Il report del Garante: nelle carceri siamo alla crisi umanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2025 Il sistema penitenziario italiano continua a fare i conti con una crisi umanitaria senza precedenti. Secondo l’ultimo report del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, pubblicato il 24 febbraio 2025, nei primi 54 giorni dell’anno si sono già verificati 11 suicidi tra i detenuti, a cui si aggiungono 10 decessi per cause da accertare e 29 morti per malattie. È importante precisare che i numeri ufficiali contrastano con quelli riportati da Ristretti Orizzonti (che segnala 14 suicidi, incluso l’ultimo caso al carcere di Cremona) e con le stime dei sindacati della polizia penitenziaria, come la Uil-Pa. Un quadro comunque desolante, che arriva dopo il 2024, anno nero con 90 suicidi (anche in questo caso i dati ufficiali sono discordanti), il numero più alto registrato in oltre tre decenni di rilevazioni ministeriali. Il documento, curato dal Collegio del Garante composto da Riccardo Turrini Vita, Irma Conti e Mario Serio, analizza i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Dalla lettura emerge inevitabilmente la percezione di un sistema al collasso, dove sovraffollamento, condizioni disumane e mancanza di tutela della salute mentale alimentano tragedie annunciate. Un identikit della disperazione - Tutti gli 11 suicidi registrati nel 2025 riguardano uomini: 5 italiani e 6 stranieri (Egitto, Tunisia, Romania, Algeria). L’età media è di 39 anni, con un picco nella fascia 40- 55 anni (5 casi). Quattro su 11 erano già stati condannati in via definitiva, mentre 5 attendevano il primo giudizio, spesso da mesi. Tra i reati ascritti prevalgono quelli contro il patrimonio (rapina o tentata rapina), ma a emergere è soprattutto l’isolamento e la fragilità: 3 detenuti erano senza fissa dimora, 2 disoccupati, e solo 2 svolgevano attività lavorativa in carcere. Sebbene non vi sia una correlazione diretta, è impossibile ignorare il legame tra suicidi e condizioni carcerarie. Gli istituti coinvolti presentano indici di sovraffollamento impressionanti: a Roma “Regina Coeli” la capienza è superata del 185%, a Modena del 151%, a Vigevano del 162%. Nove suicidi su 11 sono avvenuti in sezioni a custodia chiusa, tra cui celle di isolamento o aree ad alto rischio. “Queste strutture sono bombe a orologeria”, denunciano gli esperti. “Il sovraffollamento riduce il controllo sui detenuti e limita l’accesso a programmi riabilitativi”. Modalità e fallimenti del sistema - L’impiccamento, utilizzato in 10 casi su 11 (con corde rudimentali, lenzuola o persino lacci delle scarpe), è la modalità più frequente. Quattro detenuti suicidi nel 2025 erano già coinvolti in “eventi critici” (autolesionismo, tentati suicidi), e uno era sotto “grande sorveglianza” per rischio accertato. Eppure, nessuno di loro è stato salvato. Il sistema fallisce nel prevenire. Non bastano gli psicologi, i percorsi di ascolto sono pochi e i protocolli inefficaci. Troppi detenuti vengono, di fatto, lasciati soli con la loro disperazione. Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino lancia un appello: “Di questo passo rischiamo anche quest’anno di battere tutti i record della morte per pena”, ricordando che il Ministro della Giustizia Nordio non ha ancora risposto alle interrogazioni parlamentari sui suicidi e ai doveri delle ASL in materia di salute, sollevate dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva. “Troppi detenuti? Mettiamoli nei prefabbricati”: l’ideona di Nordio contro il sovraffollamento di Paolo Comi L’Unità, 26 febbraio 2025 I “moduli” risolveranno l’atavico problema del sovraffollamento carcerario. Parola del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Dopo anni di discussioni interminabili su come risolvere tale piaga, che in passato ha provocato anche condanne in sede europea nei confronti dell’Italia per violazione dei diritti umani, il Guardasigilli ha tirato fuori questa settimana la propria soluzione. Si tratta di moduli prefabbricati in cemento armato, tutti “antisismici” come ha puntualizzato Nordio, nei quali ospitare la popolazione carceraria in eccesso. Il primo carcere realizzato con questa nuova “concezione” costruttiva sarà quello di San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone. Il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, va detto, ha una storia particolarmente sfortunata. Il progetto esecutivo, che prevede la trasformazione dell’ex caserma militare dei lagunari “Fratelli Dall’Armi”, realizzata sul finire degli anni 50 e ormai dismessa da oltre vent’anni, risale infatti addirittura al 2016. In quell’anno, governo Renzi, venne firmato il progetto propedeutico alla costruzione del nuovo istituto penitenziario da 300 posti nell’ex caserma dei lagunari che doveva prendere il posto del vecchio carcere di Pordenone da appena 50 posti. Il via ai lavori sarebbe dovuto avvenire a gennaio del 2017 per poi concludersi a metà del 2018. L’importo complessivo era stato previsto in 40 milioni di euro. Come capita spesso in Italia, una girandola di ricorsi sull’aggiudicazione dei lavori bloccarono tutto per anni. Ad agosto del 2021, terminati i contenziosi amministrativi, venne quindi predisposto il nuovo bando, per un importo che nel frattempo era arrivato a 45 milioni di euro. Passa qualche anno e l’importo cresce ancora, e di molto, arrivando a ben 60 milioni. Anche il termine per l’ultimazione dei lavori subisce delle modifiche, venendo spostato al 2026, ben dieci anni dopo. Essendo però impossibile adattare una caserma in un carcere, anche il progetto iniziale cambia, con l’introduzione appunto dei moduli in cemento da collocare nella vecchia piazza d’armi della caserma dove la mattina i lagunari effettuavano la cerimonia dell’alza bandiera. Se le tempistiche sono queste, il progetto di Nordio sull’edilizia carceraria, quanto mai sbandierato nel “Piano nazionale di interventi per l’aumento di posti detentivi e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale della polizia penitenziaria”, è destinato alle calende greche. Realizzeremo un “programma edilizio imponente e realizzato speditamente”, aveva detto Nordio lo scorso anno, mettendo fin da subito le mani avanti in quanto tale piano sarebbe però stato a “medio o lungo termine”. Per cercare di velocizzare le attività, Nordio aveva allora ideato anche la figura del Commissario straordinario con lo scopo di semplificare le procedure, accelerare la burocrazia e umanizzare gli istituti garantendo anche l’alternatività della pena in comunità. Il sovraffollamento aumenta il “rischio del suicidio”, sottolinea sempre il Guardasigilli. “Non esiste un rapporto causale diretto tra suicidi e sovraffollamento carcerario. Abbiamo esperienza di momenti di sovraffollamento in tempi passati in cui i suicidi erano ridotti. Questo non significa affatto che sottovalutiamo i due problemi, significa che vanno distinti”, ha commentato lo scorso anno Nordio intervenendo alla Camera. Fra le altre proposte di Nordio per diminuire la popolazione carceraria vi sarebbe anche la limitazione della custodia cautelare. “Abbiamo un 30 percento di detenuti che sono in attesa di giudizio, statisticamente la metà di questi alla fine viene assolta e quindi la loro carcerazione si rivela ingiustificata”, ha dichiarato Nordio, ipotizzando di far scontare la pena ai detenuti stranieri nei loro luoghi di origine e puntare alla detenzione alternativa, “senza affievolire il concetto di certezza della pena, che venga però incontro alle esigenze particolari di detenuti in uno stato di particolare disagio”. Fra tante idee per risolvere il sovraffollamento carcerario ne proponiamo noi una a Nordio ed anche a costo zero: diminuire il numero di reati attualmente previsti. Bambini in carcere con le madri, uno sfregio alla Costituzione di Samuele Ciambriello* L’Edicola del Sud, 26 febbraio 2025 La nostra Carta costituzionale all’articolo 31 protegge la maternità e l’infanzia. Le detenute madri in Italia attualmente sono 9 di cui 2 a Lauro, 3 in Veneto, 1 in Piemonte e 2 in Lombardia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha affrontato il problema dei bambini in carcere avviando a Milano la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri (Icam). L’operatività a regime di tale modello è presa in considerazione dalla legge 62/2011, che interviene sia in materia di custodia cautelare delle detenute madri sia di espiazione della pena detentiva da parte delle medesime. A Milano, Torino e Venezia gli Icam sorgono addirittura all’interno del carcere ed è impossibile per i bambini, che si muovono a due passi dalle altre celle e devono oltrepassare i cancelli per andare a scuola, non respirare l’aria del penitenziario. L’Icam nasceva con l’idea di una struttura fuori dal carcere, con decreto del 3 ottobre 2016 la casa circondariale di Lauro è stata trasformata in Istituto a custodia attenuata per madri detenute, sezione distaccata della casa circondariale di Avellino. La decisione fu quella di ristrutturare con un grosso investimento, circa un milione di euro, quello che in precedenza era l’Icatt (istituto a custodia attenuta per il trattamento delle tossicodipendenze) di detenuti con problemi di tossicodipendenza. Dalla sua apertura, nel 2017, quello di Lauro è stato quasi sempre l’Icam più affollato d’Italia, formato da 16 bilocali e 4 stanze singole in grado di ospitare fino a 35 donne con bambini. Proprio per la sua conformazione, tra i quattro attivi totali l’Icam di Lauro rispettava alcuni dei requisiti ideali: è fisicamente distaccato dal carcere di Avellino, ha luoghi comuni e ampi spazi autonomi per i nuclei mamma-bambino in cui le detenute potevano portare avanti il rapporto con i figli, con bilocali indipendenti dotati di soggiorno e angolo cottura, camere da letto e bagno. A seguito della chiusura dell’Icam di Lauro il rischio è, che d’ora in poi, da Roma in giù alle detenute madri sarà precluso il rispetto del principio della territorialità della pena, non potendo godere del loro diritto alla difesa, al reinserimento nel territorio, nonché il diritto a conservare relazioni dirette con i propri familiari. I due bambini oggi presenti in Istituto saranno catapultati in altre scuole nel mezzo dell’anno scolastico perdendo il tessuto che li ha sostenuti. *Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Chiuso l’unico Icam del Sud. “Un’ingiustizia inaccettabile” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2025 L’unico Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) del Sud Italia è stato chiuso. L’allarme è stato lanciato dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che da giorni invoca un intervento della politica e della magistratura per scongiurare quella che definisce “un’ingiustizia inaccettabile”. Le ultime due donne recluse nell’Icam di Lauro (Avellino) sono state trasferite verso strutture di Milano e Venezia. Con loro due bambini, le cui storie incarnano le contraddizioni del provvedimento. Michael, sette anni, nato a Caltanissetta, aveva appena iniziato la seconda elementare a Lauro. Nello zaino, quaderni con i compiti incompleti e amici lasciati senza un saluto. Trinity, cinque anni, napoletana di nascita, aveva dipinto i suoi ultimi disegni all’asilo: case colorate che forse non ritroverà. Le loro routine - lezioni, merende, giochi in cortile - sono state interrotte bruscamente, come pagine strappate da un diario. “Bambini senza colpe!”, ha denunciato Ciambriello, richiamando l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia, che stabilisce la preminenza dell’interesse del minore in ogni decisione. “Perché questa fretta di chiudere la struttura durante l’anno scolastico? Perché trasferirli in carceri del Nord dove esistono solo due posti per donne con figli?”. Il Garante ha inoltre evidenziato lo spreco di risorse pubbliche: “Per aprire l’ICAM di Lauro, riadattando l’ex ICATT, sono stati spesi oltre un milione di euro per trenta detenute con figli. Perché non chiudere una delle tre mini- strutture al Nord?”. A ciò si aggiungono i 30mila euro stanziati dal Consiglio regionale per attività educative e il mancato utilizzo di un bene confiscato a Quarto, destinato all’accoglienza. “Sono risorse gettate al vento”, ha aggiunto. Alla protesta si è unita Francesca Pascale, attivista dei diritti umani ed ex compagna di Silvio Berlusconi, che ha visitato l’ICAM con Ciambriello: “Trasferire queste madri e i loro figli al Nord è un accanimento inutile contro chi sta già scontando una pena. I bambini innocenti pagano due volte: privati della scuola e trattati come pacchi”. Pascale ha sottolineato l’ipocrisia di chi “si professa “donna, madre e cristiana” ma permette che minori vivano dietro le sbarre”. Eppure, nonostante il peso e la forza di queste parole, l’appello di Ciambriello e Pascale sembra che sia caduto nel vuoto. La chiusura dell’Icam non ha soltanto privato il Sud di una struttura necessaria, ma ha anche infranto palesemente i diritti dei minori. Mentre le istituzioni politiche sono chiamate a fare chiarezza, due bambini, simbolo della speranza e del dolore, hanno avuto una brusca interruzione sballottati con le madri altrove. Non che l’Icam sia un modello virtuoso. In realtà, la vecchia proposta di legge dell’allora deputato del PD Siani mirava al loro superamento attraverso il rafforzamento delle case famiglia protette per le detenute madri. Questo Governo adotta un orientamento opposto: l’attuale disegno di legge sulla sicurezza, al vaglio del Senato, prevede la possibilità di posticipare la pena per le donne in gravidanza o con figli di età inferiore a un anno, con l’intento di indirizzare i magistrati verso una maggiore assegnazione alle strutture Icam. In altre parole, si punta a potenziare strutture che, pur non essendo carcerarie, rimangono comunque restrittive. Il paradosso è che ora viene chiusa l’unica struttura al Sud. Quando il ddl sicurezza entrerà definitivamente in vigore, il Sud resterà con un vuoto inesorabile: le donne incinte saranno collocate al Nord, in palese contrasto con il principio della territorialità della pena. I giovani in prigione con gli adulti. Gli effetti della crociata del Governo sui ragazzi in carcere di Federica Olivo huffingtonpost.it, 26 febbraio 2025 “Trattano i ragazzi come pacchi postali”, denuncia il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna. Un caso di trasferimento di giovanissimi nel carcere di Bologna per reati commessi quando erano minori è la cartina tornasole dell’inasprimento della legislazione da parte del governo Meloni. Ma il ministero della Giustizia tira dritto: “Emergenza assoluta”. “Stanno adultizzando i ragazzi. Trasformano i giovanissimi che hanno commesso reati in adulti, e li trattano come pacchi postali, su e giù per l’Italia”. Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia Romagna sintetizza così a HuffPost quello che sta per avvenire a Bologna, dove alcune decine di detenuti cosiddetti giovani adulti provenienti da tutta Italia saranno trasferiti alla Dozza. I giovani adulti sono i ragazzi tra i 18 e i 25 anni che hanno commesso un reato da minorenni e che, per legge, fino ai 25 anni possono restare negli istituti per minori (Ipm). In questo caso, però, saranno spostati in un carcere per adulti. In un lotto separato, ma pur sempre in un penitenziario non pensato per aiutare dei giovanissimi ad allontanarsi dal loro reato e ricominciare a vivere diversamente. Il trasferimento viene ritenuto molto inusuale dagli addetti ai lavori: la linea è sempre stata quella di tenere per gli adulti e i giovanissimi due binari ben separati e neanche paralleli. E c’è un timore che circola: che questo bolognese sia una sorta di esperimento per cancellare la differenza di trattamento tra detenuti adulti e detenuti giovanissimi che hanno commesso un reato da minorenni. Per quest’ultima categoria c’è sempre stata un’attenzione maggiore. Fino all’arrivo del governo Meloni la linea era quella di mandare in carcere solo chi aveva commesso reati gravissimi e destinare a case famiglia e strutture simili gli altri, così che potessero essere inseriti in un percorso che li aiutasse a non delinquere più. Dal 2022, però, le cose sono cambiate. E le carceri minorili si sono riempite di giovani detenuti. Tanto che sono sovraffollate come quelle per adulti. Le opposizioni danno la colpa al decreto Caivano, che ha reso più semplice la carcerazione per alcuni reati anche se commessi da minori. Questa tesi sarà ribadita anche da chi ha organizzato, a Bologna, un presidio contro il trasferimento dei giovani adulti alla Dozza. Per il governo, invece, la colpa è dei minori che commettono più reati gravi rispetto a prima: “Quando si è insediato il governo - dice una fonte del ministero della Giustizia ad HuffPost - nei 17 Ipm aperti c’erano 380 detenuti. Dieci giorni fa erano 610. L’emergenza è assoluta”. E a fondamento di questa emergenza viene segnalato l’aumento degli omicidi da parte dei minori - che, però, come abbiamo spiegato qui non è così incisivo come sembra leggendo i primi dati - dei tentati omicidi e delle violenze sessuali. Su quest’ultima categoria di reati ha in effetti lanciato l’allarme anche la Polizia che, nel suo ultimo report sui reati dei minori, a novembre 2024, ha segnalato che le denunce nei confronti degli under 18 per violenza sessuale sono aumentate dell’8,25% l’anno scorso, rispetto al 2023. Un aumento che, però, a una prima analisi non giustifica in toto un incremento così alto dei giovani detenuti. Insomma, sostiene il ministero, c’è bisogno di spazio per mettere questi giovani in cella. Almeno fino a quando non saranno aperte tre nuove carceri minorili: si tratta degli Ipm di Lecce, L’Aquila e Rovigo. I primi due erano stati chiusi negli anni scorsi, quando si iniziavano a ritenere gli Ipm strutture da superare per incentivare la rieducazione dei giovani autori di reati. Quello di Rovigo è del tutto nuovo, sorge dal nulla e, assicurano dal ministero, “sarà all’avanguardia”. Le tre strutture forniranno, insieme, una capienza di circa 90 posti. E apriranno, stando al cronoprogramma, entro l’estate. Quella di Bologna, insomma, sarebbe una soluzione temporanea. Che, però, non convince chi - il centrosinistra, i garanti dei detenuti e alcune sigle sindacali degli agenti penitenziari in particolare - ha messo un faro sulla vicenda. E ha sottolineato i rischi del mettere i giovanissimi in un carcere con gli adulti e di spostare gli adulti in carceri già problematiche, come quello di Parma, dove sono stati collocati i detenuti che dovevano lasciare spazio libero ai giovanissimi in arrivo. A Bologna ne aspettano 70, ma dal ministero della Giustizia spiegano ad HuffPost che saranno 50 massimo e arriveranno a gruppi di dieci. Si tratterà per lo più di minori non accompagnati “senza famiglia, poco alfabetizzati e anche poveri, deportati come pacchi”, dice ad HuffPost Nicola D’Amore, poliziotto penitenziario e sindacalista di Fns Cisl, che insieme ad altre sigle sindacali ha protestato per questo trasferimento. “Si tratta - aggiunge - di una scelta scellerata, di una gravità inaudita. Finiranno per rendere ordinaria una prassi che di ordinario non ha proprio nulla”. Perché la notizia agita pezzi di città - compresi pezzi di centrodestra locale - ed è stato convocato un presidio per oggi alle 18? Per una serie di ragioni. “Le cose sono avvenute senza il coinvolgimento degli attori locali, come i garanti o le Asl. È in atto un processo di disumanizzazione contro questi ragazzi”, spiega ad HuffPost Antonella Di Pietro, consigliera comunale del Pd che fa parte di un folto gruppo di colleghi di maggioranza che stanno seguendo la vicenda. E che, oltre a portare la vicenda in consiglio comunale, ha organizzato la manifestazione di oggi. Quello che lascia sgomenti gli organizzatori della protesta è che la Regione non sia stata informata prima. Allo stesso modo, non sarebbe stato informato il servizio sanitario regionale, che dovrà seguire la salute dei ragazzi, né rinforzata la magistratura di sorveglianza che di loro si dovrà occupare. “Era tarata su un organico di 20-30 detenuti: la media di quelli che stavano nell’Ipm di Bologna. Gli stessi, di recente sono diventati 59. A questi dovranno aggiungersi dai 50 ai 70 nuovi detenuti”, si sfoga ancora Cavalieri. La Polizia penitenziaria lamenta anche poca chiarezza sulle tempistiche: “Sarebbe opportuno - ha scritto la UilPA in una nota - stabilire un tempo predeterminato per queste allocazioni, altrimenti rischiamo di abbandonare tali giovani in un istituto per adulti per le lungaggini dei lavori dei nuovi istituti da aprire”. Dal ministero assicurano che i giovani resteranno a Bologna pochi mesi, fino all’estate. E che i giovanissimi saranno seguiti da personale specializzato sui minori. Rassicurazioni che, però, sono accolte con molto scetticismo nel capoluogo dell’Emilia Romagna. Non solo dal centrosinistra ma anche da pezzi di centrodestra: l’ordine del giorno presentato in Consiglio comunale per avere dei chiarimenti è stato firmato anche da esponenti di Forza Italia, Fratelli d’Italia e di una lista civica di centrodestra. Le carceri? Un colabrodo. E c’è persino chi spaccia di Felice Manti Il Giornale, 26 febbraio 2025 Le carceri colabrodo diventano un caso politico, con la sinistra che chiede le dimissioni del Guardasigilli Carlo Nordio, anziché recitare il mea culpa per il graduale smantellamento della sicurezza e al combinato disposto di discutibili scelte politiche, sentenze della Corte europea e della Consulta, tagli al personale e visioni ideologiche. L’inchiesta di Torino con oltre 100 persone accusate di spacciare nei penitenziari grazie a droga e telefonini arrivati tramite detenuti in permesso premio replica ciò che è avvenuto qualche giorno fa a Palermo, senza il coinvolgimento di alcun agente, a riprova che il sistema ha gli anticorpi. Il sistema di autogestione finalizzato al recupero sociale ha fallito e ha penalizzato in primis proprio gli agenti, una deriva a cui il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro sta cercando di mettere una pezza, osteggiato dall’opposizione per la sua recente condanna. La sua vera colpa è aver rivelato l’azione di indebolimento del 41bis - legittima - promossa dal Pd e spifferata dall’anarchico Alfredo Cospito ad alcuni boss. Sono tante le piccole crepe nella diga del sistema penitenziario negli ultimi 10-15 anni. L’innesco è la famosa “sentenza Torreggiani” con cui nel 2013 la Cedu di Strasburgo ci ha condannati per le condizioni inumane e degradanti. Per bypassare il problema delle celle troppo piccole le soluzioni erano due: diminuire i detenuti o costruire nuovi penitenziari. All’italiana si sono aperte le celle 8 ore al giorno, anche in regimi di alta sicurezza (un gradino sotto il 41 bis) per “trasformare” la cella in “stanza di pernottamento”. Lasciando i detenuti circolare nei corridoi senza alcun controllo. Nonostante l’aumento delle pene alternative le carceri scoppiano, con 65mila detenuti su 49mila posti. Troppi i detenuti in attesa di giudizio (tralasciando i tanti innocenti), ci sono penitenziari al 150-200% della naturale capienza, l’indulto di Clemente Mastella nel 2006 aveva svuotato carceri che si sono rapidamente riempite, c’è un problema di organici. Dai 44mila posti si è passati a 40mila, con blocco del turnover e riforma del ministro Marianna Madia, oggi siamo fermi a 36mila. Chiuse due scuole di formazione, anziché far studiare loro attività di Pg, codice e procedura penale si fanno corsi di comunicazione. L’anno scorso ci sono stati solo 1.600 nuovi assunti su 2.400 pensionati, a gennaio si è bandito il concorso per altri 3.300. A demotivare un mestiere con poco appeal è arrivato il reato di tortura. Chi sbaglia deve pagare, ma il reato “ha senso quando viene estorta una confessione”, sottolinea al Giornale Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe. Invece infanga agenti coinvolti in presunte lesioni o percosse, che finiscono ingiustamente ai domiciliari, con sospensione dal servizio “fino a che l’ipotesi decade in primo grado come è successo a Reggio Emilia”, sottolinea il sindacalista. “La violenza la respiriamo ogni giorno, non siamo robot”, dice un agente vittima innocente di un processo dal quale è uscito prosciolto. Un’altra mazzata è arrivata con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari sponsorizzata dall’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, strutture indegne ma non sostituite con soluzioni all’altezza. I malati di mente in custodia cautelare restano in carcere, come quelli borderline, chi è a piede libero e commette reati non è imputabili, la riforma di Rosi Bindi ha cancellato la sanità penitenziaria, è tutto è finito sulle spalle dell’Asl che fa fatica a trovare medici per curare chi è fuori. Una sentenza della Consulta ha modificato il 4 bis, imponendo il divieto dell’automatismo “non collabori, non accedi ai benefici”. Anm, sciopero a rischio flop. E ora si studiano “contromisure” di Simona Musco Il Dubbio, 26 febbraio 2025 Le regole del sindacato: risulterà astenuto pure chi domani lavorerà “causa urgenza”. “I numeri dello sciopero potrebbero essere gonfiati”. A dirlo è un magistrato di lunga esperienza, tra coloro che aderiranno alla protesta contro la separazione delle carriere in programma per domani, ma che non è privo di dubbi. Anche per via di una comunicazione interna dell’Anm che di fatto rende possibile aderire formalmente allo sciopero senza però subire trattenute in busta paga: sarà sufficiente dichiarare un’urgenza e rimanere in ufficio senza perdere il compenso. Uno “sciopero con riserva” che comporta, però, due problemi, secondo il magistrato interpellato dal Dubbio. “Il primo è che uno sciopero deve causare un danno alla pubblica amministrazione: dichiarando urgenze e rimanendo comunque in ufficio, l’impatto della protesta viene annullato - sottolinea l’iscritto all’Anm che preferisce rimanere anonimo. Il secondo problema riguarda la retribuzione: chi sciopera dovrebbe rinunciare al compenso giornaliero, come previsto per tutti i dipendenti pubblici. Ma alla luce delle istruzioni per l’uso fornite dal sindacato, il dato rischia di essere falsato”. Scioperare significa infatti avere il coraggio di provocare un “danno di immagine” alla giustizia, in nome di un principio. “Se invece qualcuno dice “aspettate, devo comunque andare in ufficio per scadenze urgenti”, allora il risultato è ambiguo: né piena adesione allo sciopero né completo rifiuto. Una sorta di compromesso”, sottolinea. Le voci sullo sciopero non sono al momento confortanti: secondo quanto raccolto dalle varie toghe, l’adesione sarebbe circa al 40%. A Milano, ad esempio, su 90 sostituti finora solo 30 avrebbero certificato la propria partecipazione. Ma rimane l’intera giornata di oggi per ripensarci. Per la toga sentita dal nostro giornale, però, l’opzione di uno sciopero “a metà” sarebbe risultato di una gestione fallimentare dell’autogoverno e della democrazia: “Ci hanno resi inguardabili”. Non solo agli occhi della politica - “che ha problemi anche peggiori dei nostri”, afferma ancora - ma soprattutto agli occhi dei cittadini. “Oggi fanno quello che vogliono: introducono il sorteggio per la carriera, modificano le regole di selezione e paradossalmente in alcuni casi sarebbe anche la cosa giusta. Ma perché siamo arrivati a questo? Perché i “padroni” delle correnti della magistratura e dell’autogoverno hanno perso credibilità”, prosegue. Le regole indicate dall’Anm, dunque, servirebbero proprio a questo: evitare che l’adesione risulti troppo bassa e si perda ancora credibilità. Anche perché se la magistratura non riesce a rimanere unita nemmeno di fronte alla separazione delle carriere, nessuna altra battaglia avrà speranza di successo. D’altra parte non tutti hanno davvero paura della riforma: “Le persone “normali” non temono la separazione delle carriere - aggiunge il nostro interlocutore -. Quello di cui si ha paura è il sorteggio, il vero potere sta nelle elezioni e nelle nomine: sarebbero pronti ad accettare tutto se fossero certi di poter eleggere pm e giudici”. L’Anm, nei giorni scorsi, ha diffuso le istruzioni per lo sciopero, dalle quali emerge proprio la possibilità di rimanere in servizio pur risultando nella conta dei manifestanti: “A chi aderisce allo sciopero ma garantisce comunque un servizio essenziale non si applicherà la trattenuta e verrà, ai fini statistici, computato come scioperante”, si legge. Una modalità rispetto alla quale Confintesa Funzione pubblica, tramite il suo segretario generale Claudia Ratti, si è detta perplessa. “Se confermato, questo meccanismo rappresenterebbe un escamotage per gonfiare i numeri dello sciopero, senza che vi sia una reale adesione all’astensione lavorativa - sottolinea Ratti -. Scioperare significa fare un sacrificio economico per sostenere una causa. Se manca questo presupposto, viene meno anche il valore stesso della protesta”. Una modalità, dunque, che rischia “di compromettere la credibilità dell’azione sindacale” : da qui l’invito all’Anm a fare chiarezza. “In un contesto così delicato, dove il confronto tra poteri dello Stato dovrebbe essere improntato alla massima trasparenza e correttezza, ci aspettiamo dall’Anm una presa di posizione chiara - conclude Ratti -. Se lo sciopero vuole essere uno strumento di lotta coerente con i valori costituzionali, allora va esercitato con serietà e responsabilità”. Una posizione nettamente meno dubbiosa quella della Cgil, che invece ha deciso di schierarsi con l’Anm. Una presa di posizione già chiara, dato l’evento organizzato a Napoli dalla Cgil, dove sul palco insieme al segretario Maurizio Landini è salito anche il pm e membro dell’Anm Fabrizio Vanorio, che ha ribadito la necessità di scioperare per evitare il controllo della politica sul pubblico ministero. La Cgil Napoli e Campania ha infatti diffuso ieri una nota, dichiarando di aderire allo sciopero, così come ha fatto anche la sezione Bologna e Emilia Romagna. “In coerenza con l’orientamento assunto dalla confederazione a livello nazionale”, si legge in una nota, la Cgil Napoli e Campania “condivide le ragioni alla base dello sciopero”, che “ha, evidentemente, lo scopo e l’effetto di ridurre l’autonomia della magistratura e spostare l’azione dei pubblici ministeri”. Un tentativo “di minare alla base la nostra Carta costituzionale” frutto “di un modello autoritario di trasformazione della nostra democrazia, in contrasto con i principi di bilanciamento dei poteri, uguaglianza e solidarietà che - conclude il sindacato - sono a fondamento della Costituzione italiana, antifascista e nata dalla resistenza”. Le giunte locali hanno organizzato 24 eventi sparsi sul territorio, per illustrare le motivazioni del no alla riforma e portando sul palco magistrati, ex magistrati, costituzionalisti, avvocati, rappresentanti del mondo della cultura e studenti. Nessun dibattito, stando al sito dell’Anm, in Basilicata, Molise, Sardegna e Veneto. E proprio in Veneto si è registrato un diffuso rifiuto nei confronti della protesta, come riporta Il Mattino di Padova: “Reputo lo sciopero dannoso per l’immagine della magistratura e inutile dal punto di vista politico”, ha dichiarato, tra gli altri, il procuratore di Padova, Angeloantonio Racanelli. Come lui anche i colleghi Marco Martani (procuratore di Treviso) e Roberta Gallego (reggente a Belluno). Ma a dire no sono magistrati su tutto il territorio, da Roma a Napoli, passando per Milano e Perugia. Alcuni pronti a dirlo pubblicamente, come la presidente del Tribunale di Napoli Elisabetta Garzo, che lo ha dichiarato a Repubblica, altri più defilati. Tant’è che non si fermano le mail per incoraggiare la partecipazione e “mostrare la solidità dell’Anm”: “La nostra indipendenza non è un privilegio, bensì il solo strumento con cui possiamo garantire le parti dei nostri processi. Così come l’autonomia del Csm non è solo una garanzia per la nostra indipendenza, ma inevitabilmente anche una garanzia per tutti i cittadini”, recita una mail della Giunta esecutiva centrale. Da qui “il dovere di sollecitare la massima adesione allo sciopero” contro una “riforma dannosa non solo per la magistratura, ma per il Paese”. Un ultimo accorato appello per evitare l’astensione. “Meglio controllare il meteo - commenta ironicamente un consigliere togato del Csm -, se il weekend è bello adesione massima!”. Una frase che riflette chiaramente l’atmosfera che pervade la magistratura. Carriere separate unica priorità: rallentano tutte le altre riforme di Valentina Stella Il Dubbio, 26 febbraio 2025 Il comitato dei nove della Commissione giustizia della Camera, tramite il relatore di FI Tommaso Calderone in accordo col Governo, ha dato ieri parere negativo a tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni al ddl che fissa a 45 giorni il limite delle intercettazioni. Il dibattito sul provvedimento, arrivato nell’Aula di Montecitorio venerdì scorso, sarebbe dovuto proseguire ieri con la discussione delle pregiudiziali di costituzionalità ma ha subìto una frenata dato l’ingorgo delle pdl all’ordine del giorno e le mozioni di sfiducia contro i ministri Nordio e Santanché. La norma, già passata al Senato, comunque dovrebbe essere approvata entro la prossima settimana. La maggioranza almeno su questo provvedimento sembra andare dritta verso la meta, dopo comunque un iter già abbastanza lungo. Invece altri provvedimenti restano fermi ai box di partenza. Sempre nella II commissione della Camera ancora non si è iniziato a parlare del ddl, anch’esso già passato a Palazzo Madama, che ha lo scopo di introdurre nel codice di procedura penale l’articolo 254- ter, per cui nel caso in cui nel dispositivo siano presenti scambi di comunicazioni, carteggi mail o conversazioni telematiche e di messaggistica, vada applicata la identica disciplina che riguarda le intercettazioni. Non vi è traccia neanche da parte del governo del ddl per limitare l’uso dei captatori informatici. “Il trojan deve essere tolto, è un’arma incivile. Può essere usato come era all’inizio, e cioè in casi eccezionali di gravissima pericolosità nazionale, come mafia e terrorismo, ma per il resto no”, aveva detto all’inizio del suo mandato il Guardasigilli, ma di una stretta agli strumenti investigativi non c’è neanche l’ombra. Così come non verrà fatto nulla per limitare l’abuso della custodia cautelare: il responsabile di Via Arenula lo ha fatto chiaramente capire la scorsa settimana rispondendo ad una interrogazione parlamentare proprio del forzista Calderone che su questo ha presentato una pdl che giace sempre nei cassetti della Commissione. Neanche questa settimana proseguirà nella medesima sede la discussione sulla pdl per l’istituzione della giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari. Doveva essere uno dei provvedimenti in cima ai pensieri del governo dopo la sessione di bilancio, tuttavia non c’è traccia delle linee guida sui criteri dell’azione penale, che dovranno essere stabiliti sulla base di una valutazione politica, stando a quanto chiarito dal ministro Carlo Nordio nel corso di un question time lo scorso dicembre. Un provvedimento che dovrebbe mutare le abitudini delle procure, così come previsto dalla riforma Cartabia, parte rimasta, fino ad oggi, inattuata. Tant’è che il senatore di FI Pierantonio Zanettin aveva presentato un ddl per accelerare la definizione dei criteri. Tutto questo perché a Palazzo Chigi c’è una sola priorità: separare le carriere. Tutto il resto, ossia quelle norme di maggior stampo garantista firmate Forza Italia, deve essere congelato. Vietato fornire all’elettorato, soprattutto di Fratelli d’Italia, il pretesto per dire che il Governo starebbe abbassando la guardia nella lotta alla criminalità o starebbe mettendo in atto riforme invise alla magistratura, che pure in parte raccoglie consensi in quella fetta di sostenitori. Separare per fare giustizia di Maurizio Belpietro Panorama, 26 febbraio 2025 Un amico magistrato mi ha mandato una tabella in cui sono riportati gli importi liquidati per ingiusta detenzione divisi per distretto giudiziario. I dati si riferiscono al periodo compreso fra il 2018 e il 2024 e la fonte è il ministero dell’economia e delle Finanze. In totale, la spesa per risarcire chi è stato arrestato ma poi riconosciuto innocente è pari a 193 milioni, all’incirca più di 27 milioni l’anno. In sé il dato statistico vuol dire tutto e niente. Che si debba indennizzare chi è finito dietro le sbarre per errore è un fatto di civiltà: se lo Stato riconosce di aver sbagliato è giusto che poi paghi, cercando di riparare al torto, anche se a volte non c’è modo di risarcire chi ha visto crollare la propria vita, i propri affetti e i propri affari. Come si fa a ripagare un tipo come Beniamino Zuncheddu, che a 27 anni è stato arrestato con l’accusa di aver ucciso tre persone? Il pastore sardo ha trascorso in carcere 33 anni prima di essere riconosciuto innocente. Cioè, rinchiuso in una cella ha visto passare davanti a sé la sua vita, diventando vecchio senza essere stato rinchiuso, se non dietro le sbarre. A lui lo Stato ha riconosciuto un primo “rimborso” di 30 mila euro, per aver vissuto in celle troppo piccole e affollate. Probabilmente con il tempo (come si sa la giustizia è lenta, ma con i più deboli è lentissima) avrà altri soldi, ma nulla potrà risarcirlo di ciò che gli è stato tolto, ovvero la libertà e il diritto di viverla, di farsi una famiglia, di amare, di emigrare, di invecchiare serenamente. Qualcuno potrebbe pensare che quello di Zuncheddu sia un caso limite, ma nel corso degli anni mi è capitato di raccontare altre vicende simili, ovvero la storia di persone che non sono rimaste trent’anni dietro le sbarre prima che qualcuno si accorgesse della loro innocenza, ma comunque ne hanno trascorsi venti o dieci, come quel piccolo imprenditore di Genova, Daniele Barillà, finito in carcere per la sola colpa di essersi trovato a passare con la propria macchina nel posto sbagliato all’ora sbagliata, quando una pattuglia di carabinieri stava aspettando un trafficante di droga. Storie incredibili di mala giustizia, che però guarda caso quando vengono scoperte non portano a sanzionare chi ha sbagliato e a volte nemmeno si concludono con l’arresto dei veri colpevoli. No, lo Stato riconosce che un innocente è finito in galera, a volte con sentenza passata in giudicato, cioè dopo un regolare processo con tre gradi di giudizio, e poi tutto finisce lì, nel senso che nessuno paga. Ma tornando alla tabella che l’amico magistrato mi ha girato, a colpirmi non è stata la somma dei risarcimenti nel corso del tempo, che è sempre poca cosa, dato che la spesa di tutti i distretti giudiziari italiani per me non può bastare a risarcire chi è stato sbattuto in galera a 27 anni e rimesso in libertà 33 anni dopo. Ad attirare la mia attenzione è stata la prevalenza nei rimborsi di alcuni tribunali. Prendete Reggio Calabria: nel 2018 furono spesi circa 2,3 milioni, ma da lì in poi è stato un crescendo, con somme che hanno sfiorato e a volte superato i 10 milioni. Tanti? Pochi? Io so solo che la provincia ha appena più di mezzo milione di abitanti e in un distretto giudiziario come quello di Milano, dove tra città e provincia risiedono oltre 3,2 milioni di persone, i rimborsi per ingiusta detenzione vanno da un minimo di 600 mila euro l’anno a meno di 1,5 milioni. Un’eccezione quella di Reggio? Non proprio. Prendete Catanzaro: i rimborsi oscillano fra i dieci e i quattro milioni, a seconda dell’anno. Il capoluogo della Calabria conta 350 mila abitanti e se si confronta con Torino, che di residenti ne ha 850 mila tra città e provincia, si scopre che le liquidazioni degli errori giudiziari nel capoluogo piemontese in alcuni anni sono un sedicesimo, in altri anche un cinquantesimo. Qualcuno potrebbe obiettare che l’alta densità criminale può spingere forze dell’ordine e magistratura a non andare troppo per il sottile quando c’è da far scattare le manette. Sì, ma allora qualcuno dovrebbe spiegare perché a Napoli, nel 2024, si sono spesi “solo” 650 mila euro e l’anno precedente 950 mila, che a fronte degli otto milioni di Reggio Calabria appaiono davvero poca cosa. La realtà è che ci sono toghe dall’arresto facile e dall’ancor più facile errore giudiziario (ne parliamo anche a pagina 22 con un articolo di Maurizio Tortorella). I pm, come i giudici, sono uomini e dunque soggetti a sbagliare. E però in tutte le professioni chi sbaglia paga e non può continuare a fare danni sulla pelle degli altri. Invece, nel caso della magistratura gli errori sono a carico dello Stato, cioè dei contribuenti, e mai di chi li ha commessi. Con il paravento dell’autonomia e dell’indipendenza, di fatto si garantisce l’impunità. Tutto ciò nelle procure e nei tribunali si sa benissimo, ma si finge di non saperlo. Preferendo fare battaglie come quella contro la separazione delle carriere. Al contrario, separare il destino di chi rappresenta l’accusa da chi, sulla base di quelle accuse, deve emettere una sentenza non soltanto è giusto, ma è anche utile. Forse, dividendo i pm dai giudici potremo ottenere che i secondi giudichino con severità non soltanto gli accusati, ma anche chi quell’accusa la sostiene. In Italia si uccide sempre meno. Quattro segnali rassicuranti (e un allarme) di Enrico Cicchetti Il Foglio, 26 febbraio 2025 Negli ultimi dieci anni, il numero degli omicidi volontari è sceso del 33 per cento. E dal 2023 al 2024 sono più che dimezzati gli omicidi passionali, calano di quasi tre quarti gli omicidi per mafia e diminuiscono anche quelli compiuti da stranieri. Impennata di autori minorenni. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia. In Italia si uccide sempre meno. Non solo, ma nel report appena pubblicato dal Servizio analisi criminale della Polizia, ci sono altri tre segnali - oltre al calo generale degli omicidi - che indicano una direzione opposta a quella che vuole un paese in mano ai barbari dove la violenza è in continua escalation. Sono più che dimezzati gli omicidi passionali; calano di quasi tre quarti gli omicidi per mafia; diminuiscono anche quelli compiuti da stranieri. Primo punto. Lo studio è stato realizzato analizzando i dati acquisiti dalla banca dati delle forze di polizia, confrontati con le informazioni fornite dai presidi territoriali di Polizia di stato e Arma dei carabinieri, che analizza il fenomeno durante il decennio 2015-2024 con un focus specifico sul biennio 2023-2024. Dall’analisi dei dati statistici emerge una diminuzione costante del numero degli omicidi volontari consumati in Italia, con un calo del 33 per cento, passando da 475 eventi del 2015 a 319 del 2024, con un decremento del 6 per cento registrato tra il 2023 (340 eventi) e il 2024 (319). Il trend è confermato anche dai dati Eurostat relativi agli omicidi volontari registrati in Europa che, per il 2022, collocano l’Italia tra i paesi più sicuri per questo tipo di reato, riconoscendola, in ambito Ue, come il paese con il minor fattore di rischio di eventi omicidiari. Per quanto concerne il modus operandi, nel 2024, così come nell’anno precedente, sono state le armi improprie o le armi bianche le più utilizzate per uccidere (133 casi nel 2024 in calo rispetto ai 156 del 2023), mentre le armi da fuoco sono state utilizzate in 98 casi nel 2024 e 101 nel 2023 e l’avvelenamento è stato utilizzato in 6 casi nel 2024 e 4 nel 2023. Delitti di mafia, meno 72 per cento - Secondo elemento: una flessione ancora maggiore si rileva negli omicidi che riguardano contesti di criminalità di tipo mafioso, in calo del 72 per cento (da 53 a 15). Certo, c’è un’altra faccia della medaglia: questo dato ci racconta come le mafie in Italia stiano cambiando pelle: cercano di evitare clamori per poter dedicarsi con più efficacia alle attività criminali e all’infiltrazione dell’economia legale. Ma resta una notizia positiva che gli spargimenti di sangue siano calati così tanto. Dimezzati i delitti passionali - Ancora: riguardo il biennio 2023/24, l’analisi dei moventi evidenzia che nel 2024 la metà circa (il 49 per cento) degli omicidi ha avuto origine da una lite degenerata (45 per cento nel 2023) e solo il 5 per cento da motivi passionali (era l’11 per cento nel 2023, il fenomeno è pressoché dimezzato), mentre si attesta al 3 per cento la percentuale degli omicidi commessi pietatis causa (uccisione della vittima, sofferente a causa di una malattia degenerativa o particolarmente invalidante). In calo gli stranieri autori di omicidi - Ultimo elemento, certamente non l’ultimo per interesse se parliamo di “allarme sicurezza”: la nazionalità degli autori di omicidi. Gli italiani rappresentano circa il 70 per cento in entrambi i periodi (nel decennio 2015-24 e nel biennio 2023-24). Ma anche qui c’è un calo. Un dato positivo, insomma, ammesso che si possa usare questo termine dato il contesto. Gli stranieri che si sono macchiati di questi delitti erano il 32 per cento nel 2023 e sono scesi al 27 per cento l’anno successivo. Le vittime di nazionalità italiana rappresentano il 75 per cento del totale in entrambi i periodi, mentre quelle straniere costituiscono il 25 per cento. Gli omicidi tra minori, un fenomeno da non perdere di vista - C’è un ulteriore elemento da considerare, che questa volta invece fotografa un fenomeno preoccupante: è in salita, e di molto, l’incidenza degli autori minorenni che, nel 2024, è dell’11 per cento a fronte del 4 dell’anno precedente. Resta da chiarire che la fascia d’età maggiormente rappresentata nel 2024 tra gli autori di delitti è comunque quella compresa tra 18 e 40 anni. Il boia libico e lo spyware, i casi corrono in parallelo di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 febbraio 2025 Su Elmasry la procura di Roma invia nuovi atti. Paragon: a Napoli sentito Beppe Caccia. I casi Elmasry e Paragon corrono ormai in parallelo: un po’ perché il governo è in netta difficoltà a fornire spiegazioni convincenti su entrambe le vicende e un po’ perché sullo sfondo sembra esserci sempre la stessa cosa. Cioè lo stesso paese: la Libia, con cui l’Italia ha un accordo dal 2017 sulla gestione dei flussi migratori e diversi interessi sul fronte energetico. “Apriamo una discussione”, è l’invito a Giorgia Meloni del portavocee di Mediterranea Luca Casarini, oggetto insieme ad altri esponenti dell’ong e al direttore di Fanpage Francesco Cancellato di un attacco a base di spyware di ultima generazione non si sa da parte di chi né perché. “Noi purtroppo - ha detto ancora Casarini da Napoli, mentre al porto era in arrivo una nave con a bordo 41 migranti provenienti proprio dalla Libia - abbiamo boss che girano per l’Europa tranquilli e che poi vengono riportati a casa pure con un volo di Stato, abbiamo esponenti di milizie libiche e non solo. Non si può chiudere tutto al Copasir”. Da ieri, inoltre, c’è un nuovo documento su Elmasry nel fascicolo inviato dalla procura di Roma al tribunale dei ministri, che dovrà decidere se archiviare o meno l’indagine per favoreggiamento e peculato aperta dalla procura di Roma sulla premier Meloni, il sottosegretario Mantovano e i ministri Nordio e Piantedosi a seguito di un esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti. Si tratta della denuncia presentata, attraverso l’avvocato Francesco Romeo, da Lam Magok Biel Ruei, cittadino sudanese che sostiene di essere “vittima e testimone” delle atrocità del capo della polizia giudiziaria libica e che ha puntato il dito contro il governo che ne avrebbe favorito la fuga, nonostante ci fossero tutti gli elementi per dare esecuzione al mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Secondo quando denunciato da Lam Magok, infatti, le autorità italiane erano state allertate per tempo dall’Aja ed erano state anche coinvolte nelle attività che hanno portato all’arresto del boia, domenica 19 gennaio a Torino. La questione si gioca tutta sui tempi: la Cpi aveva spiccato il mandato sabato 18 gennaio e, contestualmente, consegnato le carte all’ambasciata italiana nei Paesi Bassi. Lunedì 20 gennaio, poi, la Corte d’appello di Roma, competente sul caso, aveva chiesto chiarimenti sul da farsi al ministero della Giustizia, che non ha mai risposto. Nordio ha spiegato il suo silenzio lo scorso 5 febbraio con la famosa informativa alla Camera in cui ha sostenuto che il mandato fosse di difficile interpretazione (“Erano 40 pagine scritte in inglese”) e poi ha detto che in ogni caso c’erano dei passaggi poco chiari. Lo Statuto di Roma, però, impone che in casi del genere lo stato parte si consulti con la Cpi per dirimere ogni eventuale dubbio, cosa che non è stata fatta. Comunque, martedì 22 gennaio, Elmasry è stato scarcerato e subito imbarcato su un aereo di Stato che l’ha riportato a Tripoli. Il comportamento del governo, dunque, avrebbe leso la possibilità della vittima Lam Magok - la cui testimonianza è nel fascicolo del procuratore dell’Aja Karim Khan, che ha pure chiesto di deferire Roma al Consiglio di sicurezza dell’Onu per la sua mancata cooperazione - di ottenere giustizia. In arrivo ci sarebbe anche un’altra denuncia, di una donna ivoriana. Oltre a tutto questo il tribunale dei ministri ha a sua disposizione l’atto d’accusa della Cpi contro Elmasry e l’ordinanza della Corte d’appello di forma che lo ha liberato per vizi procedurali dovuti alle “mancate interlocuzioni” con via Arenula. Gli indagati si faranno sentire attraverso una memoria difensiva (questo almeno è il prudentissimo piano della loro avvocata Giulia Bongiorno). Le intenzioni del capo della procura di Roma Francesco Lo Voi, nel frattempo oggetto di pesanti attacchi da parte dei media filogovernativi, sembrano chiare: un’indagine va fatta, quantomeno perché gli aspetti poco chiari della vicenda sono parecchi. Ieri mattina, alla Camera, è anche cominciata la discussione sulla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni contro Nordio, che si è presentato in aula accompagnato dal suo vice Sisto e da Piantedosi. “Nordio ha sostenuto molte falsità e con il suo silenzio ha fatto scarcerare il torturatore libico Elmasry, perché i diritti umani vengono dopo il petrolio per il governo Meloni. Questa è l’unica verità di questa brutta vicenda”, ha detto il deputato di Avs Marco Grimaldi, che ha chiesto le dimissioni del ministro per questa vicenda e per le mancate spiegazioni sul caso Paragon. A questo proposito, proseguono le indagini coordinate delle procure di Palermo e Napoli, dove sono stati presentati esposti da Mediterranea e da Cancellato. Lunedì la polizia del capoluogo siciliano ha ascoltato Casarini come persona informata sui fatti, ieri in Campania è successa la stessa cosa all’armatore dell’ong Beppe Caccia. A Napoli il fascicolo è nelle mani del sostituto procuratore Vincenzo Piscitelli. A quanto si apprende, l’inchiesta è nella fase dell’acquisizione di elementi utili. Tradotto significa che deve ancora cominciare. Un diritto a rovescio. Assolti, ma confiscati di Maurizio Tortorella Panorama, 26 febbraio 2025 La vicenda degli imprenditori Cavallotti (che a Palermo sono stati arrestati, processati, riconosciuti innocenti e comunque sottoposti a sequestro di aziende e beni) è ancora aperta, dopo 27 anni. Economicamente distrutti, hanno fatto ricorso per un risarcimento alla Corte europea. Che potrebbe sanare questo abuso e rivoluzionare il Codice antimafia. Come una nuvola nera, l’ultima storiaccia di malagiustizia è partita da Palermo 27 anni fa. Da lì ha fatto un lungo giro alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Ora la nuvola sta tornando in Italia, verso Roma, dove finalmente potrebbe condensarsi in una pioggia purificatrice. La vicenda è quella dei Cavallotti, imprenditori del metano a Palermo, nel 1998 ingiustamente accusati di associazione mafiosa. I tre fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti furono sbattuti in carcere perché accusati da alcuni pentiti di fiancheggiare il clan del boss Bernardo Provenzano, e subirono una custodia cautelare di 30 mesi. Il calvario penale dei Cavallotti (la cui cronologia è riassunta nelle pagine successive) terminò 12 anni più tardi, nel dicembre 2010, quando la Corte d’appello di Palermo li assolse perché “il fatto non sussiste”. Insomma, non erano né mafiosi, né fiancheggiatori dei clan: erano stati costretti a piegarsi alle pressioni estorsive di Cosa nostra, certo non facili da rifiutare. L’accusa, forse per la nettezza della sentenza, non fece nemmeno ricorso in Cassazione: così l’assoluzione, oltre che piena, diventò definitiva. La trafila giudiziaria però, non era terminata. Perché, nel dicembre 2011, su di loro piombò una nuova tegola, quella delle “Misure di prevenzione”. La giustizia di prevenzione, disciplinata dal Codice antimafia varato in quello stesso 2011, corre su un binario parallelo e diverso dal giudizio. Il suo scopo è contrastare la criminalità organizzata con misure personali (come il divieto di soggiorno) e patrimoniali. Risultato? Anche se in sede penale i tre fratelli Cavallotti erano stati assolti, furono comunque qualificati come “pericolosi” e tutti i loro beni, dalle imprese alle case, fino ai conti in banca e alle automobili, furono posti sotto sequestro. La nuvola nera inghiottì ogni cosa. E lo stesso accadde in seguito alle imprese e ai beni dei loro figli, per quanto non indagati, perché i giudici della Sezione misure di prevenzione di Palermo stabilirono che la loro origine fosse “illecita”. Prove di queste accuse? Nessuna. Indizi? Nemmeno. Ma così funzionano le Misure di prevenzione: non serve una condanna, non occorre nemmeno l’iscrizione al registro degli indagati. Basta la parola di un pentito, senza riscontri, o un rapporto di polizia. Basta perfino la “frequentazione di persone legate alla criminalità organizzata”: in un caso, anni fa, bastò che il malcapitato bazzicasse un presunto “bar di mafiosi”. Subire un sequestro di beni per “mafiosità”, insomma, non è poi così difficile: un po’ come rischiare la tortura o il rogo ai tempi della Santa inquisizione. Nel caso dei Cavallotti non c’era nulla che giustificasse i sequestri. C’era, invece, l’assoluzione piena del 2010. E infatti la famiglia cercò di opporsi alla patente ingiustizia. In quegli anni, va ricordato, la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo era presieduta da Silvana Saguto, che la gestiva con pugno di ferro. Nel 2013 il sequestro dei beni dei Cavallotti di prima e di seconda generazione divenne confisca definitiva. Si sarebbe scoperto solo anni dopo che la giudice Saguto aveva trasformato la Sezione in macchina del malaffare: processata per corruzione e concussione assieme a una quindicina di co-imputati tra parenti, amici e alcuni degli amministratori giudiziari cui aveva affidato le aziende sequestrate (e spolpate), la magistrata nel 2019 è stata radiata dall’ordine giudiziario e nel 2023 è stata condannata a quasi nove anni di reclusione, anche se ora un nuovo processo sta rivalutando la pena. È vero che poi, nel 2019, la confisca dei beni dei Cavallotti è stata annullata, e che la Cassazione il 17 gennaio 2023 ha restituito le imprese ai legittimi proprietari. Il problema, però, è che le aziende sono state devastate: gli anni della gestione giudiziaria le hanno coperte di polvere e ruggine, cancellando un patrimonio di decine di milioni di euro, e il lavoro per alcune centinaia di dipendenti. Gli imprenditori siciliani hanno subìto vessazioni davvero paradossali. Pietro, il figlio di Gaetano, denuncia che tra i primi sequestri e la restituzione delle imprese “l’amministratore giudiziario, in virtù della legge, ha potuto tralasciare il pagamento di fornitori e tasse, anche se s’è ben guardato dal congelare i suoi compensi, 700mila euro in tutto”. Il problema è che ora l’arretrato fiscale ricade sui proprietari, tornati “legittimi” e in quanto tali - loro malgrado - divenuti contribuenti morosi. Nel frattempo, nel 2016 e nel 2019, i Cavallotti hanno presentato due ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Per questo, ora, la nuvola nera incombe sul cielo di Strasburgo. Questa Corte è l’unico appiglio per un risarcimento. Ma è anche il punto di partenza per ogni possibile correzione delle abnormità delle Misure di prevenzione. La Cedu ancora non s’è espressa, ma i giudici considerano il caso “pilota” per la sua importanza, quindi il loro pronunciamento farà giurisprudenza. E anche l’unione delle camere penali, l’organizzazione degli avvocati penalisti italiani, sensibile alle storture illiberali del Codice antimafia, è stata coinvolta dalla Cedu come “parte terza” nel giudizio. I magistrati di Strasburgo hanno inviato al nostro governo una serie di quesiti sulla materia, per verificare se le Misure di prevenzione rispettino i fondamenti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Hanno chiesto, i giudici, se la confisca dei beni dei Cavallotti sia stata motivata da una presunzione di colpevolezza (improbabile, vista l’assoluzione del 2010) o se, in caso contrario, sia stata violato il principio della presunzione d’innocenza; hanno chiesto anche se la confisca, causa Misure di prevenzione, sia stata applicata contro il principio di legalità, e se abbia comportato violazioni del diritto di proprietà. Gian Domenico Caiazza, che dei penalisti italiani è stato il presidente, sottolinea che tali quesiti, per come sono formulati, “fanno presagire un mutamento di orientamento della Cedu, finora indulgente verso le nostre norme” delle Misure di prevenzione. Pare ipotizzare una pronuncia sfavorevole per l’italia anche una preoccupata interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio, scritta da Federico Cafiero De Raho, l’ex procuratore nazionale antimafia oggi deputato Cinque stelle (uno dei partiti più lontani da ideali garantisti), dove si legge che un accoglimento del ricorso significherebbe “la messa in discussione del pilastro fondamentale del contrasto delle mafie in Italia e in Europa”. L’avvocato Stefano Giordano, il giurista palermitano che ha curato uno dei due ricorsi dei Cavallotti alla Cedu, scuote la testa: “Noi non tireremo per la giacca i giudici di Strasburgo”, dice. Ora la parola tocca a loro. La speranza, per chi crede nello Stato di diritto, è che dalla nuvola nera che prima o poi arriverà sulla verticale di Roma possano discendere prescrizioni più rispettose dello Stato di diritto. E garanzie inviolabili per i cittadini innocenti. Niente tirocinio in farmacia per lo studente detenuto in regime di 41bis di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2025 La Corte di Cassazione fa chiarezza sullo specifico caso dei detenuti 41bis, escludendo che i detenuti possano avere qualsivoglia contatto con l’esterno. La Corte di Cassazione (sentenza 6753/2025) ha chiarito che il diritto allo studio dei detenuti - anche quando sottoposti a regime speciale - è un cardine delle disposizioni dirette ad agevolare il percorso di studi del detenuto studente. Ciò anche attraverso intese ad hoc con le autorità accademiche, eventualmente adattando l’esercizio dello stesso diritto allo studio alla situazione effettiva dei detenuti, in coerenza con gli scopi di pubblica sicurezza che informano detto regime speciale. E, nello specifico caso dei detenuti 41bis, escludendo che i detenuti possano avere qualsivoglia contatto con l’esterno, se non quelli strettamente necessari in casi eccezionali che, in tali ipotesi, devono avvenire sotto il diretto e costante controllo dell’amministrazione penitenziaria. Su queste coordinate, la Suprema Corte ha ritenuto che nella vicenda, i provvedimenti dei giudici di sorveglianza, al di là anche della sostanziale sovrapponibilità degli argomenti utilizzati, erano entrambi corretti e la motivazione in questi resa, con il riferimento alle modalità di svolgimento del tirocinio e di come queste fossero incompatibili con il regime di detenzione cui era sottoposto il detenuto, perfettamente adeguati. Il diniego di svolgere il tirocinio universitario presso una farmacia, diretto a prevenire il pericolo della interlocuzione del detenuto con soggetti non aventi titolo alla comunicazione, era coerente con il sistema e, pertanto, conforme al principio di ragionevolezza delle restrizioni, poiché il rispetto e la tutela del diritto allo studio del detenuto devono essere bilanciati, sempre, con le esigenze di tutela della collettività e con le condizioni previste a tal fine per la misura di cui al 41bis dell’Ordinamento Penitenziario. Infatti, in questa prospettiva, il contenuto tipico e necessario del regime stesso è indicato nelle disposizioni contenute nella disciplina penitenziaria che elenca una serie di misure specifiche volte a impedire la continuazione delle attività criminali. Campania. Lavori di pubblica utilità per detenuti: protocollo tra Regione, Tribunale e Uiepe ansa.it, 26 febbraio 2025 Nella sala De Sanctis di Palazzo Santa Lucia, la Regione Campania, il Tribunale Civile e Penale di Napoli, e l’Uiepe Campania, hanno siglato oggi un Protocollo che ha la finalità di sensibilizzare la comunità sulle tematiche dell’inclusione e promuovere la stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità (LPU) anche nell’ambito del procedimento di Messa alla Prova, da parte delle articolazioni regionali, con i Tribunali competenti. Piena intesa e collaborazione sugli obiettivi comuni dei percorsi di reinserimento sociale previsti dalla legislazione. Con il Presidente Vincenzo De Luca Hanno firmato il protocollo la dott.ssa Elisabetta Garzo, Presidente del Tribunale di Napoli, la dott.ssa Maria Rosaria Covelli, Presidente della Corte d’Appello, la dott.ssa Claudia Nannola, Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna della Campania. Il lavoro di pubblica utilità (LPU), anche nella messa alla prova degli imputati maggiori di età (ai sensi dell’art. 168-bis c.p.), è una prestazione non retribuita in favore della collettività di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ad attitudini lavorative dell’imputato, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Nell’ambito di un progetto individualizzato di reinserimento sociale dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, lo svolgimento di concrete attività non retribuite a beneficio della collettività non solo rappresenta la riparazione del danno procurato alla società, ma soprattutto aiuta l’imputato a rielaborare in senso critico la propria condotta deviante e ad acquisire consapevolezza del valore sociale dell’azione restitutiva. Cosa prevede il protocollo: Il Tribunale penale e civile di Napoli si impegna ad essere impulso di ogni azione organizzata con UIEPE Campania e Regione Campania per la sensibilizzazione della Comunità alle problematiche delle persone in area penali e per favorire la stipula delle convenzioni locali per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna, tramite i propri uffici territoriali, redige il programma di trattamento, cura la conciliazione tra le esigenze del soggetto in area penale e la sede operativa territoriale della Regione Campania; fornisce alle sedi operative locali della Regione tutti i chiarimenti e le delucidazioni necessarie; favorisce i contatti tra le sedi operative e i tribunali di competenza; supporta le sedi operative ai fini della stipula della convenzione. La Regione individua il numero massimo di soggetti in area penale che possono essere inseriti contemporaneamente nei servizi facenti capo alle sedi operative; specifica le tipologie di attività da far svolgere in concreto; per ogni sede operativa indica un referente cui l’UEPE possa rivolgersi per acquisire informazioni sull’andamento del soggetto. Bologna. Proteste per giovani trasferiti dagli Ipm in cella al Dozza con gli adulti di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 febbraio 2025 Carceri minorili, manifestazioni contro il progetto governativo. No del sindaco Lepore e della Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Claudia Giudici. “Una bomba che lancia le sue schegge in tutta Italia”, così il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna, Roberto Cavalieri, definisce il progetto governativo - la cui realizzazione ha preso il via venerdì scorso - di creare nel carcere della Dozza a Bologna una sezione apposita dove trasferire circa 50 giovani adulti tra i 21 e i 25 anni prelevati dagli Istituti penali minorili del Paese, in sovraffollamento come finora lo erano state solo le carceri per adulti. Saranno scelti tra i reclusi arrivati in Italia come minori non accompagnati (quelli che creano più “problemi” al Dipartimento). Ieri, dopo che nei giorni scorsi si era levata la protesta degli avvocati penalisti e dell’Fp Cgil, dopo l’ordine del giorno di condanna presentato in consiglio comunale dal Pd e sottoscritto pure da un esponente di FI, e dopo la levata di scudi dei garanti territoriali dei detenuti, hanno detto no anche la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Claudia Giudici e il sindaco di Bologna Matteo Lepore intervenuto in sostegno della manifestazione organizzata davanti al carcere. “La Dozza - ha detto Lepore - ha già gravi problemi di sovraffollamento, oltre l’accettabile, è difficilmente comprensibile quindi come possa ospitare una nuova sezione dedicata ai giovani detenuti, con spazi per il lavoro educativo del tutto inadeguati. Spostarli in quel modo solo per ragioni logistiche, sganciando la loro permanenza in una struttura dalla necessità di un contesto rieducativo, è un errore”. Da qui la richiesta al ministro Nordio “di rivedere questa decisione e di aprire un confronto”. Una scelta che la Garante Giudici giudica “gravissima” perché “mina l’attuazione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. Da notare che il range di età (21-25 anni) dei ragazzi da trasferire non è casuale, perché così il governo intende eliminare l’estensione introdotta nel 2014 dall’allora ministro Orlando col proposito di evitare ai giovani reclusi negli Ipm l’interruzione precoce dei programmi di reinserimento. Ora, al fine di creare questa sezione speciale, da venerdì scorso è cominciato il trasferimento dei circa 80 detenuti dell’Alta sicurezza (As3) della Dozza verso altre carceri, peraltro già sovraffollate, come Parma (dove a farne le spese sono stati già i 29 detenuti che per motivi di salute o di altro tipo avevano ottenuto il diritto ad avere una cella singola), Fossombrone, Lanciano, Tolmezzo e Asti. Perché sia stata scelta Bologna come sede della prima sezione speciale per giovani adulti può essere spiegato con le parole di Cavalieri: “Dicono che sia per come è posizionata la sezione AS3, ma è evidente la scelta dal sapore tutto politico”. Un progetto a cui il capo del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità Sangermano sta lavorando da nove mesi, anche se da almeno altrettanto tempo il governo parla dei nuovi Ipm da aprire con il restauro di vecchi istituti a Rovigo, L’Aquila, S. M. Capua Vetere e Lecce. L’interpello per trovare gli agenti disponibili a trasferirsi a Bologna per l’operazione è già stato lanciato e sembra che la loro diaria preveda cento euro in più rispetto al normale stipendio. Bologna. Doccia fredda al presidio: anticipati i trasferimenti alla Dozza di 50 detenuti dai minorili di Chiara Marchetti Corriere di Bologna, 26 febbraio 2025 Il loro ingresso nel carcere della Dozza doveva essere il primo aprile, ma è stato anticipato al 15 marzo. Mancano poche settimane all’arrivo dei circa 50 giovani detenuti, provenienti da diverse carceri minorili d’Italia, che saranno trasferiti temporaneamente nella Casa circondariale bolognese per decisione del governo. La nuova data è stata annunciata ieri pomeriggio dall’assessora regionale al Welfare, Isabella Conti, nel corso di un sit-in di protesta contro il “trasloco forzato” dei 50 neomaggiorenni. “Daremo battaglia fino alla fine - le parole di Conti - perché una decisione del genere non è degna di un Paese civile. Stiamo parlando di ragazzi che avevano cominciato progetti di reinserimento altrove e che ora si ritrovano in un contesto completamente diverso. Loro possono pensare di essere trattati come numeri o pacchi dallo Stato e più le istituzioni disumanizzano le persone, più si perdono le chance di poterle reinserire”. E aggiunge: “I detenuti sono privati della libertà, non possiamo privarli anche della dignità”. La decisione del governo ha preso alla sprovvista un po’ tutti, compresi i sindacati che hanno appreso la notizia “quasi per caso”. Erano circa un centinaio le persone presenti al presidio promosso da Volt e a cui hanno preso parte alcuni consiglieri comunali di maggioranza, i sindacati e diverse associazioni della società civile. “Abbiamo voluto promuovere il presidio - spiega la portavoce di Volt, Silvia Panini - perché pensiamo che questo trasferimento temporaneo sia stato mascherato come una misura amministrativa, ma in realtà è una chiara direzione politica del governo”. Sullo striscione tenuto in mano da consiglieri comunali e attivisti si legge la scritta: “No trasferimenti di giovani detenuti”; alcuni manifestanti mostrano cartelli con frasi di De André e Beccaria, altri contro il decreto Caivano, responsabile secondo i presenti del sovraffollamento carcerario. “Quello che sta facendo il governo - attacca Federica Mazzoni, segretaria dem di Bologna - è indecente. Ci batteremo fino all’ultimo anche perché il carcere della Dozza è il settimo quartiere della città. Noi crediamo nella rieducazione della pena e mandare qui dei ragazzi a fare un master del crimine con gli adulti è inaccettabile”. Parole forti anche da parte della vicesindaca Emily Clancy: “Spesso i giovani detenuti - dice - vengono da contesti di marginalità` e come società` non possiamo far sì che quella sia la loro condanna. Come comunità educante e come istituzioni abbiamo il dovere di dar loro una possibilità di riscatto”. Un concetto condiviso dal sindaco Matteo Lepore che, seppure non presente, ha espresso il suo sostegno al presidio: “Per lo Stato, spostare alla Dozza 50 giovani detenuti vuole dire abdicare a un dovere fondamentale che gli affida la Costituzione”. Nel corso del sit-in sono intervenuti anche i consiglieri comunali Mery De Martino del Pd e Giacomo Tarsitano della lista Lepore, oltre al consigliere di Coalizione civica Detjon Begaj. Presente anche il mondo della cultura con l’artista Alessandro Bergonzoni che non si è risparmiato una tagliente provocazione: “Porto gli abiti al contrario, li rivolto, mi rivolto contro le condizioni rivoltanti delle carceri. In quelle condizioni io mi rivolterei quotidianamente”. Poi la stoccata al governo: “È una decisione senza visione e senza cultura. Il progetto è molto evidente: punire”. Bologna. Castaldini (FI): “Bisogna valutare i singoli casi e mandarli in Comunità alternative” di Marina Amaduzzi Corriere di Bologna, 26 febbraio 2025 Una buona parte del centrodestra in Consiglio comunale, in primis Forza Italia, lunedì ha votato, insieme al centrosinistra, un ordine del giorno che è contrario all’apertura della sezione per giovani adulti all’interno del carcere della Dozza e chiede “altre ipotesi e soluzioni”. Un punto condiviso da Valentina Castaldini che è consigliera regionale di Forza Italia. Castaldini, quali sono le altre ipotesi? “Spero che il presidio di stasera (ieri per chi legge, ndr) serva a far capire un punto in questa vicenda che sembra andare su un binario prestabilito. Ovvero la necessità di fare un tavolo, a prevalenza welfare, che valuti caso per caso la situazione di questi giovani e identifichi quelli che possono accedere a comunità alternative al carcere. Il voto di lunedì in Consiglio comunale esprimeva preoccupazione ma anche la necessità di questo tavolo”. Per trovare il posto alla nuova sezione, dal carcere della Dozza sono stati trasferiti 70 detenuti. Anche questo la preoccupa? “Molte di queste persone, che sono state trasferite a Parma e a Fossombrone, stavano seguendo un percorso scolastico oppure di formazione, percorsi che vengono interrotti con la possibilità concreta che non vengano reinseriti in progetti analoghi. E devo aggiungere che mi preoccupa molto anche un altro aspetto”. Quale? “Il Tribunale dei minori. Sappiamo che è sempre in grande sofferenza ee sappiamo che, almeno per tre mesi, avrà come priorità questi giovani che arrivano. In pratica tratterà solo lo straordinario, tralasciando l’ordinario, che è è fatto anche di bambini abbandonati che aspettano da 3 anni l’affidamento”. Un punto che le sta particolarmente a cuore è quello delle misure alternativa alla detenzione nel carcere, nelle comunità educanti... “A breve dovrebbero essere pubblicati i decreti attuativi della riforma Nordio che prevede questa tipologia di alternativa. È evidente che dovremo avere grande cura su come il sovraffollamento delle carceri possa essere gestito, ci vuole una figura terza che valuti caso per caso chi può andare in comunità. La nostra responsabilità è fare un passo in più in questa vicenda. Chi va in comunità ha un rischio di recidiva più basso di chi resta in carcere”. Napoli. Stop violenza nelle carceri, accordo Asl-Procura: “Detenuti più sicuri” di Melina Chiapparino Il Mattino, 26 febbraio 2025 Il diktat: individuiamo i casi sospetti prima che sia troppo tardi. Un protocollo anti-violenza per la sicurezza dei detenuti e dell’intero sistema detentivo che include, in prima linea, la polizia penitenziaria. È il punto di partenza dell’innovativa procedura destinata a stanare i casi di violenza nascosta tra le mura delle carceri con Napoli capofila del progetto avviato nei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano. L’iniziativa nata dall’intesa tra Asl Napoli 1 Centro, Procura della Repubblica, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e Provveditorato Regionale della Campania è stata presentata ieri con i primi risultati illustrati durante il convegno dedicato a “Gli eventi traumatici in carcere: accertamenti medico-legali e procedure di intervento”, nella sala Basaglia del Leonardo Bianchi. L’alleanza tra le diverse realtà coinvolte nel progetto ha dato vita a un protocollo operativo per individuare precocemente ogni caso sospetto di violenza tra detenuti per una gestione più trasparente e umana delle situazioni di vulnerabilità all’interno degli istituti penitenziari. Una misura che, a fronte delle numerose aggressioni e dei casi di suicidio registrati negli ultimi anni, si rivela cruciale dal momento che i traumi fisici e psichici possono essere sintomatici di episodi come risse, estorsioni, violenze sessuali. Il documento di intesa è, prima di tutto, sinonimo dell’unione e dell’alleanza necessaria “per squarciare il velo di accondiscendenza che troppo spesso cela le violenze della vita tra detenuti” come ha detto, ad apertura del convegno, il direttore generale dell’Asl napoletana, Ciro Verdoliva che ha fortemente voluto il documento condiviso con il Procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri e il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania, Lucia Castellano. Il protocollo stabilisce procedure precise a carico del personale sanitario nelle carceri e altrettante procedure a carico della polizia penitenziaria, per inviare in Procura ipotetici elementi di indagine su fatti violenti mascherati da incidenti casuali ed è questa precisione e rapidità che lo rende “garante” dell’intero sistema detentivo come ha spiegato il procuratore Gratteri sottolineando l’importanza di “tutelare i detenuti più deboli e succubi di violenze e aggressioni” e “dell’elemento investigativo” che, soprattutto con l’incalzare del fenomeno di detenzione abusiva di cellulari, assume sempre più rilevanza. La funzionalità del protocollo nel fornire in tempi serrati fotografie e relazioni affinché il pubblico ministero, nei casi più gravi, possa assumere immediatamente la direzione delle indagini è il tema su cui si sono espressi il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra e il procuratore aggiunto della Procura presso il Tribunale di Napoli, Simona Di Monte seguiti dall’intervento del direttore dell’Unità di Tutela della Salute negli istituti penitenziari, Lorenzo Acampora che ha ricordato l’importanza di potenziare la strumentazione e i servizi medici nelle carceri che a Napoli vantano un primato italiano: a Poggioreale dal 2021 è stato attivo il servizio di dialisi. Il protocollo anti-violenza agisce su due piani: un primo livello riservato ai medici che documentano e accertano i traumi, mentre un secondo livello è di competenza degli agenti che, in caso di lesioni, si attivano immediatamente. L’obiettivo centrale è quello di garantire una comunicazione chiara riguardo agli eventi lesivi che colpiscono i detenuti ma, nei fatti, questo protocollo consente anche di approfondire e indagare l’ampio spettro delle dinamiche della vita carceraria. Ad esempio, possono avvenire anche fenomeni di estremizzazione del bisogno sanitario come ha fatto notare la direttrice del carcere di Secondigliano, Giulia Russo o, ancora, problematiche nuove come l’introduzione abusiva di cellulari che, nel 2024, ha portato al sequestro di 210 telefonini come ha detto il direttore del carcere di Poggioreale, Stefano Martone. Dunque, l’esigenza di tutelare gli ultimi ma, allo stesso tempo, di proteggere il sistema detentivo anche da chi ne vuole abusare è centrale nel protocollo che è stato ben accolto anche da Francesco Maiorano, primo dirigente della polizia penitenziaria del carcere di Poggioreale e Pierluigi Rizzo, dirigente di polizia penitenziaria e comandante Nir Prap Campania. Pescara. “Intollerabile” la situazione nel carcere: gli avvocati penalisti scioperano per tre giorni ilpescara.it, 26 febbraio 2025 A deciderlo dopo i disordini del 17 marzo con apposta delibera, è stata la Camera penale presieduta dall’avvocato Massimo Galasso: dal 18 al 20 astensione da ogni attività e manifestazioni di sensibilizzazione: “Si istituisca un tavolo permanente”. “Astensione collettiva dalle udienze e da ogni attività giudiziaria” e allo stesso tempo in quei giorni e cioè dal 18 al 20 marzo, “manifestazioni adatte a sensibilizzare l’opinione pubblica, la politica e gli addetti ai lavori circa la gravità della situazione” che si registra nel carcere di Pescara. Questo quanto deciso dalla Camera penale presieduta dall’avvocato Massimo Galasso che fa così quadrato con l’Ordine che nei giorni scorsi per voce del presidente Federico Squartecchia ha annunciato lo stato di agitazione a seguito dei fatti del 17 febbraio quando nell’istituto penitenziario un detenuto si è suicidato. Fatto che ha scatenato una vera e propria rivolta tale da aver reso inagibile un’ala della struttura costringendo al trasferimento di 60 dei troppi detenuti che ospita. Il sovraffollamento, l’impossibilità di avere colloqui capaci di garantire la dignità della professione e degli stessi assistiti, hanno reso la situazione, si legge nella delibera della Camera penale, “non più tollerabile”. “Le condizioni del carcere sono ormai tali - si legge ancora - che non vengono rispettate le norme basilari circa le condizioni umane dei soggetti privati della libertà e non viene assunta nessuna attività di trattamento rieducativo costituzionalmente previsto né di cura dei soggetti portatori di patologie e dei tossicodipendenti”. Una situazione conseguente anche ai numeri che si registrano nell’istituto di pena dove, si ricorda, a fronte di una capienza per 276 detenuti il carcere di Pescara ne ospita circa 450. Nonostante le segnalazioni già fatte sulle varie problematiche, sottolinea quindi la Camera penale, e che sono comuni alla gran parte delle carceri italiane, nessun provvedimento è stato preso anzi, “le istituzioni e la politica sia territoriale che nazionale hanno ignorato la situazione drammatica”. Una decisione che muove dunque le mosse dalla situazione nazionale rispetto alla quale, si ricorda nel documento, “da diverso tempo l’avvocatura penalista italiana denuncia l’irrazionale moltiplicazione delle fattispecie di reato con il conseguente aggravamento delle pene in senso contrario al principio di uguaglianza e proporzionalità facendo gravare in maniera del tutto irragionevole sul sistema penale e sul sistema carcerario il destino dell’intero ordinamento”. Una situazione gravata tra l’altro, si rimarca, dalla mancata riforma dell’esecuzione penale tanto che oggi nel Paese si è giunti “alla cifra allarmante di quasi 61mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51mila unità” oltre che dall’elevato numero di suicidi con il 2024 che “ha raggiunto il record negativo di novanta e i primi dati del 2025 mostrano una continua ascesa”. “Appare oramai improcrastinabile - prosegue la Camera penale - un immediato intervento del governo e della politica tutta, al fine di arginare la strage in atto” che non risparmia dunque neanche la casa circondariale di Pescara. L’occasione anche per ricordare che il 24 aprile 2024 i rappresentanti della Camera avevano effettuato una visita insieme all’associazione “Nessuno tocchi Caino” rilevando già al tempo che la situazione era “allarmante seppur con un sovraffollamento inferiore attuale, ma pari al 145% della capienza regolamentare (401 detenuti per una capienza regolamentare di 276 unità)”. Uno scenario in cui “il dato preoccupa ancor di più e che in meno di 10 mesi vi è stato un aumento di 50 unità a fronte di un organico di polizia penitenziaria inferire di circa un terzo a quello previsto per la capienza regolamentare”. Tutto questo dunque insieme alle ragioni che hanno spinto l’Ordine a decretare lo stato di agitazione anche per le mancate risposte alla richiesta di avere almeno cinque stanze per i colloqui privati fatta alla casa circondariale e all’ufficio di Sorveglianza a novembre 2024, ha portato alla decisione della Camera penale. Un problema, quello degli spazi, per il quale si chiedeva tra l’altro il ripristino dei colloqui nella malattia del sabato e l’estensione alle ore pomeridiane dal lunedì al venerdì. Quindi la richiesta alla direzione del carcere perché si istituisca un tavolo permanente che tenga riunioni periodiche alla presenza della Camera penale stessa e dei rappresentanti delle istituzioni forensi, “al fine di discutere delle problematiche allo scopo di trovare - conclude la delibera” le soluzioni opportune e superare le criticità della struttura”. Siena. Presunte torture a Ranza, il procuratore generale chiede la conferma di 10 condanne di Laura Valdesi La Nazione, 26 febbraio 2025 Il giorno della verità sarà il 3 aprile per i quindici agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Ranza, a San Gimignano, condannati a vario titolo per lesioni e tortura. Per il comportamento che la procura - e i giudici nelle motivazioni - hanno definito “inumano e degradante” nei confronti di un detenuto tunisino di 31 anni, l’11 ottobre 2018. Il processo di appello sta vivendo infatti le battute finali. La discussione è già terminata per i cinque che avevano scelto il dibattimento, è iniziata ieri invece per i dieci condannati il 17 febbraio 2021. Sono trascorsi ben quattro anni da quando il gup Jacopo Rocchi lesse la decisione in aula a cui gli agenti reagirono con lacrime, rabbia, qualcuno si sentì male non credendo a ciò che aveva udito poco prima. Ai dieci che avevano scelto la strada del rito abbreviato per l’inchiesta che li coinvolgeva nel presunto pestaggio del detenuto quando nel corridoio largo due metri dell’istituto penitenziario si verificarono attimi concitati ripresi dalla videocamera di sorveglianza, furono comminate pene da un minimo di 2 anni e 3 mesi (per due) a 2 anni e 8 mesi di reclusione (per uno degli imputati) mentre a sette di loro erano stati inflitti 2 anni e 6 mesi appunto per tortura e lesioni aggravate sotto il vincolo della continuazione, concesse le attenuanti generiche. Ebbene, il procuratore generale Ettore Squillace Greco ha chiesto ieri a Firenze la conferma delle dieci condanne per gli agenti penitenziari, così come le parti civili. Hanno poi discusso gli avvocati Eriberto Rosso che assiste due imputati, l’avvocato Stefano Cipriani che difende un agente ed un altro legale di Caserta. La posizione degli altri sei, difesi dall’avvocato Manfredi Biotti, sarà discussa il 3 aprile quando arriverà appunto la maxi sentenza. Non solo per i dieci che avevano scelto il rito abbreviato ma anche per i cinque condannati al termine del dibattimento a Siena. Cagliari. Mancata attivazione del reparto protetto al S.S. Trinità: la denuncia del Garante di Carolina Mocci castedduonline.it, 26 febbraio 2025 A denunciarlo è Gianni Loy, Garante delle persone detenute per la Città Metropolitana di Cagliari, che ancora una volta richiama l’attenzione sulla persistente occupazione abusiva del reparto da parte della Asl di Cagliari. La struttura, realizzata oltre dieci anni fa con un ingente finanziamento regionale per garantire la sicurezza durante i ricoveri dei detenuti, non è mai stata utilizzata per la sua funzione originaria. Il recente episodio verificatosi presso l’Ospedale S.S. Trinità, in occasione del trasferimento di un detenuto per accertamenti sanitari, riaccende i riflettori su una questione annosa: la mancata attivazione del reparto ospedaliero protetto destinato ai detenuti. Al contrario, secondo le segnalazioni, il Direttore della ASL avrebbe deciso di adibire il reparto a deposito o laboratorio, in aperta violazione delle norme che impongono la presenza di tali strutture nelle città capoluogo di provincia: “Nell’apprendere del grave episodio verificatosi presso l’Ospedale S.S. Trinità, in occasione del trasferimento di un detenuto per essere sottoposto ad accertamenti sanitari, devo ancora una volta segnalare che perdura da parte della ASL Cagliari l’occupazione abusiva del Reparto ospedaliero protetto da destinare ai detenuti, realizzato oltre 10 anni fa presso l’Ospedale S.S. Trinità. Il Direttore della ASL Cagliari, continua ostinatamente ad adibire tale reparto a deposito o laboratorio - come denunciato, in occasione di quest’ultimo episodio, anche dal segretario regionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (SAPPE) - violando così, sfrontatamente, la Legge che impone la realizzazione di tali strutture in tutte le città capoluogo di province. La mancata apertura del Reparto, realizzata con caratteristiche tali da garantire il massimo livello di sicurezza, comporta rischi per le persone detenute. Non è infrequente - come avvenuto qualche anno or sono - che un detenuto possa suicidarsi lanciandosi da una finestra, posto che nei reparti normali le finestre non sono protette da sbarre. Né si può tacere sul fatto che la ricerca, volta per volta, di un reparto non attrezzato per la degenza di persone detenute, comporta un eccezionale dispendio di risorse umane degli agenti della polizia penitenziaria, che vengono distratti da altre attività di vigilanza, riducendo così la qualità dei servizi necessari per la vita quotidiana della Casa circondariale. Non è ammissibile, oltretutto, che mentre per chi viola la legge è prevista la pena della detenzione, quando a violarla, in maniera così clamorosa e arrogante, è il direttore di una Azienda pubblica, cioè un funzionario che dovrebbe aver come riferimento collettivo l’interesse generale e che, quantomeno, dovrebbe dare applicazione alle norme imperative di legge, gli viene consentito di continuare ad infliggere un danno alla collettività. Nei prossimi giorni, mi riservo di sollecitare tutte le autorità che hanno competenza in materia ad assumere concrete iniziative volte a far cessare l’illegittimità e chiedere l’immediata destinazione del Reparto - che peraltro già reca all’ingresso la targa di “Sezione medicina penitenziaria” alla sua funzione originaria. Si tratta di un Reparto voluto dal legislatore per la degenza, in sicurezza, delle persone detenute che necessitino di ricovero ospedaliero per la cui realizzazione la Regione Sardegna ha stanziato un ingente finanziamento, predisponendola secondo i criteri indicati dalla legge. In qualità di Garante delle persone detenute, ho più volte denunciato la grave violazione della legge e segnalato la violazione alla Procura della Repubblica di Cagliari. Ciononostante l’illegalità ancora persiste”. Ancona. Lo stabilimento balneare Bonetti assume 3 detenuti. “Lavoreranno in cucina” di Silvia Santini Il Resto del Carlino, 26 febbraio 2025 Paolo, proprietario dello stabilimento a Portonovo: “Non sono un benefattore. Ho aderito a ‘Seconda chance’ un progetto per il reinserimento sociale”. “Stanno scontando il fine pena. Uno è anconetano”. “Durante quegli incontri ho trovato tante persone grintose, con la voglia di riprovarci, di riscatto. Non sono un pioniere del progetto né un benefattore ma mi sono semplicemente detto perché no e così quest’estate tre detenuti lavoreranno da me”. Quando lo racconta Paolo Bonetti della rinomata e omonima spiaggia a Portonovo, quasi si commuove perché anche solo l’idea di dare una seconda opportunità a diverse persone che vivono momenti difficili della propria esistenza lo emoziona. Ad accompagnarlo ai colloqui alla casa circondariale di Montacuto, per completare la sua brigata di cucina per la stagione 2025, c’era Caterina Piermarocchi, coordinatrice regionale dell’associazione “Seconda chance” che aveva conosciuto Bonetti in occasione della giornata ecologica organizzata assieme a “Plastic free” quasi un anno fa ormai. In quell’occasione Bonetti aveva invitato a pranzo i volontari di Plastic e i detenuti, venuti in permesso proprio a ripulire la spiaggia. “La “scintilla” è scattata lì, la coordinatrice mi ha proposto l’idea e ho promesso che ci avrei pensato”. Ed è stato di parola. “Sono tre persone che stanno scontando il fine pena per reati minori - specifica -. Uno è di Ancona mentre gli altri due sono originari del Sud anche se, uno di loro, viveva a Senigallia. In carcere svolgono diverse attività in cucina, hanno già esperienza sia perché praticavano fuori da Montacuto sia perché all’interno partecipano da tempo ad attività formative in tal senso. Uno di loro in particolare, commosso, mi ha detto ‘Sono contento, mi fai uscire di qui per lavorare’. Sarà importante per loro, oltre che per noi ovviamente. Si confronteranno con una squadra e avranno una seconda chance (il nome dell’associazione dice già tutto) anche per poter trovare la motivazione. In un momento storico in cui pare che il lavoro sia percepito solo come sacrificio, in realtà io penso e sostengo che sia altamente formativo, un motivo per mettersi in discussione con tutto”. Il progetto unisce i cuori e le menti di tanti, privati e associazioni che portano avanti ogni giorno attività concrete per migliorare la società. “È un cerchio che si chiude grazie alla professionalità e lungimiranza di Piermarocchi e Bonetti - dice Leonardo Puliti, referente regionale Plastic Free Marche e Umbria -. La passeggiata ecologica organizzata lo scorso anno a Portonovo continua a dare i suoi frutti. Il grazie va anche alla direttrice Manuela Ceresani”. Nonostante il freddo che ancora imperversa, Bonetti è nel pieno del lavoro e sta già preparando l’intera estate 2025: “Stiamo avendo già una bella risposta, abbiamo quasi completato lo staff. Il 5 aprile si apre e non vediamo l’ora”. Caltagirone (Ct). La preside e gli studenti detenuti: “Poter leggere ci rende liberi” di Marta Occhipinti La Repubblica, 26 febbraio 2025 La preside e gli studenti detenuti, lezione nel carcere di Caltagirone: “Potere leggere ci rende liberi”. È il progetto “Liberi di leggere” che propone una serie di incontri fra scrittori e persone ristrette nell’istituto penitenziario. Il teatro del plesso centrale della casa circondariale Noce di Caltagirone è una sala con un grande palco. Eppure le sue pareti lo rendono infinitamente piccolo per contenere il mondo sognato da Federico, studente detenuto della classe carceraria dell’istituto “Cucuzza-Euclide”, marito e padre di un bambino di 4 anni. “Quando ci chiudono qui dentro i veri prigionieri diventano i nostri familiari. Studiare è il mio esercizio di libertà per essere migliore”, dice davanti ad alcuni sui compagni seduti in platea ad ascoltarlo mentre intervista la preside del quartiere Sperone-Brancaccio di Palermo, Antonella Di Bartolo, ospite del quinto incontro tra scrittori e studenti-ristretti per il progetto “Liberi di leggere”. “Vuota è la vita che si nutre solo di realtà”, ricorda agli studenti la preside Di Bartolo citando la chiosa del suo libro “Domani c’è scuola”. Da dicembre gli studenti ristretti hanno letto e commentato il libro della dirigente per riflettere su temi come il cambiamento, la stima in se stessi e la separazione dai familiari. La storia di Gabriel, bambino dello Sperone che a soli tredici anni iniziò a sniffare benzina dopo l’arresto del padre, ha colpito tanti detenuti. Come Enrico, una pena pluriennale da scontare e un figlio, lasciato all’età di 2 anni, che è riuscito a riconquistare facendo una colletta coi compagni per una playstation con cui videochiamarsi nei momenti di colloquio. “Ho causato sofferenza nella vita di mio figlio, ne sono consapevole - racconta - Ma ho fatto di tutto per sentirlo, per vederlo accanto a me. Anche se a distanza”. Leggere, riflettere, riscoprire le proprie emozioni. A questo mira il progetto “Liberi di leggere” nella classe carceraria dell’istituto Noce, prima in Italia ad avere aderito al progetto nazionale “Libriamoci”. Il carcere di Caltagirone ha ospitato per la terza volta in presenza un incontro con l’autore, grazie alla rete di collaborazione tra scuola, carcere e la libreria Dovilio di Daniela Alparone. “La sfida di quest’anno è stata parlare di mafia e criminalità all’interno del carcere proprio con coloro che spesso colludono con certi modelli - dice Mariella Scarso, referente per la scuola “Cucuzza-Euclide” per la sezione carceraria - È stata un’esperienza educativa e unica per il contesto in cui si è svolta”. Nella sala teatrale ad ascoltare la preside Di Bartolo, c’erano anche alcuni studenti dell’istituto professionale “Cucuzza-Euclide”. “Il progetto di lettura e ragionamento condivisi contribuiscono ad arricchire l’offerta formativa della nostra scuola - dice Paola Affettuoso, docente di Lettere dell’istituto e promotrice dell’iniziativa - Il grande potere della lettura è quello di tirare fuori le emozioni. Lettura e scrittura poi creano solidarietà: quando leggi scopri che non sei solo, che appartieni a qualcosa. Così è stato per i nostri studenti ristretti che hanno messo in pratica il vero aspetto rieducativo del carcere: quello che possa instillare in loro pensiero critico e capacità di scelta”. Coi sui 430 detenuti, di cui oltre il 50 per cento iscritti in istituti secondari di primo e secondo grado, il carcere Noce di Caltagirone rappresenta una piccola eccellenza quanto a pratiche educative e di formazione. Oltre al diploma, gli studenti hanno possibilità di completare studi in discipline alberghiere, agrarie, professionali e artistiche. “Durante il Covid, in una sola notte abbiamo rivoluzionato, grazie alla rete di cablaggio dell’istituto, l’attività degli studenti garantendo sempre il diritto allo studio - dice Giorgia Gruttadauria, direttore della casa circondariale Noce di Caltagirone e dell’Icat di Giarre - Non riesco a immaginare altro modello rieducativo in carcere se non partire dall’istruzione. Gli spazi per studiare e per attività culturali si trovano sempre, si devono trovare. È una delle nostre missioni”. Gli studenti-detenuti hanno regalato alla preside Di Bartolo un cuore con le ali realizzato con cartone e pezzi di tessuto usato. Dentro, un biglietto con scritto: “Grazie, donna coraggiosa”. Napoli. Al Pup Federico II il primo detenuto laureato in Scienze Gastronomiche Mediterranee di Mirko Labriola Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2025 È uno dei corsi più seguiti dagli studenti. Gli iscritti sono 23 e 9 sono già prossimi alla laurea. “Dare un senso al tempo della detenzione attraverso lo studio universitario significa restituire un valore a vite difficili”. Nella palestra dell’Alta sicurezza dell’Istituto Penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano (Napoli) ha conseguito il titolo il primo laureato in Scienze Gastronomiche Mediterranee - SGM del Polo universitario Penitenziario della Federico II -PUP, con una tesi sull’effetto della trasformazione sulla qualità nutrizionale del pomodoro. Relatrice è stata la professoressa Maria Manuela Rigano, nella commissione c’erano i professori Danilo Ercolini, Raffaele Sacchi, Amalia Barone e Nadia Lombardi. È la prima laurea del PUP del 2025. In sala erano presenti anche Maria Rosaria Santangelo, Delegata del Rettore al PUP e direttrice del Dipartimento di Architettura, Giulia Russo, direttrice dell’Istituto Mandato, Roberta Paradiso e Giuseppe de Rosa, docente del Dipartimento di Agraria, e Mariano Stornaiuolo, docente del Dipartimento di Farmacia. Il primo laureato PUP del 2025 è in Scienze Gastronomiche Mediterranee, uno dei corsi più seguiti dagli studenti dell’Istituto Penitenziario, laurea triennale del Dipartimento di Agraria che dà concrete prospettive per il futuro in un campo con grandi potenzialità. Attivato nel secondo anno accademico del Polo, il 2019-2020, sin dall’inizio ha avuto un riscontro molto significativo nelle scelte degli studenti detenuti. Il corso SGM-PUP permette di acquisire conoscenze e metodi che caratterizzano tutta la filiera eno-gastronomica. Gli studenti, oltre a seguire lezioni e seminari, partecipano attivamente ad un intenso Laboratorio di Gastronomia, tenuto da chef ed esperti del settore. Grazie alle competenze acquisite, alcuni studenti del corso SGM-PUP hanno già ricevuto offerte di lavoro nel settore gastronomico. “Un altro studente ha raggiunto l’obiettivo più ambito, il conseguimento della laurea. Per i docenti, circa 80 a semestre, che insegnano in carcere ogni laurea ha un valore speciale - spiega la professoressa Santangelo -. Al PUP lo studio, così come l’insegnamento, è più faticoso e complesso, eppure ogni passo è un obiettivo raggiunto che avvicina gli studenti detenuti alla libertà, alla riconquista della dignità e dei diritti che mai a nessuno, donna o uomo, andrebbero negati. Dare un senso al tempo della detenzione attraverso lo studio universitario significa restituire un valore a vite difficili e permettere a persone temporaneamente prive di libertà di immaginare di nuovo il proprio futuro”. “Siamo molto contenti di aver conferito la prima laurea in Scienze gastronomiche del Polo Universitario Penitenziario Federico II. Il nostro corso di laurea è tra i più scelti da parte degli studenti del PUP, probabilmente grazie alle attività pratiche che si possono svolgere e alle prospettive lavorative che il percorso di studi offre - sottolinea il professor Ercolini -. Penso che indipendentemente dal momento particolare di vita che si sta vivendo, bisogna sempre avere degli obiettivi. E l’obiettivo per i nostri studenti è quello di arricchire le proprie conoscenze e le proprie competenze e di impiegare bene il tempo che devono trascorrere nell’istituto. Lo studio, oltre ad essere un arricchimento culturale, offre loro maggiori possibilità di reintegrazione sociale nel momento in cui riacquisteranno la libertà. Alcuni iscritti al SGM che hanno terminato il tempo della pena hanno scelto di continuare a studiare al Dipartimento di Agraria, ciò testimonia che la didattica del PUP ha lasciato un segno importante e consente di creare delle opportunità concrete”. Attualmente al PUP sono iscritti 86 studenti, di cui 3 donne. A Secondigliano sono 83 divisi in due sezioni, la sezione Ionio di alta sicurezza, la sezione Mediterraneo di media sicurezza. Gli iscritti al corso in Scienze Gastronomiche Mediterranee sono 23, nove dei quali sono prossimi alla laurea, gli altri studenti sono iscritti agli altri nove corsi di laurea che compongono l’offerta formativa del Polo Universitario Penitenziario. Gli studenti hanno tra i 30 e 67 anni. I corsi di studio dell’offerta formativa del Polo Penitenziario Universitario Federico II sono: Scienze Politiche, del Dipartimento di Scienze Politiche, Scienze dei Servizi Giuridici, del Dipartimento di Giurisprudenza, Sviluppo Sostenibile e Reti Territoriali, del Dipartimento di Architettura, Scienze Erboristiche, del Dipartimento di Farmacia, Sociologia, del Dipartimento di Scienze Sociali, Economia Aziendale, del Dipartimento di Economia, Management, Istituzioni, Lettere Moderne, del Dipartimento di Studi Umanistici, Scienze Gastronomiche Mediterranee, del Dipartimento di Agraria, Ingegneria Meccatronica, del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione, e Scienze della Nutrizione Umana, del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia. Il Polo Universitario Penitenziario Federico II, istituito nell’anno accademico 2018-2019, ha spazi dedicati sia in alta che in media sicurezza, nei quali gli studenti hanno un regime detentivo particolare, con camere di pernottamento, stanze destinate alla didattica, allo studio, all’incontro con tutor e docenti, con delle differenze nella possibilità di movimento tra regime di alta e di media sicurezza. Nell’ambito delle attività del PUP è stata firmata una convenzione con ASL Napoli 1 per consentire agli studenti di Scienze erboristiche di svolgere il tirocinio nella Farmacia dell’istituto. “Libri Liberi”, nelle carceri parlano i classici ansa.it, 26 febbraio 2025 Rassegna al via il 6 marzo da Rebibbia con Albinati e Fresi. La lettura per aprire idealmente le porte ed esplorare mondi immaginari ma anche per indagare le profondità della condizione umana, nella felicità così come nella sofferenza: debutterà il 6 marzo a Rebibbia la rassegna “Libri Liberi”, nata con l’obiettivo di raccontare i grandi classici nelle carceri italiane e promuovere il dialogo con le persone detenute. Promossa dalla Fondazione De Sanctis con il patrocinio del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - e in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura, l’iniziativa vedrà il coinvolgimento di scrittori ed attori. A Roma, nella prima delle 12 tappe della rassegna che si chiuderà il prossimo 21 dicembre, protagonisti saranno Edoardo Albinati e Stefano Fresi, che leggeranno e racconteranno ai detenuti L’Odissea. Presente all’incontro anche Teresa Mascolo, dirigente penitenziario e direttore della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Dopo Roma, la rassegna approderà il 12 marzo nel carcere di Secondigliano, con Maurizio De Giovanni e Fabrizio Bentivoglio impegnati nella lettura di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. E poi ancora l’iniziativa viaggerà per l’Italia ancora nei prossimi mesi, toccando anche Milano, Firenze, Venezia, Bari, sempre con grandi personaggi (tra gli altri Aurelio Picca con Sergio Rubini, Rosella Postorino con Francesco Montanari, Giulia Caminito con Claudia Gerini, Igiaba Scego con Anna Bonaiuto, Donatella Di Pietrantonio con Lino Guanciale) e intramontabili classici (da Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo a L’isola di Arturo di Elsa Morante, da Poesia in forma di rosa di Pierpaolo Pasolini a I 49 racconti di Ernest Hemingway). Armando Punzo, la mente è un’esplosione di gioia di Maria Nadotti doppiozero.com, 26 febbraio 2025 Sono giorni di fuoco, mi scrive Armando Punzo, fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza di Volterra. È stato appena annunciato che il Presidente Mattarella gli ha conferito una delle trentuno “onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a cittadine e cittadini che si sono distinti per attività volte a favorire il dialogo tra i popoli, contrastare la violenza di genere, per un’imprenditoria etica, per un impegno attivo anche in presenza di disabilità, per l’aiuto alle persone detenute in carcere, per la solidarietà, per la scelta di una vita nel volontariato, per attività in favore dell’inclusione sociale, del diritto alla salute e per atti di eroismo” (sarà insignito del titolo oggi, 26 febbraio). Il merito riconosciutogli è di “aver messo a disposizione delle persone detenute la sua esperienza di regista e attore di teatro” e di realizzare “attraverso il progetto ‘Per Aspera ad Astra’ percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro per i detenuti nelle carceri italiane”. Che il fuoco abbia a che vedere con gli impegni che si accompagnano ai riconoscimenti ufficiali mi pare altamente improbabile, comunque la nostra conversazione via zoom comincia da lì. Voglio capire cos’è che lo fa bruciare e che peso attribuisce a quella benemerenza, che accredita un lavoro iniziato nell’agosto del 1988 e che nel 2023 gli è valso il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Teatro di Venezia. AP: Quando si riceve un riconoscimento o un premio, il primo pensiero è “ci serve”. Serve a me, ma serve soprattutto a un’idea più grande di noi: non è vero, allora, che le cose non arrivano. Si continua a dire che nessuno vede, nessuno capisce, che tutto è inutile e, alla fine, anche questo diventa retorico. Le onorificenze e i premi dimostrano che se lavori e insisti in profondità, le cose vengono viste. Il riconoscimento mi serve, serve al teatro, più di tutto serve alle voci fuori dal coro, significa che rimanere tali e perseverare nella propria ricerca non è inutile e non passa inosservato. MN: Una bella presa di distanza dall’atteggiamento lamentoso e arrogante di chi si sente incompreso, non sufficientemente apprezzato e remunerato. Cos’è dunque che brucia davvero? AP: È la svolta che sta avvenendo nel lavoro con la compagnia, come se stessi affrontando una nuova fase del mio agire teatrale con gli altri. È come se stessi ritornando alle origini per mettere meglio a fuoco in che modo andare avanti. Ed è faticoso, per me e per il progetto Atlantis, avviato nel 2015 con una ricerca su uno dei massimi rappresentanti del canone occidentale, William Shakespeare, approdato successivamente alla poetica di Jorge Luis Borges, e da lì, dieci anni dopo, giunto al “capitolo 2”. MN: Il “capitolo 2” di Atlantis, andato in scena nell’estate del 2024 alla Fortezza Medicea di Volterra, è una tessitura di voci interroganti - “infanti”, come dici tu - sull’immenso non sapere che ci fa umani e da cui nascono le scienze, la filosofia, le religioni, ogni nostro tentativo di spiegarci non tanto chi siamo, ma che cosa ci facciamo qui, insieme, su questo pianeta minuscolo perso nella vastità dell’universo. In che cosa consiste la svolta di cui parli e come si manifesta? Attraverso quali indizi, desideri, incubi, rivelazioni si annuncia? AP: È come se quelli che prima erano solo dei pensieri esigessero oggi un corpo d’attore, una voce, una presenza solida. Quando lavoravo su Shakespeare c’erano ancora dei personaggi, Otello, Ofelia, personaggi straordinari, ma frammentati, quasi dei resti. Sarebbero dovuti sparire. Erano fantasmi, non ci sarebbero dovuti essere mai più. Perciò ho cominciato a lavorare parallelamente su Borges e le figure sono diventate sempre più bidimensionali. Non erano più personaggi, parlavano ancora, ma poco. Fino ad arrivare a Naturae, dove né io né nessuno parla. C’è solo la voce fuori campo. Con gli attori siamo arrivati a un punto zero, molto belli, molto efficaci, ma quasi teatro danza, arte contemporanea, installazione. Non c’era più nulla del teatro come lo si intende. Passando da Naturae ad Atlantis, avevo bisogno di riavere degli attori, delle figure capaci di avere una presenza fisica, che parlassero, che ritornassero al testo. Insomma, sto tornando indietro per andare avanti. La svolta è un ritorno al lavoro sull’attore ed è andata a popolare i miei incubi. MN: Il terzo capitolo di Atlantis sarà sbilanciato in direzione di una figura che in Occidente è stata schiacciata alla visione pedagogico-disneyana con cui siamo cresciuti: Cenerentola. AP: Già l’anno scorso questa figura aveva cominciato ad apparire. Avevamo scoperto che esiste con variazioni minime in tutte le culture del mondo, dall’India alla Russia all’America alla Cina, che il suo è un testo-mito. E che cosa racconta precisamente quel mito? Che Cenerentola, colei che bada alla cenere stando accanto al focolare, d’un tratto può trovarsi da un’altra parte, in un luogo cui non dovrebbe e non potrebbe aspirare. Io invece Cenerentola l’ho letta come colei/colui che non sta lì. Se la matrigna e le sorellastre sono pronte a farsi del male, ad amputarsi, pur di approdare al palazzo del principe, Cenerentola arriva in un’altra vita senza nessuno sforzo, sembra predestinata a una sorta di trasformazione. Il suo non è un passaggio di status, ma la trasformazione in sé. Io mi sento Cenerentola, la compagnia la penso come Cenerentola, i personaggi che stiamo scomodando - da Nikola Tesla ad Albert Einstein, i filosofi, gli scienziati, tutti i ricercatori che non hanno mai perso lo sguardo infante, che ancora si interrogano sulla vita - sono Cenerentola. Pensa la meraviglia del quattordicenne Einstein che si chiede: “Che cosa accadrebbe se fossi seduto su un raggio di luce?” Cenerentola è la figura dell’eretico, di colui che in quanto tale non dovrebbe stare lì. Nel terzo capitolo di Atlantis guarderemo dal suo punto di vista e sarà uno sguardo di sorpresa, di stupore, capace di re-incantare il mondo e di contrapporsi allo sguardo negativo, distopico cui l’umanità sembra condannata. MN: Le apparizioni, come tu le chiami, sono fenomeni inspiegabili, che eludono il raziocinio e sfuggono alla logica temporale, come se qualcosa si insinuasse in te prima che tu ne sia consapevole, fino a manifestarsi limpidamente e imporsi come presenza cruciale. AP: Era già successo con il Bianconiglio che cito in Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione, nel 2007. A poco a poco, misteriosamente, quella figura mi condurrà ad Alice nel paese delle meraviglie e, nel 2010, alla creazione di Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà. E lì, ormai quindici anni fa, mi ritrovo a canterellare “Cinderella, Cinderella”. Senza saperlo, ce l’ho in mente da sempre, come se mi associassi a lei. Anch’io mi sento un parvenu, per la mia storia, la mia famiglia, la mia origine, come se non dovessi essere quello che sono. Ero destinato ad altro, come la Compagnia, che è fatta di persone che non dovrebbero fare quello che fanno, così come quella stanza in quel posto non dovrebbe esistere. Il teatro in quel posto non dovrebbe esistere. Sono cose per altri. Altri dovrebbero arrivare lì. Sta di fatto invece che siamo noi a farlo. Anche la Fenice rinasce dalle proprie ceneri. Voglio essere Cenerentola. Lo pensavo dal primo anno, successivamente è apparsa in forma di lavoro sulla cenere come materia concreta. Quest’anno ero in dubbio, poi c’è stato uno scatto e oggi la nostra Cenerentola ha assunto un corpo e una voce. MN: Come avvengono le apparizioni? Prevale il caso o c’è un lavoro che potremmo definire preparatorio? E, comunque, il caso va riconosciuto e accolto. AP: Io lavoro con tutte le persone che ho intorno. Difficilmente se ne stanno lì a guardare. Chiedo a tutti di entrare, creo una situazione in cui le persone si ritrovano dentro al lavoro. Non perché non voglio che osservino, ma perché mi fa piacere. Voglio scoprire che cosa hanno dentro, se possono portare qualcosa. MN: Nel “capitolo 2” di Atlantis ci viene detto che “Cenerentola ha in sé tutte le possibilità: uomo, donna, pianta, animale. È sé stessa e allo stesso tempo oltre sé stessa. È acqua, terra, fuoco, aria”. Non si tratta di metamorfosi, ma di moltiplicazione o convivenza di possibili stati. La tua Cenerentola, che allora era solo un luogo mentale, sembra rappresentare quelli che altrove hai definito i “buchi nella realtà”, che non è mai compatta, uniforme, inalterabile. Il tuo teatro rivela quei buchi, li svela, li espone, invita ad attraversarli, a sottrarsi all’ossessione monodimensionale del discorso contemporaneo. AP: C’è un’altra fiaba che mi ha formato: Il brutto anatroccolo. Anche lì, c’è un ‘diverso’ che sembra non fare parte del mondo in cui è nato. Poi si scopre che ha potenzialità incredibili, non perché finirà per diventare un magnifico cigno, ma perché come Cenerentola ha intorno un mondo non-umano che lo sostiene, animali, uccellini, la natura intera e perché vuole partecipare alla vita, entrare nella vita. MN: Al tempo immobile e terminale della narrazione che prevale oggi nel mondo - una narrazione mortifera, senza alternativa e senza vie d’uscita - si può reagire con una resa. Impotenti, depressi, sconfortati, impauriti e soli, sempre più soli, tendiamo a credere che non ci sia davvero più niente da fare, che tutte le nostre azioni cadano nel vuoto. Tu e la tua compagnia dimostrate che non è così AP: E in questo senso possiamo essere usati come esempio del contrario, come io mi sono servito della lezione di Grotowski e degli incontri che ho fatto. Ernst Bloch parla di principio di realtà, e lo contrappone al “principio speranza”, ed è proprio al principio speranza che io ricorro per chiedermi come facciamo, noi umani, a raggiungere una vita piena, senza avere migliaia di filtri, blocchi, giustificazioni, paure, condizionamenti che impediscono di arrivarci. Dell’esempio del carcere di Volterra c’è bisogno, come io ho bisogno di leggere la frase di Einstein quattordicenne, perché oggi arrivano solo discorsi di paura, distruzione, morte, impossibilità. Lo cito perché mi preoccupa immensamente che si dia per scontato il mondo così com’è. MN: Perché i discorsi di speranza stentano ad arrivare, mentre quelli che chiudono l’orizzonte sono così persuasivi? AP: Io non credo nei complotti. Credo che per la natura umana sia più semplice essere distopici, conservatori. Siamo così. Non a caso c’è stato bisogno di avere la danza, che ha portato a deformare il corpo per scoprire la leggerezza. Siamo pesanti. Anche le pratiche religiose, che non mi interessano particolarmente, capisco bene che sono parte del medesimo tentativo. Abbiamo bisogno di cercare altro, dentro e fuori di noi. MN: Nelle tue note di regia leggo: “La prigione reale, nella sua poetica, resta metafora di una prigione più grande dove tutti siamo rinchiusi e della quale possiamo liberarci: Il mondo urla la sua presenza agonizzante fuori da queste mura”. Non c’è dubbio che la narrazione che produce il clima di terrore in cui siamo immersi ci abbia anche isolati. Il teatro, che è un convenire di corpi attorno a un progetto comune in uno spazio e in un tempo condivisi, resta un antidoto formidabile, che dà energia e speranza. E la tua è una comunità ancor prima che una compagnia teatrale... AP: È nel dna del teatro. Io volevo essere pittore, poi scultore, ho cominciato così. Poi mi sono accorto che avevo bisogno di stare con gli altri, di discutere, litigare, essere stupefatto dall’accadere miracoloso di qualcosa di non ordinario e tuttavia perfettamente riconoscibile. Oggi, per esempio, è accaduto attraverso il medium di un attore, Paul Andrei Cocian, con il quale stiamo lavorando a un monologo tratto da Fame, un romanzo del norvegese Knut Hamsun (pubblicato nel 1890, in Italia vede la luce nel 1921, un anno dopo l’attribuzione del premio Nobel per la letteratura al suo autore, NdC). Paul, che ha finito di scontare la sua pena a fine novembre dell’anno scorso, adesso lavora agli scavi dell’anfiteatro romano di Volterra, ma tutti i giorni alle 17.30, finito il lavoro, e il fine settimana, rientra in carcere per lavorare con noi. È una scommessa, non sai mai come andrà a finire. Fu così con Aniello Arena. Oggi, dicevo, all’improvviso è accaduto il teatro: c’era quella vita, c’era il gruppo, c’era Andreino Salvadori, il nostro compositore e disegnatore del suono, che ha trovato le note nuove. Io ho bisogno di quella comunità. Mi guardo intorno ed è presente. Tutti riconoscono quello che sta accadendo ed è un miracolo, perché ci fa vedere che c’è qualcosa d’altro che ci può unire. È questo il teatro. Io lavoro per arrivare a questo. MN: Che fame è quella che ti ha indotto a lavorare sul testo di Hamsun? AP: È una fame spirituale, non materiale. È la fame che hanno Cenerentola, i personaggi di Atlantis, Einstein…, una fame di conoscenza, di alterità, di altro. Il romanzo di Hamsun lo avevo scelto per me, in segreto, rispetto alla mia fame. Mi avrebbe aiutato con il mio personaggio in scena, alimentando la mia fame di stare in scena. E invece l’ho proposto a Paul, forse come costola di Cenerentola, di certo come monologo tutto suo. Sento che c’è bisogno di questo, di far capire che c’è un’ordinarietà che ci uccide. Si tratta di una fame molto concreta. MN: Nel carcere di Volterra ti trovi a lavorare solo con uomini, con corpi e voci maschili. L’elemento femminile entrerà, a poco a poco, da fuori. Che cosa ha comportato questo fatto? AP: Mi obblighi a pensarci bene a questa cosa. Quando sono entrato in carcere non mi ero posto il problema. Trovandomi di fronte a una compagnia di tutti maschi, ho pensato, come nel teatro tradizionale, che quel limite poteva trasformarsi in possibilità, in opportunità. Si trattava di utilizzare al meglio la costrizione impostami dalla realtà. Però i corpi maschili davanti ai quali mi trovo - nonostante Grotowski e il momento effimero del teatro danza - non corrispondono affatto all’idea di attore che ho in mente: uno che si sveglia tardi, che mette su pancia, si adagia. Lo so, è una lettura retorica, ma sta di fatto che io pensavo questo. E invece mi trovo davanti a corpi atletici, allenati, muscolosi e mi piaceva molto l’idea di avere degli attori che avessero anche questa grande energia. A questo mettevo gli occhi, alla loro espressività, che non era un’espressività nel coro, non era educata, di quelle che vedi a teatro, di quelle che vedi normalmente tra gli attori che parlano italiano. Qui i miei attori erano portatori di dialetti, di suoni, di vocali che normalmente non senti. E io ho trovato tutto questo straordinario. Ovviamente ho chiesto loro di fare anche le parti femminili, poi a poco a poco, nel corso degli anni, si sono annunciate in modo naturale anche delle presenze femminili: attrici che venivano a studiare e che sono rimaste. MN: Torniamo alla svolta di cui parlavi poc’anzi: il ritorno al lavoro sull’attore. Proprio la notte scorsa, mi dicevi, hai fatto due sogni d’angoscia, due incubi, che però ti hanno illuminato la strada, tanto da volerli raccontare alla tua compagnia. Li racconti anche a noi? AP: Camminavo per strada, pioveva, acqua scorreva per terra, rigagnoli d’acqua creata dalla pioggia. Camminavo e piangevo. Pensavo di non essere capace di avere due ritmi interni contemporaneamente, l’associavo al dialogo, non ero in grado di fare un dialogo. Non ero capace di fare un teatro con dialoghi. Piangevo disperato e canticchiavo la nona di Beethoven tra me e me, in modo insistente, furioso, come canticchiano i direttori d’orchestra i motivetti all’orchestra quando sembra che non capiscano cosa voglia, quando continuano a sbagliare. Ero alla prima di un mio spettacolo, era mattino, debuttavamo la sera. Scopro lentamente che non conosco gli attori, sono tutti attori importanti, ma non li ho mai conosciuti. Sul palcoscenico si fanno lavori di pulizia, ci sono due enormi tavoli, guardandoli mi chiedo dove li avranno presi. Una impresa di pulizia sta trafficando sul palcoscenico. Un attore seduto in un angolo, come in una buca da suggeritore, lo conosco di fama. Sono i miei attori, ma non li ho mai incontrati. Scopro che l’attore protagonista non conosce la sua parte, non l’ha studiata, si giustifica, non sapeva, non ci eravamo mai incontrati. La situazione mi angoscia da morire, penso che abbiamo la prima e nessuno di noi sa cosa fare, penso a delle scappatoie, ma nessuna sarebbe efficace, andremo incontro ad un disastro. Vado a prendere dell’acqua e mi dico che così imparo, non so spiegarmi come sono arrivato lì senza essere preparato e che mi servirà da lezione. L’attore protagonista, come gli altri, sembrano tutti attori stile inizio secolo, caratterizzati fisicamente, sono attori e si vede che sono attori. L’attore seduto che sembrava studiare la sua parte ad un certo punto lo vedo innervosirsi con quelli dell’impresa di pulizia, gli dice qualcosa tipo: lo spazio lo gestisco io, per contratto non voglio nessuno sul palcoscenico, e mostra il suo contratto a quelli che non gli credono. Li caccio via. Lasciano una macchina per pulire i pavimenti e lui la prende in malo modo e gliela getta verso l’uscita. Poi prende una pala, e come recitando, butta fuori il fango che c’era in quella parte di palcoscenico vicino all’uscita laterale. Parla e fa dei movimenti fisici studiati, da grande attore, si vede che ha una tecnica che padroneggia benissimo. Mi chiedo se mi interessa quel modo di essere o una naturalezza che sembra più vera, dove non si vede la tecnica. Un altro attore, vicino a un’attrice alta con vestito nero ottocentesco, un po’ in difficoltà, ferma vicino a una porta, commenta il comportamento dell’attore che si era innervosito chiedendosi se fosse scemo, gli rispondo che forse scemo è lui, era uno degli attori più importanti di Wajda. Mi sono svegliato mentre mi chiedevo quale tipo di attore volevo. Carcere, il suono delle anime di Isabella de Silvestro theitalianreview.com, 26 febbraio 2025 Franco Mussida è chitarrista, compositore e membro fondatore della Premiata Forneria Marconi, il gruppo musicale simbolo del rock progressive anni 70. Nel corso della sua carriera ha collaborato con i più grandi nomi del cantautorato italiano, ha vinto premi, scalato le classifiche oltremanica e oltreoceano. Ma la sua carriera non è solo quella di un virtuoso della musica, è anche quella di un uomo che ne ha fatto una pratica di comunità, un mezzo per creare reti di sostegno e vie di conoscenza. Mussida si impegna da decenni per l’applicazione della musica in ambito sociale, dalle carceri alle comunità di recupero per tossicodipendenti. Nel 2013 dà vita al progetto Co2, che ha visto la creazione di audioteche in undici carceri italiane con il fine di educare all’ascolto e dare sollievo. L’iniziativa più recente, unica in Europa, è la sonorizzazione di ampi spazi del carcere di San Vittore a Milano, con musica strumentale selezionata dai detenuti nella cornice del laboratorio “Ascolto emotivo consapevole”, condotto da Mussida stesso. Mi accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di Cpm-Music Institute, la scuola di alta formazione musicale che ha fondato e dirige dal 1984. Ha bianchi capelli lunghi e una rara serenità nei gesti e nel tono della voce. Nonostante la porta chiusa, gli esercizi di pianoforte di qualche alunno penetrano le pareti, facendo da sfondo al nostro incontro. Isabella De Silvestro: Da dove viene il suo interesse per il carcere? Franco Mussida: Non fu direttamente il carcere a interessarmi. Accadde che molti dei tecnici della Premiata Forneria Marconi iniziassero ad avere problemi di dipendenza dall’eroina. Li vedevo soffrire molto, così insieme a mia moglie decidemmo di provare a dare una mano accogliendoli in casa. È stato questo il primo approccio alla marginalità. Il carcere è arrivato dopo, nell’87, quando il professor Garavaglia, il responsabile del gruppo di psicoterapia del carcere di San Vittore, nel prendere atto che la sua équipe non funzionava più chiese alla Provincia di mandare delle attività artistiche. Il mio socio dell’epoca era in contatto con la Provincia e mi chiese se me la sentivo. Da lì è partita la mia ricerca, trentacinque anni di onorato servizio. Non mi sono mai fermato. È stato l’interesse per la persona a portarmi fra quelle mura. I.D.S. Il carcere è un luogo dove ancora si espia una pena corporale: la sensorialità è ridotta, gli stimoli sono scarsi e ripetitivi. Che significato assume, in un contesto del genere, l’introduzione della musica? F.M. Dopo trentacinque anni di lavoro in carcere sono riuscito, in seguito a innumerevoli sforzi non solitari - queste cose sono sempre il frutto di relazioni - a fare in modo che i corridoi di San Vittore abbiano un impianto dedicato esclusivamente alla sonorizzazione: ho lavorato con i detenuti per creare playlist di sola musica strumentale che risuonano nei corridoi della galera. È vero che sembrerebbe che la dimensione degli stimoli in carcere sia compressa, in realtà si tratta di una compressione da eccesso di stimoli. La compressione arriva dall’incapacità delle persone detenute di gestire il dolore pregresso, il dolore presente e l’immaginario nero del futuro che hanno davanti. Quindi il tema non è quello di arrivare a dare ulteriori stimoli, perché ne hanno già abbastanza, anche di fortemente negativi. Tutti, anche gli agenti di custodia. Il tema è piuttosto usare la musica come stabilizzatore dell’umore, agendo sulla nostra comune struttura emotiva. I.D.S. Che cosa significa “agire sulla nostra comune struttura emotiva?” F.M. Ci sono dei medicamenti naturali, e artificiali, che agiscono sul fisico e che hanno dei risultati anche sulla psiche. Dobbiamo immaginare la musica come una sostanza. Non parlo di musicoterapia perché già il tema mi fa rizzare i peli, dal momento che non c’è una fisiologia musicale conclamata, e non essendoci si fa fatica a immaginare di operare fisicamente con la musica. Io mi tiro indietro e osservo. Che cosa osservo? Che la nostalgia di un giapponese non è diversa da quella di un napoletano, di un milanese, di un cileno o di un nigeriano. È la stessa cosa. Tutto il mondo del sentire è un archetipo. Il mio lavoro sul codice musicale è duplice: da un lato studio gli elementi oggettivi, dall’altro studio come questi elementi oggettivi diventano soggettivi attraverso l’esperienza umana, che è unica e irripetibile ma che è osservabile proprio per il fatto che la nostra struttura emotiva è comune. Le emozioni possono cambiare di intensità, di spessore, di auto-percezione, di coscienza, ma la radice è la stessa. Vedi, è come per gli elementi fisici: io e te abbiamo gli occhi. Magari tu li hai azzurri e io verdi, ma entrambi abbiamo gli occhi. E la musica che cosa fa? Agisce attraverso elementi magici, spirituali, dell’anima, che poggiano la loro sostanza sul fatto che noi siamo esseri vibranti e che, in quanto esseri vibranti, se organizziamo le vibrazioni in un certo modo otteniamo dei risultati di natura anche emotiva. A me sembra di aver scoperto l’acqua calda, ma sono 35 anni che ci lavoro, su come scaldare l’acqua. I.D.S. Come si dialoga in maniera efficace con l’umanità variegata e marginale della galera, uomini che provengono da angoli anche remoti della Terra, della cui esperienza sappiamo pochissimo? F.M. Ricordo che feci sentire il Tema di Deborah di Ennio Morricone a un centinaio di detenuti, di cui ottanta erano stranieri, al carcere di Venezia. Diedi a queste cento persone diverse faccine in grado di rappresentare diversi stati d’animo e poi chiesi loro di alzare questi fogli catalogando l’emozione che il brano musicale emanava. Tutti hanno scelto la nostalgia: i siciliani, gli albanesi, ma anche i nigeriani, che non l’avevano mai sentita. Le forme ti avvicinano a casa, alla storia, alla cultura. Ma il portato musicale va al di là della forma, della storia e della cultura. Certo, bisogna tenere conto delle forme: in carcere facciamo un lavoro sulla musica dei paesi di provenienza dei detenuti, sulla storia della musica classica, sentiamo il jazz, ascoltiamo Chet Baker, arriviamo al pop. Ci confrontiamo con tutto. Oggi la depressione imperversa. Schiere di uomini e di donne che elaborano un pensiero che ne pensa un altro che ne pensa un altro che ne pensa un altro e ti uccide. E questo accade quando si esce dallo spazio del sentire come strumento di conoscenza. I.D.S. Il suo essere uomo e il suo essere musicista coincidono? F.M. L’abito fa il monaco, sì. Non è facile. Il mondo del sentire è come le nuvole, cambia di continuo, ma nello stesso tempo ci vuole un orientamento: la musica è il mio orientamento, mi indica la direzione. Può essere pesante a volte, vengo assalito da attacchi di solitudine. Ma sono malinconico: nella solitudine ci sto benissimo. I.D.S. Qual è l’ambiente sonoro del carcere? Che suoni si sentono? F.M. Ci sono due tipi di suoni: quelli della gestione della giornata, i suoni della popolazione del carcere che arrivano dagli oggetti, dall’aprirsi e chiudersi dei portoni di ferro, dalle chiavi, dai chiavistelli. Sono i suoni dati dalla manifestazione degli esseri senzienti che lì vivono o lavorano e che manifestano la loro presenza. Poi c’è un altro tipo di suono che si fa più fatica a sentire, ed è quello delle anime che sono lì. Quel suono è così potente che anche un operatore di passaggio deve maneggiarlo con cura. Ci si abitua, il callo arriva abbastanza in fretta, però, una volta che lo hai sentito, non lo devi dimenticare. È una sensazione molto profonda, traumatica per certi versi. È per questo secondo suono che continuo a recarmi in carcere dopo trentacinque anni. I.D.S. Il carcere rieduca o punisce? È cambiato in questi trentacinque anni che ha avuto la possibilità di osservare? F.M. L’unica grande differenza è il ruolo della società civile. Io sono arrivato proprio all’inizio di un cambiamento, dopo la legge Gozzini, che ha consentito alle associazioni di entrare in carcere e portare arte e cultura. Per il resto l’etica in carcere rimane una questione personale. Si possono trovare degli agenti di custodia pessimi, brutali, senza capacità di sentire l’altro, e trovare invece dei piccoli angeli come li ho incontrati io, soprattutto all’inizio del mio lavoro. Non posso dimenticare non solo Luigi Pagano [il direttore a cui si deve il modello a celle aperte della casa di reclusione di Bollate, ndr], l’allora direttore del carcere di San Vittore, ma anche Luigi Cadoni, un agente di custodia che andava nelle celle a tirar fuori questi ragazzi per portarli a fare musica. Si tratta purtroppo di visioni eccezionali, non della norma. Il peggio sono le carceri minorili perché sono abitate dai ragazzi ma vigono più o meno le stesse regole delle carceri per adulti, cosa tremenda. Va modificato il pensiero, la maniera di percepire l’uomo nella sua essenza. I.D.S. Le interessano di più i vizi o le virtù? F.M. Che bella domanda… I vizi per promuovere le virtù. Quando entro in carcere non voglio mai sapere la storia delle persone. Per me sono persone pulite, tutte. Poi hanno una voglia tremenda di raccontare le loro storie. Però voglio immaginarli così. Perché il lavoro del musicista non è quello di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Il suo ruolo è quello di portare elementi di luce, di coscienza, di equilibrio, a persone che ne hanno bisogno. Il lavoro in carcere è da un certo punto di vista un processo educativo anche per chi lo fa. Bisogna provare a stare con le persone immaginando di essere un prete laico. Non siamo operatori culturali, non è un lavoro di cultura, è un lavoro sulla profondità dell’essere. Dico prete laico in questo senso: l’arte è una via di conoscenza, quello di cui stiamo dimenticando il senso è l’arte come via di conoscenza, non di espressività. Ora è diventato tutto espressività, bravura, dimostrazione. Ma non dovrebbe essere quello il punto. Chi è un artista? E una persona intelligente? Una persona sensibile? Che connotati ha? Queste sono le domande che oggi il mercato di qualsiasi genere ha coperto. Si fatica ad arrivare sotto la domanda, perché sopra è coperto tutto dal mercato. La musica è una via di conoscenza e gli artisti dovrebbero percorrerla. Amore e pace sui muri del carcere: “Entro nel Guinnes con un messaggio di speranza” comunicareilsociale.com, 26 febbraio 2025 Un murale di 4mila metri quadrati all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere Caserta che entrerà dritto nel Guinness dei primati come il più grande al mondo realizzato da un unico artista. A realizzare l’opera d’arte, sulle pareti perimetrali dell’istituto penitenziario, sarà Alessandro Ciambrone, architetto e artista che arriva alla pittura dopo 25 anni di studi d’architettura, libera professione e sei anni di ricerca all’estero (Los Angeles, New York, Dublino, Parigi). Il murale è un progetto complessivo che prevede la partecipazione di numerose istituzioni. Per Ciambrone, è importante sottolineare che si tratta di un lavoro “che viene ampiamente condiviso, non è che sono io che faccio un murale per prendere il record del mondo, ma è una regione intera che si muove per raggiungere un primato eccezionale”. Alessandro Ciambrone ci spieghi più nel dettaglio il progetto e quanto tempo ci vorrà per realizzarlo... “Ci vorranno tre mesi. Parliamo di un progetto di rilevanza internazionale perché si va a realizzare un record che sarà inserito nella Guinness dei Primati”. Qual è il messaggio che vuole lanciare? “Una parete che per qualcuno diventa un limite viene superato dal colore e dalla fantasia. Poi inevitabilmente lì dentro ci sono delle persone che in qualche modo stanno comprendendo i propri errori, e quindi è anche un messaggio di speranza. Non soltanto la dimensione conta, ma anche la location, perché andarla a fare sulle mura del carcere ha un significato diverso, cioè farlo su delle mura che rappresentano una chiusura e la privazione della libertà. Noi abbiamo deciso di realizzare il murales più grande del mondo ma non te lo facciamo nel centro storico in un posto bello, te lo facciamo sulle pareti di un carcere dove si priva la libertà dove ci sono delle persone che soffrono, quindi diciamo è il senso quello che conta, poi la rappresentazione in sé per sé sarà ovviamente ufficializzata quando tutti saremo d’accordo sulla stessa tematica”. Lei ha realizzato già diversi murali sulle pareti di diversi penitenziari. Che rapporto ha con i detenuti? “In questo caso non parteciperanno in una prima fase perché il record deve essere realizzato in autonomia: io vado a realizzare il record di un unico artista che dipinge il murale più grande del mondo. Attualmente il record è di 3600 metri quadri, io la supererò, se tutto va bene, arrivando a 4000. Nelle esperienze precedenti come al carcere di Poggioreale, a Secondigliano o Carinola, invece, posso dire che i detenuti si divertono molto, firmano i murali e per loro è un motivo di grande orgoglio. Sono tutti messaggi di amore, di pace, di contrasto alla violenza, di valorizzazione del patrimonio”. Cosa desidera trasmettere attraverso la sua arte? “Il mio principio visto che sono un architetto è quello di trasformare dei luoghi degradati in luoghi di colore, perché io realizzo soprattutto murales in ospedali, carceri, istituti scolastici degradati, periferie urbane perché quelli sono i luoghi più degradati, quindi portare del colore, portare della speranza, diventa importante. Sono tutti murales di grandi dimensioni che portano un momento di serenità, di speranza, di luce, in momenti particolarmente tristi come quelli della malattia. La valorizzazione di posti degradati con la visione del colore, per me, è come il superamento di un momento di difficoltà. Il nero è il momento triste, buio è il colore, è il contrasto al nero, cioè un mondo fatto di colori è un mondo di speranza, di allegria, di contentezza, di felicità, quindi è quello che uno si augura quando si sente male, che ora sia nel carcere, sia nell’ospedale, o sia una scuola degradata, tutti si augurano di vivere una vita a colori”. La Street Art ha acquisito una notevole rilevanza nel panorama culturale globale. Come andrebbe incentivata secondo lei? “Io mi auguro che sempre di più la street art possa entrare in una pianificazione di carattere amministrativo, anche perché molto spesso vengono richiesti inopportunamente parere della soprintendenza, quando la street art non dovrebbe essere soggetta a un parere della soprintendenza, perché è un’opera di per sé temporanea. Se io vado a dipingere sul muro e se quel muro dovesse non piacere, non è che devo abbattere il muro, io ci ritorno sopra e ripristino lo stato dei luoghi”. Migranti. “Paesi sicuri”, la Commissione Ue cambia idea di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 febbraio 2025 Protocollo Italia-Albania. In udienza davanti alla Corte europea si dichiara d’accordo con le eccezioni per categorie di persone. Nel parere scritto, depositato solo un mese fa, aveva affermato il contrario. Il 10 aprile il parere dell’Avvocato generale. Entro primavera la sentenza decisiva per i centri d’oltre Adriatico. È da poco passato mezzogiorno quando nella Grande Chambre della Corte di giustizia dell’Unione europea gli sguardi si incrociano a cercare conferme di quanto ascoltato dalla rappresentante legale della Commissione Ue. “Alla luce delle osservazioni presentate dagli Stati membri e considerati i quesiti posti dalla Corte, la Commissione è disposta ad accettare che la direttiva 2013/32 consente agli Stati membri di designare paesi di origine come sicuri prevedendo eccezioni per categorie di persone”. In sala il silenzio è assoluto e lo stupore riempie i volti di giudici e avvocati: l’istituzione comunitaria ha appena sostenuto il contrario di quanto scritto nelle osservazioni depositate soltanto un mese fa. Sono firmate dagli stessi legali che intervengono in udienza (presenti due su tre). L’inversione è così clamorosa che il presidente del collegio, il giudice M. K. Lenaerts, chiede: “Ho capito bene che adesso la Commissione sostiene la tesi della maggior parte degli Stati membri qui rappresentati che consiglia la possibilità di designare un paese come sicuro a eccezione di alcune categorie?”. Risposta affermativa. Nel parere scritto, però, l’istituzione guidata da Ursula von der Leyen aveva affermato che bisogna distinguere le persecuzioni individuali da quelle di intere categorie di persone. La presenza delle seconde impedisce di considerare un paese sicuro, diceva fino all’altro ieri la Commissione. La folgorazione sulla via di Damasco è talmente radicale che in aula sostiene: anche un paese in cui la metà della popolazione è a rischio, per esempio tutti gli uomini o le donne, può entrare nella lista di quelli sicuri. Il punto non è più la consistenza quantitativa delle categorie per cui vale l’eccezione, ma solo che i suoi appartenenti siano “chiaramente identificabili”. Le rappresentanti della Commissione, “agenti”, non rispondono alla stampa. Ma si trincerano dietro un “non possono dire nulla” anche con i colleghi avvocati che vorrebbero capire quando e perché la loro posizione è cambiata. Novità normative non ce ne sono state, è lecito sospettare che le ragioni abbiano poco a che fare con il diritto. Sebbene in questi procedimenti l’istituzione Ue non rappresenti una vera e propria parte, ma abbia una funzione quasi terza di interpretazione delle norme. Avvocati dei rispettivi governi sono invece quelli che intervengono per gli Stati. In un’Europa spostata sempre più a destra non sorprende che quasi tutti, a grandi linee, diano ragione all’esecutivo italiano. Fa eccezione la Germania che in tre quesiti su quattro esprime posizioni opposte e rimane l’unica a dire che non sono sicuri paesi con eccezioni per categorie di persone. Ma ora il governo è cambiato pure a Berlino. Quanto l’udienza di ieri fosse importante lo racconta un dettaglio: delle 24 cabine destinate alla traduzione simultanea nelle altrettante lingue ufficiali dell’Ue ne erano attive ben 19. “In tanti anni non ho mai visto una cosa simile”, afferma una lavoratrice della Corte. Fuori, la capitale del Lussemburgo è avvolta dalla nebbia. Dentro, si spera che l’udienza faccia un po’ di chiarezza sulla vicenda dei “paesi sicuri” che con il protocollo Italia-Albania è diventata centrale per le politiche migratorie del governo Meloni. Gli interpreti al lavoro - L’avvocatura dello Stato italiano insiste: le eccezioni per gruppi sociali sono legittime; le procedure accelerate non riducono le garanzie; se i giudici ordinari identificano contrasti tra la normativa italiana e quella Ue non devono disapplicare la prima ma rinviare alla Corte costituzionale. Il legale del governo non risponde alla domanda che i giudici avevano posto sul Bangladesh, chiedendo di spiegare come può essere ritenuto sicuro visto che presenta così tante e consistenti eccezioni. Dice solo che per quello Stato l’asilo è accolto nel 5% dei casi (ma giuridicamente questo è un altro discorso). L’avvocato Dario Belluccio, che con i colleghi Stefano Greco e Sonia Angilletta difende i richiedenti asilo, attacca il governo italiano: nelle designazioni dei paesi sicuri usa “criteri fantasiosi” e ha tradito il principio della certezza del diritto con 20 interventi sull’immigrazione in due anni e mezzo. Rincara la dose: “I veementi attacchi subiti dai giudici per aver disapplicato il diritto interno in contrasto con il diritto dell’Unione vogliono mettere in discussione il primato delle norme Ue in questa materia”. La patata bollente è ora in mano alla Corte. La decisione è particolarmente delicata, perché stretta tra la pretesa politica sempre più netta e diffusa di limitare i diritti fondamentali dei richiedenti asilo e le garanzie codificate in una stagione politica ormai superata, ma che pure al momento restano in vigore. Il 10 aprile l’Avvocato generale depositerà il suo parere indipendente. Entro la primavera è attesa la sentenza. Migranti. Il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Msf: è il Viminale a decidere il porto di Eleonora Camilli La Stampa, 26 febbraio 2025 Esultano gli esponenti della maggioranza di governo: “I giudici bastonano le ong”. È del tutto legittimo che sia il Viminale a decidere il porto di sbarco delle navi. Anche quando questo è lontano dal luogo del soccorso. Lo ha deciso il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di Medici senza frontiere, che aveva impugnato una decisione del Tar in merito alla sua Geo Barents. La nave umanitaria, dopo due interventi condotti il 7 e il 24 gennaio 2023 si era vista assegnare come place of safety (porto sicuro) rispettivamente Ancona e La Spezia, considerati però dall’ong troppo lontani e difficili da raggiungere, anche in considerazione delle avverse condizioni meteorologiche. Inoltre Medici senza frontiere lamentava tutta una serie di violazioni di disposizioni di diritto interno e internazionale, in particolare della convenzione Imo, ma il Tar aveva già dato torto. Oggi il Consiglio di Stato ha ribadito che “la gestione di un evento di salvataggio assume una connotazione complessa, rappresentando la sintesi di una pluralità di valutazioni che investono, ad un tempo, aspetti operativi e tecnico nautici - connessi alla gestione della prima fase dell’evento di soccorso - ed aspetti più prettamente afferenti alla gestione delle persone tratte in salvo, non limitati all’assistenza logistico-sanitaria dei naufraghi, ma estesi alle peculiari condizioni personali ed allo status dei soccorsi, nonchè alla tenuta e sicurezza del sistema terrestre di accoglienza”. Inoltre i giudici ritengono che “il coinvolgimento del ministero dell’Interno nella catena di comando cui spetta la gestione dell’evento Sar (search and rescue) debba ritenersi conforme al quadro delle competenze restituito dalla normativa nazionale di rango primario e secondario”. Esultano gli esponenti della maggioranza di governo. “Il Consiglio di Stato bastona le ong - afferma la deputata Sara Kelany, responsabile Immigrazione di Fratelli d’Italia -. Finirà finalmente il can can artatamente sollevato dalle sinistre, che si sono rese strumento di associazioni private, gestite da privati e che pretendevano di ingerirsi nelle nostre politiche migratorie? Finirà la narrazione ripetuta allo sfinimento dalla stampa mainstream, per cui il cosiddetto Porto Sicuro è sempre il porto più vicino? Ripetiamo da due anni che il porto sicuro non è necessariamente quello più vicino e che è compito della capitaneria di porto individuare il luogo di sbarco”. Migranti. Giustizia a metà, promesse tradite: la ferita di Cutro è ancora aperta di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 26 febbraio 2025 Sulla spiaggia di Steccato si ricorda la tragedia. Ma sopravvissuti e parenti attendono il ricongiungimento coi propri cari. E a marzo ci sarà l’udienza sui mancati soccorsi. Due anni dopo, Mohammed ricorda ancora l’angoscia e la paura di quella notte di burrasca, le urla delle donne e dei bambini quando il caicco turco Summer Love si arenò su un basso fondale davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro e le speranze di 180 persone furono sommerse da un mulinare di schiuma e di acqua salata. Era a bordo anche lui, giovane palestinese fuggito dalla Striscia di Gaza in cerca di un futuro migliore. I soccorsi militari italiani non arrivarono, nonostante il barcone fosse stato segnalato ore prima da un velivolo di Frontex. Lui si salvò, insieme ad altri 80 migranti, mentre un altro centinaio di persone (94 sono le vittime accertate, fra cui 34 minori) non ce la fecero. Per onorare la loro memoria nelle cerimonie per il secondo anniversario della strage, lui è tornato dal Belgio, dove sta cercando di rimettere la propria esistenza su binari sicuri, nonostante le difficoltà legate alla possibilità di ottenere nuovi documenti. Invece la giovane afgana Farzaneh nella tragedia ha perso uno zio, una zia e tre cuginetti, un’intera famiglia annegata mentre cercava di raggiungere proprio lei in Germania. Il suo dolore è una ferita che si riapre ogni volta che torna a Steccato, ma pure lei non intende rinunciare a farlo, per la memoria dei suoi cari, ma anche per il dovere civico di ricordare ciò che avviene ogni giorno nel Mediterraneo. Tanto Mohammed che Farzaneh attendono ancora, a quasi due anni dalla promessa fatta ai superstiti e ai parenti dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di potersi ricongiungere con quanto rimane delle rispettive famiglie. Ci è riuscito invece il 40enne curdo-iraniano Mojtaba, che proprio a Crotone ha trovato un lavoro come pasticciere in una gelateria, chiedendo e ottenendo di far venire qui i propri cari. Spezzoni di vita che sono riaffiorati in un incontro pubblico nella Lega navale crotonese, organizzato dalla Rete 26 febbraio, un insieme di associazioni e cittadini che dal giorno della tragedia si è schierato in difesa dei diritti dei migranti coinvolti. A distanza di due anni, ragiona la portavoce della rete Manuelita Scigliano, “purtroppo niente è cambiato. Le promesse del Governo ai familiari non sono state mantenute. Il provvedimento di ricongiungimento coi parenti avrebbe dovuto interessare circa 200 persone, tuttavia solo qualcuno di loro è riuscito ad arrivare in Europa, mentre la maggior parte si trova ancora in transito nella rotta migratoria, bloccata nei campi di Turchia e Iran”. “Non scenda l’oblio su quelle vite spente” Non è la sola cosa che non è cambiata, osserva ancora Manuelita, non senza amarezza: “Continuano i discorsi di odio e di criminalizzazione nei confronti dei migranti e delle Ong. E continuano ad accadere tragedie simili, come quella a Roccella Jonica del giugno 2024, che non ha avuto la stessa risonanza mediatica”. Lei e gli altri esponenti della Rete 26 febbraio ritengono che “nella gestione dei fenomeni migratori, molte cose debbano cambiare. Su questo, presenteremo un documento con le nostre proposte”. E un “accorato appello affinché non scenda l’ombra dell’oblio su queste vite spente né sulle tante altre che necessitano ancora di essere ascoltate” arriva dalla Conferenza episcopale calabra, che auspica che “tutti facciano la loro parte, Stato, Regioni, Province e Comuni, Chiesa, mondo dell’informazione e altre realtà associative”, per “promuovere la cultura dell’accoglienza”. Su questo lembo di costa ionica, teatro di sbarchi da decenni, molti fanno memoria. “Bisogna ricordare, per evitare che simili tragedie si ripetano. La vita di questa gente che scappa dalla guerra e dalle persecuzioni va sempre salvata e poi si decide cosa fare”, argomenta il sindaco di Crotone Vincenzo Voce, dopo aver intitolato un giardino pubblico ad Alì, il bimbo più piccolo fra le vittime del naufragio. “Sono trascorsi due anni e il dolore è sempre presente”, prosegue Voce, convinto che “i centri per migranti che il governo ha pensato di istituire in Albania non servano” e che “il problema dell’immigrazione debba riguardare l’Europa”. E non intendono dimenticare neppure diverse associazioni (fra cui Alarm Phone a Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea Saving Humans e Open Arms), impegnate nei salvataggi in mare. “Quella tragedia si sarebbe potuta evitare - affermano -. Quella notte non venne attivato nessun piano di ricerca e soccorso, ma il caso del caicco fu trattato come un’operazione di polizia per la protezione delle frontiere”. Dopo il naufragio, le indagini della procura di Crotone si sono mosse lungo due direzioni. La prima, nei confronti di 5 presunti scafisti (un sesto, forse il capitano, annegò quella notte), ha visto già celebrare alcuni processi. A luglio, con rito abbreviato, è stato condannato a vent’anni di reclusione Mohamed Abdessalem, 26enne siriano considerato il timoniere della barca. E altre tre condanne sono state pronunciate a dicembre: 16 anni per il 22enne pakistano Hasab Hussa e per il 51enne turco Sami Fuat e 11 anni, un mese e dieci giorni per Khalid Arslan, 26enne pakistano. Inoltre, a gennaio, la corte di Appello di Catanzaro ha confermato la condanna in primo grado a venti anni per il 29enne turco Gun Ufuk. Ma il suo avvocato, Salvatore Falcone, ha annunciato ricorso in Cassazione, ritenendo la sentenza “ingiusta”. Nel secondo filone, aperto dal pm Pasquale Festa rispetto ai mancati soccorsi prestati al barcone, cresce l’attesa per la data del 5 marzo, quando compariranno davanti al giudice dell’udienza preliminare di Crotone Elisa Marchetto, i quattro militari della Guardia di Finanza e i due della Guardia Costiera, accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Sono il 56enne Giuseppe Grillo, capo turno della sala operativa del Roan della Guardia di finanza di Vibo Valentia; il 50enne Alberto Lippolis, comandante del Roan; il 51enne Antonino Lopresti, ufficiale in comando tattico; il 52enne Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto; la 40enne Francesca Perfido, ufficiale di ispezione dell’Imrcc della Guardia costiera di Roma; e il 51enne Nicola Nania, guardacoste in servizio a Reggio Calabria. Per loro, a fine 2024, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio, ipotizzando che, a vario titolo, possano esser stati responsabili di negligenza, imprudenza e imperizia, in un contesto forse viziato da omissioni collegate alla mancata attivazione del piano “Sar” di ricerca e salvataggio in mare. L’avvocato: le famiglie di quei morti ci guardano. All’udienza sarà presente anche Fabio Anselmo, avvocato di alcuni parlamentati di Avs che hanno sporto denuncia. A suo parere, si tratta di “una tragedia annunciata, viste quelle precedenti e quelle successive, che non può e non deve rimanere impunita”. Perciò l’udienza del 5 marzo sarà “importantissima”, perché “dovranno essere accertate le responsabilità di coloro che hanno mancato ai loro doveri”, osserva ancora Anselmo, chiedendosi “se davvero siano solo e soltanto quelli che sono oggi alla sbarra”. La sua intima speranza, e di tanti altri, è che alla fine giustizia sia fatta, perché “le famiglie dei morti di Cutro ci guardano”. Migranti. I sopravvissuti di Cutro: “Urlavamo ma nessuno è venuto a salvarci” di Alice Dominese Il Domani, 26 febbraio 2025 Lo scorso anno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha deposto dei fiori sulla tomba di Alì, il neonato morto nel naufragio di Cutro che è sepolto al cimitero di Crotone. Il racconto dei superstiti, tornati su quella spiaggia calabrese per il secondo anniversario del naufragio in cui morirono almeno 94 migranti: “Nuotavo cercando di tenere mio fratello e di scaldarlo. Dopo un’ora non rispondeva più”. “Quello che abbiamo subito è stato come un omicidio”. Oggi vorrebbero riunirsi con i propri parenti, ma nonostante l’impegno preso dall’esecutivo ci è riuscito solo uno di loro. Quando due anni fa i sopravvissuti alla strage di Cutro sono stati trasferiti nella struttura di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto, vicino a Crotone, Assad credeva di essere stato portato in una prigione. Lui e gli altri 80 superstiti dormivano per terra o su letti di fortuna in un’unica stanza. “Eravamo rinchiusi là dentro, non potevamo uscire e nessuno ci spiegava cosa stava succedendo. Dopo diversi giorni ci hanno trasferiti e abbiamo potuto vedere le salme. Così ho ritrovato mio fratello”, racconta il giovane profugo siriano, tornato in Italia per ricordare le vittime del naufragio nella celebrazione organizzata dalla Rete 26 febbraio. Partito dalla Turchia insieme a quasi 200 altre persone sul barcone affondato a poche centinaia di metri dalla costa calabrese, Assad, 25 anni, ha lasciato la Siria quando era ancora minorenne, per sfuggire alla guerra. Della notte del naufragio ricorda l’acqua che entrava nell’imbarcazione, mentre con suo fratello e suo zio cercava di arrampicarsi su ciò che ne restava per rimanere a galla. Poi il salto nel mare, mentre la barca andava in pezzi sotto le onde. “Nuotavo cercando di tenere su mio fratello e di scaldarlo. Dopo un’ora non rispondeva più ed è morto. Ho provato a tenerlo fuori dall’acqua fino all’arrivo dei soccorsi”. Il fratello di Assad è una delle 94 vittime recuperate dalla Guardia costiera durante l’azione di soccorso iniziata alla prime luci dell’alba del 26 febbraio 2023. “Come un omicidio” - Trentacinque morti tra quelli identificati non raggiungevano la maggiore età, molti erano bambini. Ahmed, 33enne palestinese, si ricorda di loro: “Cercavo di tenere a galla i bambini, di farli uscire dall’acqua mentre si aggrappavano a me”. Si era imbarcato dalla Turchia dopo aver lasciato la Palestina per cercare lavoro in Europa. Di quel naufragio porta ancora i segni addosso: “Non sento più da un orecchio a causa dell’acqua che ci è entrata, ma quello che abbiamo subito è stato come un omicidio: urlavamo chiedendo aiuto e nessuno è venuto a salvarci. Sono vivo solo perché sono riuscito a nuotare verso la riva”. Come Assad, anche Ahmed è tornato a Cutro per la commemorazione del secondo anniversario del naufragio, organizzata dalle associazioni che si sono mobilitate per chiedere giustizia per i sopravvissuti e i familiari delle vittime. I superstiti che hanno deciso di partecipare alle celebrazioni quest’anno sono 20, tra palestinesi, siriani, afghani, pakistani e iraniani. La maggioranza di loro vive attualmente in Italia, ma gran parte dei sopravvissuti si è spostata altrove, soprattutto in Germania, Francia e nord Europa. A fare da interprete c’è Ramzi Labidi, mediatore culturale dell’associazione Sabir, tra le prime persone a entrare in contatto con coloro che, nei giorni successivi alla strage, erano stati portati all’interno del centro di accoglienza di Isola di Capo Rizzuto. È lì che Labidi ha conosciuto Assad, Ahmed e gli altri sopravvissuti a cui l’associazione ha fornito supporto e informazioni su ciò che stava accadendo: “Insieme agli altri attivisti siamo stati con loro per oltre un mese e abbiamo costruito un rapporto di fiducia. Ora continuiamo ad assisterli nelle procedure di ricongiungimento familiare”. Ma tra tutti i sopravvissuti che vorrebbero riunirsi con i propri parenti, finora soltanto un ragazzo iraniano che abita a Crotone ci è riuscito. Ahmed, che ora vive in Belgio e sotto le bombe a Gaza ha perso decine di familiari, ha avviato la procedura per portare in Europa i propri figli, mentre Assad ci sta provando da tempo. Oggi vive in un centro di accoglienza in Germania, dove è stato accolto come rifugiato. Studia tedesco e lavora come parrucchiere: “Era ciò che desideravo, ma temo per la mia famiglia rimasta in Turchia. Il governo italiano aveva promesso di farla arrivare in Italia, ma sono passati due anni e non è mai successo”. Il 16 marzo 2023 alcune famiglie delle vittime residenti in Europa e alcuni sopravvissuti al naufragio, tra cui Assad, sono stati invitati a Palazzo Chigi per un incontro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani. In quell’occasione l’Italia aveva assicurato il proprio impegno diplomatico per dare seguito alle richieste di accoglienza e di ricongiungimento familiare raccolte tra i partecipanti. Ad Assad e agli altri era stato chiesto di fornire alla prefettura i nomi dei parenti con cui desideravano ricongiungersi, per avviare la procedura. Quegli elenchi sono stati consegnati, ma nessuno ha più ricevuto risposta. Il corridoio umanitario che non c’è - Dopo quel giorno, Assad e altri 33 profughi che avevano chiesto di essere trasferiti nel territorio tedesco hanno raggiunto la loro destinazione a bordo di un volo di Stato. “Questa promessa è stata mantenuta, ma quella di trasferire in Italia i miei fratelli con i miei genitori no”, racconta Assad. “Avevo parlato con la presidente Meloni e con il ministro Tajani che mi avevano promesso che li avrebbero aiutati, ma con me ho potuto portare solo la salma di mio fratello”. La legge italiana prevede che il ricongiungimento familiare possa avvenire solo se a richiederlo sono persone residenti in Italia. Tuttavia, a Palazzo Chigi i rappresentanti del governo si erano impegnati per esaudire le richieste avanzate dai sopravvissuti anche attraverso misure alternative in altri paesi europei. “Era stato promesso un corridoio umanitario per far arrivare in Europa i parenti dei sopravvissuti dai campi profughi di Turchia e Siria, ma questo non si è mai verificato. Non serviva convocare parenti delle vittime e superstiti a Roma per una promessa che non è mai stata mantenuta”, critica Manuelita Scigliano, referente della Rete 26 febbraio. Mentre i sopravvissuti sono in attesa di poter incontrare di nuovo le famiglie, alcuni non hanno ancora ricevuto lo status di rifugiati e sono costretti a richiedere di anno in anno il permesso di soggiorno, in un processo di regolarizzazione che sembra non finire. Stati Uniti. Trump e il ritorno delle guerre dell’oppio di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 26 febbraio 2025 Sono bastate poche settimane di amministrazione Trump per rendere, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, una dimostrazione plastica della natura strumentale dell’impianto proibizionista sulle droghe. L’annuncio di aumento dei dazi nei confronti di Cina, Canada e Messico è stato motivato dal tycoon con la volontà di costringere la Cina a impedire l’esportazione dei precursori del fentanyl, e gli altri due paesi a cessare la sua produzione e traffico oltre i confini degli Usa. L’obiettivo reale è il tentativo di riequilibrare con una prova di forza la bilancia commerciale nei confronti di tre dei suoi principali fornitori. Gli Usa contano un disavanzo con la sola Cina di oltre 295 miliardi di dollari nel 2024. Se nell’Ottocento l’occidente impose a Pechino la legalizzazione dell’oppio per controbilanciare le importazioni del rinomato the cinese, oggi la geopolitica usa strumentalmente la crisi degli oppioidi per giustificare una guerra commerciale. Paradossalmente questa mossa avviene mentre stanno finalmente diminuendo le morti da fentanyl negli Stati Uniti. Effetto sia delle politiche di riduzione del danno che si sono diffuse in questi anni di strage (oltre 100.000 morti l’anno), che probabilmente del progressivo consolidamento del mercato, diminuito in quantità e con maggior costanza di qualità. La scelta di Trump è funzionale solo a continuare a semplificare il discorso sulle droghe. Elude le cause stesse della crisi di overdose nordamericana, figlia legittima del processo di mercificazione della salute. Nata a partire dagli anni ‘90, con l’introduzione nel mercato dell’ossicodone - antidolorifico a base di oppioidi sintetici - sotto la pressione di Big Pharma per favorirne la facile prescrizione. Una volta incrociata la crisi economica del 2007, le persone in cura, spesso per dolore cronico, hanno anche perso il lavoro, ma soprattutto l’assicurazione sanitaria che gli forniva il farmaco. La crisi sociale e il mercato nero hanno fatto il resto. Potrebbe essere un caso - ma non lo è - che parallelamente ai proclami contro i paesi produttori, e agli annunci di pena di morte per gli spacciatori, con uno dei suoi primi ordini esecutivi - bloccato per ora da un giudice - l’amministrazione Trump abbia tagliato anche i finanziamenti destinati ai servizi di riduzione del danno, al trattamento delle persone che usano droghe, all’accessibilità degli alloggi e all’assistenza sanitaria. Come non è un caso che Trump se la prenda con il fentanyl, una sostanza usata da vecchi e nuovi emarginati che ricordano, nella loro rappresentazione, i consumatori di crack nei ghetti neri degli anni 80 e 90. Questo scopre il volto classista della war on drugs che - almeno per il momento - non interviene sulla cannabis, la cui legalizzazione in Florida Trump aveva addirittura supportato in piena campagna elettorale. Del resto nell’immaginario collettivo statunitense la cannabis non è più la “droga che causa follia, criminalità e morte” degli anni 30 di Anslinger, il primo zar antidroga. Il successo delle legalizzazioni, e lo stesso business che si è creato, ha normalizzato quell’erba che non è più la droga importata dai clandestini messicani, visto che oggi è prodotta nelle serre a stelle e strisce. La svolta trumpiana potrebbe provocare ulteriori riflessi nelle politiche globali. L’anno scorso, alla Commissione Droghe dell’Onu a Vienna (Cnd), per la prima volta gli Usa fecero approvare una risoluzione sulla promozione della riduzione del danno, lasciando isolate Russia e Cina. Una conseguenza della marginalizzazione della Russia in sede internazionale a causa della guerra in Ucraina. Il riavvicinamento con Putin potrebbe far tornare in auge la retorica sul “pericolo globale della droga”. Lo scopriremo presto: la prossima Cnd, a Vienna a metà marzo, sarà il primo banco di prova del nuovo ordine trumpiano sulle droghe. Russia. Leggi liberticide e Stato di polizia, così Putin ha svuotato le piazze del dissenso di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 febbraio 2025 L’allarmante report “Ovd-Info” sulla repressione del dissenso a tre anni dall’inizio della guerra. l’aggressione ai danni dell’Ucraina ha provocato un grande sforzo militare da parte della Russia. Un impegno ingente anche in patria, dove dal 24 febbraio 2022 le misure per reprimere il dissenso contro una guerra ingiustificabile sono state ancora più stringenti. Come non ricordare, per esempio, l’articolo 207.3 del codice penale sui cosiddetti “falsi militari”, inserito frettolosamente nel marzo di tre anni fa? Sono stati tanti i russi che per aver criticato le forze armate impegnate ad occupare il territorio ucraino hanno subito processi farsa, finendo in carcere. Tra questi gli avvocati Alexei Gorinov e Dmitry Talantov. Gorinov è stato il primo cittadino russo ad andare dietro le sbarre (deve scontare in totale dieci anni in una colonia penale; la prima condanna è stata di sette anni alla quale se ne è aggiunta un’altra di tre anni nello scorso autunno, si veda Il Dubbio del 29 novembre 2024) per aver contestato l’operazione militare speciale, chiamandola con il suo vero nome: guerra. Una parola vietata nella Russia di Vladimir Putin. L’opinione pubblica è tenuta sotto lo schiaffo e alcune leggi liberticide, che hanno sotterrato la libertà di opinione e la libertà di pensiero, servono al boss del Cremlino per avere un controllo pressoché totale sulla società russa ed evitare, per il momento, la nascita di un’opposizione politica. Il triste momento che sta vivendo la Russia è documentato da un report di Ovd-Info. L’organizzazione che si occupa di diritti umani ha redatto uno studio a tre anni dalla guerra di aggressione in cui si lancia un allarme rivolto alla comunità internazionale. “Il terzo anno di guerra su vasta scala della Russia contro l’Ucraina - si legge nel documento - è accompagnato da una continua repressione politica all’interno del Paese. Nonostante il calo del numero di proteste contro la guerra su larga scala e l’aumento della censura, la pressione sulla società civile, compresi attivisti, avvocati, giornalisti e organizzazioni indipendenti, prosegue incessantemente. Le autorità continuano a utilizzare l’intero arsenale di strumenti repressivi: dai procedimenti penali per i “falsi” sull’esercito russo per screditare le forze armate alle punizioni extragiudiziali, tra cui licenziamenti, pressioni sui parenti dei responsabili delle contestazioni e rifiuto di rilasciare documenti. Inoltre, vengono adottate nuove leggi che ampliano i poteri delle forze di sicurezza e consentono un maggiore controllo sui dissidenti”. Svuotate le piazze - dimostrare a voce alta con cartelli e fischietti è troppo pericoloso -, la repressione del dissenso, rispetto ai primi mesi di guerra, avviene adesso con un controllo di internet e con una singolare forma di retroattività. Il social più monitorato dalle autorità russe è VK (oltre 200 milioni di utenti), fondato da Pavel Durov che è anche il padre di Telegram. Ma analoghe “attenzioni” non risparmiano neppure Telegram e YouTube. Centinaia di esperti sono stati “arruolati” per monitorare dalla mattina alla sera la rete. “Le autorità - evidenzia Ovd- Info - prestano particolare attenzione alla repressione contro le posizioni contrarie alla guerra su internet. La maggior parte dei procedimenti penali vengono avviati a seguito di pubblicazioni sui social network, spesso in relazione a post pubblicati diversi anni prima dell’inizio dell’azione penale. Continua la pratica di includere media indipendenti, organizzazioni per i diritti umani e singoli attivisti nei registri degli “agenti stranieri” e delle “organizzazioni indesiderate”. Le nuove restrizioni sull’uso delle Vpn (reti virtuali private, ndr) e il blocco di massa dei siti web rendono difficile l’accesso a informazioni indipendenti. Le forze di sicurezza stanno attivamente perseguitando non solo i cittadini russi, ma anche i prigionieri di guerra ucraini e i civili dei territori occupati. Molti di loro sono accusati di spionaggio, terrorismo o tradimento e vengono condannati a lunghe pene detentive”. Subito dopo il 24 febbraio 2022, le proteste di piazza contro la guerra di aggressione ai danni dell’Ucraina sono state represse con ben 20 mila fermi. Un numero che con il trascorrere dei mesi è sceso sempre di più. Le nuove leggi approvate hanno di fatto impedito ogni manifestazione di piazza. Nei tre anni di conflitto in Ucraina le forze di sicurezza hanno arrestato 856 persone per post contrari alla guerra o per aver pubblicato simboli collegati alla guerra, in modo particolare quelli con i colori della bandiera ucraina. Nel 2024 e fino al 17 febbraio scorso ci sono stati 82 arresti. La maggior parte di questi è avvenuta a Mosca (27) e San Pietroburgo (13 casi). “Ciò - scrive Ovd- Info - è probabilmente dovuto al fatto che queste città tendono a ospitare più proteste contro la guerra rispetto ad altre regioni. Altri otto arresti sono stati effettuati nella regione di Sverdlovsk”. In merito alle proteste contro la guerra, ieri si è svolta a Berlino una conferenza stampa di Memorial. Nei giorni scorsi una delegazione dell’organizzazione russa insignita del premio Nobel per la Pace nel 2022 ha visitato Kyiv e altre città ucraine. Il cofondatore di Memorial, Oleg Orlov, imprigionato in Russia dopo lo scoppio della guerra e liberato in uno scambio di prigionieri nell’agosto scorso, ha auspicato la fine delle ostilità. Ha inoltre ricordato un incontro fatto nel suo viaggio in Ucraina: “Ho conosciuto una donna il cui marito è stato portato via da casa, torturato e poi ucciso. Il suo corpo è stato ritrovato poco tempo dopo. Era difficile per lei parlare con noi, me ne rendevo conto, ma parlava. Capì che, lei ucraina e io russo, non eravamo nemici”.