Giustizia, è sfida efficienza di Maria Teresa Pedace Quotidiano del Sud, 24 febbraio 2025 Sfida efficienza nella giustizia, investimenti per 10,535 mld di euro, l’1,2% della spesa pubblica, ben 5,5 mld assorbiti dal Dipartimento Organizzazione Giudiziaria. L’Italia investe nella giustizia 10,535 miliardi di euro, pari all’1,2% della spesa pubblica complessiva. Si tratta di un impegno economico significativo che, tuttavia, non si traduce ancora in un’adeguata efficienza del sistema. Il 2023 ha segnato un record storico nelle spese di giustizia, liquidate spesso in ritardo dagli uffici giudiziari e sostenute dall’Erario, superando per la prima volta il miliardo di euro in costi operativi. Il bilancio del Ministero della Giustizia fotografa una realtà in continua evoluzione. Dei 10,04 miliardi stanziati per il 2024, con un incremento dello 0,22% rispetto all’anno precedente, quasi la metà (5,5 miliardi) viene assorbita dal Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, il cuore operativo dei tribunali italiani. Si tratta di una tendenza ricorrente: a eccezione del 2020, i costi per le spese di giustizia sono andati via via aumentando, passando dai 907 milioni del 2018 al miliardo e 34 milioni del 2023. Nel confronto europeo, l’Italia si posiziona in una fascia intermedia con una spesa pro capite di 112 euro, superiore a Francia (104 euro) e Spagna (98 euro), ma significativamente inferiore a Germania (181 euro) e Lussemburgo, che detiene il record con 281 euro per abitante. L’incidenza sul PIL si attesta allo 0,34%, un valore in linea con gli altri grandi paesi europei. I costi sono indubbiamente vari e riguardano: • le spese quali costi di viaggio, spese sostenute per lo svolgimento dell’incarico, per le intercettazioni, di custodia, di stampa, postali e telegrafiche, per la demolizione o riduzione di opere abusive o per il compimento o distruzione di opere nel processo civile; • le indennità corrisposte a custodi, esperti, giudici popolari e magistrati onorari; • gli onorari di professionisti quali, per esempio, Ctu o difensori per ammissione della parte al patrocinio gratuito; • altre spese, regolate dal Testo unico in materia di spese di giustizia. Le due voci più significative, sul piano quantitativo, sono gli onorari da corrispondere agli avvocati per assicurare il diritto di difesa (+13,8%) e le intercettazioni (4,95%). I primi sono in aumento costante, ma il ministero nella Relazione sull’amministrazione della giustizia depositata in Parlamento lo scorso gennaio ha precisato che non può intervenire nella liquidazione di questa spesa, poiché è di competenza dell’autorità giudiziaria e regolata dalla legge. Per quanto riguarda i costi delle intercettazioni, a dispetto delle previsioni, la riforma delle tariffe per i fornitori di apparecchi di ascolto non ha avuto l’impatto previsto. Le spese variano da 3 euro al giorno per telefoni fissi o mobili fino a 150 euro al giorno per dispositivi Android, includendo audio, video, localizzazione e dati da app di messaggistica. L’infezione con virus informatico (c.d. trojan) e l’installazione ambientale costano 250 euro, pagabili solo in caso di esito positivo. Le microspie su persone o oggetti arrivano a 120 euro al giorno, mentre la sorveglianza fissa costa 70 euro al giorno. Sono, invece, diminuiti i costi dei magistrati onorari, passati da 108 a 91 milioni. Le criticità del sistema - Il nodo cruciale non risiede tanto nell’entità della spesa, quanto nella gestione delle risorse umane. Con soli 12,2 magistrati ogni 100mila abitanti, l’Italia si colloca al 21° posto su 27 paesi UE. Il confronto con la Germania è impietoso: il sistema tedesco può contare su una forza lavoro doppia, con 24,7 magistrati per 100mila abitanti. Parallelamente, le spese operative continuano a crescere. Gli interventi del Pnrr - Per colmare queste lacune, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha destinato 2,3 miliardi di euro alla modernizzazione del sistema giudiziario. Il piano prevede l’assunzione di 19mila unità tra giovani laureati, diplomati e tecnici, seppur con contratti a tempo determinato. Ad oggi, il monitoraggio della Fondazione Openpolis indica un avanzamento del 94,58% nelle riforme e del 74,55% negli investimenti previsti. La sfida dei tempi processuali - Il tallone d’Achille resta la durata dei processi civili, che colloca l’Italia al penultimo posto in Europa. I numeri sono eloquenti: servono 540 giorni per un giudizio di primo grado, 753 per il secondo e 1.063 per il terzo. Gli obiettivi del Pnrr sono ambiziosi: ridurre del 40% la durata media dei procedimenti entro giugno 2026 rispetto al 2019, percentuale che sale al 90% per i giudizi pendenti a fine 2022. Tuttavia, i dati attuali relativi a uno studio condotto dall’Ocpi (Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica Sacro Cuore) mostrano una riduzione del solo 17%, suggerendo che, mantenendo questo ritmo, si arriverebbe a un calo del 24%, ben lontano dal target prefissato del 40%. Qualche segnale positivo emerge dalla riduzione dei casi pendenti. Nel 2023 si è infatti registrato un calo del 50% per i Tribunali e del 43,4% per le Corti d’Appello: risultati incoraggianti, considerando che restano ancora due anni per raggiungere quell’obiettivo di riduzione del 90%. Il sistema giudiziario italiano si trova quindi a un bivio: nonostante un investimento economico sostanzialmente in linea con gli standard europei, la vera sfida risiede nell’ottimizzazione delle risorse e nell’accelerazione dei processi di riforma. Il Pnrr rappresenta un’opportunità storica per questa trasformazione, ma i primi risultati suggeriscono che il percorso di miglioramento richiederà uno sforzo ulteriore e più incisivo per centrare gli obiettivi prefissati. Imputati assolti, non decollano i rimborsi delle spese legali di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2025 Non decollano le richieste di rimborso delle spese legali fino a 10.500 euro per chi è imputato in un processo penale e poi viene assolto con sentenza irrevocabile. L’anno scorso, infatti, sono state presentate solo 783 domande per accedere al Fondo dedicato, istituito dalla legge di Bilancio per il 2021(178/2020): di queste, 525 sono state accolte totalmente e 102 parzialmente, per circa 3,6 milioni di euro di rimborsi, appena il 26% dei 13,7 milioni stanziati. La situazione, probabilmente alimentata dal fatto che il Fondo è tuttora poco conosciuto, peggiora se si guarda agli anni precedenti. Nel 2023 sono state infatti presentate 703 domande - di cui 415 accolte in misura completa e 90 parziale - con l’erogazione di 2,8 milioni a fronte dei 15 milioni stanziati. Mentre nel 2022, quando le risorse ammontavano a 8 milioni di euro, è stato distribuito meno di un milione, per 183 istanze ammesse al rimborso. In tre anni, quindi, sono state solo 1.315 le domande accolte e le somme erogate poco più di 7,4 milioni di euro, un quinto dei 36,7 milioni stanziati. Il numero degli effettivi richiedenti è stato quindi di molto inferiore rispetto alla stima dei potenziali destinatari, viste le risorse stanziate. Il Fondo, introdotto appunto a fine 2020, è stato reso operativo per le sentenze divenute irrevocabili dal 1° gennaio 2021da1 decreto ministeriale del 20 dicembre 2021. Le norme, in pratica, offrono la possibilità di recuperare le spese sostenute per l’assistenza dell’avvocato nel processo penale fino al limite massimo di 10.500 euro, quando l’imputato è stato assolto (con sentenza irrevocabile) perché il fatto non sussiste, l’imputato non ha commesso il fatto, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Si deve trattare di assoluzione piena, per cui sono esclusi i casi in cui l’imputato è stato assolto da uno o più capi di imputazione, ma è stato condannato per altri reati. Né il rimborso spetta quando il reato si è estinto per amnistia o per prescrizione o se i fatti di cui la persona è imputata sono stati successivamente depenalizzati. Sono naturalmente esclusi anche i casi in cui l’imputato abbia beneficiato del patrocinio a spese dello Stato. Per ottenere il rimborso occorre inviare la domanda tramite la piattaforma sul sito del ministero della Giustizia. L’istanza deve essere presentata personalmente dall’imputato, con allegati vari documenti, tra cui la copia della sentenza di assoluzione e le fatture del difensore con il parere di congruità dell’Ordine degli avvocati. Le istanze vanno presentate entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (ma nel 2024 il termine è stato rinviato al 30 aprile). Per attribuire le risorse, le norme stabiliscono anche dei criteri di priorità che però finora, visto il basso numero di domande, non sono stati utilizzati. In particolare, si dà rilievo al numero dei gradi di giudizio a cui la persona è stata sottoposta e alla durata del procedimento; in caso di pari condizioni, si dà la preferenza a chi ha il reddito inferiore (per questo alla domanda va allegata anche la documentazione che prova il reddito). Proprio la procedura - complessa per i privati - contribuisce alla scarsa fortuna del Fondo. Il basso numero delle richieste di rimborso preoccupa Enrico Costa, deputato di Forza Italia e padre delle norme: fu lui a presentare l’emendamento per introdurle nella legge di Bilancio per il 2021. “In origine temevamo che le risorse non fossero sufficienti per tutti coloro che ne avevano diritto - osserva - tanto che sono stati previsti i criteri di priorità. Mi dispiace per le poche istanze perché queste disposizioni sono una prima affermazione del principio della soccombenza dello Stato. Riteniamo che chi esce assolto da un processo penale debba tornare quello di prima: lo Stato che lo ha chiamato a processo deve rimborsare le spese. Occorre semplificare il percorso per la richiesta e prevedere dei canali per informare i cittadini, coinvolgendo gli avvocati. Perché, se il Fondo non ha successo, in prospettiva è difficile che sia confermato”. Omicidi in calo, ma aumentano i delitti dei minori di Marco Birolini Avvenire, 24 febbraio 2025 Il report. Secondo la Criminalpol gli omicidi sono diminuiti del 33% in 10 anni. Ma quelli commessi dagli under 18 sono saliti dell’11%. I delitti di mafia sono scesi del 72%: “I clan hanno cambiato pelle”. Gli omicidi volontari in Italia sono calati del 33% in 10 anni: dai 475 consumati nel 2015 si è passati ai 319 del 2024. È quanto emerge dal Report “Omicidi volontari consumati in Italia” della Criminalpol della Polizia. Un calo che si conferma anche nel 2024, con un decremento del 6% rispetto al 2023 (quando furono 340 i delitti). Un trend incoraggiante, che però nasconde un dato preoccupante: nel 2024 l’11% degli omicidi è stato commesso da un minorenne, un dato quasi tre volte superiore al 4% di un anno fa. Una conferma oggettiva di quanto già emerso dalle cronache degli ultimi mesi, ovvero di un deciso incremento della violenza giovanile. Drammatico anche l’incremento dei minori uccisi, pari al 7% del totale (un anno fa erano il 4%). La flessione maggiore riguarda gli omicidi legati alla criminalità mafiosa: dai 53 del 2015 ai 15 del 2024, con un calo del 72%. I clan insomma sparano decisamente molto meno rispetto al passato. Preferiscono dedicarsi agli affari e tenere la violenza sullo sfondo, come extrema ratio cui ricorrere se la controparte non si ammorbidisce con il denaro o con le minacce. Scrivono gli investigatori: “La netta diminuzione del numero degli omicidi ascrivibili a contesti di criminalità organizzata è significativa di come le mafie in Italia stiano cambiando pelle: cercano di evitare clamori per poter dedicarsi con maggiore efficacia alle attività criminali e soprattutto all’infiltrazione dell’economia legale”. La Campania è la regione dove si sono verificati più omicidi (seguita da Lombardia e Lazio) e risulta in controtendenza, con un +31% nel 2024 rispetto al 2023. Tra le vittime, per il 75% si tratta di italiani, per il 25% di stranieri. Si registra una flessione del 38% degli omicidi con vittime maschili (da 330 a 206) e del 22% di quelli con vittime femminili (da 145 a 113). Nel 2024 il 49% degli omicidi ha avuto origine da una lite degenerata (45% nel 2023) mentre per quanto riguarda il modus operandi, al primo posto c’è l’uso di armi improprie e armi bianche (133 casi nel 2024 a fronte dei 156 nel 2023), a riprova del dilagare dell’uso del coltello, soprattutto fra i giovanissimi, mentre le armi da fuoco risultano utilizzate in 98 casi nel 2024 e in 101 nel 2023. L’avvelenamento è stato rilevato in soli 6 casi nel 2024 e 4 nel 2023. Sequestro Gancia, dopo cinquant’anni ricomincia il processo agli Anni di piombo di Pierangelo Sapegno La Stampa, 24 febbraio 2025 Si riapre il procedimento per il rapimento Gancia e il blitz alla Cascina Spiotta. Nello scontro a fuoco tra brigatisti e carabinieri morirono l’appuntato D’Alfonso e Mara Cagol. Gli Anni di piombo non finiscono mai. Al Tribunale di Alessandria, torna in aula mezzo secolo dopo una delle pagine più insanguinate di quel periodo: lo scontro a fuoco tra brigatisti rossi e carabinieri alla Cascina Spiotta dopo il sequestro di Vallarino Gancia. Era il 5 giugno 1975. Persero la vita l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Mara Cagol. Il generale Umberto Rocca, allora giovane tenente de carabinieri, rimase gravemente ferito. Sul banco degli imputati ci saranno Roberto Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini. Hanno 84, 79 e 82 anni, un’età in cui la vita ha ormai poche cose da aggiungere. Ma la Giustizia ha ancora tante cose da inseguire e da capire, e forse non finiremo mai di cercarle. I primi due, capi delle Br, sono accusati di essere i mandanti di quel rapimento. Azzolini, invece, di essere il terzo, misterioso uomo sfuggito alla cattura. È per questo, per dare un nome a quel terrorista, che Bruno D’Alfonso, il figlio dell’appuntato ucciso, aveva presentato un esposto che 4 anni fa dette il via alle indagini: “Voglio solo sapere chi è stato a uccidere mio padre. Non so se sia stato Azzolini, ma quello che chiedo è che si possa arrivare a una verità storica”. Azzolini, va detto, fu prosciolto nel 1987, ma la sentenza andò perduta nell’alluvione del 1994. “Non si può riprocessare una persona perché lo Stato ha smarrito un documento”, protesta il suo avvocato, Davide Steccanella. Che forse sarebbe pure un assurdo. Ma cosa c’è che non è assurdo di quegli anni? Così riavvolgeremo ancora una volta il nastro della storia. Per quel rapimento i terroristi avevano scelto la cascina Spiotta d’Arzello come prigione della vittima, una costruzione isolata sulle colline del Monferrato molto vicina al luogo del rapimento, utilizzata da anni dai brigatisti che erano stati visti in parecchie occasioni dagli abitanti del posto. Vittorio Vallarino Gancia era l’amministratore delegato dell’importante ditta vinicola Gancia. Fu sequestrato dai banditi il 4 giugno 1975 vicino alla sua villa. Il mattino del giorno dopo, alle ore 7, al tenente Umberto Rocca, nonostante avesse già lavorato tutta la notte fino alle 4,30, fu ordinato di riprendere i rastrellamenti in seguito all’arresto fortuito di un brigatista, Massimo Maraschi, rimasto coinvolto in un incidente. Uscì dalla caserma su una Fiat 127 assieme al maresciallo Rosario Cattafi e all’appuntato Giovanni D’Alfonso, ai quali si era aggiunto Pietro Barberis, del nucleo di polizia giudiziaria della procura. Dopo aver controllato un castello e altre due cascine, raggiunsero quella denominata Spiotta d’Arzello alle 11,30. Una stradina impervia e in salita s’arrampicava fra curve tortuose per una collina, sulla cui sommità sorgeva la costruzione formata da due blocchi. Davanti c’era uno spiazzo con un pozzo e un forno. Sotto un porticato, c’erano auto, il che significava che la casa era abitata. Il tenente Rocca assieme al maresciallo Cattafi bussò alla porta, mentre D’Alfonso era rimasto nel cortile. Dall’interno udirono il rumore di una radio e l’ufficiale scorse una donna che li stava osservando dietro le persiane di una finestra. Venne ad aprire un giovane e i carabinieri lo invitarono a uscire per un controllo. Ma quello strappò con i denti la sicura di una bomba e la lanciò verso il tenente che ebbe solo il tempo di alzare il braccio sinistro. La bomba esplose vicino al gomito, gli amputò l’arto e lo ferì gravemente al volto. Stava perdendo un mucchio di sangue, ma non cadde a terra e reagì al fuoco, continuando a dare ordini ai suoi uomini. Uscirono di corsa due giovani, quello che aveva lanciato la bomba e la donna, che salirono sulle macchine sotto il porticato cercando di fuggire, sparando con armi automatiche verso i militari. L’appuntato D’Alfonso venne colpito a morte da numerosi proiettili. I due brigatisti si trovarono la strada bloccata da Barberis. Mara Cagol finì con la sua auto contro la 127 dei carabinieri. L’auto dell’altro invece si schiantò su un salice. La donna sembrava ferita e urlò che si arrendeva. Ma il suo complice, nascosto dietro di lei, tirò un’altra bomba a mano. Barberis evitò l’esplosione e sparò altri tre colpi di pistola. La brigatista cadde al suolo morente. L’uomo invece si dileguò nella boscaglia. Alla fine del conflitto, D’Alfonso giaceva a terra in gravissime condizioni mentre Mara Cagol stava spirando. Il terzo uomo era sparito. Per dargli un nome così si torna in aula 50 anni dopo. Gli avvocati della difesa hanno richiamato nella loro memoria quello che disse nel 2008 l’eroe ferito di quel giorno lontano, il tenente Rocca: “Sono passati 30 anni, la guerra è finita, i nemici si stringono la mano, possiamo anche dire che va bene, anche se non accetto che ce li ritroviamo in Parlamento, all’Università. Gli scheletri ci sono da ambedue le parti”. Triveneto. Detenuti nelle imprese edili, firmato il nuovo protocollo di Daniela Gregnanin Il Mattino di Padova, 24 febbraio 2025 L’intento dell’accordo è dare lavoro a 50 persone, da diverse carceri “In questo modo potremo garantire un futuro vero a queste persone”. Siglato a Padova ieri nella sede del Provveditorato dell’amministrazione Penitenziaria di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, un protocollo tra Ministero della Giustizia, l’Associazione Costruttori Edili di Veneto e Friuli Venezia Giulia e l’Associazione Seconda Chance, che promuove iniziative volte a favorire la formazione e il successivo impiego di detenuti, presso alcune imprese edili. L’obiettivo del documento è quello di far incontrare due realtà: l’amministrazione penitenziaria e l’Ance, che ha bisogno di assumere manodopera preparata. L’intento nel Triveneto è dare un’opportunità di reinserimento lavorativo ai detenuti qualificandoli fuori e dentro i penitenziari. Da anni, i dati relativi al tasso di recidiva dimostrano che questa è al di sotto del 2% se una persona ha praticato e imparato un mestiere in prigione. Oggi, però, una difficoltà per i costruttori alla ricerca di personale tra i detenuti è dovuta ai limiti orari dell’articolo 21 O.P Legge sull’Ordinamento Penitenziario n. 354/1975 che permette l’assegnazione al lavoro esterno a scopo rieducativo come prevede l’art. 7 della Costituzione, solo in alcune fasce orarie e non sempre le ditte hanno commesse nelle zone vicine alle prigioni. “C’è l’idea di un progetto capace di individuare 50 soggetti da diversi istituti di reclusione e, dopo una selezione che ne constaterà l’idoneità, immetterli nel settore edile. Bisognerà identificare poi un carcere al quale appoggiarsi in Veneto, per garantire il rispetto dell’Alt 21 OP e favorire l’azienda edile che si approccerà all’iniziativa. Intanto cercheremo di far partire al meglio il protocollo siglato” ha spiegato Rosella Santoro, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Veneto, Fvg e Trentino Alto Adige. “Uno strumento meno facile dello svuota carceri, perché richiede impegno, ma questo protocollo è in grado di dare risposte concrete e un futuro vero ai detenuti. Solo così si abbassa l’indice di delinquenza” ha aggiunto Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia. “Chi è detenuto, grazie alle potenzialità espresse dal documento appena firmato, non sarà più invogliato a delinquere, perché avrà un lavoro e un futuro diversi”. Partner dell’iniziativa, l’associazione Seconda Chance, che negli ultimi tre anni ha trovato lavoro in tutta Italia a 470 ex detenuti. Intanto a Padova, al Castello dei Carraresi, la ditta deputata al restauro ha assunto due detenuti del Due Palazzi. Sardegna. Sanità nelle carceri sarde: tra carenze e diritti negati kalaritanamedia.it, 24 febbraio 2025 La sanità nelle carceri della Sardegna è in crisi, tra gravi carenze di personale e la mancanza di continuità terapeutica. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, che richiama l’attenzione su una situazione spesso dimenticata. “Dopo tredici anni dal passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, il diritto alla salute è ancora negato a chi è detenuto”, afferma Caligaris, sottolineando le difficoltà vissute nei principali istituti penitenziari dell’isola. In particolare, la situazione è critica nella casa circondariale di Uta, dove, nonostante la presenza di un presidio sanitario, vi sono detenuti affetti da tumori, insufficienze respiratorie e gravi disturbi psichiatrici legati alla tossicodipendenza. “Se la sanità non funziona per i cittadini liberi, a maggior ragione non funziona per chi ha perso la libertà”, aggiunge Caligaris. Un problema che si traduce nella difficoltà di accedere alle cure necessarie: “Chi è detenuto deve passare attraverso il CUP (Centro Unico di Prenotazione), ma senza reali opportunità di cura”. Oltre alle problematiche sanitarie, emerge anche la questione delle opportunità formative: “Scuola e formazione sono fondamentali. Dietro ogni detenuto c’è una famiglia, spesso con figli. I diritti si esigono, non si chiedono per favore”. A rendere la situazione ancora più difficile è il sovraffollamento carcerario. I numeri parlano chiaro: Casa circondariale di Uta: 755 detenuti a fronte di 561 posti disponibili. Carcere di Sassari-Bancali: 543 detenuti per 454 posti. “È un’emergenza da affrontare subito”, conclude Caligaris, sollecitando interventi urgenti per garantire condizioni di vita dignitose e il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Friuli Venezia Giulia. Il Garante: “Carcere San Vito al Tagliamento, un’opera attesa da anni” consiglio.regione.fvg.it, 24 febbraio 2025 “Il nuovo carcere che sarà edificato a San Vito al Tagliamento. È un’opera che, attesa da decenni, finalmente sembra concretizzarsi”. Lo afferma in una nota Enrico Sbriglia, Garante regionale dei diritti della persona a margine dell’evento di presentazione della nuova struttura penitenziaria che sorgerà nella provincia di Pordenone. “È stato un travaglio di almeno trent’anni se non di più - prosegue il Garante - e avendone vissuto, in altra funzione pubblica, alcune delle relative epoche, non posso dimenticare come uno straordinario merito vada attribuito all’ex sindaco Antonio Di Bisceglie che, ostinatamente, si era battuto affinché si pervenisse a tanto. Comprendendo, con il lucido intuito di un amministratore locale che conosce il proprio territorio, come la realizzazione di una importante struttura penitenziaria avrebbe giovato alla sua città, aiutando, altresì, lo Stato a meglio governare una situazione carceraria regionale che, già allora, si mostrava, così come in tutto il Paese, in grande affanno a causa del sovraffollamento detentivo. Oggi, grazie ad un grande impegno corale governativo, un primo risoluto passo operativo è stato compiuto, però c’è ancora tanto da fare e da programmare per tempo”. Sbriglia auspica, quindi, “che nelle prossime settimane venga costituito un tavolo di regia ad hoc, formato da rappresentanti delle istituzioni ed esperti, espressione di competenze multidisciplinari, perché il carcere deve essere luogo di cultura della legalità, di erogazione di servizi sanitari, di formazione professionale qualificata, di studio, di attività sportive che incarnino i valori della leale competizione e del corretto agonismo, di incontro con i familiari, con i figli anche minori, con il mondo del volontariato e pure luogo dove si coltiva, oppure si ritorna a coltivare, il proprio rapporto con la fede e dove ci si educa al tema dei diritti umani, civili, politici”. “Il carcere - prosegue il Garante regionale - è luogo del recupero della persona, come impone la nostra Costituzione e ha il compito di ricostruire la consapevolezza della responsabilità individuale e motivare il desiderio di riscatto personale. Ma per volerlo come ‘un bene pubblico’ e non, invece, trasformarlo in un problema sociale, occorre assicurare la predisposizione di tutta una serie di servizi ed in tempo debito”. Per Sbriglia “la Regione Fvg dovrà essere protagonista di questo percorso, in primis in tema di sanità penitenziaria, di cui ha la competenza esclusiva in materia. Il ministro della Giustizia, inoltre, dovrà porre in essere tutti i provvedimenti necessari, gia da ora, perché siano riaggiornate le dotazioni organiche del personale della polizia penitenziaria da assegnare, anche solo virtualmente, a Pordenone, perché ogni ritardo si trasformerebbe in una iattura e favorirebbe sentimenti di demotivazione tra i pochi agenti di stanza presso il carcere pordenonese, il cui numero attuale non raggiunge, probabilmente, neanche il 25% della forza necessaria”. “Si dovrà anche aggiornare anche il quadro dirigenziale, oltre quello dei funzionari giuridico-pedagogici, contabili, amministrativi e tecnici. Sarebbe auspicabile, inoltre, anche un vice-direttore che affianchi il dirigente titolare, il dr. Lamonaca. Si è parlato, infatti - evidenzia Sbriglia -, di un reparto di polizia penitenziaria di circa 200 agenti, contro i 43 attualmente in servizio. Ma si dovrà pure pensare al rafforzamento dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna e della stessa magistratura di sorveglianza. Si dovranno predisporre tutti i locali medicali, nel rispetto degli standard che attengono gli ambienti sanitari e assicurare il personale medico ed infermieristico, oltre che organizzare i servizi di medicina specialistica ai quali i detenuti sono più esposti, così come i servizi di telemedicina, nonché predisporre il reparto sanitario dedicato presso il vicino ospedale la cui prossimità è strategica per assicurare la tempestività degli interventi”. Il Garante ricorda, inoltre, che “si dovranno organizzare le attività di formazione professionale per le persone detenute, i di corsi scolastici dei diversi gradi d’istruzione, coinvolgendo la dirigenza generale dell’Usr e sportelli per accedere ai servizi sociali, per l’impiego, per i patronati; si dovrà favorire da subito la costituzione di una rete di leale collaborazione con il mondo delle associazioni e del volontariato e andranno rivisti i servizi di trasporto locale, sia per il personale che per gli stessi visitatori del carcere. Occorrerà, infine, anche dare delle risposte ai bisogni abitativi del personale penitenziario, onde evitare il loro desiderio di trasferimento in altre sedi”. “Le questioni indicate - conclude Sbriglia - sono solo una parte del dossier carcere d’affrontare. Questa Regione, però, ha tutte le carte per riuscirci, ma occorre fare presto, adesso, perché domani potrebbe essere già tardi”. Avellino. Chiusura Icam Lauro: “Indignarsi non basta, intervengano politica e magistratura” corriereirpinia.it, 24 febbraio 2025 Sono i Garanti territoriali campani dei detenuti a contestare duramente la scelta di chiudere l’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro aperto nel 2016 circola da giorni. Il garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello invoca un intervento della politica e della magistratura per evitare questa ingiustizia. “Domani mattina partiranno le ultime due donne presenti nel carcere per detenute madri di Lauro alla volta di Venezia e Milano. Michael, nato nel 2017 a Caltanissetta sta frequentando a Lauro la seconda elementare. Trinity, nata a Napoli il 2019 sta frequentando l’ultimo anno dell’infanzia. Bambini senza colpe! Vorrei ricordare alle autorità che hanno ordinato questi trasferimenti durante l’anno scolastico che l’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sancisce il principio che ogni legge, ogni provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino deve avere una considerazione preminente. E allora perché questa fretta? Perché questa chiusura? Andranno in carceri dove ci sono solo due donne con bambini. Per aprire Lauro, ristrutturando quello che era l’Icatt, furono spesi più di un milione di euro per accogliere trenta detenute madri con figli! Perché tenere aperti A Torino, Milano e Venezia tre mini-strutture e non chiuderne una lì? Comunque, da domani nessun agente di polizia penitenziaria, nessun amministrativo, educatore sarà impegnato altrove. Sono gettati al vento anche i finanziamenti del Consiglio regionale (30mila euro) per attività educative ed integrative e la disponibilità di una comunità di accoglienza per detenute madri con figli, in un bene confiscato a Quarto! Indignarsi è poco! Intervenga la politica e la magistratura”. Francesca Pascale: chiudere Icam Lauro è errore gravissimo “L’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, è l’unico Istituto a custodia attenuata per madri detenute presente nel Sud: chiuderlo e trasferire le mamme con i loro figli a Milano o Venezia è non solo un’ulteriore afflizione contro persone che comunque già stanno pagando per i propri errori, ma è un incomprensibile accanimento verso bambini e bambine che non hanno alcuna colpa”. Lo afferma Francesca Pascale in una nota diramata dal suo ufficio stampa. “Ho visitato due volte l’Istituto di Lauro - continua Pascale - insieme al Garante delle persone private della libertà della Campania, Samuele Ciambriello, per portare nel mio piccolo un contributo di solidarietà umana non solo alle mamme detenute, ma soprattutto ai loro figli che purtroppo pagano per le colpe dei genitori. Il posto per i bambini non può essere il carcere, dovrebbe essere vietato. È un tema su cui tutta la politica, senza distinzioni, dovrebbe interrogarsi e agire. Trasferire quei bambini in un’altra struttura, al Nord, comporterebbe l’interruzione anche del percorso scolastico intrapreso con evidenti ripercussioni anche sul loro benessere psicofisico e sul loro futuro. Ci si può professare orgogliosamente ‘donna, madre e cristiana’ e poi lasciare che bambini innocenti stiano dietro le sbarre e vengano spostati da una parte all’altra d’Italia come se fossero pacchi?” - conclude Pascale. Pescara. “Il carcere va delocalizzato”, il sindaco Masci torna a chiedere l’intervento del Governo ilpescara.it, 24 febbraio 2025 Il carcere di Pescara va delocalizzato. A reiterare la richiesta al ministero della Giustizia e all’Agenzia del demanio avanzata formalmente una prima volta nel 2021, è il sindaco Carlo Masci intervenendo nel dibattito sorto attorno alla situazione che si vive nella casa circondariale tornata agli onori delle cronache dopo i disordini di lunedì 17 febbraio quando, a seguito dell’ennesimo suicidio, è esplosa la rivolta. Un episodio che ha risollevato le critiche che ormai da anni sollevano i sindacati di polizia penitenziaria e che ha portato allo stato di agitazione degli avvocati che lamentano come, allo stato attuale, sia impossibile avere colloqui riservati e dunque rispettosi della dignità della professione e dei detenuti stessi. “Quanto accaduto nei giorni scorsi nel carcere di Pescara riaccende i riflettori in maniera preoccupante sulla casa circondariale, da tempo alle prese con una serie di problemi irrisolti che meritano la massima attenzione istituzionale - dica quindi il sindaco -. Il suicidio di un giovane detenuto e una violenta rivolta negli spazi del carcere del capoluogo adriatico, mi spingono a sollecitare al governo un intervento ormai improcrastinabile”, aggiunge avanzando dunque nuovamente la richiesta perché si proceda con la delocalizzazione del carcere di San Donato. “I recenti episodi hanno messo ancora una volta in luce il profondo malessere che vivono quotidianamente i reclusi e il personale della polizia penitenziaria, un disagio che appare inconcepibile soprattutto perché si protrae da tempo immemore, con allarmi costanti e ripetuti fino allo sfinimento dai rappresentanti dei lavoratori, mai affrontati alla radice”. “I problemi del carcere locale, da quelli strutturali a quelli legati alla carenza di personale, vanificano o comunque mettono pesantemente a rischio la funzione del carcere stesso, che deve sempre mirare alla rieducazione e al reinserimento sociale, e rendono impossibile il lavoro della polizia penitenziaria”, sottolinea quindi Masci ricordando della richiesta fatta già nel 2021 quando mise “in evidenza l’opportunità di pensare a un sito alternativo, trattandosi di un evidente detrattore ambientale in una città che si va trasformando e riqualificando sempre più e che ora guarda anche alla fusione con i comuni di Montesilvano e Spoltore. E questo processo di rinnovamento ci impone di avere uno sguardo sempre più globale che affronti nodi rimasti troppo a lungo insoluti”. “Nelle missive dell’epoca, indirizzate al sottosegretario, al ministero e all’Agenzia del demanio, parlavo anche dell’obiettivo virtuoso di promuovere la realizzazione di moderne strutture carcerarie da collocare nel più ampio territorio provinciale o comunque in zone meno antropizzate, implementando i servizi penitenziari. Oggi, a distanza di anni - ribadisce -, con la medesima convinzione di allora, torno a lanciare lo stesso identico appello aggiungendo che non c’è tempo da perdere, che una soluzione va cercata e attuata, e che bisogna muoversi all’unisono, dal governo fino al livello istituzionale locale, per marciare insieme e con convinzione verso la soluzione di un problema che non può più essere rinviato”. “Quel dialogo istituzionale che ci ha già consentito di affrontare positivamente altre emergenze del territorio va attivato quanto prima per individuare risposte a una questione delicatissima per chi la vive in prima persona ma che interessa più in generale tutta la collettività pescarese, se si tiene conto che attualmente il carcere è inserito nel contesto urbano, in un’area con caratteristiche profondamente diverse rispetto al periodo in cui è stato costruito. La filiera che parte dal Comune di Pescara, passa per la Regione Abruzzo e arriva in parlamento e al governo è stata, negli ultimi anni, foriera di risposte per il territorio e il mio auspicio - conclude il primo cittadino - è che l’esito sia lo stesso anche per quanto attiene alle istanze sul carcere pescarese”. Padova. Giotto, la cooperativa sociale del carcere ora è un modello di Sara Tirrito Corriere della Sera, 24 febbraio 2025 Crescita ed espansione dando lavoro ai fragili. La cooperativa sociale Giotto ha portato per la prima volta il lavoro dentro il carcere, allestendo interi reparti di produzione nel penitenziario di Padova. Nel 2024 ha registrato un fatturato pari a 17 milioni, ha 600 dipendenti di cui 90 detenuti. Le imprese sociali non solo fanno utili ma se funzionano possono diventare un modello in tutto il mondo. Parla chiaro la storia della Cooperativa sociale Giotto, oggetto di studio del libro “La cooperativa sociale Giotto una normalità eccezionale” pubblicato per il Mulino. L’autrice, Vera Negri Zamagni, storica dell’Economia all’Università di Bologna e per la sede italiana della Johns Hopkins University, ci ha lavorato per due anni, incontrando le persone e studiando i bilanci fino al 2022. In quei registri Zamagni ha visto un modello da imitare. La storia e la scelta di portare il lavoro dentro il carcere - Fondata in Veneto nel 1986, la cooperativa sociale di tipo B Giotto nasce come Agriforest da un gruppo di laureati in Scienze agrarie e forestali per offrire servizi di manutenzione e cura di parchi e giardini. Accomunati da una vocazione sociale, nel 1991 devono occuparsi del verde della Casa di reclusione di Padova e propongono un corso gratuito di giardinaggio per 20 detenuti che dura da 35 anni. Per fare la differenza, dal 2005 portano il lavoro all’interno del carcere tramite un doppio binario: appalti pubblici e coinvolgimento delle imprese private. “Mi occupo di movimento cooperativo da oltre 30 anni - spiega la professoressa Zamagni -, ma Giotto aveva una caratteristica per me importante: era una cooperativa sociale in grado di offrire servizi al territorio in maniera efficace”. Oggi Giotto ha 600 dipendenti di cui 90 detenuti, un centinaio di persone con disabilità e un altro centinaio di lavoratori con problemi di marginalità. Tra i primi progetti la pasticceria (premiata dal New York Times per un panettone tra i migliori d’Italia) gestita da una cooperativa mobilitata da Giotto, tra quelli attuali, progetti di lavoro con In questo modo è riuscita a crescere nei ricavi, che era sotto al milione di euro fino al 1990, cresciuti costantemente da quando Giotto è una cooperativa sociale, fino a raggiungere i 17 milioni di euro nel 2024 con utili annui medi del 5%. Il modello esportato in tutto il mondo - Ora ha aperto un punto ad Alcamo e creato collaborazioni con il terzo settore di mezza Europa e in Brasile, dove la sua esperienza è stata presa a modello. “Giotto è l’esempio di come per costruire qualcosa di innovativo non si debba restare nei propri appartamenti ma coinvolgere una rete di persone che possono contribuire al processo”, spiega Zamagni. Grazie anche agli spazi del carcere di Padova, una struttura moderna Giotto ha portato le attività dentro l’istituto penitenziario con salari standard. Tra i progetti più duraturi quello con Illumia per i call center e con Valigeria Roncato, che tramite la cooperativa da 20 anni affida ai detenuti di Padova il montaggio di alcune parti delle valigie prima realizzato all’estero. “Sono bravi”, dice nel libro il direttore generale Cristiano Roncato nel libro, dove la parola “bravi” traduce una riduzione degli scarti di produzione dal 35% all’1%. Alla base della visione di Giotto c’è un’idea ribadita in vari modi nei bilanci sociali: “Non facciamo niente di eccezionale, solo quello che prevedono la Costituzione e le leggi”, dice Nicola Boscoletto, socio fondatore.Il tasso di recidiva della popolazione detenuta in Italia in media è dell’80%, nella cooperativa Giotto è sotto al 10%. Rovigo. Presentazione del libro: “La Cooperativa sociale Giotto. Una normalità eccezionale” La Voce di Rovigo, 24 febbraio 2025 La storia della cooperativa sociale che ha dato riscatto lavorativo all’interno del carcere di Padova. Martedì prossimo 25 febbraio, con inizio alle 18, alla sala della Gran Guardia di Rovigo, il circolo di Rovigo ed il Centro culturale “Giacomo Sichirollo”, con il patrocinio del Comune di Rovigo assessorato ai servizi sociali ed in collaborazione con l’associazione Vivirovigo Aps, promuovono la presentazione del libro della professoressa Vera Negri Zamagni, docente di storia economica all’università di Bologna, “La Cooperativa sociale Giotto. Una normalità eccezionale” (Edizioni Il Mulino). Saranno presenti anche Nicola Boscoletto, socio fondatore della cooperativa Giotto di Padova e Giovanni Maria Pavarin, già magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova. Il libro racconta la storia della cooperativa Giotto, sorta a Padova a metà degli anni 80 e che nel tempo si è saldamente inserita all’interno del carcere Due Palazzi di Padova radicando varie linee di lavoro vero e remunerato per i carcerati, fra cui una pasticceria nota oggi in tutta Italia (i famosi panettoni della Giotto), un call center e l’assemblaggio di vari prodotti. Insomma la storia di una cooperativa sociale che all’interno di un carcere ha significato riscatto e dignità per tante persone. Ivrea (To). Le criticità del carcere al centro del Consiglio comunale straordinario primailcanavese.it, 24 febbraio 2025 Il Consiglio si svolgerà all’interno della Casa circondariale. Progetti, problematiche e futuro relativi alla vita delle persone private della libertà’ e di tutto il personale della casa circondariale di Ivrea. È il punto all’ordine del giorno del Consiglio Comunale convocato in sessione straordinaria e aperta per il giorno di martedì 25 febbraio 2025 alle ore 16,30 presso la Casa Circondariale di Ivrea. È di appena qualche giorno fa la notizia diffusa dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) di due aggressioni che si sono consumate in poche ore all’interno della struttura carceraria eporediese. A farne le spese altrettanti agenti della polizia penitenziaria. Il primo episodio è accaduto il 19 febbraio 2025 alle ore 10, quando un detenuto di origini magrebine ha aggredito un agente di polizia penitenziaria in servizio al primo piano. A scatenare la violenza del detenuto è stato il rifiuto dell’agente di farlo stare nel locale docce con le porte aperte come l’uomo pretendeva, nonostante il reparto fosse a regime chiuso. A seguito dell’aggressione il poliziotto è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale di Ivrea dal quale è stato dimesso con una prognosi di quattro giorni. È di tre giorni invece la prognosi per il collega che è stato aggredito il 20 febbraio 2025 alle ore 19.30. Coinvolto nuovamente un detenuto di origine magrebina che ha colpito l’agente di polizia penitenziaria di turno, motivando l’aggressione con il fatto di essere stanco di rimanere chiuso in cella. “La situazione di instabilità interna nella casa circondariale di Ivrea è evidente e grave: non può più essere ignorata - dice il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - da tempo, come sindacato, segnaliamo la totale anarchia che regna all’interno dell’istituto, con il personale completamente abbandonato a se stesso. La mancanza di un comandante titolare da anni, nonostante le vane promesse del sottosegretario Andrea Delmastro, sta peggiorando una situazione di totale inefficienza. Il carcere è in un completo stato di abbandono. Queste aggressioni sono solo la punta dell’iceberg di una condizione insostenibile che mette a repentaglio la sicurezza di chi ogni giorno svolge il proprio lavoro con serietà e dedizione - aggiunge Beneduci - chiediamo con urgenza che il ministro Carlo Nordio si accorga delle penose condizioni in cui opera, ormai da troppo tempo, il personale del corpo ed intervenga affinché la casa circondariale di Ivrea riceva il sostegno e le risorse necessarie per riportare la sicurezza all’interno della struttura”. Cosenza. Foglieni (Aiga): “Serve accesso a percorsi studio e lavoro qualificanti per detenuti” cosenzachannel.it, 24 febbraio 2025 Servono carceri più moderne, per permettere attività socializzanti e lavorative, perché la finalità della pena rimane sempre quella rieducativa. Con un programma di formazione per garantire ai detenuti l’accesso a percorsi di studio e lavoro qualificanti. È l’accorato appello che lancia l’Aiga (Associazione Giovani Avvocati), in occasione del consiglio direttivo in corso oggi e domani a Cosenza dal titolo “Diritti fondamentali, il coraggio di essere umani”. “Un tema - spiega Carlo Foglieni, presidente Aiga - che non può non toccare l’emergenza carceri, per il quale riteniamo urgente una riforma dell’ordinamento penitenziario. Qualche anno fa, Aiga ha istituito un Osservatorio per monitorare su tutto il territorio nazionale la situazione carceraria: dalle varie visite, abbiamo conosciuto una situazione molto grave, anzitutto in riferimento alle strutture: circa il 20 per cento delle carceri italiane insiste in strutture create tra il 1200 e il 1500 e riadattato nei secoli”, sottolinea. Per Foglieni quindi “serve dunque un miglioramento delle strutture, che diventino più moderne, una sorta di ‘città’ con possibilità di attività lavorative e socializzanti perché la finalità della pena rimane sempre quella rieducativa. Altro tema centrale sono i detenuti tossicodipendenti, circa il 30% dei detenuti totali: servono percorsi che garantiscano il diritto alla cura e al reinserimento sociale, fermo restando che bisogna sempre contemperare l’esigenza della punizione con quella della rieducazione”, sottolinea ancora Foglieni. E nell’agenda dei giovani avvocati non manca il tema migranti. “Altro aspetto importante -sottolinea Foglieni- è legato ai detenuti stranieri, spesso quelli incarcerati sono uomini senza fissa dimora. Molti si trovano in una situazione nella quale, in presenza di una eventuale misura alternativa, non possono essere mandati in alcuna struttura. C’è un accordo con Anci per adattare strutture che potrebbero ospitare detenuti senza fissa dimora. Un altro tema fondamentale è l’implementazione della magistratura di sorveglianza: nel momento in cui le procedure sono lente, il congestionamento delle carceri è inevitabile”. “Altre proposte riguardano la telemedicina nelle carceri, per portare servizi sanitari direttamente all’interno degli istituti penitenziari, e un programma di formazione per garantire ai detenuti l’accesso a percorsi di studio e lavoro qualificanti”, conclude. Firenze. Carcere e giustizia: Forza Italia apre il dibattito su una riforma necessaria okfirenze.com, 24 febbraio 2025 Esperti e politici a confronto per ripensare il sistema penitenziario e tutelare la dignità umana. Il 22 febbraio a Sesto Fiorentino, Forza Italia Calenzano e il coordinamento provinciale di Firenze hanno organizzato un importante incontro sul tema del carcere e della giustizia, con la partecipazione di esperti del settore, operatori penitenziari e avvocati. L’obiettivo è stato quello di analizzare i fallimenti dell’ordinamento penitenziario degli ultimi 50 anni, evidenziando come il carcere sia divenuto oggi un luogo di mortificazione della dignità umana piuttosto che un ambiente di espiazione della pena e rieducazione. La giornata ha visto la partecipazione di figure di alto livello nel panorama giuridico e sociale: Antonietta Fiorillo, già Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze e Bologna, l’avvocato Luisa Renzo del foro di Firenze, esperta in esecuzione della pena, l’avvocato Sara Mazzoncini del foro di Prato, specializzata in diritto dell’esecuzione penale, e Don Vincenzo Russo, ex cappellano della casa circondariale di Sollicciano. L’evento ha visto la presenza di consiglieri comunali, dirigenti di Forza Italia, studenti, avvocati, esponenti della polizia penitenziaria, volontari ed educatori, tutti impegnati a portare il loro contributo alla discussione. La riflessione si è concentrata in particolare sulla necessità di una riforma strutturale, evidenziando questioni cruciali come la formazione e il lavoro all’interno delle carceri. La discussione ha messo in luce la necessità di un’applicazione più incisiva della Legge Smuraglia, che favorisce l’inserimento lavorativo dei detenuti, e di una riconsiderazione della sanità penitenziaria, per garantire un’efficace tutela della salute all’interno degli istituti di detenzione. Questi temi saranno oggetto di una relazione dettagliata che sarà sottoposta ai vertici nazionali di Forza Italia, in particolare al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto che possa mettere in evidenza, anche, le condizioni lavorative anche degli educatori e della polizia penitenziaria. Il documento sarà curato da Biancastella Maienza, responsabile formazione del coordinamento provinciale di Firenze insieme a Simone Campinoti consigliere comunale di Empoli, con il supporto di Rosanna Fantini e Giovanni D’Uva, dirigenti di Forza Italia per la provincia di Firenze. L’incontro ha rappresentato un’occasione di confronto approfondito su una tematica di fondamentale importanza, confermando l’impegno di Forza Italia nel promuovere una giustizia più equa ed efficace, capace di coniugare sicurezza, rieducazione e rispetto della dignità umana. Ancona. Sbarre invisibili, testimonianze dal carcere oltre il pregiudizio liceogalileiancona.edu.it, 24 febbraio 2025 Sarà un’Assemblea d’Istituto del tutto insolita quella organizzata dagli studenti e dalle studentesse del Liceo Scientifico Galileo Galilei di Ancona. Grazie al sostegno dell’Amministrazione comunale di Ancona e alla disponibilità della Casa Circondariale di Montacuto - i ragazzi, mercoledì (26 febbraio, ore 9.00 - 12.30), incontreranno i detenuti e le istituzioni che gravitano attorno al sistema carcerario italiano. L’appuntamento è al Teatro Sperimentale di via Redipuglia, il cui uso gratuito, per l’importante occasione, è stato concesso proprio dal Comune dorico. L’evento, dal titolo “Dentro e fuori, storie, testimonianze e riflessioni sul sistema carcerario italiano”, sarà dedicato al tema della detenzione carceraria e ai princìpi della giustizia riparativa. “L’obiettivo della giornata - sottolinea la Dirigente Scolastica del Galilei, professoressa Alessandra Rucci - è quello di approfondire argomenti di grande rilevanza sociale e civile, quali il funzionamento del sistema penitenziario, i diritti dei detenuti, l’importanza del lavoro dei volontari e il ruolo dell’educazione nel percorso riabilitativo”. “Il tutto - prosegue - coinvolgendo gli studenti in un confronto critico con gli esperti che sono stati invitati a presenziare, dal Garante Regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Avvocato Giancarlo Giulianelli al Comandante della Casa Circondariale di Montacuto, Nicola De Filippis”. Con lui, pure il Responsabile dell’area educativa Dr. Francesco Tubiello, l’ex detenuto Pietro Rumori e il detenuto Pierdonato Zito (in videocollegamento da Napoli). L’introduzione alla tematica verrà resa dalla professoressa Federica Giombetti, docente del Galilei già insegnante presso il carcere di Montacuto. Seguiranno i vari interventi con una tavola rotonda a cui parteciperanno i volontari Caritas Giorgia Coppari e Simone Marconi nonché l’associazione Hexperimenta Simona Zepponi. Tutti gli ospiti, dopo aver illustrato la loro esperienza, saranno a disposizione degli studenti per rispondere alle loro domande. Alcune classi parteciperanno in presenza, altre da remoto. Una misura, questa, che si è resa necessaria per motivi organizzativi legati alla visita pomeridiana del Ministro dell’Istruzione e del Merito, prof. Giuseppe Valditara, prevista per mercoledì 26 febbraio (ore 14.30), presso il nostro istituto. L’iniziativa, frutto di un grande sforzo organizzativo, è stata possibile grazie al sostegno dei rappresentanti d’istituto del Galilei, delle prof.sse Orsola Caporaso e Magda Fiori, della Consulta provinciale degli studenti e del Comune di Ancona. Udine. Accordo col Tribunale, i “messi alla prova” scontano la pena all’Università di Manuel D’Angeli udinetoday.it, 24 febbraio 2025 Opportunità di recupero per gli imputati di fatti lievi o sospesi. La convenzione permette di dare un’occasione agli imputati di pene lievi o sospese tramite l’esecuzione di lavori di pubblica utilità. Prosegue la collaborazione tra l’Ateneo friulano e il Tribunale di Udine per dare un’opportunità di recupero sociale agli imputati di reati puniti con pene lievi o sospese. Grazie a una specifica convenzione, infatti, l’Università di Udine potrà impiegare fino a tre persone ammesse all’istituto della messa alla prova subordinata allo svolgimento di lavori di pubblica utilità. In cosa consiste la messa alla prova - L’occupazione, non retribuita, può avere una durata variabile da due mesi e mezzo a un anno. La convenzione, di durata triennale, è stata firmata dal rettore, Roberto Pinton, e dal presidente del Tribunale, Paolo Corder. Il lavoro di pubblica utilità è una prestazione non retribuita a favore della collettività prevista dall’articolo 168 bis (comma 3) del Codice penale. Su richiesta dell’imputato il giudice può sospendere il procedimento in corso e disporre la messa alla prova in base a un programma dell’Ufficio di esecuzione penale esterna basato sul compimento di una prestazione di pubblica utilità. Che tipo di lavori verranno svolti - In base alla convenzione, le persone ammesse a questo istituto potranno dunque coadiuvare gli uffici dell’Ateneo friulano in attività a supporto di alcuni servizi. In particolare, quelli amministrativi e di portierato, di assistenza informatica, di custodia delle biblioteche e delle aree interne, di fruibilità e tutela del patrimonio culturale e archivistico, di piccola manutenzione, di cura del verde e di pulizia delle aree esterne. Dopo un’apposita formazione i beneficiari del programma potranno svolgere le mansioni loro assegnate in una delle diverse sedi universitarie a Udine e, se del caso, anche di Gorizia e Pordenone. I lavori di pubblica utilità per messa alla prova prevedono il rispetto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato. Le attività si possono svolgere presso lo Stato, le Regioni, i Comuni, le aziende sanitarie o nelle sedi di enti, tra cui le università, o organizzazioni, anche internazionali, e di volontariato, che operano in Italia. Asti. Il teatro oltre le sbarre: il carcere riapre le porte ai cittadini lavocediasti.it, 24 febbraio 2025 Sabato 15 marzo torna in scena “Non sia un giorno come tanti”, lo spettacolo dei detenuti di Alta Sicurezza che emoziona e fa riflettere. Il teatro oltre le sbarre: il carcere di Asti riapre le porte ai cittadini. “Sul palco ci sentiamo liberi, già liberi...oltre questo luogo, queste mura. Sentiamo che il teatro ci migliora come persone. Abbiamo sbagliato, ma di questi errori possiamo fare tesoro per noi stessi, per i nostri familiari, per riprendere le redini delle nostre vite. Vedere la sala piena e sentire che la platea partecipava con vera emozione ci ha fatti sentire orgogliosi e capaci di fare ancora qualcosa di buono. È un’esperienza che rimarrà come una di quelle più belle e importanti della nostra vita.”: il carcere astigiano apre nuovamente le porte ai cittadini con il lavoro di Teatro Oltre, gruppo di venti detenuti di Alta Sicurezza, sabato 15 marzo, alle ore 10 (presentarsi all’ingresso un’ora prima). Lo spettacolo “Non sia un giorno come tanti” è già stato apprezzato da un folto ed entusiasta pubblico a novembre 2024 e ora la Casa di Reclusione, unitamente ad Agar APS che ne ha curato l’allestimento, l’assessorato alla cultura del Comune e il Teatro Alfieri, propongono una nuova replica. Come indicato dal titolo, anche questa volta, sarà un giorno diverso, unico, non solo per gli attori ma per gli stessi spettatori come riportano i commenti scritti di chi ha assistito alla rappresentazione “Il pubblico è stato toccato nel profondo trovandosi di fronte a un’umanità spogliata dai pregiudizi. È un teatro che non solo racconta, ma risveglia e offre uno sguardo privilegiato sulla vulnerabilità, sulla forza e sulla possibilità di rinascita. Al termine si resta con il cuore colmo di gratitudine”. Prenotazione obbligatoria entro il 4 marzo tramite e-mail a biglietteriateatroalfieri@comune.asti.it allegando copia della carta di identità. La prenotazione verrà confermata in prossimità dello spettacolo e sarà possibile ritirare i biglietti 10 euro al teatro Alfieri. Verona. Salta il matrimonio per un detenuto. “Non lasci Rebibbia” ansa.it, 24 febbraio 2025 Diventa un caso la vicenda di Ion Nicole, detenuto 51enne romeno a Rebibbia, che doveva sposarsi con la compagna lunedì 24 febbraio a Bovolone (Verona), e che invece si è visto stoppare all’ultimo, dal giudice di sorveglianza di Roma, il permesso a lasciare il carcere. Nessuno spostamento, ha sentenziato la sorveglianza, informando gli avvocati della futura sposa: “Il giudice - spiega la donna, Micaela Tosato - mi ha comunicato che abbiamo diritto di sposarci ma non di scegliere il luogo della cerimonia. Ci invita a celebrare le nozze nel carcere di Rebibbia, ma assolutamente non a Bovolone”. Il che intanto fa saltare la data di domani, la festa e il pranzo di nozze e l’arrivo a Bovolone degli invitati al matrimonio. Nicolae aveva ottenuto il nulla osta alle nozze dal consolato di Romania; tra le autorità italiane e quelle di Bucarest è infatti in corso una interlocuzione per far sì che Ion - fine pena prevista nel 2027 - possa scontare l’ultima parte della detenzione nel paese d’origine. La preparazione delle nozze, con pubblicazioni già fatte, aveva visto il coinvolgimento fattivo del sindaco e del Comune di Bovolone. Lo stop ora preoccupa la futura sposa, alla luce - spiega - delle minacce e dei tentativi di suicidio messe in atto da Ion negli ultimi mesi. L’uomo, trasferito solo pochi mesi fa dal carcere di Montorio (Verona) a Rebibbia, sta seguendo un percorso di giustizia riparativa, e una volta scontata la pena ha un posto di lavoro già pronto in una ditta locale. Il permesso a spostarsi dal carcere “viene concesso in caso di imminente pericolo di vita di familiari o per eventi familiari di particolare gravità - ricorda Micaela Tosato - Questo non vale solo per tutti i Nicolae di turno? Perché solo pochi mesi fa - ricorda - questo tipo di permesso veniva concesso a Chico Forti solo dopo due giorni del suo arrivo in Italia a Montorio. La mamma, che si recò a trovare a Trento, anziana sì, ma non in pericolo di vita. Nulla da dire sulla sensibilità del magistrato che lo ha concesso, ma tale attenzione dovrebbe esserci verso tutti. Cosa che non pare”. “I garanti dei detenuti di Roma, del Lazio e nazionale - conclude - si sono messi subito a disposizione fattivamente ma non è bastato, Nico ha già tentato il suicidio ed è in grado di farlo ancora”. Firenze. 24 febbraio 1974, la rivolta alle Murate: l’episodio che cambiò le carceri italiane di David Allegranti La Nazione, 24 febbraio 2025 Un fatto che riaccese la lotta per i diritti dei detenuti e aprì la strada alla riforma penitenziaria. Il 24 febbraio del 1974, nel pieno di una stagione carceraria ancora regolata dalle norme fasciste del 1931, un gruppo di detenuti del penitenziario delle Murate di Firenze salì sul tetto in segno di protesta. La scintilla che fece divampare la rivolta fu la reazione di un agente di custodia che, aprendo il fuoco con una raffica di mitra contro i rivoltosi, uccise il ventenne Giancarlo Del Padrone e ne ferì gravemente altri otto. Del Padrone, al suo primo reato e in attesa di processo, era stato arrestato quindici giorni prima per il furto di un’auto. L’episodio, invece di sedare il malcontento, alimentò ulteriormente la protesta. Sulla cima dell’edificio il numero di carcerati pronti a ribellarsi crebbe di ora in ora, mentre all’esterno si formò un folto gruppo di dimostranti. Gli scontri con le forze dell’ordine infiammarono il quartiere di Santa Croce, trasformandolo in un vero e proprio campo di battaglia per tutta la notte. Il fervore scoppiato a Firenze fece da detonatore anche per altre carceri: poche ore dopo, i detenuti di Genova e di Alessandria organizzarono proteste simili, rendendo la situazione generale ancora più esplosiva. In quegli anni, segnati dal clima teso della cosiddetta “strategia della tensione”, diventa difficile distinguere tra proteste politiche, tentativi di evasione o semplici rivendicazioni di condizioni detentive dignitose. Lo Stato, da parte sua, non mostrò alcuna flessibilità: nel penitenziario di Alessandria, il sequestro di quattordici ostaggi da parte di tre detenuti venne risolto con l’intervento dei carabinieri coordinati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che causò la morte di due carcerati e di cinque persone tenute in ostaggio. Forse anche a causa di questi tragici avvenimenti, o perché i tempi erano effettivamente maturi, nel 1975 si arrivò alla tanto attesa riforma dell’ordinamento penitenziario. Si attuò così, almeno dal punto di vista legislativo, il principio costituzionale che prevede pene orientate al recupero del condannato e al rispetto del senso di umanità. Fu un passo avanti fondamentale rispetto all’obsoleto regolamento del 1931, ancora permeato da logiche di punizione e isolamento totale dal resto della società. Da quell’anno, l’Italia cercò di imboccare una via più attenta ai diritti dei detenuti e alle loro prospettive di reinserimento, sebbene il cammino per una piena applicazione dei valori costituzionali fosse - e rimanga tutt’oggi - irto di difficoltà. Fine vita, il gelo di Pd e M5S sul piano Schillaci: “No all’obbligatorietà delle cure palliative” di Paolo Russo La Stampa, 24 febbraio 2025 Dopo l’esempio della Toscana, il pressing delle Regioni spinge la maggioranza ad accelerare per una legge nazionale sul suicidio assistito. Ma l’idea lanciata da Forza Italia non convince i dem: “Imporre un trattamento è contro la legge”. Zaia: “Basta aspettare, ascoltiamo i malati”. L’idea lanciata da Forza Italia di dare il via libera al suicidio assistito solo dopo un ciclo di cure palliative obbligatorio non convince Pd e Cinquestelle. Ma il pressing delle Regioni, che comprese quelle a trazione leghista sono pronte a farsi la loro legge seguendo l’esempio toscano, sembra aver spianato la strada a una soluzione parlamentare bipartisan. A svelarlo è la pentastellata Maria Domenica Castellone, vice presidente del Senato e firmataria di uno dei disegni di legge in discussione. “Nei colloqui di queste ore il Relatore, Pierantonio Zanettin (FI), ha comunicato ai componenti del Comitato ristretto la volontà di voler presentare per i primi giorni di marzo un testo unificato dei quattro presentati a Palazzo Madama e che l’articolato partirà dai quattro criteri fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 2019”, rivela la numero due del Senato. Rimarcando come “questa sia una grossa novità, se si considera che nelle 60 audizioni svolte non è mancato chi invece chiedeva un passo indietro rispetto a quei principi”, rimarca sempre Castellone. Quindi, se legge nazionale sarà, il suicidio assistito verrà autorizzato in caso di irreversibilità della malattia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, dipendenza da un sostegno vitale. Fatto non scontato soprattutto quest’ultimo, visto che la Consulta ha ricompreso in questa condizione non solo chi è attaccato a una macchina ma anche i malati che devono sottoporsi a trattamenti invasivi come chemio e radio. Un ampliamento del concetto di sostegno vitale fino a ieri osteggiato da parte degli esponenti di area cattolica. Per raggiungere l’intesa bisognerà però vedere cosa si vorrà aggiungere o togliere ai quattro paletti fissati dai giudici costituzionali. Uno in più ha proposto di piantarlo proprio il relatore Zanetti, ipotizzando un ciclo di cure palliative obbligatorio prima di ricorrere al suicidio assistito. Idea mezzo bocciata dal dem Alfredo Bazoli, anche lui firmatario di un ddl al Senato. “Si può pensare di prevedere che le strutture sanitarie mettano a disposizione le cure palliative prima di avviare la procedura del fine vita ma -precisa- il trattamento non può essere obbligatorio, anche perché sarebbe incostituzionale. Non a caso oggi l’unico obbligo consentito è il Tso per i disturbi psichiatrici gravi, ma a tempo limitato”. Anche per Castellone si tratta di una strada difficilmente percorribile, “sia perché la rete di cure palliative non è ancora presente in tutte le aree del Paese, sia perché alcune patologie, come quelle neurodegenerative che costringono il paziente a vivere attaccato alle macchine, non ne trarrebbero alcun beneficio”. Ma che l’accelerazione verso una la legge parlamentare condivisa ci sia stata lo confermano anche le uscite di ieri del vicepresidente della Camera, l’azzurro Giorgio Mulè e del Doge veneto, Luca Zaia. “Forza Italia -afferma il primo- deve andare avanti per la sua strada, che è lastricata di diritti e garanzie. La coscienza ci dice di agire ritenendoci completamente liberi da vincoli di maggioranza”, ha aggiunto lanciando un segnale chiaro a FdI e Lega. Anche se per Zaia “è ora di finirla con le chiacchiere e di fare questa legge, fissando i tempi della risposta da dare alla richiesta del malato e stabilendo chi somministra il farmaco”. Migranti e criminalità, in Germania l’Istituto conservatore Ifo nega che esista un nesso di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2025 Vale anche per l’Italia? I dati del Viminale. Secondo i dati del ministero di Piantedosi, gli stranieri denunciati o arrestati sul territorio nazionale da gennaio a settembre 2024 sono in totale 586 mila. Di questi, 41 mila sono extracomunitari regolari, mentre 98 mila sono gli irregolari, con un’incidenza rispettivamente del 7,1% e del 16,7%. Se non decisivo, il tema dei migranti sarà tra quelli determinanti nelle elezioni in Germania. L’estrema destra dell’AfD non ha dubbi sulla relazione tra criminalità e immigrazione, tema rilanciato con insistenza anche dal nuovo presidente americano Donald Trump: “I media corrotti sono indignati perché io continuo a parlare di criminalità dei migranti e dell’epidemia di crimini dei migranti”, si è lamentato pochi giorni prima di essere rieletto. Lunedì scorso, per sottolineare la necessità di aumentare i rimpatri, il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi, ha spiegato che, in base ai dati del Viminale, tra gli irregolari ci sarebbe una delittuosità maggiore rispetto agli stranieri regolari o agli italiani. Gli stranieri sono quasi sempre sovra-rappresentati nelle statistiche criminali e nelle carceri rispetto alla loro percentuale sulla popolazione totale. Significa che esiste un nesso tra migranti e maggiore delittuosità? Gli studi sul sembrano dire il contrario, compreso quello appena pubblicato dall’Ifo di Monaco di Baviera, istituto di ricerca liberale e conservatore. In base ai dati della polizia criminale (PKS) tedesca tra il 2018 e il 2023, l’Istituto spiega che la sovra-rappresentazione è attribuibile a fattori specifici del luogo in cui gli stranieri vivono, come l’alta densità di popolazione, la situazione economica e l’elevato tasso di illegalità, fattori che influenzerebbero il rischio di criminalità indipendentemente dall’origine. Poiché gli stranieri tendono a vivere più spesso in aree ad alta illegalità, si crea una correlazione statistica tra la loro presenza e i tassi di criminalità locali. Secondo l’Ifo, le analisi condotte negano che un aumento della quota di immigrati porti a un aumento della criminalità. Si sottolinea invece l’importanza di considerare i fattori locali e le politiche di integrazione, come i corsi di lingua e l’accesso al mercato del lavoro, che possono ridurre il rischio di criminalità tra i migranti. Al contrario, si avverte, limitazioni nell’accesso a documenti, istruzione e mercato del lavoro per i richiedenti asilo possono avere conseguenze negative a lungo termine sulla loro integrazione economica e sociale. Da ultimo, l’istituto mette in guardia contro le errate percezioni sulla migrazione, spesso alimentate “da una rappresentazione mediatica distorta e da fattori psicologici e socioculturali”, suggerendo di incentivare una maggiore comprensione del ruolo degli immigrati nella società per sviluppare politiche efficaci e promuoverne l’integrazione. ?Analisi che, a quanto pare, concordano coi risultati di altre ricerche internazionali sul tema, comprese quelle che riguardano l’Italia e gli Stati Uniti. Uno studio internazionale su 23 paesi europei firmato da Olivier Marie dell’Università di Maastricht e Paolo Pinotti della Bocconi non ha trovato alcun collegamento significativo tra immigrazione e criminalità. “Utilizzando metodi statistici rigorosi, emerge che, anche in aree con un’immigrazione sostanziale, i tassi di criminalità non aumentano. In alcuni casi, addirittura diminuiscono leggermente”, è stato poi riportato. Tra le ragioni per cui si ritiene che l’immigrazione alimenti la criminalità c’è, secondo gli autori, l’influenza dei media e della retorica politica. Secondo le ricerche citate, permessi di lavoro legali e impieghi stabili sono direttamente collegati alla riduzione dei tassi di criminalità. Anche in Italia: “Quando ad alcuni immigrati dell’Europa orientale sono stati concessi permessi di lavoro legali, i loro tassi di criminalità sono scesi di oltre il 50%”, spiegano in un articolo per la Rivista Il Mulino Paolo Pinotti e Daniele Gianmarco dell’Università di Milano. Tuttavia, la percentuale di stranieri nelle statistiche sulla delinquenza e nelle carceri rilancia la questione. Durante la Conferenza dei prefetti e questori, il ministro Piantedosi ha evidenziato la necessità di incrementare il numero di rimpatri per coloro che non hanno diritto a stare in Italia. Rispetto al 2023, quando erano stati 4.700, il Viminale ha rivendicato un aumento del 14% nel 2024. Rispetto ai soli sbarchi, 67 mila l’anno scorso, e al numero di irregolari che l’ultimo rapporto di Fondazione Ismu stima in 321 mila al primo gennaio 2024, i rimpatri fatti restano poca cosa. Secondo i dati del ministero di Piantedosi, gli stranieri denunciati/arrestati sul territorio nazionale da gennaio a settembre 2024 sono in totale 586 mila. Di questi, 41 mila sono extracomunitari regolari, mentre 98 mila sono gli irregolari, con un’incidenza rispettivamente del 7,1% e del 16,7%. Un altro 9% è rappresentato da apolidi, mentre il gruppo più consistente è rappresentato da stranieri provenienti da altri Paese Ue: i comunitari sono 391 mila con un’incidenza del 66,8%. Certo, i comunitari non si possono rimpatriare. Quanto agli extracomunitari irregolari, anche a triplicare i rimpatri i numeri non sarebbero tali da incidere sugli oltre 300mila stranieri privi di permesso di soggiorno. Che restano in Italia e, dicono i dati del Viminale, hanno più del doppio della probabilità di mettersi nei guai rispetto a chi è regolare. Percentuali che sembrano avere senso anche per gli studi internazionali, che concordano nel suggerire “politiche che garantiscono uno status legale agli immigrati, perché facilitano l’integrazione economica e sociale, portando a una riduzione oggettiva dei comportamenti devianti. Migranti. Dalla pena di morte a Centocelle: la biblioteca “abusiva” di Aladin di Paolo Di Falco Il Domani, 24 febbraio 2025 Fuggito dal regime sanguinario dello Yemen, “Aladino” al-Baraduni ha ritrovato speranza in Italia. A Roma, nonostante il decreto di sfratto, continua a diffondere cultura prestando 40mila volumi. In fondo a un piccolo corridoio e dietro una scrivania bianca, circondato da tele, libri e fogli di carta che penzolano da ogni dove, si trova seduto Aladin Hussain al-Baraduni o Aladino, così come lo chiamano gli amici del quartiere romano di Centocelle. Aladin, artista originario dello Yemen, odora di vita vissuta come lasciano intuire anche i colori sgargianti e lucidi delle sue opere, esposte alla Biennale di Venezia nel 2016 e nel 2022. Quadri che, al pari di chi li ha dipinti, di strada ne hanno fatta tanta prima di finire dentro una biblioteca “abusiva” diventata il punto di riferimento di un intero quartiere. “Vengo da una piccola città in mezzo al deserto, Dhamar. Un posto un po’ piccolo per contenere i sogni di un adolescente cresciuto con la ribellione nel cuore”, dice Aladin con lo sguardo rivolto ad una tela contrassegnata da falcate di un azzurro che si fa via via più intenso. Lo Yemen in cui cresce è schiacciato dalla dittatura del presidente Ali Abdullah Saleh, ucciso nel 2017 dagli Huthi. “Lo chiamavano ‘il danzatore sulla testa dei serpenti’ visto che per ragioni di comodo era disposto ad allearsi con chiunque. La mia però era una famiglia di dissidenti, a cominciare da mio zio Abdullah al-Baraduni, tra i poeti più noti del Paese. Era cieco, viveva a Sana’a e quando andavo a trovarlo mi dettava le sue poesie e io le mettevo su carta. A casa sua si parlava di politica e tra i tanti che si recavano da lui c’erano anche Pasolini, Moravia, Calvino e Gontar Grassi”. Attratto da quell’ambiente, Aladin si trasferisce presto nella Capitale ed è lì che insieme ad alcuni artisti crea l’Atelier San’a, una bottega artistica dove si faceva letteratura e, soprattutto, critica politica al regime di Saleh. “Di giorno lavoravo al Ministero dei beni culturali insieme al ministro, poi la sera insieme agli altri cercavamo di raccontare la nostra società con tutte le sue contraddizioni. Mi limitavo a raffigurare la cruda quotidianità a partire da chi non aveva casa, dai bambini che lavoravano anche di notte”. La repressione del regime, inizialmente tollerante, si fa pian piano sempre più violenta. A notarlo, poco prima di morire nel 1999, è anche suo zio che nella poesia “Invasione dall’interno”, riferendosi alla città di Sana’a, scrive: “Chi ti ha occupato in segreto, invasori che non vedi, mentre il pugnale è già piantato nel mio cuore e lo conquista come il male che entra si insinua lento dal fumo del tabacco da una sigaretta che seduce, questo è l’atto di carità di un mostro”. L’atelier viene chiuso e Aladin finisce più volte in carcere. La goccia che fa traboccare il vaso e che, per certi versi, segna la coronazione della sua carriera artistica è il premio che nel 2004 gli conferisce lo stesso Saleh come miglior pittore giovane del Paese. Dopo averlo accettato, l’artista strappa pubblicamente il certificato guadagnandosi altri quaranta giorni di prigione e l’inserimento del suo nome nella lista nera. Ed è proprio qui che matura la decisione di fuggire dal Paese. Arrivato in Italia, la sua richiesta di asilo politico viene rigettata. “Quei pochi soldi con cui ero partito sono finiti presto e così mi è restata solo la speranza. In strada ho imparato la lingua e non ho mai smesso di dipingere. Dopo aver girovagato un po’ per l’Italia, sono arrivato in quella Roma che conoscevo dai tanti libri che ho divorato a scuola. La più grande emozione è stata ritrovarsi davanti all’immensità delle sculture di Bernini”. Nella città eterna, insieme ad altri incontrati nel corso degli anni, occupa una palazzina in via dei Castani che da anni versava in uno stato di totale abbandono. Al suo interno c’erano solo calcinacci, lavandini rotti, marmitte usate… Qui l’emergenza abitativa si trasforma in emergenza culturale. Un suo amico, conoscendo la sua passione per la storia, decide di regalargli più di tremila libri che aveva accatastato, tra la polvere, in cantina. Spinto dall’esigenza di trovare un posto a quei testi, Aladin inizia a sistemare il primo piano dello stabile e, tra una mano d’intonaco e l’altra, prende piede l’idea di creare un luogo di incontro e aggregazione da donare al quartiere come quell’atelier che era stato costretto a lasciare a Sana’a. “I vicini ci chiamavano gli abusivi e, proprio per questo, abbiamo deciso di chiamare questo posto “biblioteca abusiva metropolitana”. Volevamo far vedere che non tutto quello che è abusivo è negativo. Oggi la biblioteca ospita più di 40mila libri e oltre 300 opere d’arte di artisti di tutto il mondo che si affiancano a quelle realizzate dai tanti bambini che si divertono a mettere su carta e sui muri quello che gli passa per la testa”, dice Aladin mentre si fa strada nei corridoi con in mano i diversi foglietti che custodisce gelosamente, forse più delle sue opere. Sulla testa di Aladin, attualmente, pende una condanna a morte in Yemen e anche un’ordinanza di sfratto in Italia: il locale in cui sorge la biblioteca è stato appena acquistato. Nonostante questo, si dice fiducioso: “Sono arrivato qui senza nulla, rimpiangendo uno Yemen che non c’è più. Ho cercato di trovare una mia strada, un modo per uscire allo scoperto stanco di dovermi nascondermi. Se ne è valsa la pena? Abbiamo creato un grande luogo di ritrovo e condivisione per tutto il quartiere portando l’arte e la cultura tra le strade e la gente, dove è giusto che stiano. Tutto quello che abbiamo costruito non andrà perduto, visto che il Comune si sta già adoperando per trovare un nuovo spazio, riconoscendo il valore della biblioteca per il quartiere. Ci metteremo di nuovo a lavoro per creare qualcosa di ancora più bello”. E mentre dice questo, ci mostra la tela dove ha raffigurato la sua colorata Sana’a e poi una moneta d’argento. Su una delle facce, è ritratto il volto di quello zio da dove tutto è iniziato. Migranti. Dalla fuga dall’Iran al processo in Italia: quello che non torna nel caso di Jamali di Marika Ikonomu Il Domani, 24 febbraio 2025 La 30enne iraniana è arrivata in Italia con il figlio il 30 ottobre 2023 ed è subito stata arrestata perché accusata di aver fatto parte dell’equipaggio. Nell’udienza del 24 febbraio verranno sentiti i testi della difesa. “Dal processo sta emergendo la totale estraneità di Marjan”, racconta il suo legale Giancarlo Liberati. Di fronte ai giudici del tribunale di Locri, la 30enne iraniana arrivata in Italia con il figlio piccolo e accusata di aver aiutato il capitano della barca - che dalla Turchia ha portato un centinaio di migranti sulle coste calabresi - ha chiesto durante l’udienza del 20 gennaio di attendere la sentenza da persona libera: “Non ho nessuna intenzione di scappare ma solo di attendere con fiducia la fine del processo”, aveva affermato. Lunedì 24 febbraio ci sarà una nuova udienza in cui verranno sentiti i testimoni della difesa, una coppia che ha viaggiato insieme alla donna e a suo figlio, partiti anche loro da Teheran. “Dal processo sta emergendo la totale estraneità di Marjan”, racconta il suo legale Giancarlo Liberati. Jamali è stata arrestata il 30 ottobre 2023 per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, perché accusata da tre persone - su un totale di 102 passeggeri - di aver raccolto i cellulari prima della partenza. Per i magistrati italiani avrebbe svolto “mansioni meramente esecutive e di collaborazione nell’operazione coordinata da trafficanti attivi sul territorio turco”. I tre accusatori sono poi divenuti irreperibili, subito dopo lo sbarco, tanto da rendere impossibile anche un incidente probatorio. L’impianto accusatorio si regge proprio sulle dichiarazioni di queste tre persone che, oltre a non essere più reperibili (non è possibile quindi sentirli nemmeno nella fase dibattimentale), sarebbero gli stessi ad aver agito violenza sessuale su di lei. Lo ha raccontato la stessa Jamali, che ha sporto denuncia a febbraio 2024 per i palpeggiamenti subiti mentre dormiva sull’imbarcazione, durante i cinque giorni di navigazione verso l’Italia. Ed è proprio a causa di una situazione di violenza domestica che la donna ha deciso di fuggire dall’Iran: “Il marito è una persona estremamente violenta”, spiega Liberati, “e ha addirittura tentato di aggredirla con un coltello”. Non poteva più continuare a vivere così e ha deciso di partire con il figlio. Cosa non torna - Il viaggio dall’Iran all’Italia, passando per la Turchia, è costato 14mila dollari, 9mila per sé e 5mila per il figlio. “Ci siamo procurati la documentazione originale”, precisa l’avvocato, “contattando direttamente l’agenzia di viaggio a Teheran “Ex Change Jvaherian”, che ha confermato l’autenticità del certificato”. Elementi che, per il tribunale del Riesame, non sarebbero dimostrativi “dell’avvenuta corresponsione di tale importo ai trafficanti”. Per questo e altri elementi, come le dichiarazioni dei tre accusatori irreperibili considerate credibili e attendibili, i giudici del riesame non hanno revocato la misura cautelare, ma l’hanno sostituita il 27 maggio 2024 con gli arresti domiciliari, disponendo il braccialetto elettronico e il divieto di comunicazione. Durante i mesi di carcere nel penitenziario di Reggio Calabria, la separazione dal figlio di 8 anni, che si trovava a due ore di viaggio, aveva creato dei “momenti di profonda angoscia con pensieri negativi e anticonservativi” e “vissuti depressivi con ideazione di morte”, si legge nell’ordinanza di sostituzione della misura. Nonostante ciò, i magistrati avevano rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere. Jamali è finita dentro una cella in Italia appena dopo lo sbarco. Sono però emerse diverse criticità nella raccolta delle prove, tra traduzioni approssimative e fuorvianti - il mediatore che ha tradotto le domande degli inquirenti non parlava la sua lingua, il farsi - ed errori nella trascrizione dei nomi di Jamali e del figlio nelle carte processuali. Non solo. Per molto tempo, durante la sua detenzione, le venivano notificati gli atti in arabo, una lingua a lei sconosciuta. “Se avessero fatto all’epoca l’esame imputata e l’analisi del telefono, probabilmente il processo si sarebbe concluso molto tempo prima, permettendole di uscire dal carcere”, conclude Liberati, che sottolinea come l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione e l’aggravante introdotta con il decreto Piantedosi non colpiscano i trafficanti, “ma disgraziati che stanno sulle barche che non sono in nessun caso legati al traffico. Anche quando si prestano per vari motivi a guidare l’imbarcazione, o perché non hanno soldi per pagare la traversata o perché sono costretti o truffati, o per qualsiasi altro motivo”. Jamali si è sempre dichiarata estranea ai fatti - come aveva fatto Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana recentemente assolta per non aver commesso il fatto - ricordando di aver pagato migliaia di euro per il viaggio ed essere stata ingiustamente accusata da tre uomini che avevano prima agito violenza. Voleva solo fuggire da un’altra situazione di violenza, domestica, salvare sé stessa e il figlio di 8 anni, e chiedere la protezione internazionale. “Accendi una luce per l’Ucraina”: il network Caritas a tre anni dall’invasione russa di Paolo Foschini Corriere della Sera, 24 febbraio 2025 Duemila persone accolte nella sola Diocesi di Milano e decine di migliaia aiutate un Ucraina. È il bilancio dell’impegno di Caritas Ambrosiana diffuso nel terzo anniversario, lunedì 24 febbraio 2025, dell’inizio dell’invasione russa. E la rete Caritas mondiale lancia l’iniziativa “Accendi una candela, condividi la speranza”. Dopo tre anni di guerra in Ucraina sono duemila le persone accolte nella sola Diocesi di Milano e decine di migliaia quelle aiutate nel loro Paese invaso. È solo un piccolo e parziale bilancio dell’impegno di Caritas Ambrosiana diffuso in concomitanza con lo sconfortante anniversario di lunedì 24 febbraio 2025, il terzo dal giorno dell’invasione russa dell’Ucraina: la “peggiore crisi militare e umanitaria in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale”, come sottolinea una nota della stessa Caritas Ambrosiana nel comunicare anche la propria partecipazione alla giornata di preghiera indetta per l’anniversario dall’intera rete Caritas mondiale: il titolo dell’iniziativa è “Accendi una candela, condividi la speranza”. “Anche se ora si intravedono scenari di conclusione o quantomeno di congelamento del conflitto armato - prosegue la nota - rimane da capire se essi evolveranno in una pace giusta, e dunque in un effettivo riassorbimento delle ricadute umanitarie del conflitto, in particolare per milioni di ucraini moltissimi dei quali sono tuttora costretti a vivere come sfollati interni o profughi all’estero”. E nel frattempo, come si diceva, si può fare un bilancio di quanto è stato fatto finora tra iniziative umanitarie nei Paesi confinanti con l’Ucraina e interventi diretti nel Paese aggredito (a supporto di Caritas Ukraine e Caritas Spes, espressione della Chiesa greco-cattolica di rito bizantino e della Chiesa cattolica latina). Grazie alla generosità dei donatori Caritas Ambrosiana ha destinato a questo scopo in tre anni 5,3 milioni di euro: 3,8 milioni di euro (oltre 700 mila nel solo 2024) per sostenere l’accoglienza in territorio ambrosiano di almeno 2mila persone e 1,5 milioni dall’inizio del conflitto per finanziare progetti in Ucraina e Moldova a favore di decine di migliaia di sfollati interni e profughi, stanziando un ulteriore budget di 150 mila euro per il 2025. Per chi vuole sostenere Caritas Ambrosiana su questo fronte è possibile contribuire cliccando qui. In vista del terzo anniversario dall’inizio della guerra, anche Caritas Internationalis ha pubblicato i dati relativi all’azione umanitaria del network: 4,8 milioni di persone aiutate, con uno stanziamento complessivo di 270 milioni di euro e grazie all’impegno di 2.600 tra operatori e volontari. La stessa Caritas Internationalis ha invitato i soci della confederazione a partecipare, in tutto il mondo, all’iniziativa Accendi una candela, condividi la speranza: momento di preghiera che per Caritas Ambrosiana è stato fissato alle ore 13 di lunedì 24 febbraio. “Continuiamo ad avvertire dolore e smarrimento - commenta Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana - per la sorte toccata, in questi anni, a tanti fratelli e sorelle. Nello stesso tempo, siamo fieri della mobilitazione condotta dall’intero network Caritas, e soprattutto della capacità di esprimere gesti di solidarietà, trame di accoglienza, sforzi di riconciliazione, impegni di giustizia e scelte di nonviolenza. Insieme a tanti altri soggetti (parrocchie, associazioni, famiglie, singoli fedeli, cittadini e donatori), abbiamo provato in questo modo a dire no alla guerra, in maniera non retorica, il più possibile generosa e fraterna, aliena alle logiche di sopraffazione e di potere che vediamo all’opera, anche oggi, là dove si decide delle sorti di interi popoli”. Venezuela. Alberto Trentini è vivo. Il Governo promette: “Lo riporteremo a casa” Giuliano Foschini La Repubblica, 24 febbraio 2025 La trattativa. Il Venezuela chiede all’Italia un riconoscimento del governo Maduro. Ed è un passaggio che l’occidente in questo momento ritiene impercorribile. Un mese fa il Venezuela ha offerto la prova che il cooperante italiano Alberto Trentini è vivo ed è detenuto in condizioni discrete in un carcere dei servizi di Caracas. È stato il solo contatto reale avuto fino a questo momento con il governo italiano che, assicura a Repubblica una fonte di Palazzo Chigi, “sta facendo tutto quello che è possibile per poter riportare Alberto a casa”. La vicenda ha avuto due tempistiche diverse. Dopo più di due mesi di silenzio assoluto è arrivata la prova. E da quel momento è cominciata un’interlocuzione che è sembrata prolifica tanto che agenti dell’Aise sono volati in Venezuela per avere dei contatti ma anche con la speranza di poter far tornare Trentini a casa. L’idea è quella di ottenere un’espulsione ma, al momento, si è molto lontani da questo punto. La situazione oggi è infatti “molto più complicata di precedenti simili situazioni: in questo momento è difficilissimo fare previsioni sui tempi”. Il Venezuela chiede all’Italia e lo stesso ad altri governi europei - ci sono, tra gli altri, detenuti spagnoli e tedeschi - un riconoscimento del governo Maduro. Ed è un passaggio politico che l’occidente in questo momento ritiene impercorribile. Per questo a livello diplomatico si stanno facendo pressioni sull’Unione europea: per qualcuno una soluzione potrebbe essere quella di nominare un inviato per tutti i casi di alto profilo politico, come hanno fatto gli Stati Uniti con l’ambasciatore Richard Grenell: nominato da Trump per avere appunto rapporti con Maduro, il 7 febbraio è riuscito a far liberare sei detenuti-ostaggi statunitensi che si trovavano proprio come Trentini nelle carceri venezuelane. “Alberto è un cittadino italiano, un operatore umanitario che si trovava in Venezuela per svolgere, con professionalità e dedizione, il suo lavoro” ha scritto ieri la mamma di Alberto, Armanda, in una lettera a Repubblica. Chiedendo alla premier Giorgia Meloni un intervento più incisivo del governo italiano. “Dopo questi 100 giorni, sono con il cuore in mano a chiedere a ciascuno di fare tutto il necessario con la massima urgenza - ha detto la signora Armanda - affinché Alberto possa tornare a casa prima che questa esperienza segni irrimediabilmente la sua vita nel corpo, nella mente e nello spirito. Lui è il nostro unico figlio e la nostra ragione di vita”. Trentini è stato fermato il 15 novembre scorso al posto di blocco di Guasdualito dal servizio immigrazione e immediatamente consegnato nelle mani del Dgcim, la direzione generale del controspionaggio militare di Maduro. Per Trentini era la prima volta nel paese sudamericano. Lo aveva inviato l’Ong con cui lavorava, Humanity & Inclusion, che in Venezuela ha un team di quindici cooperanti. Alberto non era noto ai nostri Servizi né faceva parte di gruppi di oppositori: nel telefono, come ammettono anche alcune fonti venezuelane, c’erano giusto un paio di post social che si riferiscono al governo Maduro, ma assolutamente innocui. Alberto era in Venezuela non per caso. Ma per amore. Aveva seguito una ragazza che abita in Venezuela e selezionato quella missione e quella Ong per stare il più possibile vicino a lei. Per questo motivo le accuse che gli vengono mosse - che, tra l’altro, sono generiche e non sono state nemmeno formalizzate - vengono definite “fantascientifiche” da chi è vicino al dossier. Iran. Narges Mohammadi: “Restare in silenzio di fronte alla sofferenza significa accettarla” di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 24 febbraio 2025 La scrittrice e attivista, Nobel per la Pace, in detenzione domiciliare per cure mediche, è intervenuta al Comitato permanente Diritti umani della Camera. “Cantare, danzare, tagliare o acconciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e trovare gioia sono modi per mantenere vivo il senso della vita e parte della resistenza”. “Il popolo iraniano è in sollevazione nel magnifico movimento Donna Vita Libertà”. A portare in Italia le istanze della società civile iraniana l’attivista e scrittrice Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023 “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. Mohammadi è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998, e ha ricevuto condanne a decenni di reclusione per una vita dedicata a combattere il regime iraniano, dentro e fuori dal carcere. Ora è in detenzione domiciliare per cure mediche. L’attivista è intervenuta al Comitato permanente Diritti umani della Commissione affari esteri della Camera dei deputati, presieduto dalla deputata del Partito democratico Laura Boldrini. Durante l’audizione ha definito il governo iraniano “un regime irriformabile e inefficace”, “una tirannia”, “simbolo dell’apartheid di genere”, che “ha perso la sua legittimità davanti al popolo iraniano” e, per questo, spiega a Domani, “l’unico modo in cui il regime risponde alle critiche, alle proteste e al dissenso è la repressione”. La pena di morte è uno degli strumenti principali della repressione degli ayatollah. Il 2024 ha registrato un picco delle esecuzioni capitali: secondo le Nazioni unite, sono state 901. Moltissimi erano attivisti e dissidenti politici. “Chiediamo di non dimenticare chi all’interno delle carceri continua a protestare contro la pena di morte, da mesi, con scioperi della fame e diverse altre forme di protesta”, ha detto Mohammadi ai parlamentari e alle parlamentari italiane. Altre tre donne rischiano la stessa sorte: Sharife Mohammadi, Varisha Moradi e Pakhshan Azizi sono state condannate a morte. Una situazione “molto preoccupante”, dice la scrittrice, e “una forma di vendetta nei confronti del movimento Donna Vita Libertà”, nato dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini dopo l’arresto da parte della polizia morale. Qual è l’eredità del movimento Donna Vita Libertà? Ha dimostrato che il mondo vede la lotta delle donne iraniane e ascolta le loro voci. È stato anche un messaggio importante al regime. Cosa significa essere donna e attivista per i diritti umani in Iran oggi? La lotta per i diritti delle donne è un viaggio lungo e difficile. L’8 marzo 1979, Giornata Internazionale della Donna, migliaia di donne scesero in piazza per protestare contro l’obbligo del velo. Nel 2022, invece, la società è insorta con il movimento “Donna, Vita, Libertà”. In questi anni la lotta contro il regime ha incontrato enormi ostacoli e resistenze da parte delle tradizioni, delle norme sociali, degli interessi consolidati e persino della religione. Le donne iraniane hanno superato questi ostacoli. Non si sono tirate indietro, non sono tornate a casa, non si sono arrese. Sono andate in prigione, hanno subito torture e hanno continuato a far sentire la loro voce contro il dispotismo religioso anche dall’interno delle carceri. Un risultato enorme, non solo per le donne in Iran, ma per quelle di tutto il mondo e per l’intera società iraniana. Lei stessa ha pagato un caro prezzo... Sono stata arrestata più volte, sottoposta a isolamento, tortura psicologica, percosse, molestie, processi e detenzione. Il mio attivismo è iniziato durante gli anni universitari e il primo arresto è avvenuto durante il movimento studentesco. La Repubblica Islamica viola i diritti umani e delle donne. Per sua stessa natura è priva della capacità di garantire libertà, democrazia ed eguaglianza e, negli ultimi 46 anni, ha dimostrato più volte di essere incapace di riformarsi. Lottiamo per la libertà di espressione e di pensiero, che il regime sopprime con ferocia. In questo contesto, è inevitabile che qualcuno come me, impegnato nella difesa dei diritti umani, delle donne, contro la tortura bianca, l’isolamento e la pena di morte subisca una repressione costante da parte del regime. Come reagisce la società di fronte alla reclusione dei corpi e alla repressione? Credo che la vita dietro le oscure e fredde mura della prigione scorra con intensità, intrecciata con l’elemento della “resistenza”. Quando la resistenza, nata da una volontà umana incrollabile, è forte, la vita, in tutte le sue sfaccettature, brilla anche all’interno delle mura del carcere. Ho visto la crescita, la vitalità e la resilienza di donne condannate alle pene più dure, dalla pena di morte a lunghe detenzioni, con gravi malattie croniche, comprese donne anziane. Bisogna riconoscere che un prigioniero è un essere umano e ogni essere umano cerca di sopravvivere in modi diversi. Cantare, danzare, tagliare o acconciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e trovare gioia: tutti questi sono modi per mantenere vivo il senso della vita, anche tra i detenuti comuni. Nelle carceri politiche e ideologiche dell’Iran, questi atti diventano parte della resistenza, sfidando le politiche delle autorità carcerarie. Più i prigionieri portano avanti la loro lotta, specialmente attraverso la solidarietà e la fratellanza, più forte diventa il loro senso della vita e della speranza. Alcuni pagano un prezzo altissimo. Il governo non tollera una tale resilienza e cerca di reprimerla. Nel 2020, sono stata processata e condannata per aver organizzato un’assemblea nella sezione femminile della prigione di Evin. I media italiani hanno messo in luce le condizioni di detenzione e le violazioni nel carcere di Evin quando la giornalista Cecilia Sala è stata arrestata dalle autorità iraniane. Cosa accade dietro le mura di questa prigione? Quando si parla della prigione di Evin, è essenziale menzionare le sezioni di sicurezza (209, 2-A, 240 e 241), dove i detenuti vengono tenuti in isolamento. Ne ho parlato nel mio libro “White Torture”, Tortura bianca. Le condizioni non sono uguali in tutta la prigione di Evin. Le celle di isolamento nelle sezioni di sicurezza sono luoghi di tortura psicologica, emotiva e persino fisica, che risultano spaventose. Le prigioni delle città più piccole sono molto peggiori di Evin. Ho subito la detenzione a Zanjan (due volte) e nella prigione di Qarchak. Qui le condizioni sono disumane ed estremamente difficili da sopportare. La notizia dell’arresto, dell’isolamento e del successivo rilascio della giornalista italiana Cecilia Sala ha evidenziato ancora una volta la realtà che giornalisti e professionisti dei media in Iran sono costantemente a rischio di detenzione, pressioni, carcere e tortura. Così il regime autoritario religioso mette in pericolo la libertà di espressione. Dalla morte di Amini alla politica degli ostaggi di cittadini occidentali, c’è una forte attenzione mediatica verso l’Iran... In un mondo in cui tutto è interconnesso, non possiamo più parlare del sé senza riconoscere l’altro, né possiamo affermare di essere immuni dalle lotte altrui, per quanto lontane possano sembrare. La violazione dei diritti umani, sia contro persone private delle loro libertà in qualsiasi parte del mondo, sia contro donne private dei loro diritti in qualsiasi terra, non rimane confinata entro i confini nazionali. L’ingiustizia ovunque è una minaccia. I governi oppressivi e non democratici che violano i diritti umani generano povertà, sofferenza, negazione dell’istruzione e dell’occupazione, violenza, discriminazione e guerra. In un mondo globalizzato, le loro conseguenze si riversano ovunque, colpendo tutti noi. Come reagire quindi? La risposta non è costruire muri o isolarci. Le realtà del nostro tempo richiedono un approccio diverso, basato sulla solidarietà e sulla responsabilità condivisa. Come scrisse Saadi, il grande poeta persiano: “Tutti i figli di Adamo formano un unico corpo / Nella loro creazione sono della stessa essenza / Se una parte è afflitta dal dolore / Le altre non possono restare in pace”. Restare in silenzio di fronte alla sofferenza significa accettarla. Dobbiamo restare uniti e lavorare instancabilmente per difendere la democrazia, i diritti umani e la pace per tutti.