“Serve una legge per garantire il diritto all’affettività sancito dalla Consulta” Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2025 Il Garante nazionale dei detenuti scrive a Nordio. Il principio fissato oltre un anno fa dai giudici costituzionali è rimasto sulla carta. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha inviato nei giorni scorsi una lettera al ministro della Giustizia Carlo Nordio per “conoscere quali misure di rango legislativo e regolamentare” voglia adottare per dar seguito alla sentenza della Corte costituzionale a tutela del diritto all’affettività delle persone detenute, pronunciata ormai oltre un anno fa. Accogliendo il ricorso di un detenuto nel carcere di Terni, la Consulta aveva affermato il diritto della persona ristretta possa svolgere i colloqui con il coniuge o il convivente senza il controllo a vista del personale di custodia, quando non ci siano ragioni giuridiche o di sicurezza. E aveva ipotizzato la creazione “unità abitative” all’interno degli istituti dove poter esercitare il diritto all’affettività in “un ambiente di tipo domestico”. Un anno dopo, però, il principio affermato dai giudici costituzionali è rimasto sulla carta: nel carcere di Padova un progetto già pronto è stato bloccato dal ministero, mentre il tavolo di lavoro istituito presso il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non ha portato a nulla. A supplire all’inerzia sono arrivate alcune decisioni dei magistrati di Sorveglianza, che hanno autorizzato rapporti sessuali senza la sorveglianza degli agenti, intimando agli istituti di pena di attrezzarsi. Una circostanza ricordata nella lettera del Garante: “Si osserva in questi giorni e in molte sedi l’emanazione da parte di magistrati di Sorveglianza di ordini di attuazione rivolti alle sedi penitenziarie ricadenti nella loro giurisdizione”, scrive l’Autorità a Nordio. Una eventuale mancata attuazione delle pronunce, segnala quindi, potrebbe portare a “una violazione dei diritti all’affettività delle persone detenute”. Quella illusione autoritaria di rieducare attraverso la carcerazione di Diego Mazzola L’Unità, 22 febbraio 2025 Continuo a sognare a occhi aperti che un bel giorno vedremo crollare il Sistema Penale sotto la valanga dei suoi fallimenti e contraddizioni e che siano rasi al suolo tutti gli istituti carcerari penali di questo mondo. Già Aldo Moro credette al superamento del Sistema Penale, che da sempre si è basato sulla sofferenza procurata a chi viene recluso. In pratica, stiamo parlando di tortura, perché il carcere è tortura. Attenzione, dunque, quando si usano termini come “penitenziario”, “esecuzione della pena”, perché “pena” è solo ciò che ci muove quando vediamo il dolore negli occhi di animali e di persone sofferenti: il resto, se procurato, è solo tortura. Ovunque nel mondo la pratica della tortura è stata ridotta - molto lentamente - nel tempo e infinite sono state, e sono ancora, le vittime di quella barbarie. L’associazione, alla quale da anni sono iscritto, non dice: Caino sia toccato in modo democratico o non sia ucciso o sia fatto soffrire in modo discreto e accettabile. Dice: Nessuno tocchi Caino! Ciò che è messo in discussione è lo stesso diritto di far soffrire gli altri, anche quelli che ci sembra ne abbiano motivo. Filippo Turati, alla Camera dei deputati, il 18 marzo del 1904, in un discorso memorabile che poi fu pubblicato in un opuscolo dal titolo “Il cimitero dei vivi”, affermava: “Noi crediamo di aver abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano dal carnefice”. La Storia ci insegna quanto sia costato, e costi, l’aver lasciato che del “fare giustizia” si occupi la categoria dei magistrati, una volta gli Inquisitori, oggi gli Inquirenti. Si sa dell’orrore dei tribunali e dei luoghi di detenzione, della “naturale” capacità di errore nel giudizio, di catene e di suicidi, di quella che Foucault prima e Alain Brossat poi hanno definito la “società carceraria”. Se vogliamo che un giorno le cose cambino, sarebbe logico invitare i cittadini, partendo dai ragazzi in età scolare, a riflettere sul perché la società sceglie di diventare un modello di crudeltà e di vendetta. Consapevoli noi tutti della pericolosità di alcuni nostri concittadini e di noi stessi, se provocati o coinvolti, sarebbe una matura scelta politica se decidessimo di non accettare che - nei confronti di essi come di noi stessi - sia usata la violenza per il reinserimento nella società. Sappiamo quanto sia importante tenere separate dalle altre le persone altamente pericolose. Ma dovrebbe essere solo per il tempo necessario alla loro presa di coscienza. Non è sulla sofferenza dei reclusi che si basa la prospettiva del reinserimento e della sicurezza sociale. Occorre far leva sul senso della dignità personale, quella che viene costantemente negata dalla carcerazione. È bene sempre ricordare Thomas Mathiesen che ha trascorso la sua vita a ripetere che “la ‘prigionizzazione’ è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento”. Perché ignorare Papa Francesco che implora l’amnistia nel mezzo della celebrazione del Giubileo? Forse perché si teme sia ridiscussa la natura stessa del Sistema Penale e la repressione come metodo nel rapporto tra il Potere e il cittadino? Ciò che dovrebbe sconvolgere tutti è proprio quella “Teoria della prevenzione generale”, su cui si fonda il Sistema Penale e su cui si articola il “modello retributivo”, ovvero l’idea di impedire, punendo l’autore di un reato, che altri intraprendano azioni criminose. Nella stupidità di quest’idea è andato a finire il cosiddetto “senso delle cose”. Pensare che si possa processare e minacciare l’ergastolo per una studentessa che ha ucciso due sue creature seppellendole nel giardino di casa, significa credere che la malattia mentale sia volontaria e consapevole. Il problema del carcere e l’idea di punire sono tutt’uno con la violenza, come pratica personale, sociale e politica. Questo è il punto: il carcere è il luogo in cui viene legittimato il metodo della violenza politica ed esercitata la vendetta sociale. Tocca a noi di indicare la via e le ragioni del confronto nonviolento e “farne bandiera”. Tacere non è ammesso nel confronto in corso tra Stato di Diritto e Ragion di Stato, tra democrazia e tentazione autoritaria. Gli abolizionisti non sopportano che la violenza sia praticata come metodo (ri)educativo e regolamento dei conti e dei rapporti sociali. Chi pensasse di essere in grado di giudicare e ritenere di essere nel giusto nel far soffrire un proprio simile per ciò che si crede sia degno di punizione, faccia lo sforzo di capire che non esiste sofferenza che, inflitta ad altri, possa essere rivendicata come espressione di un libero pensiero o affermazione di coscienza individuale, tantomeno come ragione e diritto di uno Stato democratico. Politica e giustizia, un conflitto che nessuno sembra capace di arginare di Massimo Franco Corriere della Sera, 22 febbraio 2025 Un governo compatto a difesa del sottosegretario Delmastro, ma silenzioso sulla ministra Santanchè, attacca i magistrati. Le conseguenze della condanna del sottosegretario meloniano alla Giustizia, Andrea Delmastro, per rivelazioni di notizie che dovevano rimanere segrete, sono ancora in incubazione. Ma nell’immediato si inasprisce il conflitto istituzionale tra politica e magistratura. E da giovedì la premier Giorgia Meloni ha due membri del governo impigliati in questioni giudiziarie: Delmastro e la ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Su entrambi Palazzo Chigi ha scelto una linea di difesa netta in nome del garantismo, seppure venata di imbarazzo. Semmai, a colpire è la differenza con la quale i due casi sono stati accolti da FdI, il partito di Meloni. Nessuna solidarietà, se non rara e d’ufficio, a difesa di Santanchè: un isolamento ostentato che non le ha impedito, forte del rapporto col presidente del Senato Ignazio La Russa, di sfidare la stessa premier dopo un primo rinvio a giudizio. Grandi manifestazioni di vicinanza, invece, per Delmastro, con attacchi frontali al potere giudiziario. Tanto più per il paradosso che la Procura chiedeva l’assoluzione, mentre il tribunale lo ha condannato. Ma l’argomento è usato dall’Anm alla rovescia. La tesi è che la separazione delle carriere di fatto già esiste. Vogliono colpire la riforma della giustizia, insistono dalla maggioranza, perché sono magistrati di sinistra. Lo stesso Guardasigilli, Carlo Nordio, ha usato parole di encomio verso Delmastro. Il tema, tuttavia, è fin dove può portare uno scontro che non riesce a trovare un simulacro di dialogo. Il cambio ai vertici dell’Anm, guidata ora da un magistrato fautore del dialogo come Cesare Parodi, non ha prodotto effetti. Al punto che lo sciopero irrituale indetto dall’Anm per il 27 febbraio resta confermato. E promette di aumentare le tensioni col governo, con esponenti di FI come Maurizio Gasparri che arrivano a evocare un comportamento eversivo. Il vicepremier Antonio Tajani concorda con Meloni sul fatto che Delmastro rimane innocente fino al terzo grado di giudizio, e dunque non si deve dimettere. E la Lega fa lo stesso, sebbene tutti siano distratti dalle mosse a dir poco spiazzanti di Donald Trump contro l’Ucraina e l’Europa. Il Carroccio, tra l’altro, accarezza l’ipotesi che il vicepremier Matteo Salvini torni al Viminale, sospinto dai sondaggi favorevoli preparati dal trumpiano Elon Musk: prospettiva remota ma intrigante. È un grumo di problemi che finora Meloni ha maneggiato con un silenzio indicato come inevitabile, secondo gli alleati; o figlio di un imbarazzo crescente, a detta degli avversari. Eppure, in una situazione fluida, navigare a vista appare una scelta plausibile: almeno nel breve periodo. Reazioni pericolose, l’idea di giustizia secondo il governo di Cataldo Intrieri Il Domani, 22 febbraio 2025 Con la nuova ondata di polemiche contro le toghe dopo la condanna del sottosegretario Delmastro, l’esecutivo rivela una sorta di lapsus: quella di immaginare anche in regime di separazione delle carriere la prevalenza del parere del pm e la sua signoria del processo. Fraintendimento tecnico o disvelamento di un pensiero recondito? Come prevedibile la condanna del sottosegretario Andrea Delmastro, uomo del cerchio magico meloniano, ha scatenato l’ennesima ondata di polemiche. Era successo già quando egli fu rinviato a giudizio per decisione del Gip di Roma nonostante il contrario avviso della procura che aveva sollecitato l’archiviazione della denuncia a suo carico. Allora diversi esponenti del governo, a partire dalla premier e dallo stesso guardasigilli, avevano manifestato stupore per non dire indignazione di fronte alla scelta di un giudice di disattendere il parere del pm che loro ritengono testualmente “il padrone dell’azione penale”. Alla luce del varo della separazione delle carriere conviene soffermarsi su questa concezione assolutista del processo penale e se dietro essa si celi molto più di quello che l’imminente riforma lasci trapelare. Ricordiamo la vicenda: Delmastro, avvocato penalista nella vita, è imputato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver messo a conoscenza il suo collega di partito Donzelli del contenuto di una informativa delle guardie penitenziarie che riferivano sui colloqui di alcuni detenuti al 41 bis per gravi reati di terrorismo e mafia durante la visita di alcuni parlamentari del Pd. Donzelli ne aveva fatto oggetto di una interrogazione parlamentare durante la quale ne dava lettura per accusare i colleghi della sinistra di connivenza coi detenuti, una vera e propria notizia di reato. Un caso estremamente lineare e semplice nella sostanza che però ha suscitato, per la condizione dell’imputato e le difformità di pensiero tra pm e giudici, un acceso dibattito destinato a protrarsi dopo la sentenza. I termini delle ordinarie polemiche sulla giustizia sono qui rovesciati giacché una volta tanto il giudice entra in contrasto col collega dell’accusa non perché assolva bensì per la condanna di fronte ad una richiesta di assoluzione. L’eccezionalità e rilievo estremo conferito al caso dalla procura di Roma, (“una rogna” l’ha definita il pm Paolo Ielo) squassata dalle polemiche del caso Lo Voi è testimoniata dalla presenza in aula di ben due tra i migliori pm capitolini, uno dei quali aggiunto di grande prestigio e notorietà. Questi ha suscitato scalpore sostenendo l’innocenza di Delmastro sulla base di una complessa teoria giuridica (l’errore sulla legge extra penale). Per farla breve: sicuramente l’informativa passata a Donzelli era segreta ma Delmastro non lo poteva capire perché la normativa sull’accesso agli atti pubblici è scritta in un modo così astruso e complicato (una matrioska di commi e norme l’ha definita) da rendere impossibile capire quando un atto è segreto o meno. Ciò secondo Ielo non costituisce una inescusabile ignoranza di diritto di un giurista ma un perdonabile errore sul fatto, più o meno come se taluno utilizzasse per sparare in pubblico una pistola carica pensando erroneamente, senza sua colpa, che essa sia un giocattolo. Nell’arringa che ha toccato lo scibile giuridico dal diritto amministrativo a quello canonico, il magistrato ha ricordato giustamente il principio di tassatività secondo cui “una norma dice solo ciò che è scritto e non ciò che si pensa”. Un compito molto difficile visto che, ad esempio, ciò non ha impedito in passato alla stessa procura di Roma di chiedere decine di anni di galera per alcuni imputati ordinari sulla base di una interpretazione inedita ed innovativa della norma sull’associazione mafiosa della quale gli stessi, che neanche erano navigati avvocati, nulla potevano sapere o intuire come riconobbe alla fine la Cassazione. Nel caso di specie non può sfuggire allo stesso Delmastro che l’informativa, addirittura secretata con circolare del ministero di sua competenza, conteneva una potenziale notizia di reato ipotizzando un’alleanza criminale tra detenuti e come tale addirittura coperta da possibile segreto investigativo. Ma questi sono dettagli. Ciò che va invece evidenziato è la ricaduta sulle polemiche che circondano la riforma della separazione delle carriere dei magistrati. Il governo esprime sconcerto per la condanna come se fosse scandaloso il diverso pensiero tra pm e giudici. Facendo ciò rivela una sorta di lapsus: quella di immaginare anche in regime di separazione delle carriere la prevalenza del parere del pm e la sua signoria del processo. È un fraintendimento tecnico o il disvelamento di un pensiero recondito sul possibile uso politico dell’organo inquirente che esegua i desiderata del governo? In America già succede, Trump ha richiesto ed ottenuto la chiusura di un’inchiesta contro il sindaco di New York. E Trump è il modello. Ci ritorneremo. E ora il caso Delmastro “blinda” la separazione delle carriere di Errico Novi Il Dubbio, 22 febbraio 2025 Nei giorni precedenti era avanzata molto la linea trattativista di Mantovano. Ma dopo la condanna del sottosegretario alla Giustizia, Meloni non intende più negoziare la riforma con l’Anm. Forse bisogna far caso a due coincidenze. Antonio Tajani, fra i leader del centrodestra, è stato l’unico a liquidare esplicitamente la condanna di Andrea Delmastro come un “segnale contro la riforma della giustizia”. L’altra coincidenza è nella nota diffusa dall’Anm, in cui si dice che “la vicenda del sottosegretario” dimostra come il pm possa “chiedere l’assoluzione, nonostante la sua carriera non sia separata da quella del giudice” e il giudice non sia “succube del pm”. Il tutto prova “l’inutilità” della “separazione” disegnata da Carlo Nordio. A lasciar gonfiare le vele della riforma sotto il vento impetuoso della sentenza sul caso Cospito è dunque il capo del partito che, nella maggioranza, più si spende affinché il ddl del guardasigilli arrivi a destinazione nella forma originaria. D’altro canto, l’Associazione nazionale magistrati intuisce che, con la condanna a 8 mesi inflitta a Delmastro, la tensione è risalita al punto da indebolire la linea trattativista di Alfredo Mantovano, da renderla anzi quasi impraticabile. Ora è davvero difficile che Giorgia Meloni assecondi le analisi del proprio pur fidatissimo sottosegretario alla Presidenza. Addolcire i contenuti del ddl sulle carriere separate in una fase del genere - che è decisiva, perché la riforma Nordio o cambia ora o davvero non cambia piu - non avrebbe senso. Dal punto di vista di Meloni, negoziare con la magistratura, a questo punto, sarebbe un paradosso. Non ci sono più le condizioni per una trattativa al ribasso. Non c’è più spazio per valutazioni come quelle proposte da Mantovano negli ultimi giorni, secondo le quali ci sarebbe stato un margine per portare a casa la separazione delle carriere senza aprire, con l’Anm, una frattura insanabile: per esempio, con il sorteggio dei togati Csm derubricato da “puro” a “temperato”, e con la rinuncia allo sdoppiamento dell’organo di autogoverno, in favore di una meno traumatica divisione dell’attuale Consiglio superiore in due sezioni (ma inevitabilmente con un plenum unico). Non c’è più margine per discuterne, dopo lo “choc” della sentenza Delmastro. Poi certo, fra meno di due settimane, il 5 marzo, il “padre” delle carriere separate, Nordio, incontrerà i vertici dell’Anm. Vedrà innanzitutto il nuovo, contestato (dalle correnti dell’Anm stessa) neopresidente delle toghe Cesare Parodi. Ma è improbabile che possa offrigli un restyling mitigato della propria riforma. Si diceva che anche la nota diffusa dall’Anm ha un peso. Il sindacato delle toghe sostiene che la condanna del sottosegretario alla Giustizia dimostra che già ora la magistratura giudicante è autonoma dai colleghi requirenti. È un’analisi non proprio d’acciaio: si può dire, più che altro, che la questione Delmastro incrocia poco le ragioni profonde della “separazione”, e cioè il rischio che i giudici siano condizionati dal protagonismo mediatico e dal conseguente strapotere correntizio, “sindacale” e “ordinamentale” dei pm. Altri, anche ai vertici dell’Esecutivo, e anche dalle parti di via Arenula, sono arrivati a leggere, dietro la sentenza sul sottosegretario di FdI, non tanto una valutazione del giudice autonoma dalla Procura ma una forzatura interpretativa condizionata - anche - dal conflitto fra governo e magistratura. C’è chi, fra presidenza del Consiglio e ministero della Giustizia, teme che il Tribunale di Roma sia stato condizionato anche da una sorta di istinto corporativo. È una tesi indimostrabile, di per sé iperbolica. Ma quel che conta è quel comunicato con cui l’Anm cerca implicitamente di dire al governo: sbagliate a trarre dalla condanna di Delmastro la sollecitazione a irrigidirvi sulle carriere separate. È interessante, questa premura dell’Anm, perché conferma in modo indiretto quanto sia inevitabile che invece a Palazzo Chigi prevalga, a questo punto, proprio il no alla trattativa con le toghe. Ieri sera, ha precisato via Arenula, Nordio non ha incontrato Meloni. In ogni caso cambia poco. Resta un fatto: nelle riflessioni che ha comunque condiviso, nei giorni precedenti, con la presidente del Consiglio e con il sottosegretario Mantovano, il guardasigilli ha ribadito come l’ipotesi di rinunciare, nella riforma sulle carriere, al doppio Csm, sia, per lui, per il titolare della Giustizia, problematica: senza un Consiglio superiore dei giudici “liberato” dalla presenza dei pm, e sorteggiato in modo che i pm non possano condizionare le carriere dei giudici neppure attraverso i colleghi che, pur provenienti dal giudicante, rispondono spesso alle indicazioni delle correnti egemonizzate dai pubblici ministeri, l’intera riforma si sbriciolerebbe. Con quell’eventuale modifica, il “divorzio” fra il giudice e una delle due parti del processo penale, cioè il pm (l’altra parte è l’avvocato), di fatto non ci sarebbe più. Giudicanti e requirenti resterebbero uniti nel loro destino, indissolubilmente legati dalle decisioni sulle loro carriere. Nordio ne è convinto. Ma Mantovano aveva rappresentato, a lui e a Meloni, i rischi di una contrapposizione radicale coi magistrati. E Meloni non avrebbe urtato a cuor leggero i sentimenti di una base come quella di FdI, certo non ostile alla magistratura come poteva esserlo il “vecchio” popolo berlusconiano. Ma lo scenario, nel giro di una sentenza, si è rovesciato, forse irrimediabilmente. Il caso Delmastro. Contraddizione in sentenza di Danilo Paolini Avvenire, 22 febbraio 2025 In quella Babele in cui negli anni si è trasformato il dibattito politico, dove tutti parlano e nessuno ascolta (e se ascolta non capisce, o peggio, strumentalizza), è sempre dietro l’angolo il pericolo di contraddirsi. È proprio quanto è accaduto al Governo dopo la condanna a 8 mesi in primo grado (pena sospesa) del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Il ministro guardasigilli Carlo Nordio, una vita intera trascorsa nei tribunali come pubblico ministero, si è detto “disorientato e addolorato” dal verdetto, dando così l’impressione di avere a cuore più la separazione delle carriere dei magistrati che non quella tra i poteri dello Stato. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è detta “sconcertata”, mettendo in dubbio la fondatezza della sentenza alla luce del fatto che la pubblica accusa aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato e i giudici non hanno accolto la richiesta. E avanti così, passando per il vicepremier Antonio Tajani che ha parlato espressamente di “una scelta politica finalizzata a dare un colpo alla riforma della giustizia”. Mentre il diretto interessato, Delmastro, ha scomodato addirittura il marxista Bertolt Brecht per auspicare che “ci sia un giudice a Berlino” in appello, per poi difendersi dall’accusa di avere divulgato atti d’ufficio segreti con un’esclamazione senz’altro più vicina alle radici della sua cultura politica: “Io non ho tradito!”. Tutto questo per dire del paradosso di un esecutivo che ha fatto della separazione delle carriere una delle riforme-bandiera del suo programma, affermando in sostanza che oggi “comandano” i pm e i giudici si appiattiscono sulle loro tesi, e poi si scopre “sconcertato” se un tribunale smentisce una procura. O, addirittura, ipotizza che la decisione sarebbe stata presa proprio “contro” la riforma, ovvero per dimostrare che non è necessaria. Tale paradosso, si badi bene, prescinde dal fatto che si possa essere favorevoli alla separazione delle carriere. Ai membri del Governo e della maggioranza sarebbe bastato, per intenderci, rammaricarsi per la condanna di Delmastro e annunciare che non si ritengono necessarie le sue dimissioni senza gridare alla “sentenza politica” o mettere in mezzo le riforme in cantiere. È comprensibile perciò, dal suo punto di vista, che l’Associazione nazionale magistrati (dove è in maggioranza Magistratura indipendente, componente moderata considerata più vicina al centrodestra) abbia sottolineato che “per avere un giudice terzo non occorre andare a Berlino”. E sì che abbia anche, prevedibilmente, riaffermato “l’inutilità della separazione delle carriere”, alla quale si è sempre dichiarata contraria con metodi e manifestazioni talvolta poco consoni alla toga indossata. Ma in questo caso era come battere un rigore a porta vuota. Per altro, un paio di mesi fa - per parafrasare Brecht e Delmastro ¬- c’è stato un giudice anche a Palermo e ha assolto in primo grado con formula piena (“il fatto non sussiste”) il vicepremier Matteo Salvini per la vicenda Open Arms, dopo che il pubblico ministero ne aveva chiesto la condanna a sei anni di reclusione per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. In quel caso nessuno (per fortuna), né in maggioranza né all’opposizione, ha parlato di sentenza politica e a nessuno è venuto il sospetto che, assolvendo il leader leghista, si volesse in realtà affondare la riforma sulla separazione delle carriere. In effetti c’è di che essere disorientati, anche più del ministro Nordio. “Sono potere cancerogeno”. Delmastro attacca le correnti di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 febbraio 2025 Il sottosegretario politicizza la sua sentenza. Ma l’unica vera toga rossa voleva assolverlo. L’Anm: “È la prova che la separazione delle carriere non serve a nulla”. Giovedì sciopero. La storia è sempre la stessa: se un giudice prende una decisione sgradita all’esecutivo finisce al centro del mirino. E così la condanna a otto mesi del sottosegretario Andrea Delmastro per la rivelazione di conversazioni segrete dell’anarchico Alfredo Cospito al 41 bis, ha portato al centro del palco allestito per la gogna mediatica filogovernativa i tre giudici che hanno emesso la sentenza. “È un dato di fatto che il collegio fosse fortemente connotato dalla presenza di Magistratura democratica”, ha detto Delmastro tornando sulla sua condanna. Da lì l’attenta analisi della biografia dei magistrati dell’ottava sezione penale del tribunale di Roma. Il presidente, Francesco Rugarli, è l’unico iscritto a Md, ma da nessuna parte si trovano tracce delle sue attività all’interno della corrente. Né di grandi prese di posizione pubbliche, se si esclude la volta che venne tirato in mezzo a una polemica insieme ad altri magistrati napoletani che avrebbero accompagnato i propri figli alla manifestazione contro il Global forum che si tenne a Napoli il 17 marzo del 2001 (vale la pena ricordare che ai tempi c’era un governo di centrosinistra). Poi, per quanto riguarda le due altre componenti del collegio, la giudice Emilia Conforti è iscritta ad Area democratica per la giustizia, mentre Lucia Bruni non risulta appartenere ad alcuna corrente. Questo tanto per la cronaca, perché l’unica vera - nonché notissima - “toga rossa” coinvolta nel processo Delmastro è Paolo Ielo, il procuratore aggiunto che aveva proposto di assolvere il sottosegretario dopo aver chiesto la sua archiviazione, negata dal gip. Un dettaglio non secondario che dovrebbe togliere ogni dubbio sulla supposta natura politica della decisione. Del resto bastava aver seguito un minimo lo sviluppo della vicenda per accorgersene: nessuno, proprio nessuno, ha mai messo in dubbio che le carte su Cospito chieste dal Delmastro al Dap e poi spifferate al deputato Donzelli fossero, se non segrete, quantomeno “a limitata divulgazione”. Tutto stava nello stabilire il peso giuridico della violazione del segreto amministrativo nell’elemento soggettivo del reato (per Ielo inesistente), cioè la consapevolezza del sottosegretario di star violando la legge. Delmastro, peraltro, di mestiere farebbe l’avvocato e sarebbe lecito supporre da parte sua una pur minima dimestichezza col diritto. Certo qualche dubbio viene quando dichiara sconsolato che “sono riusciti a condannarmi nonostante tre richieste di assoluzione”. E infatti l’Anm ha gioco facile a dire in un comunicato che così si dimostra “l’inutilità della separazione delle carriere”, perché “il pm può chiedere l’assoluzione nonostante la sua carriera non sia separata da quella del giudice” e “il giudice non è succube del pm”. Da qui “lo sconcerto” delle toghe “nel constatare che ancora una volta il potere esecutivo attacca un giudice per delegittimare una sentenza”. A sera, intervistato al Tg1, Delmastro ha risposto con violenza, chiudendo peraltro ogni spiraglio all’idea di temperare la riforma Nordio cambiando qualcosa sulla proposta di sorteggiare i membri del Csm: “Questo caso dimostra che ci vuole il sorteggio per eradicare il potere cancerogeno delle correnti all’interno della magistratura”. Lo spettro delle toghe rosse, del resto, è un grande classico da ormai trent’anni. Nonostante le evidenze, tipo che all’Anm la corrente maggioritaria è quella di destra, Magistratura indipendente. “Se tutti i magistrati accusati di essere vicini a Md o a noi lo fossero veramente, stravinceremmo le elezioni interne”, commenta sarcastico il segretario di Area Giovanni Zaccaro. E tra i corridoi della Città giudiziaria, a Roma, il nuovo capitolo dello scontro tra governo e giudici viene vissuto un po’ con lo stesso spirito, tra il disincanto e l’ironia. “Delmastro stava per salvarsi perché non aveva capito di aver commesso un reato - scherza con il manifesto un magistrato certamente non di sinistra -, alla fine quasi gli hanno fatto un favore”. IL CLIMA, comunque, resta pesante. La prossima settimana andrà in scena lo sciopero della magistratura contro la riforma della giustizia. La partecipazione più o meno alta ci dirà qualcosa in più sulla fase e sulla compattezza delle toghe. Ma questa è un’altra storia. Forse. Condannato e rafforzato. Delmastro esce dal limbo e ora aumenta il suo potere a via Arenula di Federica Olivo huffingtonpost.it, 22 febbraio 2025 Il sottosegretario, condannato per rivelazione del segreto, è stato blindato dalla premier. Rimane con la delega alle carceri, dove potrà veder crescere il “suo” dipartimento per sedare le rivolte, blindare il 41 bis, benedire il nuovo regolamento per gli agenti. Non solo “resta al suo posto”, dopo la condanna a otto mesi per rivelazione del segreto, come dice Giorgia Meloni. Ma il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, potrebbe consolidare ulteriormente il potere nell’ufficio su cui ha le deleghe. Il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che gestisce le carceri. Quelle stesse carceri nelle quali si reca spesso senza visitare chi li popola perché (citazione) “non mi inchino alla Mecca dei detenuti”. Che il sottosegretario goda di una sorta di adorazione da parte di un pezzo di quel mondo - soprattutto parte della Polizia penitenziaria - è cosa nota. “Lo chiamano per nome, Andrea, hanno il suo numero personale”, ci dice una fonte ben informata. Circondatosi da fedelissimi all’interno del Dap - da Ernesto Napolillo, da qualche tempo direttore generale dei detenuti, a Lina Di Domenico che sta reggendo il dipartimento dopo le dimissioni di Giovanni Russo - Delmastro in queste ore sta godendo della solidarietà degli agenti. C’è chi lo fa in maniera riservata, per solidarietà umana. Chi, invece, lo fa pubblicamente, suscitando più di qualche perplessità tra gli addetti ai lavori: “La condanna di Delmastro ci lascia sbalorditi! Al Sottosegretario Delmastro va tutta la nostra solidarietà e guardiamo all’appello per un ribaltamento della sentenza”, si legge in una nota a firma di Daniela Caputo, Segretario Nazionale del Sindacato dei Dirigenti del Corpo di Polizia Penitenziaria. I capi della penitenziaria, insomma, si schierano apertamente e giurano di nuovo fedeltà al loro referente politico. Con tanto di foto sui social - che ricordano le parate che di tanto in tanto fa con la penitenziaria, la più famosa è quella in cui disse che “vedere come non lasciamo respirare chi sta dietro il vetro oscurato (i reclusi, ndr) è per me ragione di intima gioia” - e di singolari fotomontaggi. Se il tono della nota dei dirigenti penitenziari desta qualche dubbio, non è così diverso il tono del Sappe, sindacato molto rappresentativo della penitenziaria, che ha spesso invitato Delmastro a eventi. Il più noto dei quali è una grigliata nel carcere di Biella la cui eco si è sentita anche in Parlamento. Il vice segretario aggiunto del sindacato, Giovanni Battista De Blasis, ha scritto sul sito poliziapenitenziaria.it un’accorata difesa di Delmastro dopo la condanna. Ieri, dice, c’è stata una “grande festa per una certa politica e una certa stampa a essa collaterale. Sono lieto che Delmastro abbia già dichiarato che non si dimetterà e che Giorgia Meloni abbia avallato la sua decisione, servirà la sospensione dell’incredulità per leggere le motivazioni”. Delmastro, dunque, rimane al suo posto non solo con la rinnovata fiducia della premier, non solo dell’abbraccio del ministro della Giustizia Carlo Nordio, ma anche circondato dell’adorazione di parte dei suoi sottoposti. Il 41 bis, che dice ci voler difendere, non solo non sarà scalfito - le modifiche umanitarie ipotizzate da Russo sono un lontano ricordo - ma probabilmente, in qualche modo, rinvigorito. Non solo. Mentre si rinsalda in sella gode anche dei primi vagiti della creatura da lui creata: il Gio, il gruppo d’intervento operativo, creato l’anno scorso sulla scia dell’esempio francese, che ha come obiettivo quello di sedare le rivolte. La formazione, con i primi 25 agenti, è al completo. Il reparto, per ora, è stato invocato tre volte: ad Avellino, per il trasferimento di un detenuto che era in stato di sorveglianza particolare, e a Pescara, dove è stata registrata una rivolta. Quando sarà approvato il ddl sicurezza, probabilmente, questo nucleo avrà più lavoro da fare visto che - per volontà dello stesso Delmastro - è stato introdotto il reato di rivolta carceraria. L’ultima volta il Gio è intervenuto proprio oggi, al carcere minorile di Casal di Marmo, a Roma. Intanto, però, la misura è stata accolta tiepidamente. “Al momento, se un direttore chiede l’intervento del Gio, resta responsabile della struttura anche durante l’azione del reparto. E ciò, con tutto quello che ne consegue, dissuade i vertici dal chiederne l’intervento”. Al Dap, però, stanno studiando come ovviare il problema. Come? Seguendo un aggiornamento tecnologico del motto foucaultiano “sorvegliare e punire”. L’idea allo studio è quella di centralizzare la videosorveglianza delle carceri. Da Roma potrebbero vedere, dunque, 24 ore su 24 quello che succede in tutti i penitenziari d’Italia. Il progetto dovrebbe partire, in via sperimentale, il 28 febbraio. E la cosa già spaventa gli agenti penitenziari meno allineati: “Finirà che lo useranno per controllare noi”, si sfoga uno di loro, che ricorda anche le preoccupazioni sul nuovo regolamento di polizia penitenziaria. La bozza del nuovo documento - lo avevamo raccontato qui - ha destato qualche offesa, per i riferimenti ai “capelli puliti” e i limiti all’estetica delle agenti, ma anche qualche critica per delle norme che sembrano limitare la libertà degli agenti di comunicare dei problemi alle rappresentanze sindacali: “Tra un po’ dovremo porci il problema su se riferire o no che c’è caduta una tegola in testa - dice un poliziotto penitenziario - e invece c’è chi non si fa problemi a divulgare dei documenti segreti”. Chissà se a Delmastro saranno fischiate le orecchie. Paradosso normativo. Meno giustizia civile per tutti di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 22 febbraio 2025 Riforme andate male: fascicoli in aumento e processi più difficili per chi vi ricorre, mentre la mediazione forzata sposta un problema senza risolverlo. Messe in campo per il PNRR, dopo qualche anno le nuove norme sulla giustizia civile hanno creato un sistema con più fascicoli e meno diritti. Il fatto che le riforme in materia di giustizia messe in campo da qualche anno a questa parte rischino di non raggiungere gli obiettivi verso cui erano preordinate, cioè il soddisfacimento dei criteri del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), costituisce il segno più appariscente ma meno grave dell’inadeguatezza di quegli interventi normativi. Affogato nelle settecento ottanta pagine del resoconto ministeriale in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il dato relativo all’ammontare dei fascicoli nel settore della giustizia civile (numero cresciuto del 3,5 per cento rispetto all’anno precedente) racconta l’incapacità delle misure adottate persino di perseguire l’intento deflattivo cui pretendevano di ispirarsi. Ma un vizio a monte affliggeva quei propositi di presunta riforma, che non sarebbero stati buoni propositi neppure se si fossero dimostrati idonei al raggiungimento dello scopo. La realtà è che l’intero impianto della riforma della giustizia civile - di cui giustamente il ministro Carlo Nordio ha deplorato la posizione negletta nell’attenzione generale - si fondava su due discutibilissimi pilastri orientativi: e cioè, per un verso, l’affidamento sempre più allargato delle controversie alla c.d. mediazione, rendendone obbligatorio l’esperimento in una quantità di materie; per altro verso, la generale e pervasiva compressione dei diritti e delle facoltà delle parti nel processo. La mediazione, incentivata dall’obbligo di ricorrervi anziché dalla persuasione che essa offrisse una tutela più efficace e pronta dei diritti dei cittadini, non si rivelava meglio dell’idea di decongestionare il traffico sulle autostrade dirottandolo su un tratturo anziché aprendo una corsia in più. Una scelta che, se pure fosse efficace, implicherebbe un miglioramento del servizio giudiziario tramite l’abdicazione dell’autorità che dovrebbe assicurarlo. Non esattamente un vanto, per un sistema di diritto. Ma non è soltanto quella scelta abdicatoria a denunciare la stortura complessiva del disinvolto approccio riformatore cui abbiamo assistito. L’altro fronte degli interventi, infatti, era semmai anche più agguerrito nella destituzione dello Stato di diritto, degradato a un arnese desueto. La riduzione del processo civile a una specie di corsa a ostacoli, inviluppato in termini sempre più stringenti per i cittadini che ricorrono al servizio giudiziario e sempre più labili per i magistrati chiamati a renderlo, tradiva l’idea di fondo per cui affidarsi alle cure di giustizia costituisce meno l’esercizio di un diritto che una deplorevole pretesa di petulanza. Fai causa? E io te la rendo difficile. Vuoi fare appello? E io ti metto tanti di quei dissuasori che ti faccio passare la voglia. Il tutto, si noti, va di conserva con un generale, drammatico decadimento qualitativo della produzione giurisdizionale. Si sprecano ormai, infatti, i nota bene in calce a sentenze e ordinanze posti a segnalare che il provvedimento è redatto con la collaborazione del dott. Tizio, tirocinante. La giustizia in sub-appalto: se pure ottenesse i soldi del Pnrr, non sarebbe propriamente quella che regge un ordinamento affidabile. Intercettazioni, lite tra governo e opposizioni di Valentina Stella Il Dubbio, 22 febbraio 2025 L’Esecutivo tira dritto sul limite di 45 giorni, ma M5S e Pd stigmatizzano l’assenza di esponenti di via Arenula. È iniziata ieri mattina alla Camera la discussione generale del Ddl, a prima firma del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sulle “modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”. Il testo, già approvato dal Senato, prevede che le intercettazioni telefoniche e ambientali “non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. La modifica non riguarda i reati di mafia e terrorismo. La seduta è iniziata con l’illustrazione della relazione da parte del deputato di FI, Tommaso Calderone. Il testo non ha subìto modifiche in Commissione giustizia, rispetto a quello approvato a Palazzo Madama, benché diverse critiche siano emerse da parte dell’Anm e di alcuni giuristi, come il professor Gian Luigi Gatta, nel corso delle audizioni. Secondo Calderone, “è un importante apparato normativo perché evita che si possa, senza alcuna effettiva ragione e necessità, invadere oltremodo la sfera privata del cittadino italiano”. Per l’azzurro è stato “necessario ribadire in maniera vigorosa che il limite dei 45 giorni si pone nel momento in cui non esistono gravi indizi o elementi specifici e concreti che determinano l’assoluta indispensabilità della proroga delle intercettazioni. È bene precisarlo, perché se non è emerso nulla, se non ci sono elementi specifici e concreti per continuare ad intercettare qual è la ragione tecnica e - se mi è consentito - quasi etica per continuare a intercettare? Ovviamente, non c’è”. Ha poi preso la parola il collega di partito Enrico Costa, secondo cui siamo dinanzi “ad una norma di stampo liberale” che “forse non sarebbe neanche stata necessaria se la giurisprudenza, se i giudici, se i gip, che sono invisibili nel nostro sistema di indagini preliminari, inesistenti, avessero applicato le norme e avessero applicato l’articolo 267 del codice di procedura penale, che stabilisce che non si può intercettare se non ci sono degli elementi su cui queste intercettazioni si fondano”. Partita poi protesta del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle per l’assenza in Aula di esponenti del ministero della Giustizia: “Oggi non c’è nessuno del ministero della Giustizia anche perché a via Arenula non c’è più un ministero, si è trasformato nello studio degli avvocati difensori di Delmastro”, ha detto il dem Andrea Casu, per il quale “è chiaro l’obiettivo del governo: colpire autonomia e indipendenza della magistratura, l’equilibrio di poteri”. Ha aggiunto la deputata pentastellata Valentina D’Orso: “Perché non ci siete? Vi vergognate?”. Sul merito del provvedimento per il Pd è intervenuta Rachele Scarpa: “C’è un punto che io ritengo particolarmente grave e mi riferisco alle mancate eccezioni a questa restrizione che si applica alle intercettazioni quali il reato di omicidio, di stalking, tutto ciò che afferisce al cosiddetto Codice rosso. Sono reati che restano fuori dalla possibilità di eccedere a questa restrizione che si sta imponendo”. Su questo punto era intervenuto qualche giorno fa il presidente della II commissione, Ciro Maschio: “Modificare in seconda lettura alla Camera il testo di questa proposta sulle intercettazioni significherebbe dover fare una terza lettura al Senato e quindi ricominciare da capo l’iter. L’intenzione è quella di andare in Aula e approvare in via definitiva questo testo e per quanto riguarda alcuni dubbi rimasti sulla questione del Codice Rosso mi risulta che ci sia la volontà del governo e della maggioranza di ritornarci sopra in un prossimo provvedimento se non sarà in questo”. Per Stefania Ascari (M5S): “Questo è l’ennesimo provvedimento che toglie strumenti di indagine alla magistratura e pone dei serissimi problemi. In primis, un problema di coerenza con la durata delle indagini, perché non ha alcun senso stabilire che le indagini abbiano un termine di 18 mesi per i delitti o di 2 anni per alcuni delitti più gravi, come previsto, da ultimo, dalla riforma Cartabia, e poi si decida, però, che, dopo 45 giorni, a meno che tu non abbia avuto riscontri eclatanti della fondatezza dell’accusa, devi interrompere un mezzo di ricerca della prova che è fondamentale”. Per il governo era presente la sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento, Matilde Siracusano, che in chiusura di discussione ha dichiarato: “Non ci fermeremo, mi dispiace, di fronte a manifestazioni plateali, di fronte a scioperi, di fronte a mezzo governo iscritto nel registro degli indagati, di fronte a sentenze politiche. Sappiate tutti che è ormai archiviato definitivamente il tempo del condizionamento, perché non ci sarà più un potere dello Stato che condizionerà il legislatore, impedendo riforme o scrivendo addirittura le leggi, questo tempo è definitivamente concluso. Tutti dobbiamo farcene una ragione, ma noi lo facciamo proprio nello spirito autentico di risolvere i problemi di questo Paese”. Sono due, intanto, le questioni pregiudiziali di costituzionalità, presentate da Pd e M5S, che verranno poste ai voti nella prossima seduta del 25 febbraio. L’enigma di Paragon: Polizia penitenziaria nel “mirino” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2025 Il ministro della Giustizia ha negato il coinvolgimento del Dap ma resta oscura l’identità del corpo di polizia acquirente del software. In questi giorni, lo scandalo legato allo spyware Graphite della società israeliana Paragon Solutions ha sfiorato la Polizia penitenziaria. Durante il question time alla Camera di mercoledì scorso, si è rotto il “silenzio” che il governo - tramite Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio - aveva invocato appena 24 ore prima, appellandosi all’articolo 131 del regolamento parlamentare e definendo il caso come “classificato”, dunque di competenza del Copasir. A rispondere all’interrogazione di Italia Viva è stato il ministro della Giustizia Nordio, il quale ha confermato che nel 2024 nessuna persona è stata intercettata da strutture finanziate dal suo ministero né dalla Polizia penitenziaria. La risposta è chiara, ma anche scontata, poiché il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non può assolutamente disporre di tali strumenti, e la Polizia penitenziaria (pensiamo, ad esempio, al Nucleo Investigativo Centrale) opera come polizia giudiziaria per conto delle procure. Tuttavia, il guardasigilli ha precisato che, nel 2024, non è mai stata effettuata alcuna intercettazione da parte di questo corpo di polizia. Teoricamente, però, potrebbe non esserne a conoscenza, dato che le indagini sono giustamente ricoperte dal segreto istruttorio. Basta considerare le ultime indagini, concluse lo scorso gennaio e relative allo scandalo del carcere di Rebibbia, condotte dal Nic coordinato dalla Procura di Roma. Inoltre, potrebbero essere state svolte altre indagini da altre procure nel corso dell’anno da poco concluso, di cui attendiamo ancora l’esito. In ogni caso, non si può a priori escludere che il famigerato spyware sia stato utilizzato. Per ora, rimane solo un’ipotesi. Lo scandalo Paragon ha attirato l’attenzione globale dopo la denuncia di WhatsApp per una campagna di cyberspionaggio contro 90 giornalisti e attivisti in 20 paesi, realizzata con spyware della società israeliana. In Italia, i casi noti riguardano Luca Casarini, fondatore di “Mediterranea Saving Humans”, e il giornalista Francesco Cancellato, direttore di Fanpage. Le rivelazioni hanno sollevato interrogativi sul ruolo delle autorità italiane, in particolare dei servizi segreti, nel monitoraggio di dissidenti. Il governo, con una nota del 5 febbraio, ha escluso categoricamente il coinvolgimento dell’intelligence (che comporterebbe reato) e ha rivelato un’indagine dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn): i numeri spiati in Italia sarebbero 7, ma le identità - tranne due - restano ignote per questione di privacy. Martedì 11 febbraio, il direttore dell’Aise (servizio segreto per l’estero) Giovanni Caravelli è stato ascoltato dal Copasir, che ha confermato: i servizi non c’entrano. Ma allora perché si parla di un corpo di polizia? Tutto parte da un articolo del quotidiano israeliano Haaretz, in cui si rivelava che la società Paragon aveva stipulato contratti con due entità italiane: un’organizzazione di intelligence e un’agenzia di polizia. I servizi segreti hanno confermato di aver fatto uso di tali strumenti (ma non contro i giornalisti), mentre rimane ancora oscuro chi sia esattamente questa “agenzia di polizia”. La traduzione è letterale, ma, essendo un giornale straniero, occorre spiegare il significato: si tratta sicuramente di un’autorità statale incaricata di mantenere l’ordine pubblico e di far rispettare le leggi. In Italia, “l’agenzia di polizia” principale è la Polizia di Stato, che opera sotto la direzione del ministero dell’Interno. Oltre a essa, esistono altre forze di polizia con competenze specifiche, come l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza, tutte in grado di svolgere il compito di polizia giudiziaria - anche tramite intercettazioni - per conto delle procure. Per assurdo, in certi casi anche i Vigili del fuoco possiedono la qualifica di polizia giudiziaria. Dal momento che è emersa questa notizia, le maggiori forze di polizia hanno smentito l’informazione, ad eccezione del Dap. Per questo motivo, è sorto il dubbio - espresso in particolare da Matteo Renzi - sull’identità di questa “agenzia”, responsabile degli accordi con Paragon, sospettata di essere la Polizia penitenziaria. Ora il ministro Nordio ha chiarito che il Dap non ha, e soprattutto non può stipulare, alcun contratto con la società in questione. Chiaro. Ma c’è da ribadire che è lecito supporre, a livello esclusivamente ipotetico, che la polizia penitenziaria potrebbe aver utilizzato tale tecnologia - tra l’altro costosissima - per conto di qualche procura. Non a caso, Matteo Renzi ha anticipato che chiederà l’accesso agli atti relativi alle spese per intercettazione di tutte le procure. In questo modo, si potrà almeno fare chiarezza sul punto. Resta però la domanda delle domande: chi ha intercettato illegalmente i 7 giornalisti in Italia? Finora la smentita ufficiale è arrivata soltanto dai servizi segreti, una delle due entità che hanno stipulato il contratto con Paragon. Rimane ancora in sospeso l’identità del secondo cliente. Sicuramente si tratta di un corpo di polizia giudiziaria, ma sarebbe gravissimo se fosse stato effettuato un accesso illecito. L’idea che dei giornalisti possano essere messi sotto indagine legale tramite l’uso di trojan non è del tutto improbabile - come dimostrato, ad esempio, nei confronti di Michele Santoro e Guido Ruotolo nel caso di Maurizio Avola relative alla questione della strage di Via D’Amelio (non parliamo di Paragon). Seppur criticabile - visto che per farlo si è dovuto ricorrere a una ipotesi di reato grave successivamente archiviata - quest’ultima azione resta del tutto legittima. Rimane però la domanda fondamentale: chi ha intercettato illegalmente i 7 giornalisti in Italia? Finora, la discolpa ufficiale è arrivata soltanto dai servizi segreti, una delle due entità che hanno stipulato il contratto con Paragon. Rimane, invece, oscura l’identità del secondo cliente: presumibilmente si tratta di un corpo di polizia giudiziaria, ma sarebbe gravissimo se fosse stato effettuato un accesso illecito. In una improvvisata conferenza stampa dello scorso 11 febbraio, il sottosegretario Mantovano non ha escluso usi illeciti, ma non attribuibili ai servizi. Sul possibile coinvolgimento di una polizia, ha rimandato all’autorità giudiziaria. Rimane il dubbio che questo misterioso corpo di polizia giudiziaria possa aver svolto un’indagine in collaborazione con qualche altra agenzia estera. Il sospetto sussiste perché almeno 90 giornalisti e attivisti sono stati spiati, principalmente in Europa. In Italia sono 7, di cui conosciamo l’identità solo di due. Se pensiamo a Casarini, impegnato nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo, c’è anche David Yambio, attivista per i diritti dei rifugiati libici, che ha ricevuto una notifica da Apple riguardante un tentativo di intrusione tramite spyware sul suo iPhone. Il filo conduttore è l’attivismo sull’immigrazione. Le ipotesi in campo sono quindi tre. La prima è l’esistenza di una rete internazionale di spionaggio che, in qualche modo, fornirebbe informazioni sensibili su alcuni soggetti - e ciò sarebbe grave per la sicurezza nazionale. La seconda ipotesi è che sia stata una semplice operazione giudiziaria per conto di qualche procura. La terza è che alcuni elementi infedeli all’interno del corpo di polizia giudiziaria abbiano approfittato di una legittima indagine per captare illegalmente informazioni tramite il software e rivenderle a qualcuno. Quest’ultimo caso non sarebbe una novità. Caso Ramy Elgaml, Fares denuncia i carabinieri per lesioni e falso di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 febbraio 2025 Adesso che si è rimesso in piedi, dopo il ricovero in ospedale e le prime cure, mentre sconta una misura cautelare per resistenza a pubblico ufficiale ed è accusato di omicidio stradale insieme al carabiniere che guidava la pattuglia lanciata a folle velocità al loro inseguimento per otto chilometri, Fares Bouzidi, il giovane alla guida dello scooter su cui viaggiava il 19enne Ramy Elgaml la notte in cui morì, ha denunciato in Procura i quattro carabinieri del Nucleo radiomobile di Milano che lo avrebbero “speronato” il 24 novembre 2024 e che avrebbero messo in atto un vero e proprio depistaggio, con false dichiarazioni e omissioni. Uno dei militari è stato denunciato per lesioni personali (una settimana di terapia intensiva e prognosi riservata ancora non sciolta) perché essendo “alla guida della vettura denominata Volpe 40”, all’intersezione tra via Ripamonti e via Quaranta di Milano, “deliberatamente mi speronava”, si legge nella querela visionata dal manifesto, causando la perdita di controllo dello scooter “e comprimendo il motociclo contro il palo semaforico presente che veniva abbattuto dall’autovettura stessa”. Tutti e quattro i carabinieri sono stati poi denunciati per falso ideologico e omissione in concorso, per tre episodi distinti. Nel verbale, i militari accusarono “falsamente” Fares Bouzidi di aver eseguito una manovra di guida azzardata che causò materialmente l’impatto con il semaforo nel quale perse la vita Ramy Elgaml. Inoltre, i carabinieri avrebbero “omesso” di registrare la presenza in loco di Elsayed Omar, il testimone oculare a cui gli agenti intimarono di cancellare il video dell’impatto mortale registrato con il proprio telefono. A questo proposito, i carabinieri indagati per favoreggiamento, depistaggio e frode processuale interrogati ieri in procura avrebbero risposto ai pm Marco Cirigliano e Giancarla Serafini di aver solo “diffidato” il testimone a divulgare le immagini dei soccorsi e del massaggio cardiaco, convinti di salvaguardare così la privacy dei due giovani. La foto dei documenti di Elsayed Omar sono stati rinvenuti nel telefono di uno dei carabinieri (che quindi lo avevano identificato) mentre sono attesi ai primi di marzo, per un ulteriore rinvio, gli esiti di una consulenza cinematica disposta dalla procura per stabilire l’esatta dinamica dell’impatto mortale. Infine Fares Bouzidi ha denunciato i quattro militari per aver attestato il rinvenimento “nella mia tasca” di una catenina d’oro che secondo le forze dell’ordine era “chiaramente danneggiata a seguito di un probabile strappo per furto”, pur avendo “piena consapevolezza” che la catenina fosse al collo del ragazzo quella sera. Infatti, secondo Fares, uno dei carabinieri aveva assistito alla manovra dell’operatrice sanitaria che aveva slacciato la catenina “dal mio collo al fine di applicarmi il collare ortopedico” e l’aveva informato che l’avrebbe riposta “nella mia tasca”. Immediato - e spudorato - il commento del vicepremier Matteo Salvini alla notizia della denuncia di Fares Bouzidi: “Senza vergogna. Onore ai Carabinieri”. Parma. Detenuto di 58 anni muore all’Ospedale Maggiore di Christian Donelli parmatoday.it, 22 febbraio 2025 Un detenuto di 58 anni, Giuseppe Spagnulo, è morto nel corso della nottata tra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio all’ospedale Maggiore di Parma. Le cause della morte sono in corso di accertamento ma, secondo le prime informazioni, si tratterebbe di un decesso dovuto a cause naturali. Secondo le prime informazioni la morte sarebbe avvenuta verso l’una. Gli era stata concessa la detenzione all’interno della struttura ospedaliera, visti i suoi problemi di salute. Giuseppe Spagnulo era stato condannato all’ergastolo insieme alla moglie Francesca Angiulli per l’assassino dell’ex carabiniere Antonio Cianfrone, avvenuto a Spinetoli, in provincia di Ascoli Piceno, il 3 giugno del 2020. Avellino. Il Garante regionale Ciambriello: “Dannosa la scelta di chiudere l’Icam di Lauro” ansa.it, 22 febbraio 2025 “Durante la riunione abbiamo evidenziato come la scelta di chiudere l’Icam di Lauro, l’unico Istituto a custodia attenuata per madri detenute del Mezzogiorno aperto nel 2016, tra l’altro, con un grosso finanziamento di circa un milione di euro realizzato per ristrutturare quello che in precedenza era l’Icatt (istituto a custodia attenuta per il trattamento delle tossicodipendenze) appare assolutamente dannosa. Il rischio è, che d’ora in poi, da Roma in giù alle detenute madri sarà precluso il rispetto del principio della territorialità della pena, non potendo godere del loro diritto alla difesa, al reinserimento nel territorio, nonché il diritto a conservare relazioni dirette con i propri familiari. I tre bambini oggi presenti in Istituto interromperanno il loro percorso scolastico in corso. Ma allora perché non aprire una sezione loro dedicata nella Casa circondariale di Avellino, anziché destinarle negli Istituti di Milano e Venezia? Oppure, perché non chiudere uno dei tre piccoli Istituti per detenuti madri presenti nel nord Italia?” Lo dice il garante dei diritti dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che con il garante comunale di Napoli Don Tonino Palmese, il garante provinciale di Avellino Carlo Mele e la garante provinciale di Benevento Patrizia Sannino, la garante comunale di Benevento Giovanna Pagliarulo, ha avuto un incontro con la Provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria campana Lucia Castellano riguardo ad alcune criticità degli istituti penitenziari campani, e per sollevare, si legge in una nota, “perplessità sulla chiusura dell’Icam di Lauro”. Le detenute madri in Italia attualmente sono 10 di cui 3 ancora a Lauro, 3 in Veneto, 1 in Piemonte e 2 in Lombardia. Durante la riunione, sono state evidenziate altre criticità dai garanti: “Allarmante è il tema della salute mentale nelle carceri campane per l’aumento considerevole di detenuti con sofferenza psichica, malati psicotici. In tal senso, abbiamo richiesto soluzioni rispetto alla chiusura delle articolazioni psichiatriche di Benevento e Sant’Angelo dei Lombardi, ormai chiuse da tempo e non riutilizzate. Ancora, abbiamo segnalato, con riferimento alle restrizioni che da un anno ci sono in carcere per l’ingresso di indumenti e generi alimentari, lo scandalo dei prezzi eccessivi per il sopravvitto nelle carceri”. “Abbiamo fatto riferimento al sovraffollamento in Campania, ad un migliaio di detenuti campani che devono scontare meno di un anno di carcere di cui non si hanno notizie o relazioni dagli Istituti. Spesso - conclude Ciambriello - la carenza di personale preposto al nucleo di traduzione non garantisce i ricoveri e le visite mediche specializzate negli ospedali. L’insufficienza degli agenti di polizia penitenziaria non garantisce il diritto allo studio e l’utilizzo dei campi sportivi in alcuni Istituti”. Bologna. Lo strano caso del ghetto in carcere per giovani stranieri e il Polo universitario smantellato di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 22 febbraio 2025 È una piccola storia, di quelle che non escono sui giornali, o vengono relegate in un trafiletto. Eppure vale la pena raccontarla, perché la realtà delle carceri somiglia più a questa vicenda che non alle polemiche sull’ultima battuta del ministro o sulla penultima dichiarazione dell’onorevole. Siamo a Bologna, nella casa circondariale Dozza. Un carcere che ha 500 posti di capienza regolamentare e 853 detenuti. Sovraffollamento grave, dunque. Eppure proprio qui il ministero della Giustizia - tramite il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - ha in programma di installare una sezione speciale per giovani detenuti “difficili”. La motivazione ufficiale è quella del sovraffollamento degli Istituti minorili (Ipm): ci sono in tutta Italia 610 minori detenuti su 500 posti regolamentari. Sovraffollamento grave anche qui, quindi. Proviamo a capire. C’è il Dipartimento per la giustizia minorile, che gestisce gli istituti per minori. Il suo capo, Antonio Sangermano, chiede aiuto al Dap, che deve far fronte a un enorme sovraffollamento dei suoi istituti - e gli dice, più o meno: “Houston, abbiamo un problema, non sappiamo più dove mettere i nostri ragazzi, ci date una mano?”. Il Dap - che peraltro da mesi non ha scandalosamente il suo capo (si legga Nello Trocchia) - ci pensa un po’, poi risponde così: “Perché non li mandiamo a Bologna, alla Dozza? Prendiamo una sessantina di ragazzi di varie regioni, di quelli più problematici, e facciamo una sezioncina speciale”. Quali ragazzi? Saranno non propriamente minori, ma quelle persone che hanno commesso reati da minorenni e che sono diventate maggiorenni in carcere: normalmente fino a 25 anni possono restare negli istituti per minori (è una scelta del magistrato di sorveglianza, per evitare che entrino subito in contatto con delinquenti incalliti e anziani). Ma negli Ipm non c’è più posto, si scoppia. A Torino dormono per terra, al Beccaria succede di tutto. E quindi ne mandiamo un po’ in un’enclave della Dozza. Già, ma chi selezioniamo? Ai sindacati è stato detto che saranno mandati soprattutto stranieri non accompagnati e che non partecipano ad attività trattamentali. Non si dice apertamente, ma si tratta di giovani violenti, casi particolarmente difficili. Alla Dozza, a quanto pare, prenderanno il posto dei detenuti del Penale, che a loro volta andranno in quello dell’Alta Sicurezza, ovvero dove ci sono i responsabili di reati gravi e associativi. Dove andranno questi? Saranno trasferiti in altri istituti, già sovraffollati di loro. È un po’ il gioco della coperta corta: la tiri da una parte, ti scopri dall’altra. A Bologna, tra l’altro, nessuno sapeva nulla. La giunta comunale era all’oscuro, la Regione anche e fino a tre giorni fa, quando la decisione era già presa da mesi, neanche il servizio sanitario territoriale ne sapeva qualcosa. Roma, dunque, prende 50 detenuti difficili da tutta Italia e li concentra a Bologna, nel cuore dell’Emilia rossa. Perché proprio lì? Non si sa. Quello che è certo è che in Emilia-Romagna ci sono 10 istituti penitenziari, tutti enormemente sovraffollati, e che anche per questo gli avvocati bolognesi sono in sciopero da tempo (immaginiamo che tra questi non ci sia Galeazzo Bignami, avvocato autosospesosi da quando è diventato capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera). Dall’interno, alcuni volontari ci aggiungono alcuni particolari. Alla Dozza c’era qualcosa di cui andare fieri: il Polo universitario penitenziario, istituito nel 2015 grazie al protocollo d’intesa con l’Alma Mater di Bologna. Un bel progetto che ha consentito a molti detenuti di studiare e laurearsi nelle facoltà che non prevedono frequenza obbligatoria e di dare un senso a tutto quel tempo, per non uscire come e peggio di prima e tornare a delinquere. C’era un braccio, al primo piano del carcere, l’1 D, dedicato a queste attività. C’erano computer, schermi per fare lezioni ed esami in conferenza, libri, postazioni. Da qualche mese, i pc sono per terra, i televisori accatastati, le lavagne rotte, le scrivanie rimosse, la libreria smontata. Che è successo? La parola magica è sempre quella: sovraffollamento. Il Garante delle persone private della libertà di Bologna, Antonio Ianniello, conferma: “Era uno spazio condiviso con i detenuti che giocavano a rugby. Poi ci sono stati problemi e soprattutto c’è stata la necessità di collocare nuovi giunti. Quando morde il sovraffollamento c’è poco da fare”. È un processo noto: arrivano nuovi reclusi e spariscono i luoghi per il trattamento. Per il principio della non compenetrazione dei corpi, lo spazio viene a mancare. Ma questa enclave minorile (i detenuti non sono minori, ma sarà comunque una sezione separata e gestita dal Dipartimento dei minori), non sarà un ghetto? Una sorta di Alta sicurezza per giovani stranieri difficili? Un luogo dove rischiano di entrare in contatto con delinquenti incalliti e di restare lontani da qualunque tipo di attività? “Il rischio c’è - dice Ianniello - anche se il Dipartimento ci ha assicurato che faranno in modo di creare attività. La preoccupazione è molto alta, anche se ci è stato garantito che si tratta di una sistemazione provvisoria”. Come dicevano in tanti (tra gli altri Flajano e Prezzolini) e come sappiamo tutti, in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. “Questo è vero, ma ci hanno detto che nei prossimi mesi saranno acquisiti degli spazi per 90 posti negli istituti di Lecce, Aquila e Rovigo”. Basteranno? La domanda non è retorica, perché panpenalismo e faccia feroce stanno facendo scoppiare i numeri. Ce ne dice uno importante Ianniello: “Ad agosto 2023, prima del decreto Caivano, c’erano 436 minori detenuti negli Ipm. Dieci giorni fa erano 610. Dunque in poco più di un anno c’è stato un aumento del 30 per cento. Numeri così importanti la giustizia minorile non ne aveva mai conosciuti. Il decreto Caivano ha allargato la possibilità di custodia cautelare per i minori. Non sarà l’unica causa dell’aumento dei minori in carcere, ma certo ha influito molto”. La tendenza è quella, non solo per i minori. In un anno le carceri per adulti hanno visto crescere di più di duemila persone i detenuti. Siamo a 62 mila. Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani, ci ha condannati, eravamo a 67 mila. Manca poco”. Cosa si sta facendo? Niente, a quanto risulta. Se non cercare disperatamente nuovi spazi, che non basteranno se i trend di crescita restano questi. Tutte le proposte possibili - ampliare le misure alternative, concedere una liberazione anticipata speciale, dare un’amnistia o un indulto, ridurre l’impatto della custodia cautelare, spostare tossicodipendenti e persone con problemi psichiatrici in strutture protette - non vengono neanche prese in considerazione o non vengono attuate. I suicidi, intanto aumentano. Sembra una frase fatta, ma è la realtà dei numeri. Nel 2024 c’è stato il record, con 89 persone che si sono impiccate o asfissiate con il gas. Quest’anno siamo a 14. Con questo tasso, si supereranno i 100. Bologna. I partiti di centrosinistra in presidio alla Dozza di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 22 febbraio 2025 Settanta detenuti dell’Alta sicurezza della Dozza saranno spostati nel carcere di Fossombrone. A riferire l’arrivo del provvedimento che dispone il trasferimento è stato il Garante regionale per le persone private della libertà, Roberto Cavalieri. Uno spostamento propedeutico all’arrivo, alla Casa circondariale bolognese, di altrettanti giovani adulti che saranno trasferiti dagli istituti minorili del centro nord. Un provvedimento, annunciato come temporaneo, che è già stato fortemente contestato dagli organi di rappresentanza dell’avvocatura e visto con preoccupazione dallo stesso garante che ha commentato la notizia di ieri con un “Si è passati ai fatti”. Intanto, per martedì, giorno in cui si ipotizza lo spostamento dei giovani detenuti nei locali che ospitavano la sezione Penale della Dozza, Volt Bologna, il gruppo consiliare del Pd, il gruppo consiliare Anche tu conti, e poi Incontra Bologna e la lista Lepore Sindaco hanno annunciato un presidio in via del Gomito, fuori dalla casa circondariale, alle 18,30. Il presidio nasce per chiedere la sospensione immediata del provvedimento in una “struttura penitenziaria per adulti già in grave sovraffollamento”; una soluzione alternativa per i ragazzi, preferendo percorsi alternativi alla detenzione; l’abolizione del Decreto Caivano, simbolo di una politica securitaria, che marginalizza, esclude e - anziché prevenire - promuove la delinquenza giovanile”. Gli organizzatori invitano la cittadinanza a partecipare e le associazioni interessate ad aderire. Siena. “Ne vale la pena”, per un nuovo futuro oltre il carcere radiosienatv.it, 22 febbraio 2025 Progetto del Comune di Siena e della Casa Circondariale di Santo Spirito per l’impiego dei detenuti in attività di pubblica utilità. Il Comune di Siena ha sottoscritto una convenzione con il Ministero della Giustizia e con la Casa Circondariale di Santo Spirito per l’impiego delle persone in stato di detenzione per attività extra murarie di pubblica utilità. Il progetto, che coinvolge nove persone scelte dalla casa circondariale di Siena principalmente in base alla tipologia della detenzione, mira a favorire il reinserimento dei detenuti nel mondo lavorativo al termine della pena carceraria. Per il 2025 l’iniziativa si concentra su alcuni interventi che sono stati individuati dall’amministrazione comunale e che hanno ricevuto l’approvazione della casa circondariale. Nel mese di febbraio è prevista un’attività di manutenzione ai magazzini comunali di Cerchiaia, con la sistemazione edilizia dei locali di servizio del capannone centrale; a marzo si svolgerà un’attività di supporto al servizio Ambiente-bonifica del Comune, con la rimozione e la differenziazione dei rifiuti abbandonati indiscriminatamente nel quartiere di San Miniato; ad aprile la stessa attività sui rifiuti sarà svolta nel quartiere dell’Acquacalda; nel mese di maggio l’intervento previsto è la sistemazione edilizia dei servizi igienici del sottopassaggio La Lizza; nei mesi di ottobre e novembre i partecipanti al progetto saranno impegnati nell’imbiancatura degli ambienti degli edifici scolastici comunali; nella seconda metà di settembre nuovo intervento di rimozione e differenziazione dei rifiuti abbandonati indiscriminatamente, questa volta in strada di Montalbuccio; all’inizio di novembre l’operazione sarà ripetuta nel passaggio di Doccino; infine, per il “Mercato nel Campo”, previsto per l’inizio di dicembre, gli operatori svolgeranno attività di svuotamento dei cestini e dei contenitori dei rifiuti e piccole attività di spazzamento a mano. “Le esperienze finalizzate all’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti - sottolinea l’assessore ai servizi sociali del Comune di Siena, Micaela Papi - hanno confermato che il domani di una persona detenuta si costruisce solo se si ragiona in termini di sicurezza per la società. Questa è la base del progetto, modulabile in ragione dell’entità degli interventi. Il focus principale dell’iniziativa non è soltanto la rieducazione del detenuto, ma soprattutto favorire l’attività lavorativa e dunque il reinserimento sociale dei detenuti una volta usciti dal carcere, anche per evitare che la mancanza di un impiego avvicini nuovamente queste persone al mondo dell’illegalità. Per questo, li spingiamo a formarsi e a specializzarsi in qualcosa che garantisca loro un’opportunità al di fuori delle mura di Santo Spirito. Avremo un gruppo di persone che nel tempo potrà svolgere queste attività e che sarà di volta in volta strutturato in base alle esigenze della casa circondariale e del Comune”. “Un’attività frutto della sinergia fra enti - spiega l’assessore all’ambiente del Comune di Siena, Barbara Magi - che, oltre agli importanti focus relativi a reinserimento sociale e attività lavorativa dei detenuti, sarà di supporto per quella in atto per il miglioramento del decoro urbano cittadino e per la tutela dell’ambiente. Sono stati individuati alcuni interventi per i quali i detenuti avranno la possibilità di svolgere compiti di pubblica utilità al fianco dell’amministrazione, fra i quali sottolineo la rimozione di rifiuti abbandonati e l’imbiancatura di edifici scolastici, ben consapevoli che educazione civica e miglioramento del decoro cittadino portano anche a un miglioramento dal punto di vista della sicurezza e della socialità”. “L’inizio della programmazione delle attività di pubblica utilità che vede coinvolti i ristretti della Casa Circondariale di Santo Spirito rappresenta un percorso autentico di risocializzazione - dichiara il Garante dei detenuti del Comune di Siena, Stefano Longo - con l’obiettivo del reinserimento lavorativo della popolazione detenuta a vantaggio dell’intera comunità. L’iniziativa, che ha avuto un lungo iter, è il risultato di un’importante sinergia tra le istituzioni e mira a ridurre il tasso di recidiva attraverso la formazione e il lavoro. Grazie alla partecipazione attiva a questi progetti - conclude il Garante Longo - i detenuti avranno la possibilità di ricucire il patto sociale con la comunità, consolidando il proprio percorso di riabilitazione”. “Le persone in stato di detenzione che parteciperanno al progetto - spiegano dalla Casa Circondariale di Santo Spirito - hanno ricevuto una formazione specifica in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e avranno in dotazione vestiario da lavoro e dispositivi di protezione individuale personalizzati. La possibilità, data dal Comune di Siena, ai detenuti di sperimentarsi in un’attività socialmente utile finalizzata alla restituzione verso la comunità cittadina sarà un’ottima occasione per consolidare il rapporto istituzionale e sociale tra le parti e per dare l’opportunità ai detenuti di Santo Spirito di affacciarsi al mondo lavorativo auspicando in una loro ricollocazione nella realtà esterna con l’acquisizione di nuove competenze da spendere”. Roma. Rivolta nel carcere minorile: “Detenuti barricati in cella appiccano incendi” di Mauro Cifelli romatoday.it, 22 febbraio 2025 Rivolta nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. A darne notizia è il sindacato polizia penitenziaria Osapp per voce del segretario generale Leo Beneduci. La sommossa è scoppiata intorno alle 12:00 di oggi - venerdì 21 febbraio - nell’IPM di via Giuseppe Barellai. Una situazione potenzialmente esplosiva con l’intervento di numerose pattuglie dei carabinieri che hanno circoscritto la zona. La situazione è tornata poi alla normalità nel volgere di poco tempo. Come si legge in una nota stampa dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria: “Appena sedata per l’azione del Gruppo d’intervento operativo della polizia penitenziaria (GIO) l’ennesima rivolta dei minori ristretti presso l’Istituto Penale per Minorenni di Roma Casal del Marmo. La rivolta - prosegue il segretario generale Leo Beneduci - è scoppiata dopo che 3 ristretti della sezione “giovani adulti” nella serata di ieri si sono provocati delle lesioni per poi essere accompagnati nel vicino ospedale. Successivamente gli occupanti della medesima sezione si sono barricati all’interno della struttura appiccando probabilmente fuoco a qualche arredo e lenzuola e con il rischio che la situazione determinasse situazioni ancora più drammatiche. Il successivo intervento del GIO del corpo già presente nelle vicinanze (avvenuto senza particolari conseguenze né per i ristretti né per il personale), ha scongiurato qualsiasi rischio”. “Inutile sottolineare - conclude il segretario generale dell’Osapp - come sempre più spesso siano gli istituti penali per minorenni a dimostrare situazioni di dissesto operativo e di precarietà gestionale, tenuto conto, ad esempio, che oramai da anni per l’istituto di Roma Casal del Marmo non si riesce a individuare con continuità la figura di un comandante del reparto di polizia penitenziaria titolare, come peraltro avviene anche a Bologna e a Milano. L’avviso per maggiori attenzione e controllo dei disservizi è ovviamente, rivolto alla politica e alla figura del sottosegretario alla giustizia della Lega delegato per i minori Andrea Ostellari”. A rilanciare la notizia anche il segretario della Fns Cisl Lazio Massimo Costantino: “Apprendiamo che tre unità di polizia penitenziaria e un minore hanno avuto necessità di essere inviati al pronto soccorso per inalazione fumo non risultano feriti -chiediamo ulteriori rinforzi del personale per l’istituto minorile che è sovraffollato di 70. Per la Fns Cisl Lazio il sovraffollamento comprime sia la sicurezza che il trattamento. Vi è la necessità di risolvere i problemi e quelli delle carceri per la sicurezza del paese sono prioritari e quindi necessitano di misure eccezionali sulle strutture e sugli organici”. Modena. Detenuto denuncia di essere stato pestato in cella dagli agenti modenatoday.it, 22 febbraio 2025 Durante una perquisizione, a fine gennaio, avrebbe subito un pestaggio in cella da parte di alcuni agenti di Polizia penitenziaria. Sarebbe in grado riconoscerne almeno due, a quanto pare, e avrebbe già detto al Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, di essere pronto ad una denuncia in Procura a Modena. Il diretto interessato è un detenuto 32enne, di origine marocchina, in attesa di giudizio, seguito dall’avvocato Luca Sebastiani. La dichiarazione del diretto interessato è stata depositata la scorsa settimana, proprio attraverso il Garante regionale dell’Emilia-Romagna, nel quale il detenuto racconta di aver subito un pestaggio nella sua cella, nel corso di una perquisizione che ha riguardato la sua sezione eseguita lo scorso 31 gennaio “alle prime ore del mattino”. Lo stesso ha raccontato che, durante la perquisizione, per la quale gli era stato richiesto di alzarsi ed uscire dalla cella, aveva dichiarato agli agenti di non riuscire ad alzarsi in quanto “si sentiva male” e voleva essere portato in infermeria. A causa di ciò, secondo la versione del detenuto, lo stesso sarebbe stato scaraventato a terra e, senza che ponesse in essere “alcuna resistenza”, sarebbe stato vittima di un pestaggio da parte di quattro o cinque agenti. Successivamente, il 32enne ha spiegato di essere stato portato di peso fino ad un corridoio dove i detenuti generalmente attendono, per fare colloquio con gli avvocati, e di essere lasciato lì a terra, dove ritiene ci fossero le telecamere. Solo dopo, vedendo che non riusciva ad alzarsi e che stava male, il detenuto è stato messo su una sedia a rotelle ed è stato portato in infermeria, dove però sarebbe stato visitato sommariamente, nonostante i forti dolori diffusi, e non sarebbe stato portato in ospedale, come richiesto dal diretto interessato. Il marocchino, appunto, si è detto in grado di riconoscere almeno due degli agenti che hanno posto in essere questa violenza. Il legale del 32enne ha richiesto formalmente al Garante regionale di assicurarsi che venga trasferito il prima possibile in un altro carcere per ragioni di incompatibilità, tutelando la sua incolumità. Asti. “Una penna per due mani”: il libro che unisce studenti e detenuti lavocediasti.it, 22 febbraio 2025 Presentazione alla Casa di Reclusione di Quarto del progetto che abbatte barriere e pregiudizi attraverso la scrittura condivisa. Mercoledì 26 febbraio alle 9, la Casa di Reclusione di Quarto ospiterà la presentazione del libro “Una penna per due mani”, risultato del lavoro che ha coinvolto gli studenti del Liceo “A. Monti” di Asti, guidati dalla professoressa Paola Lombardi, e i detenuti della struttura penitenziaria. Il libro raccoglie racconti, pensieri e disegni, mostrandosi attraverso la duplice prospettiva di chi li ha realizzati; due punti di vista come due sono le copertine di questa opera. L’idea del progetto è nata grazie alla collaborazione tra l’Associazione “Effatà - Volontari del carcere - ODV” e il Liceo “Monti”, affinché si favorisca il dialogo e il confronto tra due mondi distanti all’apparenza, ma uniti nel racconto e nella volontà di costruire nuove opportunità di crescita, combattendo, così, i pregiudizi che spesso alimentano l’emarginazione sociale. Proprio per questo, il percorso di sensibilizzazione ha coinvolto gli studenti in incontri dedicati ai temi del carcere e della detenzione, dando loro l’opportunità di conoscere direttamente i detenuti che hanno partecipato al progetto, i loro “scrittori gemelli”. Inoltre, molto coinvolgenti sono state le attività culturali, tra cui la rappresentazione teatrale “Fine pena ora” di Simone Schinocca e la mostra itinerante “Art. 27”. Questo libro, già al centro di due importanti presentazioni nel 2023, al Teatro Alfieri e presso la Casa di Reclusione di Quarto, si è classificato al primo posto nella graduatoria del bando regionale del 21 novembre 2023 per iniziative di animazione sociale e culturale finanziate dalla Cassa delle Ammende. La partecipazione all’evento di mercoledì 26 sarà arricchita dalla proiezione di un video realizzato dagli studenti del Liceo “Monti” nell’ambito di un percorso di formazione finanziato con i fondi PNRR. L’evento è patrocinato dal Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dalla Casa di Reclusione di Asti, dal Comune di Asti, dalla Fondazione Biblioteca Astense “G. Faletti”, dalla Casa delle Ammende, dalla Regione Piemonte, da FuoriLuogo, dal CPIA e dal CSV. Brescia. “Progetto carcere”, con Uisp sport e inclusione nelle carceri di Verziano e Nerio Fischione quibrescia.it, 22 febbraio 2025 L’obiettivo è quello di proporre, nelle due case circondariali cittadine attività ludiche, sportive, culturali, musicali e formative, rivolte ai detenuti e alla società civile. Sabato 5 aprile, a Verziano, la 27esima edizione di “Vivicittà porte aperte - La corsa del diritto”. Anche quest’anno l’UISP Comitato Territoriale Brescia APS, Casa circondariale Nerio Fischione, Casa di Reclusione Verziano, in collaborazione con Associazione “Carcere e Territorio”, organizzano il “Progetto carcere” con obiettivo di proporre, nelle due strutture della città, Nerio Fischione e Verziano, attività ludiche, sportive, culturali, musicali e formative, rivolte ai detenuti e alla società civile. Nell’ambito del progetto sabato 5 aprile si svolgerà, nella casa di reclusione di Verziano, la 27esima edizione di “Vivicittà porte aperte - La corsa del diritto”, manifestazione podistica non competitiva con percorsi interni alla struttura di 3 e 6 chilometri, a cui parteciperanno una settantina di detenute e detenuti e circa 300 studenti maggiorenni di sette scuole superiori di Brescia e provincia. La manifestazione, che a livello nazionale coinvolge 80 città, vedrà il coinvolgimento di operatori sportivi di calcio e volley e del personale di Polizia Penitenziaria. Tra le altre attività per la sezione femminile della casa circondariale Verziano sono previsti: un corso di canto moderno con una docente musicale; attività settimanale in palestra di attività motoria di base e lezioni tecniche di pallavolo con gare tra detenute e volontarie Uisp, un incontro formativo sulla realtà delle carceri cittadine per detenuti e studenti degli istituti scolastici partecipanti al Vivicittà “Porte Aperte”. Iniziativa con festa musicale o altro, donazioni floreali e rinfresco in occasione della Giornata Internazionale della Donna (8 marzo); corso di pilates; torneo di volley femminile tra detenute e Istituti Scolastici Bresciani; corso Danze Popolari; festa natalizia con donazioni, rinfresco e concerto musicale in occasione della S. Lucia. Per quanto concerne poi la sezione maschile, sono previsti un torneo di calcio a 7 giocatori con squadre di detenuti e squadre esterne, dedicato alla memoria di Giancarlo Zappa, Magistrato di Sorveglianza e fondatore dell’Associazione “Carcere e Territorio” Onlus di Brescia; corsi di attività motoria di base, incontro formativo sulla realtà delle carceri cittadine per detenuti e studenti degli istituti scolastici partecipanti al Vivicittà “Porte Aperte”; corso di scacchi; “Coppa dell’Amicizia”: quadrangolare di calcio tra detenuti, e Istituti Scolastici; “Coppa Sorriso”: quadrangolare di calcio tra detenuti, studenti e squadre esterne. Per quanto concerne le attività all’interno del carcere “Nerio Fischione” sono in programma: un torneo di calcetto tra detenuti, squadre esterne e gruppi sportivi scolastici cittadini e/o provinciali; triangolari di calcetto tra detenuti e squadre partecipanti campionato UISP calcio; corsi e tornei di scacchi per le varie Sezioni della Nord e della Sud. Un incontro formativo sulla realtà delle carceri cittadine per detenuti e studenti degli istituti scolastici partecipanti al Vivicittà “Porte Aperte”. Vivicittà “Porte - Aperte” nella Casa Reclusione di Verziano (sabato 5 aprile 2025) corsa podistica internazionale tra detenuti “Nerio Fischione “, detenuti / e di Verziano, Agenti di Polizia Penitenziaria, atleti esterni, scuole superiori cittadine e della Provincia; un incontro con autorità civili, penitenziarie, realtà associative di volontariato. Tra le procedure legali e la metafisica della giustizia c’è il mistero della vita di Antonio Franchini La Stampa, 22 febbraio 2025 Pochi temi si prestano alla narrazione come il processo, dove si rappresenta la formazione del giudizio. Dai sanculotti alle Brigate Rosse, anche chi si professa rivoluzionario vuole la sentenza di un tribunale. Il processo visto da uno scrittore è una cosa, o una serie di cose. Visto da un giurista, è un’altra cosa. Certo, quando devono affrontare un argomento con aspetti molto tecnici e quando la ragione di fascino di quella materia sta proprio nei suoi dettagli, gli scrittori si documentano. E molti degli scrittori specializzati in legal thriller, o che hanno scritto anche legal thriller o romanzi riconducibili a quel sottogenere, dall’avvocato John Grisham negli Stati Uniti ai magistrati Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo da noi, sono autori con una formazione giuridica profonda, professionale, più che semplici appassionati della materia o, addirittura, estranei al tema che s’informano per l’occasione. Del resto, pochi argomenti si prestano a una narrazione come il processo, eppure, più che dalla scrittura, il processo è stato esplorato, indagato, saccheggiato dal cinema. Il clamore che accompagnò l’uscita della traduzione italiana di Presunto innocente di Scott Turow, nel 1987, testimoniava come da noi si sentisse la mancanza di un bel procedural con una forte intelaiatura giuridica. Certo, si osservava subito che il sistema giuridico americano è assai diverso e molto più spettacolare, anche se il nostro lettore deve fare un piccolo sforzo aggiuntivo per decodificare le cariche, i ruoli, le procedure, ma il processo penale italiano poco si presta, si diceva, per la sua stessa conformazione, a un racconto appassionante, finché arrivò, nel 2002, il successo di Testimone inconsapevole dell’allora esordiente Carofiglio a smentire questo ennesimo luogo comune. Un conto è l’uso narrativo che si può fare di tutti gli elementi che costituiscono un processo: l’escussione dei testimoni, le strategie della difesa e della pubblica accusa, il ruolo della giuria, l’esame delle prove, il fuoco retorico delle arringhe, la catarsi di una giustizia ristabilita con l’ultimo colpo di scena, l’intuizione geniale che sgomina in extremis l’imminente condanna; un altro è l’aspetto più alto e solenne del processo, quello inevitabilmente metafisico, quello che rimanda al giudizio universale, alla condanna dell’esistenza, alla pena inspiegabile del vivere, al Processo di Kafka, insomma. Ma questa stranota polarità è una troppo facile opposizione. Per superarla occorrerà prendere in mano uno di quelli che una volta si chiamavano “aurei libretti”. E allora apriamo la piccola opera di un grande scrittore che nasce grande giurista, e leggiamo Il mistero del processo di Salvatore Satta. Avanziamo tra le pagine smilze di questo testo pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi e, come succede quando riflessione teorica e letteratura si incontrano, sentiremo mancarci il terreno sotto i piedi. Satta apre ricordando un episodio semisconosciuto della rivoluzione francese: il 2 settembre 1792 l’appena costituito tribunale rivoluzionario sta giudicando il maggiore Bachmann della guardia svizzera del re, quando una folla inferocita di sanculotti che ha appena massacrato alcuni disgraziati prigionieri nelle carceri, irrompe nella sala del tribunale per aggiungere ai corpi già straziati dalla loro furia anche quello del maggiore, quando il presidente Lavau ferma gli invasori intimando loro di “rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. I sanculotti, ancora sporchi del sangue appena versato, arretrano perché: “hanno compreso che quanto essi hanno cominciato coi loro stracci insanguinati e la picca, questi borghesi in mantello nero e cappello piumato lo perfezionano sui loro seggi”. Su questi due gruppi di uomini che si affrontano non ci sono dubbi: uno è formato da assassini, ma anche gli altri, secondo l’uomo della strada, lo sono ed è come se dicessero: “Lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”. Che differenza c’è allora tra l’uccidere con l’azione diretta e l’uccidere attraverso un processo? Il processo, in realtà, sarebbe un atto antirivoluzionario, Danton infatti diceva: “Noi non vogliamo giudicare il re, vogliamo ammazzarlo”. Il carattere antirivoluzionario non è specifico del processo, ma si ritrova già nella legge che lo precede, non nella legge come contenuto, ma nella legge come forma. Così però è solo all’apparenza, perché il contenuto della legge è sempre un comando e il comando è un atto di onnipotenza e come tale non può non essere rivoluzionario. In realtà chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma quello giurisdizionale. Per questo il processo gode di una sua sostanziale autonomia di fronte alla legge. Il processo, una volta istituito, vive di vita propria e si ritorce come una serpe contro colui che l’ha allevata. E infatti i rivoluzionari non furono affatto soddisfatti dei risultati ottenuti dal loro tribunale e già l’anno dopo ne istituirono uno nuovo, perché: “spettava alla Convenzione far sparire tutte le difficoltà che inceppano il cammino della giustizia”. Allora Robespierre diede un giro di vite votando subito un decreto per cui “se un processo si prolunga per più di tre giorni, il presidente chiederà ai giurati se la loro coscienza è sufficientemente rischiarata, e se i giudici rispondono di sì, si procederà alla sentenza”. Che tradotto significa: sveltite al massimo le procedure per arrivare in fretta dall’aula alla ghigliottina. Quindi anche i rivoluzionari o i presunti tali il processo lo vogliono, per quanto a modo loro, come, due secoli dopo, le Brigate rosse lo vorranno per Moro sottoposto al giudizio del tribunale del popolo. Lo vogliono come una misura di sicurezza per distinguersi dall’assassinio. Ma a parte questo, si chiede Satta, qual è lo scopo del processo? E si risponde che il processo non ha uno scopo, perché lo scopo di un atto è qualcosa che sta necessariamente fuori dall’atto, e lo scopo del processo non sta né nell’attuazione della legge né nella punizione del reo e nemmeno nella giustizia, perché se ciò fosse vero sarebbe del tutto incomprensibile la sentenza ingiusta. Il processo non è che giudizio, anzi, formazione di giudizio, processus judicii, come recitava un’antica formula. Quindi se il processo ha uno scopo ce l’ha in se stesso, che è come dire che non ne ha alcuno. Processo e giudizio sono i soli atti della vita senza scopo. E questo non è un paradosso, secondo Satta, ma un mistero: il mistero del processo e il mistero della vita. Ne L’affaire Moro, Leonardo Sciascia, lo scrittore che più di ogni altro si è interrogato sulle procedure indagandole nella loro essenza, scrive che bisogna riconoscere ai brigatisti in quanto carcerieri un’etica carceraria maturata sulla lettura - o sul sentito dire - dei testi di Foucault: “Figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista, gli uomini delle Brigate rosse hanno però respirato la polemica del “sorvegliare e punire” e introdotta questa esile vena libertaria nella loro pietrificata ideologia”. Le Brigate rosse - continua Sciascia - resero pubbliche le lettere di Moro finché durò il processo (“rendiamo pubbliche le lettere perché niente deve essere nascosto al popolo”), ma dal momento della condanna in poi nessuna delle lettere fu più resa nota da loro. Uomo pubblico durante il processo, e quindi senza diritto al segreto, dopo la condanna a morte i suoi sentimenti andavano tutelati e quindi riacquistavano il diritto alla segretezza. Non c’è omicidio politico che non si sia dato le proprie regole etiche. Ma lo stesso Sciascia, ermeneuta delle sottigliezze del diritto e delle sue degenerazioni come delle acutezze della cultura popolare, si sarebbe certo trovato d’accordo nel vedere il momento più alto della rappresentazione del processo nel capitolo XIX di Pinocchio, quando il burattino, andato a denunciare il Gatto e la Volpe che lo hanno derubato, si trova al cospetto di una severa figura di giudice : “uno scimmione della razza dei Gorilla, rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e per i suoi occhiali d’oro senza vetri (…) Il giudice lo ascoltò con molta benignità, prese vivamente parte al racconto, s’intenerì, si commosse (…) e accennando Pinocchio ai gendarmi disse loro: “Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione”. Certo, le altezze del pensiero. Ma per milioni di italiani, nei secoli, il “mistero del processo” è stato soprattutto questo. Nel processo si sta come sul ponte tibetano tra le corde e il vuoto di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 22 febbraio 2025 Recensione al saggio “Prima lezione sulla giustizia penale”, di Glauco Giostra Editore Laterza. “Giudicare. Un compito necessario e impossibile a un tempo. Necessario, soprattutto quando abbiamo a che fare con fatti di reato, perché una società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità. O, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita”. Incipit della nuova edizione ampliata e aggiornata della Prima lezione sulla giustizia penale di Glauco Giostra, professore emerito di procedura penale presso l’Università la Sapienza di Roma. L’autore ripropone l’immagine del processo “come uno stretto ponte tibetano… Affinché abbia tenuta sociale è necessario che la collettività riconosca che lo stesso costituisce la via meno imperfetta e per cercare di attingere la verità nel contesto storico, culturale e scientifico in cui è chiamato ad operare: soltanto così il prodotto finale, la sentenza, si rende eticamente accettabile e socialmente accettato, nonostante la sua insopprimibile fallibilità”. L’intento di dirigersi anche a lettori non giuristi è raggiunto grazie alla chiarezza dell’esposizione, nonché al Glossario, cui nel testo si fa rimando quando compaia un indispensabile termine specialistico. Le duecento pagine del volumetto sono ricchissime di spunti di approfondimento per chi abbia già avuto modo, come studioso o pratico, di confrontarsi con le tematiche del processo. Troviamo analisi accurate, anche prese di posizione nette, ma proposte sempre all’esito di un esame degli argomenti pro e contro; mai scorciatoie argomentative o posizioni “assolutiste”. Il nucleo centrale della riflessione è nella parte intitolata “Il volto costituzionale della nostra giustizia penale”. La svolta con il codice di procedura penale del 1989: “Il tempo del “più informazioni si hanno, meglio si decide”, doveva lasciare il posto ad un “meglio si decide, quando le informazioni sono assunte con un metodo che ne garantisca l’affidabilità”. Dieci anni dopo, superate resistenze e passi indietro, le regole del giusto processo vengono fissate “con la riscrittura dell’articolo 111 della Costituzione, peraltro di assai discutibile fattura tecnica”. Dopo la netta presa di posizione: “Il contraddittorio costituisce uno strumento, ancor oggi il meno imperfetto, per la ricerca della verità o meglio per ridurre il più possibile lo scarto fra verità giudiziale e verità storica” (p.45-46), l’autore mette in guardia contro ogni “sorta rappresentazione “agiografica” del nostro sistema processuale: avere consapevolezza critica dei suoi limiti può servire al legislatore e all’interprete almeno per contenerne le conseguenze” (p. 50). Infatti “Il processo penale costituisce l’ambito giurisdizionale in cui il contraddittorio risulta di più necessario, ma anche di più difficile realizzazione” (p. 55). Non si sottace la difficoltà di assicurare la cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa: “A differenza di quanto accade nel processo civile, in cui contendenti disputano per l’affermazione dei propri speculari interessi, nel processo penale abbiamo un soggetto privato che difende la sua libertà e la sua reputazione e un soggetto pubblico che non ha interessi in senso proprio a limitare la prima e a macchiare la seconda, ma che deve accertare con obiettività l’esistenza di un fatto penalmente rilevante e individuarne il responsabile”. Richiamata la imparzialità istituzionale del Pm, Giostra avverte quanto operi la “legge psicologica dell’inerzia” (Cesare Musatti): “L’organo inquirente formula un’ipotesi per cercare la verità, ma sovente finisce per cercare la verità della sua ipotesi. Ha un’attenzione selettiva, una visione monoculare, parziale della realtà. In questi ineludibili termini il pubblico ministero è parte”. Non giova eludere le differenze: “Il legislatore ordinario è chiamato quindi ad un compito molto difficile: non deve puntare ad un’impossibile uguaglianza delle parti, attesa la congenita asimmetria strutturale del rito penale, ma deve costruire un sistema in cui l’accusa e la difesa abbiano equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale e quindi sull’esito finale del processo”. Di qui la particolare attenzione al contraddittorio nella formazione della prova. Sottolinea l’autore che il contraddittorio trova la sua massima espressione quando sono assicurate l’oralità e la contestualità del confronto. La pratica, peraltro, ci insegna quanto i tempi lunghi dei dibattimenti finiscano per mettere in crisi questi principi. Quando i giudici (togati e popolari) si ritirano in camera di consiglio per la decisione a conclusione di un dibattimento durato mesi se non anni, il ricordo dell’assunzione orale della prova è soppiantato dalla rilettura del verbale di quella udienza. Il principio della ragionevole durata del processo è sì un diritto dell’imputato, ma anche garanzia di un processo giusto, che si fondi sull’effettività dei principi del contraddittorio e dell’oralità. La parte III è dedicata alla ricognizione delle “Strutture portanti dell’attuale processo penale”, segnalando le innovazioni più recenti. Oggi, sulla richiesta del Pm di applicare una misura cautelare, decide il Gip come giudice singolo; con legge del 2024 si è previsto un Gip collegiale. L’entrata in vigore della riforma è stata rinviata di due anni, ma si può sin da ora prevedere che formare questo collegio di tre giudici sarà possibile, e con difficoltà, solo nei grandi Tribunali metropolitani, una dozzina in tutta Italia. Per il resto si dovrebbe provvedere con magistrati applicati ad hoc, magari provenienti dal settore civile, con una serie di ricadute negative a livello organizzativo. Una recentissima modifica ha introdotto la figura dell’interrogatorio anticipato per garantire un confronto preventivo tra accusa e difesa dinanzi al giudice prima che questi si pronunci sull’emissione del provvedimento cautelare. Anche qui ottimo proposito, ma di difficile praticabilità, soprattutto perché calibrato su indagini con un solo indagato, mentre nella realtà normalmente gli indagati sono diversi. Ancora una innovazione di grande interesse: la “giustizia riparativa”, ma, avverte Giostra, come sia “impervia la difficoltà di disciplinare le interazioni tra il percorso di giustizia riparativa e il processo penale. Abbiamo a che fare infatti con due mondi che hanno grammatica e sintassi più che diverse opposte”. Infine, la parte IV: “La narrazione della giustizia penale”. La giustizia “è amministrata in nome del popolo” (art. 101 co. 1 Cost): dunque informazione sul modo con il quale viene resa giustizia, quale controllo e fonte di legittimazione. Amara la conclusione dell’A. all’esito di un’ampia trattazione di tutte le problematiche coinvolte. “Ogni ordinamento moderno è alla difficile ricerca di un punto di equilibrio ottimale tra le esigenze dell’informazione, della giustizia e della riservatezza individuale. A me sembra che quello espresso dal nostro sia largamente insoddisfacente: mal tutelate le prime, iperprotettive le seconde, garantite random le ultime” (p.174). Non si può evitare una notazione su un tema di attualità. La separazione delle carriere è ritenuta da più parti imposta dal modello accusatorio; il Ministro Nordio addirittura evoca la categoria teologica del “consustanziale” (Concilio di Nicea). A fronte della grandissima attenzione alla effettività del contraddittorio e alle garanzie di difesa colpisce che alla questione della separazione Glauco Giostra dedichi non più di poche righe ritenendo “angusti i margini in termini di architettura del sistema per separare a livello ordinamentale il pubblico ministero dal giudice senza mettere a rischio l’indipendenza del primo, che pure la stessa costituzione vuole sia assicurata” (p. 60). Questione non eludibile. Ed infine l’Epilogo, con le parole dell’A. “Se dalla nostra piccola lezione ormai al termine fossimo riusciti a ricavare la grande lezione della irrinunciabilità etica e politica di questa nostra giustizia imperfetta, amministrata da uomini imperfetti, ma indipendenti da ogni potere e soggetti soltanto alle imperfette regole a cui la collettività chiede loro di attenersi, avremmo ben speso il nostro tempo” (p.186). Chi avrà modo di leggere questa Prima lezione ne trarrà una guida per avventurarsi nei tanti problemi aperti della nostra giustizia, fuori dell’approssimazione, della faziosità e della demagogia oggi così diffuse. Populismi e risposte non date di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 febbraio 2025 Le rivendicazioni (anche giuste) sono come una gigantesca antenna piantata in una comunità, capace di captarne i bisogni e di rilanciarli amplificati. Ma questa antenna ha un limite: non trasmette soluzioni serie e praticabili, come dimostra la storia. Però i suoi segnali possono comporre una mappa preziosa per chi, pur avendo risposte da attingere in un patrimonio di libertà e democrazia, ha smesso di ascoltare il grido di dolore delle proprie comunità. Chi è un populista? Uno che fa promesse da marinaio, diremmo d’impulso: conscio di non poterle davvero mantenere. Ma basta cambiare la domanda per capire qualcosa di più: cos’è un populista? Qui la risposta si fa decisamente più articolata e non può non pescare nel nuovo corso del trumpismo, per poi coinvolgere fino in fondo noi europei. Yascha Mounk s’è spinto a sostenere che con il secondo mandato di The Donald alla Casa Bianca è iniziata l’era del populismo multietnico e aspirazionale. Il giovane politologo de La trappola identitaria, colpito dalla citazione del “sogno di Martin Luther King” nel discorso inaugurale del neopresidente, ha osservato come la base del vecchio partito repubblicano sia profondamente cambiata, includendo latinos, asiatici, afroamericani (il capo dei Proud Boys è afrocubano...), tutti nuovi elettori di Trump e tutti da lui debitamente ringraziati. L’idea del populismo come ricetta buona ad attrarre maschi bianchi, anziani e reazionari, in America non regge più. Nuove generazioni di migranti regolari, nuovi americani lontani dall’iconografia wasp, vedono come una minaccia la frontiera con il Messico, troppo facilmente permeata dai clandestini, e come un’inutile costrizione le quote “DEI” (diversità, equità, inclusione) in un Paese assai diverso da quello dei nonni e dei genitori, dove hanno voglia di competere con le proprie forze; anche le guerre per la libertà dell’Europa, per chi non ha radici europee, appaiono meno comprensibili e non giustificano il sacrificio dei giovani americani. E così ecco la risposta alla nostra seconda domanda: un populista è una sorta di ripetitore; una gigantesca antenna piantata in una comunità, capace di captarne i bisogni e di rilanciarli amplificati. Trump può spaventarci e persino indignarci, ma sin dal suo primo mandato ha mostrato di avere almeno questo talento coi suoi forgotten men, i dimenticati dal successo globalizzato. Ed è a questo punto che la lezione americana comincia a riguardarci. In una realtà politica disarticolata e in rapida trasformazione, vanno creandosi anche nelle nostre società aggregazioni pragmatiche che sfuggono al vecchio schema binario destra-sinistra: su questioni che attengono alla vita di tutti, come ad esempio l’immigrazione clandestina, con l’inevitabile corollario della sicurezza. Questa semplice constatazione ha spinto, come sottolineato da Antonio Polito su queste colonne, alcuni leader della sinistra europea a fare la faccia feroce coi migranti per recuperare consensi: il premier inglese Starmer, “copiando” Trump, pubblica i video delle loro deportazioni, il tedesco Scholz sospende il trattato di Schengen, lo spagnolo Sánchez tenta con partner africani gli stessi accordi fatti dalla nostra Giorgia Meloni in Tunisia (e da Minniti in Libia, a suo tempo). Ma qui si aprono due ordini di problemi. Innanzitutto, com’è ovvio, gli elettori tra l’originale e una sua imitazione un po’ forzata scelgono spesso l’originale (la destra). In secondo luogo, non c’è nulla di meccanicamente trasferibile da una realtà sociopolitica all’altra: in soldoni, non tutti gli ingredienti degli Usa fanno una buona minestra europea. Il nostro welfare universalistico è imparagonabile a quello residuale e privatistico americano, ciò che per la vecchia Europa è un rischio per un’America ancora giovane può apparire un’opportunità. Più che mai al di qua dell’Atlantico, dunque, quando parliamo di sicurezza dobbiamo essere capaci di declinarla in due modi: la sicurezza delle frontiere e lo stato di sicurezza sociale. Keynes, che visse da testimone privilegiato gli eventi che portarono alle grandi guerre del Novecento, centrò i suoi saggi proprio sulla questione dell’incertezza: era quella psicosi collettiva ad avere corroso le istituzioni liberali. Per uscire dal raffronto, le comunità politiche europee, e segnatamente i progressisti se vogliono ancora competere con le destre emergenti, devono trovare il modo di conciliare due “esse”: sicurezza e solidarietà. Andare “oltre la paura” è un bello slogan ma va riempito. Oltre la paura ci sono le categorie del nostro disagio sociale, segnate da timori, diremmo, “keynesiani”: la risposta allo stato di incertezza sul futuro è la fiche in più da giocare sul tavolo. Una fiche costosa, specie in costanza dell’ormai inevitabile impennata di spesa e debito per la difesa europea. E, tuttavia, se gravi pericoli incombono alle frontiere, pericoli non minori possono derivare da un collasso del fronte interno. Non si tratta solo di svuotare stazioni e sottopassi dai migranti irregolari, si tratta di rispondere alla domanda di protezione sociale dei migranti regolari e degli autoctoni, evitando che il disperato attrito tra disagiati infiammi una convivenza civile già surriscaldata dalla propaganda sovranista. In un bellissimo saggio, Guasto è il mondo, Tony Judt parlava di “socialdemocrazia della paura”. Pare un nonsense rispetto all’idea diffusa che abbiamo della paura come rampa di lancio per i nuovi totalitarismi del XXI secolo: ma non lo è. Indica piuttosto una strada di difesa e di diffusione delle leggi, dei servizi e dei diritti che l’Europa ha conquistato nel Novecento. È questa la promessa per tenere insieme le mille diversità della nostra convivenza difficile, il nostro prezioso Dna. Può far sorridere in questi giorni di sbandamento dell’Unione europea. E invece sicurezza e stabilità derivano anche dalla salvaguardia di chi è minacciato di estinzione economica. La grande antenna populista piantata nelle nostre società ha un limite: non trasmette soluzioni serie e praticabili, come dimostra la storia. Ma i suoi segnali possono comporre una mappa preziosa per chi, pur avendo risposte da attingere in un patrimonio di libertà e democrazia, ha smesso di ascoltare il grido di dolore delle proprie comunità. Repressione e logica punitiva non sono mai la risposta di Valeria Valente* Il Dubbio, 22 febbraio 2025 In un tempo di crescenti paure, di maggiori precarietà e incertezze sul futuro, il bisogno di sentirsi più sicuri, a proprio agio nella propria casa e nella propria città coinvolge tutti e tutte e per questo interroga la politica. E, come sempre avviene quando parliamo di tutele e diritti, anche l’insicurezza riguarda tutti ma non allo stesso modo: chi è più solo, più vulnerabile, ha meno risorse e opportunità rischia di pagare un prezzo più alto. Lo sappiamo bene come donne, abituate ad essere spesso le più colpite di fronte ai grandi cambiamenti, sul piano sociale, politico ed economico. Proprio per questo la questione non può che riguardare le forze democratiche e progressiste e in particolare il Pd, che per sua stessa vocazione è chiamato a stare accanto a chi è più esposto e più svantaggiato. Tanto più davanti a un governo di destra che continua ad affrontare la questione in una logica esclusivamente repressivo- punitiva, ricorrendo quasi ossessivamente solo al diritto penale. In questi due anni e mezzo abbiamo assistito all’introduzione di molte nuove fattispecie di reato e al progressivo aggravamento delle pene, per arrivare persino con il ddl sicurezza a norme che criminalizzano il dissenso e la libertà di manifestare le proprie opinioni. Un approccio non solo inefficace e pericoloso per la sicurezza, ma che mina le fondamenta del nostro Stato di diritto, arrivando nei fatti a proporre un vero e proprio scambio tra libertà e promesse di protezione che può sembrare innocuo ma che invece colloca il Paese su una china pericolosa. Come ha detto Gherardo Colombo, la valutazione delle politiche di sicurezza dipende da come si ritiene giusto organizzare la società, se secondo un criterio di supremazia per il quale chi sta in alto comanda e costringe ad obbedire chi sta in basso, oppure di condivisione, per il quale sono importanti il confronto e il dialogo. È bene ricordare che la nostra Costituzione ha scelto il secondo modello. E allora, per noi la sicurezza è, certamente, presenza delle forze di polizia sul territorio, impegnate a garantire tanto l’ordine pubblico quanto la lotta ai poteri criminali. Questo utilizzando appieno la loro esperienza e le loro competenze, che invece nel modello della destra vengono compresse, a volte mortificate, per costruire una vera e propria filiera di obbedienti. Sugli agenti di strada vengono per esempio scaricati i maggiori rischi e le tensioni di piazza, inevitabili proprio perché manca una strategia politica di prevenzione e perché si usa il pugno di ferro contro il dissenso, e in cambio di questa sovraesposizione si offre loro qualche tutela (fino a ipotizzare, sul fronte giudiziario, una sorta di scudo penale) e qualche strumento operativo in più. Ma in ogni caso l’ordine pubblico da solo non può bastare. La vera scommessa non può che essere quella della lotta a tutte le forme di esclusione e marginalità sociali. È lì che ci giochiamo il risultato e l’efficacia di tutte le possibili politiche di sicurezza. Le ferite urbane vanno rimarginate e per farlo servono politiche integrate, dalla lotta al disagio sociale e alle povertà, alle politiche di inclusione ed educative, alla pianificazione e riqualificazione degli spazi urbani. Gli esclusi restano, e potenzialmente rappresentano sempre, il terreno più fertile per la violenza e la rabbia sociale, siano essi italiani o stranieri. Ecco perché servono, insieme a più agenti in strada e un maggiore controllo del territorio, politiche sociali che favoriscano l’integrazione di tutte e tutti. Gli attori principali di queste politiche non possono che essere i sindaci, che conoscono meglio di chiunque il territorio e le sue peculiarità e sono in grado di calibrare e pianificare gli interventi più efficaci. Non a caso la nostra segretaria Elly Schlein è partita dalle sindache e dai sindaci dem per costruire il profilo delle politiche di sicurezza del Pd, visto che tra l’altro i nostri primi cittadini sono portatori di buone pratiche, oltre che di nuovi bisogni da ascoltare. Infine la parola sicurezza è per noi inseparabile dalla parola libertà. Sono stati i femminismi a mettere al centro della loro elaborazione da sempre la libertà e l’autodeterminazione delle donne. Il pensiero della differenza può dunque essere d’aiuto anche per concepire un modello orizzontale e differente di sicurezza, radicalmente alternativo alla destra, imperniato sulla cura delle persone e sulla loro inclusione, fondato sulla partecipazione, sulla collaborazione, sul dialogo, sulla responsabilità. Sicurezza viene dal latino “sine cura”, senza preoccupazione. Significa non doversi preoccupare in solitudine della propria incolumità perché lo Stato, la comunità, tutti e ciascuno si assumono anche questo pezzo di responsabilità. Discutiamo quindi di sicurezza, anche a sinistra, a partire dal pensiero delle donne, che ancora una volta ci viene in soccorso. *Senatrice Pd Credere nella Corte penale internazionale è un atto di resistenza di Angelo Stirone Il Domani, 22 febbraio 2025 È chiaro che la giustizia penale internazionale non ha sempre saputo rispondere adeguatamente, tuttavia è un’istituzione che ha saputo effettuare scelte coraggiose anche se impopolari, come quella di incriminare capi di stato di Paesi potenti. In questo senso, la Corte ha saputo rappresentare quell’ideale di giustizia universale. Le atrocità dei crimini contro l’umanità che si dipanano in diverse parti del mondo non sconvolgono più, non solo perché percepite come lontane, ma ancor di più perché diventano quotidiane, accettata normalità, e perciò non smuovono la coscienza dei più. Deve essere questo il motivo per cui una sempre maggiore parte di mondo ha perduto di vista quella scintilla che, di fronte alle mostruosità della Seconda guerra mondiale, aveva spinto l’umanità ad unirsi nel grido del “never again”, da cui sono emerse le ragioni del multilateralismo e le regole del diritto internazionale poste a presidio dell’umanità contro crimini così indicibili. Da tali ceneri nascevano i Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda e, più tardi, la Corte penale internazionale. Ma, di fronte alla crisi odierna della giustizia penale internazionale, vale chiedersi se quel “mai più” ha davvero significato qualcosa, o se, come si interrogava il giudice Chile Eboe-Osuji, è stato solamente un mantra privo di significato. La crisi in cui versa la Corte penale internazionale rappresenta l’emblema di un sistema che tracolla, che non è più riscontro di quell’esigenza che lo aveva portato alla vita. È chiaro che la giustizia penale internazionale non ha sempre saputo rispondere adeguatamente (si pensi a Srebrenica, alla guerra in Iraq e Afghanistan, alla Siria) e spesso è stata la giustizia dei forti o dei vincitori (basti ricordare i bombardamenti della NATO in Serbia nel 1999). La stessa Corte ha più volte prestato il fianco a critiche, specialmente per essersi per molto tempo rivolta solamente al mondo africano. Si tratta, però, di un’istituzione che - nonostante le numerose difficoltà (budget limitato, impossibilità per gli investigatori di operare sul campo in molti casi, ecc.) - ha saputo effettuare scelte coraggiose anche se impopolari, come quella di incriminare capi di stato di Paesi potenti e che ha dato contributi significativi, diventando la pietra angolare dell’architettura della giustizia penale internazionale. In questo senso, la Corte ha saputo rappresentare quell’ideale di giustizia universale che rafforza il principio del never again e lo trasforma in un impegno concreto, per cui di fronte ad atrocità di massa e all’indicibile malvagità dei crimini contro l’umanità, del genocidio e dei crimini di guerra, nessuno può rimanere impunito. Non solo è divenuta simbolo, ma anche deterrente. Ciò pur operando nell’ambito della grammatica della complementarità ossia come tribunale di ultima istanza, che interviene solo quando gli Stati si dimostrano “unwilling and unable” di far fronte alla gravità degli eventi che si verificano nei loro territori. Vale, perciò, il principio per cui la giustizia domestica dovrebbe sempre prevalere, poiché esprime una maggiore vicinanza ai luoghi di commissione dei fatti, alle vittime e, quindi, propone una giustizia che possa essere percepita, a condizione, però, che di giustizia si tratti. E sebbene la Corte in questo senso sembri voler farsi da parte, essa non può accettare di essere messa da parte, poiché rappresenta il baluardo fondamentale contro l’impunità dei più gravi crimini che interessano la comunità internazionale e la volontà di non cedere il passo dinanzi ai potenti che erigono barriere politiche e costrutti giuridici per sfuggire al giudizio degli uomini e del mondo. Oggi, la Corte dell’Aia è pesantemente sotto attacco e rischia di perdere la propria legittimità, se non addirittura il proprio posto nel mondo. Le sanzioni imposte da Trump e la crescente sfiducia della comunità internazionale potrebbero, infatti, minarne radicalmente il mandato di giustizia. Anche l’Italia, con la nota vicenda Almasri, ha scelto di voltare le spalle alle ragioni ed al significato della Corte e a quella celebre tradizione giuridica e culturale, espressa al suo massimo livello da Cassese, che ha forgiato le fondamenta della giustizia penale internazionale, abdicando così al proprio ruolo di primo piano in questa materia. Il rifiuto di firmare la dichiarazione congiunta di 79 Stati parte dello Statuto a sostegno dell’indipendenza, dell’imparzialità e dell’integrità della Corte penale internazionale di fronte alle sanzioni di Trump, esprime proprio questa preoccupante visione. Si tratta di scelte che dimenticano i motivi e le ragioni che giustificano l’esistenza della Corte, così come le regole che ne consentono il funzionamento, provenendo, peraltro, anche dallo Stato che ha ospitato la conferenza che ha dato vita allo Statuto di Roma. A tacer del fatto che l’imposizione di sanzioni alla Corte penale internazionale rappresenta un crimine ai sensi dello Statuto, un reato contro l’amministrazione della giustizia secondo l’articolo 70, paragrafo 1, lettere d) ed e). Ovviamente, la Corte non può conservare il proprio significato senza essere in grado di operare in modo indipendente. In tal senso, essa abbisognerebbe di uno “scudo” che, però, non può essere fornito esclusivamente da alcuni Paesi o dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - a meno che non venga riformato in modo da essere realmente funzionale - ma che deve provenire dall’intera comunità internazionale, attraverso meccanismi che, rifondando le basi del multilateralismo, propongano un sistema diverso e più efficace, poiché una Corte senza budget, oggetto di scherno e sanzioni, equivale ad una Corte che non può adempiere alla propria missione. Tale risposta, infatti, deve provenire dall’intera comunità internazionale, intesa come unione di Stati piccoli e grandi che, come è successo per le piccole isole che hanno intrapreso la lotta per il clima, divengano attori di un sistema multilaterale di regole e diritti che elimini la possibilità di veti e nazionalismi, i quali destabilizzano e minacciano la pace e la sicurezza globale. Solo in questo modo si permetterebbe anche alla Corte penale internazionale di rimanere indipendente e di operare senza cedere alle pressioni politiche, così garantendo che crimini di tal fatta non rimangano impuniti. La Corte, dunque, non solo va salvata, cosicché il significato che esprime non diventi mero simulacro di giustizia, ma abbisogna di essere sostenuta e posta in condizione di operare, affinché continui a rappresentare la resistenza dell’umanità contro la minaccia del male assoluto di crimini così indicibili. Stati uniti. Due modi diversi di pascolare le pecore cattive finite nel braccio della morte di Valerio Fioravanti L’Unità, 22 febbraio 2025 In ambito protestante, quelli che noi chiamiamo sacerdoti, o preti, si chiamano “pastori”. Nelle intenzioni di Lutero questo voleva rimarcare, in polemica con il cattolicesimo, che la chiesa è una emanazione degli uomini, non di Dio. Non esistono persone che hanno ricevuto una particolare chiamata “sacra”, da Dio in persona, ma sono, più terrenamente, persone esperte della lettura delle Scritture, e che in nome di questa cultura sono in possesso dei rudimenti per essere “buoni pastori dei loro greggi”. A volte le pecore si perdono, e conosciamo tutti la parabola del buon pastore che lascia il gregge principale per andare a cercare quella smarrita. Due storie di pastori protestanti negli Stati Uniti, apparse sui media a distanza di 24 ore, ci raccontano che a volte si smarriscono le pecore, e a volte, forse, i pastori. In Texas, Steven Nelson, 37 anni, bianco, è stato giustiziato con un’iniezione letale il 5 febbraio 2025. Nel 2011, rapinando una chiesa, uccise un giovane pastore, e ferì gravemente l’anziana “perpetua”. Si trattava di una chiesa di culto Battista, anche se, immagino, la variante del culto risultasse del tutto indifferente al tossicodipendente Nelson, che cercava solo delle vittime facili. Dopo l’esecuzione un giornalista è andato ad ascoltare il sermone della domenica del pastore “senior” della stessa chiesa, Dennis Wiles, e visto che non aveva speso una parola per il giustiziato, ha pensato di intervistarlo su questo silenzio. “Come chiesa, quello che abbiamo fatto negli ultimi 14 anni è stato adempiere alla nostra responsabilità pastorale, e abbiamo pastorato la famiglia di Clint e la famiglia di Judy. La mia responsabilità, a mio parere, è quella di continuare a guidare questa chiesa e pascere quelle due famiglie”. Le due famiglie delle vittime. Anche dopo il garbato sollecito del giornalista, non una parola per il criminale. Né di pietà, né niente. Come se la pecora smarrita, smarritissima, non rientrasse nemmeno di sfuggita nel disegno divino. In Tennessee, nel braccio della morte, un’altra chiesa protestante, in questo caso Evangelica, ha autorizzato uno dei detenuti, Kevin Burns, a essere ordinato pastore. Burns, figlio a sua volta di un pastore, a 19 anni era rimasto coinvolto come “palo” in una rapina costata la vita a due giovani. Riscoperta la Bibbia in carcere, a un certo punto, era diventato “vice” del pastore Kevin Riggs, che dalla locale chiesa Evangelica andava la domenica a officiare messa per i condannati a morte. Riggs nel 2016 parlò con i suoi superiori dell’idea di ordinare Burns. Dopo attenta riflessione, si dichiararono d’accordo, ma non volevano che fosse un gesto spettacolare, di propaganda, o di pietà. Volevano che Burns seguisse lo stesso processo di ordinazione di ogni altro candidato “libero”. Non gli è stato chiesto di laurearsi in seminario, questo non era possibile, ma dopo avergli fornito i libri necessari, e con il Pastore Riggs che gli ha fatto da tutor, quando è stato il momento di sottoporlo all’esame di abilitazione non gli sono stati fatti sconti. Superato il vaglio sulle sue conoscenze teologiche, sulla sua fede, sulla sua vocazione di ministro, sulla teologia, sulle Scritture, e su questioni sociali, il condannato Burns nel 2018 ha potuto celebrare un servizio di ordinazione nel braccio della morte, con i suoi genitori e sua sorella presenti insieme a Riggs e altri. L’amministrazione del carcere di Riverbend, ha detto, ha fatto l’impossibile per organizzare la funzione. Tutti hanno cantato inni e pregato. Riggs ha tenuto un discorso di ordinazione, poi Burns ha predicato e ha distribuito la comunione che per i Protestanti non avviene attraverso l’ostia, ma bevendo vino da un calice comune, e staccando un pezzo di pane da una pagnotta. Da allora, negli ultimi 7 anni, è Burns che celebra messa nel braccio della morte, ed è lui che accompagna gli altri condannati nelle ore prima dell’esecuzione, sempre sperando che non tocchi a lui essere il prossimo. Riggs e altri volontari della chiesa madre spesso partecipano al rito domenicale e, viceversa, a Burns viene chiesto periodicamente di essere lui a tenere il sermone per i fedeli “esterni”. Può farlo utilizzando il diritto a telefonate settimanali di 30 minuti. Burns predica per telefono, e il suo mentore Riggs scherza con il giornalista che lo intervista, e racconta che alla sua congregazione piace quando è Burns a predicare: sanno che sarà limitato a 30 minuti, non come Riggs, che a volte parla un po’ più a lungo. Storie di pastori, delle loro pecore nere, e delle forme misteriose che può prendere, o non prendere, la grazia. Congo. Cosa rimane dell’omicidio Attanasio? di Giusy Baioni Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2025 Quattro anni e nessuna verità per lui, Iacovacci e Milambo. E la seconda inchiesta rischia l’archiviazione. Ma il nuovo legale della famiglia del carabiniere, l’avvocato Lorenzo Magnarelli, ha depositato due memorie tecniche e la relazione di un giuslavorista. Sono trascorsi quattro anni dal 22 febbraio 2021. La Russia ancora non era stata esclusa dal consesso delle nazioni, alla Casa Bianca si era insediato Biden da un mese, in Italia l’ennesima crisi di governo si era appena risolta con l’incarico a Mario Draghi e in Repubblica Democratica del Congo il presidente Félix Tshisekedi aveva appena assunto la presidenza di turno dell’Unione Africana, ma fronteggiava una crisi interna che rischiava di mandare all’aria la sua maggioranza di governo. All’est del Paese, i venti di guerra mai sopiti parevano però in un periodo di bonaccia e il movimento M23 era solo un ricordo del recente passato. Nessuno si aspettava che di lì a pochi mesi sarebbe risorto dalle sue ceneri. Quel contesto, quei luoghi (mai visitati dagli inquirenti italiani) sono oggi irrimediabilmente compromessi. E così, probabilmente, anche molti dei testimoni diretti del triplice omicidio dell’ambasciatore italiano a Kinshasa, Luca Attanasio, del carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e dell’autista del Programma alimentare mondiale (Pam), Mustapha Milambo, sono ormai irrintracciabili. Del resto, quanto avvenuto il 22 febbraio 2021 sulla Route Nationale 2 che da Goma sale verso Rutshuru è, per la gente del posto, “solo” una delle tante tragedie che funestano la regione da decenni. A Kinshasa il procedimento di primo grado contro i sei presunti esecutori materiali (di cui uno processato in contumacia) si era concluso con una condanna a morte poi tramutata in ergastolo, pur basata su elementi di prova la cui solidità rimane dubbia. A Roma, il non luogo a procedere nei confronti dei due funzionari del Pam (accusati dalla procura di omicidio colposo) pare aver messo una pietra tombale sulle speranze di giustizia. Resta aperto un altro fascicolo, contro ignoti, che alcune fonti sentite da Ilfattoquotidiano.it danno però come prossimo all’archiviazione. Eppure c’è chi non si rassegna. Le famiglie delle vittime, anzitutto. I genitori di Luca Attanasio, il fratello di Vittorio Iacovacci. E poi c’è l’associazione Amici di Luca Attanasio e tanti altri gruppi che si sono aggiunti in questi anni, scoprendo la vicenda e rimanendone profondamente colpiti. “Sono trascorsi quattro anni - ci dice Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore ucciso - e ancora non c’è nessuna verità certa. Solo tantissime ipotesi diverse di cui non si hanno prove. Non dimentichiamo che c’è un secondo procedimento aperto presso la Procura di Roma di cui nessuno, nemmeno i nostri avvocati, conoscono il contenuto perché gli atti saranno accessibili solo quando il fascicolo sarà chiuso. Speriamo possano esserci nuovi spiragli e speriamo che stavolta lo Stato italiano non si tiri indietro”. ?Già. Le istituzioni italiane, che nel processo a Kinshasa si erano costituite parte civile e che avevano contribuito a trasformare in ergastolo le sei condanne a morte, in Italia invece non solo hanno rifiutato la costituzione di parte civile, ma hanno nella sostanza avallato la posizione del Pam sostenendo che i due funzionari avessero diritto all’immunità funzionale “per consuetudine”. Eppure anche questo dato pare non essere così incontrovertibile e si sarebbe quanto meno potuto provare a scalfirlo in punta di diritto. Proprio questo sembra intenzionato a fare il nuovo legale che è subentrato lo scorso dicembre a fianco della famiglia Iacovacci: l’avvocato Lorenzo Magnarelli, del Foro di Roma, ha subito giocato una mossa che potrebbe cambiare le carte in tavola. Come spiega lui stesso a Ilfattoquotidiano.it, sono state depositate due memorie tecniche e la relazione di un giuslavorista. “Nel procedimento penale siamo spesso di fronte alla dicotomia fra ciò che è giusto e ciò che è semplice - esordisce - Dunque, io sono stato nominato dai congiunti del carabiniere scelto Vittorio Iacovacci per verificare se tutte le scelte compiute finora in Italia dalla Procura di Roma siano complete o siano invece perfettibili. E in effetti ho concluso che non si siano esplorate tutte le possibili responsabilità riguardo ai fatti di quattro anni fa. Se i due funzionari del Pam erano accusati di omicidio colposo, ma non sono processabili, ho ritenuto necessario segnalare alla Procura la possibilità di un approccio che contempli una filiera colposa più ampia. Come bene evidenzia la relazione tecnica da noi commissionata a uno dei massimi esperti del settore, il professor Luca Calcaterra, ordinario di Diritto del lavoro, non è insensato estendere la responsabilità colposa anche ai datori di lavoro. Ovviamente esiste anche un profilo doloso, che è quello esaminato nel processo a Kinshasa contro i presunti esecutori materiali del triplice omicidio. Tuttavia ritengo non vada ignorato quanto avvenuto prima del triplice omicidio (il fatto doloso) che costituisce un fatto colposo che va esaminato in tutti i suoi risvolti e in tutti i suoi antefatti e conseguenze”. Precisa l’avvocato: “Il procedimento ancora in corso è il ‘contenitore’ del primo processo terminato con il non luogo a procedere. Come tale ha un’imputazione preliminare ancora fluida che, laddove si individuassero dei presupposti, li configurerebbe come reato. Ecco, siamo ancora a monte, molti dei fatti non sono stati ancora accertati ed è qui che c’è ancora spazio di azione”. E sulla possibile archiviazione risponde: “A noi non risulta, abbiamo chiesto di essere informati su eventuali provvedimenti dei pm e ad oggi non abbiamo ricevuto ancora nessun avviso. Il pm ora valuterà i temi di meditazione che abbiamo offerto, se li riterrà utili procederà. In caso contrario, dovrebbe motivare la sua decisione. Per questo ho ritenuto di depositare la memoria a tutti i possibili destinatari, perché nulla resti inesplorato”. Iran. Colpevole di femminismo di Enrica Muraglie Il Manifesto, 22 febbraio 2025 Intervista a Narges Mohammadi, la premio Nobel per la pace iraniana, in occasione del suo intervento alla Commissione permanente per i diritti umani del Parlamento italiano. In Iran sono “giorni difficili e turbolenti, di proteste. Studenti universitari, donne, insegnanti, lavoratori, pensionati e vari settori della popolazione civile scendono in piazza ogni giorno per manifestare contro la Repubblica islamica”. Una fotografia di Mahsa Amini al suo fianco, il 19 dicembre la premio Nobel per la pace Narges Mohammadi racconta alla Commissione permanente per i diritti umani del Parlamento italiano come vivono le iraniane e gli iraniani sotto il regime di Masoud Pezeshkian: “Povertà, disoccupazione, inflazione e la crisi ecologica hanno alimentato la rabbia della gente. Le risposte dall’altra parte sono violenza in strada, incarcerazioni e processi farsa”. Gli stessi che hanno reso possibili gli innumerevoli arresti della giornalista, scrittrice e attivista per i diritti delle donne che ha già scontato dieci anni di detenzione, 135 i giorni in isolamento. E non è tutto: fuori dal carcere di Evin dallo scorso settembre per sottoporsi a cure mediche urgenti dopo lunghi dinieghi, a Mohammadi spettano ancora 11 anni di detenzione. Al manifesto racconta una delle accuse esplicitamente dichiarata nella sentenza: “Essere una femminista”. Nel corso dell’audizione, Laura Boldrini ha ribadito l’impegno italiano per l’introduzione del reato di segregazione di genere nella Convenzione sui crimini contro l’umanità in discussione all’Onu, e accolto la richiesta di Mohammadi di anteporre il rispetto per i diritti umani a qualsiasi accordo diplomatico e commerciale con l’Iran. Ha tracciato un filo comune tra l’apartheid di genere in Iran e in Afghanistan… In Iran ottenere un passaporto e viaggiare all’estero richiede il permesso del tutore legale, che è esclusivamente nelle mani dei padri per le figlie e dei mariti per le mogli. Le testimonianze e le dichiarazioni dei testimoni maschi nei tribunali sono considerate equivalenti a quelle di due donne. Il denaro del sangue (diyah) e l’eredità per le donne sono la metà di quelli degli uomini. Lo stupro coniugale non solo non è considerato un crimine, ma gli uomini iraniani possono presentare denunce di “non conformità” contro le loro mogli, se queste si rifiutano di avere rapporti sessuali. Il permesso per il matrimonio prima di raggiungere l’età legale per le donne in Iran non è un ostacolo se considerato appropriato dal padre o dal nonno paterno. E la preoccupante tendenza dei matrimoni infantili è evidente nelle statistiche: secondo il Centro statistico iraniano, nei primi tre trimestri del 2022 ci sono stati oltre 20 mila casi di matrimoni con donne sotto i 15 anni, e 1.085 nascite da madri sotto i 15 anni. Nella primavera del 2021, il numero dei matrimoni che coinvolgono ragazze tra i 10 e i 14 anni ha visto un aumento di circa il 32% rispetto all’anno precedente. Questi numeri rappresentano solo le statistiche ufficiali. Molte di queste leggi e situazioni si applicano anche alle donne in Afghanistan, e sotto i talebani sono persino più severe e oppressive. Chi sono le donne che ha incontrato nella prigione di Evin? Tra oltre 70 prigioniere politiche, il reparto femminile di Evin comprende persone con credenze politiche, intellettuali e religiose diverse che si sono unite contro la repressione del regime. In particolare, dopo l’uccisione di Mahsa (Jina) Amini e l’esplosione del movimento Donna, Vita, Libertà, abbiamo portato avanti diverse forme di protesta nel reparto, tra cui sit-in perfino notturni, raduni, occupazione dei corridoi delle guardie carcerarie con slogan e canti di inni. Abbiamo inviato numerose dichiarazioni individuali e collettive all’esterno della prigione. Abbiamo affrontato continuamente violenza e privazioni, tra cui divieti di telefonate e visite, negazione delle cure mediche e persino nuove condanne. Il primo sciopero della fame di massa contro le condanne a morte ha avuto luogo dopo l’esecuzione di Mohammad Ghobadlou, che ha coinvolto profondamente l’opinione pubblica sulla questione delle esecuzioni nelle prigioni del regime. Poi è iniziata la campagna No to Execution nella prigione di Ghezel Hesar, che si è rapidamente diffusa in altre prigioni del paese. Per la prima volta dopo oltre 15 anni, oggi assistiamo alla ripresa delle emissioni di condanne a morte nei confronti di prigioniere, come Pakhshan Azizi e Verisheh Moradi. Per questo abbiamo interrotto l’ordine della prigione per giorni. Insieme ad altre 4, sono stata processata e condannata a un ulteriore periodo di prigione. Anche se queste proteste pacifiche costano care a molte prigioniere, il reparto femminile non interrompe la sua lotta contro le condanne a morte. Un giorno abbiamo cercato di ottenere cure mediche per due prigioniere in difficoltà, una è la sorella di un prigioniero condannato a morte, sotto shock dopo aver saputo dell’esecuzione di Reza Rasai (un manifestante impiccato ad agosto 2024 perché accusato di aver ucciso un pasdaran, ndr). Siamo state aggredite con violenza. Va riconosciuto che una prigioniera è un essere umano, e ogni essere umano lotta per la sopravvivenza in modi diversi. Cantare, ballare, tagliare o acconciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e trovare gioia: tutti questi sono modi per sentirsi ancora vive. E il ruolo dell’arte contro il regime? Gli artisti, cineasti e membri dell’industria cinematografica sono coloro che plasmano la consapevolezza globale sulla pace: non devono distogliere lo sguardo dal popolo iraniano e dalle donne del Medio Oriente. Possono davvero portare le questione delle esecuzioni e dell’apartheid di genere in primo piano nella coscienza globale, affinché un giorno possano prevalere democrazia, libertà, uguaglianza e pace duratura. Non può esistere pace e libertà per i popoli senza le libertà e l’autodeterminazione delle donne. Woman, life, freedom e i femminismi arabi ce lo dimostrano… L’uccisione dei manifestanti e dei dissidenti politici per le strade è altrettanto terribile e sconvolgente dell’omicidio di civili innocenti sotto bombe e missili. Il regime della Repubblica islamica è aggressivo, ostile ai diritti fondamentali del popolo iraniano e non rispetta nemmeno le sue leggi. Morire per mano di forze occupanti è guerra, mentre morire per mano di un regime oppressivo e autoritario che governa da 45 anni cos’è? Come donna che vede e subisce l’apartheid sessuale nel proprio paese penso che finché questo apartheid esisterà la pace duratura sarà impossibile. Allo stesso modo, in assenza dei diritti fondamentali delle donne in Medio Oriente, e in presenza di dominio, discriminazione e repressione, la democrazia, la libertà e l’uguaglianza nel mondo sono prive di significato. Sono come ferite infette e nauseanti sulla coscienza dell’umanità.