“Amnistia e indulto!”. Appello dei docenti degli atenei italiani sulla grave situazione carceraria di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2025 Si tratta di professori scienze sociali, sociologia diritto e della devianza che invocano un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto. Una lettera aperta di studiose/i e docenti di scienze sociali, sociologia del diritto e sociologia della devianza per porre l’attenzione sulla grave situazione carceraria. È stata diffusa ieri, per invocare un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, che riconduca le carceri italiane almeno alla capienza prevista. Nella lettera viene ricordato come il 30 dicembre 2024 Papa Francesco abbia aperto la porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia in segno di speranza, mentre la Conferenza episcopale italiana e autorevoli giuristi - tra cui l’Associazione italiana dei professori di diritto penale e del processo penale - invocano un atto di clemenza: “Sono segnali - si legge - che denunciano la gravità della situazione. ‘Non respirano le persone detenute’ afferma Antigone, ormai oltre 62.000 per 47.000 posti disponibili, con un tasso complessivo di sovraffollamento del 130%, che in alcune carceri supera o sfiora il 200%; mai numeri così alti dal 2013, anno della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti”. Il 31 dicembre 2024, il Capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, ha ribadito che “le condizioni delle carceri italiane offendono la Costituzione, la quale indica norme imprescindibili sull’esecuzione della pena detentiva. Il sovraffollamento, certo, ma ancora di più e maggiormente pervasiva - prosegue la lettera-appello - ‘l’aria che si respira’, mefitica in senso letterale e metaforico: il riferimento inevitabile è all’infelice e deplorevole uscita del Sottosegretario di Stato per la Giustizia, di ‘non lasciare respirare chi sta dietro quel vetro oscurato’. Un’affermazione che attesta chiaramente una visione vendicativa e discreditante della pena”. Intanto nel 2024, 90 persone si sono tolte la vita all’interno degli Istituti italiani. Una ogni quattro giorni, un livello che non ha precedenti nelle carceri italiane; il tasso è più alto per le donne e per gli stranieri. Vanno aggiunti i 7 suicidi di agenti di polizia penitenziaria. Le risorse del trattamento sono davvero misere. Il lavoro, sempre definito dai vertici del DAP il “perno del trattamento”, coinvolge meno di un terzo delle persone detenute (al 31 dicembre 2023 il 28%; ma si tratta di lavoro di “casermaggio”, dequalificato e a turni brevi, mentre solo il 5% - 3.029 persone sui più di 62.000 presenti - sono alle dipendenze di cooperative o imprese esterne). Nel primo semestre del 2024 i corsi professionali registrano 3.716 iscritti, pari al 6% della popolazione detenuta; i percorsi di istruzione, dal canto loro, coinvolgono solo un terzo della popolazione detenuta. Quanto al titolo di studio, per la metà della popolazione detenuta non è rilevato, né rilevabile. Della restante metà 18.085 persone (meno del 30% del totale) possiedono un diploma di scuola media inferiore. “Ciò conferma lo stato di marginalità sociale della stragrande maggioranza dei reclusi - prosegue la missiva - cui fa riscontro l’assoluta carenza di risorse trattamentali, quasi totalmente delegate ad enti esterni: enti di volontariato o cooperative, docenti o ministri di culto. Si tratta di una presenza caratterizzata da pesanti squilibri territoriali (concentrazione al centro-nord) e limitata dalla circuitazione penitenziaria di sicurezza, per cui in molte aree le attività trattamentali si riducono allo zero. Eppure, i presupposti per far fronte a questa situazione, a partire dalla decongestione del sovraffollamento, ci sarebbero. Quasi un terzo della popolazione detenuta potrebbe giovare facilmente di un provvedimento di clemenza limitato ai reati minori e a residui pena non superiori ai due anni. Le persone anziane o malate dovrebbero poter accedere alla detenzione domiciliare. Ben la metà della popolazione detenuta, e addirittura più del 60% dei condannati definitivi, risulta scontare pene brevi o un attuale residuo pena inferiore ai quattro anni, potendo quindi fruire di misure alternative: quelle stesse che si sono da tempo dimostrate utili a ridurre drasticamente la recidiva, così anche in conformità alle istanze di sicurezza e di difesa sociale. Inoltre, è risaputo che la stragrande maggioranza dei detenuti per reati connessi al consumo e al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti sono in realtà tossicodipendenti che andrebbero affidati a centri sociosanitari di recupero e reinserimento sociale. Lo stesso dicasi per gli affetti da disagio psichico. Ma, dice il Ministro Nordio, l’indulto ‘sarebbe un segno di debolezza’ e difficilmente l’attuale governo lo percorrerà. La congiuntura reazionaria, oltre che una malintesa e trasversalmente condivisa accezione di ‘certezza della pena’, promettono solo il peggio”. “Di fronte a questa situazione e a tutte le buone ragioni per denunciare e protestare contro un regime illegale - ribadiscono i docenti universitari di tutta Italia - il Governo, in senso contrario, introduce nuove fattispecie di reato e aggravi di pena, oltre ad emanare un provvedimento (DM 14 maggio 2024) che istituisce il Gruppo di intervento operativo del Corpo di Polizia penitenziaria (GIO), finalizzato al controllo delle proteste e dei conflitti interni. A ciò si aggiunge il recente progetto di “scudo penale” per le forze dell’ordine, orientato quantomeno a neutralizzare il reato di tortura. In coerenza con queste prospettive fa la sua apparizione il Calendario 2025 della Polizia penitenziaria: una raccolta di immagini fuorvianti e pericolose che invocano la militarizzazione del Corpo di polizia, oggi a ordinamento civile, promuovendo un addestramento finalizzato all’utilizzo delle armi e delle tecniche di contenimento violento. A ciò si aggiunge il rifiuto della richiesta, da lungo tempo anche estesamente condivisa, di rendere identificabili gli agenti nel loro operato. Anche il Capo dello Stato ha fatto riferimento alle deplorevoli condizioni di lavoro in cui opera la polizia penitenziaria, dovute a sovraffollamento e carenze di organico, certo; ma forse anche all’essere chiamata alla gestione della quotidianità detentiva attraverso un’estenuante mediazione dei conflitti alla quale non è minimamente formata e che evidentemente non interessa a nessuno. Il video ‘pubblicitario’ che presenta il calendario è gravemente fuorviante soprattutto per le nuove reclute, che così si vorrebbero motivate e selezionate come per andare alla guerra, per poi ritrovarsi a dover gestire sofferenza e miseria nelle sezioni sovraffollate, navigando a vista secondo un operare che, in caso di fallimento, si affida ai rapporti disciplinari”. “Alla luce di questa complessiva situazione, in quanto studiosi e docenti di scienze sociali, di sociologia del diritto e della devianza, sollecitiamo adeguati provvedimenti per ricondurre il settore penitenziario ai principi costituzionali, invertendo le imperanti tendenze securitarie verso sostanziose politiche di sicurezza sociale. In particolare, chiediamo al Governo e al Parlamento un intervento rivolto alla riduzione immediata del numero dei reclusi e al finanziamento di progetti di sostegno e integrazione sociale”, conclude la lettera. Carceri, i Garanti territoriali: “Politica e società tacciono, servono provvedimenti urgenti” di Fulvio Fulvi Avvenire, 21 febbraio 2025 Manifestazione nazionale il 3 marzo. A gennaio 15mila detenuti oltre i posti disponibili. Sovraffollamento, carenza di strutture e risorse adeguate, burocrazia. Sono i tre lacci che soffocano da anni il sistema penitenziario italiano, giunto ormai allo stremo. L’allarme arriva ancora dai Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che in un documento congiunto parlano di “silenzio assordante della politica e della società civile” e hanno indetto per il 3 marzo prossimo una giornata di protesta nazionale. I Garanti chiedono al governo “l’approvazione urgente di misure deflattive del sovraffollamento per chi deve scontare meno di un anno di carcere, l’accesso alle misure alternative per quei 19mila detenuti che stanno scontando una pena o residuo di pena inferiore ai tre anni. Occorre da subito - sottolineano - aumentare le telefonate e le videochiamate, soprattutto in casi specifici, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Inoltre, occorre che la magistratura di sorveglianza si impegni ad aumentare i giorni di permesso premio per i ristretti”. La condizione di vita dei detenuti nei 192 istituti di pena italiani è da tempo più che drammatica: 14 sono i reclusi che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. L’ultimo, mercoledì scorso, è un 52enne ristretto nella Casa circondariale di Frosinone che si è impiccato nella sua cella. Sarebbe uscito fra un anno per fine pena. Il fenomeno, che nel 2024 ha toccato l’apice, con 90 suicidi (una cifra mai raggiunta finora), non accenna a diminuire. E i morti dietro le sbarre sono stati complessivamente 44, comprendendo anche i decessi per malattia, overdose, omicidio e “cause ancora da accertare”. Tra le cause del disagio, che riguarda di riflesso anche gli addetti alla sorveglianza, l’eccessiva presenza dei detenuti in edifici spesso fatiscenti: al 31 gennaio scorso erano 61.916 a fronte di una capienza regolamentare di 51.300 e a una disponibilità effettiva di circa 47mila posti. Ci sono, dunque, di fatto, quasi 15mila persone in più nelle strutture destinate alla detenzione. Esiste poi la grave e diffusa emergenza rappresentata dai detenuti cosiddetti psichiatrici, cioè di coloro che sono affetti da patologie mentali tali da renderli incompatibili con lo stato di detenzione. Dai dati finora disponibili risulta che il 40% dei reclusi è sottoposto a cure psichiatriche ma migliaia di casi non sono accertati ufficialmente per mancanza di personale sanitario. Di conseguenza, aumentano le aggressioni e le violenze sia tra gli stessi reclusi che nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria. L’ultimo fatto è avvenuto nel carcere di Capanne a Perugia, dove ieri 4 agenti sono stati feriti e una cella è stata distrutta per le intemperanze di un detenuto in isolamento al quale erano stati riscontrati disturbi di tipo psichiatrico. Ciò che potrebbero alleviare l’emergenza nelle carceri e garantire l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione che parla di pena come strumento di riabilitazione sociale, è il lavoro. Ma anche qui le poche iniziative sono lasciate a imprenditori volenterosi e direttori di penitenziari lungimiranti: istituzioni e società, latitano. “Oggi su 62mila detenuti - ricorda Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino - meno di duemila hanno l’opportunità di fare esperienze esterne di inserimento anche lavorativo. Complice anche la irresponsabile mancata attuazione dei Consigli di aiuto sociale, istituzioni mai realizzate, seppur previste dall’ordinamento penitenziario, che dovrebbero favorire, attraverso l’avviamento al lavoro, il reinserimento dei detenuti nella società.” Nelle carceri si continua a morire e sono recluse temporaneamente persone con le loro fragilità di Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 21 febbraio 2025 Mentre leggiamo l’accusa rivoltaci dal Procuratore Ardita di esserci avventurati, attraverso un “ contorsionismo concettuale”, in un “ difficoltoso tentativo di difendere il regime delle celle aperte”, tralasciando, da parte nostra, la dovuta considerazione al moltiplicarsi di “tutte le espressioni di disagio e di sofferenza della popolazione detenuta”, a distanza di poche ore dal suicidio di un cittadino egiziano avvenuto nel carcere di Pescara e che ha provocato un moto di indignazione e protesta tra i suoi compagni di detenzione, giunge la ferale notizia dell’ennesimo detenuto che ha deciso di togliersi la vita nel silenzio di una cella. Il dramma delle morti in carcere, stavolta, si è consumato a Frosinone. Era un 52enne, come tanti suicidi, a pochi passi dalla espiazione della pena. E siamo già a 14 dall’inizio dell’anno. Una falcidia che non risparmia nessuna condizione detentiva. In espiazione pena o in attesa di processo, italiano o straniero. Tutti, però, secondo i dati dell’ultimo rapporto del Garante nazionale, detenuti in sezioni a “custodia chiusa” e in istituti particolarmente affollati. Nessun cruccio, dottor Ardita. Non è per noi un compito “difficoltoso” denunciare la scelleratezza della circolare ministeriale con cui si è stabilita, dopo l’emergenza da Covid 19, la chiusura generalizzata delle celle per la media sicurezza. Una scelta inopportuna che ha visto, per come si legge nella recente relazione del ministero della Giustizia, la configurazione di “tutti gli istituti penitenziari secondo le direttive contenute nella circolare” del luglio 2022. Lo abbiamo sempre fatto, continueremo a dirlo senza farci zittire per la solita e pur vecchia “come il cucco” ragione emergenziale della mafia che impera nelle carceri, immortalata, in maniera sarcastica, anche da Fabrizio De Andrè, nel 1990, in Don Raffae’. È, per noi, maledettamente troppo agevole affrontare certi argomenti, forti dei dati che le statistiche ufficiali - non quelle riservate che, per definizione, sono prive di trasparenza e, quindi, di verifica e studio - ci offrono, oltre alla cruda realtà degli istituti penitenziari che abbiamo modo di riscontrare in occasione delle nostre visite. Numerosi sono i nostri documenti, le nostre relazioni, le nostre prese di posizione sulla sofferenza, sul disagio fisico e psichico, sulla malasanità, sulle dipendenze, sui diritti negati e calpestati anche da chi dovrebbe tutelare e garantirli quei diritti, sui maltrattamenti subiti da tutti i detenuti, a prescindere dal reato. Lo testimonia la continua e incessante attività di denuncia dell’Unione delle Camere Penali sulla vergognosa condizione delle carceri. E non è una situazione venutasi a determinare, chissà poi perché, a far data dal 2012. Anche stavolta sono gli impietosi numeri della detenzione, offerte dalle statistiche nazionali ed europee, a dire che dal 1992 le carceri scoppiano per sovraccarico umano, raggiungendo proprio nel 2010 e nel 2011 la cifra record di oltre 67.000 detenuti. Ed è proprio in quegli anni che, finalmente, l’Italia veniva pesantemente condannata dalla Cedu per le condizioni disumane e degradanti nelle carceri (Sulejmanovic c/ Italia, 2009; Torreggiani e altri c/ Italia 2013). Non è nemmeno “contorsionismo concettuale” ribadire la collocazione dei detenuti in Alta Sicurezza nelle sezioni a regime chiuso. L’ultimo rapporto pubblicato dal Garante Nazionale delle Persone private della Libertà personale ci segnala come, al 12 febbraio 2025, tra i 37.447 detenuti ristretti nelle sezioni “chiuse” ci siano tutti i 9.394 dell’Alta Sicurezza e tutti i 742 del 41 bis. Purtroppo, ci troviamo dinanzi a una errata concezione, tipica di chi governa - nel senso istituzionale - le carceri, nonché retaggio di un passato autoritario, quella di ritenere il detenuto non più al centro del sistema penitenziario quanto strumento delle scelte di politiche criminali. Ne siamo consapevoli. Continueremo, nonostante tutto e tutti, a batterci perché diventi patrimonio comune l’idea che nelle carceri non si trovano rinchiusi i reati, mafiosi e non, fenomeni criminali o sociali da contrastare. Nelle carceri si trovano, temporaneamente, rinchiuse delle persone, con le loro fragilità, i loro diritti, la loro dignità, e che un giorno dovremo pur sapere riaccogliere nelle nostre comunità. *Osservatorio Carcere Ucpi Sesso in cella, c’è il diritto. Ora servono stanze idonee di Federica Delogu e Marica Fantauzzi L’Espresso, 21 febbraio 2025 A un anno dalla sentenza della Consulta accolto il ricorso di due detenuti a Terni e Parma. Pronta un’ondata di richieste da Rebibbia. Le resistenze del Dap: la mancanza di strutture addotta come alibi per non dare corso al riconoscimento. Ma ora i magistrati di sorveglianza cambiano passo e le carceri dovranno adeguarsi. Era la fine di gennaio 2024 quando la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto all’intimità e alla sessualità delle persone detenute. Con una sentenza storica, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui prevedeva il controllo visivo della polizia penitenziaria durante i colloqui familiari. Che cosa è successo nelle carceri da allora? Poco o nulla dopo un anno. Poi, nel giro di poche settimane, due magistrati di sorveglianza hanno risposto al reclamo di due detenuti (uno recluso a Terni, l’altro a Parma), dando un primo vero segnale da quando è stata emessa la sentenza della Corte: i due detenuti hanno pieno diritto di avere rapporti intimi con le proprie compagne senza essere sorvegliati e le direzioni delle carceri hanno due mesi per adeguare gli spazi alla decisione. In altre regioni, però, la situazione è rimasta ferma. “Alcuni detenuti hanno fatto richiesta di colloqui intimi che non si sono verificati - afferma Stefano Anastasia, docente e Garante delle persone private della libertà della regione Lazio - C’era stata qualche direzione che aveva provato a organizzare spazi idonei, ma poi tutto è stato bloccato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha creato un gruppo di studio per disciplinare e garantire omogeneità al godimento di questo diritto”. Il dispositivo chiariva che il diritto poteva essere immediatamente applicabile, senza attendere un intervento legislativo o di uniformità sul territorio nazionale. “Con la sentenza della Corte è venuto meno l’obbligo del controllo visivo - prosegue Anastasia - e questo significa che in molti istituti si può fare anche senza realizzare nuovi ambienti. Per esempio, a Rebibbia ci sono stanze per i colloqui familiari con la finestrella che consente al poliziotto di vedere cosa accade dentro”. Ora che il controllo visivo non è più obbligatorio, spiega Anastasia: “Basterebbe oscurare la finestrella. Poi un giorno si faranno le migliori strutture architettoniche, ma intanto si può fare così. C’è solo un tema di organizzazione degli spazi e dei turni, ma questo avviene già per le videochiamate, le telefonate, i colloqui. La mancata realizzazione delle stanze idonee e progettate nel modo migliore possibile non può rendere inesistente un diritto”. L’altra preoccupazione del Dipartimento è quella di uniformare la gestione dell’intimità in tutto il territorio nazionale. “Se dovesse valere questo principio - commenta Anastasia - dovremmo dire che le carceri sono inabitabili perché nella metà degli istituti penitenziari italiani non c’è la doccia in cella come prevede un regolamento di 25 anni fa. Se il principio vale per l’intimità dovrebbe valere anche per le docce, quindi chiudiamo l’intero sistema penitenziario perché la pena si può espiare solo se è uguale dappertutto?”. L’Organizzazione mondiale della Sanità, nel 2001, ha incluso fra i diritti umani fondamentali il diritto alla salute sessuale, interpretandolo come bisogno e desiderio di contatto, intimità, possibilità di provare piacere ed emozioni legate al legame con l’altro, come amore o affetto. Eppure, la sensazione è che, nonostante la sentenza della Corte, ci sia una forte resistenza a riconoscere tale possibilità anche a chi è privato della libertà. Luna Casarotti, oggi attivista dell’Associazione Yairaiha Onlus, ricorda che, mentre era detenuta nel carcere della Dozza a Bologna, capitava che si abbracciasse con una compagna durante l’orario di socialità. “Eravamo sedute sullo stesso letto, scambiandoci un semplice gesto di affetto - racconta Casarotti - ma per l’amministrazione, quel gesto era inappropriato. Tanto da farci un rapporto per “atti osceni in luogo pubblico”. Ritornando a quel periodo ricorda la sofferenza della lontananza dagli affetti, uno stato di privazione continuo che si traduceva in dolore emotivo e fisico. Il diritto alla sessualità è diritto alla salute e alla salute riproduttiva, spiega Sofia Ciuffoletti, Garante dei detenuti del Comune di San Gimignano e direttrice de L’Altro Diritto. Ma, aggiunge, che, soprattutto nei confronti delle donne, non è mai stato veramente garantito. “Per gli uomini c’è stata una sentenza della Cassazione che ha aperto alla possibilità di donare lo sperma da parte del detenuto che vuole accedere alla procreazione medicalmente assistita, ma per le donne questo diritto non esiste, perché significa intraprendere un percorso ben più lungo e complesso”. Tutelando il diritto all’intimità, secondo Ciuffoletti, si tutela il diritto alla relazione che “resta nel solco del principio per cui il carcere, per fare opera di reinserimento sociale, deve assomigliare a quello che c’è fuori, e fuori ci sono le relazioni”. “All’epoca - continua Casarotti - io non avevo un partner e facevo i colloqui con mia zia e mio padre, ma vedevo le mie compagne vivere situazioni complicate durante gli incontri, anche e soprattutto con i loro compagni/e. Ogni volta per un semplice abbraccio o bacio gli agenti tiravano pugni sul vetro del gabbiotto”. Ecco che il diritto all’affettività nella concretezza della detenzione viene interpretato come bisogno di mantenere un legame fisico ma anche emotivo con la persona a cui si è legati. È il diritto di essere visti da chi si ama, quello che Casarotti definisce come “il bisogno di essere capiti e riconosciuti”. E poiché quanto avviene all’interno del penitenziario condiziona anche chi vi lavora, Ciuffoletti sottolinea un ulteriore elemento: “La dimensione di riservatezza dallo sguardo degli agenti di polizia penitenziaria è una norma che tutela la dignità, non solo quella delle persone detenute, ma anche quella degli agenti che sono oggi costretti a invadere l’intimità degli incontri”. Se è vero che nulla è cambiato nella quotidianità detentiva, qualcosa inizia a muoversi. Oltre alle due ordinanze dei magistrati di Spoleto e Reggio Emilia (rispettivamente competenti per le carceri di Terni e Parma), la Corte di Cassazione il 6 gennaio scorso ha annullato la decisione del Tribunale di sorveglianza di Torino che aveva giudicato la richiesta di un detenuto di avere colloqui intimi con la compagna come una mera aspettativa e non un diritto. Alla richiesta dell’uomo la direzione del carcere di Asti aveva opposto un diniego, “perché la struttura non lo consente”. A quel punto, attraverso il suo legale, il detenuto aveva presentato un reclamo al Tribunale di sorveglianza di Torino, che lo ha dichiarato inammissibile. Nella sentenza la Cassazione ha riaffermato che la richiesta del detenuto è “una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari”, rinviandolo al Tribunale di sorveglianza di Torino per un nuovo giudizio. Nel Lazio invece sono arrivati i primi reclami collettivi. Prima sono stati cinquantacinque detenuti dalla Casa di Reclusione di Rebibbia, poi centodue dalla Casa Circondariale di Viterbo. Centocinquantasette persone recluse nei mesi scorsi hanno presentato un reclamo indirizzato alla magistratura di sorveglianza e ai Garanti delle persone private della libertà personale per chiedere che il diritto alla sessualità e all’affettività sia garantito. “Per il primo caso - continua Anastasia - insieme alla Garante di Roma Capitale Valentina Calderone, e per il secondo in quanto Garante regionale, ho risposto al reclamo con una raccomandazione all’amministrazione penitenziaria dicendo che si tratta di un diritto esigibile e che, in assenza di indicazioni centrali, l’amministrazione a livello locale deve provvedere, come dice esplicitamente la sentenza della Corte costituzionale”. Di fronte al perdurare dell’inazione dell’Amministrazione penitenziaria, conclude Anastasia, spetterà alla Magistratura di sorveglianza pronunciarsi sui reclami dei detenuti e rendere effettivo il diritto ai colloqui intimi. A distanza di un anno dalla sentenza della Corte, con il sovraffollamento che supera il 130 per cento in molti penitenziari, pensare a quale sarà l’effettiva attuazione di quella sentenza su tutto il territorio nazionale è complicato e tuttavia qualcosa, secondo Ciuffoletti, va fatto. “Infine, c’è sempre la possibilità di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Anche lì i tempi sono lunghissimi, ma ciò non toglie che faremo tutto quello che ci è possibile fare”. L’Ocf: “Il Dap assicuri subito ai reclusi il diritto all’affettività” di Davide Varì Il Dubbio, 21 febbraio 2025 L’Organismo Congressuale Forense esprime “profonda preoccupazione per il mancato adeguamento delle strutture penitenziarie italiane alla storica sentenza della Corte costituzionale numero 10/ 2024 sul diritto all’affettività dei detenuti, nonostante sia trascorso oltre un anno dalla sua pubblicazione”. Lo si legge in una nota diffusa ieri dall’Organismo congressuale forense, in cui si ricorda come la Cassazione, a propria volta, abbia “ribadito che il diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari costituisce un diritto fondamentale, non una mera aspettativa, e come tale deve essere tutelato in via giurisdizionale”. L’Ocf ha segnalato come “ad oggi, in nessun istituto penitenziario italiano sia stata data concreta attuazione al diritto riconosciuto dalla Consulta”. E “questa inaccettabile inerzia non solo crea una disparità di trattamento tra detenuti, in palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione, ma vanifica anche la portata rivoluzionaria della sentenza della Corte”, dichiara in particolare Elisabetta Brusa, componente del dipartimento Detenzione e carceri di Ocf. L’Organismo congressuale forense ha chiesto dunque al ministero della Giustizia e al Dap di “adottare con urgenza misure concrete per garantire l’effettività del diritto all’affettività in tutti gli istituti penitenziari, individuando e predisponendo spazi adeguati per i colloqui intimi. L’inerzia istituzionale non può più essere tollerata: si tratta di un diritto che non può rimanere sulla carta, ma deve trovare una concreta attuazione”. Non è accettabile, per Ocf, che “un diritto fondamentale, riconosciuto dalla Corte costituzionale, resti lettera morta per mere difficoltà organizzative o strutturali”. È tempo dunque, conclude ancora Brusa, che “l’amministrazione penitenziaria si assuma le proprie responsabilità e si adoperi concretamente per garantire l’esercizio di questo diritto, senza più alcun indugio. L’Ocf monitora la situazione e sosterrà ogni iniziativa volta a garantire l’effettiva tutela del diritto all’affettività delle persone detenute”. “Sorvegliati a vista, guai a sfiorarsi”. Ecco come si svolgono i colloqui in carcere di Della Cascino e Titti Vicenti L’Espresso, 21 febbraio 2025 “Ogni sera alle otto Paolo mi salutava dalla finestra”. Anche Maria era in cella al Dozza di Bologna: non vedeva il marito, ma ne riconosceva la voce. Adesso Paolo e Maria sono nella loro casa vicino a Torino. Nel 2007 entrambi erano in carcere. “Stavo nell’edificio di fronte al suo. Ci siamo innamorati, scambiandoci le lettere”. Il giorno delle nozze al Comune, Maria indossò un pantalone in lino e una camicetta bianca. “Mi sentivo confusa, felice e sola. La sera eravamo di nuovo in cella lontani”. L’iter per ottenere l’autorizzazione ai colloqui a volte è farraginoso: il matrimonio, in questo caso, può diventare una tappa necessaria, “perché - spiega Maria - se non ci fossimo sposati, la direzione carceraria non ci avrebbe concesso la possibilità di incontrarci”. Laura (nome di fantasia) vede Marco ogni mercoledì e impiega anche quattro ore per raggiungerlo. Lui sta scontando una pena a Padova. Lei gestisce un laboratorio come volontaria nell’istituto penitenziario di un’altra città. Anche loro si sono conosciuti in carcere lo scorso anno. Adesso si incontrano in un’ampia sala piena di gente, accomodandosi ai tavoli piccoli e rotondi: sono uno di fronte all’altra, le mani timidamente si sfiorano, nessuno dei due osa accennare un bacio intenso. “È un’ora bastarda: passa in un attimo. Sento imbarazzo: le persone osservano”, confida Laura. Secondo la legge, gli incontri avvengono “sotto il controllo” degli agenti. In carcere non ci può essere intimità: la direzione penitenziaria, in caso di autoerotismo ed effusioni di coppia, punisce le persone detenute con un rapporto disciplinare. “Chi non si comporta bene perde i giorni di liberazione anticipata”, spiega Riccardo Magi, deputato di Più Europa. “Il distacco dal partner è doloroso. Sono poche le modalità per coltivare una storia d’amore”, aggiunge Luca Decembrotto, docente di Didattica e Pedagogia speciale all’Università di Bologna che ha sviluppato una ricerca sulla pratica sessuale in ambito detentivo. “Quando vado in carcere, mi sembra di entrare in una dimensione parallela. Torno alla vita reale, ma quel mondo non mi lascia mai davvero”, racconta Laura. Ogni suo pensiero è per Marco. Le lettere riempiono il vuoto delle attese. “Voglio ricevere sue notizie. E La lontananza accende il desiderio”, confessa. Claudia va a trovare Filippo, il marito, quattro volte al mese. Lui è detenuto a Rebibbia, una delle più grandi carceri italiane. I familiari delle persone detenute aspettano il proprio turno in una sala che ricorda gli uffici postali. “È frustrante. A volte passano un paio d’ore prima dell’incontro”, commenta Claudia. Il colloquio si svolge la mattina tra le 8,30 e mezzogiorno nell’area verde: un cortile all’aperto, dove le persone detenute vivono momenti di convivialità con amici e parenti. “Possiamo scambiarci baci e carezze poco intimi. Vorrei almeno che mio marito mi telefonasse quotidianamente”. La sessualità, nota Decembrotto, non può essere contenuta neppure in carcere. Ne risente la salute. “Disturbi depressivi e depersonalizzazione sono tra i sintomi più frequenti”, spiega la sessuologa Annalisa Signorelli. In Italia però il tabù è più forte della legge. Lo scorso anno la Consulta riconosceva il diritto all’intimità in carcere e quest’anno Parma e Terni, su ricorso di altrettanti detenuti dovranno provvedere per permettere incontri intimi. “È una sentenza rivoluzionaria”, commenta l’avvocata Maria Brucale dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Sulla stessa scia, a gennaio invece la Cassazione ha considerato i colloqui intimi “una legittima espressione dei rapporti familiari”. Nel frattempo nulla di organico è stato fatto. “Occorrono spazi adeguati. Gli istituti penitenziari dovrebbero realizzarli. I ricorsi sono l’unico modo per tutelare i diritti - consiglia Mauro Palma, ex garante nazionale delle persone detenute. Rispettiamo gli esseri umani nella loro totalità. Lo dice la Costituzione”. I colloqui in carcere devono garantire “relazioni familiari il più possibile normali”, come suggerisce l’Europa nel regolamento penitenziario del 2006. Molti Paesi rispettano le linee guida comunitarie in materia, tranne l’Italia. Olanda, Danimarca, Norvegia autorizzano visite intime a cadenza settimanale o mensile. Germania e Svezia mettono persino a disposizione piccoli appartamenti. La Croazia concede la possibilità di avere rapporti sessuali direttamente in carcere. Si chiamano “vis-à-vis” invece i colloqui privati negli istituti della Catalogna, in Spagna. Secondo l’associazione Antigone, “il diritto alla sessualità per le persone detenute deve diventare effettivo” anche in Italia. Negli armi alcuni deputati hanno suggerito modifiche all’ordinamento penitenziario. L’ultima proposta di legge sul tema risale al 2023 a firma di Riccardo Magi e prende a modello gli esempi europei. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio non ha mai risposto. Le persone detenute possono vivere il sesso eventualmente solo grazie al permesso premio: in caso di buona condotta, il magistrato di Sorveglianza concede loro un breve periodo di tempo fuori dal carcere. “Bisogna garantire i diritti a prescindere dal reato. La dignità umana va oltre un criterio di premi”, afferma Palma. à Maria adesso è felice con Paolo, ma le sembra difficile tornare alla vita di sempre: “Sento una specie di dissociazione. Non siamo in salute. Il carcere ci ha tolto il tempo e recuperare è quasi impossibile”. Affettività e sessualità in carcere: i colloqui intimi seizethetime.it, 21 febbraio 2025 Abbiamo intervistato Elton Kalica su quelle che comunemente vengono chiamate le stanze dell’amore. In altre parole, una sentenza della Corte Costituzionale nel 2024 ha dichiarato illegittimo il divieto di concedere ai detenuti e ai loro partner dei colloqui intimi. Si tratta quindi di trovare le modalità per rendere possibile tale intimità nei colloqui, ma anche di capire se c’è reale volontà da parte dello stato italiano di garantire questo diritto. Elton Kalica: ricercatore in sociologia del diritto presso l’Università di Padova, collabora con Ristretti Orizzonti. Abbiamo letto che nel carcere Due palazzi di Padova inizierà un progetto sperimentale: la stanza dell’amore. Puoi dirci di che cosa si tratta? E a che punto siamo con la sperimentazione? Al momento non c’è nulla di concreto: nel corso dell’ultimo convegno organizzato da Ristretti Orizzonti il direttore si era preso l’impegno di realizzarle, ovvero ha fatto una dichiarazione di intenti. C’è una sentenza della Corte Costituzionale, ma non una legge; perciò spetta ai vari direttori, come quello di Padova, dare il via libera. La cosa però è complicata e bisogna quindi ragionare su diversi ordini di problemi. Prima fra tutte è la questione fondi. Perché si parla di stanze adibite ai colloqui intimi, e in concreto si tratta di costruire quattro piccoli appartamenti con angolo cottura, un tavolino e una camera da letto. Quindi se non mettono a disposizione i fondi come costruiscono? Seconda questione, chi può avere accesso? Possono accedere tutti i detenuti o chi ha una sentenza definitiva? O addirittura solo chi ha sentenze definitive superiori ai 5 anni? Terza questione, la frequenza di questi colloqui: una volta a settimana, tre volte l’anno? In modo stabile come un diritto o come premio? Quarto quesito, la durata dei colloqui intimi. Quanto durano? In Russia, per le distanze, i colloqui intimi durano 24 ore. A Padova si ipotizzano di 6 o 4 ore, come in Francia, per garantire più turni. Quinto quesito, quale rapporto affettivo è considerato tale dal carcere, moglie, fidanzata? E se c’è solo un legame affettivo come si dimostra che questo è duraturo? L’orientamento del carcere sarebbe di limitare l’accesso solo alle compagne che fanno visita da un tempo ragionevole. Questo diritto spetterebbe a tutti i detenuti in detenzione? Il timore dell’istituzione è che il detenuto trovi una compagna a pagamento e il rapporto affettivo non sia autentico, però rimane il rischio che vengano escluse coppie che fanno colloqui raramente perché distanti. Il senso dei colloqui prolungati sarebbe di risaldare le relazioni tra persone che non possono avere colloqui, perché la moglie sta all’estero - o anche in sud Italia - e non può affrontare i costi del viaggio per un colloquio di un’ora. Invece, se la visita fosse più lunga e intima, una persona potrebbe anche decidere di fare questo investimento. Tale caso avrebbe però specifiche complicazioni, perché dimostrare la relazione sarebbe complesso. C’è quindi il rischio che qualcuno sia lasciato fuori. La questione più urgente per i detenuti però riguarda la possibilità di portare i figli. Per il momento non è prevista, perché per ora si tratta di dare la disponibilità dello spazio per colloqui intimi che prevedono anche il rapporto sessuale. Servirebbe una modifica dell’ordinamento penitenziario, perché la sentenza parla di sessualità e affettività e non di rinforzare i legami familiari nel loro complesso. In realtà, servirebbe anche una progettazione dello spazio offerto per questi colloqui che preveda la presenza di nuclei familiari estesi. Il direttore del carcere di Padova poneva anche il problema della sorveglianza, perché il colloquio intimo prevede l’assenza di controllori, ovviamente. Ma le carceri hanno la fissa della sicurezza, tutto il carcere è pensato per poter controllare il detenuto e intervenire in caso di situazioni critiche. Si è pensato di mettere un bottone di emergenza o un citofono, ma gli agenti dove stanno? In prossimità? Su queste tematiche, le idee non sono ancora chiare, sebbene il direttore ci stia ragionando. Facciamo un passo indietro. Ci spieghi come avvengono i colloqui in carcere? Chi ha diritto di fare una visita alla persona detenuta? Ogni quanto può avvenire la visita, quanto dura, in che modalità si svolge? Purtroppo la maggior parte delle persone ha un’immagine tutta televisiva della vita in carcere, aiutaci a capire come funziona realmente... Allora la questione principale è che dal momento in cui entri in carcere al momento in cui avviene il primo colloquio passa molto tempo. Finché ci sono le indagini preliminari non è il direttore che autorizza i colloqui, ma il giudice dell’indagine. Solitamente chi è appena arrestato deve aspettare parecchio per fare i colloqui. Nel complesso ci vogliono circa 2 o 3 mesi dall’arresto, se va bene. Infatti, chi arriva in carcere di solito fa 40 giorni di isolamento giudiziario, poi va in sezione, si confronta con gli altri detenuti e capisce cosa fare: richiedere il certificato familiare, scrivere al giudice, allegare il certificato. Ai detenuti comuni sono garantite 6 ore di colloquio su più giorni. Per i detenuti in regime di alta sicurezza sono 4 ore. Ci sono anche precise regole, che sono riportate su alcuni avvisi all’ingresso del carcere che informano detenuti e familiari. Ad esempio, c’è una lista di cose che si possono portare e altre vietate. Prima del colloquio si è perquisiti, sia detenuti che familiari. Per il familiare il colloquio è uno strazio, non solo perché può dover affrontare un viaggio per arrivare, ma perché l’attenzione della polizia penitenziaria è rivolta soprattutto a lui: anche i bambini vengono perquisiti per timore che gli si nascondano addosso delle cose. Durante il colloquio qual è il livello di sorveglianza? È ammesso contatto fisico? Non è ammesso il contatto fisico, sebbene non ci sia più il vetro e il nucleo familiare si siede attorno a un tavolino. In ogni sala per colloqui ci possono essere anche 6 tavoli e le stanze hanno una parete di vetro dietro al quale rimane un agente, o più di uno, che da una posizione un po’ rialzata sorveglia costantemente la situazione. Nel momento in cui due persone si baciano, è capitato anche a me, o si abbracciano, l’agente batte sul vetro e si devono fermare immediatamente perché se non ti conformi al suo richiamo l’agente ha il potere di interrompere il colloquio in ogni momento. Da regolamento, nessun contatto fisico è ammesso, perché potrebbe essere un momento per scambiarsi qualcosa. Poi il detenuto impara a conoscere gli agenti: ci sono quelli che appena ci si sfiora, battono sul vetro, e ci sono quelli più umani che, per esempio, tollerano alcune cose, come abbracciare i figli. I colloqui comunque sono tutti registrati e archiviati. Questa è un’ossessione del controllo della comunicazione (controllare parole, messaggi, sussurri all’orecchio) tipicamente italiana. In altri paesi una volta che il processo è chiuso, finisce l’angoscia del colloquio come potenziale pericolo. Ma solo i parenti possono venire a trovarti? E se un amico vuole venire? Quello è lasciato a discrezione. Finché sei in attesa di giudizio i giudici spesso autorizzano tutti quelli che ne fanno richiesta, anche per la speranza di intercettare qualcosa di utile all’indagine. Nel momento in cui la persona è condannata la decisione spetta al direttore. Il detenuto può fare motivata domanda per autorizzare i colloqui con la cosiddetta “terza persona”, cioè non-familiari. Il direttore fa quindi un’indagine su questa persona: se ha un precedente penale tendenzialmente non lo fa entrare. Si può comunque insistere se si tratta di precedenti lievi o lontani nel tempo e magari ottenere la visita. Insomma, è a discrezione del direttore. Ovviamente, le tempistiche sono lunghe, anche mesi. Ti sembra che la sentenza della Corte Costituzionale verrà veramente applicata? Noi leggiamo una situazione delle carceri italiane difficile, fatta di sovraffollamenti, dolori, suicidi; è realistico credere che alle persone detenute venga riconosciuto il diritto all’affettività e anche alla sessualità? Qui ci sono due ordini di problemi. Il primo riguarda il governo attuale, che ha promesso tanto ai sindacati di polizia (un bacino di voti sicuri) che sono per principio contrari a concessioni e aperture ai detenuti. Davanti a un sovraffollamento crescente e a disagi in aumento, è stato proposto di aumentare la liberazione anticipata (sconto di 45 giorni a semestre, da portare a 60 giorni), una misura anche a favore della polizia penitenziaria stessa, dal momento che se ne aumenterebbe il potere, mentre i detenuti sarebbero incentivati a comportarsi meglio. I sindacati di polizia si sono opposti e il governo ha cancellato questa proposta. Anche rispetto ai colloqui intimi i sindacati si sono sempre opposti. Ora c’è però una sentenza verso la quale possono fare poco. Ovviamente ci sarà imbarazzo per il governo, che secondo me trascinerà la cosa rimandandola più che può. Il secondo problema è che ci sono carceri senza spazi. A Padova il direttore si è dato disponibile anche perché lo spazio c’è, ma altre realtà non lo hanno. A Udine, in un edificio ottocentesco in centro città, dove le costruiscono le stanze dell’amore? Ma poniamo il caso che la cosa venga messa in atto nonostante il governo, secondo te questa misura, nell’arcipelago carcerario italiano, aumenterà la differenza tra carceri di serie A e di serie B? Certo, potrebbe rafforzarsi la differenza che c’è tra le carceri. Si farà infatti nelle cosiddette carceri di orientamento trattamentale. Devi sapere che nelle carceri c’è questa logica della carota e del bastone. Se ti comporti bene ti lascio questo e quello; se ti comporti male ti mando in isolamento o ti tolgo i colloqui. Ci sono carceri “punitive” (di orientamento non trattamentale), in cui è difficile che vengano costruite le stanze dell’amore, sia perché non vogliono, sia perché di solito sono carceri piccole. Ciò significa non solo che manca lo spazio, ma anche che il clima tra gli agenti è più compatto e difficilmente scalfibile. Ci sono carceri dove ci sono perquisizioni semplici, altre dove ti fanno spogliare e fare le flessioni prima e dopo il colloquio (e magari anche un’altra volta al ritorno in sezione). Sono pratiche chiaramente umilianti e rendono la dimensione del colloquio angosciante. Quindi è difficile che si realizzino veramente le stanze dell’amore? Secondo me sarà difficile che venga fatto in modo sistematico dal governo o a norma di legge. Penso invece che partiranno sperimentazioni di direttori sensibili all’argomento. Ma saranno una manciata, le solite cinque carceri: Padova, Milano, Tornio, Firenze, Roma. I vertici penitenziari avranno abbastanza materia di vanto mentre continueranno a dire che nelle altre carceri non ci sono gli spazi. Come ti sembra che possa essere recepita la possibilità di avere colloqui intimi in carcere? Sia da parte dell’opinione pubblica che del personale che opera in carcere. Noi, onestamente, temiamo una grande banalizzazione, del tipo: bella vita in carcere, ora puoi anche far sesso... Non sono tanto preoccupato per l’opinione pubblica. I tempi sono cambiati: la sessualità è ormai considerata un diritto e non è più ritenuta uno scandalo oppure un lusso che i detenuti non si devono permettere; lo stesso carcere si è laicizzato. Ora l’opposizione non è tanto legata a una dimensione morale (propria di un primo volontariato cattolico in carcere), quanto ideologica. L’estrema destra, le guardie, i loro sindacati vogliono un certo tipo di carcere, spesso punitivo e di sofferenza. Quindi il problema non è l’opinione pubblica, ma i sindacati penitenziari e lo spazio che i media danno ai sindacati ogni volta che devono fare un comunicato stampa per fare richieste ideologiche, come più uomini e più libertà d’azione; invece di chiedere aperture simili che trasformano il loro luogo di lavoro in uno spazio più rispettoso dei diritti di tutti. Insomma, non mi sembra un problema culturale italiano l’accettazione del diritto alla sessualità, il problema è politico. Se si trova l’accordo politico, procede anche la realizzazione. Rems, lunghe liste d’attesa e pericoli: il Governo lavora a 300 nuovi posti di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2025 Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza: sono 32 in Italia, con oltre 600 persone fuori in attesa di essere internate. Riunioni tra tecnici dei Ministeri della Salute e Giustizia; tra i nodi le competenze per la vigilanza e i costi. “Mi dai la pallina antistress”? Cappuccio in testa, passo incerto. Jonathan (nome di fantasia, come quasi tutti) entra nella stanza del medico. Sbiascica di una “curva che vuole disegnare”. E riceve un cuore di gomma da stringere insieme ad un foglio su cui tratteggia una parabola e una sagoma. Nello stesso momento, Marco sta rasando i capelli ad Arturo; Andrea è davanti al televisore protetto da vetro infrangibile e grate (“dopo cinque apparecchi distrutti”, spiegano gli operatori); Ahmed e Jamal sono impegnati a pulire biliardino e cabina fumatori; Andrea cammina avanti e indietro, con le mani nei guanti e la musica negli auricolari. Tutt’intorno c’è un sottofondo di porte che si aprono e chiudono, di ciabatte che strusciano, di odori che si mescolano: il cous-cous della mensa, lo sgrassatore delle pulizie, l’aria di qualche camera troppo a lungo con le finestre serrate, sbuffi di fumo da stanze con le porte aperte dalle 7 alle 23.30. “Posso dire una cosa?”, ci rincorre Aurelio, fiero del suo nome (vero). “Fu un grande imperatore dai grandi pensieri. Io sono vivo grazie a questi medici, perché durante il Covid ci hanno protetto; a casa sarei morto”. Un po’ ospedale, un po’ carcere, ma poi né l’uno né l’altro. Benvenuti in una delle 32 Rems d’Italia, le residenze per l’esecuzione delle misure di sorveglianza, approdo di malati affetti da schizofrenia, disturbo bipolare dell’umore o deliranti; persone giudicate incapaci di intendere e volere nel momento in cui hanno commesso reati (anche molto gravi). Benvenuti in residenze che sempre più spesso - con i loro 630 posti letto - diventano la destinazione anche di delinquenti comuni considerati anti-sociali per via di cervelli segnati dall’abuso di droghe. “Chiamo i primi pazienti, i secondi utenti: l’alto numero di questi ultimi rende più difficile prenderci cura di coloro su cui davvero possiamo fare qualcosa”, sintetizza Alessia D’Andrea, psichiatra forense, direttrice di una delle due strutture di Subiaco, insieme a Corrado Villella. Un’ora ad est della capitale, tra le colline del parco dell’Aniene e i monti Simbruini. Qui operano due delle cinque Rems del Lazio (4 maschili, una femminile): due moduli da venti posti ciascuno, gemelli ma destinati a non incontrarsi, come Castore e Polluce, i fratelli della mitologia a cui sono intitolati i reparti destinati ai “folli rei” dentro l’ospedale. Meno residenti col bisogno di medicina generale, più malati con patologie psichiatriche. È in prevalenza in piccole comunità che operano queste residenze che nessuno vuole sotto casa. Strutture ibride, che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, “superati dopo un faticoso percorso” nel 2014, ha ricordato la Corte costituzionale. Residenze con metal detector all’ingresso, recinzione lungo il perimetro e camici bianchi dentro per accogliere il ragazzo che ha ucciso la madre “perché le voci gli ripetevano che era posseduta dal demonio”; il quarantenne che perseguitava una donna; l’uomo che aveva provato a strangolare l’infermiera; quello con la tendenza ad incendiare o il cittadino del Ghana finito qui dopo essere stato “in origine fermato senza biglietto del treno: mandato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale - riepilogano gli operatori - ricoverato nel servizio di diagnosi e cura; infine arrivato qui, coi suoi traumi e una perizia di cui abbiamo chiesto la rivalutazione”. E col bollino della malattia mentale, si finisce in un circuito da cui può essere difficile uscire. Come nell’inesorabile discesa dei sette piani del racconto di Dino Buzzati. Il 4o% di pazienti, stimano esperti, non si riesce a dimettere. Nella sala comune, Michelangelo si avvicina per raccontare di “essere dentro per un pezzo di pizza. L’avevo pure pagata”. Racconto frutto di immaginazione? “Non del tutto - spiegano i medici. Era entrato in rosticceria con uno scontrino qualsiasi e pretendeva un supplì”. Poi, c’era tutto il resto indicato nella cartella clinica, in base alla quale ogni mattina riceve, come gli altri, la terapia prima di cominciare - attraverso percorsi psicologici, attività varie, sport e uscite controllate - il lento cammino verso un altrove. Fuori da queste stanze come di un ospedale qualsiasi, con le finestre sugli ulivi, ma letti bloccati al pavimento e specchi incassati per ridurre ogni pericolo. L’altrove è il momento in cui sarà possibile andare in comunità. E poi a casa, “per chi ha una casa e una famiglia, non di rado prima vittima di violenze”, spiegano i medici. Così resta dentro anche chi potrebbe andare fuori, come l’ottantenne (anche lui straniero, come la maggior parte secondo l’ultimo rapporto di Antigone sulle Rems), entrato nel circuito “dopo aver lanciato una sprite addosso ad un carabiniere; passato dal carcere all’incapacità di intendere e volere. Con la sospensione del processo, la conferma della pericolosità sociale e la misura di sicurezza disposta dal giudice”. O resta dentro, dopo trent’anni tra celle, case lavoro e Rems, quell’uomo che gambizzava le vittime: “Nessuna comunità lo vuole, per il rischio di ripetere il reato”. Il suo diventa una sorta di ergastolo bianco, come si chiamava la condizione degli internati a cui la misura di sorveglianza poteva essere prorogata più volte in nome della pericolosità sociale, finché la legge del 2014 ha stabilito il limite del massimo della pena. Ma questo non vale per la libertà vigilata. Michelangelo, Jonathan, Marco: storie di una marginalità sociale per cui spesso si spalancano i cancelli delle carceri o delle strutture che il codice penale continua a chiamare “manicomi giudiziari” (art. 222 cp). Uomini (e poche donne) che i servizi sanitari non riescono ad intercettare prima dei reati e che talvolta non accolgono poi. Capita così che Giovanni, ad esempio, da quattro mesi pronto a passare in una comunità accreditata, sia ancora nella Rems di Subiaco. E il suo posto non passa ad uno dei 664 in lista d’attesa a fine 2024, di cui 26 in carcere impropriamente. Il resto “liberi in attesa”. Persone che restano cioè fuori da strutture protette, talora con prescrizioni del magistrato di sorveglianza, quasi sempre con gravi rischi per la collettività. Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a Pisa; Marta Di Nardo a Milano; Renzo Cristofori a Caprarola (Viterbo); Matteo Demenego e Pierluigi Rotta a Trieste sono alcune delle vittime di persone inferme di mente, in attesa di ricovero o non seguite sul territorio. “Almeno 14 morti nei dieci anni dalla norma”, stima un esperto. Ecco “l’intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”, stigmatizzato dalla Consulta nella sentenza 22/2022. Nei “gravi problemi di funzionamento” del sistema che “non tutela in modo efficace - scrivono i giudici- né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni; né il diritto alla salute del malato”. Da qui il monito al legislatore perché proceda - “senza indugio” - ad una riforma di sistema, che coinvolga non più solo il Dicastero della Salute ma pure della Giustizia. Dopo tre anni - e nessuna novità - la Corte potrebbe indirettamente tornare sul tema il 9 giugno, sollecitata da quattro ordinanze dei giudici di pace di Roma secondo i quali per le misure di sicurezza dei Cpr occorre una riserva assoluta di legge come per le Rems. I tecnici del Ministero della Giustizia e della Salute stanno lavorando su un incremento di circa 300 posti per le Rems in poli tra Nord, Centro e Sud con l’ipotesi di un triage iniziale. Mercoledì l’ultima riunione non ha sciolto il nodo delle competenze della vigilanza. Si valuta un gruppo interforze, nella prospettiva futura di un contingente della Polizia penitenziaria, che già si occupa degli spostamenti degli internati, previo adeguato aumento di organico. Questo non comporterebbe in automatico più costi, considerando quelli dell’attuale vigilanza privata. A Subiaco, guardie giurate sorvegliano il ragazzo che cammina lungo il perimetro del campo di calcio, altre i pazienti che fumano sulla veranda dipinta con vasi da cui fioriscono parole o monitorano le telecamere. Le aggressioni non mancano. “La sicurezza è una delle principali criticità”, conferma Villella, che punta su una “maggiore rete tra carcere, Rems e strutture territoriali anche per snellire le liste d’attesa”. Del bisogno di “percorsi forensi dedicati, con strutture ad alta sicurezza per le situazioni più difficili e dipartimenti di salute mentale rafforzati” parla Giuseppe Nicolò, direttore dell’Asl Roma 5, per “personalizzare di più le cure”. Decisivo, come sempre, l’impatto economico, considerando che - ad esempio - in Lazio ogni paziente costa circa 400 euro al giorno e per nuove strutture servono altri medici, infermieri, tecnici riabilitativi. Come sempre, è una questione di scelte politiche. Nel frattempo, l’Umbria sta aprendo la prima Rems; il Molise è ancora senza e altre Regioni hanno solo un paio di posti. In attesa di un censimento ufficiale, il Consiglio superiore della magistratura propone l’istituzione di un osservatorio di monitoraggio dei dati tra le conclusioni della delibera approvata dal plenum. Mentre non mancano voci di avvocati che nel dibattito in corso paventano una regressione rispetto ai cardini della “rivoluzione gentile” che segnò la fine degli Opg. Dove “ogni piano era un mondo sé”, direbbe Buzzati. E il protagonista non riesce ad uscire. Come troppi pazienti ancora oggi. Cna e Sant’Egidio: reinserimento giovani ex detenuti nel mondo del lavoro agi.it, 21 febbraio 2025 Aiutare i giovani detenuti ed ex detenuti nel percorso di reinserimento nella società, attraverso delle opportunità di lavoro che allo stesso tempo contribuiscano alla crescita e allo sviluppo delle imprese artigianali e del “Made in Italy”. È l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato questa mattina dalla Cna, la Confederazione nazionale degli artigiani imprenditori d’Italia, con la Comunità di Sant’Egidio, che metterà in contatto le migliaia di aziende aderenti in cerca di dipendenti con ragazzi al termine del percorso detentivo negli istituti di pena minorili e non (non è previsto un limite di età) del Paese. A siglare l’accordo, nella sede romana della Cna di piazza Armellini, sono stati il presidente della Confederazione, Dario Costantini e il segretario generale di Sant’Egidio-Acap, Cesare Giacomo Zucconi. Presenti anche il segretario generale della Comunità, Paolo Impagliazzo e il segretario generale della Cna, Otello Gregorini. Da lunedì, ha spiegato Costantini, “con la nostra direzione nazionale veicoleremo a tutte le nostre oltre mille sedi in Italia il protocollo e l’accordo con la comunità di Sant’Egidio avvicineremo questi ragazzi alle nostre aziende che stanno cercando dipendenti. Il nostro mondo, quello dell’artigianato italiano, nei prossimi 5 anni chiederà 400.000 persone al mondo del lavoro e quindi c’è un bisogno grande: la Confederazione è molto impegnata su questo tema, eroghiamo formazione in tutta Italia e abbiamo calcolato che lo scorso anno abbiamo erogato 2 milioni e mezzo di ore di formazione”. Il presidente della Cna ha poi ricordato che “abbiamo sottoscritto già un protocollo con la Comunità di San Patrignano per accogliere i giovani che escono da quel percorso di recupero che è sempre basato sul lavoro. Inoltre nelle prossime settimane ospiteremo il ministro Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, anche qui per un protocollo per entrare nelle scuole e spiegare ai giovani che il lavoro è sempre e comunque dignità, anche quando ci si sporca le mani”. E poi, ha proseguito Costantini, “da due anni siamo impegnati sul progetto dei corridoi professionali. La Cna ha scritto il primo progetto europeo per l’artigianato sui corridoi professionali, l’abbiamo scritto con il ministero dell’Interno, il ministero del Lavoro, il ministero degli Esteri, l’abbiamo veicolato a Bruxelles ascoltando le loro richieste di modifica per poter utilizzare i fondi europei destinati ai corridoi professionali per quelle aziende che, ovviamente, sono piccole e non si possono permettere grandi investimenti per trovare nuovi dipendenti. Poi siamo andati in Egitto, abbiamo firmato una convenzione con l’Istituto Salesiano Don Bosco, abbiamo firmato una convenzione con l’Istituto Dante Alighieri del Cairo, abbiamo firmato una convenzione con la Flei, il sindacato dei lavoratori egiziani in Italia”. Il progetto, ha spiegato, “è quello di andare là a formare dei giovani, a insegnare loro la lingua italiana e le regole del nostro Paese, tutto questo per permettere a questi giovani di venire non solo a lavorare in Italia, ma di integrarsi in Italia, e quindi non vivendo tutti i problemi che oggi, sappiamo bene, caratterizzano la cronaca spesso nera della nostra società”. Dopodiché, “finito il percorso di formazione che sarà cura di artigiani italiani, faremo i colloqui online: abbiamo già selezionato le aziende per far arrivare questi ragazzi in Italia già con un posto di lavoro. Attraverso la Comunità europea saremo in grado di permettere a queste ragazze e questi ragazzi di avere l’alloggio gratis per i primi tre mesi di soggiorno in Italia, proprio per un discorso di inserimento e di integrazione. Ci sono due problemi, quello della ricerca di personale da parte delle nostre aziende e quello di flussi migratori spesso senza controllo: poi da due problemi vogliamo trovare una soluzione per dare una speranza a questi giovani e per dare un futuro alle nostre imprese. Le nostre imprese, come il resto d’Europa, stanno vivendo l’inverno demografico, il 55% dei piccoli imprenditori italiani ha più di 50 anni, il 10% ha più di 70 anni e quindi la Confederazione, ancora di più, si mette in gioco per dare una risposta alle nostre imprese”. Zucconi (Sant’Egidio): “Restituiamo dignità e futuro a ragazzi” - Questo protocollo, ha dichiarato Zucconi, “mira a sostenere il reinserimento di ex detenuti nel mondo del lavoro, e quindi questa sponda offerta dagli artigiani e dalla Cna può permettere, speriamo a molti giovani, di cominciare un percorso diverso nella propria vita, di trovare una svolta e la dignità di un lavoro per il reinserimento, speriamo definitivo, nella società”. Sant’Egidio, ha sottolineato il segretario, “lavora molto nelle carceri in tante regioni italiane e vediamo questo bisogno, proprio per evitare che dopo l’uscita dal carcere ci si ritorni. È un fatto molto importante che mira soprattutto ai giovani e al loro futuro per una vita dignitosa e pienamente inserita nel contesto sociale”. Dai corridoi professionali della Cna, a quelli umanitari di Sant’Egidio. “Il corridoio umanitario è un lavoro che ormai da tanti anni Sant’Egidio porta avanti, abbiamo portato ad oggi circa 10.000 persone prevalentemente in Italia ma anche in altri Paesi europei, e sono vie legali e sicure che permettono a persone in fuga dalla guerra, a persone vulnerabili di venire in Italia e di inserirsi nella nostra società”, ha spiegato Zucconi. “Sono i nuovi italiani, come li chiamiamo noi, e c’è un grande lavoro sull’integrazione e l’inclusione nelle nostre società di queste persone, per cui i bambini vanno subito a scuola e gli adulti cominciano subito a imparare la nostra lingua, che è la chiave anche per inserirsi nella nostra società. Da lì - ha continuato il segretario generale di Sant’Egidio-Acap - si cercano dei percorsi professionali perché, come ha detto anche il presidente Costantini, c’è un grande fabbisogno di lavoratori nell’industria e in tanti settori del nostro Paese, così come in tanti altri Paesi europei per via dell’inverno demografico, della difficoltà di trovare soprattutto alcune categorie di lavoratori”. A questo, ha sottolineato Zucconi, “si aggiunge nell’ultimo periodo anche la firma di un protocollo con il Governo italiano per i corridoi lavorativi, che si ispirano alla buona pratica dei corridoi umanitari. Sono tre i Paesi da cui verrebbero questi lavoratori, la Costa d’Avorio, il Libano e l’Etiopia, e si prevede, dopo una formazione in loco, il trasferimento in Italia, dove li attendono già delle imprese o realtà che gli offrirebbero un lavoro, ovviamente con un periodo di prova. È un accordo win-win, perché da una parte rispondiamo a un bisogno che viene espresso da tante realtà imprenditoriali italiane e dall’altra anche alla necessità di trovare un lavoro e una vita migliore per tante persone che nel proprio Paese non hanno prospettive”, ha concluso il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio. Carriere separate in magistratura, braccio di ferro in Commissione di Valentina Stella Il Dubbio, 21 febbraio 2025 Parodi (Anm): “Difendiamo la Costituzione”. Petrelli (Ucpi): “Il Csm non può essere un cartello elettorale”. A vedere le audizioni partite ieri in commissione Affari costituzionali del Senato sulla separazione delle carriere si capisce subito che il clima tra le parti in gioco non è dei più sereni. Se da un lato il neo presidente dell’Anm, Cesare Parodi, ha mostrato un volto e argomenti più dialoganti rispetto a quelli del suo predecessore, l’Unione delle Camere penali con il presidente Francesco Petrelli e il segretario Rinaldo Romanelli hanno rivolto una severissima reprimenda nei confronti dell’attuale assetto dell’ordinamento giudiziario. La stessa tensione si è riverberata anche tra i senatori presenti, al punto che verso la fine c’è stato un forte battibecco tra il presidente della Commissione, Alberto Balboni di FdI, e la vice presidente di Palazzo Madama, la dem Anna Rossomando. Il primo l’ha accusata di parlare più degli auditi prima di porre le domande, la senatrice ha replicato che stava solo difendendo le prerogative del Parlamento di discutere della riforma. Presente nel tavolo di presidenza anche il vice ministro Sisto che dall’inizio segue per il governo l’importante dossier. Ma entriamo nel dettaglio degli interventi. “Il nostro movimento di pensiero non è opporci alla riforma o voler difendere privilegi, siamo qui per difendere alcuni principi attuali costituzionali; è pacifico che la Costituzione si possa modificare ma ci sono principi che rappresentano l’essenza del nostro essere magistrati che ci teniamo a difendere come cittadini”, ha esordito il neo presidente dell’Anm Cesare Parodi, che poi è passato ad illustrare le contrarietà al ddl Nordio, rispondendo alle domande dei senatori, giunte numerose sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Secondo il vertice delle toghe, “la riforma non può incidere sui tempi e sull’efficienza della giustizia, lo ha detto in Aula persino la senatrice Giulia Bongiorno. Si tratta invece di una riforma legata alle etichette”, volendo probabilmente intendere che è stata concepita per colpire la sua categoria. Poi l’appello, che sembrava davvero accorato: “Il sistema attuale sicuramente ha presentato criticità e problemi: aiutateci a superare questi problemi all’interno dell’attuale schema. Se io un giorno gioco male a tennis non devo buttare via la racchetta, devo giocare meglio, ma se butto via la racchetta non potrò mai giocare a tennis come spero di fare. Aiutateci a usare la racchetta che abbiamo, scritta tanti anni fa ma straordinaria ancora oggi”. Ha poi ribadito: “Il timore dell’assoggettamento del pm al governo è la principale preoccupazione della magistratura associata, questo rappresenta il pericolo maggiore anche se non c’è ancora scritto da nessuna parte. Un pubblico ministero che in qualche misura appartiene a un ordine differente e viene progressivamente a sentirsi separato dal giudice corre certamente il rischio di andare incontro a una logica efficientista - ha proseguito -. Ciò che temiamo non si verificherà domani, ma è un processo irreversibile”. Ha poi criticato il sorteggio per i membri togati dei due Csm: “Una parte di magistrati la vede con favore - ha ammesso - ed è una scelta fatta, come si è detto chiaramente, per contrastare il potere delle correnti. Ma le correnti non sono gruppi di potere, bensì magistrati che hanno la medesima sintonia, un medesimo modo di approcciarsi all’attività professionale. Nel sorteggio c’è un enorme rischio: mortificare il principio di rappresentatività”. In merito all’Alta Corte disciplinare, “desta stupore questa scelta perché tutti gli organismi disciplinari sono integrati con il momento gestionale e organizzativo dell’ente da disciplinare. Chi può valutare dev’essere calato nella realtà che deve disciplinare perché solo così si può avere una valutazione equa”, ha concluso il presidente dell’Anm. Sono poi intervenuti Francesco Petrelli e Rinaldo Romanelli. L’impressione è stata quella di voler allontanare la possibilità che il governo possa trattare con l’Anm sia sul sorteggio ma soprattutto sull’eventualità di non prevedere più due Csm distinti, come trapelato sugli organi di stampa a due settimane dall’incontro tra le toghe e la premier Meloni, ma anche come smentito categoricamente dal vice ministro Sisto nell’intervista di ieri a questo giornale. Infatti per Petrelli, “in una moderna democrazia controllore (giudice) e controllato (pm) devono essere collocati in diversi e distinti organismi di governo autonomo. Si tratta di un requisito che noi richiediamo a qualsiasi tipo di organismo. Come non possiamo pretenderlo per chi amministra la giustizia?”. Per Romanelli, “l’organo di governo autonomo della magistratura si è visto attribuire, ma anche in parte si è auto-attribuito nel tempo, sulla base della teoria dei “poteri impliciti del Csm”, una quantità di competenze che non vede eguali in altri analoghi organi di governo della magistratura esistenti in paesi europei”. Quanto alla modifica prevista dal ddl governativo in merito al sorteggio, “come è noto, non è contenuta nella riforma scritta da Ucpi. Deve però ricordarsi - ha continuato Romanelli - quali sono le premesse storiche che conducono a tale soluzione, che dalla magistratura associata sembra essere colta fuori dal suo contesto reale, come una umiliazione dell’ordine giudiziario. La logica delle “responsabilità” personali di pochi ha consentito, infatti, di evitare qualsiasi seria autoanalisi collettiva ed ogni onesta messa in discussione di ciò che le correnti sono diventate. Da laboratori culturali ed ideali a cartelli e coalizioni elettorali che, se ancora riescono a riflettere le tensioni politiche che attraversano il Paese, restano all’interno del Csm paralizzate dai vincoli spartitori volti al controllo delle promozioni. Il fenomeno del correntismo certo non è iniziato con Palamara e non vi sono evidenze che sia finito con lui”. Intervenuto anche il presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto: “Il doppio Csm è il cardine stesso della riforma costituzionale. Ritornare all’unico Csm, sostanzialmente come è ora, comporta il fallimento di ogni sogno riformatore”. “Ecco perché il 27 febbraio i magistrati sciopereranno contro le riforme del Governo” di Giuseppe Legato La Stampa, 21 febbraio 2025 Parla il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) in audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato sulla riforma della separazione delle carriere. “Il nostro movimento di pensiero non è opporsi alla riforma o voler difendere privilegi, ma difendere alcuni principi attuali della nostra costituzione che rappresentano l’essenza del nostro essere magistrati”. Lo ha detto, ieri pomeriggio, 20 febbraio, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Cesare Parodi in audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato sulla riforma della separazione delle carriere. Un intervento che rimette al centro del dibattito i temi che porteranno la magistratura a scioperare il prossimo 27 febbraio contro le riforme messe in cantiere dal governo di centrodestra. Le sottolineature di Parodi arrivano dopo giorni in cui nella base della magistratura alcune frasi pronunciate dal neopresidente non sono piaciute. “La prospettazione attuale, con i difetti che pure si sono manifestati, può fornire maggiori garanzie ai cittadini”. Ha aggiunto: “Sgombriamo il campo, la riforma non può incidere sui tempi e sull’efficienza della giustizia”. L’Alta Corte di Giustizia? “È una nuova sede di valutazione dei magistrati totalmente svincolata dal Csm ed è una scelta (quella della sua introduzione ndr) che crea molto stupore perché tutti gli organismi di valutazioni in tema disciplinare sono fortemente integrati con il momento gestionale-organizzativo”. Riassumendo: “Come si fa a valutare fino in fondo un eventuale momento patologico se non si conosce il fisiologico funzionamento del meccanismo? Noi chiediamo che chi dovrà valutare la condotta dei colleghi sia pienamente e fortemente calato in questa realtà: solo così ci potrà essere una valutazione etica”. Sorteggio del Csm? “Non ci è venuto in mente - ha detto Parodi - un altro momento aggregativo sociale in cui si privano i soggetti interessati di eleggere i propri rappresentanti”. La ratio che solo così si potrà limitare il potere delle correnti? “Premesso che queste (le correnti ndr) sono composte da magistrati che hanno sintonia nell’approcciarsi ai temi di giustizia e non cercano potere: sarebbe meglio dunque intervenire sui criteri di nomina dei dirigenti degli uffici, ma senza far venir meno la rappresentatività”. E poi il tema clou: la separazione delle carriere. “Questo - ha spiegato Parodi - è un tema che riguarda l’essenza della nostra funzione. Come cittadino mi sento maggiormente garantito, come potenziale indagato, dal sapere che il pubblico ministero è organismo che si fa carico di indagare a 360 gradi sulle condotte che mi vengono contestate. Il pm, peraltro, è il primo - seguendo la riforma Cartabia - a valutare se gli elementi a carico di un indagato consentono una ragionevole pronuncia di condanna prima di chiederne il rinvio a giudizio. E proprio in questo momento invece vogliamo chiedergli di assumere un’altra funzione?”. Ha aggiunto: “Nessuna norma è stata modificata per cui quello che oggi fa il pm dovrebbe essere diverso. Ma intanto un pubblico ministero che appartiene a un ordine differente rispetto al giudice ndr) corre certamente il rischio di andare incontro a una traiettoria efficentista”. In definitiva: “Il sistema attuale sicuramente ha presentato criticità e problemi: aiutateci a superare questi problemi all’interno dell’attuale schema. Se io un giorno gioco male a tennis non devo buttare via la racchetta, devo giocare meglio, ma se butto via la racchetta non potrò mai giocare a tennis come spero di fare. Aiutateci a usare la racchetta che abbiamo, scritta tanti anni fa ma straordinaria ancora oggi. Non penso di avervi convinto, ma spero di aprire una rivalutazione su questi temi”. Toghe in sciopero, c’è chi dice no: “Non inseguiamo il consenso” di Simona Musco Il Dubbio, 21 febbraio 2025 Dubbi sulla mobilitazione annunciata dall’Anm, mentre alcuni magistrati si smarcano: “Abbiamo perso credibilità, non siamo più gli unici paladini della democrazia”. La protesta proclamata dall’Anm contro la riforma della separazione delle carriere non sta raccogliendo l’adesione unanime che qualcuno si aspettava. E il timore che lo sciopero si riveli un fallimento inizia a serpeggiare tra le toghe. Non si tratta di condividere o meno la riforma, né di un’improvvisa fiducia nell’operato dell’esecutivo. Piuttosto, in molti ritengono che scioperare contro una prerogativa del Parlamento sia un atto politicamente azzardato, una mossa che rischia di esporre la magistratura a nuove critiche e di rafforzare la narrazione di chi la accusa di volersi porre al di sopra degli altri poteri. A rafforzare questi timori, secondo alcuni, è il modo in cui l’Anm sta gestendo la protesta. Non è passato inosservato, infatti, il tentativo di raccogliere in via preventiva i nominativi di chi parteciperà allo sciopero, attraverso un modulo che sembra rappresentare un deciso “invito” ad aderire. Un modo per avere il controllo sulla situazione e prevenire un’adesione inferiore alle aspettative, che potrebbe trasformarsi in un’arma in mano all’esecutivo. Un aspetto, questo, raccontato da “Il Tempo”, che ha in realtà messo a nudo i timori dell’Anm. “Care Colleghe, Cari Colleghi - si legge nel testo fatto circolare dall’Anm -, impegniamoci tutti affinché la partecipazione all’astensione sia la massima possibile. Solo così l’azione dell’Anm trarrà forza nel difficilissimo momento che stiamo attraversando”. Insieme al modulo da compilare per aderire allo sciopero, il passaggio successivo specifica che “al fine di consentire all’Anm di raccogliere in tempo reale il dato statistico della adesione allo sciopero, ti chiediamo di compilare il seguente form “Scheda adesione sciopero” che verrà acquisito dalla segreteria dell’Anm la quale curerà il dato nel rigoroso rispetto della privacy”. Secondo alcuni, si tratta di un tentativo di distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Una cosa che, spiega un’altra toga, si sarebbe già verificata nel corso dello sciopero precedente. Ma al di là delle strategie di gestione dello sciopero, ciò che emerge con forza è un malessere profondo all’interno della categoria. Nelle assemblee delle sottosezioni dell’Anm, organizzate nei vari tribunali italiani, non sono mancati magistrati che hanno preso la parola per esprimere il proprio dissenso. Alcuni di loro hanno dichiarato apertamente di non voler aderire alla protesta. Una scelta non dettata da un allineamento alla riforma, appunto, ma da una riflessione più di “concorrenza” nei confronti della politica. “Si parla di coinvolgere la cittadinanza - osserva una magistrata - ma di quale cittadinanza parliamo davvero?”. La stessa toga si dice scettica anche rispetto ad alcune modalità comunicative adottate per sensibilizzare l’opinione pubblica. Sui social, per esempio, circola un’immagine in cui i magistrati vengono raffigurati come marionette, con la scritta: “No al controllo del potere politico sulla magistratura”. Una narrazione che, secondo alcuni, rischia di rafforzare la contrapposizione frontale con il governo, anziché aprire un confronto costruttivo. “Dietro la separazione delle carriere - prosegue la magistrata - potrebbe esserci non solo l’intento di garantire una maggiore coerenza con l’impianto del processo penale, ma anche la volontà recondita di frammentare la magistratura per limitarne il potere. Ma siamo sicuri che questa frammentazione non finisca per rafforzare, invece, il potere di pochi? Il tempo lo dirà”. Ma i timori più forti riguardano un tema ancora più delicato: il rapporto tra magistratura e opinione pubblica. “Non è solo una questione di poteri separati - afferma ancora un magistrato - il punto è che abbiamo perso credibilità. Non possiamo più illuderci di essere gli unici paladini della democrazia”. E il giudizio diventa ancora più severo: “Abbiamo inseguito il consenso, dimenticando che gli umori cambiano. Abbiamo peccato di superbia, cercato visibilità e potere, difeso la categoria a oltranza senza mai riconoscere le nostre responsabilità. E, soprattutto, abbiamo smarrito il nostro ruolo: non ci siamo limitati ad applicare la legge alla luce della Costituzione, ma abbiamo cercato di piegarla ai nostri ideali”. Un’accusa pesante, che il magistrato in questione pronuncia solo dietro garanzia di anonimato. “Molti colleghi hanno paura - spiega un’altra toga - il clima interno è pesante”. Dissociarsi dallo sciopero significa esporsi, sfidare l’approccio rigido della magistratura che dialoga a muso duro con il governo, ma che non può permettersi di mostrare cedimenti. La critica non riguarda solo la gestione della protesta, ma investe il modo in cui la magistratura ha affrontato le recenti riforme del sistema giudiziario. Secondo la toga “dissidente”, infatti, la categoria ha rinunciato al confronto, preferendo chiudersi in una posizione di resistenza assoluta. “Abbiamo accolto senza riserve il rito cartolare della riforma Cartabia, conducendo processi civili e del lavoro senza vedere le parti né gli avvocati, trattati come presenze superflue. Così abbiamo tradito il senso stesso del processo e la sua funzione sociale”, spiega ancora un magistrato. Un’accusa che colpisce il cuore del dibattito sulla giustizia: il rischio di un sistema sempre più burocratizzato, in cui il processo diventa un procedimento scritto, privo di quel confronto che dovrebbe esserne il fondamento. Ma il problema, secondo alcuni magistrati, è anche politico. La scelta di arroccarsi su una posizione di netto rifiuto ha portato la magistratura a perdere terreno su aspetti della riforma su cui, forse, si sarebbe potuto ancora negoziare. “Ci siamo chiusi nel nostro fortino - afferma un magistrato - e ora ci ritroviamo a dover subire decisioni già prese, senza più margine di trattativa”. Ed è proprio su questo punto che si consuma la frattura interna alla magistratura. Da un lato, c’è chi ritiene inevitabile una mobilitazione radicale, per difendere l’autonomia della categoria e contrastare una riforma che, a loro avviso, ne mina le basi. Dall’altro, c’è chi preferirebbe un approccio più realistico, che tenga conto del contesto politico e delle possibilità concrete di influire sulle scelte legislative. “Oggi sembra che l’unica opzione sia alzare le barricate - conclude una magistrata - e chiunque non lo faccia viene tacciato di codardia o collusione con i nemici della democrazia. Ma io resto convinta che un’altra strada sia possibile”. Una strada che passi, forse, per un maggiore realismo e per una riflessione più profonda sul ruolo della magistratura in un sistema democratico. Perché la vera sfida, oggi, non è solo fermare una riforma, ma recuperare quella credibilità che negli anni si è progressivamente sgretolata. “Obiettivo Pnrr raggiunto”. Botta e risposta col ministero della Giustizia Il Foglio, 21 febbraio 2025 Via Arenula contesta l’articolo sui target del Pnrr, mai dati citati dal Foglio sono tratti dalla relazione ministeriale. Al direttore - In merito all’articolo “Obiettivo Pnrr fallito” a firma Ermes Antonucci, pubblicato sull’edizione del 19 febbraio 2025 si precisa. Sin dall’avvio del Pnrr il ministero della Giustizia ha visto impegnate tutte le sue articolazioni nel garantire il pieno raggiungimento delle milestone e dei target assegnati, che a oggi risultano pienamente realizzati. Sorprende, quindi, che senza neanche aver attivato un preventivo contraddittorio con il ministero al fine di meglio comprendere anche i dati narrati, il suo solerte giornalista affermi che “l’Italia manca il target Pnrr sulla Giustizia” poiché “rispetto al 2019 le pendenze sono calate del 91,7 per cento contro l’obiettivo del 95 per cento”. Occorreva precisare che tale dato si riferiva a ottobre 2024 e la valutazione espressa non teneva conto del margine di tolleranza del 5 per cento che l’europa riconosce in sede di valutazione. Curiosamente, invece, il giornalista non cita i dati delle Corti di appello che a ottobre 2024 avevano registrato una riduzione dell’arretrato 2019 pari al 99,1 per cento. L’obiettivo connesso alla settima rata è, dunque, a oggi pienamente raggiunto. Il suo collaboratore scrive, ancora, che “dalla relazione del ministero della Giustizia la durata media dei procedimenti civili (il cosiddetto Disposition Time) nei tribunali è di 343 giorni contro i 325 del 2023”. Il dato fattuale, pur vero, è parziale e induce il lettore in evidente errore. Se l’intento del giornalista è dare contezza dei target di raggiungimento degli obiettivi Pnrr in scadenza al giugno 2026, il dato del Disposition Time deve essere necessariamente valutato prendendo in considerazione i tre gradi di giudizio e non solo con riguardo al tribunale. Inoltre, la formula del Disposition Time usata per il target Pnrr differisce da quella citata dal giornalista: segnatamente ai fini del target Pnrr sono ricomprese solo alcune materie e valgono tutti i procedimenti iscritti nei tre gradi a eccezione di quelli iscritti presso gli Uffici del Giudice di Pace. Con riferimento, poi, all’investimento in capitale umano, nell’articolo si afferma che “… il decreto n. 80 del 2021 ha previsto l’assunzione di 16.500 addetti all’ufficio per il processo…”. Ma, al riguardo, il giornalista dovrebbe sapere che il ministero già nel 2023 ha rinegoziato positivamente con la Commissione europea l’impegno di assumere e mantenere in servizio 10.000 unità complessive di personale. L’originale previsione di due contingenti consecutivi di 8.250 addetti all’ufficio per il processo e 5.410 unità di personale tecnico amministrativo è stata, infatti, revisionata al fine di valorizzare le risorse umane già assunte e prorogarne i contratti. L’impegno del ministero, che la Commissione ha positivamente valutato a giugno 2024 con riferimento al target M1C1-39, è ancora attuale tanto che al 31 dicembre erano in servizio 11.445 unità di personale, di cui 8.421 addetti all’ufficio per il processo e 3.024 unità di personale tecnico-amministrativo. Altrettanto faziosa è poi l’affermazione del giornalista secondo la quale “per l’edilizia giudiziaria risulta essere stato speso addirittura soltanto il 19,73 per cento del finanziamento Pnrr complessivo, pari a 411 milioni di euro”, Il dato parziale, ancora una volta, è narrato per indurre in errore il lettore. Per l’investimento in edilizia giudiziaria il ministero ha già interamente impegnato tutte le risorse Pnrr e ha provveduto a pagare il 28 per cento delle stesse, aggiungendo un ulteriore proprio finanziamento di 140 milioni di euro. La spesa andrà incontro a una rapida accelerazione nel corso del 2025, dal momento che in tale anno si attuerà la parte più consistente di esecuzione dei lavori. Da ultimo, con l’intento manifesto di screditare l’operato del ministero, il giornalista conclude che “APP ha mandato in tilt decine di Tribunali e Corti di Appello”. Ora, a tacere del fatto che l’immane impegno alla completa digitalizzazione del processo penale è stato assunto dal governo Draghi, l’attuale governo ha profuso ogni energia per bilanciare il rispetto dell’impegno assunto e vincolato dagli obiettivi Pnrr e le esigenze pratiche manifestate dagli Uffici giudiziari. Doveroso sarebbe stato che il solerte giornalista avesse ricordato che per la realizzazione della digitalizzazione del processo civile ci son voluti oltre quindici anni. Lo sviluppo e la messa in produzione dell’applicativo processo penale (APP) già a partire dal 2023, ha visto il ministero impegnato nel monitoraggio del suo corretto funzionamento, nella risoluzione delle criticità emerse, nello sviluppo di rilasci progressivi e incrementali di nuove funzionalità agli utenti. Gli sforzi già profusi sono stati riconosciuti dalla Commissione europea nell’ambito della positiva valutazione della milestone M1C1-38 a dicembre 2023 e continueranno, al fine di garantire entro dicembre 2025 la completa digitalizzazione del processo penale di primo grado. Risponde Ermes Antonucci. La lettera non smentisce il dato riportato nell’articolo, secondo cui lo scorso anno “rispetto al 2019 le pendenze civili sono calate del 91,7 per cento, contro l’obiettivo richiesto dal Pnrr del 95 per cento entro il 31 dicembre 2024”, ma specifica soltanto che l’obiettivo è da ritenersi raggiunto grazie al “margine di tolleranza del 5 per cento che l’Europa riconosce in sede di valutazione”. Se ne deduce che senza questo margine di tolleranza, di cui veniamo ora a conoscenza, l’obiettivo sarebbe quindi stato fallito. I dati riportati nell’articolo (“nel 2024 le pendenze civili presso i tribunali sono aumentate a sorpresa del 3,5 per cento, raggiungendo quota 2.817.759, circa centomila in più del 2023”) sono infatti tratti da una tabella presente nella relazione predisposta dallo stesso ministero della Giustizia (a pagina 568) che si riferisce all’intero anno 2024, e non a ottobre 2024. La precisazione del ministero ci appare come un ulteriore elemento di preoccupazione in vista del raggiungimento dei futuri obiettivi previsti dal Pnrr sulla giustizia civile. D’altronde, in maniera ancora più allarmante, il solerte ufficio di gabinetto del ministero non smentisce l’affermazione più importante presente nell’articolo: “Sulla base di una proiezione dei numeri che arrivano dai diversi uffici giudiziari sarà pressoché impossibile centrare l’obiettivo più importante previsto dal Pnrr per la giustizia civile, cioè la riduzione del 40 per cento della durata media dei procedimenti civili entro giugno 2026”. La mancata smentita di questa informazione non fa ben sperare per il paese. Quanto alla contestazione di aver riportato in maniera parziale i dati sul Disposition Time, si fa presente al solerte ufficio di gabinetto che intenzione dell’autore era, come specificato nell’articolo, di attirare l’attenzione su “alcuni segnali negativi” che emergono dalla relazione del ministero (o si pretende che un quotidiano pubblichi tutte le 783 pagine della relazione?). Per quanto riguarda l’investimento in capitale umano, la lettera non smentisce (come potrebbe?) che “il decreto n. 80 del 2021 ha previsto l’assunzione di 16.500 addetti all’ufficio per il processo”, ma che oggi ne risultano in servizio 8.250, informazioni anch’esse tratte dalla relazione. Sorprende ancora di più, poi, che l’ufficio di gabinetto si spinga a definire come “faziosa” l’affermazione secondo la quale “per l’edilizia giudiziaria risulta essere stato speso addirittura soltanto il 19,73 per cento del finanziamento Pnrr complessivo, pari a 411 milioni di euro”. Anche in questo caso si tratta di un dato (per quanto imbarazzante) tratto dalla relazione ministeriale (pagina 171). Le informazioni riportate nella lettera per “smentire” questo dato non sono presenti nella relazione. Se ne deduce che è la relazione predisposta dagli uffici ministeriali a essere “faziosa”. Per quanto riguarda l’esordio fallimentare dell’applicativo APP per il processo penale telematico, viene contestato di non aver ricordato il percorso lungo oltre quindici anni che ha portato alla realizzazione della digitalizzazione del processo civile (cioè di un altro settore della giustizia) né gli sforzi profusi dal ministero. Al solerte ufficio di gabinetto evidentemente non è ben chiaro il concetto di libertà di stampa. Prendiamo atto, infine, che l’ufficio di gabinetto non abbia smentito una virgola delle notizie da noi riportate sulla confusione interna al ministero della Giustizia nell’attuazione dei progetti legati al Pnrr, dovuta in particolare alla centralizzazione dei poteri operata dal capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi. Delmastro condannato, Meloni allo scontro con i magistrati: “Sentenza politica, serve la riforma” di Ilario Lombardo e Luca Monticelli La Stampa, 21 febbraio 2025 Chiusa nel fortino di Palazzo Chigi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni attendeva questa sentenza. Da una parte si sforza in esercizi di equilibrismo sulla politica internazionale di fronte alle bordate di Donald Trump contro l’Europa e l’Ucraina; dall’altra fa da paciere nella mediazione quotidiana per tenere buoni gli alleati Matteo Salvini e Antonio Tajani, che ha incontrato ieri mattina a Palazzo Chigi. La condanna a otto mesi per rivelazione del segreto d’ufficio del sottosegretario Andrea Delmastro diventa l’occasione per l’ennesimo attacco della premier alla magistratura. Con una motivazione che, curiosamente, sembra confliggere proprio con quella riforma della separazione delle carriere avviata con grande entusiasmo da Meloni e l’intero centrodestra: la Procura di Roma - sostiene la presidente del Consiglio - aveva chiesto l’assoluzione dell’esponente di Fratelli d’Italia. Questa divergenza tra giudice e pubblico ministero confermerebbe l’indipendenza dell’uno dal giudizio dell’altro. Ma tant’è. La premier, ancora indecisa se confermare il suo intervento di domani alla convention dei Repubblicani americani a Washington, si è precipitata a capofitto su un caso che le permette di riproporre lo scontro tra politica e giustizia. Dopo meno di due ore dalla notizia, Meloni affida a una dichiarazione scritta tutta la sua rabbia e sentenzia: “Il sottosegretario Delmastro rimane al suo posto”. “Sono sconcertata - spiega - per la sentenza di condanna, per il quale il pubblico ministero aveva inizialmente richiesto l’archiviazione e successivamente l’assoluzione. Mi chiedo se il giudizio sia realmente basato sul merito della questione”. Il ragionamento fatto con i suoi fedelissimi è ancora più netto: “È una sentenza politica”, riferisce chi le ha parlato. Galeazzo Bignami, capogruppo alla Camera di FdI, traduce ancora più esplicitamente il pensiero della premier: “È un processo esclusivamente politico che ha imbarazzato addirittura l’accusa. L’unica responsabilità del sottosegretario è stata quella di aver fatto sapere agli italiani che esponenti del Pd erano andati a incontrare mafiosi in carcere. Chi tocca il Pd, per certi magistrati, va punito”. Nessuno a destra nomina Giovanni Donzelli, che suo malgrado ha innescato tutta questa vicenda. Donzelli (fiorentino), coinquilino a Roma di Delmastro (biellese), esattamente due anni fa in aula alla Camera riferì delle conversazioni nel carcere di Sassari tra l’anarchico Cospito e alcuni detenuti di camorra e ‘ndrangheta, anche loro al 41 bis. Informazioni che Delmastro - da sottosegretario con delega al Dap - aveva raccontato all’amico fiorentino. L’ira meloniana contro il potere giudiziario si riflette sul Guardasigilli Carlo Nordio che, dopo essere andato a Palazzo Chigi, dice di confidare già in una chiara bocciatura in appello della sentenza: “Sono disorientato ed addolorato per una condanna che colpisce uno dei collaboratori più cari e capaci. Confido in una sua radicale riforma in sede di impugnazione. Delmastro ha la più totale ed incondizionata fiducia, continueremo a lavorare insieme per le indispensabili ed urgenti riforme della Giustizia”. Le opposizioni attaccano e chiedono le dimissioni di Delmastro così come le invocano da tempo per Daniela Santanchè, la ministra del Turismo rinviata a giudizio dal Tribunale di Milano per falso in bilancio sul caso della società editrice Visibilia. Per la premier le due questioni sono molto diverse. Se da una parte afferma che Delmastro resterà al suo posto perché è vittima della magistratura politicizzata, dall’altra considera Santanchè causa del suo male. Secondo Meloni, qualora fosse rinviata a giudizio anche per l’altro filone, che riguarda la truffa all’Inps sulla cassa integrazione nel periodo Covid, la ministra si dovrebbe dimettere per ragioni di opportunità politica. L’atteggiamento è completamente diverso nei confronti dei due esponenti di FdI, membri entrambi del governo. Con Santanchè è maturata una freddezza arrivata ormai alla rottura. Delmastro è invece un fedelissimo di Meloni a cui perdonare tutto: dallo sparo al veglione di Capodanno a cui lui era presente fino “all’intima gioia di non lasciar respirare i detenuti nei mezzi della polizia”, dichiarazione che la premier ha avvalorato difendendolo. Delmastro condannato. Storia di un autocomplotto politico di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 febbraio 2025 Otto mesi (pena sospesa) al sottosegretario alla Giustizia, che non si dimette. La premier Meloni lo blinda. Il Governo attacca: “Sentenza politica”. Ma più che a un complotto dei magistrati si è assistito a un autocomplotto della politica. Condannato in primo grado a otto mesi (pena sospesa) dal tribunale di Roma per violazione di segreto d’ufficio sul caso Cospito, contro la richiesta di assoluzione avanzata dai pm, il sottosegretario Andrea Delmastro rispetta l’annuncio fatto due settimane fa al Foglio: “Non mi dimetto”. Poi attacca: “Una sentenza politica! Vogliono dire che le riforme si devono fermare? Hanno sbagliato indirizzo!”. Delmastro incassa subito la solidarietà del Guardasigilli Nordio, che si dice “disorientato e addolorato” dalla condanna. Poco dopo arriva la blindatura della premier Meloni: “Il sottosegretario rimane al suo posto”. Ma la premier va oltre, definendosi “sconcertata per la sentenza di condanna”: “Mi chiedo se il giudizio sia realmente basato sul merito della questione”. Parole destinate a far schizzare alle stelle il livello di scontro con la magistratura. In precedenza, i partiti di opposizione avevano chiesto uniti le dimissioni del sottosegretario. Elly Schlein si era rivolta proprio a Meloni: “Lo faccia dimettere”. Invito rinviato al mittente. Gli esponenti di Fdi seguono in massa la strategia dell’attacco alle toghe, bollando la sentenza come “esclusivamente politica”. Anche l’altro sottosegretario (leghista) alla Giustizia, Andrea Ostellari, esprime solidarietà al collega. “Andiamo avanti insieme”, dice il viceministro forzista Francesco Paolo Sisto. Resta in silenzio Giovanni Donzelli, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, amico nonché coinquilino di Delmastro. Fu lui a far esplodere il caso che poi ha portato il suo collega di partito a processo. Il 31 gennaio 2023, infatti, Donzelli intervenne alla Camera rivelando il contenuto di alcune informative del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) su colloqui avvenuti in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e due mafiosi al 41 bis, lanciando una dura accusa contro i parlamentari del Pd che avevano incontrato in carcere l’anarchico, all’epoca in sciopero della fame: “Voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello stato o dei terroristi con la mafia!”. I colloqui di Cospito erano contenuti in atti che erano stati richiesti dal sottosegretario Delmastro e che erano classificati come “a limitata divulgazione”, cioè non sarebbero dovuti uscire dal ministero della Giustizia. Inizialmente la procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine, ritenendo oggettiva la violazione del segreto ma che non ci fossero prove sull’elemento soggettivo, cioè sul fatto che Delmastro fosse consapevole dell’esistenza del segreto. Il gip non aveva accolto la richiesta e aveva ordinato l’imputazione coatta per il sottosegretario. Che l’assoluzione nei confronti di Delmastro non fosse cosa scontata, come molti nella maggioranza e nel governo pensavano, lo si era capito osservando gli sbuffi con cui il presidente del collegio giudicante, Francesco Rugarli, ha di volta in volta reagito alle testimonianze ascoltate in udienza. Che rappresentavano un sottosegretario dalla memoria infallibile sui contenuti delle relazioni “a limitata divulgazione” ricevute dal Dap sui colloqui di Cospito al 41 bis, ma allo stesso tempo inconsapevole che quelle informative fossero da ritenersi segrete. Ascoltato al processo, infatti, Donzelli ha affermato che Delmastro lo informò sui colloqui di Cospito in Transatlantico, la mattina del suo intervento alla Camera, e ha escluso che il sottosegretario gli abbia mostrato documenti. In altre parole, Delmastro andò a braccio. Peccato che le parole poi pronunciate in Aula da Donzelli furono esattamente coincidenti, persino negli avverbi, con quelle contenute nella relazione inviata dal Dap al sottosegretario. Il carattere segreto delle relazioni del Dap è stato invece confermato al processo da ben due ex capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: prima Giovanni Russo (“Le relazioni erano con la clausola ‘a limitata divulgazione’, quindi sarebbero dovuti rimanere all’interno dell’amministrazione”), poi Francesco Basentini (“La limitata divulgazione a maggior ragione valeva all’esterno del Dap”), quest’ultimo chiamato a testimoniare addirittura dalla difesa di Delmastro. Insomma, dall’inizio alla fine, più che a un complotto dei magistrati si è assistito a un autocomplotto della politica. Cosa cambia se a violare un segreto è un pm e non un politico di Luciano Capone Il Foglio, 21 febbraio 2025 La lettura incrociata delle sentenze su Delmastro e il pm Storari mette i cittadini di fronte a un paradosso: un magistrato può non sapere se vìola un segreto, un politico no. La condanna a otto mesi del sottosegretario Andrea Delmastro non cambia - come non l’avrebbe fatto un’assoluzione - la gravità politica del suo comportamento nel caso Cospito: l’utilizzo di informazioni riservate per attaccare in Parlamento le opposizioni. E, se non per quello, Delmastro avrebbe già dovuto dimettersi da sottosegretario alla Giustizia - come peraltro richiesto dall’Unione delle camere penali - per le sue dichiarazioni sulla “intima gioia” che prova per come “non lasciamo respirare” i detenuti. Detto questo, la sentenza del tribunale di Roma - di cui ancora non si conoscono le motivazioni - lascia aperta quantomeno qualche riflessione, soprattutto rispetto a vicende analoghe come quella del pm Paolo Storari. L’ulteriore premessa da fare è che ogni processo ha vita autonoma, è caratterizzato da elementi specifici, e pertanto i confronti vanno fatti sempre cum grano salis. Ma i due casi, quello del sottosegretario Delmastro e quello del pm Storari, sono interessanti perché riguardano lo stesso tipo di reato (la rivelazione del segreto d’ufficio) ma si sono conclusi con un esito diverso (l’assoluzione in un caso, la condanna nell’altro), sebbene in entrambi i casi la linea difensiva fosse la mancanza dell’elemento soggettivo. L’assenza del dolo, nella rivelazione al collega di partito Giovanni Donzelli dei colloqui al 41-bis dell’anarchico Cospito, oltre che la linea difensiva era anche la tesi dell’accusa. La procura di Roma, infatti, aveva prima chiesto l’archiviazione e, dopo l’imputazione coatta decisa dal gip, ha chiesto l’assoluzione perché nonostante esistesse una oggettiva violazione del segreto amministrativo, mancava l’elemento soggettivo del reato per un “errore su legge extra-penale”. In sostanza, per l’accusa non c’è dolo perché Delmastro ignorava la norma amministrativa, mentre per i giudici l’eventuale errore di Delmastro non è scusabile dato che si tratta di un avvocato penalista e di un sottosegretario alla Giustizia. Naturalmente non spetta a noi, senza peraltro conoscere nel dettaglio le motivazioni, stabilire chi abbia ragione, sebbene i casi in cui un imputato venga condannato dopo che l’accusa ne chiede l’assoluzione sono rari. In ogni caso, la vicenda di Delmastro richiama alla memoria, per molte analogie, il caso Storari-Davigo per la divulgazione da parte del pm della procura di Milano all’ex membro del Csm dei verbali di Amara sulla fantomatica loggia Ungheria coperti da segreto. In entrambi i casi la rivelazione del segreto è avvenuta in un incontro privato tra le mura domestiche, il tinello di casa Delmastro-Donzelli nel primo caso e il salotto di casa Davigo nel secondo, e in entrambi i casi gli atti coperti da segreto sono diventati di dominio pubblico, nel primo caso spifferati da Davigo a membri del Csm e poi finiti ai giornali e nel secondo spiattellati da Donzelli in Parlamento. Nella vicenda Storari-Davigo le sentenze sono già passate in giudicato. Tralasciando la condanna definitiva di Piercamillo Davigo, quella più interessante è la sentenza che riguarda Storari. E per due motivi. Il primo è che Storari ha lo stesso ruolo di Delmastro, quello del divulgatore dell’atto secretato, il secondo è che a differenza di Delmastro è stato assolto in via definitiva in primo e secondo grado. L’altro aspetto interessante è che Storari è stato assolto per difetto di colpevolezza, più precisamente per mancanza di dolo, e più nello specifico per un “errore scusabile” sulla “interpretazione di una norma extrapenale”. In pratica, Storari - non conoscendo bene le circolari del Csm - è stato indotto in errore da Davigo e ha fatto una cosa che non si deve fare pensando che si potesse fare. In sostanza i giudici hanno giustificato il comportamento di un pm a detta di tutti molto preparato, che quotidianamente ha a che fare con le indagini penali e che meglio di chiunque dovrebbe conoscere le norme che regolano e custodiscono il segreto investigativo. Ma, evidentemente, secondo la giustizia anche i migliori magistrati possono sbagliare. Il punto qui non è sostenere che anche Storari fosse da condannare come Delmastro, o che Delmastro fosse da assolvere come Storari. Né sottolineare, mentre si discute di separazione delle carriere, che i giudici sono più clementi quando gli imputati sono i colleghi magistrati e più severi quando lo sono i politici. Il punto è che la lettura incrociata dei giudizi su Storari e Delmastro mette i cittadini di fronte a un paradosso: anche rispetto a norme molto complicate e di difficile interpretazione, prevale il principio secondo cui “la legge non ammette ignoranza”, a meno che non si tratti di magistrati esperti. In tal caso l’ignoranza della legge è ammessa, o quantomeno scusabile. “Uno di noi”, il delegato meloniano più amato dalla Polizia penitenziaria di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 febbraio 2025 Dal feudo biellese al controllo del Dap e del Gom. Ha creato il reparto anti rivolta. E cambiato la fisionomia del Dipartimento. “Uno di noi”. Dopo anni di “passerelle”, finto interesse e false promesse, “eccolo, invece, il nuovo, l’uomo che con il suo piglio, il suo carisma, sta dando la sferzata giusta per ridare dignità al Corpo dei baschi azzurri”. L’osanna è tratto dal blog ufficiale del sindacato autonomo Sappe, ma è solo un caso: è sempre un tifo da stadio, quello che accoglie puntualmente Andrea Delmastro Delle Vedove in ogni ambiente di polizia penitenziaria. Dal suo feudo originario del biellese, dove possiede una solida rete di amicizie nel campo (nell’estate 2023 il sindacato Sinappe gli organizzò una grigliata proprio nel cortile del carcere di Biella invitando anche alcuni degli agenti che allora erano indagati per tortura, ma tenendo alla larga però la Garante locale dei detenuti), il suo allure si è fatto strada in tutte le carceri del Paese. E lui ricambia con amore: “Non mi inchino alla mecca dei detenuti”, disse l’estate scorsa visitando gli agenti delle carceri di Taranto e Brindisi. Classe 1976, nato a Gattinara in provincia di Vercelli, figlio di un ex deputato di An, è stato avvocato di fiducia di Giorgia Meloni e militante del Fronte della Gioventù prima dell’elezione in Comune a Biella e in Parlamento nel 2018. Come sottosegretario alla Giustizia, ha la delega alla Polizia penitenziaria e controlla anche il reparto Gom che si occupa dei detenuti in 41bis. Ed è per gli agenti del Gruppo operativo mobile, appunto, che a novembre scorso, presentando la nuova super auto blindata per il trasporto dei detenuti sottoposti al regime di carcere duro, aveva dichiarato l’”intima gioia” con cui “non lasciamo respirare chi è dietro quel vetro”. A capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, vorrebbe fortemente che rimanesse l’attuale facente funzione Lina Di Domenico, ex vice di Giovanni Russo subentrata dopo le dimissioni del magistrato nominato nel gennaio 2023. Ma, come rivelato dal manifesto un mese fa, il quasi sgarbo istituzionale commesso con il Quirinale (nessun nome è arrivato sul tavolo del presidente Mattarella, cui spetta firmare il Decreto presidenziale di nomina del capo Dap), ha portato ad uno stallo che ancora perdura. Tuttavia, la sfera di influenza di Delmastro arriva anche sulla Direzione generale dei detenuti - che farebbe capo al sottosegretario leghista Andrea Ostellari - dove a dicembre 2024 riesce a portare l’ex pm di Biella Ernesto Napolillo al posto del direttore Giancarlo Cirielli (fratello di Edmondo) che, a sua volta, si sposta all’ispettorato generale del ministero di Giustizia. E siamo sempre, comunque, nella “casella Fd’I”. Del nostro sottosegretario, finito suo malgrado nel 2023 in una sfortunata festa di Capodanno per colpa del fratello di partito Emanuele Pozzolo, si potrebbero ricordare le note più di colore, quelle occasioni che Delmastro non ha perso per parlare alla pancia della PolPen e del Paese. Come il calendario dei baschi azzurri stile Rambo che rivendicò con orgoglio davanti alle proteste dell’opposizione, o le schermaglie con la Corte dei conti del Piemonte. Ma vale la pena soffermarci su un paio di temi più seri come la creazione, nel maggio scorso, del Gruppo di intervento operativo (Gio), un reparto di agenti penitenziari anti sommossa nato sul modello dell’Équipes régionales d’intervention et de sécurité francese, pronto a sedare in tempo record le rivolte nelle carceri, laddove per “rivolta” si vuole intendere il nuovo reato istituito con il ddl Sicurezza (in itinere al Senato) che si configura anche con la resistenza passiva. Oppure la riforma con la quale nel maggio scorso ha cambiato la fisionomia del Dap emulando il dipartimento di Pubblica sicurezza, con un intervento di suddivisione delle competenze dell’amministrazione in “divisioni” che ha affidato solo a dirigenti di polizia penitenziaria. Delmastro, le frasi in carcere e l’aggressione di Donzelli al Pd di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 febbraio 2025 La vicenda. Dopo la visita di una delegazione dem all’anarchico arrivarono gli assurdi teoremi di Fdi. Chi sta al 41 bis ha la “dama di compagnia”. È questo il nomignolo che gli ospiti della sezione più dura delle galere danno alla persona con cui trascorrono l’ora di socialità. Per forza di cose si tratta sempre di detenuti nelle stesse condizioni, cioè a loro volta al 41 bis, dunque a stragrande maggioranza condannati per mafia. Già perché dei circa 750 ristretti sotto questo regime, ci sono solo appartenenti ai clan, a parte i tre neobrigatisti d’inizio millennio mai pentiti né dissociati. E l’anarchico Alfredo Cospito, le cui “dame di compagnia” sono state, tra gli altri, il boss della ‘ndrangheta Francesco Presta e il camorrista Francesco Di Maio. Sono le conversazioni avute con loro ad essere finite nei documenti citati da Donzelli alla Camera il 31 gennaio del 2023. Nel carcere di Sassari, dunque, un giorno Presta incoraggiò Cospito ad insistere nella sua battaglia - lo sciopero della fame - contro il 41 bis: “Devi mantenere l’andamento, vai avanti”. E l’anarchico rispose: “Fuori non si stanno muovendo solo gli anarchici, ma anche altre associazioni. Adesso vediamo che succede a Roma”. La conversazione venne captata dal Gom (il Gruppo operativo mobile della penitenziaria) e trasmessa al Dap che, come da prassi, stilò una relazione e la inviò al gabinetto del ministero della Giustizia. In tutta evidenza, Cospito si stava riferendo alle tante manifestazioni in suo sostegno alle quali non parteciparono solo anarchici ma anche diversi esponenti della società civile colpiti dalla storia dell’anarchico trattato come un capomafia. Giovanni Donzelli utilizzò queste frasi per sostenere che la delegazione del Pd andata a far visita a Cospito nel carcere di Sassari (Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Walter Verini e Silvio Lai) fosse complice di un nascente sodalizio tra anarchici e mafiosi. Durante il processo romano, il deputato di Fdi ha sostenuto di aver appreso queste notizie da Delmastro, peraltro suo coinquilino, che però non gli avrebbe mostrato alcun documento ma gli avrebbe raccontato i fatti citando a memoria, avverbi compresi, le conversazioni avvenute nel carcere di Sassari. Il sottosegretario, in tutto questo, ha sempre ribadito che non si trattava di documenti segreti. Versioni che non hanno in alcun modo convinto l’ottava sezione penale del tribunale di Roma. Quelle intercettazioni che piacciono a Palazzo Chigi di Fabio Anselmo* Il Domani, 21 febbraio 2025 A differenza di quelle usate dalla magistratura delle indagini, che sono nel mirino del governo Meloni, lo stesso esecutivo sembra del tutto indifferente (e silente) sul caso dello spyware Graphite di Paragon. Pochi sanno, però, che esiste un articolato e complesso mondo di intercettazioni che possono ben essere definite “di governo”. Il caso dello spyware Graphite, prodotto dalla società israeliana Paragon e usato per intercettare illegalmente giornalisti e attivisti delle ong, ha riportato al centro il tema delle intercettazioni, da sempre l’incubo della politica italiana. Ma a differenza di quelle usate dalla magistratura nelle indagini, che sono nel mirino del governo, lo stesso esecutivo sembra del tutto indifferente e silente rispetto al caso Paragon, cioè a captazioni che violano i diritti, fuori dalle regole del codice di procedura penale. Se sul caso Paragon il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto poco o nulla, al contrario sulle intercettazioni fatte dai pm va in escandescenza invocando la sacrosanta privacy dei cittadini e i costi eccessivi dello strumento. Pochi sanno, però, che esiste un articolato e complesso mondo di intercettazioni che possono ben essere definite “di governo”. Sono quelle per le quali sono particolarmente sfumate le forme di controllo e delle quali non ne rimane traccia se non nelle memorie di coloro che le dispongono ed eseguono. Si tratta delle cosiddette intercettazioni preventive disciplinate dall’articolo 226 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. È il ministro dell’Interno che se ne fa promotore quando ritiene che siano insorte esigenze di prevenzione rispetto alla possibile commissione di reati particolarmente gravi quali terrorismo, eversione e criminalità organizzata. Su sua delega possono quindi essere intercettate comunicazioni e conversazioni, anche per via telematica, anche nei luoghi di privata dimora dei cittadini e soggetti sottoposti a osservazione. Queste attività investigative sono normalmente delegate ai servizi centrali interprovinciali della polizia di stato, dell’arma dei carabinieri e del corpo della guardia di Finanza. In casi particolari il ministro dell’Interno può delegare anche la Direzione investigativa antimafia. È vero che in tutti i casi deve essere richiesta l’autorizzazione del procuratore della Repubblica distrettuale del luogo dove si trova il soggetto da intercettare o dove sono nate le esigenze di prevenzione individuate dal ministero, ma è altrettanto vero che il suo controllo rimane limitato a ciò che gli viene offerto al di fuori di un’indagine che ha come oggetto la semplice possibilità che venga commesso un reato tra quelli appena indicati. Non è previsto alcun intervento di un giudice-filtro. Le attività di intercettazione possono durare 40 giorni, prorogabili per altri 20. Di tutte le operazioni svolte e dei contenuti intercettati viene redatto verbale sintetico che, unitamente ai supporti utilizzati, deve essere depositato al procuratore che, entro 5 giorni, ne dispone immediata distruzione. Ma non finisce qui. Nel 2005 è stato introdotto dal governo Berlusconi un altro canale di attività di intercettazione “governativa” che dà al presidente del Consiglio la possibilità di attivare il sistema delegando i servizi segreti. Le materie per le quali si possono effettuare le intercettazioni sono originariamente limitate a terrorismo, eversione e mafia. Il sistema è del tutto analogo a quello del ministro dell’Interno. L’autorizzazione spettava però al procuratore generale della Corte d’appello territorialmente competente. Nel 2012, col governo Monti, ecco la nuova svolta: sarà il procuratore generale di Roma a autorizzarle per tutto il territorio nazionale. Ciò che più potrebbe sorprendere, però, è l’introduzione di una sostanziale illimitata discrezionalità a favore del presidente del Consiglio che può attivare il sistema di controllo non più soltanto per la ritenuta possibilità di dover prevenire attività terroristiche, di eversione o mafia ma per tutte le attività previste agli articoli 6 e 7 della legge 124 del 2007 che ha costituito i nuovi servizi segreti Aise e Aisi. Il solo limite è quello del perimetro delle attività istituzionali per le quali sono stati costituiti i servizi segreti. Una discrezionalità molto ampia. Le ragioni delle attività investigative preventive perdono cosi il collegamento alla possibilità della commissione di reati ma si estendono a generiche ragioni di “sicurezza interna a protezione di interessi politici, militari, economici, scientifici ed industriali”. Il governo Meloni ha stabilito che le relative spese, non andavano più imputate al ministero della Giustizia, con buona pace (si fa per dire) del ministro Nordio, ma a quello dell’Economia e Finanza. Siamo così certi che tutti i problemi del sacrificio della privacy dei cittadini italiani e dell’eccesso di spesa siano da imputare alle intercettazioni giudiziarie che sono tanto utili all’accertamento dei reati e al perseguimento dei responsabili? *Avvocato “Legge Nordio”, restano appellabili dal Pm le sentenze di assoluzione ante 25 agosto 2024 Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2025 La Cassazione, ordinanza n. 6984/2025, chiarisce che le sentenze di proscioglimento emesse prima della entrata in vigore della legge 9 agosto 2024, n. 114 (25 agosto) possono comunque essere appellate dal Pm anche nel caso in cui riguardino i reati indicati dall’articolo 550, co. 1 e 2, Cpp. Arriva una importante precisazione sugli effetti della cd. “Legge Nordio” del 2024 che, tra l’altro, ha limitato il potere del pubblico Ministero di proporre appello escludendolo avverso le sentenze di proscioglimento per i reati a citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica (articolo 550, co. 1 e 2, c.p.p). Ebbene, per la Quinta Sezione penale, ordinanza n. 6984/2025, le sentenze di proscioglimento emesse prima del 25 agosto 2024, data di entrata in vigore della legge 9 agosto 2024, n. 114, possono comunque essere appellate dal pubblico ministero anche nel caso in cui riguardino i reati indicati dall’articolo 550, co. 1 e 2, Cpp. Non si applica, infatti, la preclusione prevista dall’articolo 593, co. 2, cod. proc. pen., come modificato dall’articolo 2, comma 1, lett. p), legge citata, posto che, in assenza di disciplina transitoria, il principio del tempus regit actum comporta l’operatività del regime impugnatorio previsto all’atto della pronunzia della sentenza, essendo quello il momento in cui sorge il diritto all’impugnazione. La Suprema corte, riqualificata l’impugnazione come appello, ha così accolto il ricorso del Pg presso il Tribunale di Asti contro la sentenza del 26 giugno 2024 che aveva assolto l’imputato ritenendolo non punibile per particolare tenuità del fatto per il delitto di lesioni aggravate nei confronti del coniuge. Occorre considerare, scrive la Corte, che, nella formulazione attuale, l’articolo 593, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. stabilisce che “Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2”. E non vi è dubbio che il delitto di lesioni, anche pluriaggravato, rientri tra quelli per cui si può procedere a citazione diretta, per cui, qualora trovasse applicazione la suddetta disposizione, il pubblico ministero non avrebbe potuto proporre appello contro la decisione del Tribunale. La sentenza, tuttavia, è stata pronunciata il 26 giugno 2024, ovvero quando era possibile, in forza del primo periodo del comma 2 dell’articolo 593 cod. proc. pen., per il pubblico ministero proporre appello contro le sentenze di proscioglimento. L’impugnazione è stata invece proposta in data 23 ottobre 2024 e, quindi, in data successiva all’entrata in vigore della riforma sopra indicata. Occorre dunque stabilire se, in mancanza di una disciplina transitoria, la nuova disposizione processuale (art. 593, comma 2, cod. proc. pen.) sia applicabile ai casi in cui - come quello in esame - la sentenza, alla quale si riferisce l’impugnazione proposta dopo il 25 agosto 2024, sia antecedente all’entrata in vigore della riforma. Per la Corte la disciplina regolatrice del fenomeno successorio di istituti processuali non può che ricondursi al principio di cui all’articolo 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, il quale in mancanza di specifica disposizione transitoria che statuisca in senso contrario - impone di fare riferimento alla normativa vigente nel momento in cui deve essere svolta l’attività processuale oggetto di modifica. E allora richiamando la pronuncia a Sezioni Unite, n. 27614/2007, la Cassazione ricorda che, ai fini dell’individuazione del “regime” applicabile in materia di impugnazioni, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di pronuncia del provvedimento da impugnare e non a quello in cui si propone l’impugnazione. Diversamente, infatti, si potrebbe “determinare una asimmetria tra le posizioni di più parti impugnanti, collegata ai tempi, spesso differenti, per la proposizione dell’impugnazione stessa, a loro volta influenzati da eventi casuali o aleatori (adempimenti di cancelleria, vicende della notifica ed altro)”. E ancora: “Il potere d’impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata, con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell’atto che si sono già prodotti prima dell’entrata in vigore della medesima legge, né regolare diversamente gli effetti futuri dell’atto”. Deve, dunque, prosegue la decisione, “essere tutelato il legittimo affidamento delle parti nello svolgimento del processo secondo le regole vigenti al tempo del compimento degli atti, nonché l’esigenza che esse conoscano il momento in cui sorgono diritti o oneri con effetti per loro pregiudizievoli; e tale affidamento non può che parametrarsi alla disciplina processuale dell’insieme delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale ovvero con l’inizio dell’attività che caratterizza il rapporto processuale”. In conclusione, le sentenze di proscioglimento emesse prima del 25 agosto 2024, data di entrata in vigore della legge n. 114 del 2024, possono essere appellate dal pubblico ministero anche ove siano relative ai reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen. Firenze. Il carcere di Sollicciano non sta davvero trovando una soluzione ai suoi molti problemi ilpost.it, 21 febbraio 2025 Chi presenta un reclamo per le condizioni disumane di detenzione viene semplicemente trasferito, e le celle vengono riempite con nuovi detenuti. A partire dallo scorso autunno al tribunale di sorveglianza di Firenze, l’organo della magistratura che si occupa dei diritti delle persone detenute nelle carceri italiane, sono arrivati circa 120 reclami presentati dai detenuti del carcere di Sollicciano, noto per essere uno dei peggiori del sistema penitenziario italiano (tra le altre cose, il carcere è da mesi senza direttore e rischia di restarlo ancora a lungo). Nei reclami i detenuti denunciano la violazione dei loro diritti e chiedono che vengano prese delle iniziative per migliorare le condizioni di detenzione nel carcere, che si trova nella periferia ovest di Firenze. Molti dei reclami esaminati sono stati accolti dal tribunale, che nelle ordinanze ha definito la condizione detentiva di alcune persone “particolarmente disumana” a causa delle “condizioni degradanti dell’istituto”, che compromettono gravemente “il diritto alla salute e il diritto a una detenzione rispettosa del senso di umanità e della propria dignità”. Di conseguenza il tribunale ha ordinato all’amministrazione penitenziaria tra le altre cose di provvedere a una sistemazione delle celle. L’amministrazione, però, invece di ristrutturare o ampliare gli spazi a disposizione dei detenuti si è limitata a trasferire le persone in altre carceri. E successivamente ha continuato a usare quelle stesse celle, ma per ospitare nuovi detenuti. Il carcere di Sollicciano ha noti problemi di funzionamento, igienici e sanitari. I detenuti vivono in celle fatiscenti e sovraffollate, in molti reparti c’è un problema di cimici dei letti, nella struttura ci sono anche infiltrazioni, perdite d’acqua, umidità, topi e sporcizia. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 10 febbraio il carcere ospita 533 persone detenute, nonostante i 361 posti attualmente disponibili. Per ora la magistratura di sorveglianza ha accolto una decina di reclami (la maggior parte è in corso di valutazione): le ordinanze hanno confermato la presenza di stanze con infiltrazioni in caso di pioggia e macchie visibili di umidità e muffa, in cui il riscaldamento non funziona, non è disponibile l’acqua calda e ci sono infestazioni di cimici dei letti. Peraltro, nel caso in cui le celle non vengano sistemate entro 90 giorni, le ordinanze del tribunale prevedono che i detenuti vengano trasferiti in un altro carcere dove “siano garantite le minime condizioni di vivibilità”. Molti detenuti però vorrebbero soltanto un miglioramento delle condizioni di vita a Sollicciano e non essere allontanati dal carcere, dove nel tempo hanno costruito rapporti e buona parte delle loro relazioni sociali, o semplicemente perché la loro famiglia vive nei dintorni e non potrebbe fargli visita in un carcere distante, perciò hanno vissuto il trasferimento come una punizione, più che come un accoglimento delle loro richieste. Anche per il timore di essere trasferiti, alcuni altri detenuti non hanno presentato un reclamo. Finora le celle non sono mai state sistemate per diversi motivi. Per risolvere il problema e migliorare davvero le condizioni di detenzione l’istituto avrebbe bisogno di interventi strutturali, ma per farli bisognerebbe svuotare intere sezioni e non si sa dove potrebbero andare le centinaia di persone detenute, nel frattempo. I lavori già appaltati per sistemare le facciate degli edifici sono fermi per complicazioni burocratiche, mentre come si legge nelle ordinanze esaminate dal Post gli interventi dipendono dalle decisioni di organi diversi: la direzione dell’istituto, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), il provveditorato interregionale alle opere pubbliche. Una frammentazione che complica il coordinamento, anche perché l’ex direttrice Antonella Tuoni, che era assente da mesi per malattia, non è stata riconfermata e il suo mandato è scaduto a inizio febbraio. In attesa di una nomina, per la quale potrebbero volerci mesi, la gestione è passata in parte al direttore del carcere di Livorno e in parte alle vicedirettrici. Visti i timori dei detenuti, le associazioni di volontari che li assistono hanno deciso di impugnare una delle ordinanze del tribunale di sorveglianza, e portare la vicenda in Corte di cassazione ed eventualmente alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Nel frattempo il tribunale di sorveglianza di Firenze ha smesso di inserire nelle proprie ordinanze la possibilità di trasferimento del detenuto reclamante. Negli ultimi anni il tribunale di sorveglianza di Firenze ha ricevuto anche un altro tipo di istanze da parte dei detenuti, presentate con l’obiettivo di ottenere una riduzione dei giorni di detenzione previsti dalla loro pena. La legge prevede che i detenuti per i quali viene stabilita la violazione dell’articolo 3 della CEDU, che vieta la tortura e i trattamenti “inumani o degradanti”, possano accedere a uno sconto di pena pari a un giorno di detenzione ogni 10 giorni trascorsi in carcere in condizioni non a norma. Queste istanze vengono solitamente presentate dai detenuti a fine pena, in modo da ottenere uno sconto più grande possibile. Nel 2023 i magistrati di sorveglianza avevano stabilito che le condizioni di detenzione di molte persone violavano le regole della CEDU, e lo scorso anno erano stati riconosciuti risarcimenti e sconti di pena a una decina di persone. Le pessime condizioni di detenzione sono state spesso denunciate dalle associazioni che si occupano del rispetto dei diritti umani nelle carceri italiane e da quelle che lavorano all’interno del carcere di Sollicciano. A luglio del 2024 più di 80 persone detenute erano state trasferite in altre carceri dopo la chiusura delle sezioni dell’istituto in peggiori condizioni, dichiarate inagibili dall’amministrazione penitenziaria dopo la protesta organizzata dai detenuti in seguito al suicidio di una persona di origine tunisina, che aveva vent’anni. Nello stesso periodo l’amministrazione aveva emesso un provvedimento nei confronti dell’allora direttrice Tuoni, chiedendo che alcuni dei problemi più gravi fossero risolti entro 90 giorni. A Sollicciano le condizioni sono pessime anche per le persone che lavorano nel carcere, circa 450 dipendenti. Molti arrivano e chiedono di farsi trasferire: in un documento pubblicato a gennaio da un sindacato della polizia penitenziaria si legge che a gennaio il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) ha deciso di assegnare al carcere di Sollicciano 50 nuovi agenti. Secondo il sindacato il numero di agenti mandati a Sollicciano sarebbe il più alto in assoluto tra tutte le carceri d’Italia, ed è probabilmente causato dal recente trasferimento di altri 44 agenti da Sollicciano ad altre carceri italiane. Foggia. I Radicali pungolano il Comune: “Istituisca subito un Garante dei detenuti” foggiatoday.it, 21 febbraio 2025 La richiesta è stata inoltrata alla sindaca di Foggia, Maria Aida Episcopo, e all’Assessore alla Legalità, Giulio De Santis: “Tale figura può fare la differenza per migliorare le condizioni di chi vive e lavora in carcere e quindi, di riflesso, per la sicurezza della cittadinanza”. “La città di Foggia, nonostante abbia uno degli istituti penitenziari più complessi d’Italia, non si è ancora dotata del Garante comunale dei detenuti. È una figura indispensabile, che deve lavorare raccordandosi con le istituzioni cittadine, con l’ufficio del Garante nazionale e la rete dei Garanti locali. Può fare la differenza per migliorare le condizioni di chi vive e lavora in carcere e quindi, di riflesso, per la sicurezza della cittadinanza”. Lo sostengono a gran voce i ‘Radicali’ Norberto Guerriero e Anna Rinaldi (Associazione Mariateresa Di Lascia) e Silvja Manzi (Europa radicale), che hanno inviato una lettera aperta alla sindaca di Foggia, Maria Aida Episcopo, per sollecitare l’istituzione del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. “La casa circondariale della nostra città - hanno dichiarato gli esponenti Radicali - detiene purtroppo l’infelice record di terzo istituto penitenziario d’Italia per tasso di sovraffollamento, con il 195,6% della capienza regolamentare. Un dato estremamente allarmante che non può essere ignorato. Sappiamo che la sindaca è molto sensibile al tema, per questo chiediamo di accelerare le tappe e procedere senza ulteriori indugi e in tempi certi all’istituzione del Garante dei detenuti. Deve essere una priorità”, sollecitano. Come si legge nella missiva - inviata oggi alla prima cittadina, Maria Aida Episcopo e all’assessore alla Legalità, Giulio De Santis - l’anno appena concluso ha registrato un macabro record, “quello dei suicidi di persone poste sotto la custodia dello Stato. Sono 90 i detenuti che nel 2024 hanno compiuto la terribile scelta di togliersi la vita. Numeri mai raggiunti finora. E sono già 12 i detenuti suicidi in questo primo mese e mezzo dell’anno”, sottolineano. Un fenomeno drammatico che però non riguarda solo i reclusi: “Non si può infatti tacere dei 7 agenti di polizia penitenziaria che, sempre nel 2024, si sono suicidati. Le condizioni di vita dei detenuti, e di lavoro dei ‘detenenti’, sono diventate insopportabili. Un sovraffollamento che registra numeri spaventosi: sui 190 istituti penitenziari italiani, per una capienza di circa 51.000 posti, al 31 gennaio, i detenuti sono circa 62.000. È un tema, questo, di cui la politica non può non occuparsi e di cui la cittadinanza non può non sapere. Perché le condizioni delle nostre carceri sono indegne di un Paese civile”, rimarcano. Per i Radicali, inoltre, la Casa circondariale di Foggia detiene un ulteriore primato: “È, infatti, la terza struttura detentiva per tasso di sovraffollamento, ben il 195,6% della capienza regolamentare (dato 2024). Al 10 febbraio il totale dei detenuti ammonta a 646 su 311 posti disponibili. Ripetiamo: 646 individui, uomini e donne, vivono uno spazio destinato a 311 persone, stipati nelle 186 stanze disponibili! Sono numeri letteralmente intollerabili. E inoltre l’organico effettivo è del tutto sottodimensionato, cosa che non può che aumentarne le difficoltà”. “Chi scrive ha visitato spesso il carcere della nostra città potendo verificarne le condizioni e le criticità. Sappiamo perciò quanto sia importante che chi vive il carcere abbia una voce, un ascolto, una possibilità di interlocuzione per sollevare problemi e tentare di risolverli. Spesso è possibile, ed è anche meno difficile di quanto si possa immaginare. Ecco perché pensiamo sia assolutamente necessario e urgente che la città di Foggia si doti al più presto di una figura indispensabile come quella del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. Una priorità che sappiamo essere anche la sua, ribadita insieme all’Assessore alla Legalità della sua Giunta lo scorso maggio. Ci permettiamo, dunque, di sollecitare un suo intervento affinché l’ufficio del Garante comunale delle persone private della libertà possa finalmente vedere la luce. Conosciamo i tempi lunghi delle macchine amministrative ma non c’è più tempo, e lo diciamo ricordando le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando, rispetto alla questione delle carceri, affermò che si trattava di un ‘tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile’“, concludono. Verona. “Allarme suicidi in carcere: sovraffollamento, emergenza psichiatrica e poche attività” di Nicolò Vincenzi L’Arena, 21 febbraio 2025 Il Garante dei detenuti, Don Carlo Vinco: “L’anno scorso 599 detenuti per 335 posti: in quattro si sono tolti la vita”. Suicidi, aumento della popolazione carceraria e la crescita “preoccupante” delle persone arrestate per reati di natura sessuale. La relazione annuale del garante dei detenuti di Montorio, don Carlo Vinco, tratteggia una situazione che - purtroppo - non è migliorata rispetto all’anno scorso. I detenuti nel 2024 erano 599 (630 quest’anno), nel 2023 invece 530 su 335 posti disponibili. Numeri che continuano a salire. L’andamento dell’anno, ha detto ieri pomeriggio (20 febbraio) don Vinco durante il consiglio comunale, “è stato purtroppo caratterizzato da fatti di gravi criticità che hanno portato il carcere di Montorio alla ribalta nazionale”. E cioè il numero di suicidi in cella: quattro in dodici mesi (sono stati 8 in tutto il Veneto). Tra cui un 25enne. Numero tristemente in linea con il 2023. Sanità mentale - “Le tragedie”, ha aggiunto il garante, “hanno messo ancora una volta a fuoco il rapporto tra carcere e psichiatria. C’è inadeguatezza nella struttura carceraria per gestire tali problematiche”. I Tso, trattamenti sanitari obbligatori, a Montorio nel 2024 sono stati 17, l’anno prima invece 13. C’è poi la questione specialisti: “Lo psichiatra interno è andato in pensione e l’Ulss ha già proposto vari bandi per l’assunzione ma, per ora, sono andati tutti deserti”. Criticità infermeria - Ma c’è un’altra situazione critica, quella dell’infermeria: “Tutte le sezioni”, ha detto don Vinco, “sono con numeri assolutamente irregolari, ma la più problematica è la sesta”. L’infermeria, appunto, sempre troppo affollata. Nella casa circondariale di Montorio, tra i 599 detenuti gli italiani sono il 39 per cento. Il sette per cento del totale (42) sono donne. La maggior parte ha tra i 34 e i 24 anni, ma ci sono anche 62 under 24 e tre (tutti uomini) over 70. “Sicuramente”, ha sottolineato il garante, “l’evento più significativo è stata la visita di papa Francesco. Un evento inatteso, chiesto esplicitamente dal pontefice quando si è organizzata la sua visita alla città”. Il 18 maggio Francesco era rimasto a Montorio per diverse ore, pranzando anche con i detenuti. “Rimane però il problema lavoro, c’è carenza di attività sia interne che esterne al carcere”, ha detto don Vinco. Sono due i progetti avviati, la falegnameria e il forno per dolci e il laboratorio femminile per la produzione di marmellate: “Ma riguardano un numero troppo esiguo di persone rispetto alle necessità”. Poi, sul caso Chico Forti, detenuto proprio a Verona, ha concluso: “Dopo 26 anni mi auguro per lui pene alternative”. Torino. Non c’è carcere “giusto” senza la Costituzione di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 21 febbraio 2025 Può il sistema carcerario essere pensato come una famiglia in cui tutte le sue componenti - dagli agenti di custodia agli educatori, dal personale sanitario a quello amministrativo fino ai dirigenti - siano poste nelle condizioni di poter cooperare e, al meglio delle proprie capacità professionali, relazionali e in piena sicurezza, assolvere al compito assegnato loro dalla Carta costituzionale? E, nello specifico, da quell’articolo 27 con cui è disposto che (…) le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato? Un’utopia? Forse, ma certo una speranza, un’aspettativa nata con le riforme carcerarie degli anni Settanta, ma che nel tempo non ha trovato terreno fertile per concretizzarsi, anzi. Negli ultimi anni le cose sono andate via via peggiorando, come ha ricordato Pietro Buffa, direttore in passato di diversi istituti di pena (tra cui quello di Torino) e figura di primo piano nell’ambito dell’Amministrazione penitenziaria nazionale, la scorsa settimana al Circolo dei Lettori in occasione di un incontro dedicato alla sua ultima pubblicazione “Narrazioni e distopie penitenziarie nella società contemporanea” (Giunti editore). Alla presentazione, promossa dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, sono intervenuti il magistrato Francesco Gianfrotta e il direttore della Casa di reclusione di Milano-Bollate, Giorgio Leggieri. L’aumento delle criticità negli istituti di pena è reso evidente anche dai numeri relativi alle situazioni di tensione: “Nel 2015” ha evidenziato Pietro Buffa “sono state registrate 448 aggressioni al personale e oggi, a dieci anni di distanza, il numero ha passato la soglia delle 2 mila, i danneggiamenti alle strutture segnalati sono passati da mille e 400 a più di 6mila e i casi di colluttazione da 500 a 5mila”. Tra i motivi della crescita esponenziale di aggressività e malessere che sfocia in azioni violente, Buffa ha parlato di “pugno duro che non funziona” e di “una prassi di relazione venuta meno”, anche in rapporto alle mutate esigenze dei tempi. Rispetto ad anni fa, tra le persone ristrette è più diffusa la dipendenza da sostanze stupefacenti o psicofarmaci e la sofferenza, spesso nel caso dei migranti, di disturbi da stress post traumatico, condizioni che necessiterebbero, insieme alle terapie mediche specifiche, anche di una particolare attenzione alle modalità di rapporto interpersonale. Dovrebbe trovare - è l’auspicio di Buffa - proprio maggiore spazio la “funzione di relazione che si pensava di poter instaurare in quella famiglia (con tutte le componenti del mondo carcerario) pensata a metà degli anni Settanta”. E, per farlo, secondo l’ex dirigente dell’Amministrazione penitenziaria occorrerebbe tornare alle origini dei progetti di riforma carceraria e “reimmaginare anche la creazione di un Corpo di personale civile, inserendo pure persone nuove, giovani”. Insomma, il mondo dietro le sbarre è un quadro complesso che quotidianamente genera disagio e difficoltà, sia per i reclusi e sia per il personale che opera negli istituiti di pena. Una condizione che - come emerge nel libro di Buffa - un certo modo di raccontare i fatti che avvengono nelle strutture di reclusione non aiuta a superare. “Il carcere è rappresentato secondo le narrazioni più diverse che fanno presa sull’opinione pubblica e sui decisori politici, sempre attenti a non perdere il contatto con gli interessi ed il consenso di potenziali elettori”. E poi vi sono le responsabilità di una comunicazione con argomentazioni “verosimiglianti” di alcune organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria, che “giunge a indirizzare, rinforzare e sostenere la volontà politica di modificare il quadro normativo e le mission istituzionali e professionali di molti dei componenti del sistema penitenziario italiano, sino ad allontanarle dagli originali precetti ordinamentali e contribuire a modificare il senso, costituzionalmente inteso, della pena”. Mentre per Pietro Buffa il sistema carcerario “meriterebbe, invece, la riaffermazione assoluta di quei principi della nostra Costituzione”. Riforme costituzionali, verso un cambio di passo di Enzo Cheli Corriere della Sera, 21 febbraio 2025 Sul premierato, regionalismo differenziato e sulla riforma della giustizia il quadro delle riforme costituzionali promosse dalla maggioranza sta cambiando contenuti e ritmi. Procedendo nel tempo il quadro delle riforme costituzionali o di rilievo costituzionale proposto con forza dalla maggioranza all’inizio di questa legislatura sta cambiando passo e fisionomia. Cerchiamo di rifare il punto della situazione ad oggi. Sul premierato. Dopo l’approvazione in prima lettura in Senato il progetto incentrato sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio è fermo alla Camera e non dà segni di ripresa. Secondo una indiscrezione che sta circolando la maggioranza si starebbe orientando a sostituirlo nella legislatura in corso con una riforma della legge elettorale costruita sul modello della legge Tatarella in vigore per le elezioni regionali. Modello che, pur accattonando l’aspetto più controverso dell’elezione diretta, darebbe la possibilità di rafforzare la posizione del Presidente del Consiglio e la stabilità del Governo senza intaccare il ruolo del Parlamento né i poteri del Capo dello Stato nella formazione di Governi e nello scioglimento delle Camere. Se l’indiscrezione rispondesse alla realtà la notizia sarebbe da accogliere con favore, dal momento che con questa scelta si potrebbe spostare la riforma dell’impervio terreno costituzionale al piano flessibile della legislazione ordinaria aprendo la strada ad un ventaglio molto ampio di soluzioni e accordi possibili. Sul regionalismo differenziato. Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha demolito sette profili fondamentali della legge Calderoli (sentenza che ha condotto come conseguenza anche alla inammissibilità del referendum abrogativo) la palla è ritornata nel campo del Parlamento che dovrà ora procedere alla definizione di una nuova legge secondo i binari fissati dalla Corte ai fini della sua compatibilità con il dettato costituzionale. Binari che attengono ai limiti delle funzioni trasferibili anche alla luce del contesto europeo, all’equilibrata distribuzione delle competenze tra Parlamento e Governo nella fissazione dei LEP e nel procedimento del trasferimento, al quadro corretto delle implicazioni finanziarie del regionalismo differenziato. Infine, sulla riforma della giustizia e sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Su questa riforma la maggioranza dichiara la sua volontà di procedere senza esitazioni, ma la resistenza che è esplosa nel mondo giudiziario cui spetta il compito di rendere operante questa riforma finirà probabilmente per indurre a qualche riflessione ispirata a realismo. Il fatto è che la separazione delle carriere, che nella sua configurazione astratta non si presenta affatto contraria a quel principio ideale di parità delle parti (dell’accusa e della difesa) che va perseguita nel processo penale, per poter ben funzionare nel contesto italiano dovrebbe quantomeno rispettare una condizione precisa che è quella di non aprire la strada ad una dipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico. Per evitare questa possibile (e nel nostro caso anche probabile) distorsione esistono, peraltro, tanti strumenti di cui la riforma, con alcuni correttivi adeguati, potrebbe farsi carico sia attraverso il rafforzamento dell’obbligatorietà dell’azione penale sia attraverso una sicura neutralità nella composizione degli organi di governo e di controllo disciplinare dei magistrati inquirenti. Tutto quindi induce a pensare che il quadro delle riforme costituzionali promosse dalla maggioranza stia cambiando contenuti e ritmi sotto l’azione di tanti fattori che concorrono a rendere sempre più chiara la difficoltà di condurre in porto unilateralmente riforme a forte impatto costituzionale in un paese politicamente diviso a metà qual è oggi il nostro. Mentre, d’altro canto, la dura realtà dei problemi che, nella difficile stagione che stiamo attraversando, investono quotidianamente l’azione di governo concorre certamente a stemperare la furia ideologica della vittoria che, all’inizio della legislatura, aveva indotto la maggioranza a promuovere riforme orientate, più che a correggere, a rovesciare il senso ed il fondamento storico del nostro impianto istituzionale. Se così è viene a riaffiorare una domanda che ho già avuto modo di porre: non è forse giunto il momento per riaprire un serio tavolo di confronto tra maggioranza e opposizioni che affianchi il Parlamento e che sia in grado di far maturare sulle possibili riforme costituzionali soluzioni di buona fede impegnate a guardare lontano verso gli interessi generali destinati a sorreggere nel futuro l’unità del paese? Ventun’anni di legge 40, tra vecchi divieti e nuovi ostacoli alla procreazione assistita di Chiara Lalli Il Dubbio, 21 febbraio 2025 La legge 40 sulle tecniche riproduttive ha ventuno anni. La legge si chiama “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”. È sbagliato e analfabeta pure il titolo. Ma del titolo potremmo disinteressarci se non fosse stata piena di divieti insensati, ingiusti, illegittimi. In questi anni molti di quei divieti sono stati eliminati ma il costo è stato altissimo. E il tempo perso è un tempo irrecuperabile. Nel 2005 ci sono stati quattro referendum di abrogazione parziale; il quesito di abrogazione totale non è stato ammesso dalla Corte costituzionale e il quorum non è stato raggiunto. La legge 40 è una legge perfetta per sapere come non si scrivono le leggi. Un manuale al contrario. Che significa procreazione medicalmente assistita? Che significa gamete? Surrogazione di maternità? Non ci sono le definizioni, forse era troppo faticoso. Come faccio a rispettare una legge o a eseguire un comando se non capisco bene quello che c’è scritto o quello che mi state dicendo? I divieti sarebbero stati bellissimi se non fossero stati deliranti. Il divieto di fecondazione eterologa, cioè se mi servivano dei gameti di qualcun altro non potevo usarli. Perché? Non si sa. Il divieto di produrre più di tre blastocisti (quelle che chiamano embrioni forse sperando di rimandare a quella iconografia prolife che disegna un embrione di 10 settimane come un bambino di cinque anni; qui stiamo parlando dei primissimi stadi di sviluppo e non di un feto né tantomeno di un neonato) e l’obbligo di contemporaneo impianto di quelle tre blastocisti (forse il più lunare degli obblighi perché mi costringi a rifare tutto il percorso di stimolazione e prelievo chirurgico degli ovociti anche se producessi più ovociti, mi costringi a impiantare tutte e tre le blastocisti in modo cieco e universale - tutto questo ignorando i rischi medici e le mie caratteristiche specifiche). Il divieto di congelare quelle blastocisti non impiantate. Il divieto di accesso alle persone (anzi alle coppie) non fertili e voi vi chiederete che senso ha usare le tecniche se non sei sterile? Il senso è quello di evitare la trasmissione di alcune malattie trasmissibili. Per farlo, secondo la legge 40, puoi evitare di avere un figlio evitando così anche il rischio oppure farti un test prenatale e poi in caso abortire. Questo invece di ricorrere alle tecniche e alla diagnosi genetica di preimpianto. Sensato, no? Come dicevo, grazie alle persone colpite, alla difesa di Filomena Gallo e al lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, grazie ad alcune sentenze della Corte costituzionale, ora quella legge è meno ripugnante. Ma non basta. Cosa rimane? Il divieto di sperimentazione sugli embrioni (come ho detto, le blastocisti che poi magari le buttiamo, cioè le lasciamo estinguere). Le puoi importare le cellule, ma non produrle. Il divieto di accesso alle tecniche se non a coppie sposate o conviventi. Il divieto di cambiare il consenso dopo la produzione delle blastocisti e non fino all’impianto. Il divieto di ricerca e di “surrogazione di maternità”. Il legislatore in questi anni non ha fatto niente. Anzi no. Ha perfino peggiorato la legge 40 e la sua posizione. Qualche mese fa, infatti, è stata cambiata e al già divieto della maternità surrogata è stato aggiunto un capolavoro normativo e forse pure narrativo: “se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”. Se vai in un paese a fare qualcosa che lì è legale poi torni e ti arrestano. Sensato, no? Il prossimo 11 marzo la Corte costituzionale si esprimerà sull’articolo 5, cioè sui criteri di accesso. Vediamo cosa succederà. Ma intanto sarebbe davvero molto utile imparare dai disastri passati. Lo so, lo so. Succede raramente e considerando quello che sta succedendo sul suicidio assistito forse siamo pure peggiorati. Perché in quel caso basterebbe copiare due sentenze della Corte costituzionale, la 242 del 2019 e la 135 del 2024, aggiungere solo alcuni aspetti organizzativi (i tempi entro cui il servizio sanitario deve rispondere alla richiesta della verifica dei requisiti) e avremmo una buona legge. Non basta non solo per i divieti che restano. Non basta perché ai danni passati non c’è rimedio. Rimandare è un’arte. Rimandare è una omissione morale. Forza Italia difende la cannabis light: “Vietarla è sbagliato e illiberale” di Nadia Ferrigo La Stampa, 21 febbraio 2025 L’europarlamentare Flavio Tosi: “Abbiamo convinto il Ppe a mandare avanti la petizione presentata in Ue dai produttori e dalle loro associazioni di categoria”. “In tutta Europa la produzione e la commercializzazione della canapa industriale è consentita, vietarla in Italia credo sia sbagliato e illiberale. Sono a rischio 11 mila aziende agricole associate anche a Confagricoltura, Coldiretti, Cia e Copagri. Aziende spesso guidate da under 40 e under 30, che in questi anni hanno investito soldi e creato decine di migliaia di posti di lavoro, che pagano le tasse e contribuiscono al Pil. Non stiamo parlando di sostanze stupefacenti o di spacciatori, ma di una filiera seria che lavora una materia prima secondo rigorosi canoni scientifici e nel pieno rispetto della legislazione europea, e che crea indotto economico, finanziario e fiscale” denuncia Flavio Tosi, europarlamentare di Forza Italia, contrario a vietare la coltivazione e la vendita della canapa industriale come invece il governo Meloni ha proposto con un emendamento al Ddl sicurezza. L’obiettivo della maggioranza è cambiare la legge a sostegno della filiera della canapa a uso industriale, cioè con quantità di Thc, il principio attivo che dà l’effetto stupefacente, inferiore allo 0,2 per cento. La proposta di modifica, se approvata in via definitiva, vieterà la coltivazione e la vendita dei fiori di canapa “ad eccezione di alcuni usi industriali”. Se l’emendamento passerà il commercio e la cessione verranno punite con le norme del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, in sostanza parificando la cannabis light a quella non light. “Certamente non si può minare il principio di libera concorrenza sancita dai trattati europei - continua Tosi -. Per questo come Forza Italia abbiamo convinto il Partito Popolare Europeo a mandare avanti la petizione presentata in Ue dai produttori e dalle loro associazioni di categoria, altrimenti il rischio è che venisse cassata. Auspichiamo che quella petizione possa diventare una risoluzione del Parlamento europeo. Altrimenti l’Italia sarebbe il solo Paese Ue ad avere il divieto e si metterebbe fuori mercato, perché poi il consumatore il prodotto lo trova comunque su internet. Sono un liberale, significa che preferisco sempre le posizioni di buon senso ai divieti assoluti. Nella fattispecie poi occorre essere pragmatici, non è che se tu metti una stretta al settore poi le infiorescenze a basso Thc non le trovi, le puoi comunque reperire su internet. Mi rendo conto che il tema è complesso, però resto convinto che vietare tout court non sia la soluzione”, conclude. “Bene la petizione europea lanciata per sostenere il settore della canapa industriale. E bene che a sostenerla ci siano anche esponenti del centrodestra come Tosi - commenta il segretario di +Europa Riccardo Magi -. Ma proprio a loro dico: questa petizione è contro il vostro governo che tratta gli agricoltori della canapa come narcotrafficanti, mandando letteralmente in fumo posti di lavoro, investimenti, anni di esperienza e sacrifici di normali imprenditori, solo per illudere la popolazione che stanno facendo la guerra alla droga. Tosi e gli altri di centrodestra, oltre a firmare le petizioni, dicano ai loro leader e ai loro colleghi parlamentari di cambiarie il ddl Sicurezza, perché nasce tutto dalla furia proibizionista di Piantedosi, Mantovano, Meloni e Salvini che non sanno distinguere tra sostanze diverse”. “Sono felice di vedere che all’interno del centrodestra esista ancora qualche anima liberale, per mere ragioni ideologiche stiamo rischiando di condannare alla chiusura una filiera produttiva tutta italiana di 3.000 imprese e 15.000 operatori, regalando inoltre centinaia di milioni di euro l’anno alla criminalità organizzata - commenta Luca Fiorentino, di Cannabidiol Distribution -. Stiamo dicendo agli investitori di non venire in Italia perché le nostre regole sono diverse dal resto d’Europa e che le cose potrebbero cambiare dal giorno alla notte. Ciò che è legale in Italia, non viene deciso dalla scienza e dai dati, ma dall’ideologia di chi governa”. Questa Europa in balia della legge del più forte di Gabriele Segre La Stampa, 21 febbraio 2025 Prima ancora di progettare il futuro, la politica ha il compito di comprendere a fondo il presente. Quando ciò non accade, essa perde la sua funzione e si condanna all’irrilevanza. L’affanno dell’Europa nel cercare un posto al tavolo del confronto tra Russia e Stati Uniti ne è l’esempio più emblematico: mentre Trump e Putin si preparano a decidere il destino dell’Ucraina e a disegnare le linee della nuova geopolitica, il vecchio continente appare ancorato a una visione del mondo ormai estinta. A questa appartiene la stessa idea di “pace giusta” a cui giustamente ancora aspiriamo: un obbiettivo nobile e legittimo, ma che si ridurrà a uno slogan vuoto se continueremo a ignorare che a prevalere, oggi come in passato, è la “pace dei forti”, a dispetto del diritto internazionale in cui avevamo creduto e che ora appare tragicamente impotente. Che piaccia o meno, multilateralismo e giustizia internazionale resteranno ai margini di negoziati dominati dalla più cinica concretezza: la conta dei chilometri di territorio conquistati da Mosca e delle tonnellate di terre rare garantite a Washington. Lo stesso destino rischia di colpire un altro principio a noi caro: la soluzione “due popoli, due Stati” per il conflitto israelo-palestinese. Un obiettivo che per anni è riuscito a incarnare le nostre aspirazioni di convivenza e dignità umana, ma che appare ogni giorno di più come una lontana utopia, anziché una soluzione perseguibile. È sufficiente attraversare quelle terre per rendersi conto che la separazione territoriale necessaria per realizzarla è via via più impraticabile. Allo stesso modo, non possiamo ignorare la realtà sul campo in Ucraina: Putin controlla già gran parte del Donbass, mentre le controffensive di Kiev appaiono sempre più disperate e inefficaci. La guerra, tragicamente, non si vince con la nobiltà delle intenzioni, ma con la brutalità dei risultati. Ignorare questa evidenza equivale a pianificare il futuro su basi illusorie, come se gli eventi non fossero accaduti. Un progetto radicato nella nostalgia però non è soltanto inutile, è dannoso. Per restare aggrappati alle aspettative del passato, non riusciamo più a comprendere il presente: ci sentiamo spiazzati, incapaci di orientare le nostre azioni, troppo turbati ogni volta che le certezze che pensavamo incrollabili si scoprono all’improvviso inconsistenti. È del tutto normale cercare di proteggersi, tentando di conservare ciò che resta e, al contempo, di recuperare il più possibile ciò che si è perso. Ma questo meccanismo di autodifesa diventa letale quando è la politica ad adottarlo. Invece di rimanere concentrata su ciò che sarebbe potuto essere, è necessario che essa provi a immaginare soluzioni alternative che siano adeguate alla realtà attuale. Tornare davvero indietro nel tempo e ristabilire l’ordine precedente non sembra attuabile: richiederebbe uno sforzo straordinario e una capacità di mobilitazione ideale, economica e militare che di certo il nostro continente oggi non ha. La verità è che solo chi è in grado di esercitare una vera potenza può ragionare da conservatore. Ai deboli non rimane altra scelta che essere creativi. Se non possiamo riportare indietro le lancette, dobbiamo allora uscire dagli schemi imposti dalla storia e inventarci un orologio diverso. In un certo senso, è proprio ciò che la nuova interlocuzione tra Trump e Putin sta forzando molti a fare, anche se nella maniera più spietata possibile. Limitarsi a protestare non basterà: saranno necessarie idee alternative se si vorrà evitare di restare semplici spettatori del proprio destino. Alcuni paiono averlo capito: i Paesi Arabi, per esempio, intenti a preparare una loro proposta per il futuro di Gaza. Persino Zelensky dà l’impressione di essere pronto a considerare opzioni diverse pur di non lasciare il futuro dell’Ucraina interamente nelle mani di altri. Resta da vedere se l’Europa saprà fare altrettanto. Se continuerà a incarnare l’ideale nobile - ma ormai sempre più nostalgico - del primato del diritto internazionale, oppure se sarà in grado di affrontare la durezza di un’epoca in cui il dialogo mediato cede il passo al dominio dei più forti. Nel frattempo, è utile ricordare quanto ci insegna l’evoluzione: non sempre i grandi predatori prevalgono; talvolta è l’ingegno dei più piccoli a permettere loro di adattarsi al cambiamento e prosperare. Per riuscirci, dobbiamo però sbrigarci a riconoscere che la trasformazione è già in corso. Il mondo che conoscevamo, e in cui ci sentivamo così a nostro agio, non esiste più: ora si tratta di elaborare il lutto il più velocemente possibile e cominciare a guardare avanti. Non servirà stravolgere la nostra natura o abbandonare i nostri valori, ma adattare la strategia per farli emergere in un contesto diverso. Un processo psicologico, oltre che decisionale, che la politica ha il dovere di guidare, trovando nella disperazione anche la forza della responsabilità. Stati Uniti. Visti sospesi e migranti deportati: questa crociata potrebbe ritorcersi contro Trump di Diego Battistessa* Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2025 Il Governo degli Stati Uniti ha recentemente ordinato la sospensione (congelamento) dei benefici per determinate categorie di richiedenti asilo, permessi di lavoro e beneficiari di TPS (Temporary Protected Status). Questo ordine federale ha sollevato preoccupazioni tra gli avvocati specializzati in immigrazione, i quali sottolineano che tale sospensione potrebbe avere un impatto significativo su migliaia di individui che attualmente dipendono da questi programmi per il loro sostentamento e la loro sicurezza legale. Stiamo parlando di circa 530mila beneficiari del parole umanitario provenienti da Venezuela, Nicaragua, Haiti e Cuba, così come altri più di 200 mila provenienti dall’Ucraina, persone che denunciano che ora verranno penalizzate nonostante abbiano seguito i protocolli stabili dalla precedente amministrazione. Ciò nonostante, il Dipartimento di Sicurezza Nazionale ha argomentato sulla necessità di analizzare lo status migratorio di queste persone, adducendo possibili casi di frode nella presentazione dei documenti necessari per le richieste di asilo effettuate. Una “guerra” a tutto campo quella dell’amministrazione Trump, che trova fedeli alleati in stati con una elevata popolazione di latinos come la Florida, governata dall’ultraconservatore Ronald Dion DeSantis. Questa pausa amministrativa per i richiedenti asilo, che ritarderà la risoluzione di tutti i casi aperti e che riguarda anche le persone del programma di riunificazione familiare, potrebbe esporre queste persone a rischi elevati, poiché molti di loro fuggono da situazioni di persecuzione o violenza nei loro paesi d’origine. Senza la protezione legale e l’accesso al lavoro, potrebbero trovarsi in condizioni di vulnerabilità estrema, prive di mezzi di sussistenza e di protezione adeguata. Senza considerare che la revoca dei permessi di lavoro potrebbe avere ripercussioni economiche sia per gli individui coinvolti che per le comunità in cui risiedono. Molti titolari di permessi di lavoro contribuiscono infatti attivamente all’economia locale, e la perdita di questo diritto creerà delle difficoltà per l’imminente diminuzione della forza lavoro disponibile in settori chiave come quello della costruzione (che operano notoriamente con migranti). I beneficiari del TPS, che hanno ottenuto protezione temporanea a causa di condizioni straordinarie nei loro paesi d’origine, potrebbero affrontare un futuro incerto. La sospensione dei loro benefici potrebbe costringerli a tornare in paesi ancora instabili o pericolosi, mettendo a rischio la loro sicurezza e la loro integrità fisica. ?E’ in questo contesto che vanno lette anche le immagini di mercoledì 19 febbraio arrivate da Panama, dove un gruppo di migranti deportati dagli Stati Uniti è stato confinato in un hotel, sollevando preoccupazioni a livello internazionale. Persone provenienti da vari paesi dell’America Latina che sono state rimpatriate nell’ambito delle recenti politiche migratorie statunitensi e, al loro arrivo a Panama, sono state isolate in una struttura alberghiera senza un chiaro piano per il loro futuro. Le condizioni all’interno dell’hotel sono state descritte come precarie e le persone migranti hanno comunicato con l’esterno attraverso messaggi scritti su fogli di carta e mostrati dalle finestre, chiedendo assistenza e attirando l’attenzione dei media e delle organizzazioni per i diritti umani. Questa situazione ha evidenziato le difficoltà che molte persone migranti affrontano dopo essere stati deportate, spesso ritrovandosi in paesi di transito senza risorse o supporto adeguato. Le autorità panamensi hanno dichiarato che stanno lavorando per trovare soluzioni appropriate per queste persone ma è evidente la mancanza di coordinamento tra i paesi coinvolti, situazione aggravata anche dalle limitate risorse disponibili. Nel frattempo, le organizzazioni non governative hanno intensificato gli sforzi per fornire assistenza immediata, come cibo, cure mediche e supporto legale, alle persone confinate, esigendo risposte al governo di Mulino. Un governo, quello di Mulino, che insieme a quelli del Salvador di Bukele, dell’Argentina di Milei, del Costa Rica di Rodrigo Chavez, dell’Ecuador di Daniel Noboa e del Paraguay di Santiago Peña, hanno creato una specie di rete di appoggio alle politiche a Trump: nonostante chiari scontri come quello sul Canale di Panama. Una cosa è certa, stiamo assistendo all’inizio di una crociata e davanti agli occhi abbiamo le conseguenze dirette delle politiche migratorie restrittive impulsate da Trump. Chi difende la necessità di un approccio più umano e coordinato a livello internazionale sta perdendo forza e alleati e a poco serve spiegare che la detenzione prolungata e l’incertezza sul futuro possono avere gravi ripercussioni sulla salute mentale e fisica delle persone migranti, molte delle quali sono già fuggite da situazioni di violenza e persecuzione nei loro paesi d’origine. Attivisti e gruppi per i diritti umani stanno facendo pressione sui governi affinché adottino misure che rispettino la dignità e i diritti fondamentali dei migranti, come l’accesso a procedure di asilo e protezione internazionale, nonché la garanzia di condizioni di accoglienza adeguate durante l’intero processo. La situazione a Panama serve come monito sull’urgenza di riformare le politiche migratorie per affrontare le cause profonde della migrazione e proteggere i diritti di coloro che cercano sicurezza e una vita migliore in tutta la regione. *Latinoamericanista, reporter, analista politico