Il carcere e la mancanza di allenamento alla libertà di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 23 febbraio 2025 In linea d’aria, tra Sollicciano e la Dogaia ci sono solo 17 chilometri di Piana, un territorio densamente antropizzato, dove le città di Firenze e Prato hanno dato origine a zone di degrado e di commercio. È l’area della Toscana con l’indice più alto di Pil regionale. Nei due istituti penitenziari, a poche ore di distanza l’uno dall’altro, si sono suicidati nei giorni scorsi due detenuti di 39 e 32 anni. Il primo, originario della Romania, si è impiccato nel bagnetto della cella; il secondo, proveniente dal Marocco, ha inalato gas letale da un fornellino. Irma Conti, del collegio nazionale del Garante dei detenuti, ha osservato che sarebbero 19 mila i detenuti con pene residue fino a 3 anni che potrebbero usufruire del sistema delle pene alternative. In una situazione di grave sovraffollamento carcerario, peraltro in costante aumento, questi 19 mila detenuti rappresenterebbero una prima soluzione deflattiva. Tuttavia, la burocrazia rallenta significativamente il rilascio delle ordinanze esecutive: le carte da presentare in istanza sono numerose e, nell’era del digitale avanzato e dell’intelligenza artificiale, il conteggio della pena avviene ancora manualmente. A questo totale, però, vanno sottratti circa 7 mila detenuti che non possono usufruire di misure alternative al carcere per il semplice fatto di non disporre di un domicilio, di un appoggio fisico e umano a cui fare riferimento. Il domicilio, infatti, è un requisito richiesto dalla legge penitenziaria. Il problema, dunque, è anche politico. Finché il modello di carcerazione si baserà sulla relazione tra punizione (retribuzione) e rieducazione (risocializzazione), lo Stato - e con esso il sistema degli enti locali - avrà la responsabilità costituzionale di creare reti di sostegno per i detenuti a fine pena in condizioni di “fragilità”. Una delle principali cause di suicidio in carcere sembra essere la paura di tornare in libertà, di uscire e riprendere il cammino interrotto. Il fenomeno prende il nome di disculturazione, ossia la difficoltà nel gestire situazioni quotidiane tipiche del mondo esterno a un’istituzione totale. Il sociologo Erving Goffman lo definì “una mancanza di allenamento” alla libertà. Un monito che riguarda tutti. *Associazione Progetto Firenze Carceri: alla Consulta la questione sul 41bis e le “ore d’aria” agi.it, 23 febbraio 2025 Arriva all’esame della Corte costituzionale la questione, sollevata dal tribunale di sorveglianza di Sassari, inerente le “ore d’aria” per i detenuti al 41bis. Martedì prossimo, in udienza pubblica, inizierà la trattazione a Palazzo della Consulta sul ricorso inerente dubbi di costituzionalità dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui stabilisce che il detenuto in regime differenziato non possa permanere all’aperto più di 2 ore al giorno, mentre chi è detenuto in regime ordinario può usufruire di almeno 4 ore. I giudici di Sassari, nell’ambito di un reclamo presentato da un detenuto condannato all’ergastolo e sottoposto al 41 bis nel carcere di Bancali, nella loro ordinanza di rimessione degli atti alla Consulta, hanno ritenuto “rilevante e non manifestamente infondata” la questione di costituzionalità proposta dalla difesa, per “violazione degli articoli 3, 27 e 32 della Costituzione”. Con riguardo all’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza, “la restrizione a due delle ore all’aperto non pare venga incontro a reali esigenze di sicurezza - si legge nell’ordinanza di rimessione pubblicata in Gazzetta Ufficiale - sicché non trova giustificazione la differenziazione rispetto al regime ordinario per i detenuti comuni”, fermo restando che “l’Amministrazione potrebbe pur sempre ridurre il numero delle ore all’aperto in presenza di specifiche e motivate ragioni anche organizzative”. Rileva poi, secondo i giudici di Sassari, “la violazione dell’articolo 27 della Costituzione, atteso che la limitazione delle ore d’aria non favorisce certamente la rieducazione del condannato” e “del pari rilevante - aggiungono - è il profilo della violazione dell’articolo 32 della Costituzione, posto che l’esposizione alla luce naturale ed ai raggi del sole risulta essenziale per il mantenimento di una accettabile condizione di salute”. All’udienza a Palazzo della Consulta - relatore della causa sarà il giudice Stefano Petitti - interverranno, oltre al difensore del detenuto, l’avvocato Valerio Vianello Accorretti, gli avvocati dello Stato Ettore Figliolia e Massimo Di Benedetto. La magistratura si gioca il potere sulle nomine. E lo sa bene di Davide Vari Il Dubbio, 23 febbraio 2025 Il caso Delmastro e l’eterna guerra tra poteri dello Stato che si incendia ancora con la prevedibilità di un dramma rituale. Siamo giunti all’inevitabile corto circuito istituzionale. Un giudice condanna il sottosegretario Delmastro, il governo inveisce contro la sentenza politica, l’Associazione Nazionale Magistrati “si costerna, s’indigna, s’impegna” e denuncia il tentativo dell’esecutivo di delegittimare la sentenza. L’eterna guerra tra poteri dello Stato si incendia ancora, con la prevedibilità di un dramma rituale: veti incrociati, barricadismo di mestiere, il solito compiacimento malcelato per l’ennesima occasione di conflitto. Il Paese è impantanato nello stesso fango dal 1992, quando un pezzo di magistratura decise che la politica, tutta la politica, nata sulle ceneri del fascismo e benedetta dai padri costituenti, dovesse essere rottamata. Ma il processo non si è mai chiuso: si è deformato, si è ossificato in un’eterna resa dei conti. La magistratura si considera la custode della legalità, la politica annaspa, si contorce, di tanto in tanto tenta una reazione. Quasi sempre inutile. Ora, però, la partita sembra decisiva. La separazione delle carriere, la creazione di due Csm distinti, colpiscono al cuore il potere correntizio della magistratura. L’Anm lo sa. E per questo alza il livello dello scontro, rifiuta il dialogo, si trincera dietro lo strillo: “Attacco all’indipendenza della giustizia!”. Il che è bizzarro, quasi surreale, perché la riforma non tocca minimamente l’autonomia della magistratura, sancita dall’articolo 104 della Costituzione: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Quella stessa Costituzione che le toghe brandiscono con solenne enfasi nelle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, ma che, evidentemente, non si sono mai prese la briga di leggere con attenzione. E così, dietro la sentenza Delmastro, si intravede la battaglia vera: la riforma della giustizia, il referendum sulla separazione delle carriere. I cittadini si troveranno a decidere se sia giusto tracciare una linea netta tra giudici e pubblici ministeri, oppure no. Ma prima di arrivare lì, il conflitto andrà avanti. Del resto lo avevamo detto: la riforma non sarà un pranzo di gala. Le opposizioni, per ora, difendono le toghe con malcelata pigrizia. Sanno bene che la riforma serve a tutelare tutto il sistema politico dalle ingerenze della magistratura. Ma lasciano fare il lavoro sporco al governo. Sarà per questo che continuano a perdere le elezioni. La condanna di Delmastro dimostra che la separazione delle carriere non è la soluzione di Francesco Mandoi L’Espresso, 23 febbraio 2025 In uno Stato di diritto “le sentenze si rispettano” e, se non convincono, “si appellano”. La sentenza nei confronti del sottosegretario Andrea Delmastro, condannato a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio, ha rinfocolato lo scontro fra politica e magistratura. La decisione del Tribunale di Roma è arrivata ieri - 20 febbraio -, a una settimana dallo sciopero dei magistrati contro la riforma che prevede, tra l’altro, la separazione delle carriere dei magistrati fra giudicanti e pubblici ministeri. Il governo Meloni giustifica la riforma con il presunto “appiattimento” delle decisioni dei giudici sulle richieste dei pm. Eppure, la sentenza Delmastro dimostra l’esatto contrario: per ben due volte i giudici requirenti hanno richiesto l’assoluzione dell’imputato. Nella narrazione della maggioranza, che trova in quanto accaduto ieri lo stimolo a proseguire sul terreno delle riforme contestate dai magistrati, la critica non è rivolta contro i pubblici ministeri. Solitamente sono i giudici requirenti a essere accusati di volere, contro ogni evidenza, la condanna degli imputati. Nel caso di Delmastro, il centrodestra si scaglia contro i magistrati giudicanti, tacciati di emettere sentenze politiche favorevoli alla “sinistra”. Le motivazioni della sentenza si conosceranno nel dettaglio e nei termini previsti, ma sono doverose alcune considerazioni. Primo, le richieste di archiviazione (prima) e di assoluzione (dopo) dei pubblici ministeri, peraltro rappresentati ai massimi livelli da quella Procura di Roma, diretta da Lo Voi - con la quale è in atto un pesante scontro politico - erano basate sulla mancanza dell’elemento psicologico del reato. Secondo, il fatto storico della divulgazione di informazioni riservate riguardanti detenuti ristretti al 41 bis era ed è pacifico. Terzo, le motivazioni della sentenza dovranno spiegare le ragioni per le quali, viceversa, quell’elemento essenziale per la condanna è stato ritenuto sussistente. Prima di ogni ragionamento, tuttavia, dovrebbe valere per tutti una cosa: in uno Stato di diritto “le sentenze si rispettano” e, se non convincono, “si appellano”. La critica alla sentenza basata sul fatto che i giudici che l’hanno emessa sarebbero “di sinistra” è pericolosissima, poiché apre varchi preoccupanti. Dovremmo accorgerci che, così ragionando, lo scontro politico travolge i capisaldi della Costituzione. Da adesso in poi, il sospetto sulla figura del giudice (si badi bene, del giudice e non del pubblico ministero) sarà una motivazione che potrebbe invocare qualsiasi condannato, anche per omicidio o per mafia. Lo Stato di diritto ne sarebbe travolto. È questo che vogliamo? “Pm sotto controllo con le carriere separate” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 febbraio 2025 Per il procuratore di Palermo esiste una nuova leva di mafiosi che sta sempre più prendendo piede, affermando il proprio potere sia in carcere che fuori. “C’è una nuova leva di mafiosi e potenziali mafiosi che sta prendendo piede, affermando il proprio potere sia in carcere che fuori”, avverte il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. Che prende spunto dall’ultima operazione antimafia - 181 persone arrestate, metà delle quali con meno di quarant’anni d’età - per analizzare l’attuale situazione di Cosa nostra e lo stato della giustizia alla luce delle riforme varate o in via di approvazione. È in corso un ricambio generazionale dentro la mafia? “Sì, da parte di giovani cresciuti dopo la stagione delle stragi che però conservano una forte fascinazione per la strategia corleonese e adottano nuove forme di comunicazione. L’uso di telefoni e piattaforme criptate s’è affiancato ai tradizionali pizzini e consente all’organizzazione di continuare ad agire e fare affari come una struttura unitaria, anche senza la Cupola di una volta”. Quindi si conferma che non è vero che i mafiosi non parlano al telefono. “Non solo non è vero, ma ci parlano benissimo anche dal carcere, consentendo a chi entra di continuare a fare ciò che faceva fuori. E riproponendo la continuità tra il carcere e il territorio di cui parlavano i pentiti negli anni Ottanta. Ci sono detenuti arrivati in cella al mattino che nel pomeriggio hanno chiamato a casa per farsi portare accappatoio e pantofole, destando sorpresa persino nei loro familiari”. Il “41 bis”, cioè il cosiddetto “carcere duro” per impedire i contatti dei boss con l’esterno, ha smesso di funzionare? “No, ma è riservato ai capi delle organizzazioni criminali. Gli altri vanno nel circuito dell’alta sicurezza dove invece entra di tutto, grazie ai droni e altri sistemi, e c’è troppa libertà di circolazione. In questo modo chi non è un soggetto apicale finisce per diventarlo, proprio grazie al potere che è in grado di esercitare dietro le sbarre”. Come? “Attraverso la riproduzione dei meccanismi esterni, con la sottomissione degli altri detenuti che subiscono la prevaricazione degli esponenti dell’organizzazione criminale. Ed è possibile che i tanti suicidi che si registrano all’interno degli istituti derivino anche da questa situazione”. Come si può intervenire? “Nelle carceri ci sono troppe persone e poco controllate. Molte non dovrebbero starci, perché la pena non può essere solo detentiva e sarebbero utili forme sanzionatorie distinte per tipologie di condannati e di reati. Il recupero dei tossicodipendenti non può passare dalla prigione, come non dovrebbe starci chi ha disturbi mentali: più che criminali sono malati bisognosi di assistenza, ma le strutture previste per legge sono largamente insufficienti, con gravi problemi di strutture e personale. Solo superando il sovraffollamento, anche attraverso una depenalizzazione che non si fermi all’abuso d’ufficio, si potrà tornare a controllare in maniera adeguata chi realmente deve stare in carcere, per evitare che continui a comportarsi come da libero”. Però sono gli stessi affiliati a lamentarsi, nelle intercettazioni, di una mafia che non è più quella di una volta, ridotta quasi a un’accolita di straccioni costretti ad accontentarsi delle briciole di traffico di droga. “Che la mafia sia più debole è vero, perché per fortuna trent’anni di repressione avviata dopo le stragi non sono passati invano. Ma della Cosa nostra di un tempo restano il rispetto delle regole, l’attrazione nei confronti dei giovani e la capacità di infiltrarsi nei territori. Prima delle bombe e dei delitti eccellenti c’era una mafia silente e di relazioni che oggi si tende a ripristinare attraverso la minaccia e l’intimidazione. Per esercitarle si deve ricostruire un esercito, con i soldi provenienti principalmente dal traffico di droga per cui serve il controllo del territorio e delle piazze di spaccio. È una catena necessaria per un ritorno al passato che si sta realizzando anche attraverso alleanze con le altre organizzazioni criminali, a partire dalla ‘ndrangheta”. Il ritorno al passato prevede anche rapporti con il mondo della politica? “Sì, sebbene - allo stato - dalle indagini non si può dire che emergano relazioni di alto livello; la mafia ha altri problemi e oggi non sembra in grado di condizionare la politica. Dunque ci sarebbe la possibilità di amministrare la cosa pubblica senza subire l’influenza mafiosa; il che non garantisce che lo si faccia sempre in maniera lecita, e rende ancora più grave il comportamento di quegli esponenti politici che cercano il contatto con la mafia pensando di averne vantaggi, come abbiamo verificato anche in tempi molto recenti. Realizzando una sorta di riconoscimento politico della mafia che la rafforza”. La legislazione antimafia è adeguata a fronteggiare questa nuova stagione? “Per fortuna le riforme non hanno toccato le indagini su mafia e terrorismo, compresa quella delle intercettazioni. E gli interventi sull’ergastolo ostativo si stanno rilevando efficaci. Altra questione è la concessione dei permessi-premio concessi a condannati che non si sono dissociati da Cosa nostra e tornando sul territorio si reimmergono nella loro realtà criminale; è un fenomeno da monitorare con attenzione perché si sta facendo diffuso”. E fuori dell’antimafia, qual è l’impatto delle riforme varate o in via di approvazione? “C’è un proliferare di norme che sta determinando un certo caos anziché aiutare la rapida celebrazione dei processi. Solo l’anno scorso ci sono stati 21 interventi su procedura penale e codice penale, introducendo nuove figure di reato che appesantiscono il sistema e al tempo stesso nuove regole processuali che finiscono per ingolfarne il funzionamento”. Ad esempio? “Con l’interrogatorio preventivo rispetto all’ordinanza di custodia cautelare si avvisa l’indagato del possibile arresto, spingendo ad aggirare il rischio di danneggiare l’indagine con qualche forzatura sul pericolo di fuga o altre deroghe; che senso ha? E che senso ha il limite di 45 giorni per le intercettazioni, tranne quelle antimafia e antiterrorismo, quando una corruzione presuppone trattative e accordi complessi difficili da scoprire in un tempo così limitato? Regole rigide per evitare eccessi e abusi negli ascolti c’erano già”. Che cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri? “È una riforma della magistratura, non della giustizia, e non risolve nessuno dei veri problemi con cui ci confrontiamo ogni giorno, andando invece a incidere su equilibri costituzionali delicatissimi. La parità tra pm e difesa nei processi davanti a un giudice terzo e imparziale è già garantita dal sistema attuale; semmai bisognerebbe preoccuparsi dell’accesso ad avvocati bravi e attrezzati che non tutti possono permettersi. Ma soprattutto si rischia di creare una corporazione di circa 1.500 pm, da cui hanno messo in guardia personalità del livello istituzionale di Marcello Pera e Luciano Violante, che risponde solo al proprio Consiglio superiore, mentre nell’attuale Csm unico la rappresentanza dei pm è minoritaria; una realtà che spingerà il pm sotto il controllo del potere esecutivo”. Però la riforma ne garantisce l’indipendenza rispetto ad ogni altri potere. “Lo hanno scritto, ma nessun sistema democratico può tollerare un pm che non rende conto a nessuno. Si arriverà a necessariamente a un governo esterno, e non potrà che essere del ministro della Giustizia. Col risultato di un’azione penale orientata secondo i desideri della maggioranza politica del momento”. Dillo al Copasir e poi taci di Carlo Tecce L’Espresso, 23 febbraio 2025 Gettonatissimo in tempo di scandali e misteri, di omissis e ragion di Stato, l’organismo paritario di controllo sui Servizi, guidato dall’opposizione, è tenuto al segreto. Il Copasir è l’estensione parlamentare, l’unica autorizzata e con poteri specifici, che vigilia sulle attività dei servizi segreti e perciò sui responsabili che le indirizzano: il governo in carica. Quest’anno va di moda il Copasir perché la sicurezza nazionale, spesso declinata come Ragion di Stato, è alla base dei casi più spinosi che si affastellano da un paio di mesi nel dibattito pubblico: le dimissioni dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni dal ruolo di direttore del Dis, il dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis) che coordina le Agenzie interne e esterne; la liberazione di Cecilia Sala detenuta in Iran e lo scambio in differita con l’ingegnere iraniano Mohammed Adedini; la scarcerazione con il trasferimento a Tripoli del generale torturatore Osama Almasri; le verifiche di intelligence su Gaetano Caputi, capo di gabinetto della presidenza del Consiglio; gli esposti contro la Procura di Roma per il documento su Caputi allegato agli atti di una querela per diffamazione; il mistero attorno all’invasivo virus spia inoculato nei telefoni di sette italiani e fabbricato da Paragon, azienda israeliana acquistata da un fondo americano; la citazioni per danni nei confronti di due quotidiani per un retroscena e un commento al retroscena reputati falsi. E scusate se è poco. Il governo di Giorgia Meloni ha affrontato alle Camere gran parte di questi casi spinosi, non di rado l’ha fatto mal volentieri e con troppe esitazioni, mentre con piacere ministri di governo e non soltanto ministri si precipitano a farsi interrogare a palazzo San Macuto, la sede ovattata e protetta del Copasir. Il motivo è semplice: il Copasir è il santuario del segreto. La violazione è un reato che viene punito con il carcere da due a cinque anni e peraltro c’è una maggiorazione prevista per i parlamentari. Il Copasir ha un mandato essenziale per il funzionamento democratico e, proprio per il velame di segreto che lo avvolge, non sempre ciò è percepito. La verità si compone al Copasir o quantomeno queste sono le intenzioni, ma lì ne rimane perlopiù sigillata. Il presidente Lorenzo Guerini, l’esponente del Partito Democratico che fu già presidente Copasir durante la scorsa legislatura prima di diventare ministro della Difesa nei governi di Giuseppe Conte in versione giallorossa e di Mario Draghi in versione tecnica poi, è solito ripetere che “l’intelligence deve star fuori dalla contesa politica come deve starne fuori il Comitato, che è un organo di garanzia e di controllo e dunque è chiamato a tutelare pure i controllati. Il Copasir deve essere messo al riparo da questioni politiche. Quando ci sono elementi di valenza politica bisogna che siano trattati in una sede politica opportuna”. Insomma il Copasir non deve diventare la terza Camera del Parlamento che dispone di un confessionale per liberare nel segreto il governo dai suoi eventuali peccati né la politica deve eccedere in speculazioni mediatiche sui servizi segreti banalizzando temi seri, forse anche seriosi, che attengono alla sicurezza nazionale. Molti governi, quasi tutti, sono tentati di usare il Copasir per una rapida e indolore confessione e il governo Meloni non fa eccezione, ma il Copasir fa altro. Per esempio riceve un aggiornamento semestrale dalla presidenza del Consiglio sulle operazioni di intelligence e sui pericoli per la sicurezza nazionale, può convocare i vertici dei servizi segreti e anche i singoli dipendenti, può sollecitare accertamenti sulle condotte di appartenenti o ex appartenenti ai servizi segreti, può esercitare un controllo sulle spese relative a operazioni concluse, esprime pareri su riforme e risorse, può chiedere documenti e informazioni riservate e, dopo sostanziale diniego, può rivolgersi alla presidenza del Consiglio e in ultima istanza riferire alle Camere, sebbene un conflitto del genere non sia accaduto mai dalla sua costituzione nel 2007. Il Copasir non comunica, è taciturno per forza, non va oltre la citazione dell’audito dai commissari. Nel 2023 ha svolto 58 audizioni, più di una a settimana. Fin qui a gennaio e febbraio ha accolto: il ministro Carlo Nordio (Giustizia), il capo della Polizia Vittorio Pisani, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il direttore Giovanni Caravelli (Aise), il direttore Bruno Valensise (Aisi), il procuratore di Roma Francesco Lo Voi. Quello che succede nel Copasir resta al Copasir a parziale esclusione di quello che viene riferito nella relazione annuale. “Sono state ricevute due comunicazioni, ai sensi dell’articolo 19, comma 4, della legge istitutiva, di conferma all’autorità giudiziaria, da parte del presidente del Consiglio dei ministri, della sussistenza dell’autorizzazione di condotte di cui all’articolo 17 (garanzie funzionali)”. Questo è un passaggio delicato, segnala che in due circostanze per l’intelligence è stato necessario utilizzare l’immunità penale (garanzie funzionali) rispetto alle inchieste giudiziarie. Il Copasir tratta documenti classificati in origine e quindi non può rivelarli. Però in teoria potrebbe divulgare quello che viene prodotto dal Copasir: è sufficiente una votazione a maggioranza del Comitato. E qui subentra l’argomento politico. A differenza del rottamato Copaco e delle altre commissioni monocamerali o bicamerali, il Copasir è la sola commissione che non riflette la maggioranza parlamentare. Difatti è composto da dieci membri, cinque di maggioranza e cinque di opposizione, indicati dai presidenti di Camera e Senato dopo una consultazione con i capigruppo. Il presidente spetta di diritto alle opposizioni, ma il suo voto non vale più degli altri. Ne consegue che per avere una maggioranza dentro al Copasir, anche per comunicare un innocuo brandello di audizioni, dovrebbe accadere che un membro di maggioranza si associ alle opposizioni e viceversa. Più facile che si verifichi quello che si verifica di frequente: spifferi sussurrati da bocche ignote, cioè fonti non del Copasir, che comunicano quello che è conveniente comunicare. Oppure spiegazioni che non sono contestabili perché non è possibile fornire controprove. Quando ci si affida al mantra: il Copasir era soddisfatto. E chi potrebbe smentire se il Copasir è vincolato al segreto? Con Guerini presidente al Copasir, proprio per muoversi senza rompersi, si procede con votazioni all’unanimità. Attualmente il Copasir, per equilibri di opposizione, non ospita un membro di Alleanza verdi sinistra. Oltre al presidente dem Guerini, ci sono Roberto Scarpinato e Marco Pellegrini per i Cinque Stelle, Enrico Borghi per Italia Viva, Ettore Rosato per Azione. Con la maggioranza ci sono Giovanni Donzelli, Ester Mieli, Angelo Rossi per Fratelli d’Italia; Claudio Borghi per la Lega, Licia Ronzulli per Forza Italia. Durante un cambio di maglie nel centrosinistra, Italia Viva di Matteo Renzi aveva due commissari, Borghi fuoriuscito dal Pd e il segretario del Comitato Rosato finché Rosato non ha lasciato Italia Viva per Carlo Calenda. Il governo Meloni non avverte di certo l’urgenza di rendere più trasparente il Copasir, ma di rinfrescare le norme sui servizi segreti sì. Per una materia così delicata è inevitabile consultare le opposizioni e costruire assieme un accordo. Non stupisce che il sottosegretario Mantovano, l’autorità delegata per la sicurezza nazionale, abbia affermato che si potrebbe trarre spunto dalla proposta di legge di Guerini. Il presidente del Copasir, abile interprete del galateo istituzionale e cerniera fra maggioranza e opposizione, non ha presentato una bozza per riformare le Agenzie o cambiare l’assetto dell’intelligence, ma per definire un piano triennale della sicurezza nazionale, allestire un gruppo interministeriale per la Sicurezza della Repubblica più snello e agile di quello di oggi e soprattutto per rendere obbligatoria la figura dell’Autorità delegata ai servizi segreti. Per due volte, nel recente passato, Gentiloni e Conte hanno tenuto per sé la delega (Conte nelle ultime settimane a Palazzo Chigi scelse l’ambasciatore Pietro Benassi). Va notato che Guerini ha previsto che l’Autorità delegata sia un impegno esclusivo con una deroga: può fare il segretario del Consiglio dei ministri. Come Gianni Letta. E come il medesimo Mantovano. Liguria. Al via il progetto “Welfare di Giustizia”: formazione e lavoro per i detenuti genova24.it, 23 febbraio 2025 La Regione investe oltre 2,7 milioni di euro in azioni finalizzate a favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, riducendo il rischio di recidiva. La Regione Liguria aderisce a un nuovo programma contro la recidiva penale con il programma finanziato attraverso il PON Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027. Oltre 2,7 milioni di euro dai Fondi Sociali Europei (FSE+) e 84 mila euro dai Fondi Europei di Sviluppo Regionale (FESR) sono stati destinati al progetto “Welfare di Giustizia”, concepito per integrare attivamente i detenuti nel tessuto sociale ed economico della regione. Il cuore del programma è il sostegno al reinserimento attraverso formazione professionale e lavoro sia dentro che fuori dalle mura delle carceri. In particolare, verranno potenziati percorsi di formazione e l’accesso a opportunità lavorative per coloro che sono sotto regime penitenziario, con l’obiettivo di ridurre la recidiva. Un elemento fondamentale per il successo del progetto è il coinvolgimento di tutti i settori della società, dalla produzione all’assistenza sociale, in un approccio solidale e collaborativo. Secondo i dati più recenti, nel 2024 in Liguria sono stati registrati 1.377 individui sotto regime restrittivo. Al 30 giugno dello stesso anno, 272 detenuti lavoravano nelle istituzioni penitenziarie, di cui 168 stranieri, mentre altri 76 erano impiegati presso datori di lavoro esterni. Il programma è diviso in due parti. Il primo, denominato “Mens Sana in Urbe Sana”, con un finanziamento di circa 1,52 milioni di euro dai Fondi FSE+, mira a migliorare le condizioni di vita in carcere e aumentare le opportunità di occupazione, inclusi corsi di formazione professionale green e lavori di pubblica utilità. Il secondo progetto, con uno stanziamento combinato di 1,28 milioni di euro, concentrerà invece gli sforzi su servizi di benessere e animazione di rete per persone in esecuzione penale. Questo includerà supporto psico-sociale, tirocini extracurriculari e azioni preventive, con l’obiettivo di facilitare un efficace reinserimento nella comunità. “Il primo progetto di Welfare Liguria, con uno stanziamento di circa 1.519.167 euro a valere sui Fondi FSE+, vuole fornire un sostegno e un accompagnamento del detenuto, migliorando anche la qualità della vita in carcere - spiega l’assessore alle Politiche Sociali Massimo Nicolò - questo progetto mira anche ad aumentare l’occupabilità, anche attraverso l’attivazione di corsi di Formazione professionale di tipo green. Al contempo verranno aumentate le opportunità per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità grazie ad un supporto psicosociale, l’inclusione lavorativa, la prevenzione. Gli interventi saranno sia individuali che di gruppo, rivolti alle persone in situazioni di fragilità, finalizzati alla definizione del progetto di reinserimento individuale, accompagnando il passaggio dalla struttura penitenziaria al territorio e creando l’aggancio ai servizi e alla rete di relazioni” Il programma prevede una stretta collaborazione tra le istituzioni giudiziarie, la Regione Liguria, l’UEPE e il Terzo Settore, per garantire un approccio integrato e sostenibile alla reinserzione sociale dei detenuti. Gli operatori del progetto agiranno come mediatori di rete, lavorando sul campo per promuovere salute, formazione civica, educazione ambientale e coesione comunitari Avellino. Detenuto morto in carcere a Bellizzi, il caso finisce in Parlamento irpinianews.it, 23 febbraio 2025 La morte del detenuto Ciro Pettirosso finisce in Parlamento, dove il deputato di Avs Aboubakar Soumahoro ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al Ministro di Grazia e Giustizia e al Ministro della Salute, ricostruendo gli eventi e quanto emerso fino ad ora sulla morte del trentaseienne: la casa circondariale di Avellino “Antimo Graziano” e? stata teatro di una tragedia che ha scosso profondamente detenuti, personale penitenziario e familiari delle persone ristrette. Nella giornata dell’8 febbraio 2025, il corpo senza vita di Ciro Pettirosso, 36 anni, originario di Napoli, e? stato ritrovato all’interno della struttura. Il decesso del giovane detenuto ha immediatamente allertato le autorità competenti, che hanno avviato le indagini per fare luce su quanto accaduto; non appena la notizia si e? diffusa, la procura della Repubblica di Avellino ha aperto un fascicolo d’indagine. Il magistrato di turno, Cecilia Annechini, ha disposto l’autopsia sulla salma del detenuto, che e? stata trasferita presso l’obitorio dell’ospedale “San Giuseppe Moscati” di Avellino; gli inquirenti stanno vagliando ogni ipotesi, senza escludere alcuna possibilità: dalle cause naturali a un malore improvviso, fino a eventuali negligenze o circostanze esterne che potrebbero aver influito sul tragico epilogo. La dinamica dell’accaduto rimane ancora poco chiara, ma la vicenda ha acceso i riflettori sulle condizioni di detenzione all’interno della struttura penitenziaria e sulla sicurezza dei detenuti. Soumahoro ha anche ricordato che: “il drammatico evento accaduto nel carcere di Avellino riporta in primo piano la questione delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. Sovraffollamento, carenza di personale medico e difficolta? nella gestione sanitaria dei detenuti sono problemi che affliggono molte strutture penitenziarie nel Paese. I sindacati della polizia penitenziaria e le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti denunciano da tempo una situazione sempre piu? critica: carenze strutturali, scarsità di risorse e un sistema sanitario interno che, spesso, non riesce a garantire cure adeguate ai detenuti affetti da patologie croniche; il caso di Ciro Pettirosso, se le accuse della famiglia dovessero trovare conferma, potrebbe rappresentare l’ennesimo episodio di negligenza in un contesto già segnato da numerose criticità. Le indagini faranno chiarezza, ma una riflessione più ampia sulle condizioni delle carceri italiane sembra ormai inevitabile, cosi? come occorrono misure immediate e straordinarie”. Il parlamentare ha infine chiesto “se i Ministri interrogati, per quanto di competenza, intendano adottare iniziative, anche di carattere ispettivo, al fine di contribuire a far piena luce su quanto accaduto e su eventuali gravi inadempienze del personale servizio presso la casa circondariale di Avellino; se intendano altresì in intraprendere iniziative straordinarie e urgenti al fine di porre rimedio al problema del sovraffollamento e alle gravi problematiche che affliggono le carceri italiane”. Brescia. Carcere sovraffollato, la proposta: misure alternative per pene inferiori ai 3 anni di Federica Pacella Il Giorno, 23 febbraio 2025 La Garante dei detenuti, Luisa Ravagnani: “Servono azioni concrete con l’approvazione urgente di misure deflattive”. I volontari chiedono misure alternative per chi sta scontando pene minori. In cinque anni di attività, la chiesa interna non l’ha praticamente mai vista perché inagibile, mentre l’ufficio del cappellano è usato da chiunque. Sovraffollato, si fa quel che si può, il diritto di culto viene comunque garantito a tutti - racconta don Stefano Fontana, Cappellano della Casa Circondariale di Brescia Nerio Fischione. La situazione è nota, direzione, polizia penitenziaria, educatori, volontari e cooperative fanno quello che possono, ma è chiaro che la struttura non consente di garantire la rieducazione, che dovrebbe essere l’obiettivo di tutti”. La collaborazione tra le realtà che ruotano attorno al carcere ha, comunque, un suo impatto, visto che, nonostante un sovraffollamento che pone il Fischione ai vertici tra le strutture italiane, non si registrano disordini che si vedono altrove. Lo ha sottolineato anche la garante dei detenuti Luisa Ravagnani, a margine dell’incontro organizzato da Vol.Ca. (Volontariato in carcere) e Congrega della Carità Apostolica, ‘Visitare i carcerati’, aperto dai saluti istituzionali dell’assessore ai Servizi sociali Marco Fenaroli per il Comune di Brescia e da Franco Bossoni presidente della Congrega della Carità Apostolica. Ravagnani ha firmato l’appello, diffuso giovedì a livello nazionale, dei Garanti, che hanno indicato il 3 marzo come giornata di mobilitazione nazionale per tornare ad accendere i riflettori sul sovraffollamento, di cui i 14 suicidi da inizio anno sono una conseguenza. “Sappiamo che il sovraffollamento delle carceri non interessa molto - commenta Ravagnani - se non nei quindici giorni d’estate in cui non ci sono altre notizie. Chiediamo seriamente iniziative per affrontare il problema”. Azioni concrete e immediate potrebbero essere l’approvazione urgente di misure deflattive per chi deve scontare meno di un anno di carcere, l’accesso alle misure alternative per chi sta scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni. “Oggi a Brescia abbiamo un numero alto di educatori che non si vedeva da tempo. Chiaro che sono assegnati sulla base dei posti regolamentari, per cui si trovano comunque in difficoltà visto che i numeri reali di presenti sono altissimi - dice Ravagnani -. L’area sanitaria è sempre sotto pressione. Continuare a chiamarla emergenza significa che non possiamo fare niente”. San Vito al Tagliamento (Pn). Due ministri al “varo” dei lavori del nuovo carcere rainews.it, 23 febbraio 2025 Il padiglione detentivo da 5 piani di cui tre con 33 camere triple e 2 doppie per detenuti con disabilità sarà adeguato ai più moderni standard. Due ministri, della Giustizia Nordio e per i Rapporti con il Parlamento Ciriani, la viceministra dell’Ambiente Gava, Regione, sindaci e autorità al sopralluogo al grande cantiere per la realizzazione del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento nei 50mila metri quadri dell’ex Caserma Dall’Armi, opera da 60 milioni di euro e 300 posti. Per il ministro Nordio il potenziamento dell’edilizia penitenziaria è una risposta al problema del sovraffollamento, assieme alla riduzione della carcerazione preventiva e all’espiazione della pena delle persone straniere nei Paesi d’origine. Carlo Nordio, ministro della Giustizia: “auspico che sia una sorta di progetto pilota che venga emulato in altre regioni, il Friuli per questo ha una caratteristica di privilegio perché dispone di molte caserme dismesse”. Una giornata storica per San Vito, che realizza il carcere, e per Pordenone che libera il castello, il commento del ministro Ciriani, ma anche per l’intera regione. Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento: “lavoreranno molte imprese locali in questo cantiere e soprattutto è una risposta al sovraffollamento per avere carceri più dignitose e più sicure”. All’Auditorium Zotti la presentazione del penitenziario alla comunità, con il videomessaggio del ministro delle Infrastrutture Salvini. Il padiglione detentivo, da 5 piani di cui tre con 33 camere triple e 2 doppie per detenuti con disabilità, sarà adeguato ai più moderni standard; ci lavoreranno 300 persone. I lavori sono iniziati a novembre con la pulizia della vegetazione e le demolizioni dei vecchi fabbricati cui seguirà la bonifica bellica; entro marzo si potrà partire con la costruzione che sarà ultimata, da previsioni della ditta, già a metà 2026. Alberto Bernava, sindaco di San Vito al Tagliamento: “Questa non è solo un’opera di rigenerazione urbana ma un progetto di inclusione sociale”. Vicenza. Visita al carcere di esponenti PD: “Struttura gestita bene nonostante le difficoltà” vipiu.it, 23 febbraio 2025 Una struttura gestita in maniera esemplare dal personale di ogni livello, seppur tra mille difficoltà, a partire dai numeri critici che mettono a dura prova il sistema: è questa la realtà emersa dalla visita al Carcere di Vicenza effettuata ieri da Annalisa Corrado (Segreteria Nazionale PD, MEP S&D), Rosanna Filippin (Deputata eletta in Veneto, PD) e Chiara Luisetto (Consigliera Regionale in Veneto, PD). “Vicenza, come tante strutture italiane, soffre di un grave sovraffollamento: con 270 posti, l’istituto ospita in realtà 365 detenuti, sostenuti da un organico del tutto insufficiente di soli 170 poliziotti penitenziari e tre educatori, di cui uno part-time”, riportano. “Numeri allarmanti, che rendono impossibile un percorso rieducativo efficace e scaricano il buon funzionamento della struttura sulle spalle di chi ci lavora, invece che su quelle dello Stato”. Le tre esponenti dem hanno incontrato la Direttrice dell’istituto, Luciana Traetta, il Direttore sanitario, Stefano Tolio, e la Garante dei diritti delle persone detenute, Angela Barbaglio, oltre ad una rappresentanza del corpo di polizia penitenziaria, constatando in prima persona le criticità del carcere. La carenza di personale educativo e sanitario è aggravata dalla presenza di detenuti con fragilità psichiatriche e dipendenze. “Troppo spesso la detenzione rappresenta il primo e unico momento di emersione per queste situazioni di marginalità. Il carcere non può essere l’ultimo approdo per realtà che la società tende a dimenticare, ma deve diventare un punto di partenza per un reale reinserimento sociale”, sottolineano le esponenti del PD. Fondamentale, secondo Corrado, Luisetto e Filippin, è investire nella riqualificazione degli spazi, nel potenziamento del personale del carcere di Vicenza e nei progetti di inserimento professionale. “Se vogliamo garantire la sicurezza delle nostre comunità, dobbiamo mettere al centro rieducazione e lavoro”, aggiungono. L’appello delle rappresentanti democratiche è chiaro: “Per migliorare il sistema servono investimenti concreti e un cambio di paradigma: il carcere deve essere considerato il primo anello della sicurezza di un territorio, non l’ultimo”. Ruvo di Puglia (Ba). “Sbarre”: riflessioni sulla giustizia riparativa e il sistema penitenziario di Teresa Fiore ruvoviva.it, 23 febbraio 2025 Un evento per esplorare le criticità della detenzione e le prospettive di un sistema riformatore. Martedì 25 febbraio, alle 18:00, la libreria L’Agorà - Bottega delle Nuvole di Ruvo di Puglia ospiterà la presentazione del libro Sbarre, scritto dall’ex magistrato antimafia Sandro Messina. L’evento si inserisce nel percorso sulla giustizia riparativa, promosso dall’Assessorato al Benessere e Giustizia Sociale del Comune di Ruvo di Puglia, con l’obiettivo di stimolare una riflessione sulla detenzione, il sistema giudiziario e le relazioni umane. Attraverso l’esperienza diretta dell’autore, il libro scandaglia le pieghe più oscure della macchina giudiziaria italiana, soffermandosi sul fenomeno dell’ingiusta detenzione, sulle criticità delle misure restrittive e sulle implicazioni sociali della reclusione. Ad aprire il dibattito sarà Nico Curci, assessore al Benessere e Giustizia Sociale del Comune di Ruvo di Puglia, cui seguiranno gli interventi di Edgardo Bisceglia, vice direttore della Caritas diocesana, Ilaria De Vanna, vicepresidente della Cooperativa CRISI s.c.a r.l. Onlus, e dello stesso Alessandro Messina, che offrirà una disamina puntuale sulle fragilità del sistema carcerario e sulle possibili prospettive di riforma. Particolarmente significativa sarà la partecipazione di alcuni giovani della Comunità Emmanuel di Triggiano, che porteranno le loro testimonianze dirette, rendendo il confronto ancora più tangibile e pregnante. L’incontro si preannuncia come un momento di approfondimento e dibattito su una giustizia che non si esaurisca nella mera punizione, ma che sappia farsi strumento di riscatto e reintegrazione sociale. Un’occasione per quanti credono nella necessità di un sistema più equo, umano e orientato alla riabilitazione. L’appuntamento è fissato per il 25 febbraio presso L’Agorà - La Bottega delle Nuvole, in Corso Cavour 48, Ruvo di Puglia. Un’iniziativa che invita la comunità a una riflessione collettiva sulla giustizia e sul futuro della detenzione in Italia. Roma. “Credere ancora nelle favole”. Teatroterapia e recupero nel carcere di Rebibbia di Lorena Crisafulli L’Osservatore Romano, 23 febbraio 2025 Il teatro come forma di terapia è possibile anche in un luogo difficile come il carcere, in cui l’arte può aiutare ad attraversare ore interminabili, giorni faticosi, vite sospese. Succede a Rebibbia dove la cura si fa attraverso il laboratorio teatrale “Credo ancora nelle favole”, realizzato con alcune persone detenute all’interno della casa circondariale romana. A distanza di un anno dalla conclusione degli incontri, proprio in questi giorni il Municipio vi, tra i primi sostenitori del progetto, organizza una serie di proiezioni per mostrare alla cittadinanza il prezioso lavoro svolto in scena dalle persone detenute con i loro familiari. Il copione è il risultato del lavoro terapeutico condotto, con dieci persone della sezione media sicurezza di Rebibbia, dalle psicoterapeute ideatrici del progetto, Irene Cantarella e Sandra Vitolo, per far rivivere sul palcoscenico emozioni reali, frammenti di vita e di speranza. “La costruzione del copione è stata frutto di incontri di analisi di prospettiva, effettuati con i singoli protagonisti e poi condivisa successivamente con il gruppo - spiegano le psicologhe -. Analogo lavoro terapeutico è stato esteso ai nuclei familiari, con incontri collettivi a cadenza mensile, che hanno dato luogo alla costruzione di un gruppo attivamente coinvolto, all’interno del quale si sono condivise le vicende personali, le emozioni più intime e le incertezze sul futuro. Il percorso laboratoriale così realizzato - aggiungono le ideatrici - ha stimolato la rivisitazione critica delle proprie scelte di vita e l’individuazione di risorse interiori per adottare soluzioni funzionali al processo di crescita personale. Il coinvolgimento anche in questo universo affettivo del detenuto esse siano costrette, loro malgrado, a scontare una condanna”. La prima proiezione riservata ad alcuni esponenti del vi Municipio, ai dirigenti scolastici e agli alunni delle scuole superiori di primo e secondo grado, si terrà lunedì 24 febbraio alle 10.3o presso il Teatro Tor Bella Monaca, in via Bruno Cirino, a Roma. Durante l’evento è prevista la partecipazione di magistrati e figure istituzionali del settore Giustizia. Nell’ambito dello stesso filone di iniziative, il VI Municipio mette a disposizione la sala cinema “Antonio Cerone” per alcune giornate, con l’obiettivo di realizzare un ciclo di proiezioni che coinvolgerà gli studenti delle scuole medie e superiori del territorio, promuovendo uno spazio di confronto e dibattito. Lo scopo è quello di diffondere la cultura del rispetto delle nonne per la prevenzione della devianza giovanile e contrastare comportamenti di bullismo, esclusione ed emarginazione. “Quali rappresentanti del vi Municipio che, notoriamente insiste su un territorio urbano socialmente complesso, riteniamo fondamentale diffondere la cultura della prevenzione della devianza e sottolineare che “cambiare si può”, se supportati da una società che accoglie anziché respingere - spiegano in una nota dal vi Municipio -. Siamo pertanto fortemente motivati a divulgare il documentario “Credo ancora nelle Favole” come strumento adatto ad evidenziare quanto l’attività trattamentale e psicologica, svolta in carcere, possano incentivare la revisione critica della condotta, e favorire la ristrutturazione della personalità in modo da creare i giusti presupposti per il reinserimento sociale dei detenuti”. Il docufilm “Credo Ancora nelle Favole”, per la regia di Amedeo Staiano, è per l’appunto tratto dall’omonimo spettacolo andato in scena all’interno del laboratorio di teatroterapia nella Casa di Reclusione romana, con l’idea di portare in scena l’essere umano e non il suo fascicolo penale. Nel corso dello spettacolo è stata affrontata anche la delicata tematica della dimensione di coppia vissuta da chi all’interno del carcere vive separato da mogli e compagne le cui vite proseguono all’esterno. “Queste - concludono le due psicoterapeute che hanno anche curato e coordinato la direzione artistica della messa in scena - si sono impegnate in un percorso di rivisitazione delle modalità relazionali utilizzate con il partner, che si sono concretizzate il più delle volte nel passato e in atteggiamenti giustificanti legati al coinvolgimento affettivo emotivo”. Ripercorrendo a ritroso le tracce lasciate da “Credo ancora nelle favole”, un titolo che di per sé porta speranza, vengono fuori alcuni frammenti significativi della messa in scena a Rebibbia: “Vi chiediamo scusa per non esserci”, dicono tre giovani padri detenuti e quattro bambini che dialogano seduti intorno a un tavolo sul palco. “Scusa per non esserci stato in tutti questi anni, per non essere stato presente il giorno del tuo diciottesimo compleanno”, accenna un altro padre in una scena diversa. “L’unica cosa che voglio è vederti un giorno svegliarti a casa, trascorrere un Natale insieme e vederti ridere come non fai da tanto tempo”, risponde la figlia al genitore destinato al “fine pena mai”. Sono solo alcuni degli stralci che rendono, però, l’idea del senso di isolamento e di emarginazione di queste persone che portano sulle spalle anche il fardello di aver lasciato al loro destino le proprie famiglie, incolpevoli. “Credo ancora nelle favole” è, come si legge nel pieghevole di presentazione del progetto, “oggettivazione scenica del percorso terapeutico compiuto sull’affettività”. In particolare - chiarisce una nota del Garante dei detenuti del Lazio - è stato affrontato il tema della paternità reclusa e delle dinamiche familiari connesse al reato con le sue conseguenze: da qui la scelta di coinvolgere nella rappresentazione teatrale tutti i componenti delle famiglie dei ristretti e proiettare numerose diapositive di foto scattate durante la libertà: compleanni, feste in famiglia, vacanze. La proiezione del docufilm nel vi Municipio prima e nelle aree più a rischio d’Italia nei prossimi giorni rientra nella campagna di sensibilizzazione rivolta alle classi e dedicata alle scuole medie inferiori e superiori, realizzata anche grazie al patrocinio del ministero della Giustizia. Sulmona (Aq). I detenuti protagonisti dello spettacolo sulla fiaba di Pinocchio di Tommaso Cotellessa news-town.it, 23 febbraio 2025 Nella Casa di reclusione di Sulmona, la celebre fiaba di Pinocchio si è trasformata in una rappresentazione teatrale dal profondo significato allegorico, esplorando il tema dell’errore come strumento di evoluzione e crescita personale. L’adattamento è stato curato dai detenuti sotto la regia di Pietro Becattini, con la partecipazione di Francesca Galasso, e ha rappresentato il culmine di un percorso formativo realizzato in collaborazione con il Centro Provinciale Istruzione Adulti (Cpia) di L’Aquila. Il progetto è stato seguito dalle docenti Antonella Iulianella e Concetta Berlantini e sostenuto dalla Fondazione Carispaq. “Pinocchio non è solo una favola, ma un vero e proprio romanzo di formazione - ha spiegato il regista Becattini - È perfetto per un percorso trattamentale, perché insegna che si cresce solo assumendosi le proprie responsabilità. Inoltre, tocca temi fondamentali come la legalità, l’importanza dell’istruzione, il valore dell’impegno e della volontà, ma anche questioni sociali come la violenza sui minori, la povertà e la lotta contro l’apparenza”. La rappresentazione ha offerto una narrazione originale, affidata agli occhi disillusi del Grillo Parlante e alle azioni di una compagnia teatrale che vive in un mondo dove “tutto è finto e niente è vero”. In questo contesto si è inserito anche un Pulcinella umano, testimone del tempo che scorre inesorabile e delle difficoltà dell’esistenza. Alla prima dello spettacolo, messa in scena nel teatro del carcere, hanno assistito numerose autorità, tra cui la consigliera regionale Maria Assunta Rossi, la dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale Gabriella Liberatore, la dirigente scolastica del Cpia Alessandra De Cecchis, il direttore della Casa di reclusione Stefano Liberatore e la sua vice Rosa Gaudino. Presenti anche la comandante di reparto Alessandra Costantini con il suo vice Roberto Cerino ed Elisabetta Santolamazza, capo area trattamentale. L’iniziativa ha rappresentato un’importante occasione di riflessione per i detenuti, offrendo loro la possibilità di esprimersi attraverso il teatro e di affrontare, in maniera simbolica, il tema del cambiamento e della responsabilità personale. Un progetto che ha unito arte, formazione e rieducazione, dimostrando come la cultura possa essere un ponte per la rinascita. Siena. Il teatro a Santo Spirito. Ospiti Calabresi e Solarino di Angela Gorellini La Nazione, 23 febbraio 2025 Nuovo appuntamento con il programma “Artisti dietro le sbarre”. Alla Casa circondariale i protagonisti dello spettacolo ai Rinnovati. Nel piccolo teatro della casa circondariale di Santo Spirito, il progetto “Artisti dietro le sbarre” ha regalato un altro incontro indimenticabile. Questa volta, a varcare le soglie del carcere senese sono stati Paolo Calabresi e Valeria Solarino, che con la loro sensibilità hanno instaurato un dialogo profondo e coinvolgente con i detenuti. I due attori sono sbarcati sulle lastre per la trasposizione teatrale del successo cinematografico ‘Perfetti sconosciuti’, in scena al teatro dei Rinnovati. Prendendo spunto proprio dalla piece teatrale, gli artisti hanno sottolineato l’importanza sempre maggiore che ha assunto il cellulare nelle nostre vite, tanto da non ricordare più i numeri di telefono e aver perso l’abitudine di scrivere lettere. È quindi nato un momento toccante: un detenuto egiziano ha raccontato come, proprio attraverso una lettera, sia riuscito a confessare alla madre gli errori che lo hanno portato in carcere, cosa che al telefono non aveva mai avuto il coraggio di fare. Un gesto semplice ma carico di significato, che ha colpito profondamente sia gli ospiti che gli attori. Calabresi e Solarino hanno poi spiegato la differenza tra recitare per il cinema e per la televisione, soffermandosi sulle peculiarità tecniche ed emotive di entrambi i linguaggi. Valeria Solarino ha raccontato come il teatro rappresenti per lei una dimensione più autentica e coinvolgente rispetto alla macchina da presa. Non poteva mancare, per Calabresi, una domanda sul suo passato da inviato del programma Le Iene, un periodo della sua carriera che ha affrontato con la consueta ironia, ma anche con la consapevolezza dell’importanza di un giornalismo d’inchiesta serio e coraggioso. Ben stampato, nella memoria di tutti, il ricordo degli schiaffi a Fabrizio Corona. Infine, come da tradizione, il poeta napoletano Salvatore ha declamato alcune sue opere, una delle quali scritta la notte precedente, che hanno toccato il cuore di tutti i presenti. Le parole di Salvatore, impregnate di nostalgia e speranza, hanno suscitato applausi e commozione, confermando ancora una volta il potere catartico della poesia. Tra una confidenza e l’altra, l’ora insieme è trascorsa velocemente, ma l’umanità e l’attenzione dei detenuti erano palpabili e hanno lasciato un segno anche nei due attori ospiti della casa circondariale. Ripensare il carcere. Cosa ci insegnano le voci di Gattabuia di Isabella De Silvestro Il Domani, 23 febbraio 2025 Dall’uscita di “Gattabuia”, il podcast di Domani prodotto da Emons Record sulla vita quotidiana nelle carceri italiane, molte sono state le reazioni e i riscontri ricevuti. Non solo da parte delle ascoltatrici e degli ascoltatori che si sono avvicinati a questa inchiesta con la curiosità di conoscere un mondo distante, sigillato e spaventoso qual è il carcere, di cui comunemente si sa poco, ma anche da parte di insegnanti che hanno fatto ascoltare il podcast ai propri alunni, di circoli culturali che chiedono di organizzare dibattiti e presentazioni, di associazioni che operano negli istituti penitenziari e ne hanno discusso con i detenuti, di radio ed emittenti televisive che mi hanno invitata a intervenire per discuterne. Una delle notizie più felici arriva da un agente penitenziario, che in un messaggio scrive: “Sono stato una settimana a Parma per un corso di alta formazione alla Scuola dell’Amministrazione penitenziaria. È stato davvero interessante e orientato verso un carcere più giusto, anche se, come sappiamo, ci vorrà molto tempo. Durante il corso si è parlato molto di Gattabuia, che è stato ascoltato da comandanti, agenti, garanti dei diritti dei detenuti”. Durante la scrittura di Gattabuia, la difficoltà maggiore è stata quella di mantenere un tono che fosse equilibrato. E quando si parla di carcere tenersi in equilibrio è difficile. C’è il dolore che l’istituzione infligge ai detenuti e quella che i detenuti hanno inflitto alle vittime dei loro reati. C’è la violenza con cui gli agenti penitenziari si relazionano con la popolazione reclusa, e quella dei reclusi contro gli agenti. C’è la violenza della struttura edilizia e la dimenticanza istituzionale in cui il carcere è costretto a operare - sotto organico, carente di risorse, di spazi, di strumenti per rispettare il dettato costituzionale che vuole che la pena sia volta alla rieducazione del condannato - e c’è, più di tutto, l’indifferenza, che a volte diventa vero e proprio disprezzo, che si riserva al mondo-carcere nella sua interezza: l’istituzione reietta per definizione, un agglomerato di marginalità sociali da una parte e professionali dall’altra. Gattabuia è stato ascoltato trasversalmente, da chi è già sensibile al tema come da chi non se ne è mai interessato, - da chi fa attivismo fino a chi lavora in carcere, indossando la divisa della polizia: un risultato che ha una rilevanza politica, se politica vuole ancora dire il tentativo di vivere in comune armonizzando posizioni e necessità diverse Un altro dei riscontri più preziosi è venuto dai detenuti e gli ex detenuti, uomini e donne che hanno vissuto il carcere sulla loro pelle e sanno meglio di qualunque studioso o giornalista che cosa significhi. “Stavo in una cella in un piano dismesso del carcere di Modena con gli schizzi di sangue sul muro e la turca. Per lavare il sangue ho allagato la cella”, scrive in una mali. Teresa, una donna che ha passato 19 anni in carcere e altrettanti anni agli arresti domiciliari, concessi per motivi di salute. Mi racconta di aver ascoltato ogni puntata almeno due volte, ripercorrendo la propria vita nelle sezioni di alta sicurezza delle prigioni italiane a partire dagli inizi degli anni Novanta. Io e Teresa ci siamo scritte e poi ci siamo sentite al telefono. Le ho chiesto di raccontarmi la sua storia: “L’ascolto di Gattabuia mi ha riportato ai miei quasi 19 anni di detenzione. Mi sento il prodotto di quei 19 anni: malata, isolata, depressa, disadattata alla vita comunitaria. Allo stesso tempo mi considero miracolosamente piena di risorse, alla continua ricerca di un contatto umano e culturale. Sono riuscita a conservare una certa vitalità, nonostante tutto il dolore passato”, continua. Rumori d’ambiente che nel podcast sono stati riprodotti da un lavoro straordinario di sound-design curato dalla musicista Federica Furlani, che nel primo episodio di Gattabuia restituisce l’universo sonoro di un risveglio carcerario tra battiture, rumori di chiavi, aprirsi e chiudersi dei blindi, grida e televisori che trasmettono il telegiornale del mattino. La sesta puntata del podcast, intitolata “Fine pena mai”, si interroga sul senso della pena. Matteo Gorelli, uno degli ex detenuti intervistati, afferma: “Tutti i reati vengono o da condizioni socio-economiche di merda, o da problemi psicologici e psichiatrici”. D’altronde, lo scrivevano Franco Basaglia e Franca Ongaro più di cinquant’anni fa: “Nella società dell’abbondanza- fame o c’è “abbondanza” o c’è “fame”. Ma la fame non può manifestarsi brutalmente per ciò che è, ma deve venir velata e schermata attraverso le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza, colpa”. Se crediamo in una giustizia che non lasci indietro nessuno, dobbiamo avere il coraggio di ripensare il carcere dalle fondamenta. L’analfabetismo italiano è un caso di scuola di Mario Fillioley La Stampa, 23 febbraio 2025 Presto l’insegnamento sarà uno di quegli artigianati da presepe vivente. Il mondo si è complicato a un livello tale che i rudimenti dell’alfabetizzazione non bastano più. L’insegnamento è un mestiere che perde efficacia. Presto sarà uno di quegli artigianati da presepe vivente, che mostriamo ai bambini quando viene Natale: guarda, in questa grotta si cardava la lana, in quest’aula invece dividevano le parole in tronche, piane, sdrucciole. “Insegnante”, del resto, è una professione che abbiamo inventato quando ce n’era bisogno: una popolazione per lo più analfabeta che andava alfabetizzata, e pure di corsa. Istruzione pubblica, allora, gratuita e universale al pari del suffragio appena ottenuto. Servivano maestri e professori, specie negli ordini più bassi di scuola, quelli dell’obbligo, e ne servivano tanti, non c’era da andare troppo per il sottile: l’istruzione di cui avevamo bisogno era per lo più quella essenziale, leggere, scrivere, fare di conto. Col tempo il benessere (grazie a Dio sì, ma soprattutto grazie alla scuola pubblica), prende a crescere, e cresce con costanza, per tutti. Non in maniera uniforme però. Alcune famiglie stanno decisamente meglio di altre. Alcuni ragazzi fanno i compiti a casa con mamme e papà che qualcosa di come si legge, si scrive e si fa di conto ormai sanno, oppure li fanno al doposcuola, dove un insegnante privato perfeziona o ripara, e altri invece fanno i compiti da soli, cioè in pratica non li fanno. L’insegnamento a massima efficacia prevedeva che tutti gli studenti lavorassero in classe, e magari a casa rinforzassero un po’ quello che avevano appreso al mattino. Presto, invece, (sono passati sì e no due decenni, durante i quali l’Italia ha vissuto un vero e proprio boom economico) le cose cambiano: alcuni ragazzi, e cominciano a essere sempre di più, possono permettersi di differire il momento dell’apprendimento e dell’approfondimento al pomeriggio. Questi ultimi si fidano dell’insegnante di ripetizioni un po’ più di quanto si fidino del maestro o del professore. L’insegnante, dal canto suo, si adagia su questo modello: visto che in classe è difficile seguire tanti studenti, assegna molti più compiti a casa, così chi ne ha voglia e possibilità lavorerà come si deve al pomeriggio. Al mattino, si limiterà a verificare chi ha studiato e chi no. Oltretutto, a dare ripetizioni e a fare doposcuola sono gli stessi insegnanti del mattino: con altri studenti, diversi da quelli che hanno in aula, fanno, in classi decisamente meno numerose, le stesse cose che avrebbero fatto a scuola, ma meglio, con più cura, perché pagati di più (e a nero). Il modello riscuote successo, al punto che a un certo punto viene imitato da altre professioni pubbliche, per esempio i medici, che cominciano a visitare e a operare intra moenia ed extra moenia: uno dei pochi casi in cui gli insegnanti hanno davvero fatto scuola. Da questo momento in poi (siamo più o meno tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90) l’efficacia dell’insegnamento pubblico non si limita più a perdere: crolla come la diga del Vajont. Nel frattempo, tra un taglio e una riforma, finché la curva del benessere sale, ci si gode il tempo delle vacche grasse: ripetizioni=voti alti, no ripetizioni= voti bassi. Chi non può s’arrangi. A un certo punto però il sistema entra in crisi dall’esterno: sì, stiamo tutti meglio, e siamo tutti decisamente meno ignoranti, il mondo però si è andato complicando a un livello tale che non bastano più i rudimenti dell’alfabetizzazione, anzi non bastano più nemmeno l’umanesimo da liceo e le facoltà universitarie poco specialistiche. L’insegnamento pubblico, per essere efficace, dovrebbe fare molte più cose di quelle che faceva prima, per esempio sopperire a tutte quelle esigenze educative, non solo didattiche, che le famiglie non sono più in grado di fornire, perché entrambi i genitori lavorano molto e stanno molto fuori di casa. Il tempo che si passa a scuola non è sufficiente, per aumentarlo bisognerebbe pagare di più insegnanti, collaboratori, amministratori, personale di segreteria, e di soldi in giro non ce ne sono. Si ricorre a un palliativo, infarcire i programmi e le indicazioni nazionali, che diventano zeppi bel oltre l’orlo: cari insegnanti, fate più cose che potete, parlate di tutto ciò di cui si può parlare, istituite giornate e settimane di questo e di quello, e per il resto accennate, date spunti, sparpagliate, qualcosa resterà. Il tempo diventa il bene più prezioso, le famiglie allora dirottano le risorse che prima erano destinate al perfezionamento o al riempimento delle lacune scolastiche su beni e servizi la cui funzione è da un lato far risparmiare tempo e dall’altro occupare con varie forme di intrattenimento il tempo che si è riusciti a risparmiare: ludoteche e baby parking, acquisto di telefoni e altri dispositivi per la fruizione di internet, abbonamenti a piattaforme streaming di serie tv e musica, cibo pronto recapitato a domicilio, voli aerei low cost, brevi vacanze, mini vacanze, micro vacanze, e soprattutto friggitrici ad aria. All’improvviso, si affaccia al mondo Chatgpt e sembra quasi che possa fare giustizia del meccanismo dei compiti a casa: assegnarli diventa di colpo inutile. È solo una fugace illusione: a usare Chatgpt sono, soprattutto durante il primo ciclo di istruzione, i ragazzi che prima non facevano i compiti. Adesso li fanno con Chatgpt. I ragazzi che a casa sono seguiti o che hanno un insegnante privato non usano Chatgpt. Soprattutto, gli insegnanti continuano ad assegnare compiti a casa proprio come se Chatgpt non esistesse. Il risultato è una scuola pubblica che ha per forza di cose obiettivi didattici molto alti (questo mondo non lo affronti con le tabelline, ci vogliono il Coding e gli algoritmi), ma pochi insegnanti (la classe è troppo numerosa e troppo poco omogenea per poter essere soddisfatta da un unico insegnante), didatticamente arretrati, depauperati (leggi poco motivati) e collocati in strutture poco adatte (specie in certe zone del paese). La perdita di efficacia dell’insegnamento la si riscontra ogni anno, con le prove Invalsi, che testimoniano un ritorno inesorabile verso la situazione di partenza: i ragazzi leggono testi di cui sempre meno comprendono il significato. Si chiama analfabetismo. Di ritorno. Che è il punto da cui eravamo partiti. Siamo pronti a rinunciare a WhatsApp? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 23 febbraio 2025 È doloroso dirlo, ma le democrazie europee non devono dipendere dagli umori di Trump, Musk e compagnia. I pacchi di Amazon, le mappe di Google, le chat di WhatsApp, le storie di Instagram, le discussioni su Twitter, le conversazioni su Skype: queste cose fanno parte della nostra vita. Ma se, per conservarle, dovessimo rinunciare alla libertà, cosa faremmo? La domanda può apparire bizzarra, ma è legittima. In questa settimana - forse la più difficile per l’Europa dal 1989 - abbiamo visto il mondo al contrario (non quello fantasticato da Vannacci, quello capovolto per davvero). Alla vigilia del terzo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, l’amministrazione Usa ha deciso che Vladimir Putin non è l’aggressore. Così, di punto in bianco. ???Questa voltafaccia è accompagnato, secondo Reuters, dalla richiesta di metà delle risorse minerarie ucraine: una sorta di risarcimento per l’aiuto militare fornito (per sbaglio, pare di capire!). Se Kiev non s’adegua, gli Usa minacciano di tagliare le connessioni Starlink, vitali per la difesa ucraina. E chi aveva soccorso in quel modo gli ucraini, tre anni fa? Elon Musk. Un omonimo di quello per cui oggi il presidente Zelensky è un mostro che “si nutre dei cadaveri dei suoi soldati”? In attesa di un autorevole parere psichiatrico sulla vicenda - i diplomatici li abbiamo ascoltati, ma tendono a prenderla alla larga - ricordiamo questo: poche settimane fa si discuteva se lo Stato italiano dovesse stringere un accordo con SpaceX di Elon Musk per proteggere le proprie comunicazioni. Abbiamo la risposta: anche no. La certezza che gli alleati non ti tradiscono è la roccia su cui sono costruiti la NATO, gli accordi tra le forze di polizia, i legami fra i servizi di informazione. Come possiamo fidarci oggi? È doloroso dirlo, ma le democrazie europee non devono dipendere dagli umori di Trump, Musk e compagnia. È bastato accennare alla regolamentazione delle piattaforme web (imposte, contenuti pericolosi) per scatenare le ire del vicepresidente J.D. Vance. Quello che ha detto a Monaco, e il tono che ha usato, hanno dell’incredibile. Dovessero diventare strumenti di pressione - o peggio, di ricatto - siamo pronti in Europa a rinunciare ai pacchi di Amazon, alle mappe di Google, alle storie di Instagram, ai messaggi di WhatsApp e alle parabole di Starlink? È una domanda sgradevole, ma è tempo di porsela. Un sabato di piazze contro il “Ddl paura” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 23 febbraio 2025 A migliaia a Roma, Milano, Bologna, Napoli e in tutt’Italia. La destra sente la pressione e minaccia il ricorso al decreto. C’è un momento preciso che fa capire che la manifestazione annuale per Valerio Verbano, militante romano dei collettivi autonomi ucciso il 22 febbraio del 1980 da tre neofascisti davanti ai suoi genitori, non è soltanto un evento di commemorazione ma un vero e proprio passaggio di testimone. È quando i ragazzi e le ragazze degli studenti medi raggiungono in piazza tutti gli altri. Il loro corteo si mescola al presidio davanti alla lapide di Valerio. È a quel punto che le diverse generazioni si mettono insieme in cammino per le strade di Montesacro e del Tufello. È il momento in cui si rinnova una promessa che riguarda il futuro prossimo e si rilanciano le battaglie quotidiane. Per questo, ieri, migliaia di persone hanno manifestato per ricordare Valerio Verbano e per battersi contro il Ddl Sicurezza. Una giovane attivista dal camion in testa al corteo ha letto le parole scritte dalla compagna di Ramy Elgaml, il diciannovenne di origini egiziane morto tre mesi fa dopo un inseguimento e un tamponamento dei carabinieri al quartiere Corvetto di Milano. La battaglia per la verità per Ramy è diventata parte della lotta contro le misure emergenziali e securitarie che minacciano il diritto al dissenso e che criminalizzano i più poveri. Nello stesso momento anche a Milano, la città di Ramy, migliaia di persone di differenti generazioni manifestavano contro il Ddl Sicurezza. Il lungo serpentone è partito da piazza 24 maggio verso piazza Lodi, scandendo slogan contro le “zone rosse” promosse dal Viminale per limitare i diritti e confinare ulteriormente il diritto alla città per chi vive in periferia o potrebbe essere considerato, con ampia discrezionalità, come minaccia al decoro. E si è scesi in strada anche a Bologna: da piazza XX Settembre il corteo contro il “Ddl paura” cui hanno partecipato migliaia di persone tra centri sociali, collettivi, sindacati e associazioni, si è diretto verso piazza Maggiore. A Napoli, da piazza Garibaldi a piazza del Plebiscito, c’erano le bandiere di Cgil, Fiom, Cobas, Rifondazione Comunista, Mediterranea, dei movimenti dei disoccupati e dei comitati di Scampia che hanno puntato il dito sul “modello Caivano”. “Con queste norme uno studente o un lavoratore che manifestano per il diritto allo studio o per la difesa del proprio posto di lavoro, rischia fino a due anni di carcere ha detto il segretario regionale della Cgil campana Nicola Ricci - C’è un tema che riguarda la tenuta della democrazia: in questo paese deve continuare ad esserci la garanzia di poter dissentire”. A Genova la stessa composizione plurale si ritrovata davanti alla prefettura per opporsi a “un provvedimento sbagliato e pericoloso, che limita le libertà fondamentali sancite dalla Costituzione e colpisce i diritti di sciopero, di manifestazione e di dissenso senza affrontare i reali problemi del paese”. “La sicurezza non si costruisce con la repressione, ma con il lavoro dignitoso, con contratti nazionali che prevedano salari adeguati e con servizi pubblici efficienti e accessibili a tutte e tutti - sostiene la rete contro il Ddl - Il governo deve ritirare il provvedimento, che aumenta le disuguaglianze e restringe i diritti invece di concentrarsi sulle vere emergenze: lavoro, sanità, istruzione e giustizia sociale”. A Venezia, appuntamento davanti alla stazione, identificata come possibile “zona rossa”, anche in occasione del Carnevale. Alcuni manifestanti sono saliti sul tetto della stazione srotolando uno striscione con la scritta “Diamo il Daspo a questo governo. No al Ddl paura”. SI è manifestato anche a Brescia, Treviso, Vicenza, Schio, Cagliari e Lecce. Intanto la destra propone il meccanismo consueto: utilizza singoli casi di cronaca per invocare “l’accelerazione” dell’iter del disegno di legge governativo, che è ancora in commissione al senato. E per minacciare il ricorso alla formula blindata del decreto, con tanto di fiducia, soltanto perché le opposizioni parlamentari stanno facendo il loro lavoro: hanno sollevato le questioni di costituzionalità e di rispetto dello stato di diritto che nei mesi scorse sono finite nel mirino anche di diverse istituzioni sovranazionali. Santoro (Antigone): “Oltre 20 nuovi reati, duro attacco alla nostra Costituzione” di Floriana Guerriero Corriere dell’Irpinia, 23 febbraio 2025 “Oltre 20 nuove fattispecie di reato e aggravanti per reati già esistenti”. È l’avvocato Gennaro Santoro dell’associazione Antigone a porre l’accento sui pericoli del nuovo Ddl sicurezza nel corso di un confronto al Circolo della stampa che ha riunito le associazioni del territorio impegnate nella mobilitazione contro il disegno di legge. “Riteniamo - prosegue Santoro - che rappresenti un duro attacco alla libertà di parola, di manifestazione e di riunione, sotto accusa chiunque scenda in piazza, che si tratti di studenti o di attivisti ambientali. Siamo convinti che questo disegno di legge sia un attacco al dissenso dell’opinione pubblica, assolutamente inaccettabile”. “il testo - prosegue Santoro - introduce specifici reati relativi alle rivolte carcerarie che mirano, di fatto, a mettere fine a ogni forma di dissenso. Un attacco di tale portata non è giustificabile: viviamo in un Paese in cui il numero di reati commessi non è tale da rendere necessarie norme così drastiche, che appaiono invece frutto di mera propaganda”. Ricorda come “le misure alternative al carcere continuano ad apparire i migliori deterrenti, senza considerare le condizioni di sovraffollamento delle nostre carceri. Inoltre, se le ipotesi di reato sono oggi 35.000 è quasi impossibile conoscerle con il rischio altissimo di arbitri e abusi da parte di chi dovrebbe garantire il rispetto della legge. Ci chiediamo, infatti, quali reati saranno davvero perseguiti. Basta guardare i dati relativi alle carceri, ad essere presenti nei luoghi di detenzione sono soprattutto migranti e persone con basso tasso di alfabetizzazione e condizione socioeconomica più precaria, non certo mafiosi e colletti bianchi. Mentre è chiaro che la giustizia può essere celere solo se diminuiscono i reati” Spiega come è difficile “contrastare simili provvedimenti, proprio perché in Italia si è arrivati a prevedere circa 35.000 ipotesi di reato. Questo rende complicato, anche per un avvocato, comprendere come muoversi in un quadro normativo così frammentato e complesso. Una delle principali forme di opposizione da parte della difesa legale è il ricorso alla questione di legittimità costituzionale. È evidente, infatti, che queste norme introducono pene sproporzionate e, dunque, irragionevoli, in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Tanti i dubbi sulla legittimità costituzionale, e la via principale per contrastare il DDL sarà proprio quella di sollevare tali questioni di fronte alla Corte Costituzionale”. Ricorda come “a Roma e in molte altre città italiane si sono già tenute numerose proteste con una partecipazione significativa, soprattutto da parte dei giovani, che questa volta sembrano essere tra i principali destinatari delle nuove norme securitarie. Le mobilitazioni continueranno: non dobbiamo dimenticare che si tratta ancora di un disegno di legge e non di una norma in vigore. Ecco perché è fondamentale portare avanti la protesta per impedire che questo DDL venga definitivamente approvato”. Stefano Iannillo dell’Arci parla del più grande attacco alla democrazia della storia repubblicana. Ancora una volta si ricorre al populismo giudiziario per ottenere consensi. Sono 48 i nuovi reati introdotti dall’insediamento del nuovo governo, con l’inasprimento di pene pari a 117 anni. Dal decreto anti-rave agli attacchi contro l’attivismo climatico, dal decreto Caivano alla cancellazione di qualsiasi forma possibile di inclusione nella gestione dei flussi di migranti. Mentre si dimentica che il conflitto è tra gli organi principali della democrazia. Si punta su una propaganda legata all’illusione della sicurezza attraverso il controllo. La gestione della devianza è affidata alla repressione di qualsiasi forma di protesta e all’aumento dei reati. In maniera preoccupante ci allineiamo ai paesi che progressivamente restringono le libertà”. Durissima anche Italia D’Acierno, segretaria provinciale Cgil, che pone l’accento sull’uso strumentale delle norme sicurezza “Si usano le paure delle persone per controllarle, ecco perché è fondamentale restare uniti in questo percorso. Abbiamo costituito una rete per portare avanti la mobilitazione, una rete che non si ferma qui. Come Cgil abbiamo portato avanti anche una campagna referendari sui diritti con 4 quesiti sul lavoro e uno relativo alla cittadinanza. Il 7 marzo ospiteremo il segretario generale Landini. Non siamo disposti a cedere sui diritti”. Antonietta Bavaro di Apple Pie parla di un governo che “continua a insistere sul binomio migrazione/sicurezza, con l’aumento del periodo di detenzione nei centri per migranti, limitazioni all’azione di salvataggio delle Ong, percorsi di regolarizzazione sempre più difficili In questo modo l’integrazione diventa impossibile, quella che equivale a una condanna a morte per i nostri migranti. Allo stesso modo sono esclusi dai diritti tutti coloro che non sono socialmente riconosciuti e non sono conformi alle norme dominanti, a partire dalla comunità Lgbtq. Non esistono leggi che li tutelino con un aumento della violenza omolesbotransfobica”. Alfredo Cucciniello delle Acli parla di “un documento che è un bavaglio e non ha nulla a che vedere con la sicurezza, che ha molti elementi di anticostituzionalità e mette in discussione la cultura del diritto”. Presenti in sala anche Davide Perrotta di Libera e Legambiente. Migranti. 60milioni di persone spaventate per l’accoglienza di 20mila minori non accompagnati di Mariano Turigliatto* Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2025 Questo è l’effetto della propaganda. A volte la percezione è davvero lontana dalla realtà, quando poi si parla di immigrazione la forza della propaganda della paura finisce per annebbiare perfino le menti più lucide. Prendiamo il caso dei minori stranieri non accompagnati (MSNA). Dei loro viaggi sappiamo parecchio, per fortuna c’è chi li racconta. Meno sappiamo delle loro storie in Italia, del loro percorso verso la maggiore età, dell’impatto con le istituzioni, insomma della loro accoglienza. Per questo sono particolarmente preziosi i dati dell’ultimo rapporto semestrale di approfondimento rilasciato dal Ministero del lavoro e delle Politiche sociali. Cominciamo dal “particolare”. Tra i MSNA ci sono anche gli ucraini: si tratta di minori emigrati diversi dagli altri. Tanti hanno con sé un genitore - quindi non figurano nei numeri perché non sono MSNA - altri stanno con chi li ha accolti o ospitati. In questo caso hanno un tutore e sono classificati come MSNA. Il 96% dei minori ucraini è collocato presso soggetti privati, il 67% delle famiglie ospitanti sono parenti (in particolare nonni e zii) e per il restante 33% si tratta di altre famiglie ospitanti senza legami di parentela. Nel febbraio 2022, la Russia invade l’Ucraina, scoppia la guerra e cominciano da subito gli arrivi di MSNA anche in Italia. A luglio dello stesso anno sono già 7.000 circa. Già da agosto 2022, i nuovi ingressi di minori provenienti dall’Ucraina vanno riducendosi, 200 minori al mese. Meno di quanti fanno ritorno in patria o diventano maggiorenni. Così il 31 dicembre 2023 i MSNA ucraini presenti in Italia sono scesi a 4.131. Un anno dopo la presenza dei MSNA ucraini in Italia si è ancora assottigliata arrivando a 3.503 unità, pari al 18,8% del totale dei MSNA (18.625). La popolazione dei minori ucraini presenti in Italia si caratterizza per un marcato equilibrio di genere e un’età prevalente compresa tra i 7 e i 14 anni; appartiene a tale fascia di età oltre il 56% delle minori di origine ucraina (1770) e il 54,4% dei maschi (1733). L’età media più bassa e l’abitudine a studiare ne ha favorito l’inserimento scolastico - primarie e secondarie si sono spesso attrezzate per accoglierli garantendo loro la normale frequenza scolastica, fra le 30 e le 40 ore settimanali. Poi ci sono tutti gli altri MSNA. Il 31 dicembre 2024 erano 18.625 (avete letto bene! scommetto che pensavate che fossero almeno 10 volte tanto), così distribuiti: 12.780 (68,6%) arrivano dall’Africa, 1,407 (7,6%) dall’Asia, 4.385 dall’Europa dell’Est (Ucraini e Albanesi), 49 dalle Americhe. Per più della metà sono collocati in strutture nel Meridione, il 36% al Nord e il 13% nelle regioni del Centro. Sono 420 i MSNA extra-europei di genere femminile. Nel 2024 sono state 2030 le domande di protezione internazionale di MSNA che provengono da paesi “a rischio”, in guerra o afflitti da instabilità politica tale da mettere a repentaglio la loro vita. Al 35% dei richiedenti il permesso di soggiorno per asilo è stato rifiutato. Il 78% dei MSNA ha più di 16 anni, i maschi sono quasi il 90%, le femmine sono mediamente più giovani (fra i 7 e i 14 anni). Agli ultrasedicenni, in prevalenza poco o per niente scolarizzati, lo Stato italiano garantisce 8 ore di scuola alla settimana, prevalentemente per imparare la lingua, erogate nei CPIA (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti). Dato che l’offerta è insufficiente, nelle zone urbane fioriscono attività di volontariato, più o meno strutturate, per integrare la pratica e la conoscenza della lingua. Il boom degli ingressi di minori si è avuto nel 2023 (23.226, compresi i 7000 ucraini), nel 2024 sono calati drasticamente: 10.000 MSNA sbarcati in meno, 4.000 in meno quelli ritrovati sul territorio. Anche nell’anno appena finito, gli ingressi di MSNA da sbarchi sono circa 8.000, i rimanenti 6900 da porti, aeroporti e valichi. Nel 2024 sono quasi del tutto terminati gli arrivi di minori ucraini e sono iniziati i rientri in patria. Nel corso del 2024 sono usciti dal sistema di accoglienza 20.859 MSNA a fronte dei 14.900 circa arrivati. Per più del 62% dei casi l’uscita è dovuta il compimento della maggiore età, mentre il 35% è costituito dagli allontanamenti volontari: minori che scappano o che vanno all’estero per ritrovare conoscenti, amici e famigliari. Il rimanente 3% degli eventi di uscita è quasi tutto da accreditare al rientro in patria dei minori ucraini. La prima riflessione è come sia possibile che un paese di quasi 60 milioni di abitanti si spaventi di fronte alla necessità di provvedere a circa 20mila ragazzi (mille per regione, uno ogni 30mila Italiani) da controllare, aiutare, istruire e mettere all’onor del mondo. La seconda è cosa ne sarà degli/delle ucraini/e (quanti sono?) che, diventati maggiorenni, non sono rientrati nel loro paese e che stanno sparendo dai servizi del sistema di protezione nazionale. La sensazione è che i MSNA allo sbando servano a distogliere l’attenzione: come pensare (seriamente) che le donne corrano più rischi, quando il rosario è quello dei femminicidi quasi quotidiani? Gli anziani, perfino quando sono valenti imprenditori, non sono forse più minacciati dalle truffe telefoniche che dai piccoli reati a opera di giovani italiani e anche qualche giovane immigrato? Ecco, la propaganda efficace e martellante è riuscita a penetrare così profondamente nelle nostre teste da farci prendere lucciole per lanterne. *Docente, scrittore, pedagogista, coltivatore di speranza Migranti. Sull’Albania Meloni è all’angolo di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 febbraio 2025 Rispetto ai centri d’oltre Adriatico il governo è a un bivio, ma entrambe le strade sembrano senza via d’uscita. Che fine ha fatto il decreto che avrebbe dovuto trasformare i centri albanesi in Cpr? Il governo ha lasciato trapelare la notizia due settimane fa, dando la cosa per fatta. Poi si sono rincorse le dichiarazioni dei Fratelli d’Italia e le indiscrezioni sugli uffici legislativi al lavoro per i dettagli. Mercoledì 12 il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto al parlamento che oltre Adriatico un Cpr c’è già e il suo “utilizzo non determinerà, o non determinerebbe, alcun costo aggiuntivo”. Quel condizionale, nascosto in un inciso, poteva sembrare superfluo ma era l’unico passaggio rilevante. Anche perché qualche ora dopo il vicepremier Antonio Tajani ha tagliato corto: “Albania? Non ne abbiamo ancora parlato”. Infatti nel Cdm di quattro giorni fa il decreto non s’è visto. Sparate senza seguito e dichiarazioni contrastanti non sono un buon segno per quella che, in ambito migratorio, è la sfida decisiva per la premier Giorgia Meloni. “Funzioneranno, dovessi passarci ogni notte fino alla fine del governo”, aveva urlato dal palco di Atreju. Il decreto fantasma, però, mostra che la sicurezza sbandierata dal governo è solo di facciata. Trasformare i centri in Cpr per rinchiuderci gli “irregolari” già presenti in Italia snaturerebbe del tutto la funzione per cui sono stati pensati. Ovvero il trattenimento durante l’esame accelerato della domanda d’asilo dei richiedenti provenienti dai “paesi sicuri”, e mai approdati sul territorio nazionale, per rimpatriarli a tempo di record e produrre così un “effetto deterrenza” sulle nuove partenze. Finora questo progetto si è scontrato con le decisioni dei giudici, che hanno disapplicato la normativa italiana perché in contrasto con quella europea oppure interrogato la Corte di giustizia Ue. Sarà questa ad avere l’ultima parola sul futuro dei centri in Albania. Martedì ci sarà l’udienza, entro la primavera è attesa la sentenza. Se però il governo valuta di cambiare tutto senza aspettarla significa che ha paura. Per dargli ragione la Corte dovrebbe stabilire che le attuali norme Ue permettono di considerare “sicuri” anche i paesi che non lo sono per intere categorie di persone. Non è impossibile, ma nemmeno probabile. Anche perché lo scorso autunno la stessa Corte ha escluso tale possibilità in presenza di eccezioni per porzioni di territorio. Non deve andare per forza nello stesso modo, con il divieto tout court di definire “sicuri” paesi che presentano deroghe per gruppi sociali. Più probabile - in linea con le osservazioni depositate dalla Commissione Ue e la posizione espressa dalla Cassazione - che i giudici europei decidano che un paese non può essere considerato tale se le violazioni dei diritti umani riguardano categorie troppo estese di persone (Lgbt, oppositori, giornalisti, etc.). Non sarebbe una buona notizia per il governo italiano: in Bangladesh, Egitto e Tunisia i gruppi perseguitati sono tanti e consistenti. A quel punto nuove bocciature dei magistrati nazionali sarebbero dietro l’angolo. Ma anche trasformare i centri albanesi nella Guantánamo italiana dove parcheggiare gli irregolari è tutt’altro che semplice. A parte le illogicità funzionali ed economiche, che però possono valer bene una photo opportunity con le strutture finalmente piene, resta un problema giuridico. In questa nuova veste Shengjin e Gjader diventerebbero i primi hub di espulsioni da paesi terzi, ipotesi su cui convergono molti governi Ue ma che al momento è illegale: va riscritta la direttiva rimpatri. Le istituzioni europee sono al lavoro ma ci vorranno mesi, se non anni. Sull’Albania il governo è a un bivio ma entrambe le strade sembrano senza via d’uscita fin quando non cambia il diritto Ue. L’alternativa per Meloni sarebbe forzarlo, cavalcando l’onda del trumpismo. Anche in ambito migratorio dovrà presto decidere da che parte stare. Migranti. “Noi soccorriamo naufraghi, ma sono loro a salvarci”. Intervista a don Mattia Ferrari di Felice Florio L’Espresso, 23 febbraio 2025 Il rimpatrio di Almasri, figlio degli accordi libici del 2017 e frutto di scelte politiche indifferenti ai destini degli uomini, dice il cappellano dell’ong Mediterranea Saving Humans. Il mare è salvezza. Il mare è morte. La differenza la fa un equipaggio, a bordo di una nave, che strappa dalle onde centinaia, migliaia di sconosciuti. Don Mattia Ferrari è il cappellano dell’ong Mediterranea Saving Humans. Ha 31 anni e una preparazione fisica che gli consente di passare lunghi periodi nel Mediterraneo, a salvare persone. “Noi li soccorriamo, loro ci salvano”, ribatte. A causa delle minacce ricevute dalla mafia libica impegnata nel traffico di migranti, vive sotto vigilanza radiosorvegliata. Don Mattia, lei parte per lunghe missioni nel Mediterraneo. Ha salvato tante persone da una morte certa. Perché dice che sono i migranti a salvare lei e non il contrario? “Noi soccorriamo i migranti, ma sono loro a salvarci. Abbiamo bisogno di essere salvati sotto il profilo psicologico e spirituale. L’incontro con i poveri è salvifico perché ci restituisce alla dimensione più autentica della vita, a ciò che veramente conta”. Perché ha fatto questa scelta di vita? “O si sta dalla parte di chi commette violenza, o si sta dalla parte di chi la subisce. La chiesa non ha alternative rispetto allo stare radicalmente accanto agli ultimi. È Gesù che detta la linea alla chiesa”. Chi ha alternative è la politica... “Sì, ma in generale ogni persona ha sempre tre scelte. Uno, stare attivamente dalla parte dell’ingiustizia. Due, essere indifferente, che significa stare indirettamente dalla parte dell’ingiustizia. Tre, stare dalla parte di chi subisce l’ingiustizia. Le scelte di giustizia sono sempre scelte di amore. La visione della politica dovrebbe essere mossa prima di tutto dall’amore”. Seguiamo il suo ragionamento: quando si decide di rimpatriare Almasri, che è accusato dei peggiori crimini, il governo Meloni fa una scelta mossa dall’odio? “Magari non c’è odio, ma c’è perlomeno indifferenza, che è sempre la più grande complice delle ingiustizie. Che ci sia o no odio, che ci sia o no razzismo, di sicuro c’è indifferenza, che è una scelta politica: l’indifferenza non è non scegliere, l’indifferenza è una scelta”. Ci sono state delle omissioni di verità sull’operazione di rimpatrio, avvenuta peraltro con un volo di Stato. Più che indifferenza, pare che il governo sia intervenuto per fare la differenza su una vicenda che avrebbe potuto seguire solo il percorso giudiziario... “La vicenda di Almasri ha acuito una ferita già esistente, che si è aperta con gli accordi tra Italia e Libia nel 2017. Da allora, i migranti vengono respinti e consegnati nelle grinfie di Almasri. Sottraendolo alla giustizia, la ferita è diventata una frattura enorme. C’è bisogno di riconciliazione per sanarla ed è il motivo per cui chiediamo alle istituzioni di incontrare le vittime di Almasri. A noi interessa salvare i migranti che sono tuttora in pericolo a causa del suo ritorno in Libia”. Sul caso politico di Almasri si è innestata anche la questione dello spionaggio che avrebbe colpito l’ong per cui opera, Mediterranea Saving Humans. Vede una correlazione tra le due vicende? “Non lo so, ma il quadro è inquietante”. Si sente al sicuro? “Direi di sì. Sono stato oggetto di campagne diffamatorie anche violente e ho querelato. So benissimo che quando si fa il bene si possono ricevere attacchi, tanto più in una società come la nostra, in cui l’ideologia dominante è quella dell’individualismo neoliberista. La solidarietà è diventata sovversiva, chi predica e costruisce fraternità oramai diventa eretico. Si attacca chi pratica la solidarietà perché è scomodo. È scomodo perché ti ricorda che l’individualismo ti dà l’illusione della felicità, del benessere. Invece, questo modello individualista ha fatto esplodere i disturbi di salute mentale. Ci ammaliamo per inseguire il principio della prestazione”. Come si fa la lotta ai trafficanti? “Almasri è stato catturato perché le sue vittime, negli anni, hanno denunciato e gli investigatori hanno raccolto le prove. Il lavoro dalla Corte penale internazionale è un esempio di lotta ai trafficanti. Parallelamente, occorre aprire canali di accesso legali verso l’Europa. Come sempre le mafie si inseriscono nei vuoti di legalità. Le persone sono abbandonate in Libia e in Tunisia e non hanno possibilità legali di esercitare i propri diritti”. Almasri è un esponente della criminalità organizzata libica o un interlocutore a cui rivolgersi per questioni che interessano il nostro Paese? “Almasri è uno dei capi della mafia libica, questo deve essere chiaro. Lui è uno dei capi del sistema criminale che si è consolidato anche grazie agli accordi con la Libia. È un circolo collaudato, per cui i migranti finiscono nelle mani dei trafficanti, vengono messi in mare, poi sono catturati dalla cosiddetta guardia costiera libica che li riporta nei lager. Lì vengono torturati per estorcere altri soldi alle famiglie. E il circolo ricomincia”. A chi attribuisce la responsabilità politica per la tragedia che descrive? “I decisori politici hanno maggiori responsabilità del singolo cittadino, ma siamo tutti responsabili se gli accordi con la Libia vanno avanti dal 2017. Voglio dire, i nostri politici non sono dittatori: prendono certe decisioni perché percepiscono nella società un consenso nel perseguimento di tali scelte. Noi cittadini dobbiamo sentirci responsabili per la nostra indifferenza, per il nostro “me ne frego”. Se prevale la cultura del “me ne frego”, la società si sgretola o, peggio, viene affascinata da risposte autoritarie. Il “me ne frego” è una cultura che si è diffusa sempre di più nella nostra società. Fino a diventare maggioranza”. Migranti. Caso Almasri, il procuratore della Cpi ha chiesto di deferire l’Italia per inadempienza di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 23 febbraio 2025 La non collaborazione del ministro Nordio, la mancata perquisizione del torturatore da parte delle autorità italiane e il suo rimpatrio in Libia. Il procuratore Khan accusa gravemente l’Italia che “ha esposto le vittime e i testimoni, nonché le loro famiglie, al rischio potenziale di gravi danni”. Il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha chiesto formalmente di deferire l’Italia all’Assemblea degli Stati e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per il rilascio del torturatore libico Osama Njeem Almasri. L’inchiesta era stata aperta nelle scorse settimane dopo che le autorità italiane avevano prima arrestato e poi liberato il capo della polizia giudiziaria di Tripoli, riportandolo in Libia a bordo di un volo di stato. Secondo il procuratore Khan, il governo italiano non ha rispettato i suoi obblighi derivati dall’articolo 87 comma 7 dello statuto della Corte penale internazionale e ha deliberatamente deciso di non cooperare con l’Aia per consegnare Almasri alla giustizia. L’articolo prevede due condizioni cumulative affinché ci sia inadempienza da parte di uno stato membro, la prima è che questo “non abbia ottemperato a una richiesta di cooperazione”, la seconda è “che tale inadempienza sia sufficientemente grave da impedire alla Corte di esercitare le sue funzioni e i suoi poteri ai sensi dello Statuto”. E secondo il procuratore “entrambe le condizioni sono soddisfatte in questo caso”. Un’inadempienza da parte del governo italiano che “ha esposto le vittime e i testimoni, nonché le loro famiglie, al rischio potenziale di gravi danni”. L’accusa del documento - Nelle quattordici pagine dell’accusa sono elencati i fatti partendo dalla richiesta di arresto trasmessa il 18 gennaio alle autorità italiane. Il giorno dopo Almasri è stato arrestato dalla Digos di Torino, ma secondo la ricostruzione del governo Meloni il ministro Nordio - in violazione della legge n.237/2012 - è stato informato dei fatti soltanto il 20 gennaio. In primo luogo il procuratore Khan afferma invece che la notifica è stata inviata tramite i canali diplomatici ufficiali il 18 gennaio e che anche se a Via Arenula il dossier sia arrivato solo il 20 gennaio non è “di per sé una valida giustificazione per non intraprendere l’azione richiesta”. Il fatto che le autorità italiane abbiano fallito nel comunicare tra di loro le rende inadempienti di fronte all’articolo 87 dello statuto. “In secondo luogo, anche se la Corte d’Appello di Roma avesse ragione a non convalidare l’arresto di Almasri il 19 gennaio 2025 - ancora una volta, una conclusione basata su un’interpretazione della Legge n. 237/2012, contestata dalla maggior parte dei commentatori accademici - il ministero della Giustizia avrebbe dovuto rispondere alla procura generale. Alle ore 12:40 del 20 gennaio 2025, il ministro era in possesso delle richieste e le stava esaminando”. La trasmissione degli atti da parte della procura generale “avrebbe consentito alla Corte d’Appello di Roma di ordinare nuovamente la detenzione” di Almasri. Tuttavia, Nordio non ha mai risposto alle richieste della procura. In terzo luogo “l’Italia ha individuato due presunte criticità: la presunta incertezza sul momento della commissione dei reati e le “perplessità” sollevate dal giudice María del Socorro Flores Liera”, nella richiesta di arresto del libico. Ma secondo il procuratore neanche questa è una giustificazione valida, in quanto “l’Italia non solo non ha contattato prontamente la la Corte per risolvere i presunti problemi, ma ha omesso di menzionare l’esistenza di qualsiasi problema quando la Corte lo ha espressamente richiesto”. Infine c’è un quarto punto che inchioda le autorità italiane ed è il rimpatrio di Almasri attraverso un volo di stato giustificato in base alle leggi sull’immigrazione. Questa decisione, scrive Khan, “non è mai stata comunicata alla Corte, sebbene era stata presa già la mattina del 21 gennaio, ore prima che Almasri venisse rilasciato quella sera”. E ancora: “Se l’Italia fosse stata aperta a qualsiasi scenario, avrebbe dovuto consultare la Corte ai sensi dell’articolo 97 e compiere sforzi ragionevoli per risolvere il problema individuando un paese terzo di destinazione”. Invece il torturatore libico è stato consegnato e accolto all’aeroporto di Mitiga a Tripoli con tanto di fuochi di artificio da parte degli uomini della sua milizia. La mancata perquisizione - Inoltre, secondo il procuratore dell’Aia la mancata esecuzione del decreto di perquisizione da parte delle autorità italiane nei confronti di Almasri “ha compromesso la capacità della Corte di indagare sulla situazione libica in senso più ampio, compresa la rete di potenziali complici e le risorse finanziarie, e di ottenere ulteriori informazioni rilevanti per il processo di Almasri da parte della Corte penale internazionale”. Le altre denunce - Nelle scorse settimane alcune vittime del capo della polizia giudiziaria di Tripoli hanno denunciato il governo italiano. Tra queste c’è Lam Magok Biel Ruei, originario del Sud Sudan che ha ammesso di aver ricevuto torture da parte di Almasri e delle sue milizie durante la sua prigionia a Tripoli. “Il governo italiano mi ha reso vittima una seconda volta, vanificando la possibilità di ottenere giustizia anche per tutte le persone, come me, sopravvissute alle sue violenze”, aveva detto Magok lo scorso 3 febbraio. Parallelamente c’è un’altra inchiesta in corso aperta al tribunale dei Ministri nei confronti della premier Giorgia Meloni, dei ministri della Giustizia e dell’Interno Nordio e Piantedosi, e del sottosegretario con delega ai servizi segreti Mantovano. Venezuela. Silenzio su Trentini in cella a Caracas di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2025 In Trump we trust: sulla scia di Donald per Trentini libero. Gli Usa hanno avviato una relativa distensione con Maduro: la diplomazia degli ostaggi potrebbe giovarsene, come fu per Cecilia Sala. Potrebbe partire anche un digiuno a staffetta per alzare l’attenzione sul caso di Alberto Trentini, l’operatore umanitario veneziano della ong Humanity & Inclusion detenuto ormai da oltre 100 giorni in Venezuela dove fin qui non ha neppure potuto ricevere una visita consolare. Una petizione su change.org ha già superato le 74.500 firme, c’è una pagina Facebook molto attiva: “Non lasciamo che diventi invisibile”. Le iniziative si moltiplicano soprattutto in Veneto per la liberazione di Alberto, 45 anni, laurea in Storia a Ca’ Foscari, master nel Regno Unito su gestione delle emergenze e sanificazione dell’acqua e grande esperienza di cooperazione internazionale dall’Europa al Medio Oriente, dall’Africa all’America Latina. Legato a una giovane venezuelana, era andato laggiù a lavorare con i disabili per la ong francese, premio Nobel per la pace nel 1997 per la sua campagna contro le mine antiuomo, ed è finito in carcere in un momento delicatissimo per il Venezuela. Era il 15 novembre 2024, Trentini era lì da un mese e l’esercito l’ha fermato a Guasdualito, in una zona di contrabbando al confine con la Colombia. In questi mesi decine di stranieri sono stati arrestati. Dal 28 luglio scorso la rielezione di Nicolás Maduro, erede politico di Hugo Chávez, è molto contestata dall’opposizione e dalle cancellerie soprattutto occidentali. Maduro ha ridimensionato le rappresentanze diplomatiche, compresa quella italiana. Siamo di fronte a una sorta di “diplomazia degli ostaggi” con tratti simili a quella iraniana. I rapporti con Caracas non sono facili, ancora a gennaio Giorgia Meloni ha negato il riconoscimento del risultato elettorale ma poi la presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri Antonio Tajani hanno evitato di calcare troppo la mano. Sono del resto più che distese le relazioni con regimi assai poco democratici dall’Arabia Saudita all’Egitto e a molti altri, che però sono amici dell’Occidente o addirittura membri di peso della Nato come la Turchia. Per liberare Cecilia Sala l’Italia ha trattato con l’Iran degli ayatollah fino allo scambio con l’ingegnere Mohammad Abedini, arrestato a Milano su mandato statunitense e rimandato a casa previo incontro di Meloni con Trump non ancora insediato. Quando vuole, la politica trova spazi per negoziare. Lo sa bene la signora Armanda, la mamma di Alberto Trentini, che si è affidata all’avvocato Alessandra Ballerini, legale anche dei genitori di Giulio Regeni: “Mi aspetto che arrivi una telefonata di Alberto, è un desiderio che abbiamo dal 15 novembre - ha detto domenica sera da Fabio Fazio a Che tempo che fa. - Poi, poiché ho scritto una lettera e la nostra avvocata l’ha inoltrata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e proprio perché è madre pure lei, mi aspetto che me lo porti a casa, che percorra delle strade anche facendosi aiutare dalle istituzioni di altri Paesi come è stato fatto per la nostra giornalista Cecilia Sala”, ha detto Armanda Trentini. Proprio Paola e Claudio Regeni hanno diffuso un appello per Alberto. Ma certo, non sembra ancora di vedere una mobilitazione come quella per la giornalista di Chora Media e del Foglio, invocata da Carlo Verdelli sul Corriere. A quanto risulta al Fatto Meloni non si è fatta viva con la signora Armanda, però il governo lavora. I contatti sono aperti soprattutto a livello di intelligence e hanno consentito, poco meno di un mese fa, di ottenere da Caracas prove rassicuranti che Alberto è in buona salute. Sua madre ha confermato che ha ricevuto alcuni farmaci di cui ha bisogno. Non è poca cosa: Trentini non ha mai potuto telefonare a casa, è in isolamento, le accuse a suo carico per quanto ne sappiamo non sono state formalizzate e chi ha parlato di “terrorismo” ha detto sciocchezze. Non risulta che abbia un avvocato. Il nostro governo, che ha anche il problema di tutelare la forte comunità di italiani e discendenti di italiani per lo più schierati con l’opposizione di destra venezuelana, dovrebbe essersi messo nella scia di Donald Trump. La nuova amministrazione degli Usa, nemici storici del chavismo, ha bisogno del petrolio venezuelano e ha ripreso una linea di relativa distensione con Maduro: sei cittadini statunitensi che erano detenuti sono stati rilasciati all’inizio di febbraio dopo un incontro fra il capo del governo e Richard Grenell, l’inviato di Trump; Washington in cambio ha tolto la protezione umanitaria a un gran numero di venezuelani per lo più ostili al governo, mentre ne ha rispediti a Caracas altri, accusati di reati vari, senza particolari reazioni. Ma all’Italia Maduro sembra chiedere innanzitutto un riconoscimento politico. Venezuela. Alberto è il mio unico figlio e la notte piango per lui, la premier ci aiuti a liberarlo di Armanda Colusso Trentini La Repubblica, 23 febbraio 2025 Sono cento giorni che viviamo senza sentire la voce di Alberto. Un’eternità per noi e per lui. Il mio pensiero fisso, la mia preghiera costante è che Alberto esca dall’isolamento e abbia la possibilità di telefonarci. Se potessi sentirlo, gli direi che lo pensiamo costantemente, di resistere, di non mollare mai e di avere fiducia nel nostro impegno a riportarlo a casa. Gli racconterei della vicinanza e della solerzia commuovente di amici vecchi e nuovi che si stanno adoperando per la sua liberazione. Abbiamo scritto anche alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per chiederle di percorrere tutte le strade, domandando se necessario il contributo di istituzioni anche di altri Paesi per porre fine il prima possibile alla detenzione di nostro figlio. Aspetto fiduciosa una sua risposta: aiuterebbe ad alleggerire la mia ansia, e renderebbe l’attesa per il ritorno di Alberto più sopportabile nella speranza che sia anche il più breve possibile. Come ho scritto alla presidente, ogni sera, quando appoggio la testa sul cuscino, le lacrime arrivano inevitabili. Durante il giorno coltivo la speranza di ricevere una chiamata, una rassicurazione. Ma la notte, mentre tutti dormono, io resto sveglia (perché il dramma che sto vivendo è così grande che non mi fa dormire) e cerco di parlargli, sottovoce. Poi prego. Anche se fuori è ancora buio, esco all’aria aperta, guardo l’orizzonte sulla laguna e mando un saluto ad Alberto, sperando che in quel preciso istante anche lui stia pensando a noi. Da quando sono diventata madre ho sempre creduto che i figli, anche da adulti, restano nostri finché hanno bisogno di noi e ora Alberto ha bisogno di noi. Giorgia Meloni è una madre. E lo sa. Comprendo la complessità della situazione, ma mi aspetto che il nostro Paese prenda le decisioni urgenti e necessarie per riportare Alberto a casa nel più breve tempo possibile. Alberto è un cittadino italiano, un operatore umanitario che si trovava in Venezuela per svolgere, con professionalità e dedizione, il suo lavoro. Un’attività che, oltre a portare aiuto concreto, rappresenta uno degli strumenti più importanti nelle relazioni internazionali per costruire ponti di solidarietà e cooperazione tra i Paesi. Dopo questi 100 giorni, sono con il cuore in mano a chiedere a ciascuno di fare tutto il necessario, con la massima urgenza, affinché Alberto possa tornare a casa prima che questa esperienza segni irrimediabilmente la sua vita nel corpo, nella mente e nello spirito. Lui è il nostro unico figlio e la nostra ragione di vita. Con speranza e fiducia.