Volontariato, le “sue” prigioni di Paolo Foschini Corriere della Sera, 25 febbraio 2025 I ventimila impegnati nell’anno-record: 1 ogni 16 detenuti contro 1 educatore su 65. Il Terzo settore svolge l’80% delle attività, eppure non esiste un registro nazionale: “Non siamo supplenti, vogliamo contare”. Per milioni di persone, ovviamente, la galera è l’ultimo posto in cui uno vorrebbe finire. Poi ce ne sono molte altre - oggi in Italia 62mila - che in galera ci stanno e ovviamente ne vorrebbero solo uscire. Infine c’è un gruppo di gente, evidentemente strana, che in galera invece spinge per entrare: è la galassia dei volontari e delle volontarie. Tanto necessaria quanto misteriosa: in un mondo che oggi conta anche i microbi nessuno sa con precisione quante persone la compongono a livello nazionale. A partire dal Ministero della giustizia e dall’Amministrazione penitenziaria, che pure sono le autorità da cui tutta quella folla ottiene i permessi d’ingresso. Per fare di tutto: corsi, iniziative culturali, sportive, di formazione professionale, di inclusione, o semplicemente di ascolto (hai detto niente). Gente fondamentale? Per dirlo non c’è sintesi migliore di quella di Elisabetta Palù, direttrice reggente del carcere di San Vittore (circa 900 volontari per 1.100 persone detenute) che si richiama allo scopo della pena previsto dalla Costituzione: “Il reinserimento sociale - dice - necessita imprescindibilmente della rete del volontariato. Senza il contributo della società civile qualsiasi riforma del sistema penitenziario rischia di rimanere incompiuta”. Proviamoci dunque lo stesso a fare i conti, iniziando da quelli sicuri per un confronto. In Italia ci sono 190 carceri per le quasi 62mila persone detenute di cui sopra (siamo tornati al 2012, quando il sovraffollamento delle nostre prigioni valse all’Italia una condanna per tortura da parte dell’Europa) con circa 3imila agenti e mille educatori (dati ufficiali Dap 2024: un agente ogni due detenuti e un educatore ogni 65). Ma sui volontari non c’è rilevazione statistica ufficiale. Unica possibilità sarebbe contare i permessi d’ingresso rilasciati in base agli articoli 17 oppure 78 dell’Ordinamento penitenziario (il quale assegna esplicitamente al volontariato un “ruolo fondamentale”) che però non distinguono tra chi entra una tantum e chi magari tutti i giorni. Inoltre il conto lo tengono i singoli istituti, non c’è una somma. Chi negli anni ha provato a farla con certosina pazienza è stata l’associazione Antigone con il suo Osservatorio. E ha rilevato che stando ai permessi d’ingresso la galassia di volontari-volontarie nelle carceri italiane è cresciuta costantemente, fino al record del 2019 con 19.511 persone: più di un volontario ogni due agenti. Poi è arrivato il Covid. Con mesi di ingresso vietato per tutti. E alla ripresa, a fine 2020, il numero degli articoli 17 e 78 era dimezzato: 9.825 in tutto, un volontario ogni cinque detenuti. L’anno dopo siamo risaliti a quasi 12mila, ultimo totale pervenuto. Ma il ritorno ai livelli pre-Covid è ancora lontano e comunque ripetiamo: il conto non distingue tra occasionali e costanti. Una stima attuale dell’Osservatorio ipotizza un volontario ogni 16 detenuti. Stesso discorso per le associazioni a cui i singoli volontari in genere fanno capo. Il sito del Dipartimento amministrazione penitenziaria ne cita 64, in un elenco fatto su segnalazioni occasionali che però si ferma al 2022 e comunque la sua tenuta non è prevista dalla legge. Dopodiché dal 2015 esiste una Conferenza nazionale volontariato giustizia (CNVG) che nel 2023 ha anche stipulato un protocollo di intesa con CSV.net, la rete nazionale dei Centri servizi volontariato. E quel che se ne ricava, sempre a occhio, è che l’8o per cento delle attività sociali e simili nelle carceri esiste grazie al Terzo settore: a questo proposito un corposo studio di Filippo Giordano, docente dell’Università Bocconi, documentava già nel 2021 con prefazione di Marta Cartabia che dei circa 150 euro al giorno spesi dallo Stato per ogni detenuto la quota destinata al suo “recupero” non supera gli 8 centesimi. Il resto lo fanno i volontari. “È il tradimento - dice Michele Miravalle dell’Osservatorio Antigone - della riforma dell’Ordinamento penitenziario dell’85 che al volontariato assegnava un ruolo importantissimo di collaborazione: non di supplenza, come spesso avviene. Con l’aggravante, a volte, di dover chiedere come fosse un favore il permesso di fornire servizi o addirittura beni essenziali che senza volontari non fornirebbe nessuno”. Spazzolini compresi, a volte. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova e presidente di Cnvg, aggiunge: “II volontariato nelle carceri non va considerato ruota di scorta. Il carcere è un pezzo della società e occorre che questa se ne prenda cura, non per buonismo ma per la propria stessa sicurezza”. Nel novembre scorso il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna ha pubblicato - lavoro quasi unico in Italia - l’esito di un meticoloso sondaggio sul volontariato penitenziario nella regione. Al termine c’è l’elenco di ciò che i volontari vorrebbero: più dialogo, partecipazione, comunicazione... le richieste occupano tre cartelle in formato Word, interlinea uno. Emergenza carceri: il 3 marzo manifestazione nazionale indetta dai Garanti dei detenuti ilgiornalepopolare.it, 25 febbraio 2025 Da mesi gli appelli al Governo sulla necessità di intervenire sul sistema carceri si ripetono. E ora, che i suicidi, il sovraffollamento e altre criticità continuano, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha indetto una mobilitazione nazionale per il 3 marzo. Lo ha annunciato in un documento con il quale denunciano il “silenzio assordante da parte della politica e della società civile sul carcere”. “Sono passati due mesi dal discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha richiamato tutti al rispetto della dignità di ogni persona e dei suoi diritti anche per chi si trova in carcere” ricordano in un documento i Garanti. Che chiedono “soluzioni giuridiche immediate sia alla politica che all’Amministrazione penitenziaria attraverso provvedimenti che riducano il sovraffollamento e migliorino le condizioni di vita dentro le carceri”. “Alla società civile - aggiungono - chiediamo invece una sensibilità che superi la visione carcero centrica”. In particolare i Garanti sollecitano l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere; l’accesso alle misure alternative ai detenuti, in particolare per quei 19.000 mila che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni e si trovano in una posizione di poter accedere; l’attuazione della circolare sul riordino del circuito della media sicurezza per quanto riguarda la chiusura delle sezioni ordinarie con progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali; garantire l’affettività in carcere. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali “si chiede come la politica, i singoli direttori delle carceri, i magistrati di sorveglianza, intendono agire per l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo)”. “Occorre da subito - aggiungono, aumentare le telefonate e le videochiamate, soprattutto in casi specifici, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Inoltre, occorre che la Magistratura di Sorveglianza si impegni ad aumentare i giorni di permesso premio per i ristretti”. Denunciano “un silenzio assordante da parte della politica e della società civile sul carcere” i Garanti regionali, provinciali e comunali delle persone private della libertà. “Abbiamo il dovere di agire qui e ora” sottolineano in un documento congiunto. Anche una lettera aperta di studiose/i e docenti di scienze sociali, sociologia del diritto e sociologia della devianza è stata diffusa per porre l’attenzione sulla grave situazione carceraria. Nella missiva si invoca un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, che riconduca le carceri italiane almeno alla capienza prevista. Nella lettera viene ricordato come il 30 dicembre 2024 Papa Francesco abbia aperto la porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia in segno di speranza, mentre la Conferenza episcopale italiana e autorevoli giuristi - tra cui l’Associazione italiana dei professori di diritto penale e del processo penale - invocano un atto di clemenza: “Sono segnali - si legge - che denunciano la gravità della situazione. “Non respirano le persone detenute” afferma Antigone, ormai oltre 62.000 per 47.000 posti disponibili, con un tasso complessivo di sovraffollamento del 130%, che in alcune carceri supera o sfiora il 200%; mai numeri così alti dal 2013, anno della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti”. Dare un nuovo volto alle carceri, per fare spazio a riscatto e diritti di Domenico Alessandro De Rossi* Il Riformista, 25 febbraio 2025 La preparazione dei professionisti coinvolti nel sistema penitenziario è importante. Bisogna puntare su un percorso formativo avanzato che integri diverse discipline. Che in Italia le carceri siano al collasso è cosa acquisita. Gli effetti si misurano con il drammatico andamento dei suicidi, che mai nella storia dell’esecuzione penale italiana si sono presentati con tale asprezza. Le cause di questa realtà, se non vogliamo fare solo propaganda di basso profilo, non sono da attribuire interamente all’attuale governo. A sostegno di ciò basti ricordare quando la Cedu nel 2013 condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. La Corte di Strasburgo affrontava quanto di inaccettabile nell’esecuzione penale in Italia già da molto prima avveniva per il sovraffollamento carcerario. C’è da dire che, nonostante il tempo passato e l’alternanza di governi a colorazioni politiche e sfumature diverse, nulla è stato compiuto per fare di meglio. Nulla. A parte i convegni, i tavoli “tecnici” e gli esperti autonominati. Oltre che della politica, il ritardo è anche di quell’ovattato mondo accademico che - se si fosse attivato come da anni l’argomento meritava - sarebbe potuto essere un serio punto di riferimento pure per l’Amministrazione penitenziaria e la politica tutta. Si pensi alle università, tuttora in parte dormienti e lontane dal tema. Luoghi accademici ove non si sarebbe dovuto attendere un istante subito dopo la sentenza della Cedu per promuovere programmi di studio più coordinati all’interno delle diverse facoltà. Dopo la sentenza Cedu, in alcune facoltà di architettura rari docenti sensibili al problema si sono attivati sull’argomento, impartendo lezioni nell’ambito di corsi destinati prevalentemente però solo agli aspetti compositivi dell’architettura. Ciononostante, per quanto riguarda la formazione professionale di architetti e ingegneri - con spiccata preparazione attorno all’argomento dell’esecuzione penale - siamo ancora eccessivamente ristretti in approcci individuali, episodici e subalterni a logiche quanto mai lontane da un’autentica preparazione sistemica di alto profilo culturale come il complesso argomento da anni richiede. La stessa esercitazione universitaria, indirizzata prevalentemente al superamento di un esame di composizione architettonica o di laurea, si realizza oggi all’interno di alcune facoltà come un mero addestramento grafico, lontano anni luce dalle importanti problematiche culturali attinenti l’esecuzione penale. Questi insegnamenti si ritrovano totalmente sganciati dal più vasto dibattito e dall’indispensabile formazione professionale di una cultura costruita su competenze ulteriori. A fronte di questo problema, per consentire ai già laureati in architettura e ingegneria di poter competere in futuro con la necessaria preparazione professionale nei confronti delle vaste tematiche inerenti la questione penitenziaria, in vista anche di auspicabili ampliamenti di organico all’interno del ministero della Giustizia e del Dap, un gruppo multidisciplinare di qualificati professionisti e docenti universitari - già da anni con ruoli differenti presenti nella macchina penitenziaria - è stato chiamato dalla Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani ETS, con il patrocinio del ministro della Giustizia Carlo Nordio, per costruire un corso di Alta formazione professionale sulle “strutture detentive e management gestionale complesso”. L’obiettivo positivo è quello di fornire finalmente ai professionisti un complesso di conoscenze come approccio sistemico al tema-carcere quando domani saranno chiamati al banco di prova con la materia detentiva. L’iniziativa culturale si connota come originale atto di responsabile attenzione alla tematica penitenziaria. Un passo avanti verso una maggiore preparazione di coloro che si confrontano con il problema carcerario. Una seria specializzazione professionale volta a formare tecnici preparati a fornire soluzioni più coerenti con una concezione del carcere in linea con i diritti umani, con le indicazioni della Costituzione e le leggi europee. Il futuro deve vedere la formazione di chi lavora per il carcere fatta da rappresentanti delle istituzioni ed esperti, espressione certa di saperi multidisciplinari e integrati. Il carcere deve rappresentarsi dentro e fuori come luogo di cultura della legalità, di erogazione di servizi sanitari, di formazione qualificata professionale, di studio, di incontro con gli affetti familiari, con il mondo dove ci si ricostruisce di fronte al tema dei diritti umani, civili, politici. *Architetto “Il sovraffollamento aiuta la mafia”, la stoccata del procuratore di Palermo di Errico Novi Il Dubbio, 25 febbraio 2025 Il capo dei pm di Palermo Maurizio De Lucia spiega, in un’impietosa intervista al Corriere della Sera, come la linea intransigente del governo sulle carceri renda impossibile controllare proprio i detenuti più pericolosi, gli esponenti delle cosche, che danno ordini dai penitenziari e rafforzano così il loro peso criminale A Pordenone, sabato scorso, Carlo Nordio ha visitato un carcere, o meglio un progetto di futuro carcere, che ha definito il suo “sogno”. Dentro ci saranno infatti “spazi” diversificati, per “dare la possibilità di fare sport all’aperto e di lavorare”. Intanto andrebbe notato che il ministro della Giustizia del governo democraticamente eletto ha del tutto ignorato un’altra tipologia di spazi, che pure la Corte costituzionale - organo di garanzia alle cui pronunce il governo avrebbe l’obbligo di attenersi, ma vabbè - che la Consulta, si diceva, ha individuato come irrinunciabili: gli spazi per l’affettività di chi è dietro le sbarre. Sport sì, lavoro eccome ma niente sesso, sono detenuti. Questa però è una digressione. Il punto è un altro: Nordio ha esaltato la caserma, dismessa da vent’anni, “Fratelli Dall’Armi” di San Vito al Tagliamento (appena fuori Pordenone), il futuro carcere “multifunzione” di cui sopra, nella consapevolezza che la stessa ex caserma potrà ospitare reclusi non prima del 2027, come sempre sabato mattina hanno confermato le altre autorità coinvolte, col guardasigilli, in quel progetto. Nella migliore delle ipotesi, la nuova struttura penitenziaria allevierà il tragico - in quanto istigatore di suicidi - sovraffollamento delle carceri italiane fra due anni. Qualora i suicidi continuassero a far registrare la macabra statistica del 2024 - quando sono stati 89 - e di questo scorcio del 2025 - siamo già a 13, l’ultimo oggi a Cremona - quel “sogno” nel cuore del Friuli si realizzerebbe dopo altri 200 morti, sempre nella meno sanguinaria delle ipotesi. È davvero questa la risposta più sensata di uno Stato democratico e del suo governo al sovraffollamento e alla disumanità delle prigioni? Ci pare difficile. Anche perché, a fronte del carcere modello sognato da Nordio, Maurizio De Lucia, capo della Procura di Palermo, ha detto che, di fatto, il sovraffollamento aiuta la mafia. Ebbene sì, avete capito bene. In una imprescindibile intervista a Giovanni Bianconi pubblicata ieri sul Corriere della Sera, De Lucia ha spiegato che se si è arrivati al punto da registrare come fenomeno diffusissimo l’uso, da parte dei boss, dei telefonini in cella, è perché “nelle carceri ci sono troppe persone e poco controllate”. È una deriva in cui è impossibile sorvegliare “in maniera adeguata” chi, come i mafiosi, “realmente deve stare in carcere”, ed evitare così che “continui a comportarsi come da libero”. E questo considerato che invece “la pena non può essere solo detentiva” e che, secondo il procuratore di Palermo, “sarebbero utili forme sanzionatorie distinte per tipologie di condannati e di reati. Il recupero dei tossicodipendenti”, per esempio, “non può passare dalla prigione, come non dovrebbe starci chi ha disturbi mentali: più che criminali, sono malati bisognosi di assistenza, ma le strutture previste per legge”, le Rems di cui ha scritto decine di volte, su queste pagine, Damiano Aliprandi, “sono largamente insufficienti, con gravi problemi di strutture e personale”. La sola via d’uscita, per uno che fa il capo dei pm nella Procura più impegnata di tutte a perseguire i mafiosi, è “superare il sovraffollamento, anche attraverso una depenalizzazione che non si fermi all’abuso d’ufficio”. E dunque: il governo punta sulla riapertura delle caserme dismesse. Non depenalizza, né provvede a decongestionare le prigioni attraverso sconti di pena. Adotta una prospettiva carcerocentrica perché è un governo di “duri”, che di fronte ai criminali non transige. Ma con una simile intransigenza, si crea il paradosso di favorire i criminali più pericolosi, cioè i boss della mafia. I quali, grazie all’insufficienza di controlli legata, come spiega De Lucia, al sovraffollamento, possono rafforzarsi, anziché essere annichiliti, dal momento che il fatto stesso di mandare messaggi all’esterno nonostante la reclusione ripropone, come osservato sempre dal procuratore di Palermo nell’intervista al Corriere, “la continuità tra il carcere e il territorio di cui parlavano i pentiti negli anni Ottanta. Ci sono detenuti arrivati in cella al mattino che nel pomeriggio hanno chiamato a casa”, con i cellulari entrati grazie ai droni, “per farsi portare accappatoio e pantofole, destando sorpresa persino nei familiari. In tal modo”, è la sconcertante conclusione del discorso, anche chi nella mafia non è un “soggetto apicale” finisce per “diventarlo” grazie al “potere che è in grado di esercitare dietro le sbarre”. Bel capolavoro: a furia di essere duri e rigorosi, si rende ingovernabile la detenzione dei boss. È il paradosso della destra intransigente, che sull’altare della propria politica penitenziaria sacrifica un centinaio di disperati l’anno, quelli che si tolgono la vita. E che forse, dice De Lucia, in qualche caso si suicidano anche perché oppressi dalla “prevaricazione” esercitata in cella dagli “esponenti delle organizzazioni criminali”. Mafiosi più potenti, disperati che si suicidano: tutto per poter dire “noi sconti di pena non ne facciamo, al più ristrutturiamo qualche caserma dismessa”. E quella più avanti coi lavori, a Pordenone, arriverà fra due anni. Davvero vi torna tutto? Chiude l’Icam di Lauro: due bambine trasferite con le mamme nelle carceri di Milano e Venezia di Serena Palumbo Corriere della Sera, 25 febbraio 2025 L’Istituto a custodia attenuata per detenute madri di Lauro (Avellino) è stato aperto nel 2016 con finanziamenti stanziati dalla Regione Campania. Si dondolano sull’altalena. Giocano, spingendosi sempre più in alto. Alice e Carol (nomi di fantasia), 7 e 6 anni, cercano di raggiungere il cielo: l’unica “parte” del mondo esterno che intravedono oltre le mura alte e gialle. Quelle dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro, in provincia di Avellino, nel quale sono “rinchiuse” con le loro mamme. L’unico del Mezzogiorno e l’unico in Italia a essere esclusivamente destinato ad accogliere le carcerate con i loro figli. Ma che oggi è stato chiuso, costringendo le due bambine a essere trasferite in una sezione speciale delle carceri ordinarie di Milano e Venezia. Allontanate, ancora più del solito, dal territorio in cui sono cresciute. Dalla scuola che hanno frequentato. E dalle amicizie che a fatica hanno instaurato, vivendo un rapporto “insolito” con il mondo esterno. “L’ennesimo abuso al diritto all’infanzia”, sostiene il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Ennesimo, perché gli Icam (case circondariali nate per consentire alle madri carcerate di scontare la loro pena con i figli, senza rinunciare al diritto alla genitorialità) in Italia “dovrebbero essere una seconda scelta, che in realtà diventa la prima. La legge n.62/2011 prevede la reclusione di detenute madri accompagnate da minori in case-famiglia. Gli Icam sono da destinare solo ai reati con particolari esigenze cautelari. Ma lo Stato non finanzia la realizzazione delle strutture”, spiega Paolo Siani, pediatra ed ex deputato, che nel 2022 ha portato questa richiesta in Parlamento con una proposta votata all’unanimità alla Camera, ma mai arrivata al Senato per la caduta del governo Draghi. Ora che la casa circondariale avellinese chiude per sempre le sue celle, c’è solo una domanda che tutti si stanno ponendo: “Perché questa chiusura? - dice Samuele Ciambriello - Vorrei ricordare alle autorità che hanno ordinato questi trasferimenti durante l’anno scolastico che l’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sancisce il principio che ogni legge, ogni provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino deve avere una considerazione preminente. E allora perché questa fretta?”. Dentro l’Icam di Lauro - In Italia un numero di bambini che varia ogni giorno vive in “carcere”. Non hanno commesso nessun reato, eppure scontano una pena. Perché per quanto gli Icam abbiano attenuazioni e personaggi dei cartoni animati disegnati sulle pareti, restano delle case circondariali. E lo si nota non appena si imbocca la strada che porta all’Icam di Lauro, in provincia di Avellino. Dove fino a oggi hanno vissuto Alice e Carol. Sembra un capannone. A tratti un palazzetto dello sport poco all’avanguardia. Quelli di periferia, vecchi e malandati. Intorno nessun servizio. Ma lì dentro ci abitano bambini. Con limitate libertà, controllate e approvate. Non dalle madri, loro sono le prime a dover sottostare a regole. All’interno le “celle”: miniappartamenti disposti in fila su un corridoio, sulla destra e sulla sinistra, come fosse il pianerottolo di un condominio. All’interno un piccolo cucinino, un tavolo e due sedie, un letto e una culla, poi un bagno. Le porte sono blindate: alle 8 la polizia penitenziaria in abiti civili le apre; alle 21, invece, le chiude. Le finestre, assicurate con sbarre, danno sull’unico spazio aperto: un giardino con uno scivolo, un dondolo e due altalene. Quelle sulle quali Alice e Carol hanno cercato di “evadere”, dondolandosi fino a oggi. Nordio firma il trasferimento di 50 giovani detenuti delle carceri minorili a quello degli adulti di isabella De Silvestro Il Domani, 25 febbraio 2025 Il ministro autorizza lo spostamento di un gruppo under 25 reclusi nei penitenziari minorili. Saranno traferiti al Dozza assieme agli adulti, dove non mancano i problemi tra sovraffollamento e atti di autolesionismo. Garanti e associazioni protestano. Il decreto Caivano ha segnato un punto di svolta nella gestione della giustizia minorile, riducendo le possibilità di misure alternative alla detenzione e ampliando il numero di reati per cui i minori possono essere reclusi. Una delle conseguenze immediate è stato l’aumento della popolazione carceraria minorile, con strutture ormai oltre i limiti della capienza. Da giorni si discuteva della possibilità di trasferire giovani adulti dalle carceri minorili di tutta Italia al carcere per adulti di Bologna, ma ora c’è una data: il 25 febbraio. Quel giorno, il ministro Carlo Nordio firmerà il provvedimento attuativo che prevede la traduzione di cinquanta detenuti sotto i 25 anni - che per legge potrebbero ancora rimanere nel circuito della giustizia minorile - nella casa circondariale della Dozza. La conferma arriva dall’intervista rilasciata da Domenico Maldarizzi, Segretario nazionale UIL Polizia Penitenziaria, a Radio Carcere il 13 febbraio. Il trasferimento solleva preoccupazioni significative, a partire dall’impossibilità di garantire la separazione tra i giovani e i detenuti adulti, un principio fondamentale dell’ordinamento penitenziario minorile. Si creerebbe così un grave precedente, che permetterebbe di ricorrere ai trasferimenti punitivi per tutti i ragazzi considerati problematici, interrompendo così i percorsi rieducativi e riducendo le probabilità di un reinserimento efficace. Polveriera Dozza - Un’altra questione riguarda la scelta del carcere di destinazione, che registra un grave problema di sovraffollamento con 853 persone detenute a fronte di una capienza di 483 posti. Le condizioni della struttura sono già critiche: tre docce ogni cinquanta detenuti, una presenza di detenuti con problemi di tossicodipendenza del 30 per cento e un numero preoccupante di episodi di autolesionismo e aggressioni. In un contesto come questo l’arrivo dei ragazzi dalle carceri minorili significa sconvolgere i già precari equilibri di una struttura penitenziaria in crisi e “sfrattare” intere sezioni, stipando le persone recluse ancora più di quanto non accada già. Un carcere sovraffollato è una bomba a orologeria: aumentano le risse e gli eventi critici mentre l’accesso al godimento dei diritti - frequentare la scuola, accedere ai percorsi trattamentali, ai colloqui, alle attività lavorativo o sportive - diventa sempre più difficile. “Che fine faranno i detenuti che saranno ricollocati e spostati di sezione? Chi sta frequentando corsi universitari potrà ancora accedere alla biblioteca e agli spazi dedicati? Il Ministero e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria devono chiarire quali saranno le conseguenze di questa decisione”, chiede Gianluca Guerra di Volt, partito attivo sulla questione carceri. “È grave che si sia deciso di spostare i cinquanta minori tutti nello stesso carcere, invece di distribuirli in strutture diverse. Bologna ha già difficoltà a garantire i servizi necessari alla popolazione detenuta. Ci sono carceri in Emilia-Romagna meno affollate, come Parma o Ravenna, che avrebbero potuto accogliere una parte di questi ragazzi, garantendo più attenzione alle loro esigenze anche per le loro dimensioni più ridotte. Per di più questi ragazzi provengono da tutta Italia e non hanno radici sul territorio bolognese, il che rende la decisione ancora più insensata” afferma Silvia Panini di Volt. Le proteste - Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, e il Garante locale di Bologna, Antonio Ianniello, avevano chiesto al Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile, Giuseppe Sangermano, di convocare un tavolo tecnico con Regione, Comune e altri attori coinvolti. Ma l’incontro è stato posticipato a dopo il 25 febbraio, quando il trasferimento sarà probabilmente già avvenuto. Nel frattempo, Volt e altre organizzazioni hanno convocato un presidio davanti al carcere della Dozza per il 25 febbraio, con l’adesione di sindacati, partiti e associazioni. L’iniziativa nasce dall’opposizione a un provvedimento che, più che una necessità logistica, sembra rispondere a una scelta politica. Il rischio è quello di alimentare un clima di insicurezza in una città che si avvicina alle elezioni, previste per il 2026. “Bologna, storicamente di sinistra, sta diventando il bersaglio di un’operazione che strumentalizza il tema della sicurezza a fini elettorali”, denunciano i promotori del presidio, che avanzano richieste precise: fermare il trasferimento prima che sia troppo tardi e avviare un confronto istituzionale per tutelare i diritti dei detenuti, giovani e adulti. “Se davvero si vuole favorire il reinserimento dei minori che hanno commesso reati, la soluzione non può essere solo la detenzione. Servono alternative concrete, che garantiscano percorsi di crescita senza compromettere la sicurezza dell’intero sistema penitenziario”, conclude Silvia Panini. Riforma Cartabia: i tempi della giustizia accelerano, ma poco di Sara Biglieri Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2025 Il 28 febbraio segnerà il secondo anniversario dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, presentata come una svolta per ottenere la “semplificazione, speditezza e razionalizzazione” del processo civile, rendendolo così idoneo a garantire gli stessi standard di efficienza assicurati nei principali Paesi europei. Il bilancio, però, quantomeno ad oggi, non appare così positivo come auspicato dal legislatore. Da un lato, la Riforma si è scontrata con una realtà complessa, caratterizzata da atavici limiti strutturali ed organizzativi del “sistema giustizia” e da carenze di organico di magistrati rispetto al numero di controversie pendenti; problemi, questi, che non possono certo essere risolti tramite una mera modifica del c.p.c. Dall’altro, alcune scelte di fondo operate dalla Riforma, specie riguardo al nuovo assetto del processo di cognizione, non appaiono particolarmente felici. Ed il Correttivo, entrato in vigore nel novembre 2024 con l’intento di risolvere “difficoltà applicative e contrasti interpretativi”, si è rivelato un’occasione parzialmente persa, perché non ha inciso sui principali nodi problematici già emersi nella prassi con riferimento al processo di cognizione. Ad esempio, la prassi ha subito bocciato il rito “semplificato”, che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto diventare il nuovo rito di elezione per le cause non particolarmente complesse, garantendo tempi di definizione più brevi. In realtà, nella pratica è stato molto poco utilizzato sicuramente per i tempi incerti, e sovente troppo lunghi, per la fissazione della prima udienza; altro elemento che ne ha frenato l’impiego è l’incertezza sulla possibilità per il ricorrente di poter controreplicare alle difese avversarie con apposita memoria, rimessa all’esistenza di un “giustificato motivo”, sull’esistenza del quale le interpretazioni erano discordi. Il Correttivo ha chiarito che il giudice dovrà ora concedere termini per memorie “quando l’esigenza sorge dalle difese della controparte”; così facendo, l’incertezza è stata ridotta, ma il presupposto è stato circoscritto. Per incentivare l’uso del semplificato sarebbe forse stato più utile prevedere il diritto di replica delle parti a seguito di semplice richiesta, oltre a prevedere un dimezzamento del contributo unificato (come era per il “vecchio” processo sommario”). Altro elemento critico subito emerso nella prassi con riferimento al processo ordinario di cognizione è stata la fase introduttiva, con l’anticipazione delle verifiche preliminari e degli scambi delle memorie prima della udienza iniziale. Questa anticipazione (di scarsa utilità per l’accelerazione dei tempi) ha costretto il giudice ad adottare una serie di delicati provvedimenti “in solitaria”, senza contraddittorio tra le parti, che per altro come rilevato anche dalla Consulta (C. Cost. n. 96/2024) può comunque essere instaurato dal giudice pur nel silenzio della legge. Il Correttivo non è intervenuto su questo delicato tema per adattare il c.p.c. all’insegnamento della Corte costituzionale, né ha riformulato i brevissimi termini previsti per le memorie che hanno nella prassi reso estremamente difficile per le parti e i loro difensori predisporre le proprie difese (si pensi all’ipotesi di complesse perizie tecniche a cui si è costretti a rispondere con una controperizia in soli 10 giorni). Ciò premesso, vediamo qual è stato l’effettivo impatto della Riforma Cartabia sui tempi del processo civile, anche parametrato agli obiettivi del Pnrr. Primo dato abbastanza positivo è la riduzione, al 31 dicembre 2024, dell’arretrato civile “patologico” del 91,7% per i Tribunali civili e del 99,1% per le Corti di appello a fronte di un obiettivo del 95%. Desta invece preoccupazione un altro dato: i tempi di trattazione medi rispetto al 20i9 sono diminuiti solo del 22,9% a fronte dell’obiettivo del 40%, mentre gli arretrati civili c.d. “patologici” sono diminuiti del 70,3% nei Tribunali e del 66,8% nelle Corti d’Appello, a fronte dell’obiettivo complessivo del 90% fissato come obiettivo dal Pnrr entro il 3o giugno 2026. I dati pertanto dimostrano solo timidi segnali di miglioramento. I tempi della giustizia italiana rimangono ancora lontani da quelli europei che, secondo gli ultimi dati pubblicati nel 2024 dal Cepej, si attestano su una media di 591 giorni per l’intero processo civile. In Italia i tempi medi sono di ben 540 giorni solo per il primo grado di giudizio, a cui si devono aggiungere 753 giorni per l’appello e 1.063 per la Cassazione. Giustizia: la gestione disciplinare del Csm di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 25 febbraio 2025 La “giustizia domestica” del Csm, contrariamente a quanto talora si dice, è particolarmente rigorosa sui pochi casi gravi emersi su circa 9.000 magistrati in servizio. La gestione del disciplinare sui magistrati da parte del Consiglio Superiore della Magistratura è accusata da più parti di lassismo. Di qui la proposta del Governo di includere nella riforma sulla separazione delle carriere l’istituzione di una Alta Corte Disciplinare, sottraendo questa competenza al Csm. Nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2024 del Procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato (24 gennaio 2025) sono forniti dati statistici con i quali è opportuno confrontarsi. I numeri sui provvedimenti adottati nel 2024 confermano quanto già emergeva dalle statistiche dell’anno precedente. La “giustizia domestica” del Csm, contrariamente a quanto talora si dice, è particolarmente rigorosa. Delle 24 pronunzie di sanzioni, la maggioranza riguarda le tipologie di sanzioni più severe: Ammonimenti 0, Censura 10, Perdita di anzianità 8, Rimozioni 2. La sanzione massima, espulsione dall’ordine giudiziario, è stata pronunciata in due casi. Ma si devono aggiungere otto decisioni di “non doversi procedere” basate sulla cessata appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario: si tratta di dimissioni volontarie anticipate a seguito di apertura del procedimento disciplinare, quasi sempre a fronte di addebiti gravi. Questi 10 casi in totale (su circa 9.000 magistrati in servizio), uniti all’applicazione prevalente delle sanzioni più gravi attestano il rigore del sistema disciplinare del Csm. Si devono aggiungere poi 4 casi di sospensione dalle funzioni, misura cautelare applicata per gli addebiti più gravi e che, ferma restando la presunzione di innocenza che potrebbe portare nel giudizio di merito anche al proscioglimento, in molti casi si conclude con l’applicazione delle sanzioni più gravi. Naturalmente vi sono state anche pronunzie di assoluzione: una percentuale “fisiologica”, a meno che per il giudice disciplinare debba valere il principio di accogliere tutte le richieste dell’accusa. La iniziativa per il procedimento disciplinare è attribuita al Ministro della Giustizia e al Procuratore Generale della Cassazione: le iniziative del Ministro, che pure dispone per le indagini dell’Ispettorato generale e che nelle sue frequenti esternazioni addita le “malefatte” dei magistrati, sono state nel 2024 il 33.8%, un terzo del totale. Il Ministro smentisce sé stesso. Alle particolari garanzie di cui godono i magistrati deve corrispondere il livello professionale ed etico più elevato, ma non vi è dubbio che la giustizia disciplinare del Csm produce un rigore nemmeno lontanamente paragonabile a quello di altre giurisdizioni disciplinari. La dizione “giurisdizione domestica”, spesso usata con accento polemico, è in realtà caratteristica tipica dei sistemi disciplinari. Le norme disciplinari sono stabilite di regola per legge, ma si ritiene che la applicazione ai casi specifici debba essere attribuita ad una istanza dello stesso corpo, che da un lato conosce le dinamiche concrete di quell’organismo e dall’altro ha interesse a tutelare l’elevato livello professionale ed etico del corpo. La Costituzione, innovando sulla tradizione che prevedeva come “giudici disciplinari” istanze della stessa magistratura (Corte di Appello, Corte di Cassazione), attribuendo tale funzione al Csm, composto non solo da magistrati, ma anche da laici, ha attenuato il carattere di giustizia domestica. Nella riforma costituzionale recentemente approvata alla Camera in prima lettura la funzione disciplinare viene attribuita alla neo istituita Alta Corte disciplinare, che non è più prevista, come era stato in passato proposto da diverse parti, per tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa e contabile, ma solo per la magistratura ordinaria. È introdotto un giudizio di appello dinanzi alla stessa Alta Corte, in diversa composizione; non si prevede il ricorso per cassazione, che peraltro è imposto dalla Costituzione come garanzia in ogni procedimento giurisdizionale e tale è anche quello disciplinare. Ove si reintroducesse, come ineluttabile, con legge ordinaria il ricorso per cassazione (oggi previsto dinanzi alle Sezioni Unite civili) in caso di annullamento con rinvio sarebbe ben difficile comporre un terzo collegio dell’Alta Corte, dovendosi escludere i componenti che hanno composto il collegio di primo grado e quello di appello. La previsione di un giudizio di appello produrrà certamente tempi più lunghi per la definizione dei casi e la mancata considerazione dell’ineluttabile giudizio di legittimità potrebbe portare in taluni casi alla paralisi. Il tutto all’insegna del maggior rigore! Con i giudici e i pm separati i Csm ci costeranno il triplo di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2025 I Consigli saranno due, uno per la componente giudicante, l’altro per quella inquirente. La sezione disciplinare sarà corte autonoma. Saranno necessari nuove sedi, attrezzature e personale. Oggi un consigliere costa allo Stato 240 mila euro e 50 mila di spese. Buttiamola sui soldi. Che in tempi di gravissima crisi per le famiglie italiane alle prese coi rincari di tutto (gas, luce, cibo, per citare solo quelle cose di cui non si può fare a meno) contano assai. E guardiamo quanto rischia di costarci, se dovesse andare in porto, la riforma anti-giudici della separazione delle carriere. Devono ben saperlo i cittadini che andranno a votare al referendum. E dovranno chiedersi: riforma davvero necessaria o solo una resa dei conti? E poi: quanto ci costa questa modifica costituzionale visto che da un Csm se ne faranno due e la sezione disciplinare, oggi interna all’unico Csm, diventerà un’autonoma Alta Corte? Per intenderci subito, tre grandi istituzioni anziché una, solo per avere a che fare sempre con i magistrati? Partendo da un dato, oggi un consigliere del Csm guadagna 240 mila euro all’anno più i rimborsi spese per altri 50 mila. I consiglieri sono 30, di cui 20 togati e 10 laici. Tra questi ultimi il vicepresidente Fabio Pinelli. Ma la riforma Meloni-Nordio triplicherà tutti i costi. Tripli consiglieri. Tripli presidenti. Tripli palazzi. Tripli uffici. Triplo personale. Tra cui anche i magistrati segretari dell’ufficio studi che si occupa dei pareri e dei curricula dei candidati ai nuovi incarichi. Perché a fronte di un solo Csm ce ne saranno due, uno per i giudici e uno per i pm, e l’attuale sezione disciplinare diventerà un’Alta corte disciplinare autonoma. Dunque, da un unico palazzo, da un unico staff di dipendenti, autisti ad personam compresi, dobbiamo triplicare tutti i costi. Tre palazzi, di cui due, oltre l’attuale sede di piazza Indipendenza, da creare ex novo. Personale (segretari e assistenti) triplicato. Autisti triplicati. Uno scherzetto che - a far di conto a spanne - potrebbe costarci tre volte l’attuale spesa sostenuta per un solo Csm. Ma vediamo nel dettaglio. Alla luce di un fatto. Come ci insegnano i Centri per migranti in Albania, la Meloni non bada a spese quando si tratta di perseguire un progetto del tutto ideologico. Accade lo stesso per la separazione delle carriere che, in quanto legge costituzionale, si ferma ancora sui principi e non bada ai conti. Mentre la regola, in base all’articolo 81 della Costituzione, vorrebbe che ogni legge che comporta nuove spese debba indicare i mezzi per farvi fronte, con l’occhiuto controllo della Ragioneria generale dello Stato. Facciamoli noi allora e andiamo alla cassa. Spulciando l’attuale bilancio del Csm, e in particolare scorrendo le previsioni fatte per il 2024. Per vedere a spanne quanto potrà costare questa riforma della giustizia (punitiva e del tutto inutile) alle tasche degli italiani. La macchina che oggi governa le toghe - “l’autogoverno” della magistratura, espressione che alla politica non piace perché suona come il riconoscimento di un effettivo potere autonomo - secondo le cifre contenute nel “Conto finanziario preventivo per l’esercizio 2024”, prevedeva entrate per 43 milioni, ovviamente provenienti dal bilancio dello Stato, a fronte di 42,340 milioni di uscite. Così destinate: 5,9 milioni per retribuire i componenti del Csm, 27,8 per gli stipendi del personale, 8,3 destinati all’acquisto di beni e servizi. Ovviamente costano cari i componenti del Csm: 2,2 milioni per gli assegni destinati ai componenti laici, 1,2 per le indennità di seduta e 1,3 come rimborso forfettario per le indennità di missione. E anche 700 mila euro per l’assicurazione sanitaria di tutti i componenti. Poi 1,2 milioni per gli addetti all’ufficio studi. E ancora 300 mila euro per i buoni pasto non solo per i membri del Csm, ma anche per il personale. Nel capitolo sui beni e servizi ecco 860 mila euro per l’acquisto e la manutenzione di attrezzature elettroniche, e ben 3 milioni e 90 mila euro per rivedere il sistema informativo del Csm. Nonché 770 mila euro per biglietti, hotel e catering per tutti coloro che partecipano a incontri o seminari organizzati dallo stesso Csm. Lo sdoppiamento del Csm, nonché la creazione ex novo dell’Alta corte disciplinare, fa necessariamente lievitare la spesa ad almeno 130 milioni di euro, solo moltiplicando i costi di un ufficio per tre. E non è detto che sull’onda della “separazione” sempre e comunque anche la Scuola superiore della magistratura non vada “aggiornata”, prevedendo magari due Scuole differenti, una per i per giudici e una per i pm, in modo da non creare neppure lì una contiguità e pure l’occasione per darsi del tu e andare a cena assieme la sera. Oggi, con i suoi 50 dipendenti e le tre sedi di Scandicci, Napoli e Roma, la Scuola costa all’anno circa 8 milioni di euro, versarti dal ministero della Giustizia, che peraltro il Guardasigilli Carlo Nordio ha provveduto a sforbiciare tagliando a metà giugno 2023 ben 5 dei 13 milioni originari. E chi paga il malfunzionamento della giustizia, la lentezza dei processi, e i nuovi organi triplicati? Ovviamente i cittadini. Il gioco delle correnti? No, toghe scatenate contro tutte le riforme di Rinaldo Romanelli Il Riformista, 25 febbraio 2025 I magistrati sono pronti alla mobilitazione, prevista il 27 febbraio, per opporsi alla separazione delle carriere Dimenticano però che a minacciare davvero i princìpi di autonomia e indipendenza è l’affarismo correntizio. Una delle poche cose buone introdotte dalla riforma Cartabia del 2022 dell’Ordinamento giudiziario era la norma che non consentiva ai magistrati posti fuori ruolo, per ricoprire incarichi di stretta collaborazione con il ministro, di essere destinati immediatamente - una volta cessato l’incarico - a guidare una Procura o un altro ufficio giudiziario. Dovevano passare almeno tre anni dalla cessazione della funzione ministeriale. Un magistrato, oltre ad essere imparziale, dovrebbe anche apparirlo. E chi ha strettamente collaborato fino a ieri con un ministro, ovviamente, è sospettabile di qualche vicinanza politica con la parte che ha espresso, appunto, quel ministro. Inoltre si voleva evitare che l’incarico ministeriale fosse un trampolino di lancio per una brillante carriera all’ombra della politica. Con il Milleproroghe approvato di recente alla Camera, la norma è “congelata” e si applicherà solo agli incarichi ministeriali assunti dopo il 31 agosto 2026. Dunque per ora abbiamo scherzato, in attesa di un’altra proroga che arriverà prima del 2026, o magari dell’abrogazione della norma. Nel frattempo il Consiglio superiore della magistratura ha approvato nel dicembre scorso il nuovo testo unico sulla dirigenza giudiziaria, che ha stabilito i criteri in base ai quali i magistrati sono scelti per guidare gli uffici giudiziari e ha (ineffabilmente) inserito come elemento di merito, idoneo a pesare enormemente sulla scelta finale, l’aver ricoperto incarichi di diretta collaborazione con il ministro della Giustizia. Pare incredibile, ma è proprio così. Mentre politica e magistratura si scontrano pubblicamente accusandosi reciprocamente di indebite invasioni di campo, rimangono immutate - come se nulla fosse - le relazioni, gli scambi, le concessioni reciproche e la comune gestione di un potere che ormai da tempo ha abbandonato ogni separazione. Intanto l’Associazione nazionale magistrati continua a essere dominata da un tossico “affarismo correntizio che soffoca ogni spinta autoriformista in seno all’Associazione”, come scritto dal Dott. Andrea Mirenda, componente togato (indipendente e dunque non espresso dal sistema delle correnti) del Consiglio superiore della magistratura, che impedisce alla stessa Associazione di “essere il primo cane da guardia di un opaco autogoverno che, troppo spesso, è il primo a genuflettere i magistrati”. Parole simili a quelle usate qualche tempo prima da un altro noto magistrato, il Dott. Nino Di Matteo, che - anch’egli da indipendente - ha svolto le funzioni di componente del Csm nella precedente consiliatura. E riferendosi alle correnti ha detto: “Sono diventate veri e propri centri di potere che pretendono di condizionare tutta la vita del magistrato”. I magistrati (pochi, per il vero) che si aggirano da qualche giorno con coccarde tricolori appuntate sulle toghe e che si apprestano a scioperare il prossimo 27 febbraio contro la riforma costituzionale per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, bene farebbero a occuparsi di questi temi, che incidono pesantemente sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura e che - al contempo hanno portato in caduta libera la fiducia dei cittadini nel suo operato, anziché paventare inesistenti rischi di sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo. Nell’articolo 104 della Costituzione resterà scritto: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Solo il potere opaco delle correnti - in mano agli stessi magistrati che le governano - è stato ed è in grado di indebolire tale presidio e di “genuflettere” tutti gli altri magistrati che lo subiscono. Non certo una riforma che mira a rafforzare il giudice e mantiene oggettivamente inalterate le garanzie di indipendenza riconosciute a tutto l’ordine giudiziario. Caso Paragon. Spiato Don Mattia Ferrari, il sacerdote attivo con la Ong Mediterranea di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 25 febbraio 2025 “Tratti sempre più inquietanti”: è la denuncia che arriva dalla segretaria del Pd Elly Schlein riguardo alla vicenda dello spionaggio di attivisti e giornalisti che avrebbe coinvolto anche un sacerdote. Si tratta di “Don Mattia Ferrari, prete attivo con Mediterranea” che “è stato spiato con un software installato sul suo telefono”. Secondo Schlein, è dunque “urgente e necessario che il governo, e in particolare Giorgia Meloni, smetta di scappare e si impegni a chiarire al Paese chi sta spiando attivisti e giornalisti, perché qui sono a rischio le fondamenta dello stato di diritto. Abbiamo chiesto al governo di dirci quali entità statali hanno autorizzato l’installazione dei software di Paragon sui cellulari spiati, e il governo non sta dando queste risposte. Che cosa sta coprendo? Perché la Presidente del Consiglio trova il tempo di partecipare a ogni convention sovranista, ma non lo trova per fare chiarezza su questi fatti gravissimi e renderne conto al Parlamento? Le italiane e gli italiani meritano risposte ed è suo dovere fornirle. Da parte mia e di tutto il Partito democratico piena solidarietà e sostegno a Don Mattia Ferrari”. Si accoda alla richiesta Riccardo Magi, +Europa, che parla invece di “contorni agghiaccianti” e chiede: “Giorgia Meloni non può più fare finta di nulla e deve dire chiaramente cosa sta accadendo, chi è coinvolto e, soprattutto, da dove è arrivato l’ordine di intercettare queste persone”. La deputata Pd Laura Boldrini aggiunge: “Se Paragon ha affermato che questo software viene venduto solo ai governi e a determinate condizioni, Meloni non può continuare a fare finta di niente. Perché o lei non controlla più nulla, o sa e allora deve riferire in Parlamento. Il silenzio non è un’opzione”, conclude la deputata Pd. Intanto il fondatore e capo missione della ong Mediterranea Saving Humans Luca Casarini ha fatto sapere di essere stato sentito, proprio per la vicenda Paragon, dal centro operativo per la cybersicurezza della Polizia a Palermo su delega della procura di Palermo, dove lui stesso ha presentato un esposto, e di quella di Napoli (che ha aperto un fascicolo a seguito della denuncia pronunciata dal direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, anche lui spiato con il software Graphite di Paragon). La deposizione, durata più di 2 ore, è servita agli inquirenti per “acquisire informazioni sui tempi, sui modi e su come ho appreso il fatto di essere sottoposto all’attacco spyware” spiega Casarini. “Ho fornito indicazioni importanti - prosegue il fondatore di Mediterranea - sul contesto nel quale questo caso si è palesato: dal caso Almasri e quindi dal ruolo e dalla posizione assunta da me e da Mediterranea nel denunciare la mancata consegna alla corte penale internazionale del torturatore libico, fino alla pubblicazione delle intercettazioni secretate della procura di Ragusa e che riguardano una accusa rivolta a me e ad altri di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che sono finite sulle prime pagine di un giornale”. Casarini nel corso della deposizione ha parlato anche di “un account X, vicino ai servizi segreti libici, che si chiama Migrant Rescue Watch - spiega - sul quale sta già indagando la procura di Modena per minacce ricevute da don Mattia Ferrari”, lo stesso cappellano di Mediterranea Saving Humans, oggetto anche lui di intercettazioni da parte del software Graphite. Casarini ha riscontrato inoltre che, nel periodo in cui il suo telefono è stato oggetto di intercettazioni, la batteria del dispositivo “si scaricava con estrema velocità, pur essendo un prodotto nuovo”. I prossimi passaggi adesso riguarderanno le analisi che la procura condurrà sul telefono di Casarini oggetto di spionaggio. “Il dispositivo è già in possesso della procura. Le analisi verranno condotte alla presenza dei miei avvocati, insieme ai periti di parte e ai tecnici nominati dalla procura stessa”, conclude Casarini. Caso Paragon. Le istituzioni, la sindrome di Polifemo e l’indagine che nessuno vuole fare di Umberto Rapetto Il Manifesto, 25 febbraio 2025 Nessuno risponde sull’uso di Paragon e degli altri spyware. Un fatto grave, ma non sarebbe difficile capire chi ha agito. E perché. La sindrome di Polifemo attanaglia le istituzioni che, a chi domanda chi sia stato a spiare giornalisti e attivisti e a sfiorare il segreto del confessionale di un cappellano, risponde con forza “Nessuno!”. In questa Odissea si cerca chi sia pronto a vestire i panni di Omero e ad accompagnare il pubblico con un racconto che leghi insieme fatti, dichiarazioni e suggestioni che continuano a galleggiare tra i flutti agitati del naufragio della attendibilità. La ricostruzione di quanto è accaduto può trovare comprensibile ostacolo solo nel segreto di Stato che - finora - non sembra esser stato invocato da chicchessia, complice una presupposta estraneità del governo nella vicenda. Mentre si allunga l’elenco dei soggetti inaspettatamente bersaglio di controlli viscerali, si rende necessario troncare qualsivoglia chiacchiericcio giocando a carte scoperte una partita senza dubbio faticosa, dolorosa ma inevitabile. È in ballo la credibilità nazionale e non si possono fare sconti. Non è possibile che non si riesca ad individuare chi ha utilizzato un micidiale software in grado di eviscerare i soggetti presi di mira, predandone di ogni contenuto i dispositivi elettronici. Paragon Graphite, come altri prodotti di Nso e tante altre realtà produttrici di soluzioni tecnologiche particolarmente aggressive, non è un programmino che si trova gratuitamente in rete o che viene distribuito con Google Play o Apple Store. Parliamo di un sistema complesso ad utilizzo esclusivo di realtà di intelligence o di polizia con specifici vincoli di impiego, un’arma a tutti gli effetti le cui effettive potenzialità sono note soltanto a chi la forgia nei suoi blindatissimi laboratori di ricerca. Le fasi da considerare sono la scelta, l’acquisto, l’installazione e l’uso. Anche se sarebbe interessante saperne di più sui primi tre passaggi, concentriamoci sull’ultimo step di questo ciclo biologico. L’utilizzo di strumenti così delicati impone la definizione di un perimetro di impiego tale da evitare ogni ipotetico abuso. Paragon funziona su specifiche stazioni di lavoro, adoperato da personale abilitato ad hoc e con controlli serrati sulle operazioni svolte. Questo genere di regole, naturali ed ineludibili, trova radice storica nella legge 121/81 che, temendo comportamenti impropri, prevedeva la reclusione per gli appartenenti alle forze dell’ordine disgraziatamente caduti nella tentazione di eccedere nell’interrogare le banche dati. L’operatore infedele era già stato immaginato 44 anni fa e da sempre, per scovare potenziali responsabilità, esistono appositi registri elettronici che annotano ogni evento. Qualunque operazione venga svolta con un certo sistema determina la rigorosa archiviazione di data ed ora dell’attività, stazione di lavoro fisicamente individuata e localizzata, identificativo dell’operatore, verifica del livello di abilitazione, inserimento di password o di badge autorizzativi, contesto di intervento, chiavi di ricerca utilizzate, esito ottenuto, eventuali stampe eseguite o memorizzazioni su supporto digitale effettuate, tempo dedicato, iniziative correlate. Questo registro, di regola non manipolabile, si chiama log e sorprende che Copasir o altre entità non ne abbiano preteso la sua attenta lettura, magari supportata dalla collaborazione critica di qualche esperto indipendente gerarchicamente. Le audizioni in commissione (qualunque essa sia) non di rado sono su base dichiarativa e difficilmente tarate con l’approccio inquisitorio che forse dovrebbe tenere chi ha il pesante onere di controllare certi settori. Scoprire chi ha fatto cosa, quando, come e perché è solo l’aperitivo. L’antipasto potrebbe essere il capire almeno approssimativamente cosa fa Paragon con quel che ha installato. Siamo ai margini di un immaginario convivio luculliano. Le portate sono davvero tante. 41-bis, diritto a più “ore d’aria”? Parola alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2025 Oggi la Corte costituzionale terrà l’udienza pubblica sulla questione di legittimità dell’articolo 41 bis, nella parte in cui prevede che i detenuti possano usufruire di sole due ore d’aria. Sarà audito l’avvocato Valerio Vianello Accorretti, del foro di Roma, difensore di Giovanni Birra, un detenuto sottoposto al regime differenziato nel supercarcere di Bancali, in Sardegna. Grazie al suo ricorso, il magistrato di sorveglianza di Sassari ha sollevato la questione di costituzionalità, ritenendola rilevante per la presunta violazione di articoli fondamentali della Costituzione. La disciplina delle ore d’aria ha già registrato evoluzioni in passato, in linea con i principi costituzionali. Si pensi alla sentenza della Cassazione del 2019, che stabilì come i detenuti nel 41 bis abbiano diritto a due ore di permanenza all’aperto, salvo “motivi eccezionali”. Prima di quel pronunciamento, i reclusi nel regime differenziato potevano accedere agli spazi esterni solo per un’ora, mentre la restante ora era fruibile unicamente in aree interne dedicate alla socialità, come biblioteche o palestre. I giudici della Suprema Corte si espressero con chiarezza: qualora non sussistano specifiche esigenze di sicurezza, limitare ulteriormente il tempo all’aperto assume un mero carattere afflittivo, incompatibile con l’articolo 27, comma 3, della Carta, che vieta trattamenti contrari al senso di umanità. Un primo passo, dunque, è stato compiuto. Il principio consolidato anche nelle precedenti sentenze della Consulta sul 41 bis è chiaro: ogni restrizione applicata in regime speciale, se non giustificata da concrete esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza, perde legittimità costituzionale, trasformandosi in una misura puramente punitiva e pertanto inammissibile nel nostro ordinamento. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari (23 febbraio 2024) contesta il comma 2 quater dell’articolo 41 bis, che fissa a due ore (riducibili a una) il tempo all’aperto. La norma è ritenuta incompatibile con l’articolo 3 essendoci disparità ingiustificata rispetto ai detenuti ordinari che godono di quattro ore; l’articolo 27 con l’ostacolo alla rieducazione per l’assenza di attività alternative e l’articolo 32, ovvero il rischio per la salute psico-fisica, aggravato per ergastolani o anziani. Il Tribunale ha evidenziato come la struttura del reparto 41 bis di Bancali vanifichi le stesse ragioni di sicurezza invocate per giustificare la restrizione. Le celle dei detenuti, collocate in “varchi” con finestre affacciate su cortili interni, consentono ai quattro componenti di ogni gruppo di socialità di comunicare anche dalle proprie stanze, rendendo inefficace la limitazione delle ore d’aria. Infatti, emerge dall’ordinanza, se l’obiettivo è impedire accordi illeciti, questi potrebbero realizzarsi in qualsiasi momento, non solo durante le ore aggiuntive. La decisione, come detto, si inserisce in un solco giurisprudenziale consolidato. La Corte costituzionale, in passato, ha già dichiarato incostituzionali altre restrizioni dell’articolo 41 bis (come i limiti ai colloqui con i difensori o il divieto di scambiare cibi), ritenendole puramente afflittive e non funzionali alla sicurezza. Il Tribunale di Sassari richiama inoltre la Cassazione che ha stabilito come l’”ora di socialità” in spazi chiusi non possa sostituire il tempo minimo all’aperto, essenziale per la salute. Un paradosso emerge dal confronto tra l’articolo 41 bis e la riforma del 2018: mentre per i detenuti comuni il minimo di ore d’aria è salito a quattro, per quelli in regime differenziato è rimasto fermo a due. Il Tribunale contesta questa discrepanza, sottolineando che l’Amministrazione penitenziaria potrebbe comunque ridurre le ore per motivi specifici, senza necessità di una disciplina rigida. L’avvocato Valerio Vianello Accorretti, difensore del detenuto Giovanni Birra nel supercarcere di Sassari- Bancali, ha formalizzato con una memoria depositata il 5 novembre scorso le ragioni giuridiche a sostegno della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Sorveglianza. Il documento, inviato alla Consulta, approfondisce i tre pilastri della contestazione: violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), negazione della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.) e rischio per la salute fisica e psichica (art. 32 Cost.). Nella memoria, l’avvocato Accorretti ribadisce che la limitazione a due ore d’aria per i detenuti in regime 41- bis è “priva di giustificazioni concrete” in termini di sicurezza. Un passaggio chiave riguarda il “diritto vivente”: l’avvocato cita sentenze della Cassazione (n. 17580/ 2019) e della stessa Corte costituzionale (n. 143/ 2013 e n. 97/ 2020) che hanno già dichiarato incostituzionali altre restrizioni del 41- bis (come i limiti ai colloqui con i difensori o il divieto di scambiare cibi), ritenendole “puramente afflittive”. L’avvocato, inoltre, sottolinea un aspetto interessante che teoricamente dovrebbe chiudere la questione sulla sicurezza. La norma che regola l’applicazione del 41 bis evidenzia come la formazione dei gruppi di socialità nel regime sia sottoposta a criteri rigorosi, studiati per prevenire collusioni o conflitti. Le direttive escludono espressamente l’inserimento nello stesso gruppo di: detenuti con precedenti periodi di convivenza; nuovi ingressi al regime speciale insieme a ristretti con lunga permanenza; esponenti di spicco di organizzazioni criminali; membri della stessa cosca o di clan alleati o rivali. Queste regole, definite in modo dettagliato, garantiscono un equilibrio tra sicurezza e diritto a una socialità controllata. Da un lato, preservano l’ordine interno ed esterno, rafforzando la legittimità costituzionale del regime; dall’altro, consentono ai detenuti di condividere, seppure in spazi delimitati e sotto vigilanza, le ore d’aria e le attività comuni, evitando un isolamento totale che rischierebbe trattamenti disumani. Sul fronte sanitario, il documento cita i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che dal 2020 sollecita l’Italia ad allineare le ore d’aria del 41- bis agli standard minimi europei (4 ore). L’avvocato Accorretti chiede infine alla Consulta di seguire la sua giurisprudenza consolidata, dichiarando incostituzionale l’articolo 41- bis nella parte contestata, per ribadire che la sicurezza non può annullare i diritti fondamentali. Ora l’avvocato Accorretti sarà audito dalla Corte costituzionale, chiamata a valutare se le due ore d’aria siano effettivamente funzionali alla sicurezza o si riducano a un ‘ supplizio inutilè. Contemporaneamente, interverranno anche gli avvocati dello Stato Ettore Figliolia e Massimo Di Benedetto, i quali negano l’incostituzionalità della norma, sostenendo che la restrizione non ostacoli la rieducazione del detenuto né violi il diritto alla salute in modo sproporzionato. Anzi, sottolineano come la disposizione derivi da un bilanciamento tra sicurezza e diritti dei reclusi, evitando misure più drastiche come azzerare del tutto le ore d’aria. L’udienza odierna si preannuncia cruciale. La Costituzione garantisce anche ai detenuti del 41 bis il diritto a ‘ vedere il cielo’ oltre le due ore? La risposta arriverà non appena i giudici della Corte si pronunceranno. Naspi al detenuto se il lavoro in carcere finisce di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2025 Per la Suprema corte il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi. Stessi diritti dunque previdenza compresa. Il detenuto ha diritto all’indennità mensile di disoccupazione se il lavoro svolto in carcere finisce non per sua volontà. La Cassazione ricorda che il rapporto di lavoro del detenuto alle dipendenze della Pubblica amministrazione penitenziaria va considerato come un ordinario rapporto di lavoro, malgrado la sua particolare regolamentazione normativa. Via libera agli stessi diritti goduti dai lavoratori esterni, a iniziare dalla Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi). I giudici di legittimità respingono, dunque, il ricorso dell’Inps contro la decisione della Corte d’appello di riconoscere il trattamento di disoccupazione a un carcerato, dopo la decisione dell’amministrazione di interrompere un lavoro a progetto - della Cassa ammende che finanzia i progetti lavorativi dei detenuti in Italia - per la scadenza del contratto. Ad avviso dell’istituto di previdenza, la cessazione dell’attività non era dovuta all’iniziativa del datore ma rientrava in una logica di lavoro a rotazione. In più l’Inps negava una totale equiparazione del lavoro in carcere con quello del libero mercato, valorizzando alcune differenze strutturali: i detenuti non sottoscrivono un contratto ma vengono assegnati al lavoro; non ricevono una retribuzione ma una mercede inferiore ai limiti della contrattazione collettiva. E, soprattutto, veniva nel ricorso rimarcata la caratteristica del lavoro penitenziario, l’essenziale funzione rieducativa e riabilitativa del condannato. La Cassazione respinge però il ricorso partendo da un altro assunto fondamentale. Per gli ermellini, infatti, “il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi”. La Suprema corte sottolinea che l’evoluzione delle norme e della giurisprudenza hanno “eroso nel tempo il carattere di specialità del lavoro intramurario” e ha perso il suo carattere afflittivo e obbligatorio come strumento di disciplina e ordine del detenuto, per diventare la via maestra per il reinserimento sociale. Un obiettivo da raggiungere facendo acquisire ai detenuti una preparazione professionale in linea con le normali condizioni lavorative. L’organizzazione e i metodi di lavoro penitenziario devono, dunque, riflettere quelli del lavoro nella società libera, e lo stesso vale per i diritti soggettivi, dalla durata delle prestazioni non superiore ai limiti di legge al riposo festivo fino alla tutela assicurativa e previdenziale. Trentino Alto Adige. Un distretto per il reintegro dei detenuti di Mario Parolari Corriere del Trentino, 25 febbraio 2025 Dai 32 enti lavoro e iniziative sociali per sostenere i carcerati. Fugatti: “Trentino innovatore”. Da tutto il Trentino Alto Adige e dagli organi di governo, 32 soggetti firmatari tra enti e istituzioni si sono impegnati a dar vita al Distretto dell’Economia Solidale: “Per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone in esecuzione penale”. “È motivo di orgoglio vedere riuniti attorno a questo tavolo tutti gli attori principali della nostra comunità, in un percorso innovativo a livello nazionale”. Il tavolo a cui fa riferimento il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti è quello attorno a cui ieri 32 soggetti firmatari si sono impegnati a dar vita al Distretto dell’Economia Solidale (Des): “Per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone in esecuzione penale”. “Un percorso che punta al reinserimento lavorativo, al sostegno delle persone in esecuzione di pena che vogliono rientrare nel mondo del lavoro”, spiega Fugatti. Gli obiettivi sono il rafforzamento della responsabilità territoriale, la creazione di nuove opportunità lavorative per i detenuti e i soggetti in semilibertà, la promozione di percorsi formativi e il sostegno all’inclusione sociale dei minorenni sottoposti a provvedimenti giudiziari. I sostenitori dovranno informare le imprese su incentivi per l’assunzione di persone in esecuzione penale, promuovere iniziative culturali e sociali per l’inclusione e supportare il progetto di ristorazione esterno al carcere “Spini Pizza”. Un percorso destinato a svilupparsi attraverso nuove opportunità future, a cui collaborano la Provincia e i soggetti firmatari del Des: la gestione sarà a cura di enti del terzo settore. Il procuratore Sandro Raimondi ha spiegato come “il reinserimento rappresenti la chiave per non delinquere più”, auspicando che il progetto consenta di “lanciare un ponte fra carcere e cittadinanza”. Un plauso al progetto è arrivato anche dal sindaco Ianeselli, mentre il provveditore Santoro ha spiegato l’importanza del “percorso di rieducazione”. La direttrice della Casa circondariale di Trento Annarita Nuzzaci ha ringraziato il Trentino, un territorio dove una persona su cinque è impegnata nel volontariato, mentre il garante dei detenuti Pavarin ha elogiato la Provincia di Trento per la capacità di mettere a terra il progetto. “Uno dei primi obiettivi del governo è contrastare la delinquenza e riportare la sicurezza nelle nostre città - spiega il sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, senatore Andrea Ostellari. I dati sulla recidiva lo dimostrano: il condannato che impara un lavoro in carcere, quando poi torna in libertà nella gran parte dei casi non commette più reati. A beneficiarne non saranno solo i detenuti, ma il personale che opera nella Casa circondariale e tutta la comunità trentina”. Cremona. Suicidio in carcere. Allarme di sindacati e Camera Penale di Sara Pizzorni Cremona Oggi, 25 febbraio 2025 Un detenuto italiano di circa 40 anni psichiatrico si è tolto la vita questa mattina nel carcere di Cremona. Lo ha reso noto Uilpa Polizia penitenziaria, attraverso il suo segretario generale Gennarino De Fazio. “Si tratta”, ha spiegato De Fazio, “di un detenuto accusato di reati a sfondo sessuale e contro la persona”. L’uomo si è tolto la vita impiccandosi. A nulla sono valsi i soccorsi. “Sale così a 13 la drammatica conta dei reclusi che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno”, ha dichiarato De Fazio, “cui bisogna aggiungere un operatore. Siamo palesemente di fronte a una carneficina a cui non si pone, di fatto, alcun argine efficace e che testimonia ancor di più, qualora ce ne fosse bisogno, la drammaticità dell’emergenza penitenziaria”. “Anche la casa circondariale cremonese, con 551 detenuti presenti a fronte di 382 posti disponibili”, ha continuato il sindacalista, “si caratterizza per forte sovraffollamento e, con 180 agenti quando ne servirebbero almeno 335, per pesantissima carenza di personale”. Il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria ha ricordato che “dopo oltre due mesi dalle dimissioni di Giovanni Russo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Corpo di polizia penitenziaria sono ancora senza un capo. Il governo prenda compiutamente atto dell’emergenza e ponga un freno alle sofferenze di detenuti e operatori, quest’ultimi ormai stremati da turnazioni massacranti, carichi di lavoro debordanti e continue aggressioni. Bisogna potenziare gli organici del personale, assicurare l’assistenza sanitaria e riorganizzare l’intero apparato avviando riforme complessive. È impensabile proseguire a lungo in queste condizioni”. Il comunicato del Consiglio Direttivo della Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi” presieduto dall’avvocato Micol Parati: “Era accaduto pochi mesi fa, il 3 agosto 2024. È successo di nuovo oggi, 24 febbraio 2025. Un detenuto si è impiccato nella sua cella, nella Casa Circondariale di Cremona. La drammatica situazione delle carceri italiane non ha fine, continua a mostrarsi in tutta la sua atrocità, con il peso di un’altra vita in custodia allo Stato che è stata persa. La drammatica situazione delle carceri italiane è stata denunciata ovunque, da tutti coloro che a vario titolo hanno contatti con la tremenda realtà dei luoghi di detenzione, invano. Noi avvocati della Camera Penale la denunciamo ancora: la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale e l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento delle carceri e alla tragedia dei fenomeni suicidari. Il carcere di Cremona è arrivato ad avere una situazione tra le più critiche della Lombardia, con un tasso di sovraffollamento di oltre il 140 per cento. Il personale penitenziario è carente e in difficoltà a sua volta, sia per quanto riguarda gli agenti di polizia sia per quanto riguarda il personale delle aree educativa e sanitaria. La Camera Penale della Lombardia Orientale “Giuseppe Frigo”, di cui la nostra Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi” è Sezione, ha deliberato pochi giorni fa lo stato di agitazione proprio perché “Noi non ci rassegniamo e chiediamo con forza di tutelare la vita e la dignità delle persone detenute”. Noi avvocati della Camera Penale ci siamo sempre stati, ci siamo ancora in questo drammatico presente e ci saremo sempre, accanto ai nostri assistiti e per promuovere e tutelare il rispetto della legge e in particolare dei diritti fondamentali dell’uomo come riconosciuti e descritti nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali, vigilando sulla loro concreta applicazione. Esortiamo nuovamente le forze politiche sia del nostro territorio sia a livello nazionale a porsi concreta-mente il problema della drammatica situazione carceraria italiana e a trovarne soluzioni, con interventi immediati che possano rendere il carcere un luogo in cui resta viva la parola “futuro”. Agrigento. “Condizioni disumane nel carcere”, la denuncia delle famiglie di tre detenuti La Sicilia, 25 febbraio 2025 I familiari dei detenuti hanno presentato querela alla Procura di Agrigento. Le famiglie di tre detenuti nel carcere di Agrigento hanno presentato alla Procura di Agrigento una querela denunciando le “condizioni disumane dell’istituto di pena” in cui verrebbe commessa “una violazione sistematica dei diritti fondamentali e una tortura silenziosa”. A parlare sono Angela Crugliano, Concetta Pirito ed Erminia Cotena, mogli e sorelle di detenuti, sostenute dall’avvocata Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione “Quei Bravi ragazzi family Onlus” a cui i familiari si sono rivolti. Il documento, indirizzato anche al Garante nazionale dei detenuti e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, descrive un quadro drammatico. I carcerati patirebbero un freddo insopportabile e sarebbe vietato alle famiglie di introdurre giubbotti imbottiti, lenzuola di pile e scaldacollo, nonostante l’assenza di riscaldamento. “I nostri cari rischiano ipotermia: l’acqua entra nelle celle quando piove”, denunciano le famiglie. Il cibo sarebbe razionato e sovrapprezzo e ci sarebbe il divieto di fare entrare farina, lievito, salumi e formaggi. “Un pretesto per obbligarli a comprare alimenti a prezzi esorbitanti dentro il carcere”, accusano. Gravi anche le carenze igieniche. C’è un solo lavandino per cella, usato come bidet, lavello e per l’igiene personale. Docce senza acqua calda e celle infestate da scarafaggi, blatte e topi. Grave anche il sovraffollamento con celle progettate per una persona occupate da quattro detenuti, brande arrugginite, materassi infestati da acari e spazio vitale inferiore a 3 metri quadrati a testa. Uno spioncino posizionato di fronte alla doccia violerebbe la privacy dei detenuti: “Uno sfregio alla dignità”, scrivono ancora i familiari. “Le celle di Agrigento replicano le stesse condizioni per cui l’Italia è stata sanzionata - spiega l’avv. Chiesi -. Qui si violano anche le regole minime su igiene e spazio vitale”. Nel mirino anche la circolare del provveditore della Sicilia Maurizio Veneziano che, secondo la denuncia, “discrimina i detenuti siciliani” vietando beni essenziali consentiti altrove. “Dietro il pretesto della sicurezza, si nasconde un sistema per arricchire l’erario - afferma Chiesi -. Lo Stato lucra sulla pelle dei detenuti”. Le famiglie chiedono alla Procura di Agrigento ispezioni urgenti per verificare lo stato delle celle, sanzioni per i responsabili di maltrattamenti e omissioni e la sospensione immediata della circolare regionale sulle restrizioni. Lecce. “Il tempo qui si ferma, non conosciamo Facebook e tecnologie” di Valentina Murrieri lecceprima.it, 25 febbraio 2025 I detenuti si raccontano. Abbiamo incontrato tre ospiti dell’istituto penitenziario leccese, chiacchierando liberamente sul passato, sul percorso di introspezione ed elaborazione dei propri errori all’interno della struttura e del futuro che li attende fuori. “Il carcere fino a pochi anni fa non era pensato per le donne: non ci erano consentiti neppure trucchi e colore per capelli”. Uno. Due. Poi la terza spinta sulla porta antipanico che non si apre. Alle spalle, la voce dell’agente della polizia penitenziaria: “L’aiuto io. Questo è il segno di come qui sia facile entrare, ma poi tanto difficile uscire”. Una “città nella città” l’ha definita una delle detenute che abbiamo ascoltato. Con una popolazione di mille e 200 abitanti, quella di Borgo San Nicola è la più grande struttura detentiva di Puglia, dato confermato la direttrice Mariateresa Susca nell’intervista di cui riferiamo in un articolo a parte. Un microcosmo con regole tutte sue, dove la concezione di spazio e di tempo non segue le stesse logiche del mondo esterno. Lucia B., condannata alla pena dell’ergastolo, ha messo piede in carcere quando era 31enne. In 18 anni ne ha visti di cambiamenti: quelli personali, come quelli normativi. A partire dalla possibilità di tingersi i capelli, una delle prime domande che le abbiamo posto. Poiché la dignità umana, come è noto, la costruiscono i dettagli. “Quando sono arrivata qui dentro, nel 2007, non solo non era possibile introdurre il colore per i capelli, ma nemmeno i trucchi. Era vietato per ragioni di sicurezza avere anche la tenda alla finestra. Tanto che con le altre compagne di cella utilizzavamo il telo doccia che ci forniva l’amministrazione per ripararci dal sole”. Le successive circolari dipartimentali, seguendo le linee guida ministeriali, hanno via via ammorbidito il regime carcerario, umanizzandolo. Così assieme ai cosmetici, alle donne è stata anche consentita la scelta della tipologia di assorbenti da acquistare. Non più soltanto quelli distribuiti dal carcere, ma la possibilità di deciderne il modello in base ai propri bisogni. “Negli anni sono poi arrivate le borse frigo coi refrigeranti, senza più essere costrette a bere acqua calda anche in estate”, prosegue. “Così come è stato concesso ridipingere le celle con vari colori, rendendole meno punitive”. Una sempre crescente attenzione alla femminilità, in un luogo pensato originariamente per uomini. Resta, dal racconto di Lucia B., un luogo sul quale la società mantiene uno sguardo obliquo e diffidente. “In passato era un tabù, non venivano coinvolte le associazioni, le scuole per far conoscere le nostre dinamiche interne. Dal 2013, con l’apertura delle celle, abbiamo avuto modo di muoverci e socializzare: dalle 8 alle 18, oggi, circoliamo nella nostra sezione con le stanze aperte. Da una situazione di estrema rigidità, a una di maggiore interazione: prendere un caffè in una cella o nell’altra, la possibilità di pranzare assieme. Maggiore autonomia: la doccia che posso fare due o tre volte nella stagione estiva, che prima mi era invece concessa soltanto in orari prestabiliti e una sola volta. Piccoli benefici, ma rivoluzionari, che da fuori forse non vengono colti”. Lucia Bartolomeo, oggi 49enne, lavorava come infermiera al momento dell’arresto. “È stato difficile adattarmi, soprattutto con la consapevolezza di dover scontare una pena infinita. Ho dovuto fare un lavoro su me stessa, aiutata dagli operatori e dal cappellano del carcere”. Ci ha parlato della rabbia, “di quando ti rendi conto di aver trascinato la tua famiglia che, fino a quel momento, non aveva mai avuto a che fare con la giustizia. E poi le conseguenze su mia figlia, all’epoca una bimba di 5 anni, oggi laureata in Scienze criminologiche e Mediazione culturale”. La figlia è stata allontanata da casa con un decreto del Tribunale dei minori, ma ha potuto vedere la propria madre durante i colloqui: “la incontravo in una stanza adibita appositamente per non far pesare ai bambini il carcere”, prosegue la 49enne che, da un anno, gode di un regime di semilibertà, dopo aver attraversato l’iter graduale di reinserimento sociale. Lavora ormai da 15 anni in “Made in Carcere”, la sartoria che produce borse e accessori sia all’interno, che all’esterno della casa circondariale: lei che non aveva mai preso un bottone in mano prima di quel momento. “Esco alle 7 del mattino per andare al lavoro. Dopo otto ore raggiugo un domicilio che mi è stato assegnato su Lecce, in una apposita struttura che riceve detenuti con permesso. Qui posso svolgere attività risocializzanti e, molto più spesso, il disbrigo di pratiche. Chiedo licenze premio ai magistrati, ogni due mesi circa, per poter raggiungere i miei cari nella cittadina in cui vivono. Nel fine settimana sono loro a raggiungermi su Lecce. Il distacco dalla famiglia è una delle sofferenze indescrivibili: all’inizio vivi in funzione del colloquio settimanale che sembra non arrivare mai”. Com’è il rapporto fra detenute? Hai mai avuto problemi qui dentro? “Qui c’è un po’ di tutto, ma io ho sempre legato di più con le compagne di laboratorio e poi di sartoria. L’amicizia in carcere è una parola grossa: sono delle conoscenze, ma allo stesso tempo legami che supportano le fragilità. Ora sono da sola in cella, ma quando per esempio eravamo in tre, vi erano difficoltà legate allo spazio: se una era in piedi, le altre erano costrette a stare sedute e viceversa. I vestiti spesso restavano in borsa sotto il letto, perché non c’era sufficiente posto nell’armadietto”. Che cosa chiederesti, che cosa è importante oggi per un detenuto, le chiediamo. “Il lavoro. Se fuori è fondamentale, qui vale il doppio. Serve a restituirti il contatto con la realtà. Una certa continuità con la vita esterna. Un’ancora alla normalità. Vorrei che più aziende investissero sulle persone recluse, intendo su coloro che meritano per aver fatto un percorso riabilitativo. E poi chiederei un aggiornamento digitale: qui tutto si ferma. Pur non avendo telefoni o computer, sarebbe utile almeno essere informati su ciò che sta accadendo fuori: conoscere l’esistenza di Facebook, di Whatsapp, per esempio, in modo da non sentirsi spaesati. Come mi capitava le prime volte che varcavo il cancello, dove avevo difficoltà ad attraversare la strada: altre regole, le auto che sfrecciavano, lo spazio immenso”. Saverio L., 37enne barese, è detenuto da cinque anni: dopo la reclusione nel carcere della sua città e poi Turi, è arrivato in quello leccese. In cella ci era finito altre quattro volte, la prima a 18 anni, per una rapina in un supermercato, a Sannicandro. Poi si è messo a lavorare per una ditta nel campo della termoidraulica, con una figlia oggi 18enne. Poi sono arrivati gli altri due e, infine, il quarto: che gli ha cambiato la vita definitivamente. Ad averlo portato in un istituto penitenziario per l’ultima volta è stata la violazione dell’obbligo di firma al quale era sottoposto. E tu perché non ci andavi? “Avevo tre bambini e una testa un po’ così. Quando poi ho preso tra le braccia il piccolo, che oggi ha 4 anni e mezzo con seri problemi ai reni, ho chiuso con una certa vita”. Nel carcere di Lecce ha cominciato a consegnare i pasti agli altri detenuti della sua stessa sezione. “Ma quella mansione non permette di guadagnare molto. Sono altri i lavori qui dentro che consentono di mandare soldi alla famiglia: muratori, cuochi manutentori specializzati”. Come ti sei organizzato economicamente per il futuro? Quanto guadagni adesso? “Intanto ho seguito un corso all’interno del carcere per creare e curare i giardini e il verde pubblico. Ora mi occupo delle pulizie degli uffici della casa circondariale, dell’area esterna. Per circa 900 euro netti che invio ai miei cari”. Saverio L. ci racconta che la sveglia è fissa alle 5 e mezzo: un caffè, la doccia (ha il bagno in una grande cella, che condivide con altri due detenuti in un padiglione nuovo e dotato di riscaldamento a pavimento). “Alle 6.45 cominciamo a ripulire i vari blocchi, la sala colloqui, i bagni e poi gli uffici”. Ma confessa una grande paura: quella di non riuscire a trovare un impiego una volta fuori (probabilmente nel 2030). “Se sei un ex detenuto, difficilmente ti considereranno. Qui si ha tanto tempo per pensare e a volte, steso sul letto, penso alla paura per le mie figlie: quando troveranno un fidanzato in futuro, conosceranno i possibili suoceri e potrebbero essere imbarazzate per il mio passato. Per colpe mie, stanno soffrendo altri: penso anche a mio figlio e a tutte le volte al termine dei colloqui in cui mi dice “Stai con me, non te ne andare”. Ogni quanto lo incontri? “La mia famiglia mi raggiunge a Lecce ogni due settimane: in treno o, molto più spesso, con un’auto a noleggio. Mia moglie di solito si fa accompagnare dal piccolo o dalla mia figlia più grande, oggi 18enne. Ma ho anche a disposizione una telefonata al giorno da dieci minuti, avendo figli minorenni”. Anche lui, a 37 anni, vede nel lavoro la salvezza: sia all’interno, dove si ha la possibilità di essere impiegati a rotazione, poiché le mansioni non bastano per mille e 200 persone, sia una volta scontata la pena. “Più corsi e maggiori possibilità di reinserirsi”, conclude. Alla sua porta la giustizia ha presentato il conto quando si era ormai tirato fuori dalle dinamiche criminali delle rapine, fatte più per emergere e perché “voleva essere un duro”, più che per reale bisogno di denaro. È finito in cella che era intanto diventato un operatore socio sanitario Giovanni V., 35enne barese, trasferito a Lecce nel settembre del 2021 per un cumulo pena per fatti del 2008 e 2009. “Padre di un figlio oggi 16enne, mi ero intanto sposato con la mia nuova compagna e avuto un secondo bambino: ha 7 anni e purtroppo un disturbo autistico”. Davanti a questo terremoto psicologico, proprio nel momento in cui la tua vita sembrava aver preso la piega giusta, che cosa hai pensato? “Che dovevo comportarmi bene, per cercare di uscirne il prima possibile. Così mi sono iscritto subito a scuola (la sezione dell’Olivetti, all’interno del carcere), dove ho concluso il biennio dell’istituto commerciale. Ho imparato l’arte da barbiere e ora lavoro in Infermeria dove mi occupo delle pulizie degli spazi dell’area ambulatori”. Oltre allo studio e al lavoro, V. è uno dei detenuti che ha seguito un corso di teatro con l’Accademia Ama, andando in scena con lo spettacolo “La regina resta”. Lui e il resto della compagnia Papillon sono infatti saliti sul palco recitando più volte per gli stessi ospiti di Borgo San Nicola, poi per i famigliari e per gli esterni. “Non avrei mai pensato in vita mia che sarei finito in una compagnia teatrale”. Quando uscirai da qui, continuerai col teatro? Come fai a essere sicuro che non ricascherai nel mondo dell’illegalità? “Avevo già scelto, lasciando quella strada 16 anni fa. Ma continuare con questo hobby sarebbe duro: ora mia moglie fa la parrucchiera, fortunatamente abbiamo una casa dove vive anche il mio figlio maggiore. Ma la priorità sarà la ricerca di un lavoro: il mio sogno sarebbe poter fare l’oss, cercherò un impiego in una Residenza sanitaria, sebbene il mio sogno resti lavorare in un ospedale”. “Mia moglie è un pensiero fisso, mi manca, mi manca anche fisicamente. Peccato che non siano previste le “stanze dell’amore” come in alcuni istituti di altri Paesi dove potersi almeno abbracciare in intimità. Le scrivo infatti spesso delle lettere, sebbene venga a trovarmi. Ma mi piace l’idea che lei attenda le parole come un tempo. Ho un grande debito e sono preoccupato a saperla da sola. Come sola è mia madre, rimasta vedova lo scorso 3 gennaio. Un momento terribile in cui ho realizzato di aver perso mio padre. Ma l’amministrazione carceraria ha predisposto la scorta e sono stato così accompagnato dalla polizia penitenziaria alla messa, in una chiesa di Bari, per l’ultimo saluto. Sono riconoscente per la vicinanza che ho ricevuto qui dentro in quel momento, davvero da tutti: dalla direzione, altri a detenuti”. Anche per te, economicamente, non deve essere facile. Quanto si spende qui dentro? “Le spese che ci riguardano sono quelle relative alle sigarette e alla spesa, che ordiniamo su una specie di tablet e che ci viene consegnata il lunedì successivo: non tutti amano servirsi del menu del giorno, allora è frequente cucinare in cella. Si divide con i coinquilini. Piuttosto, il denaro mi servirà una volta uscito, perché tra due anni ci saranno a breve distanza il 18eesimo compleanno del mio figlio maggiore e la prima comunione del piccolo: a me la famiglia ha garantito le feste quando ero bambino, ora voglio siano garantite anche a loro”. Lecce. La direttrice del carcere: “Lavoro, studio, ma anche Yoga e Tai Chi per rivedere il passato” di Valentina Murrieri lecceprima.it, 25 febbraio 2025 Dopo aver diretto altri istituti penitenziari della Puglia, dal marzo del 2022 Mariateresa Susca è alla guida di quello leccese. L’abbiamo incontrata per affrontare i temi del sovraffollamento, del crescente numero dei suicidi e, più in generale, della finalità rieducativa e risocializzante cui la pena deve tendere. Con la sua popolazione di circa mille e 200 persone, quello di Borgo San Nicola è il più grande istituto penitenziario della Puglia. Degli ospiti una novantina di sesso femminile: sessanta nel circuito media sicurezza, le restanti in quello alta sicurezza, circuito quest’ultimo che ospita anche circa 200 uomini. Una “città nella città”, come lo definiscono le stesse persone detenute (e di cui riferiamo in un articolo a parte). Una realtà solo immaginata dagli abitanti di Lecce, resa distante non tanto dalle grosse mura di cemento armato, quanto dai tabù che spesso ne orlano il racconto. Una comunità fatta di detenuti in attesa di giudizio, altri condannati, altri con posizione giuridica mista. E poi c’è il circuito dei cosiddetti precauzionali tra i quali si annoverano i “sex offender”, il reparto infermeria, che ospita persone in carico al Servizio di psichiatria e chi, affetto da patologie organiche, stabilmente o temporaneamente necessita di maggiori cure sanitarie, e l’Articolazione di tutela della salute mentale per la presa in carico delle persone in stato di detenzione alle quali viene diagnosticata una patologia psichiatrica ai sensi degli articoli 111 e 112 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. In occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario il capo della Procura di Lecce, Giuseppe Capoccia, ha sottolineato l’annoso problema del sovraffollamento carcerario, che va a miscelarsi, in una tempesta perfetta, con l’altra criticità: la carenza di organico in carcere, agenti penitenziari in primis. Ne abbiamo parlato direttamente con la direttrice del carcere di Lecce, Mariateresa Susca: dopo anni di direzione di altri istituti di pena della regione, dal 2022 è alla guida della casa circondariale di Borgo San Nicola. Direttrice, ne ha parlato di recente anche il procuratore generale Capoccia, ma lo denunciano spesso i parlamentari in visita nel carcere, l’associazione Antigone e i sindacati della polizia penitenziaria: come si fa ad amministrare un istituto con oltre 400 ospiti in più rispetto alla sua capienza? “Le criticità e le difficoltà che quotidianamente affrontiamo sono comuni a tutti gli istituti penitenziari del territorio nazionale. Certo l’istituto leccese, il più grande della regione, ha una struttura organizzativa particolarmente complessa- 1200 persone detenute ed un organico di circa 650 unità, tra polizia penitenziaria e personale del Comparto funzioni centrali- che rende la situazione altrettanto difficile. Il sovraffollamento incide pesantemente su tutte le attività organizzate a favore della popolazione detenuta e su tutti i servizi, sia quelli di vigilanza che amministrativi, a causa, anche, delle gravi carenze organiche. L’amministrazione centrale sta compiendo ogni sforzo possibile per potenziare gli organici favorendo nuove assunzioni, è di gennaio un nuovo bando di concorso per più di 3mila unità di agenti, tuttavia i numeri dei collocamenti in quiescenza sono ancora superiori rispetto alle nuove assegnazioni, nell’anno 2025, 45 saranno i pensionamenti nelle file della Polizia penitenziaria dell’istituto leccese. Ad essere penalizzato è il livello di attenzione che l’istituzione deve rivolgere alla persona detenuta ed alle sue esigenze, la qualità delle relazioni, le opportunità trattamentali, i livelli di sicurezza, a fronte di carichi di lavoro sempre più gravosi. È grazie all’impegno, alla professionalità ed al lavoro che va ben oltre l’ordinario di tutto il personale - polizia penitenziaria, funzionari giuridico pedagogici, personale addetto ai diversi settori operativi dell’area contabile, cappellano ed operatori che a vario titolo collaborano con la direzione - che riusciamo a gestire e contenere le criticità, raggiungendo anche risultati importanti. Anche l’ottimo rapporto con tutte le istituzioni del territorio, sensibili ed attente alle problematiche ed esigenze del penitenziario, e la collaborazione di enti e associazioni particolarmente attive e propositive rispetto ad iniziative a favore della popolazione detenuta, facilita ed agevola il lavoro e contribuisce a far sì che il carcere venga percepito e vissuto come una realtà del territorio, perché è lì che il detenuto ritornerà quando avrà terminato di espiare la pena. Il tempo della pena ha senso se si lavora affinché la persona detenuta possa cogliere ed interiorizzare il valore del rispetto delle regole, acquisire consapevolezza e fiducia nelle proprie potenzialità, così da rivedere il proprio passato criminale e “costruire un futuro diverso”. E questo è possibile solo se si pone alla base delle azioni la centralità della persona detenuta e dei suoi diritti, se si è convinti che il cambiamento sia possibile, se il carcere, istituzione totale, ha il coraggio di negare la sua stessa natura, costruendo una rete di relazioni positive.” Nelle recenti visite istituzionali, come quella della senatrice Ilaria Cucchi, è emerso un uso massiccio di psicofarmaci legato ad un profondo disagio psicologico in carcere… “L’impatto con il carcere è indubbiamente traumatico, non si può negare che dal punto di vista psicologico non sia un evento destabilizzante che può portare alla comparsa di patologie, ad esempio di natura depressiva, e questo sia nella prima fase, quella dell’ingresso, che nel corso della detenzione, nei momenti ad esempio di particolare fragilità a causa del verificarsi di eventi negativi nella vita personale o familiare del detenuto, ma credo che per affrontare un problema, come quello dell’uso degli psicofarmaci in carcere, così come qualsiasi altro problema venga rilevato in carcere, e non sono pochi, occorra partire da chi entra in carcere, da chi il carcere “accoglie”. Molte le persone affette da dipendenze da droga, alcool e/o farmaci, in aumento i soggetti a cosiddetta. doppia diagnosi (persone che presentano oltre alla dipendenza patologica anche disturbi psichiatrici come gravi disturbi di personalità), in aumento i soggetti con patologie psichiatriche anche gravi. Se il disagio e la marginalità non si affrontano all’esterno del carcere in modo adeguato possono portare alla commissione di reati ed allora al carcere si chiede di gestire situazioni complesse e addirittura risolverle. I servizi specialistici all’interno del carcere si occupano della presa in carico di queste persone, attivano i protocolli di cura e assistenza, interagendo con gli operatori penitenziari per la definizione di piani di trattamento individualizzati. La cura farmacologica è accompagnata da interventi di sostegno mirati che possono prevedere anche il coinvolgimento in attività lavorative e laboratoriali a fini ergoterapici. Ma anche in questo ambito occorre fare i conti con la carenza di personale sanitario, e spesso con l’impossibilità di prevedere percorsi all’esterno del carcere o nel corso dell’esecuzione penale o al termine della pena, pensiamo a coloro che devono essere collocati nelle Rems e che nel frattempo restano in carcere per indisponibilità di posti e lunghe liste di attesa, o a coloro che privi di riferimenti familiari non possono essere collocati in comunità per problemi legati al rimborso delle rette.” Riuscite ad individuare anche quelle avvisaglie di inclinazioni al suicidio, altra piaga che affligge le carceri? “Ricordo un detenuto segnalato per i suoi comportamenti oppositivi, sintomo di un forte disagio, che abbiamo agganciato grazie al coinvolgimento in un corso di Tai - Chi (iniziativa particolarmente interessante per i 10 detenuti partecipanti), o ancora detenuti che in momenti di particolare fragilità sono stati coinvolti in attività laboratoriali, come ad esempio la creazione di manufatti o gruppi di lettura e scrittura creativa … L’osservazione e l’ascolto dei detenuti da parte degli operatori fornisce elementi preziosi nella prevenzione del rischio suicidario, in alcuni casi le segnalazioni sono giunte anche dai compagni di cella, preoccupati per uno stato di prostrazione o prolungata e sospetta inattività o dagli stessi familiari allarmati per una mancata telefonata o un tono di voce più triste del solito. E poi c’è il Protocollo per la prevenzione del rischio suicidario tra Direzione e Asl che agisce sulle situazioni rispetto alle quali si è manifestato un evento o una richiesta di aiuto o in cui si è riscontrata una criticità e che prevede frequenti riunioni di staff multidisciplinare. Massima l’attenzione inoltre per i cc.dd. detenuti invisibili, coloro che all’atto dell’ingresso non hanno manifestato particolare disagio, e che continuano a non manifestarlo nel prosieguo della detenzione, che non verbalizzano ideazioni suicidarie, né compiono gesti autolesivi ma abbiano ridotti o nulli contatti con l’esterno, o vivano la detenzione autoisolandosi: non partecipano ai momenti di socialità con gli altri detenuti, mostrano indifferenza per le attività, non richiedono colloqui con gli operatori.” Droga e cellulari introdotti in carcere tramite i droni... “Un fenomeno che purtroppo riscontriamo con sempre maggiore frequenza è l’introduzione di sostanze stupefacenti e telefoni cellullari mediante l’utilizzo di droni; l’amministrazione sta adottando contromisure per impedire tale illecita introduzione che desta particolare preoccupazione ed il comando e tutto il personale di polizia penitenziaria è costantemente impegnato, pur con le difficoltà dovute alla carenza di organico, nelle attività di contrasto al fine di ridurre il rischio di eventi critici che possano pregiudicare l’ordine e la sicurezza interna.” Dalle chiacchierate con i detenuti è emerso il ruolo salvifico del lavoro. Troppo poco però perché a rotazione ed emerge la paura di non riuscire a trovarlo una volta scontata la pena... “Indubbiamente il lavoro è uno degli elementi del trattamento sul quale occorre investire sempre più energie e risorse. Consente al detenuto di sottrarre il tempo all’ozio, sperimentare il rispetto delle regole e l’impegno, avere la possibilità di non essere un peso per la famiglia, anzi riuscire in taluni casi anche a contribuire in parte alle esigenze della propria famiglia ed imparare un mestiere. Nell’istituto di Lecce le attività lavorative alle dipendenze dell’amministrazione consentono il funzionamento di servizi come le cucine, i magazzini, la manutenzione ordinaria del fabbricato, gli acquisti dei generi consentiti da parte dei detenuti che facciano richiesta e poi ancora tutte le attività di pulizia ed altro. Sono lavori a rotazione, ogni 4 mesi per i lavori generici ed annualmente per quelli specifici, non consentono nella maggior parte dei casi l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro, e sono sempre troppo pochi, circa 360, rispetto alla popolazione complessiva ed alle richieste pressanti e numerose. Vi è poi il laboratorio di falegnameria, dove sono impiegati 10 detenuti che si occupano della realizzazione degli arredi delle camere di pernottamento di cui necessita l’istituto leccese, ma anche altri istituti penitenziari. Questa attività fa sì che il detenuto acquisisca specifiche competenze ed abilità anche perché il laboratorio è dotato di macchinari all’avanguardia per il cui uso è stata organizzata una formazione mirata. Infine sempre in tema di lavoro vi sono le attività alle dipendenze di ditte esterne, qualificanti e formative: un laboratorio di rigenerazione di router, il Made in Carcere, borse e accessori con tessuti di riciclo, un panificio ed anche la produzione di prodotti ortofrutticoli coltivati nelle nostre serre. Sono esperienze estremamente interessanti ed utili anche perché consentono di creare un ponte con l’esterno. I detenuti assunti, quando ricorrono le condizioni previste dalle norme, hanno la possibilità di essere ammessi ai sensi dell’art.21 dell’ordinamento penitenziario, alle medesime attività anche all’esterno del carcere, vi è una progressione graduale nel trattamento che consente di sperimentare il soggetto fuori dal carcere, di verificare che il detenuto sappia corrispondere alla fiducia accordatagli rispettando le regole, di rinforzare la sua motivazione ed agire positivamente sulla sua autostima. In questo momento sono al vaglio della Direzione altre proposte che ci auguriamo possano concretizzarsi.” Puntare sulla formazione incide sul reinserimento. Ma risulta davvero efficace per la rieducazione e contro il pericolo di recidiva? “La formazione al pari del lavoro costituisce una valida opportunità trattamentale attraverso la quale poter perseguire la rieducazione, e direi meglio l’educazione del detenuto, ed il reinserimento sociale. Il carcere di Lecce è Polo Universitario, nel 2022 a seguito del Protocollo istitutivo è stata inaugurata un’aula universitaria. I detenuti iscritti a diverse facoltà sono al momento 21 e vi sono stati anche un paio di detenuti che hanno conseguito il diploma di laurea. Inoltre l’istruzione scolastica è garantita in collaborazione con l’Istituto Tecnico Olivetti ed il Cpia. Al momento non vi sono corsi di formazione professionale ma presto verrà avviato un corso di pizzaiolo, e vi sono interlocuzioni con la Scuola edile per poter avviare corsi per il conseguimento di qualifiche professionali. Nell’anno 2023 in collaborazione con la Regione Puglia un interessante corso di formazione per falegnami che ha visto coinvolti 110 detenuti, alcuni dei quali hanno avuto l’opportunità di lavorare all’interno del laboratorio di falegnameria. Anche sul fronte della formazione si deve investire sempre di più perché è di tutta evidenza che l’ottenimento di una qualifica professionale possa offrire una opportunità lavorativa al termine della pena. Le attività trattamentali, siano esse lavorative o altro, favoriscono e costruiscono le buone relazioni, stimolano percorsi di revisione critica e rivisitazione del proprio passato. Certo i numeri della recidiva sono sconfortanti ma io credo di dover lavorare concentrandomi su cosa possa fare oggi, su come sia possibile migliorare il tempo che il detenuto deve trascorrere all’interno del penitenziario, e le sue condizioni, stimolando ruoli e dinamiche basati sul rispetto della persona, sulla condivisione e sullo scambio e non sulla forza, sul controllo, sulla sfida e sulla violenza”. Firenze. “Garante comunale dei detenuti, bando discriminatorio” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 25 febbraio 2025 “Altro diritto” contesta il requisito della cittadinanza italiana e diffida Palazzo Vecchio. “Il bando per il garante dei detenuti è discriminatorio: prevede solo candidati italiani”. Con questa motivazione l’associazione “Altro diritto” ha presentato una diffida al Comune di Firenze sull’elezione del prossimo garante dei detenuti. Ecco il passaggio sotto accusa: “Alla carica di Garante per i diritti delle persone private della libertà personale è preposto un/a cittadino/a italiano/a con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, oppure nel campo delle attività socio-sanitarie negli Istituti di prevenzione e pena e nei Servizi sociali, oltre che con esperienze acquisite nella tutela dei diritti”. Secondo Altro diritto questo requisito “si pone come discriminatorio nella parte in cui non consente la possibilità di partecipare a tale avviso anche ai cittadini europei, nonché di Paesi terzi che godono del diritto della parità di trattamento”. L’associazione invita Palazzo Vecchio a modificare il regolamento, riaprendo così il bando per il successore di Eros Cruccolini. Ad accorgersi della discriminazione è stata proprio una volontaria di “Altro diritto”, un’avvocatessa di origini brasiliane che voleva candidarsi alla carica di Garante, Maria Luisa Caixa, sposata con un cittadino italiano e madre di figlio italiano. Oltre a lei, sono almeno altri tre i candidati. Tra i favoriti c’è Massimo Lensi, dell’associazione Progetto Firenze, che negli ultimi anni si è occupato molto di carcere. Lensi, attivista e scrittore, è noto per il suo impegno sui temi dei diritti umani e del sistema penitenziario. C’è poi don Vincenzo Russo, ex cappellano di Sollicciano e attuale responsabile area carcere per la diocesi di Firenze, che ha ottenuto il via libera alla candidatura anche dall’arcivescovo Gambelli. Don Russo, presidente della Madonnina del Grappa, è impegnato da anni nella lotta per i diritti umani all’interno del carcere, con particolare attenzione ai reclusi di Sollicciano. Tra i candidati anche Katia Poneti, attualmente impegnata all’interno dell’ufficio del garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani. Anche lei esperta di carcere, attiva nel campo dei diritti umani e della salute mentale. Forlì. I detenuti del carcere si raccontano. La legalità come valore da preservare di Valentina Paiano* Il Resto del Carlino, 25 febbraio 2025 Gli studenti della scuola Orceoli riflettono sulle condizioni dei reclusi grazie alla storia di uno di loro. Antonio porta tra i banchi la sua esperienza: “Sono stati anni difficili, la vita in prigione è dura e spietata”. Tra le varie esperienze che la nostra classe ha affrontato negli ultimi mesi, la più significativa è stata sicuramente l’opportunità di incontrare un ex detenuto del carcere di Forlì. Abbiamo riflettuto su che cosa sia la legalità e imparato a darle il giusto valore. Era il 25 novembre scorso quando nell’Aula Magna della scuola Orceoli, abbiamo ascoltato il racconto di Antonio, che ci ha regalato la sua storia personale per invitarci a riflettere sulle conseguenze delle nostre scelte. Accanto a lui l’ex vicecomandante del carcere di Forlì, Mariateresa D’Agata, che ci ha fornito un punto di vista diverso sulla vita in carcere, ma sempre con parole cariche di umanità e possibilità di riscatto. Antonio, ora 45enne, all’età di 30 anni si trovò ad affrontare una grave crisi economica. Non riuscendo più a pagare le bollette e l’affitto, una sera, preso dalla disperazione, decise di rapinare l’incasso di un negozio della sua città. Dopo qualche giorno fu catturato dalla polizia e venne condannato a due anni di carcere. “É stato il periodo più brutto della mia vita - ha raccontato Antonio -. Appena entrato in prigione, gli altri detenuti mi hanno preso di mira”. Il momento della pausa caffè, ad esempio, era sempre un pretesto per essere aggredito verbalmente e fisicamente. Nonostante il suo reato non fosse stato grave come quello di altri, si trovò a dividere la cella con compagni violenti. Un evento che ha segnato profondamente la sua permanenza in carcere è stato il tentato omicidio a suo danno, architettato da alcuni suoi compagni di cella. Si era diffusa tra i detenuti la falsa notizia che ogni volta che un carcerato moriva, diminuivano gli anni di detenzione degli altri. Un giorno i compagni di Antonio decisero di togliergli la vita: una volta che lui si fosse addormentato, avrebbero legato le lenzuola insieme come corda per strangolarlo. “Fortunatamente me ne sono accorto in tempo e ho iniziato a urlare, chiamando le guardie”, ha continuato a raccontarci con la voce a tratti interrotta. Siccome una regola fondamentale del carcere è “non fare la spia”, quando fu convocato in ufficio dalla responsabile del carcere non confessò l’accaduto. “Il silenzio è il segreto per vincere, l’indifferenza per sopravvivere”. Da quel momento venne trasferito in un’altra cella, da solo, ma per la paura di essere aggredito nuovamente, rimase chiuso lì per mesi. Non usciva nemmeno per l’ora d’aria. Nonostante tutto, in carcere Antonio non perse la sua umanità. Qualche mese dopo il suo isolamento, misero in cella con lui un diciottenne, condannato per un grave reato. Il ragazzo piangeva di continuo. Antonio decise di aiutarlo: gli spiegò tutte le regole per sopravvivere nel carcere. In carcere bisogna combattere contro il “non fare niente, possedendo niente”, infatti molti detenuti si allenano come se fossero in palestra con qualunque oggetto. “Sono stati anni molto difficili e pericolosi perché la vita in carcere è dura e spietata”, ha concluso. Il suo terribile gesto poi ebbe conseguenze anche familiari: sua moglie chiese il divorzio, i parenti non gli fecero più visita. La perdita degli affetti è una terribile conseguenza su cui ci ha fatto riflettere, soprattutto quando ha ricordato il figlio, per il quale sente di essere stato un pessimo esempio. Sono passati tanti anni dalla rapina, ma Antonio si ricorda benissimo il momento in cui ha buttato al vento tutta la sua vita. “Sono stati anni molto difficili e pericolosi perché la vita in carcere è dura e spietata”. Le parole di Antonio ci hanno aperto gli occhi sulla realtà del carcere. Noi tutti pensiamo che questa storia ci abbia aiutato a capire il valore della vita. Lui ha commesso uno sbaglio, ma è riuscito a trasformare la sua storia in una grande lezione per noi. Oggi Antonio va nelle scuole e porta la sua preziosa testimonianza. Lo ringraziamo per essersi raccontato senza vergogna e timore di essere giudicato. *Classe 3ªB Trapani. Crivop Italia Odv: volontariato in carcere, un impegno che continua primapaginatrapani.it, 25 febbraio 2025 Un momento di gioia per le famiglie dei detenuti della Casa Circondariale di Trapani. Fondata a Messina il 1° dicembre 2008 da Michele Recupero, la Crivop Italia Odv è attualmente attiva in sette regioni italiane e opera in oltre 20 istituti penitenziari, grazie all’impegno di circa 190 volontari. L’attività nel settore penitenziario ha avuto inizio nel marzo 2006, prima in forma informale e, dal 1° dicembre 2008, con una struttura ufficiale. La Crivop Italia Odv si dedica al sostegno morale e materiale di numerosi detenuti e persone sottoposte a misure alternative, fornendo supporto anche alle loro famiglie. L’8 febbraio 2021, è stato siglato un protocollo d’intesa nazionale con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma, rinnovato il 24 giugno 2024, a conferma dell’impegno costante per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti. La Crivop Italia Odv, organizzazione di volontariato penitenziario attiva dal 2008, promuove il progetto “Un’ora di arcobaleno”, un’iniziativa dedicata alle famiglie dei detenuti della Casa Circondariale di Trapani. L’evento si terrà lunedì 24 febbraio 2025, con l’obiettivo di creare un momento di serenità, amore e speranza, in linea con quanto previsto dall’art. 28 dell’ordinamento penitenziario, che sottolinea l’importanza di mantenere e rafforzare i legami familiari dei detenuti. Già sperimentato con successo in altre strutture penitenziarie italiane, il progetto è rivolto ai figli dei detenuti e delle detenute, offrendo loro l’opportunità di trascorrere del tempo in un ambiente più accogliente e giocoso insieme ai propri genitori. Dalle 9:00 alle 12:00, sette volontari della Crivop Italia Odv, insieme a tre giovani animatori del gruppo “La Bussola” di Palermo, intratterranno i bambini con attività ludiche e momenti di condivisione. Per l’occasione, il Magistrato di Sorveglianza ha autorizzato la partecipazione di circa 10 bambini di età inferiore ai 10 anni, accompagnati dalle loro mamme, e di 8 detenuti, che potranno vivere un’esperienza di affetto e vicinanza con i propri figli. L’incontro si aprirà con un piccolo rinfresco offerto dalla Crivop Italia Odv, seguito da giochi e attività di animazione, che permetteranno ai bambini di interagire con i loro genitori in un clima di gioia e spensieratezza. Un sentito ringraziamento va alla Direzione dell’Istituto, e al Comandante della Casa Circondariale, per la disponibilità e l’autorizzazione concessa alla realizzazione dell’evento. Palermo. Nella sartoria che ricuce le vite di Paola Pellai Confidenze, 25 febbraio 2025 A Palermo, una bella iniziativa sociale insegna alle persone più fragili a realizzare abiti con ago, filo e macchina da cucire. Riparando non solo gli gli strappi dei tessuti, ma anche quelli dell’anima. Un semplice filo può ricucire il mondo: si impara alla Sartoria Sociale, nel quartiere Malaspina a Palermo. “Qui l’inclusione non si promette, si fa” spiega Rosalba Romano, assistente sociale di lunga esperienza e socia fondatrice della cooperativa sociale Al Revès, che nel luglio 2012 ha fatto nascere Sartoria Sociale, luogo che rigenera tessuti e vite umane. “Noi siamo un porto” dice Romano, “il tessuto è un ponte e la manualità ci unisce. Alla Sartoria transitano migranti, vittime di violenza, uomini e donne che hanno commesso piccoli reati o che arrivano da centri di salute mentale”. Sono i cosiddetti losers, gli sconfitti senza speranza che qui ritrovano la scintilla del futuro grazie a macchina da cucire, ago e filo. “Il punto di partenza fondamentale è che qui noi non siamo l’errore che abbiamo commesso. “Siamo tutti ex di qualcosa”, come recita il nostro slogan, siamo tutti uguali e tutti diversi, siamo persone che rispettano persone” continua la fondatrice della cooperativa. “L’idea è nata da un viaggio in Africa dove ho visto un’infinità di banchetti con macchine da cucire affidate a improvvisati sarti e sarte. Erano gli anni in cui Palermo era invasa dai migranti, nel centro storico ne trovavi anche 30 ammassati in misere abitazioni, pronti a tutto pur di non tornare indietro. Ho pensato a quelle macchine da cucire africane e al fatto che tra i migranti a Palermo ci potesse essere qualcuno con la voglia d’imparare un lavoro artigianale. Era un filo di speranza ma, come nella trama di un tessuto, quel filo è diventato lo strumento per tessere relazioni tra persone e restituire loro valore. La maggior parte dei migranti arriva da noi sapendo usare la macchina da cucire come una motozappa. In più, conosce solo il wax, il tradizionale tessuto africano. Noi facciamo un lavoro di riqualificazione e loro acquisiscono competenze, alcuni diventano molto bravi. Penso al gambiano Kebba: molto volenteroso e ambizioso, voleva imparare bene e in fretta. Oggi è responsabile di reparto in un’azienda, si è sposato, ha una bimba ed è felice”. Presidente della Sartoria Sociale sin dalla sua fondazione, Roseline Eguabor, nigeriana, ha 50 anni ed è giunta in Italia nel 1999 per evitare un matrimonio precoce e continuare a studiare.Al suo arrivo nel Belpaese, però, le promesse si sono concretizzate in solitudine e sfruttamento. Oggi Eguabor è mediatrice culturale. Inoltre, è diventata cittadina italiana, è mamma e si definisce “uno spirito libero pieno di idee, valori, sacrifici e con tanti sogni”. Racconta: “Al mio arrivo a Palermo ero smarrita e terrorizzata, ma decisa a ricominciare a vivere. Ho avuto la fortuna d’incontrare chi mi ha accolta e aiutata senza chiedermi del passato. Ora attraverso Sartoria Sociale provo a donare agli altri ciò che ho ricevuto: qui siamo tutti sullo stesso piano, uguali nelle nostre diversità. In questo luogo scuciamo e cuciamo tessuti. Tutto questo è una metafora: chi arriva qui con la vita svuotata, poco alla volta la riempie di nuovo”. Roseline Eguabor spiega un concetto importante: “Quando si è vittime di violenza e sfruttamento non si è liberi e non c’è possibilità di scelta. Noi proviamo a restituire la possibilità di volare. Chi vola è libero”. Dopo gli inizi in uno sgabuzzino o poco più, dal 14 novembre 2017 Sartoria Sociale è in una sede più importante: il Comune le ha infatti consegnato un locale confiscato al boss mafioso Antonino Buscemi, pezzo grosso di Cosa Nostra a fine anni Ottanta. “Era un negozio di mobili, attività di copertura del boss. Riceverlo ci ha riempiti di orgoglio e, da subito, abbiamo fatto nostre le parole di don Ciotti all’inaugurazione: “È il noi che vince”“ ricorda Rosalba Romano. Infatti Sartoria è di tutti: puoi venire per farti rammendare un abito, fare un orlo ai pantaloni, cambiare una cerniera… Ciò che entra ed esce di qui dipende dal contributo di tutti. Non solo le aziende donano tessuti, ogni mercoledì c’è un via vai di gente comune che porta indumenti dismessi che Sartoria controlla, seleziona, igienizza, ripara o reinventa per poi rivendere sotto forma di shopper, giacche, camicie, pantaloni, abiti in un’esplosione di colori e culture. “Chi arriva qui vuole essere rapito dalla creatività. Al mercoledì abbiamo aperto anche all’uncinetto. Il progetto iniziale prevedeva di fare coperte per i senzatetto, poi abbiamo pensato che fosse il momento di mettere alla prova anche loro, che così adesso realizzano coperte per i bimbi delle case famiglia”. Sin dal 2013 Sartoria Sociale è presente anche con un laboratorio nella sezione femminile del carcere palermitano Pagliarelli: le detenute vengono formate e avviate alla manifattura tessile con l’obiettivo della risocializzazione e del reinserimento lavorativo. Tra loro c’è stata Anna, 48 anni: “Sono arrivata in Sartoria nel 2018 tramite il Sert. Ci ho trascorso un anno e mezzo a contatto con una realtà molto diversa dalla mia: non ero più giudicata per i miei errori, ma ero una persona come le altre. Purtroppo la mia esistenza è stata un susseguirsi di curve e nel 2020 sono finita al Pagliarelli, il “Grand Hotel 5 stelle”, come lo definisco io. Sono uscita a maggio e Sartoria mi è stata vicina, aspettandomi. Il mio lato ribelle si è placato, ora mi piace dare il meglio di me agli altri. Sartoria mi ha insegnato a capire cos’è la libertà e a costruirci dentro un progetto di futuro. Appena io e il mio compagno avremo scontato l’intera pena, vogliamo aprire una fattoria didattica con cavalli, pecore e asinelli che sia di aiuto soprattutto ai disabili. E poi, desideriamo produrre uova bio, vino e olio. Sì, voglio invecchiare con questo lavoro tra le mani” dice Anna. Ed è così anche per Karafa, 26 anni del Gambia, che è arrivato su un barcone passando dai tormenti della Libia e da qualche guaio con la giustizia: “Basta pasticci, in Sartoria ho imparato a cucire e un metodo di vita. Ora desidero solo un lavoro regolare e farmi una famiglia”. Ed è la stessa cosa che mi racconta Serena, 57 anni, architetta, che ha riabbracciato i colori della vita nei disegni dei suoi abiti: “Qui ho ritrovato la voglia di amare me stessa e gli altri. Avevo bisogno di ricostruire la mia vita, Sartoria mi ha presa per mano fino a quando ci sono riuscita. Ecco, ormai sono anch’io ex di qualcosa”. Varese. “Benvenuti in galera”: il film che racconta il carcere tra riscatto e ristorazione varesenews.it, 25 febbraio 2025 Il documentario “Benvenuti in galera”, che racconta l’esperienza unica del ristorante attivo all’interno del carcere di Bollate, arriva a Materia Spazio Libero (in via Confalonieri 5, Sant’Alessandro - Castronno) con una proiezione speciale. L’evento, in programma per mercoledì 26 febbraio alle 21.00, offrirà uno sguardo sulla possibilità di riscatto e inclusione attraverso la ristorazione e il lavoro. Il film parla del ristorante aperto al pubblico presente da anni nel carcere di Bollate e guidato da uno chef che ha lavorato con Gualtiero Marchesi. Il documentario ne mostra l’attività che continua grazie alla disponibilità dei detenuti e alla professionalità di Silvia Polleri, esperta del settore ristorazione. L’obiettivo del ristorante è il recupero della vita sociale dei detenuti e mostrare come una pena detentiva possa essere trasformata attraverso la creatività e l’imprenditorialità. Alla serata sarà presente Walter Marocchi, coproduttore del documentario. Marocchi, in perenne equilibrio tra cinema, musica e scrittura, si è distinto come montatore di lungometraggi, documentari, spot pubblicitari e serie TV, oltre che come compositore e produttore musicale. Alcuni dei film a cui ha lavorato sono stati distribuiti in sala, trasmessi su emittenti televisive e presentati in festival nazionali e internazionali. In alcune produzioni ha ricoperto sia il ruolo di film editor che quello di autore della colonna sonora. Oltre alla sua attività nel settore audiovisivo, collabora come docente con IED, CFP Bauer e la Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. La proiezione è organizzata in collaborazione con Elmec. Ingresso con tessera dell’Associazione Anche Io. L’iscrizione è al costo di 15 euro e ha validità fino al 31 dicembre 2025. L’iscrizione può essere effettuata in loco, oppure tramite preiscrizione compilando il seguente modulo: preiscrizione (da stampare e consegnare a Materia insieme alla quota associativa per completare l’iscrizione). “I miei studenti detenuti”, le storie di vita possibile ora raccolte in un libro di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 25 febbraio 2025 Le esperienze di Giovanna Canzi, ex docente della scuola della struttura di Monza, sono diventate un libro. Giacomo, il giardiniere, si siede al sole con un libro in mano, Addou è schivo e imperturbabile, Stefano è chiuso in un corpo senza armonia, ma dà il meglio di sé sul palco dopo aver scoperto le pagine di Kafka, Oresti sembra incapace di aprirsi e commuoversi, Paolo e Romeo, idealisti delusi, passano ore in biblioteca. Sono alcuni degli studenti che Giovanna Canzi ha incontrato nelle aule della scuola del carcere di Monza. Con loro, dal 2017 per cinque anni, ha scambiato versi di poeti, pagine di scrittori, ha cercato di ricostruire una normalità che non hanno mai conosciuto. Insegnante, giornalista, editor di libri per ragazzi Giovanna Canzi ha voluto ricordare volti e storie nel volume Lontano dalla vita degli altri (Marinonibooks) dove alle parole si affiancano le suggestive illustrazioni di Gabriella Giandelli, raffinata illustratrice milanese. “Il carcere della mia città - si legge nelle prime pagine - si trova in un quartiere fuori mano, marginale, lontano. Lontano dalla vita degli altri, lontano da chi è privo di smagliature. A pochi passi dall’edificio vi è una discarica”. E così, in quel luogo lontano dalla vita degli altri, Giovanna fissa delle istantanee: racconti brevi che ci conducono per mano lungo quei corridoi in penombra, oltre le pesanti porte in ferro, nelle stanze dagli arredi essenziali, fino alla Settima sezione. “Ho imparato presto - racconta - che la geografia del carcere assomiglia ad un girone dantesco: chi spaccia è meno colpevole di chi uccide, chi ruba è meno colpevole di chi collabora con la giustizia. Nessuno è più colpevole dei protetti, ossia chi ha abusato di una donna o di un bambino. Loro, i sex offender, sono gli abitanti della Settima sezione”. Nei suoi anni di insegnamento nel carcere di via Sanquirico Giovanna ha girato tutte le sezioni scegliendo versi di poeti, pagine di Hemingway, le storie di realismo magico di Cortázar, le inquietudini di Edgar Allan Poe. “Rispetto alla scuola tradizionale - racconta - in carcere si è paradossalmente più liberi rispetto ai programmi e poi ho avuto la possibilità di tenere un corso di letteratura in cui ho portato i miei autori preferiti. Oggi insegno italiano nel Centro di formazione permanente ai giovani o che arrivano in Italia, anche a tanti minori non accompagnati. Vorrei tornare a tenere lezioni in carcere, perché lì capisci il valore di quelle ore per i detenuti, un aiuto per trascorrere il tempo che non passa mai”. L’Italia è il Paese più sicuro d’Europa. Ma la percezione vince sulla realtà di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 febbraio 2025 Ecco i numeri del nuovo report curato dalla direzione della polizia criminale: il tasso di omicidi è di 0,54 vittime per 100mila abitanti. In Italia si registra una diminuzione costante degli omicidi volontari consumati. È quanto emerge dall’ultimo report del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della polizia criminale, che ha preso come periodo di riferimento il decennio 2015-2024. Il calo degli omicidi volontari è pari al 33%: nel 2015 sono stati 475, mentre lo scorso anno il numero è sceso a 319 (il tasso di omicidi è di 0,54 vittime per 100mila abitanti). Il decremento è stato del 6% se si considera il biennio 2023-2024. Due anni fa gli omicidi sono stati 340, mentre nel 2024 hanno raggiunto quota 319. La Direzione centrale della polizia criminale si sofferma anche sugli omicidi commessi in “contesti di criminalità di tipo mafioso”. In questo caso il calo degli eventi è stato addirittura del 72% nel decennio 2015-2024. Dieci anni fa gli omicidi sono stati 53, lo scorso anno in tutto sono stati 15. Un quadro chiaro che fa riflettere e che richiede un diverso approccio in merito alla descrizione dell’Italia come un “Paese mafioso”, anche se va sottolineato che la presenza della criminalità organizzata è ancora un problema serio. La mafia agisce, rispetto al passato, con altre modalità: alcuni conti non si regolano più con agguati, sparatorie e omicidi. Il trend è confermato dai dati Eurostat relativi agli omicidi volontari registrati in Europa, che, per il 2022, collocano l’Italia tra i Paesi più sicuri in riferimento a questa tipologia di reato. “In passato - si legge nel report -, le organizzazioni criminali di stampo mafioso, come Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e criminalità organizzata pugliese ricorrevano all’omicidio come uno degli strumenti principali per intimidire e risolvere conflitti interni o esterni, sia pure con le dovute differenze relative alle rispettive caratteristiche strutturali e organizzative. In contesti criminali di stampo camorristico, infatti, l’omicidio era finalizzato a segnare la supremazia dell’organizzazione stessa su un determinato territorio, intimidire i clan rivali o rafforzare il proprio potere e la propria influenza all’interno delle comunità locali. Negli altri ambienti mafiosi, invece, caratterizzati da un’organizzazione verticistica di stampo prettamente familiare, la violenza era usata o per eliminare gli esponenti dello Stato e della società civile, percepiti come minaccia, o per punire chi non si sottometteva o non rispettava le regole del gruppo, alimentando quella paura che rendeva difficile la denuncia e la collaborazione con le forze dell’ordine e la magistratura”. Dunque, un cambio del modus operandi delle mafie che smonta la narrazione dell’Italia perennemente “malata di mafia” con evidenti squilibri tra la percezione di determinati fenomeni e la realtà. Lo studio della Direzione centrale della polizia criminale, conferma, come evidenzia Gian Maria Fara, presidente e fondatore dell’Eurispes (istituto che opera nel campo della ricerca politica, economica e sociale) “il passaggio delle mafie dalla strada alle stanze ovattate dei consigli di amministrazione e delle grandi centrali finanziarie, dove i destini di un’impresa, di un marchio, di una filiera o di un intero comparto economico vengono decisi. Una “violenza economica” pervasiva che approfitta di ogni vulnerabilità per affondare i denti nel tessuto imprenditoriale e sociale ed estendere il controllo economico sui territori”. “Le organizzazioni mafiose - spiega Fara - sono profondamente cambiate nel corso degli anni. Hanno sostituito la vecchia lupara con armi e strategie meno rumorose ma persino più aggressive ed insidiose. L’interesse mafioso ha portato all’abbandono di ogni forma di confronto-scontro cruento con i poteri dello Stato e alla riduzione dell’intensità delle guerre sul territorio tra organizzazioni avversarie. Le mafie, infatti, rifuggono generalmente dal clamore dei decenni passati e hanno invece necessità di non provocare, elevando l’allarme sociale, l’attenzione e la reazione delle istituzioni e delle forze dell’ordine”. A lungo negli anni scorsi ci si è soffermati sul racconto dell’Italia come un “Paese mafioso”. Una distorsione della realtà che ha provocato all’Italia un danno d’immagine. I dati della Direzione centrale della polizia criminale dimostrano un’altra situazione. “Molte voci - commenta Gian Maria Fara - hanno contribuito negli anni all’edificazione o, quantomeno, al rafforzamento, dall’interno, dell’immagine dell’Italia come Paese corrotto, anzi, tra i più corrotti in assoluto, e, in seconda battuta, come patria delle mafie. Il risultato di una simile vulgata, scorretta quanto pericolosa, è stato il progressivo abbassamento dell’appeal del Paese e dei suoi principali attori economici sul piano imprenditoriale e finanziario, con gravi ricadute in termini di crescita e sviluppo economico ed occupazionale. Al fronte interno di coloro i quali dipingono l’Italia come culla del malaffare si sono uniti, e non poteva che essere così, gli attori internazionali protagonisti di una vera e propria ingegneria reputazionale, che fondano classifiche e graduatorie di merito degli ordinamenti attraverso la mera percezione soggettiva della corruzione. Confrontandosi con il tema della “misurazione della corruzione”, basata sostanzialmente solo su indici percettivi, l’Eurispes ha inteso approfondire il tema dal punto di vista scientifico, con l’obiettivo di ridurre lo iato tra realtà e immagine o reputazione dell’Italia, giungendo a conclusioni di segno opposto”. Secondo il presidente dell’Eurispes, i temi della sicurezza assumono una rilevanza prioritaria nel dibattito pubblico in Italia, come pure nel sentire di ogni cittadino. “La sicurezza - conclude Fara - rappresenta infatti uno degli argomenti centrali nella comunicazione politica e in quella degli organi d’informazione, ma è necessario distinguere tra rischio reale e rischio percepito, categorie che spesso non collimano, l’uno basato su dati oggettivi e misurabili, l’altro condizionato da dinamiche soggettive come la paura e l’incertezza sul futuro. La paura e l’incertezza sono caratteristiche del nostro tempo, alimentate da emergenze continue, che hanno fatto coniare parole come “permacrisi” o “policrisi”, già accolte nei dizionari. Tale sensazione di insicurezza non sembra aver spesso però un diretto riscontro nella realtà, così che la sfida ambiziosa di chi si interroga sul presente, ma anche di chi si occupa di comunicazione, è quella di fornire un’analisi basata su dati concreti e una visione d’insieme che offra una corretta interpretazione dei fenomeni, al di là dei luoghi comuni e dei facili allarmismi”. Quel racconto sull’insicurezza che conviene ai professionisti della paura di Davide Varì Il Dubbio, 25 febbraio 2025 Ebbene sì: l’Italia è un paese sicuro. Uno dei più sicuri d’Europa. Gli omicidi calano, tutti gli omicidi. Quelli mafiosi addirittura crollano del 72%. Eppure, il racconto mediatico e politico dipinge un’Italia in preda all’insicurezza, all’anarchia criminale. Un paese in cui l’ombra della paura si allunga su ogni vicolo, su ogni strada, in ogni vagone della metro. Sono anni, addirittura decenni che confondiamo la percezione con la realtà. Ma non è un errore, una svista: è una strategia chirurgica, studiatissima. La paura è una leva per esercitare il potere. Un paese impaurito, che vive la quotidianità con incertezza, è infatti un paese a cui è più facile vendere la ricetta magica delle pene esemplari, della galera come unica panacea. Ma è fumo negli occhi. I problemi sono altrove: salari fermi, crescita del pil da “zero virgola per cento”, disoccupazione giovanile al 20%, natalità al palo. Insomma, la paura è solo fumo negli occhi. Da decenni. E c’è di più: questa narrazione è autoprodotta e autoavverante. È l’Italia che si dipinge come insicura, corrotta, fragile, e dunque è così che la vedono dall’estero. Un Paese sempre in balia delle mafie, dell’illegalità diffusa, raccontato attraverso i soliti cliché, i luoghi comuni. Il risultato? Un’Italia che non solo si spaventa da sola, ma che esporta il proprio terrore, lo radica, lo trasforma in una realtà percepita che diventa reale, perché la politica, la magistratura e i media hanno bisogno di un Paese impaurito per legittimare il proprio potere. D’altra parte, la percezione è una brutta bestia. Non basta, non è mai bastato mostrare le statistiche, snocciolare dati e dimostrare, numeri alla mano, che l’Italia è un paese sicuro. Tutto inutile: evidentemente la paura si annida altrove, nella sensazione, nella propaganda. Insomma, questa narrazione ha prodotto un’architettura emergenziale che ha consolidato il potere politico e giudiziario di coloro che hanno investito nel racconto della paura. Le procure sono diventate roccaforti in mano a chi dipinge il Paese come un’enclave mafiosa, dove l’unico rimedio è la giustizia forte, muscolare, implacabile. Il risultato? Qualsiasi tentativo di introdurre una legislazione garantista si schianta contro il muro invalicabile di questo blocco di potere, che usa l’alibi dell’Italia impastata di criminalità per giustificare leggi liberticide, compressioni dei diritti, restrizioni continue. La sicurezza non è più solo percezione, è diventata una macchina di potere che si autoalimenta. Il paradosso è che più l’Italia si racconta come insicura, più legittima il suo stesso immobilismo, più crea l’emergenza su cui si regge. E così, mentre il Paese reale registra il minimo storico di omicidi, il Paese percepito continua a sprofondare nella paura. Migranti. Hanno ucciso mio fratello, chiudete tutti i Cpr di Mariama Sylla* L’Unità, 25 febbraio 2025 È passato ormai un anno dalla morte di mio fratello, faccio ancora fatica a capire e ad accettare quello che gli è successo. Siamo abituati a immaginare i Paesi europei come Paesi sviluppati e dove sono rispettati i diritti umani. Non avrei mai potuto immaginare la situazione in cui era caduto il mio fratellino, che ho scoperto solo dopo la sua morte, e tutto soltanto a causa dell’irregolarità dei suoi documenti. Un trattamento forse non riservato nemmeno ai criminali ha finito per spingerlo a togliersi la vita per non dover più soffrire in queste condizioni infernali, e soprattutto penso che forse è stato tutto dovuto a una mancanza di comunicazione e di informazione. Era in Italia da soli 7 mesi, non conosceva bene la lingua e forse non sapeva nemmeno dell’esistenza di questi centri di detenzione. Quella tragica mattina non ha trovato altra soluzione che quella di mettere fine alla sua vita, perché non capiva perché dovesse essere rinchiuso come un prigioniero se non aveva nemmeno commesso un reato. Quindi, ritrovarsi rinchiuso e limitato nella sua libertà personale, dopo essere già stato maltrattato, deve averlo fatto stare molto male. Ho finalmente avuto la possibilità di entrare nello stesso centro dove la sua vita è stata sconvolta, anche se non mi hanno fatto entrare nella sezione maschile come speravo. Ho visto l’orrore e l’abbandono delle donne migranti e ho pianto molto pensando a quello che deve aver provato negli ultimi giorni della sua vita il mio fratellino Ousmane, un ragazzo che ha sempre avuto la gioia di vivere e la speranza di un futuro migliore e che si è ritrovato in un incubo che lo ha schiacciato. Spero che non si verifichino mai più casi simili, che in attesa della chiusura definitiva di questi centri, almeno le vulnerabilità psicologiche dei detenuti siano prese seriamente in carico e che tutti coloro che si trovano nella sofferenza trovino il sostegno di cui hanno bisogno. *Sorella di Ousmane Sylla morto suicida il 4 febbraio dell’anno scorso nel cpr di Ponte Galeria. Aveva 22 anni Sui migranti ora è il Governo che rischia di violare la separazione dei poteri ai danni dei magistrati di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 25 febbraio 2025 Se si impedisse il trasferimento nelle Corti d’appello per i giudici specializzati sulle richieste d’asilo, si calpesterebbe l’articolo 104 della Costituzione. Il dibattito sulla gestione dei migranti e il caso Almasri monopolizzano o quasi da settimane, se non da mesi il dibattito pubblico, e danno forma concreta allo scontro tra governo e magistratura, già “animato”, sul piano “ideale”, dall’iniziativa riformatrice del ministro Nordio. Da un punto di vista giuridico, la questione verte sulla separazione dei poteri e sulla legittimità delle scelte governative rispetto ai vincoli costituzionali e internazionali. Da una parte, la maggioranza di governo spinge per un rafforzamento della tutela statale, fino al superamento degli ostacoli posti dalle decisioni giudiziarie. Dall’altra, le opposizioni denunciano un utilizzo propagandistico della questione migratoria. L’idea, ventilata nei giorni scorsi, di introdurre una norma ad hoc per impedire il trasferimento dei giudici delle sezioni specializzate sull’immigrazione nelle Corti d’appello ha rappresentato l’ulteriore tassello di una strategia che mira a rendere più agevole l’attuazione della praticità burocratica e le regole di salvaguardia dello Stato. Tuttavia, questa ipotesi solleva enormi interrogativi di diritto costituzionale: l’articolo 104 della Costituzione sancisce l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, e la possibilità che il Legislatore intervenga per modificare la competenza - in corso d’opera - rischia di configurare un’interferenza sull’ordine giudiziario. Il governo insiste sulla necessità di contrastare l’immigrazione illegale, accusando l’opposizione di polemiche sterili e ostilità pregiudiziale. Ma i numeri parlano chiaro: il piano dei trattenimenti in Albania - da “applicarsi”, almeno nella versione inziale del progetto, alle persone “intercettate” in mare prima ancora che raggiungano le coste del nostro Paese - sta mostrando tutte le proprie fragilità, mentre il dibattito pubblico si appiattisce su una propaganda securitaria che sembra più utile a mobilitare consenso che a risolvere realmente la questione migratoria. E il problema è ancora più profondo. La gestione dei migranti in Albania, presentata inizialmente come un’innovazione in grado di risolvere il problema degli sbarchi attraverso una prospettata efficacia “dissuasiva”, si sta rivelando un’operazione costosa e inefficace. Questo modello si porrebbe in potenziale conflitto con l’articolo 10 della Costituzione italiana, che disciplina il diritto d’asilo e prevede che la condizione dello straniero sia regolata in conformità alle norme internazionali. L’accordo con l’Albania solleva dubbi sulla sua compatibilità con il principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che vieta il respingimento di richiedenti asilo verso Paesi in cui potrebbero subire persecuzioni o trattamenti inumani. Certo l’Albania non può essere considerata un Paese a rischio, ma c’è da chiedersi se di per sé il trattenimento in un Paese terzo di persone messesi in viaggio verso l’Italia, con conseguente limitazione della libertà personale imposta sempre sul suolo di quel Paese terzo, non configuri di per sé, seppur in modo paradossale, i rischi paventati dalla Convenzione di 74 anni fa. Il governo continua a difendere il progetto, mentre le opposizioni lo attaccano definendolo uno spreco di risorse e un fallimento politico. Il caso Almasri, inoltre, aggiunge un ulteriore livello di tensione e complessità giuridica. La decisione di rimpatriare l’ufficiale libico, nonostante le ombre sul suo passato, ha sollevato un vespaio di polemiche: l’opposizione accusa il governo di aver agito per convenienza, in violazione delle norme internazionali e della giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo, mentre l’Esecutivo sostiene che il rimpatrio sia stato effettuato nel rispetto delle leggi nazionali ma, soprattutto, a tutela dello Stato, visto che si sarebbe evitata la permanenza, sul territorio italiano, di un soggetto pericoloso. Si è giustamente osservato: “E se fosse stato un terrorista, il rimpatrio sarebbe stato legittimo?” Senza una valutazione approfondita delle responsabilità penali, si potrebbe configurare una violazione del principio del giusto processo e delle garanzie previste dall’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti degradanti. Ciò che emerge da questa vicenda è un uso strumentale delle politiche migratorie. La magistratura è accusata di ostacolare il governo in una gestione eticamente orientata alla sicurezza della Nazione; l’opposizione denuncia una deriva autoritaria. In mezzo restano i migranti, pedine di uno scontro che poco ha a che fare con la reale risoluzione dei problemi. La gestione della questione migratoria e il caso Almasri mettono dunque in evidenza la frattura tra i diversi attori politici e giuridici. Alla luce di queste considerazioni, quali dovrebbero essere le priorità in una riforma delle politiche migratorie? È possibile conciliare efficacia delle misure di sicurezza con il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti? Come evitare che la questione venga ridotta a uno strumento di scontro politico piuttosto che affrontata come un problema complesso e urgente da risolvere? Le domande, come sempre, sono tante, ma mancano le risposte concrete. *Avvocato, direttore Ispeg Protocollo Italia-Albania. Il destino della politica migratoria di Meloni passa dalla Corte europea di Valentina Stella Il Dubbio, 25 febbraio 2025 I giudici Ue decidono sull’accordo tra Roma e Tirana e quindi sui no dei Tribunali alle liste dei Paesi sicuri. Decisiva udienza oggi davanti alla Corte di giustizia europea in Lussemburgo: si discuterà infatti del protocollo Italia Albania. La decisione, attesa nei prossimi mesi, avrà importanti ricadute sulla immagine della politica migratoria del governo e sul rapporto tra politica e magistratura che in questi mesi, proprio su questo tema, è arrivato a livelli molto alti di scontro, tali da portare la maggioranza a spostare dai Tribunali civili alle Corti di Appello la competenza sulla materia. Com’è noto il protocollo, siglato il 6 novembre 2023 e ratificato dal Parlamento italiano con legge 14/ 2024, ha istituito centri per il trattenimento e il rimpatrio in territorio albanese, ma sotto giurisdizione italiana. A Shengjin e Gjader possono essere trattenuti i richiedenti protezione internazionale sottoposti a una procedura accelerata di frontiera, riservata a persone provenienti da Paesi considerati sicuri. Il caso che si discute stamattina riguarda due cittadini del Bangladesh, la cui richiesta di protezione è stata respinta dalla Commissione territoriale di Roma, poiché il Bangladesh è stato disegnato Paese sicuro da un decreto interministeriale del maggio 2024, poi sostituito nell’ottobre successivo dal cosiddetto “dl Paesi sicuri”. La sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, con due ordinanze di rinvio pregiudiziale, aveva chiesto alla Cgue di rispondere sostanzialmente a quattro domande: il diritto dell’Unione osta a che un legislatore nazionale proceda anche a designare direttamente, con atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese di origine sicuro? Quali garanzie procedurali devono esserci per verificare le fonti usate per questa decisione? Qual è il ruolo delle autorità giurisdizionali nel verificare la situazione del Paese interessato? Un Paese può essere definito sicuro se non lo è per alcune categorie di persone? Stamattina ci sarà la discussione orale, durante la quale interverranno gli avvocati dei due migranti e probabilmente poi saranno esposte anche le osservazioni da parte di alcuni Stati membri della Ue. Infatti molti governi europei guardano all’esperimento italiano, chi favorevolmente come l’Ungheria, chi contrariamente come la Germania. Tra qualche settimana, l’Avvocato generale presso la Cgue proporrà una soluzione alla questione in piena indipendenza e non vincolante per i giudici europei. La sentenza verrà pronunciata successivamente, probabilmente prima dell’estate, e sarà vincolante per il giudice nazionale. Sul tema dei Paesi d’origine sicura sono pendenti altri rinvii presentati da vari tribunali italiani, tutti sospesi in attesa della decisione su queste cause. Ne esiste uno datato 6 febbraio 2025 con cui è la Corte di Appello di Palermo, Prima sezione Civile, in composizione monocratica a rinviare alla Cgue. A firmare il provvedimento Angelo Piraino, fino al 2023 segretario generale di Magistratura indipendente, la corrente dell’Anm considerata più vicina alle posizioni dell’Esecutuvo. Dunque non una cosiddetta “toga rossa”. Anche la Cassazione ha sospeso la decisione sui ricorsi del Viminale contro i mancati trattenimenti di alcuni migranti inizialmente traghettati in Albania, in attesa di conoscere la decisione della Cgue. Dietro al dibattito giurisprudenziale sulla dubbia compatibilità della normativa italiana con il diritto dell’Unione europea si gioca, in parte, la politica italiana sull’immigrazione. Solo qualche giorno fa la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che il governo non dimentica “l’impegno sulle soluzioni innovative” come “il protocollo Italia- Albania”, una soluzione “che è determinato a portare avanti proprio e soprattutto alla luce dell’interesse e del sostegno mostrato da sempre più nazioni europee”. Ma intanto fino ad ora tutti i migranti, poco più di cinquanta, che sono stati portati oltre l’Adriatico sono rientrati dopo 48 ore in Italia perché i giudici nazionali hanno respinto o sospeso i trattenimenti disposti dai Questori. Adesso i centri in Albania sono vuoti e alcuni lavoratori delle società che avevano in gestione alcuni servizi sono stati licenziati, come riferito dal Domani. Il Governo è in pieno stallo. Al momento il destino dei due centri resta una incognita, come confermato anche dal vice premier Antonio Tajani: “Ancora non c’è niente sull’Albania, non ne abbiamo ancora parlato. Io mi sto preoccupando più delle questioni di guerra, poi vediamo l’Albania”. Prima si pensava di trasferirvi i detenuti albanesi reclusi in Italia, come proposto anche da Italia viva, ora si parla di un decreto legge per convertire i due hotspot da centri di prima accoglienza in Cpr. Tuttavia ad ora non circola neanche una bozza. Le priorità sarebbero altre nell’Esecutivo. Dalle opposizioni in Parlamento si è dunque parlato di fallimento del protocollo e di spreco di denaro pubblico, mentre nel governo sono fiduciosi che la Cgue in qualche modo rafforzerà il potere dei singoli Stati di designare direttamente i Paesi sicuri con normativa primaria, limitando molto la discrezionalità dei magistrati. Per la presidente del Consiglio, “sarà importante su questo fare chiarezza e l’auspicio è che la Corte di Giustizia e l’Unione europea scongiuri il rischio di compromettere le politiche di rimpatrio, non solo dell’Italia ma di tutti gli stati membri dell’Unione europea”, aveva ribadito una settimana fa nel suo intervento alla Conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia presso la Scuola superiore amministrazione dell’Interno. Al contrario, all’interno della magistratura sono convinti che la Cgue confermerà, come già stabilito da una direttiva e da una pronuncia del 4 ottobre, il primato del diritto sovranazionale, per cui affinché uno Stato possa essere inserito nella lista bisogna dimostrare l’assenza di persecuzioni, tortura, trattamenti disumani o pericoli a causa di conflitti interni o internazionali; e che per gli Stati dell’Unione possono essere definiti come sicuri solamente i Paesi in cui è presente una situazione di sicurezza su tutto il territorio, senza eccezioni di categorie o di zone. “Il consenso sui diritti umani sta crollando” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2025 L’Alto commissario ONU Turk: “Autoritarismo controlla un terzo dell’economia globale”. “Nei secoli passati, l’uso sfrenato della forza da parte dei potenti, gli attacchi indiscriminati ai civili, i trasferimenti di popolazione e il lavoro minorile erano all’ordine del giorno. Attenzione: può succedere di nuovo”, ha detto Volker Turk nel suo discorso di apertura della 58esima sessione del Consiglio Onu diritti umani. “Il sistema internazionale sta attraversando un cambiamento tettonico e l’edificio dei diritti umani che abbiamo costruito con tanta fatica nel corso dei decenni non è mai stato così sotto pressione”. Ha esordito così l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, nel suo discorso di apertura della 58esima sessione del Consiglio Onu diritti umani. “Il consenso globale sui diritti umani sta crollando sotto il peso dell’autoritarismo, uomini forti e oligarchi. Secondo alcune stime, gli autocrati controllano ora circa un terzo dell’economia mondiale, più del doppio rispetto a 30 anni fa”, avverte. “I leader citano la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo per giustificare gravi violazioni. Anche l’ipocrisia, i doppi standard e l’impunità hanno avuto un ruolo. Le potenze regionali neutrali o ostili ai diritti umani stanno acquisendo sempre più influenza. Ovunque assistiamo a tentativi di ignorare, minare e ridefinire i diritti umani e di creare un falso dualismo che mette un diritto contro l’altro in un gioco a somma zero. Ci sono sforzi concertati per erodere l’uguaglianza di genere e i diritti di migranti, rifugiati, persone con disabilità e minoranze di ogni tipo”. “Ingiustizie e disuguaglianza” - “Le tensioni sociali stanno aumentando, poiché le disuguaglianze e le ingiustizie generano risentimento, spesso diretto contro rifugiati, migranti e i più vulnerabili. Perversamente, l’1% più ricco controlla più ricchezza della maggior parte dell’umanità. La crisi climatica è una catastrofe per i diritti umani, che sta distruggendo vite e mezzi di sussistenza. Il suo impatto a cascata su sicurezza alimentare, migrazione, salute, energia e acqua minaccia i diritti umani ora e per le generazioni future, in particolare per donne e ragazze”, ha denunciato Turk. Senza dimenticare le cosiddette “tecnocrazie”: “Le tecnologie digitali sono ampiamente utilizzate in modo improprio per sopprimere, limitare e violare i nostri diritti attraverso la sorveglianza, l’odio online, la disinformazione dannosa, le molestie e la discriminazione intrinseca. L’intelligenza artificiale conferisce nuova velocità e portata a queste minacce. La frammentazione delle piattaforme dei social media in canali autoselezionati che si rivolgono al loro pubblico contribuisce all’isolamento degli individui, all’atomizzazione delle società e alla perdita di uno spazio pubblico condiviso. E in alcuni ambienti, i diritti umani vengono evitati, diffamati e distorti”. ?Crisi e conflitti in corso - “Qualsiasi pace sostenibile deve essere ancorata ai diritti, ai bisogni e alle aspirazioni del popolo ucraino, alla responsabilità e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, dice Turk nel terzo anniversario dell’invasione dell’Ucraina. Su Gaza ribadisce la “richiesta di un’indagine indipendente sulle gravi violazioni del diritto internazionale commesse da Israele nel corso dei suoi attacchi a Gaza e da Hamas e altri gruppi armati palestinesi”. Sostenendo che “qualsiasi suggerimento di costringere le persone a lasciare la propria terra è del tutto inaccettabile”. Oltre all’Ucraina e a Gaza, conflitti e crisi “stanno lacerando comunità e società, dal Sudan alla Repubblica Democratica del Congo, ad Haiti, al Myanmar e all’Afghanistan”, ha spiegato l’Alto commissario, delineando lo sfondo sul quale il suo Ufficio e il Consiglio stanno lavorando. Nel 2024, l’Ufficio ha liberato oltre 3.000 persone, monitorato 11.000 missioni sui diritti umani, osservato 1.000 processi e documentato 15.000 violazioni, rilasciato 245 dichiarazioni in 130 paesi, sostenendo leggi e politiche per promuovere la giustizia e i diritti umani. Chiedendo “uno sforzo in più” agli Stati: “Il sostegno al mio Ufficio è un investimento a basso costo e ad alto impatto”. Monito e speranza - “Nei secoli passati, l’uso sfrenato della forza da parte dei potenti, gli attacchi indiscriminati ai civili, i trasferimenti di popolazione e il lavoro minorile erano all’ordine del giorno. I dittatori potevano ordinare crimini atroci, condannando a morte un gran numero di persone. Attenzione: può succedere di nuovo”. Ma, prosegue, “siamo tutt’altro che impotenti nel prevenirlo. I nostri strumenti sono la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani, il corpus del diritto internazionale e le istituzioni che lavorano per attuarli, tra cui questo Consiglio, il mio Ufficio, i tribunali e le magistrature, la società civile, i giornalisti indipendenti e i difensori dei diritti umani in tutto il mondo”. Turk ha annunciato per la settimana prossima il nuovo Global Update su violazioni e abusi nelle zone di guerra e nelle aree di crisi di tutto il mondo, ricordando che “i diritti umani riguardano i fatti”. In conclusione: “Sostenere i diritti umani ha un senso eminente per la stabilità, per la prosperità, per un futuro comune migliore. I diritti umani sono una proposta vincente per l’umanità. Continueremo a promuoverli, proteggerli e difenderli in tutto il mondo, con umiltà, determinazione e speranza incrollabile”. El Salvador. Minori nelle carceri per adulti, Human Rights Watch contro Bukele ansa.it, 25 febbraio 2025 L’Ong Human Rights Watch (Hrw) ha criticato la recente riforma approvata dal parlamento di El Salvador che prevede il trasferimento di minorenni accusati di “reati commessi nell’ambito delle attività della criminalità organizzata” in padiglioni separati all’interno dei centri penitenziari per adulti. Per Hrw, la misura voluta dal presidente Nayib Bukele nel contesto della lotta contro le potenti Pandillas “viola gli standard internazionali” esponendo i minorenni a “maggiori rischi di torture e altri gravi abusi” e “rappresenta un grave ostacolo ai diritti dei bambini e degli adolescenti in El Salvador”, ha affermato la direttrice della divisione Americhe di Human Rights Watch Juanita Goebertus. In un precedente rapporto pubblicato nel luglio 2024, Hrw aveva già documentato gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, torture e gravi violazioni del giusto processo nei confronti di bambini di appena 12 anni. Secondo la Ong, da quando il presidente Bukele ha dichiarato lo stato di emergenza nel marzo 2022, sono stati arrestati più di 3.000 bambini e adolescenti, “molti dei quali senza apparenti legami con bande o attività criminali”, e sottolinea che in molti casi gli arresti “sembrano basarsi esclusivamente su denunce anonime”.