro. Chi esce senza strumenti, senza un lavoro, senza un tetto, senza un’opportunità, tornerà inevitabilmente a sbagliare. E allora? Li richiuderemo dentro e penseremo di aver risolto il problema? La verità è che nessuno vuole guardare in faccia questa realtà. Fa comodo credere che il carcere sia un luogo lontano, separato dal mondo civile. Ma non lo è. Il carcere è parte della nostra società. Ed è la prova più lampante del nostro fallimento. L’Associazione “Tino Beiletti” ha proposto un obiettivo concreto: raddoppiare in un anno il numero di detenuti che partecipano ad attività esterne. Un piccolo passo, ma un passo necessario. Per dare una possibilità a chi esce, per costruire un futuro in cui la recidiva non sia la regola, ma l’eccezione. Ma serve volontà politica. Serve che le istituzioni smettano di voltarsi dall’altra parte. Serve che ognuno di noi si chieda: vogliamo davvero continuare a fingere che il problema non ci riguardi? O vogliamo finalmente iniziare a cambiare? La speranza non muore mai, diceva Andy Dufresne. Ma per tenerla in vita, qualcuno deve lottare per lei. Oggi, quella lotta è nelle mani di pochi volontari. Firenze. Sollicciano, ancora polemiche. Il Garante attacca la politica: “Il carcere non porta voti” di Niccolò Gramigni La Nazione, 27 febbraio 2025 Duro affondo di Fanfani sulle condizioni del penitenziario, il dibattito s’infiamma. E intanto manca il referente fiorentino per i detenuti e un direttore definitivo. È stato un mercoledì teso quello relativo al tema del carcere. In Toscana la situazione è complessa - tra suicidi, aggressioni e condizioni delle strutture -, nel carcere fiorentino di Sollicciano a una situazione di evidente precarietà si aggiungono due aspetti ad ora mancanti. Non c’è un direttore definitivo, dopo l’addio di Antonella Tuoni. E non c’è un garante fiorentino dei detenuti, ruolo al momento vacante. Così è stato il garante dei detenuti toscano Giuseppe Fanfani a prendere in mano la situazione. Con parole al vetriolo nei confronti della politica. “La politica si disinteressa del carcere: il carcere non porta voti, consensi, è pacifico. È molto meglio negare i problemi”. L’attacco è in generale alla politica fiorentina e regionale, colpevole secondo Fanfani di non dare seguito, con i fatti, alle parole. Non si fanno nomi e cognomi, ma è evidente che tutti gli esponenti fiorentini parlano di Sollicciano: dalle opposizioni in Consiglio comunale - su tutti Dmitrij Palagi di Sinistra Progetto Comune ma sono molto attivi anche i consiglieri di Fdi - fino ai piani più alti della macchina comunale e dunque la sindaca Sara Funaro e l’assessore competente Nicola Paulesu. Il concetto di Fanfani è che “tutti parlano, ma poi bisogna essere conseguenti. E fare”. Una bella critica. Dal punto di vista infrastrutturale, secondo Fanfani, Sollicciano “è inadeguato rispetto alle esigenze che il sistema detentivo imporrebbe. La soluzione non so quale sia, io faccio l’avvocato. Di certo cinque carceri piccoli sono molto più facili da gestire e riabilitanti che un carcere grande”. Dal Comune l’obiettivo è quello di evitare la polemica con Fanfani: esiste un tavolo di coordinamento di tutte le realtà che operano all’interno del penitenziario fiorentino. Paulesu ha spiegato che “un coordinamento è necessario ed è un’azione che possiamo e vogliamo portare avanti come amministrazione. Come già detto in più occasioni a Sollicciano la situazione è drammatica e urge un’attenzione sempre maggiore”. A proposito di concretezza, il deputato dem Federico Gianassi ha ricordato di aver “posto sei domande concrete” al ministro della giustizia Carlo Nordio, tra cui il quesito sul motivo per cui non è stato nominato un nuovo direttore. “Dalle domande ci aspettiamo risposte e non i consueti silenzi”, ha attaccato Gianassi. L’assessora alle politiche regionali per le questioni carcerarie Serena Spinelli ha sottolineato che il “Ministero della giustizia” deve “parlare” di queste strutture “non come luoghi in cui si butta via la chiave ma luoghi in cui si determina riabilitazione”. A livello comunale Palagi ha voluto replicare a Fanfani: “Il garante ha ragione in parte - ha affermato -. Non manca l’attenzione, manca la volontà di risolvere il problema senza scaricare su altri”. “Non sono d’accordo col garante perché la politica la fanno le persone. È un voler generalizzare e non va bene”, ha sottolineato Angela Sirello di Fdi. Venezia. “Nel carcere della Giudecca abbiamo visto bambini, sovraffollamento e carenze” veneziatoday.it, 27 febbraio 2025 Venerdì la delegazione di Radicali e associazioni insieme ad Andrea Martella e Paolo Ticozzi (Pd): “L’unica funzione della pena è quella rieducativa”. Nel pomeriggio dibattito nella sede di Emergency. Il 28 febbraio l’associazione Nessuno Tocchi Caino, insieme ai Radicali di Venezia, al senatore Andrea Martella (Pd) e il consigliere comunale Paolo Ticozzi (Pd) visiteranno la casa di reclusione femminile di Venezia con alcuni esponenti della Camera Penale di Venezia. Si tratta della prima delle visite nelle carceri di Venezia e del Veneto, organizzate dai radicali con Nessuno Tocchi Caino e le associazioni che operano all’interno degli istituti in questo 2025. Visite volte a monitorare la situazione degli istituti e attirare le attenzioni delle istituzioni. Nel pomeriggio, alle 18, presso la sede di Emergency, si svolgerà la conferenza con la presentazione del libro “La Fine della Pena” di Nessuno Tocchi Caino. La giornata sarà dedicata ad Andrea Franco, l’avvocato recentemente scomparso. Le istituzioni fanno troppo poco per il reinserimento dei detenuti? “Per aumentare la sicurezza è imprescindibile assicurare l’unica funzione della pena, ovvero quella rieducativa” dichiara Samuele Vianello dei Radicali di Venezia che lamenta: “Nessun impegno da parte del governo - nonostante le interrogazioni presentate in particolare dal Senatore Martella - e da parte della regione, dove i consiglieri regionali di maggioranza hanno completamente ignorato il report delle visite del 2024 a loro inviato e rifiutato di costituire un intergruppo regionale sul tema penitenziario, come fatto in Lombardia, regione a guida leghista”. “La situazione delle carceri è drammatica a causa del sovraffollamento, che ha raggiunto in molte regioni, tra cui il Veneto, livelli record. Le condizioni all’interno dei penitenziari sono preoccupanti sia per i detenuti che per il personale, come dimostra l’aumento dei suicidi - commenta Andrea Martella - Come Partito Democratico continuiamo a denunciare questi fatti e a chiedere al governo interventi di varia natura: ricorrere il più possibile alle misure alternative; aumentare il personale, tra cui medici, infermieri, psicologi, formatori; potenziare le attività di formazione e di lavoro per recuperare il più possibile la funzione sociale della pena. La risposta del governo va purtroppo nella direzione contraria. L’ossessivo ricorso al diritto penale di fronte a ogni problema sociale ha implicato l’istituzione di molte nuove fattispecie di reato e il generale aggravamento delle pene”. “Negli ultimi mesi, nelle commissioni consiliari, abbiamo fatto un percorso di ascolto sulle carceri con le audizioni dei due direttori, dei due garanti e delle realtà associative e lavorative che vi operano” nota il consigliere comunale Paolo Ticozzi, secondo cui sono emerse varie criticità. In particolare quelle riguardo i bambini presenti con le madri all’Icam (l’istituto di custodia attenuata per detenute madri) di Venezia, legate “ai contributi al reddito che eroga il comune alle persone ristrette che stanno facendo percorsi di reinserimento. Speriamo che la visita sia l’occasione per verificare, chiarire e sistemare i problemi emersi”. Cagliari. Ospedale Santissima Trinità, dopo 15 anni apre il reparto per i detenuti cagliaritoday.it, 27 febbraio 2025 Ieri l’ennesimo episodio che ha coinvolto un detenuto al pronto soccorso del Santissima Trinità e l’agente di scorta aggredito. Oggi la giunta regionale ha deliberato l’attivazione del reparto detentivo all’ospedale cagliaritano di Is Mirrionis, con la disponibilità di quattro posti letto. “L’assistenza - fa sapere la Regione dopo l’approvazione della delibera proposta dall’assessorato guidato da Armando Bartolazzi - sarà assicurata da personale infermieristico e operatori socio-sanitari che vengono messi a disposizione o reclutati appositamente per la struttura. Nel caso in cui non vi siano pazienti ricoverati nella struttura, il personale infermieristico e gli operatori socio-sanitari verranno assegnati temporaneamente ad altri reparti in base alle necessità”. Un’attesa lunga 15 anni - La storia del reparto detentivo al Santissima Trinità arriva da lontano, lo scorso novembre a riportarla all’attenzione delle istituzioni era stata la garante regionale dei detenuti Irene Testa: “Il reparto destinato ai detenuti dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari pronto da oltre 15 anni non è mai entrato in funzione. Soldi pubblici sprecati” aveva detto rivolgendo un appello al coordinatore dell’Osservatorio sulla sanità penitenziaria. “Il reparto: è dotato di tutte le misure di sicurezza, ma al momento è occupato abusivamente, Bene ha fatto il garante metropolitano Gianni Loy a depositare un esposto in Procura”, aveva sottolineato Testa. Cuneo. Elettricisti o meccanici, assunzioni in carcere: “Troveremo spazi e un percorso per tutti” di Giulia Poetto La Stampa, 27 febbraio 2025 Ieri la prima visita al Cerialdo della delegazione di aziende della Fondazione Industriali. La presidente Giuliana Cirio: “Questa è la sana responsabilità d’impresa”. Alte, insormontabili, impermeabili rispetto a violazioni del patto sociale, e al contempo di vetro e osmotiche rispetto a situazioni positive, dentro e fuori. Così dovrebbero essere secondo Mario Antonio Galati, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, le mura delle carceri, così sono state ieri le mura della casa circondariale di Cuneo. Prima dell’alba le perquisizioni condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Torino e dal Nucleo Investigativo regionale della Polizia Penitenziaria di Torino nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura a carico di più di cento persone indagate per traffico di stupefacenti e altri reati commessi all’interno degli istituti carcerari, nel pomeriggio la sottoscrizione di un protocollo d’intesa che non è eccessivo definire storico. Storico perché la Fondazione Industriali, ente del terzo settore costituito lo scorso 8 ottobre da 23 soci fondatori e in procinto di allargare le sue fila, porterà lavoro in carcere nell’unico modo che conosce - concreto, cinico, orientato al risultato e basato sui numeri. Lo farà perché, come ha rimarcato la sua presidente, Giuliana Cirio, “fare imprenditoria è agire da soggetto sociale: le scelte degli imprenditori impattano sulla società a tantissimi livelli. Questa è la sana responsabilità d’impresa”. Se il privato potrà fare il privato in carcere, è perché il pubblico fa il pubblico: “In questa scommessa il privato subentra dove il pubblico ha bisogno, ma per fare impresa in maniera libera e sicura non può prescindere dall’operato delle forze dell’ordine e del sistema penitenziario”. Privato e pubblico insieme, dunque, per permettere ai detenuti di riacquistare dignità, libertà e autodeterminazione attraverso il lavoro, in carcere e nelle imprese. Il personale delle case di reclusione di Cuneo, Alba, Saluzzo, Fossano avrà un ruolo importante nella selezione dei soggetti da inserire nei percorsi lavorativi che, come sottolineato da Galati, dovrà essere guidata dallo stesso cinismo degli imprenditori: “non il meno peggio, ma chi è idoneo a trarre il maggior profitto da questa opportunità”. In altre parole, nessuno verrà fatto giocare fuori ruolo, perché sarebbe un’occasione sprecata: quel profilo lo si cercherà altrove nel distretto. Come dimostrato dalla visita della casa circondariale che ha seguito la sottoscrizione del protocollo, gli imprenditori della Fondazione Industriali non potranno che partire dal campo per modulare la propria offerta lavorativa. A quelli presenti ieri - Mariano Costamagna (Im.Cos Due), Paolo Giuggia (Giuggia Costruzioni), Stefano Giannotta (Tesisquare Koinè), Gianluca Oliva (Prato Nevoso), Roberto Rolfo (Rolfo), Emiliano Rosso (Cuneo Lube), Matteo Rossi Sebaste, Egle Sebaste (Golosità dal 1885) e Serena Tosa (Tosa) - è bastata poco più di un’ora per rendersi conto dell’esiguità degli spazi potenzialmente a disposizione per attività produttive. Non un limite, solo un dato di fatto. Giuliana Cirio anticipa i prossimi passi: “Verificheremo quali strutture delle quattro carceri possono ospitare lavorazioni di tipo meccanico e artigianale che richiedono macchinari trasportabili, quindi lanceremo una call alle aziende manifatturiere che possono esternalizzare questo tipo di funzione”. Poi ci sarà una fase di mappatura delle competenze dei detenuti - “vogliamo rispettare il fatto che una persona abbia lavorato come elettricista per tutta la vita, e che quando rientra nella società civile possa continuare a farlo, perché la dignità del singolo passa attraverso anche la capitalizzazione della sua esperienza” -, cui seguirà uno step più complesso sotto tanti punti di vista, l’individuazione dei detenuti che possono uscire dalle carceri per lavorare. Nessuno crede che sarà facile, tutti, come si è visto ieri, hanno già cominciato a pensare a come riempire la cornice definita dal protocollo. Brescia. A Sant’Alessandro, dove i detenuti ritrovano la strada verso la libertà di Francesco Alberti Giornale di Brescia, 27 febbraio 2025 Il progetto, coordinato dalla Parrocchia, coinvolge 15 persone giunte a fine pena. Un cammino di reinserimento, un percorso verso la normalità, verso la vita libera. Per essere pronti ad affrontare la vita dopo che la pena sarà stata scontata. È un progetto innovativo, non solo per Brescia (tra i primi in Italia), quello messo in campo a Sant’Alessandro dalle parrocchie del centro storico coordinate da mons. Giovanni Manenti. Al centro dell’iniziativa c’è un gruppo di detenuti di Canton Mombello quasi giunti al termine della condanna carceraria; persone che vengono supportate per essere pronte a gestirsi autonomamente quando la libertà sarà integralmente riconquistata. Negli spazi sopra il cinema Moretto ha aperto il Centro diurno esterno, dove, appunto, i detenuti a fine pena possono, spiega il parroco, “ritrovare quella quotidianità caratterizzata da un senso di normalità, se così possiamo dire, dopo aver ovviamente espiato il loro errore”. Monsignor Manenti si occupa di Sant’Alessandro, Sant’Afra, San Lorenzo e Santa Maria in Calchera dal 2023;?nel giro di soli due anni ha messo in campo una riorganizzazione molto significativa anche degli ambienti delle varie parrocchie, un percorso (che richiederà ovviamente del tempo) che mira ad una gestione efficiente coniugata con una valorizzazione in chiave sostenibile degli spazi, pensando (dove possibile) a nuove destinazioni. A Sant’Afra, per fare un esempio, ha trovato casa il magazzino del Vol.ca., il gruppo di volontari che opera in carcere, e che sorge proprio nel territorio di Sant’Afra; un’ampia stanza è così diventata il deposito per abiti, prodotti di igiene e molto altro: spesso i carcerati hanno necessità di ogni cosa. Tornando al Centro diurno, il progetto nasce da una collaborazione tra la Parrocchia (con la Caritas diocesana) e la cooperativa sociale Comunità Fraternità; i detenuti sono seguiti anche da operatori della Cooperativa di Bessimo. Sono attualmente coinvolte quindici persone che trascorrono nella struttura due giornate a settimana, il martedì e il giovedì, anche cucinando e mangiando insieme. Per i momenti di svago c’è anche un campetto da calcio. Il progetto è supportato da fondi della Caritas e dello Stato, la copertura è garantita per tutto il 2025, con l’auspicio che si possa continuare rendendo l’iniziativa stabile nel tempo. “Un’esperienza di vita comune - racconta mons. Manenti - che offre una prospettiva di speranza nella vita di queste persone”. Proprio quella speranza che papa Francesco ha voluto come elemento caratterizzante per il Giubileo. Impegno - Il Centro di Sant’Alessandro risponde poi a un desiderio espresso dal vescovo Pierantonio Tremolada proprio per l’anno giubilare in corso: realizzare iniziative che si occupino dei carcerati. In ambito diocesano ha così preso corpo “Via dei Bucaneve, 25: la libertà trova casa”, iniziativa realizzata da Vol.ca. e Caritas; due i fronti di azione: il primo riguarda un supporto per chi lascia il carcere e deve reinserirsi nella società, il secondo riguarda invece l’assistenza a chi è ancora in carcere. Monza. Stop all’isolamento del carcere: la Provincia chiede una fermata dell’autobus monzatoday.it, 27 febbraio 2025 Lo aveva fatto in ottobre il consigliere comunale Paolo Piffer, adesso lo ribadisce con una mozione (votata all’unanimità) anche la Provincia di Monza e Brianza. Una fermata dell’autobus in prossimità del carcere di Monza per permettere ai parenti non automuniti di recarsi in visita dai congiunti, ma anche ai detenuti con permessi di potersi muovere durante le uscite. Il primo a chiederla era stato, a ottobre 2024, il consigliere comunale di Monza Paolo Piffer (Civicamente). Adesso la questione passa in Provincia, dove il gruppo consiliare di centrosinistra Brianza Rete Comune ha presentato una mozione per richiedere un servizio di trasporto pubblico con Sanquirico. La mozione, approvata all’unanimità, dovrebbe così risolvere un problema annoso. “Il servizio del Tpl va aggiornato” - Vincenzo Di Paolo, capogruppo di Brianza Rete Comune, ha sottolineato la necessità di collegare il carcere con il resto della città e del territorio, non solo per i parenti, ma anche e soprattutto per i detenuti che, una volta usciti dal carcere, si ritrovano isolati, anche fisicamente, dal resto della città. “Abbiamo chiesto alla Provincia di intraprendere un’azione congiunta con il Comune di Monza e riteniamo che il voto unanime in Consiglio sia un segnale importante. Abbiamo colto l’occasione per ribadire al presidente Luca Santambrogio e alla maggioranza di centrodestra la necessità di un aggiornamento generale e di un confronto sulle procedure di gara per il nuovo affidamento dei servizi di trasporto pubblico” commenta il capogruppo di centrosinistra. A ottobre il primo passo concreto - Da oltre 10 anni, dai banchi del consiglio comunale di Monza arriva la richiesta di collegare il carcere al resto della città con una fermata dell’autobus. Una richiesta che Paolo Piffer aveva già avanzato, ma che era stata bocciata ai tempi della giunta Scanagatti. “Era inaccettabile che nel 2024 una struttura penitenziaria che ogni giorno ospita circa 1.000 persone tra detenuti, agenti penitenziari, medici e volontari fosse isolata e accessibile solo a chi possiede un mezzo di trasporto proprio - aveva commentato Piffer alcuni mesi fa, dopo il via libera alla sua richiesta -. Si sente spesso parlare di politici e amministratori locali che sottolineano il ruolo rieducativo del carcere, l’inclusività e la necessità di pene che non vadano contro il senso di umanità (come previsto dall’articolo 27 della Costituzione). Finalmente, qualcosa di concreto: una madre, un figlio, un fratello potranno recarsi a colloquio senza troppe difficoltà. Di certo, questa iniziativa non risolverà tutti i problemi legati alla carenza di personale penitenziario, alle criticità strutturali o al diritto alla salute, ma rappresenta un piccolo passo verso una città più civile. Sono felice che il consiglio comunale abbia approvato all’unanimità la nostra proposta”. Alessandria. Il Quirinale premia “Idee in fuga”, il buono che esce dalle carceri di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 27 febbraio 2025 Il 7 è un numero fortunato per Carmine Falanga. Campano, 47 anni, da 7 anni è attivo nelle due carceri di Alessandria; dal 2020 con la sua cooperativa “Idee in fuga”. Oggi arriva il riconoscimento del presidente Mattarella: cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana “per la sua attività volta a creare una sinergia tra le mura del carcere e le imprese”. “È la ciliegina sulla torta”, dice Carmine; “il Presidente ha riconosciuto qualcosa di innovativo nella nostra idea di impresa all’interno del carcere, che è più all’esterno del carcere”. Dentro e fuori comunicano per dare continuità e prospettive: questa è la strategia vincente. Tutto parte nel 2018, con un laboratorio di falegnameria nella casa circondariale di Alessandria. L’attività viene replicata all’esterno, per evitare le interruzioni orarie delle lavorazioni dentro il carcere, ma anche per dare prospettive ai detenuti a fine pena. E avanti con un laboratorio di pasticceria e panificazione; poi, il “Luppoleto galeotto” per produrre la birra. “Mentre aprivamo qualcosa dentro già stavamo pensando al fuori, in modo da avere un ponte non solo tra i due istituti della città, ma anche con la società”, racconta Carmine. “Non bisogna solo limitarsi a dare lavoro dentro, è sì fondamentale, ma la vera sfida è il dopo”. Nel giugno 2024, il salto di qualità. Quello che, per Carmine, ha dato “lo slancio al progetto; il bistrot aperto sulle mura della casa circondariale”. Un locale reso possibile grazie anche all’aiuto del personale: “abbiamo riqualificato uno spazio della polizia penitenziaria - il garage del direttore e del comandante, che erano inutilizzati e che ci hanno ceduto volentieri”. Finora sono 60 i detenuti formati e reinseriti da “Idee in fuga”; 15 i ristretti ed ex ristretti che oggi lavorano nei laboratori, nel luppoleto e nel bistrot. “Il bello di questo progetto - prosegue Carmine - è che i detenuti possono fermarsi una volta scontata la pena”. L’uscita dal carcere è una fase delicata, non sempre c’è qualcuno fuori ad accogliere ed offrire prospettive. “Per i primi due anni li aiutiamo a trovare una casa e li supportiamo con uno stipendio regolare, così possono riorganizzarsi la vita, specie quelli che non hanno un posto né affetti qui ad Alessandria”. “Idee in fuga” non si ferma; ci sono altri progetti in cantiere. “La prossima tappa è un laboratorio di pasticceria esterno - svela Carmine -; abbiamo tante richieste di catering, gli orari del carcere sono limitanti e abbiamo bisogno di spazio”. Le attività della cooperativa non sarebbero state possibili senza il supporto dell’amministrazione. “La direttrice di allora, Elena Lombardi Vallauri, fu la prima a credere in tutti i progetti” - dice ancora Carmine. “Anche con l’attuale direzione la sinergia è massima”. Sette anni fortunati. Oggi, la “conferma che stiamo facendo qualcosa di bello e buono, in un contesto difficilissimo”. Ancona. A scuola di vita. Una lezione con i detenuti: “Ragazzi, il carcere è oblio” di Giuseppe Poli Il Resto del Carlino, 27 febbraio 2025 Gli studenti del Galilei hanno ascoltato storie e testimonianze di chi l’ha vissuto. La preside: “Non solo le materie, ma anche educazione alla cittadinanza”. Un’assemblea d’istituto al Teatro Sperimentale per confrontarsi sulla vita in carcere, sul sistema di detenzione, sulle sue possibilità di recupero, ascoltando testimonianze di detenuti ed ex detenuti, e di chi ci lavora quotidianamente. L’iniziativa è nata dagli studenti del liceo scientifico Galilei di Ancona che ieri si sono ritrovati nel teatro, concesso dal Comune, per una mattinata dal titolo “Dentro e fuori: storie, testimonianze e riflessioni sul sistema carcerario italiano”, per ascoltare, porre domande e approfondire l’argomento, particolarmente sentito anche perché molti di loro hanno già fatto l’esperienza di lavorare nei campi confiscati alle mafie. “E’ un’assemblea d’istituto che gli studenti hanno avuto la capacità di trasformare in evento - ha spiegato la preside del Galilei, Alessandra Rucci -. Il tema è una libera scelta studentesca, legata al fatto che questi ragazzi stanno seguendo un percorso educativo che li ha portati a conoscere la realtà della mafia. In terza tutti i nostri ragazzi, per un progetto di istituto, passano una settimana nei campi di lavoro di Libera, in Campania, in Calabria, campi che sono stati confiscati. E in quell’esperienza conoscono le vittime, il loro dolore, ascoltano testimonianze. Questo evento diventa, così, l’altra faccia della medaglia, cioè che cosa succede alle persone che si macchiano di questi reati. La settimana scorsa una delegazione dei nostri studenti ha fatto visita al carcere di Montacuto, per capire se per questi detenuti c’è una possibilità di riscatto, di studio e di riflessione, e magari anche di reinserimento nella società. Si fa scuola non solo con le materie, ma anche e soprattutto con l’educazione alla cittadinanza”. All’iniziativa ha partecipato anche il garante regionale dei diritti della persona, Giancarlo Giulianelli che ha ricordato come il carcere sia una criticità del presente sulla quale i giovani devono riflettere: “Un incontro fondamentale perché permette a questi studenti di confrontarsi con chi l’ha vissuto in prima persona. E’ giusto che i giovani sappiano queste cose. Tra l’altro questo risponde all’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario che prevede la partecipazione della comunità esterna, e dunque anche dei giovani, alla vita e alla realtà del carcere. Non solo perché siano partecipi di quanto avviene in carcere, ma anche perché è un modo attraverso il quale la comunità dei detenuti può dirsi parte di una comunità più ampia”. Molto coinvolgenti le testimonianze: “Sono qui per cercare di far passare il messaggio di come si vive là dentro - ha raccontato Pietro Rumori, ex detenuto -. Il carcere mi ha segnato, mi ha fatto cambiare, mi ha fatto male alla testa. E’ il massimo della schifezza, è l’oblio, è il nulla, è follia. Il vero carcere lo conoscono solo i detenuti, solo un detenuto può sapere cosa significa stare in un buco di dieci metri con varie persone di diverse etnie, una cosa molto forte. Non fisicamente, come molti credono, ma psicologicamente, che lascia segni indelebili”. In video collegamento da Napoli anche il detenuto Pierdonato Zito, che con la sua testimonianza ha ricordato come l’importante sia non farsi cambiare dal carcere: “Sono stato nel buio senza diventare buio, sono stato nel fango senza diventare fango”, ha detto, ricordando poi altri aspetti della sua esperienza a Secondigliano. Bergamo. Daria Bignardi con “Ogni prigione è un’isola” apre le porte delle carceri di Carmen Pupo L’Eco di Bergamo, 27 febbraio 2025 Cosa succede quando una società decide di chiudere a chiave le sue paure, le sue fragilità e i suoi fallimenti? Cosa rimane di chi viene lasciato a scontare non solo una pena, ma anche l’oblio collettivo? In “Ogni prigione è un’isola” Daria Bignardi ci costringe a guardare dentro un mondo che esiste ai margini delle nostre città ma anche delle nostre coscienze: il carcere. “Ogni carcere è un’isola, ogni isola una prigione” è la frase cardine del romanzo di Bignardi edito da Mondadori perché racchiude il senso profondo dell’isolamento, fisico e mentale, che attraversa la storia. Una storia che vede la giornalista coinvolta in prima persona perché lei il carcere lo frequenta da quando aveva vent’anni. Più che essere un libro sul carcere, si tratta di un libro su ciò che il carcere dice di noi. Di chi siamo, di come viviamo la giustizia, di quanto siamo disposti a dimenticare chi sbaglia. E di quanto ci illudiamo di essere liberi. Daria Bignardi scrive partendo da un’isola. Linosa, un luogo remoto che nei suoi colori e nel suo isolamento richiama l’immagine stessa della prigione. L’isola è una metafora potente per parlare di una separazione che non riguarda solo chi è detenuto ma anche chi vive libero, credendosi al sicuro. È qui che l’autrice sceglie di affrontare un’ossessione che ha radici profonde: il carcere non solo come luogo fisico, ma come esperienza umana, come condizione dell’anima. Linosa è anche l’isola nota per aver accolto negli anni Settanta i mafiosi in soggiorno obbligato ed è il posto che sceglie per portare a termine il suo libro. A vent’anni, Bignardi scriveva lettere a un detenuto nel braccio della morte in Texas. Poi ha scelto di fare volontariato nelle carceri italiane, di entrare nelle celle, di ascoltare storie, di dare voce a chi non ne aveva. Ha collaborato con “Il Due”, il giornale del carcere di San Vittore, e ha intervistato detenuti per “Tempi Moderni”. Quando il 9 marzo 2020 i detenuti di San Vittore salirono sul tetto per protestare durante la pandemia, Daria Bignardi era lì, davanti al carcere. Era scesa in strada per capire cosa stesse succedendo, per vedere con i suoi occhi quella rivolta. Nel video pubblicato online, si vede il suo giaccone giallo tra la folla, mentre racconta il caos, la tensione, la paura che respirava nell’aria. “In quel video ho detto ciò che pensavo: - Abbiamo paura anche noi. Provate a immaginare che paura possono avere loro, chiusi lì dentro. - E terminavo dicendo: - Servono misure alternative. - Dietro di me si sentivano le urla e si vedevano i detenuti sul tetto protestare con le braccia alzate. Il video di quel giorno è stato caricato sul sito del “Corriere” e i commentatori mi hanno coperta di insulti, cosa che non mi ha stupita e nemmeno ferita: so come vanno le cose col carcere. Il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere di altri, per così dire”. Al 30 giugno 2024, nelle carceri italiane si contano 61.480 detenuti, un numero che supera di circa 14.000 unità la capacità regolamentare dei posti letto disponibili. Questo dato, emerso dall’ultimo dossier di Antigone pubblicato a luglio 2024, evidenzia come il sovraffollamento carcerario rappresenti un problema strutturale e persistente all’interno del sistema penitenziario italiano. In particolare, il tasso medio di affollamento degli istituti di detenzione in Italia raggiunge il 136%, con situazioni particolarmente critiche in 56 istituti dove la soglia supera il 150%. Ma chi sono davvero i detenuti? Cosa hanno fatto per meritare la condanna sociale prima ancora di quella giudiziaria? Bignardi non cerca scuse, non giustifica nessuno. Però racconta storie. Storie di povertà, di emarginazione, di errori pagati a caro prezzo. Storie di uomini e donne che sono arrivati in carcere non solo per una colpa, ma per una condizione sociale. Scrive: “Gran parte delle persone che stanno in carcere non ci è arrivata per una scelta libera, ma influenzata dalla condizione sociale, culturale, dal caso e dalla sfortuna”. Il carcere diventa allora lo specchio di una società che decide chi includere e chi escludere, chi merita una seconda possibilità e chi deve essere dimenticato. Non è solo un luogo di punizione, è il luogo in cui finiscono coloro che non sanno come salvarsi, perché non hanno avuto gli strumenti per farlo. È un’isola, come dice il titolo del libro. Un’isola che ci fa sentire al sicuro perché ci illude che il male sia contenuto lì, lontano da noi. Ma è un’illusione, appunto. Perché quelle storie ci riguardano. Perché quelle persone potrebbero essere noi. In questo viaggio dentro il carcere, Daria Bignardi incontra anche le donne. Un mondo ancora più nascosto, ancora più dimenticato. Racconta di come il carcere sia stato pensato per gli uomini, di come le donne scontino una pena doppia: quella per il loro reato e quella per aver violato il ruolo sociale che la società impone loro. Madri, figlie, compagne che sono considerate colpevoli due volte perché non hanno rispettato le aspettative di cura, di dolcezza, di femminilità. Scrive di Patrizia Reggiani, della sua freddezza, della sua ironia. Ma anche di donne povere, emarginate, sole. Donne che fuori dal carcere non hanno nessuno che le aspetti, che non sanno dove andare. Donne che, anche fuori, restano prigioniere. In “Ogni prigione è un’isola”, la violenza non ha un solo volto. Non ci sono solo carnefici e vittime. C’è un sistema che schiaccia tutti, detenuti e guardie. Un sistema che si autoalimenta, che si giustifica, che normalizza l’abuso di potere. Daria Bignardi lascia Linosa e ci interpella con tanti interrogativi: Chi siamo noi per condannare? E se anche noi fossimo prigionieri, chiusi in gabbie invisibili fatte di paura, di pregiudizio, di indifferenza? L’abbiamo intervistata. CP: Lei scrive che “in carcere c’è tutto quello che conta”. Cosa ha visto nelle prigioni che il mondo libero ignora o non vuole vedere? DB: Intendo dire che ci sono l’amore, il dolore, la malattia, l’amicizia, la paura, il coraggio: che ciò che davvero conta è illuminato, è più evidente, come in guerra, come nella giungla. CP: Le istituzioni totali, come lo è il carcere, plasmano l’identità di chi le vive. Chi entra in carcere, ne esce mai davvero? DB: Gli ex detenuti che ci sono rimasti a lungo dicono di no: che sei strato carcerato una volta lo rimani per sempre. CP: C’è un passaggio in cui dice che “tutti odiano il carcere, ma alcuni amano il carcere degli altri”. È questa la radice dell’inerzia collettiva di fronte alle condizioni dei detenuti? DB: Sì, ma è comprensibile. Se non si conosce la realtà del carcere è umano provare sentimenti di paura o di vendetta nei confronti di chi ci sta. CP: La detenzione infligge una pena che va oltre quella prevista dalla legge: l’isolamento, l’annullamento della persona, le condizioni degradanti. Questa “doppia pena” è una forma di abuso di Stato? DB: L’isolamento è una tortura. Lo ha raccontato bene Cecilia Sala appena tornata dalla detenzione nel carcere di Ervin a Teheran. Le condizioni degradanti tolgono identità e dignità: i valori sui quali si fonda il nostro equilibrio. CP: La violenza è il riflesso di una società che non considera i detenuti esseri umani a pieno titolo? DB: La violenza in carcere è endogena. È una condizione di cui tutti sono vittime: chi in carcere lavora e chi sconta una pena. È il sistema carcerario a essere violento. CP: C’è una narrazione dominante che vuole il carcere come unico strumento di giustizia. Chi trae vantaggio dal mantenimento di questa idea? DB: Il cittadino forse si sente ingannevolmente rassicurato anche se è vero il contrario: più carcere, e più brutto, e più recidiva, quindi meno sicurezza. La politica ne approfitta per fare propaganda. Ma negli ultimi trent’anni né destra né sinistra hanno cercato di migliorare le cose. L’unica che ci ha un po’provato, la ministra Cartabia, è durata poco. CP: Perché il protezionismo verso le forze dell’ordine è così forte? Come si può garantire trasparenza e giustizia senza cadere nell’impunità? DB: Trasparenza e giustizia convengono a tutti, Forze dell’Ordine per prime. Soprattutto servono risorse, formazione: con i proclami roboanti magari i politici si lavano la coscienza per tutto quello che non fanno per chi lavora per lo Stato. CP: Molti detenuti provengono da contesti di povertà e delinquenza, nei quali la trasgressione è normalizzata. Trasgredire la legge o delinquere è una scelta consapevole o spesso è l’unica alternativa? DB: La maggior parte delle persone ristrette ci tengono a che sia riconosciuto il loro libero arbitrio. Ma è innegabile che oggi in carcere ci siano soprattutto persone che arrivano da situazioni molto disagiate. Persone straniere magari traumatizzate dalle torture nelle carceri libiche e le traversate in condizioni disumane, malati psichiatrici, tossicodipendenti, poveri. CP: Il 41 bis viene spesso difeso come necessario, ma lei lo definisce anacronistico. Perché e quale alternativa potrebbe esserci? DB: Non sono io a definirlo così: nel libro lo fa un ispettore di Polizia penitenziaria. Dice che è anacronistico e inutile perché se le persone detenute vogliono far arrivare messaggi o direttive (impedirlo sarebbe la ragione del 41 bis) possono farlo attraverso i loro avvocati. CP: Eliminare la violenza strutturale dalle carceri è possibile o il sistema stesso la rende inevitabile? DB: Dobbiamo pensare che il sistema potrebbe e dovrebbe cambiare anche se non ci sono segnali che lo stia facendo, se non in peggio. CP: Se, come scrive, il carcere è uno strumento di espulsione sociale, quali alternative concrete potrebbero sostituirlo per i reati minori? DB: Anche questo non lo dico io ma i direttori di carcere, i magistrati: pene alternative, servizi sociali, affidamento, lavoro esterno. CP: Il sovraffollamento delle carceri è un’emergenza da decenni. Esiste davvero la volontà politica di risolverlo o è un problema volutamente lasciato irrisolto? DB: Non credo che esista la volontà politica di risolverlo. Migliorare il carcere non porta voti: la propaganda sul chiudere la gente in carcere e buttare la chiave sì. CP: Qual è la sua prigione, oltre alla sua cabina armadio :)? DB: Qualche paura irrisolta immagino. E i condizionamenti a cui siamo tutti sottoposti, le donne specialmente. Firenze. L’arte come ripartenza. Dal teatro alle note rap. I detenuti in scena di Lorenzo Ottanelli La Nazione, 27 febbraio 2025 Al Teatro Cinema La Compagnia presentati i lavori dei carcerati. In sala c’erano i ragazzi delle scuole secondarie. E oggi si replica. “Il teatro mi ha salvato, sono entrato in carcere nel 2012 e l’anno successivo stavo già recitando ‘Otello’” ha raccontato Robert, ex detenuto della Dogaia di Prato. “Il rap serve a far uscire quello che per troppo tempo hai lasciato dentro”, ha invece detto Memphis di Firenze, che, grazie all’associazione Cat, ha incantato il Teatro Cinema La Compagnia. Queste sono solo due delle testimonianze che ieri mattina hanno preso vita sul palco di ‘Visioni Aperte: parole, immagini e suoni dal carcere’, e che hanno aperto la due giorni, che si conclude oggi con la seconda matinée, dedicata alla creatività nel carcere. Ieri mattina sul palco c’erano le associazioni che portano l’arte nelle prigioni di tutta la Toscana. In sala i ragazzi delle scuole secondarie, che hanno interagito con i rappresentanti delle associazioni e con i detenuti. Sullo schermo, invece, sono stati proiettati i contenuti di Metropopolare alla Dogaia di Prato, Sacchi di Sabbia Ets al Don Bosco di Pisa, Cat cooperativa sociale che è attiva nel Gozzini e nell’Ipm di Firenze. Oltre a loro, anche Krill Teatro di Sollicciano, Arci comitato Livorno che lavora a Le Sughere e il Teatro del Pratello attivo all’Ipm di Pontremoli. Tra i lavori che sono stati presentati: ‘Romeo + Giulietta, l’amore non uccide’, ‘Era Esopo’, e un divertente sceneggiato su ‘Ciò’, un uovo che compare e scompare dal nulla. “Come Regione Toscana vogliamo costruire opportunità per le persone detenute - ha detto l’assessora regionale alle Politiche Sociali Serena Spinelli -, perché il carcere è sì il luogo dove si sconta una pena, ma anche dove si costruiscono le proprie opportunità di vita. I ragazzi porteranno con sé ciò che hanno trovato di importante, senza che gli diciamo cosa. Perché la nostra generazione ha già fatto troppi errori”. “Abbiamo visto delle persone che hanno una sensibilità particolare - ha detto Giuseppe Fanfani, Garante dei diritti dei detenuti della Toscana -, i detenuti abitano in strutture che hanno problemi eterni e per quanto riguarda le strutture Sollicciano è quello più grave, con pochi spazi per laboratori, da dedicare al lavoro oppure all’insegnamento”. Nel corso della giornata di ieri si sono svolti anche incontri focalizzati in particolare sul linguaggio del teatro e sull’importanza della cultura per il percorso di recupero dei detenuti, oltre alla proiezione del film ‘Telechapi’ a cura di Lanterne Magiche, che, insieme a Fondazione Sistema Toscana e al Coordinamento teatro in carcere, ha organizzato l’evento di ieri mattina. Rovigo. Presentazione del libro “La Cooperativa sociale Giotto - Una normalità eccezionale” rovigo.news, 27 febbraio 2025 Martedì 25 febbraio scorso, presso la Sala della Gran Guardia di Rovigo, il Circolo di Rovigo ed il Centro culturale “Giacomo Sichirollo”, con il Patrocinio del Comune di Rovigo-Assessorato ai Servizi sociali ed in collaborazione con l’Associazione Vivirovigo Aps, hanno promosso la presentazione del libro della prof.ssa Vera Negri Zamagni, Docente di Storia Economica all’Università di Bologna, “La Cooperativa sociale Giotto - Una normalità eccezionale” (Edizioni Il Mulino), davanti ad un pubblico numeroso ed attento. Con la docente erano presenti anche Nicola Boscoletto, socio fondatore della Cooperativa Giotto di Padova e Giovanni Maria Pavarin, già Magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova, presentati dal Presidente del Circolo di Rovigo Paolo Avezzù ed introdotti dal Presidente del Centro Sichirollo Angelo Stefani. La prof.ssa Zamagni ha parlato della storia della Cooperativa Giotto, una cooperativa sociale che si è posta sin da subito l’obiettivo di dare lavoro a persone svantaggiate, fino al lavoro in carcere. Si sono posti come impresa e sono riusciti a fare rete, coinvolgendo nel modo giusto tanti imprenditori che hanno creduto in loro. Chi lavora per la Giotto deve essere giustamente remunerato ed il lavoro in carcere ha una valenza sociale: per chi lavora la recidiva passa dal 90% al 10% e questo è un beneficio per tutta la comunità. Nicola Boscoletto ha affermato che la esperienza della Cooperativa Giotto sembra eccezionale perché la normalità spesso non c’è più. Ha poi pronunciato tre parole chiave nella loro storia. La prima è insieme, perché concepirsi insieme dà più forza nel lavoro e nel rapporto con gli altri. La seconda è credere in qualcosa, altrimenti finisci per essere succube del potere dominante. La terza parola è provvidenza, perché nulla capita per caso e quello che facciamo lo facciamo innanzitutto per noi stessi. Il Giudice Giovanni Maria Pavarin ha voluto dare una testimonianza del suo rapporto con gli esponenti della Cooperativa Giotto: “quando li ho incontrati ho capito subito che di loro potevo fidarmi”. Ho apprezzato in loro la capacità di investire sulle persone, su tutte, anche su quelle che avevano sbagliato nella loro vita, come pure la disponibilità ad intraprendere relazioni buone con tutti, anche con chi era diverso da loro. Nel rispondere alle domande dei presenti è stato ulteriormente sottolineato come la storia della Cooperativa Giotto di Padova sia una storia di riscatto e di dignità dove “abbiamo imparato a trasmettere una passione vera per l’uomo, per ogni uomo”. Torna “Mare fuori” e diventa ancora più crudo: “Denunciamo i danni del decreto Caivano” di Francesca D’Angelo La Stampa, 27 febbraio 2025 Si ricomincia, ma si volta anche pagina. Con la quinta stagione, disponibile dal 12 marzo su RaiPlay (i primi sei episodi) e dal 26 marzo su Rai2, Mare fuori si rifà il look, schiera un cast in gran parte rinnovato e diventa più cruda, realistica e di denuncia sociale. Complici l’uscita di scena della creatrice Cristiana Farina e del regista Ivan Silvestrini, le nuove puntate prendono una nuova strada: “Ho cercato di dare un taglio nuovo, più realistico, alla storia per restituire la situazione in cui versano oggi le carceri minorili - spiega il regista Ludovico Di Martino, subentrato dietro alla macchina da presa -. Con il decreto Caivano c’è stato un aumento del 50% degli ingressi nelle carceri che però non corrisponde a un aumento dei reati. Purtroppo si sta facendo largo un’idea di carcere sempre più punitiva, mentre la vera sfida è educativa”. Se la precedente stagione si divideva tra il carcere e i luoghi esterni, ora si torna tutti in cella: “Le precedenti stagione si concentravano sull’amore ora invece l’attenzione si sposta su come i ragazzi cadono nei reati e come cercano di tirarsene fuori - conferma lo sceneggiatore Careddu -, per certi versi è un ritorno alle origini, al mood dei primi episodi”. Il cambio di passo è dettato, almeno in parte, dal nuovo cast: dopo Nicolas Maupas e Valentina Romani, anche Massimiliano Caiazzo e Matteo Paolillo escono di scena, mettendo di fatto la parola fine alla linea romantica tra Carmine Di Slavo e Rosa Ricci così come al triangolo amoroso tra Edo, Carmela e Teresa. “In questa stagione i personaggi si troveranno davanti a uno specchio: più che con le dinamiche di gruppo saranno alle prese con se stessi, con i loro desideri e le loro paure”. La storia riprende esattamente da dove si era interrotta: la morte di Edoardo (Matteo Paolillo). Scopriremo chi l’ha ucciso e perché, e a questa rivelazione se ne aggiungeranno altre, “ancora più sconvolgenti”, che colpiranno soprattutto Rosa Ricci, vera star di questa stagione. “Saranno verità scioccanti ma che le permetteranno di tornare a vivere”, anticipa la sua interprete Maria Esposito. Molti i temi forti che saranno trattati: “Io stessa, quando li ho letti sul copione, sono rimasta spiazzata”, ammette Lucrezia Guidone, che qui interpreta la direttrice del carcere. L’aspettativa ovviamente è di replicare i numeri record del passato: 130 milioni di visualizzazioni su RaiPlay. “Mare fuori non è un successo: è un fenomeno”, chiosa la direttrice di RaiFiction Maria Pia Ammirati. E non è finita qui. La sesta stagione è già in scrittura: le riprese iniziano a giugno, per una messa in onda nel 2026. Entro dicembre arriverà nelle sale il film Io sono Rosa Ricci che svelerà la vita della celebre beniamina prima del suo ingresso in carcere. Nel cast, anche Raiz che riprende dunque i panni di suo padre, mentre non è stata comunicata l’eventuale partecipazione di Giacomo Giorgio, Ciro nella serie tv. Ancora work in progress il remake americano ma il 20 aprile le prime quattro stagioni “usciranno su Netflix mondo”, come anticipa il produttore di Picomedia, Roberto Sessa. L’Accademia della Follia. Dacia Maraini e i matt-attori nella Trieste di Basaglia di Chiara Buratti Corriere della Sera, 27 febbraio 2025 Con la compagnia fondata da Claudio Misculin, ora protagonista di un docufilm, l’autrice rappresentò il suo Stravaganza: “Erano tutti ex internati, non “irrecuperabili” e quello psichiatra rivoluzionario lo dimostrava anche così”. Il racconto a più voci di chi c’era “Vivere con Claudio significava vivere con il teatro… Erano una cosa sola e il nostro sogno più grande è stato immaginare qualcosa che non c’era e riuscire a realizzarla”. Così Cinzia Quintiliani, vedova di Claudio Misculin e cofondatrice dell’Accademia della Follia, ricorda la nascita della compagnia teatrale fondata nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste oggi raccontata nel docufilm di Erika Rossi, Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza. I “Matt-attori, matti di mestiere e attori per vocazione” sono i protagonisti della pellicola. “Ho iniziato a lavorare a questa produzione quando Claudio (Misculin; ndr) era già morto”, racconta la regista. “Ho cercato di ricostruire le fasi del progetto dall’inizio fino alla tournée all’estero e alle collaborazioni con i drammaturghi. Il docufilm sarà proiettato mercoledì 26 febbraio a Bergamo, il 28 marzo a Cagliari, il 5 e 6 aprile a Brescia, il 13 giugno a Gorizia”. Un lungo lavoro a ritroso nel tempo, che inizia agli albori della rivoluzione avviata da Franco Basaglia. “Per Claudio, Basaglia era il suo “padre psichico”“, racconta Angela Pianca, psichiatra e cofondatrice dell’Accademia. “Il braccio destro del grande rivoluzionario, Franco Rotelli, diventò il nostro manager e sostenitore. Ci invitava a mettere in scena le prime degli spettacoli nel suo soggiorno, ci portava con lui ai convegni e ci faceva recitare anziché presentare le sue relazioni perché, secondo lui, noi rappresentavamo la rivoluzione basagliana e incarnavamo esattamente quello che stava accadendo”. L’Accademia della Follia ha preso forma nel 1992, ma il progetto di Misculin ha radici più lontane, che risalgono a circa 10 anni prima. “Studiavo psicologia a Padova ed erano anni di grande fermento, in cui si respirava l’aria frizzantina del cambiamento”, racconta Angela Pianca. “A Trieste arrivavano persone da tutto il mondo e sentivo che dovevo essere lì perché stava accadendo qualcosa di eccezionale e quello sarebbe stato il mio posto… Avevo 23 anni, oggi ne ho 71 e da Trieste non mi sono più mossa”. Nel capoluogo friulano Angela ha incontrato Claudio. “Misculin aveva fatto un anno di carcere perché aveva fondato una comune. Dopo quell’esperienza, aveva incontrato Maurizio Soldà. Da allora, il teatro era diventato la sua vita. Nell’81 abbiamo fondato insieme il Laboratorio di artigianato teatrale ma già pensavamo di formare una compagnia di “matti di mestiere e attori per vocazione” e quasi 10 anni dopo è arrivata l’Accademia della Follia”. Misculin era un performer nato, sapeva andare oltre il teatro, bucando ogni tipo di barriera e creando un’empatia estremamente profonda con chi gli stava vicino. “Ci diceva sempre: “Non importa chi sei, o chi eri..Tu, qui dentro, sei quello che sei e fai quello che puoi. E lo fai attraverso il teatro”“, ricorda Angela. “Raccontare la violenza dell’istituzione e della normalità sulla follia era diventata la missione di Claudio e l’identità del nostro lavoro”. Una grandissima capacità comunicativa e di fare sinergia era una delle caratteristiche di Misculin che, evidente, emerge dal docu-film. “La prima volta che vidi Claudio fu un colpo di fulmine”, ricorda Cinzia Quintiliani. “Da quel momento non ci siamo più separati, io sono entrata nella compagnia, ci siamo sposati e abbiamo avuto una bambina. Claudio era un diamante con mille sfaccettature e le faceva vedere tutte senza vergognarsene. Chiaramente, non c’era solo la luce, ma anche l’ombra e il buio. Aveva un’umanità e una capacità di relazionarsi con le persone fragili che era eccezionale e nella sua eccezionalità avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, ma ha sempre e solo voluto lavorare insieme ai matti”. Chi in quel progetto ci credette sin da subito non erano solo i fondatori, ma gli stessi matt-attori, che con Misculin lavorarono tantissimo, anche 12 ore al giorno. “Ci dicevano che sarebbe stato impossibile fare teatro coi matti e, onestamente, le prime cose non erano un granché”, spiega Angela. “Allora Misculin coniò un nuovo slogan: “Tecnica + follia = arte”. Questo imponeva un metodo e una disciplina che si ritagliava in modo diverso addosso agli attori della compagnia. Fu una grande fatica ma volevamo raggiungere l’obiettivo”. E quell’obiettivo è stato raggiunto anche grazie al supporto di medici, attori e intellettuali. Tra questi, Dacia Maraini, che poco tempo prima che entrasse in vigore la legge Basaglia aveva scritto un testo, Stravaganza, poi messo in scena dai matt-attori. “I protagonisti sono cinque malati di mente rinchiusi in manicomio i quali, grazie alla legge Basaglia, escono fuori. Ma una volta usciti, nessuno li considera perché hanno paura e non sono ben voluti. Dato che non trovano un proprio spazio sociale, decidono di stare insieme e ricostruire una loro comunità basata sul riconoscimento, sull’affettività e sull’amicizia”. Il primo regista a mettere in scena quel testo fu Antonio Calenda. “Poi sono stata contattata dall’Accademia della Follia e devo dire che gli attori, quasi tutti ex internati nei manicomi, hanno fatto un’interpretazione pazzesca”, ricorda oggi la scrittrice. Racconta anche di aver conosciuto direttamente Franco Basaglia: “Era ironico, non si arrabbiava mai, era sempre gentile con tutti. Le sue idee erano contagiose ed era un grandissimo comunicatore. Io penso che né i buoni sentimenti né le idee si possano imporre, ma che le persone si debbano “contagiare”... Questa è la mia teoria e lui aveva la mia stessa idea: era un idealista che amava e difendeva le sue convinzioni a spada tratta…Oggi ce ne sono pochi così”. Maraini ripensa a quel periodo rivoluzionario: “Si pensava di poter cambiare il mondo, e io mi considero ancora legata a quell’epoca. Forse sono un’illusa ma penso anche adesso che le cose possano prendere un’altra direzione. Però, guardandomi intorno, vedo che molti sono delusi e depressi, come se avessero perso ogni speranza nel futuro. Tutto questo è un po’ triste”. La scrittrice si è sempre occupata di persone emarginate, che vivono fuori dai contesti sociali a cui siamo abituati e per molto tempo ha indagato sui manicomi, in particolare su quello di Imola diretto dal professor Giorgio Antonucci: “Ho visto persone legate ai letti da anni perchè considerate furiose. Quei letti avevano un buco in corrispondenza delle parti genitali per espletare le funzioni fisiche. Allora quegli internati erano considerati “irrecuperabili”. Ma grazie alla legge Basaglia e al lavoro paziente del dottor Antonucci, quelle persone sono state “recuperate”. Ho partecipato alla festa quando sono state liberate. Vederle allegre che ballavano, dopo tutta quella sofferenza, per me è stata una delle più belle esperienze della vita e la prova lampante che quello che sosteneva Basaglia, ovvero che nessuno fosse “irrecuperabile”, era assolutamente vero”. Quello spirito di denuncia e quella ribellione contro ogni tipo di ingiustizia Dacia Maraini non li ha mai abbandonati. “Ho sempre avuto questa inclinazione, sin da bambina. Forse anche per quello che ho passato da internata in un campo di concentramento in Giappone. “Giustizia”, per me, non significa necessariamente “mettere in galera qualcuno”, ma fare in modo che le persone possano essere trattate umanamente e che ci sia uguaglianza in questo trattamento, affinché nessuno sia escluso”. Proprio per questa inclusione la scrittrice, oggi 88enne, continua a battersi, andando spesso a parlare nelle scuole e a confrontarsi con i più giovani. “I ragazzi di oggi devono credere di più in loro stessi, non lasciarsi trascinare dallo scoramento, perché il futuro non dipende dal cielo o dagli altri, ma da noi. E se si ha fiducia in noi stessi, nelle idee che difendiamo, in qualche modo contribuiamo al cambiamento e ne facciamo parte. Naturalmente, da solo nessuno può fare niente, ma se una generazione ha fiducia nel futuro, allora sì che le cose possono cambiare. Quindi, rimbocchiamoci le maniche e iniziamo, intanto, a protestare contro chi sta cercando di affossare la democrazia”. Mille poliziotti per controllare 13.000 giovani e arrestarne 73 di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 febbraio 2025 Perquisiti 3.000 minorenni, 2.700 veicoli e 150 immobili, di cui 2 istituti scolastici e 23 strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati. La notizia è fresca di agenzia e odora ancora di ufficio stampa del Viminale: con un mega blitz che ha impiegato “1.000 poliziotti” in 45 province italiane sono stati “controllati circa 13.000 giovani, di cui 3.000 minorenni, 2.700 veicoli e 150 immobili, di cui 2 istituti scolastici e 23 strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, nonché diversi luoghi di aggregazione come piazze, giardini pubblici, aree limitrofe alle stazioni ferroviarie, centri commerciali, esercizi commerciali”. Sembra il lancio della quinta stagione della serie Mare fuori, presentata giusto ieri a Roma in una sede Rai. E invece, sebbene scenografica, è parte di una campagna ben più ambiziosa e martellante di questi tempi, condotta in nome del “contrasto alla criminalità giovanile” e, cominciata con il reato di Rave party, con l’obiettivo di giustificare la controriforma della giustizia minorile e lo smantellamento degli Ipm in gestazione a Palazzo Chigi. Ebbene, il bilancio del mega blitz lanciato in nome dell’allarme “baby gang” è di soli 73 giovani (di cui 13 minorenni) “arrestati in flagranza o sottoposti a fermo per reati contro la persona (compreso il tentato omicidio), il patrimonio e in materia di stupefacenti”. Altri 142 giovani (di cui 29 minori) “denunciati per ricettazione, possesso di armi e strumenti atti ad offendere, e detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio”. Varia refurtiva sequestrata tra cui 8 pistole, un fucile a canne mozze, 15 coltelli, una mazza di ferro, “1 rompi ghiaccio, 1 spray urticante, 2 kg di cocaina, 10 kg di cannabinoidi” e altre sostanze “idonee a produrre circa 350 dosi tra eroina, shaboo, ecstasy e anfetamine”; segnalati 600 profili social di hate speech (anche contro le forze dell’ordine), elevate 198 sanzioni amministrative soprattutto “per uso di stupefacenti e somministrazione di alcol a minori”, e 90 multe stradali. E pensare che il giorno prima, grazie ad una sola inchiesta sullo spaccio continuo all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino e sull’introduzione di telefonini in alcuni penitenziari, sono state indagate ben 116 persone. I particolari in questo caso non sono stati diffusi, però. Il film da proiettare è un altro, oggi. La Cei chiede verità su Paragon: il timore che sia stato intercettato anche il papa di Enrica Riera e Stefano Vergine Il Domani, 27 febbraio 2025 Tra i contatti telefonici di don Ferrari, oggetto di un tentativo di hackeraggio, c’è anche Papa Francesco. Mercoledì al Copasir l’audizione di Rizzi (Dis). I vescovi italiani al governo: “È in gioco la democrazia”. C’è anche papa Francesco tra i contatti telefonici di don Mattia Ferrari, avvisato da Meta di essere stato vittima di un tentativo di hackeraggio, iniziato l’8 febbraio 2024 e “sostenuto da entità governative non meglio identificate”. Non è ancora chiaro al momento se il telefono del prete, viceparroco di Nonantola e cappellano di Mediterranea Saving Humans, sia stato effettivamente violato con lo spyware Graphite, ma di certo don Mattia Ferrari è da tempo in contatto diretto con il pontefice. È stato lo stesso Papa a dichiararlo lo scorso 19 gennaio, nel corso della trasmissione tv condotta da Fabio Fazio, quando ha detto di aver sentito al telefono il sacerdote per parlargli di una delicata vicenda relativa a una migrante rapita e tenuta prigioniera in Libia. Intercettando don Mattia, i mandanti dell’hackeraggio hanno spiato anche il papa? Di sicuro, nel corso del tempo i contatti tra i due non sono stati sporadici: Bergoglio del resto ha sempre stimato don Ferrari, tanto da aver firmato la prefazione del suo libro Salvato dai migranti. Racconto di uno stile di vita. Dunque, l’ipotesi che l’attacco informatico abbia coinvolto anche il Vaticano è sempre più concreta. A quasi un mese dalla pubblicazione delle prime notizie, il caso Paragon si allarga e continua a restare avvolto dal mistero, perché non è ancora chiaro chi ha utilizzato gli strumenti informatici della società israeliana per spiare attivisti, giornalisti e, come si è scoperto pochi giorni fa, anche un prete. Il giallo non appassiona solo la politica. Secondo la campagna organizzata da diverse ong, tra cui The Good Lobby ed Hermes Center, sono già oltre 14mila le lettere inviate al governo da cittadini che chiedono all’esecutivo di riferire in parlamento e affidare un’indagine sulla vicenda “a un organismo indipendente, come il Garante per la privacy o una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc”. Oltre alle procure di Napoli, Palermo e Roma, che hanno iniziato a indagare a seguito degli esposti di Luca Casarini, Francesco Cancellato, dell’Ordine dei giornalisti e della Fnsi, anche il Comitato parlamentare che si occupa di sicurezza sta cercando di fare luce sulla vicenda. Mercoledì 26 febbraio il Copasir ha infatti sentito il neo direttore del Dipartimento per le informazioni della sicurezza (Dis), Vittorio Rizzi. Secondo quanto risulta a Domani, quella di ieri è stata un’audizione generale, ma in futuro i membri del comitato hanno intenzione di chiedere all’ex prefetto se il Dis sia a conoscenza dell’uso di Graphite da parte delle due agenzie di intelligence Aisi e Aise (i cui direttori, però, sempre davanti al Copasir, hanno negato l’utilizzo del software nei confronti di giornalisti e attivisti), e se finora sono sempre state rispettate le garanzie previste dalla legge. A questo proposito, nei prossimi giorni anche il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Giuseppe Amato, potrebbe essere sentito dal Copasir. È infatti la procura generale capitolina a dover autorizzare tutte le intercettazioni preventive richieste dai servizi segreti. Se è vero, però, che Aise e Aisi non hanno mai utilizzato Graphite per intercettare giornalisti e attivisti, come assicurato dai direttori delle due agenzie di intelligence e confermato dal governo guidato da Giorgia Meloni, allora Amato dovrebbe ribadire la tesi davanti al Comitato. In caso contrario, il cortocircuito istituzionale arriverebbe ai massimi livelli. Non solo perché tra le vittime ci sono sicuramente un giornalista (Cancellato, direttore di Fanpage.it) e diversi attivisti (oltre a Casarini e Beppe Caccia di Mediterranea Saving Humans, quest’ultimo sentito l’altro ieri a Napoli dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, David Yambo di Refugees in Libya e il dissidente libico Husam El Gomati), ma anche perché - come si è scoperto tre giorni fa - nella rete spionistica è finito anche don Ferrari. Sul punto è intervenuta ieri anche la Conferenza episcopale italiana. Il vicepresidente, monsignor Francesco Savino, ha chiesto “chiarezza al governo su Paragon, perché è in gioco la democrazia”. A Domani Savino racconta dei suoi contatti telefonici con don Ferrari e della conseguente possibilità d’essere stato spiato. “Con Mattia parlavamo soprattutto di migranti e del sostegno da dare a Francesco che, in un clima del genere, ha parlato finalmente di accoglienza. Ora al governo chiediamo verità e giustizia”, sottolinea il monsignore. Potrebbero essere poche, tuttavia, le risposte fornite sul tema dal neo direttore del Dis, insediatosi meno di un mese fa: le vicende in questione risalirebbero infatti alla precedente gestione del Dipartimento. C’è poi un altro tema, oltre a quello sulle inchieste giudiziarie sui presunti dossieraggi di Equalize e Squadra Fiore, su cui i componenti del Copasir intendono fare chiarezza. Si tratta dell’affaire Caputi, che ha portato lo stesso Dis a denunciare il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, perché - secondo il Dipartimento - il magistrato avrebbe contribuito a diffondere documenti riservati sul capo di gabinetto della presidente del Consiglio. Da qui l’apertura di un fascicolo, ancora senza indagati, da parte della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone. Ma il Copasir si chiede: perché a denunciare Lo Voi, il quale nelle scorse settimane ha ribadito al comitato la corretta attività della procura di Roma, è stato il Dis? Perché non l’ha fatto palazzo Chigi, il cui capo di gabinetto è stato spiato dall’intelligence? Domande a cui ancora non sembrano esserci risposte. Migranti. “Paesi sicuri, diritto d’asilo a rischio. Resta l’argine costituzionale” di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 febbraio 2025 Protocollo Italia-Albania e oltre. Il professore di diritto Ue Bruno Nascimbene sull’udienza a Lussemburgo: “La Commissione? Inversione senza precedenti”. E sulle procedure accelerate di frontiera: “Garantiscono il diritto di difesa solo sulla carta”. “Non ricordo precedenti di un comportamento come quello tenuto dalla Commissione Ue nell’udienza alla Corte di giustizia europea di martedì”. Bruno Nascimbene è avvocato e professore di diritto dell’Unione all’università di Milano, già presidente del Centro europeo di eccellenza Jean Monnet. Nelle osservazioni depositate un mese fa la Commissione Ue si era opposta alla possibilità di designare come “paesi di origine sicuri” quelli con eccezioni per intere categorie di persone. In udienza ha espresso una posizione opposta. È un comportamento usuale? No, non lo è. Sinceramente non ricordo precedenti. La Commissione si è giustificata dicendo che aveva letto e considerato le osservazioni degli Stati membri e quindi ritenuto di cambiare opinione. Ma insomma, questa presa di posizione ha suscitato grande sorpresa nella Corte. Infatti il presidente ha chiesto espressamente conferma che l’opinione della Commissione fosse cambiata. Una giustificazione potrebbe essere quella che l’istituzione ritiene opportuna un’anticipazione dell’applicazione del nuovo regolamento inserito nel Patto Ue immigrazione e asilo, in vigore da giugno 2026. Non sarebbe singolare visto che quell’elemento è parte di un pacchetto di norme molto complesso che ridefinisce tutto il quadro normativo sull’asilo? Infatti alla Commissione direi: se siete così sicuri della vostra tesi perché non proponete ai governi di anticipare l’applicabilità del regolamento? Non è che si possa far valere in via anticipata senza modificare quello in vigore. Comunque è giusto dire che non si può cambiare semplicemente la data di un regolamento che è inserito in un pacchetto. È complicato, anche se non si può escludere una soluzione. Torniamo alle eccezioni per gruppi sociali discusse in udienza. Per la Commissione non dovrebbero essere vincolate a un criterio quantitativo, a patto che i gruppi minacciati siano “chiaramente distinguibili”. Cosa implica una simile interpretazione? Il criterio quantitativo sui gruppi di persone mi ha lasciato perplesso fin da quando l’ho visto espresso nelle osservazioni scritte. È stato anche oggetto di dibattito in udienza. A me pare un parametro molto liquido, malleabile, soft se vuole. Introdurrebbe un margine di incertezza di non poco conto. Non so se la Corte di giustizia nella sentenza affronterà questo tema specifico. Se passasse la tesi di paesi membri e Commissione i centri in Albania avrebbero un via libera definitivo o resterebbero profili di illegittimità? Avrebbero il via libera. L’Avvocatura ha insistito molto sul concetto di “margine di apprezzamento”, ovvero la discrezionalità del singolo Stato, specie l’Italia. Tutti i paesi concordano su questo aspetto. A eccezione della Germania che si è espressa in modo diverso, nelle osservazioni scritte più che in udienza. L’Avvocatura dello Stato italiano sostiene che tra procedure accelerate di frontiera, riservate a chi viene da un “paese sicuro”, e procedure ordinarie non ci siano differenze in termini di garanzie... Contesto questa idea. Se fossi stato in aula come legale avrei detto: teoricamente sì, di fatto no. Lo raccontano gli avvocati che lavorano sul campo, come quelli presenti in udienza, e affrontano tutti i giorni i casi specifici. Con le procedure accelerate i diritti di difesa sono garantiti solo sulla carta. I legali dei richiedenti asilo finiti in Albania si sono lamentati anche davanti ai giudici nazionali dei limiti imposti dal protocollo. Se diventasse possibile estendere la designazione di sicurezza a molti altri paesi e la maggior parte dei richiedenti fossero così sottoposti a procedure accelerate quale sarebbe l’impatto sull’effettività del diritto d’asilo? Subirebbe una importante compressione. E con questo termine mi riferisco a una eccessiva limitazione. Devo dire, però, che nel nostro paese abbiamo una norma costituzionale, l’articolo dieci terzo comma della Costituzione, che in ogni caso non si tocca. Riconosce un diritto fondamentale della persona a prescindere dagli obblighi di diritto dell’Unione europea. Il nuovo Patto immigrazione e asilo rischia di entrare in contrasto con la Costituzione... È un po’ teorico, ma potrebbe porsi una questione di controlimite, ovvero di un limite costituzionale nostro a una compressione di un diritto garantito dalla Carta.