Colloqui intimi in carcere: le denunce dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2025 Lettera al guardasigilli per denunciare i ritardi e le promesse mancate dopo la sentenza della Consulta che riconosce il diritto all’affettività. Da oltre 365 giorni, nelle carceri italiane si respira un’amara contraddizione: la sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2024) che riconosce il diritto dei detenuti ai colloqui intimi con i propri cari rimane lettera morta. Una promessa di umanità tradita, un diritto costituzionale ridotto a “carta straccia”. Per questo arriva una lettera coraggiosa - curata da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - che giunge come grido d’allarme dalle mura del carcere di Padova. È destinata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e denuncia, con toni sentiti e inconfondibili, la persistente negazione del diritto ai colloqui intimi. La decisione storica della Consulta, che avrebbe dovuto restituire affetto e dignità alle persone detenute, appare oggi relegata a un mero strumento formale, trattata come “carta straccia” in un contesto dove il rispetto dei diritti fondamentali sembra sempre più lontano. La lettera, redatta dalla redazione di Ristretti Orizzonti, ripercorre in modo dettagliato le parole e le azioni - o meglio, l’inazione - di un sistema che, pur avendo istituito il 28 marzo 2024 un gruppo di studio multidisciplinare incaricato di elaborare una proposta per rendere effettivo il diritto ai colloqui intimi, non ha ancora presentato risultati concreti. Il ministro Nordio, in una precedente dichiarazione, aveva illustrato come il gruppo avesse lavorato in collaborazione con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II per individuare spazi adeguati all’interno degli istituti penitenziari, definendo modalità, durata e frequenza degli incontri, sempre con l’obiettivo di garantire sicurezza e riservatezza. Tuttavia, a distanza di ulteriori mesi, l’attuazione pratica delle misure promesse sembra rimasta un obiettivo irraggiungibile, lasciando i detenuti in uno stato di angoscia e delusione. Senza dimenticare i magistrati di sorveglianza come Fabio Gianfilippi ed Elena Banchi, i quali hanno emesso ordinanze per obbligare singoli istituti (Terni, Parma) a garantire spazi riservati, segnando un contrasto stridente con l’inerzia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il Dap, come ha reso noto Il Dubbio, si era opposto per quanto riguarda il detenuto di Parma. Il magistrato di sorveglianza, ha rigettato subito l’istanza. Le testimonianze - La lettera si fa veicolo di testimonianze dirette, in cui le voci dei detenuti raccontano una realtà fatta di sofferenze quotidiane, di affetti negati e di una “desertificazione affettiva” che condanna le famiglie a vivere un’eterna separazione. In un lungo e struggente racconto, Ignazio Bonaccorsi, detenuto che sconta l’ergastolo da 33 anni, esprime il dolore di chi ha visto “tante famiglie distrutte, separazioni e matrimoni andati in frantumi” a causa dell’impossibilità di avere contatti fisici significativi con i propri cari: “Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri, le conseguenze le subiscono i figli. C’è una sentenza della Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente: ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Quando vengono fatte nuove leggi restrittive “Contro di noi” entrano subito in vigore, mentre quelle a nostro favore si bloccano”. Un altro detenuto, Salvatore Fani, nel raccontare la sua esperienza, aggiunge il dolore di un padre che si interroga sul futuro di suo figlio, costretto a crescere solo con la madre e a dover spiegare a un bambino di cinque anni perché non possa avere un fratello o una sorella: “Per me il carcere vero non è la struttura detentiva, ma la prigione dell’assenza degli affetti. La mia famiglia viene devastata da una politica che, invece di sostenere il diritto all’intimità, ci priva della possibilità di mantenere un legame umano e fondamentale. La mia promessa a mio figlio di un futuro migliore svanisce ogni giorno in un’ennesima porta chiusa”. Anche Mattia Griggio, detenuto da un anno presso la Casa di reclusione di Padova, racconta con tono commosso il disagio di un genitore “l’unico possibile” per i suoi tre bambini, costretto a vedersi solo per poche ore in spazi piccoli e controllati, sottolineando come “l’assenza di incontri intimi non sia solo una questione burocratica, ma una ferita aperta che minaccia lo sviluppo psicologico dei più piccoli e alimenta un clima di disperazione che può portare persino al suicidio”. Jody Garbin, infine, testimonia il dramma di chi ha perso l’amore e la stabilità familiare: “Io, detenuto dalla mia condanna a 18 anni, ho visto la mia famiglia disgregarsi: dopo 14 anni di convivenza, la separazione è diventata inevitabile, perché non si può pretendere che una moglie rimanga fedele se l’incontro si riduce a tre giorni all’anno, con un abbraccio e un bacetto come unici segni di affetto. La sentenza della Corte Costituzionale prometteva un diritto fondamentale - quello di dare e ricevere affetto - e invece, dopo un anno, la mia speranza si è infranta ancora una volta”. Le promesse tradite - Le parole dei detenuti non sono solo un’accusa contro l’inerzia istituzionale, ma un invito al ministero a riconsiderare l’umanità e il buon senso. Le testimonianze, raccolte in un unico flusso di dolore e speranza, sottolineano come il riconoscimento formale del diritto ai colloqui intimi debba tradursi in concrete misure strutturali che non solo rispettino la dignità degli individui, ma salvaguardino il tessuto familiare, spesso già logorato da anni di politiche restrittive. Le parole dei detenuti di Padova dipingono un quadro di disperazione, in cui l’assenza di amore e contatto fisico diventa un ulteriore strumento di punizione, peggiorando il clima di isolamento e abbandono che caratterizza la vita carceraria. Mentre il Gruppo di studio si perde in attese e relazioni tecniche, la sofferenza umana continua a fare da monito per una politica che, pur sapendo della sentenza della Corte Costituzionale, sembra non avere la volontà - o forse il coraggio - di fare il necessario per riportare in vita quel diritto inalienabile. La lettera, con il suo tono appassionato e carico di testimonianze vere, lancia un appello a un cambiamento urgente: non si tratta solo di una questione di conformità legale, ma di un imperativo morale per non distruggere ulteriormente le famiglie e l’umanità di chi, nonostante tutto, cerca ancora di amare. Carceri, la resa di Nordio di Angela Stella L’Unità, 20 febbraio 2025 Una resa totale sia sui suicidi in carcere sia sull’abuso della custodia cautelare. Questa la sintesi che possiamo desumere dalle risposte fornite dal Ministro Nordio ieri al question time carcere dall’inizio del 2025 - un uomo di 52 anni nel carcere Frosinone che sarebbe uscito tra poco più di un anno - il Ministro Nordio va alla Camera, sostenendo che a lui ne risultano solo 9. Da qui le proteste del deputato di Iv, Roberto Giachetti. Ieri a Frosinone si è ucciso un altro detenuto, dall’inizio dell’anno sono 13 ma al ministro ne risultano 9. “In pochi mesi non si possono produrre soluzioni rivoluzionarie” sulle carceri, ha detto alla Camera. Ma da 2 anni e mezzo a via Arenula c’è lui. I parlamentari di Azione, nell’atto di sindacato ispettivo, avevano innanzitutto ricordato che “il sovraffollamento si conferma un’emergenza strutturale: i numeri aggiornati al 31 gennaio 2025 confermano un ‘surplus’ di oltre 10.000 unità rispetto alla capienza regolamentare”; che a differenza di quanto sostenuto dal Ministro il trend sui suicidi non è rallentato; che “l’avvocato Irma Conti, del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha recentemente dichiarato che 19.000 detenuti, con pene residue fino a tre anni, sulla base della normativa potrebbero optare per misure alternative, ma la burocrazia, la carenza di risorse e di informatizzazione nei tribunali di sorveglianza creano importanti ostacoli”. Per tutto questo avevano chiesto al responsabile di Via Arenula quali iniziative intendesse assumere “al fine di ricondurre l’esecuzione della pena a uno standard adeguato per un Paese democratico”. Il Guardasigilli ha ribadito che si tratta di un “argomento drammatico che viene periodicamente portato alla nostra attenzione; è giusto che sia così proprio per la drammaticità della situazione, ma è altrettanto vero che a distanza di pochi mesi non è che si possano produrre soluzioni rivoluzionarie”. In realtà Nordio siede a Via Arenula da oltre due anni e mezzo ma al momento soluzioni immediate per fronteggiare le emergenze non ne abbiamo visto. Il responsabile di Via Arenula ieri ha semplicemente elencato: “iniezione di risorse finanziarie che sono tutte mirate al benessere, si fa per dire, di chi è privato della libertà personale”, la creazione di “uno specifico gruppo di lavoro per lo studio e l’analisi degli eventi suicidari delle persone detenute con il compito di definire un protocollo operativo per elaborare momenti di formazione per il personale Penitenziario al fine di tutelare la salute psicofisica dei detenuti e di prevenire i suicidi”, l’istituzione di un Commissario straordinario per “avere 7000 nuovi posti detentivi in più nell’arco della legislatura”. Sul tema della custodia cautelare il Ministro è stato interrogato da Forza Italia, in particolare dal capogruppo in commissione Giustizia, Tommaso Calderone, che gli aveva chiesto cosa intendesse fare il Governo “per limitare l’uso della custodia cautelare nei confronti di indagati/imputati non ancora giudicati, contribuendo alla riduzione della popolazione carceraria”. Il tema era stato al centro del dibattito politico a seguito dell’arresto dell’ex Governatore della Liguria, Giovanni Toti, ma lo stesso Nordio da sempre ha auspicato una modifica della custodia cautelare, necessaria per evitare la carcerazione ingiustificata. Non va dimenticato che era il presidente del comitato del Sì ai referendum “giustizia giusta”, promossi da Lega e Partito radicale, che puntavano, tra l’altro, a contrastare proprio l’abuso della custodia cautelare in carcere. La questione era diventata talmente rilevante l’anno scorso che proprio Calderone il 18 luglio 2024 aveva depositato una proposta di legge che punta a modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato. Escludendo i reati di maggiore allarme sociale, come mafia e terrorismo e quelli a sfondo sessuale, la pdl prevede “che dopo un congruo lasso di tempo (sessanta giorni), il giudice, anche d’ufficio, proceda ad una nuova valutazione della “pericolosità” sulla base di atti e fatti concreti e attuali diversi e ulteriori rispetto a quelli originariamente alla base della misura e, ove non più persistenti, prevedere la revoca o la sostituzione con altra misura meno afflittiva”. Il deputato forzista ha sollecitato il Ministro affinché la proposta di legge venga discussa urgentemente in commissione. Tuttavia Nordio, pur condividendo la gravità della situazione, ha ammesso che il Governo è fermo sul tema: “I detenuti ristretti, in attesa di primo giudizio, sono complessivamente 9550. Sapete che una delle priorità di questo governo, di questo Ministero, è proprio quello di ridurre ai minimi termini la carcerazione preventiva” però l’unico impegno preso da Nordio è quello di aver dato “specifico mandato alla Commissione della riforma del processo penale, da me fortemente voluta, con la profonda convinzione che il principio costituzionale della presunzione di innocenza, principio fondativo del processo accusatorio, debba valere, a maggior ragione, in via anticipata per la fase cautelare”. Solo chiacchiere e distintivo. Emergenza carceri e misure cautelari: il guardasigilli risponde in Aula e prende tempo di Valentina Stella Il Dubbio, 20 febbraio 2025 Una doppia frenata quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio ieri alla Camera durante il question time: una prevedibile sul carcere, l’altra meno scontata sulle misure cautelari. Sul primo punto è stato interrogato dal gruppo di Azione che gli ha chiesto cosa intendesse fare “al fine di ricondurre l’esecuzione della pena a uno standard adeguato per un Paese democratico”, considerato che: ieri siamo arrivati al 13esimo suicidio dietro le sbarre, anche se a via Arenula ne contano solo 9; “che ci sono 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare” e che “come ricordato dall’avvocato Irma Conti, del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, 19mila detenuti, con pene residue fino a tre anni, sulla base della normativa potrebbero optare per misure alternative, ma la burocrazia, la carenza di risorse e di informatizzazione nei tribunali di sorveglianza creano importanti ostacoli”. Il Guardasigilli ha ribadito che si tratta di un “argomento drammatico che viene periodicamente portato alla nostra attenzione; è giusto che sia così proprio per la drammaticità della situazione, ma è altrettanto vero che a distanza di pochi mesi non è che si possano produrre soluzioni rivoluzionarie”. In realtà i mesi non sono pochi, il Governo Meloni si è insediato da oltre due anni e mezzo e le azioni messe in campo sono state solo, come riferito da Nordio: “iniezione di risorse finanziarie che sono tutte mirate al benessere, si fa per dire, di chi è privato della libertà personale”, la creazione di “uno specifico gruppo di lavoro per lo studio e l’analisi degli eventi suicidari delle persone detenute con il compito di definire un protocollo operativo per elaborare momenti di formazione per il personale Penitenziario al fine di tutelare la salute psicofisica dei detenuti e di prevenire i suicidi”, l’istituzione di un Commissario straordinario per “avere 7000 nuovi posti detentivi in più nell’arco della legislatura”. Sul tema della custodia cautelare il Ministro è stato interrogato da Forza Italia, in particolare dal capogruppo in commissione Giustizia, Tommaso Calderone, che gli aveva chiesto cosa intendesse fare il Governo “per limitare l’uso della custodia cautelare nei confronti di indagati/ imputati non ancora giudicati, contribuendo alla riduzione della popolazione carceraria”. Il tema era stato al centro del dibattito politico a seguito dell’arresto dell’ex presidente della Liguria, Giovanni Toti, ma lo stesso Nordio da sempre ha auspicato una modifica della custodia cautelare, necessaria per evitare la carcerazione ingiustificata. La questione era diventata talmente rilevante l’anno scorso che proprio Calderone il 18 luglio 2024 aveva depositato una proposta di legge che punta a modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato. Escludendo i reati di maggiore allarme sociale, come mafia e terrorismo e quelli a sfondo sessuale, la pdl prevede “che dopo un congruo lasso di tempo (sessanta giorni), il giudice, anche d’ufficio, proceda ad una nuova valutazione della “pericolosità” sulla base di atti e fatti concreti e attuali diversi e ulteriori rispetto a quelli originariamente alla base della misura e, ove non più persistenti, prevedere la revoca o la sostituzione con altra misura meno afflittiva”. Il deputato forzista ha sollecitato il Ministro affinché la proposta di legge venga discussa urgentemente in commissione. Tuttavia Nordio, pur condividendo la gravità della situazione, ha ammesso che il Governo non sta facendo praticamente nulla in merito: “I detenuti ristretti, in attesa di primo giudizio, sono complessivamente 9550. Sapete che una delle priorità di questo governo, di questo Ministero, è proprio quello di ridurre ai minimi termini la carcerazione preventiva” però l’unico impegno preso dal responsabile di Via Arenula è quello di aver dato “specifico mandato alla Commissione della riforma del processo penale, da me fortemente voluta, con la profonda convinzione che il principio costituzionale della presunzione di innocenza, principio fondativo del processo accusatorio, debba valere, a maggior ragione, in via anticipata per la fase cautelare”. Queste due risposte confermano che sul tema del carcere Nordio ha le mani legate e che non c’è alcuna intenzione di mettere in atto soluzioni immediate per fronteggiare le varie emergenze. Persino sul piano delle riforme processuali riguardanti l’abuso della custodia cautelare c’è uno stop. Un altro segnale che il Governo ora è concentrato solo sulla modifica costituzionale della separazione delle carriere, oltre la quale non si può andare con innovazioni normative garantiste, come richiesto soprattutto da Forza Italia. Il pericolo è quello che ad una parte di elettorato, soprattutto di Fratelli d’Italia, tutta questa serie di modifiche sia vista come un attacco alla magistratura, che comunque in parte è ben vista, soprattutto quella antimafia, e che si delinei un quadro di riforme garantiste che vadano a minare quello spirito securitario e populista che caratterizza l’estrema destra. Il Garante: “La sentenza di Reggio Emilia è coerente con un sistema penitenziario contradditorio” parmatoday.it, 20 febbraio 2025 Roberto Cavalieri: “Le immagini video in cui si vedono gli uomini della Polizia penitenziaria utilizzare metodi non regolamentari nella gestione di un detenuto, con un cappuccio in testa, percosso e denudato, sono inequivocabili e chiare”. Dopo la sentenza che riguarda dieci agenti della polizia penitenziaria di Reggio Emilia, accusati di falso ideologico, abuso di autorità contro i detenuti e percosse aggravate, Roberto Cavalieri, parmigiano e Garante regionale dei detenuti prende posizione. “La sentenza, pronunciata dalla giudice delle indagini preliminari Silvia Guareschi del Tribunale di Reggio Emilia - scrive il Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna - in esito al percorso processuale svolto con rito abbreviato, che ha visto la condanna di dieci agenti della polizia penitenziaria resisi autori, in modo tra loro differente, dei reati di falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti e percosse aggravate contro un uomo di nazionalità tunisina è coerente con un sistema penitenziario contraddittorio e da riformare. I fatti sono noti. Le immagini video in cui si vedono gli uomini della polizia penitenziaria utilizzare metodi non regolamentari nella gestione di un detenuto, spingendosi finanche all’applicazione di un cappuccio alla testa della vittima, percosso e denudato, sono inequivocabili e chiare. La derubricazione in sentenza del reato di tortura è ora oggetto di riflessione che, per forza, deve essere attenta e misurata. L’esito di questo processo non toglie però il senso alla necessità di consolidare tre riflessioni in modo fermo come sigilli. Il primo. E’ dimostrato che è estremamente difficile che la denuncia di un detenuto giunga a segno o per lo meno diventi oggetto di un’indagine seria, come questa, in cui, così come emerso anche dalle parole del pubblico ministero Maria Rita Pantani, vi è stata la casualità, favorevole al detenuto, di potere comunicate tempestivamente con il proprio legale, Luca Sebastiani del Foro di Bologna, il quale si è recato immediatamente e personalmente dal procuratore capo che ha posto sotto sequestro le video riprese dei locali oggetto dei fatti. Solo un ammodernamento degli ambienti detentivi e trattamentali dotandoli di circuiti di ripresa continua e archiviazione durevole nel tempo può garantire l’emersione di verità che contrariamente cadono nell’oblio. Inoltre, la polizia penitenziaria deve essere dotata di strumenti più tecnologici per la registrazione dei movimenti dei detenuti senza possibilità di revisione dei testi rendendo univoci e inalterabili i verbali. Il secondo. La polizia penitenziaria, e non solo purtroppo, rischia di non fare un salto nel futuro se le azioni riprese nelle video, prova del processo, non destano sdegno. Poco importa la qualificazione del reato che comunque c’è stato. Esercitato in gruppo come un branco mosso dal solo istinto contro un essere umano. Tutto questo è superabile solo se una nuova cultura della gestione delle persone sottoposte a misure privative della libertà personale si fa strada nel corpo rendendo celebri gli uomini e le donne della polizia penitenziaria che ogni giorno operano nelle carceri rispettando i diritti dei detenuti e i regolamenti e le tecniche della loro gestione. Gli episodi di festa a cui si è assistito ieri dopo la lettura della sentenza, che ha comunque consolidato delle responsabilità in capo agli imputati e l’innocenza della vittima che è e resta un essere umano, sono l’esempio di una subcultura che non è conciliabile con chi esercita un ruolo in nome e per conto dello Stato. Il terzo. Il sistema penitenziario e il suo ordinamento compiono quest’anno 50 anni. Nel corso del tempo i diversi guardasigilli che si sono susseguiti nei diversi governi hanno configurato i vertici dell’amministrazione penitenziaria che si sono trovati a dovere gestire i fenomeni sempre crescenti che hanno minato il senso della detenzione: sovraffollamento, povertà, disoccupazione, malattie, recidiva per citarne alcuni. Fenomeni che hanno ancora di più isolato il carcere a quartiere indecente delle città del nostro paese, fenomeni verso i quali cresce oramai il senso di impotenza. Esiste una via d’uscita? Credo sia giunta l’ora che gli enti locali e le istituzioni, quella Regionale in primis, quella che è il mio riferimento, cambi strategia subordinando la sua azione politica e di erogazione di investimenti e finanziamenti nella cosiddetta area penale a favore delle carceri alla imprescindibile necessità del rispetto dei diritti dei detenuti sostenendo in modo differenziato quei contesti dove i manager delle carceri, civili e non, assicurano modalità di gestione della popolazione ristretta che si avvicini, in particolare per le aree dei diritti fondamentali come istruzione, lavoro, salute, cultura, quanto più possibile a quella delle persone libere. Così come prevede la legge” “Dialogo sì, ma niente ingerenze: le leggi le fa il Parlamento” di Simona Musco Il Dubbio, 20 febbraio 2025 Intervista a Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia. L’Anm ha un nuovo presidente, già nella bufera per quella sua frase, “ci farebbero comodo due magistrati morti”. Cosa pensa di un’affermazione del genere? Per utilizzare un’espressione forense, mi riporto a quanto già osservato, sulle pagine del “Dubbio”, da Stefano Musolino, segretario di Md, da Andrea Mirenda, consigliere Csm, da Marco Manzi, collega di Parodi: “Una brutta caduta di stile”, “servono equilibrio, etica, deontologia e terzietà, qualcuno lo dica al confuso dottor Parodi… frase davvero infelice nel suo cinismo”. I commenti dei magistrati stigmatizzano a sufficienza l’insufficienza dei tentativi, da parte della corrente Area, di minimizzare la tragica gaffe, riportandola in un alveo di surreale amarezza. Se proprio devo esprimere un mio parere, si tratta della dimostrazione scientifica della difficoltà in cui versa il neopresidente della Associazione nazionale magistrati, consapevole che sulla riforma costituzionale deve vedersela con gran parte degli italiani che non la pensa come lui. Sembra però esserci un rinnovato dialogo col sindacato delle toghe, forse anche per l’appartenenza del presidente a una corrente moderata. È così? La parola dialogo per quello che riguarda il governo e, in particolare per quello che mi riguarda, la trovo fondamentale, purché ovviamente rispetti le geometrie tracciate dalla Costituzione. Se dialogare significa una leale collaborazione nell’interesse delle istituzioni e dei cittadini, è atteggiamento addirittura doveroso e indispensabile per il corretto funzionamento dei meccanismi democratici. Se invece deve essere il modo per nascondere il tentativo di condizionare le prerogative di ciascuno, diventa un’ipocrisia inaccettabile e addirittura pericolosa. L’articolo 101 della Costituzione non ammette mediazioni, meno che mai al ribasso: il Parlamento fa le leggi, la magistratura le applica, con il privilegio di essere soggetta soltanto alle stesse leggi. Fermi questi assi cartesiani inscalfibili, Parlamento e magistratura devono dialogare. Sia chiaro: desta perplessità la protesta astensionistica delle toghe contro un percorso legislativo già avviato e votato da un ramo del Parlamento, addirittura con il consenso di parte dell’opposizione. E se si rilegge il 101, già citato, della Carta costituzionale, la contraddizione con quei principi è evidente. I giudici, che sono soggetti soltanto alla legge, possono scioperare contro la legge stessa? Sinceramente, alla stregua di quanto accade in altri Paesi, ho delle perplessità. Il nostro, per fortuna, è un luogo in cui si può liberamente dissentire, esprimere la propria opinione, magari votare No al referendum confermativo, ma dubito che l’articolo 21, in questo caso, possa legittimamente tracimare nel diritto di sciopero dell’articolo 40. Si tratta di una scelta quanto meno borderline rispetto ai parametri costituzionali sopra indicati. In questi giorni ci sono state varie indiscrezioni giornalistiche su un’apertura del governo a possibili modifiche sulla separazione delle carriere, addirittura per quanto riguarda il doppio Csm. Questo però rischia di rallentare drasticamente il cammino della riforma, che dovrebbe dunque fare un altro passaggio alla Camera, con nuove audizioni. Ma davvero c’è la possibilità di un passo indietro? Passi avanti, non passi indietro. Laddove per “passi avanti” si intende raggiungere al più presto le quattro letture parlamentari della riforma, in perfetto allineamento con l’articolo 138 della Costituzione. Vorrei ancora una volta tranquillizzare l’Anm: non sarà il Parlamento a decidere se queste norme diventeranno Costituzione, bensì il popolo sovrano con il referendum, metodo saggiamente individuato dai padri costituenti e che dovrebbe piacere a tutti. O forse l’Anm intende, di fatto, impedire l’esercizio della democrazia diretta da parte dei cittadini? Se davvero si virasse verso il Csm unico, seppur sdoppiato in distinte sezioni, non sarebbe in gran parte compressa quella separazione ordinamentale che poi dovrebbe essere il cuore della riforma, anche considerato che un Csm unico non potrebbe che avere un plenum unico? Separare le carriere comporta necessariamente la separazione- duplicazione dei Csm. L’articolo 111 della Costituzione descrive plasticamente la struttura del processo: le parti, in condizioni di parità, compaiono davanti a un giudice terzo e imparziale. Se provassimo a disegnare la narrazione costituzionale, non potremmo che prendere atto che la terzietà del giudice significa diversità e uguale distanza sia dalla difesa sia dall’accusa. Cioè potrebbero mai, giudice e accusa, naturalmente e doverosamente separati, vivere nella stessa casa coniugale, in un unico Csm? Assolutamente no. Il “Dubbio” ha dato conto di tensioni tra Palazzo Chigi e via Arenula proprio in merito tale possibilità, con Nordio fermo nella volontà di lasciare il testo così com’è. Ce lo conferma? Non ho notizie, dirette o indirette, relative a ipotetiche tensioni sulla riforma costituzionale e nemmeno di diversità di vedute, e nemmeno di possibilità di modifiche. Il governo, con la entusiastica partecipazione di Forza Italia, ha proposto il disegno di legge, la commissione Affari costituzionali della Camera lo ha votato, l’aula di Montecitorio ha scelto di non modificarlo, con maggioranza ampissima. Avanti tutta! La relazione annuale sull’amministrazione della Giustizia conferma che gli errori giudiziari continuano ad essere un problema del sistema, ma a fronte di circa 5.000 ingiuste detenzioni ci sono state solo 9 condanne disciplinari in sette anni. Com’è possibile? E come si può intervenire? Premetto, come da tempo sostengo, di non essere interessato a sanzionare la magistratura sotto il profilo disciplinare, ma soprattutto a creare le condizioni perché gli errori non si possano/ debbano verificare. Come scriveva Jhering, filosofo del diritto dei miei studi universitari, “la sanzione arriva sempre troppo tardi”, quando il danno si è ormai verificato. Consapevoli di questo, siamo già intervenuti con il primo pacchetto di riforme targate Nordio per evitare ogni frettolosità nella emissione di misure cautelari, con interventi mirati, tesi a garantire anche in quella fase un equilibrato diritto di difesa. E anche le novelle sul diritto penale sostanziale e sugli eccessi di invasività delle indagini hanno avuto lo scopo di evitare che vi possa essere, come spesso accade nel nostro Paese, la lettura della misura cautelare come una anticipazione, patologicamente precoce, della sentenza di condanna. Va rammentato che la privazione della libertà personale deve essere, al tempo stesso, una eccezione e una necessità, e che l’Europa ci ha ricordato fin dal 2016 come la presunzione di non colpevolezza non sia semplicemente la vuota successione di quattro parole, ma una monumentale premessa da cui deve partire ogni lettura del processo penale, che deve essere giusto, come la Costituzione impone che sia. Se questo fosse lo spirito, condiviso, del “dialogo” sarebbe un grande passo in avanti, proprio per tutti. Delmastro a processo, è il giorno dell’accusa: “Rivelò segreti sul caso Cospito” di Irene Famà La Stampa, 20 febbraio 2025 Nel gennaio 2023 Donzelli riportò alla Camera i contenuti di alcuni colloqui avvenuti nel carcere di Sassari ricevuti dal sottosegretario. L’anarchico Alfredo Cospito era nel pieno dello sciopero della fame. Recluso al 41 bis in Sardegna, si diceva pronto a lasciarsi morire per combattere il carcere duro e l’intero sistema. Era a processo per un attentato a una caserma dei carabinieri e il mondo politico era diviso: sì, merita il carcere duro. No, il 41 bis è un’aberrazione. Alcuni esponenti dell’opposizione vanno a trovarlo. E il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro finisce a processo per rivelazione di segreti d’ufficio. La vicenda risale al 31 gennaio 2023, quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli riporta alla Camera i contenuti di alcune registrazioni di colloqui avvenuti nel carcere di Sassari dove Cospito era detenuto prima di essere trasferito al penitenziario di Opera per motivi di salute. Durante l’ora d’aria, l’anarchico libertario parlava con boss di camorra e ‘ndrangheta dell’importanza di sfidare lo Stato così da portarlo a modificare la misura detentiva. Quei documenti, ritenuti riservati, finirono alla Camera. Secondo l’accusa, Delmastro si è procurato quelle registrazioni e ha fatto in modo che l’amico e il compagno di partito le rendesse pubbliche per attaccare i parlamentari dem che avevano fatto visita a Cospito - Debora Serracchiani, Walter Verini, Andrea Orlando e Silvio Lai - accusandoli di vicinanza ai clan. “Voglio sapere se questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia!”, tuonava. La procura aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma il gip l’aveva respinta ordinando l’imputazione coatta e facendo imbestialire i vertici di Fratelli d’Italia. Al punto che Palazzo Chigi aveva fatto uscire la famigerata velina anonima che contestava a “una fascia della magistratura” di aver “scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione inaugurando anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. I magistrati romani avevano quindi ottemperato all’ordine del giudice, formulando la richiesta di rinvio a giudizio. E oggi è il giorno della requisitoria dei magistrati. Tutto si gioca su due elementi: natura segreta o meno dell’atto interno al ministero, consapevolezza del segreto da parte di Delmastro. Il ministro della giustizia Carlo Nordio, in un’informativa alla Camera all’inizio di febbraio 2023, aveva provato a chiudere il caso. Secondo lui i documenti su Cospito erano “a divulgazione limitata ma non coperti da segreto” poiché “la materia esula dal segreto di Stato e dalla classificazione di segretezza”. La tesi difensiva era però stata smontata dalla Procura. Che aveva ricostruito il regime giuridico degli atti del ministero. Concludendo per la segretezza di quello rivelato da Delmastro, e quindi per l’esistenza oggettiva del reato. Ma chiedendone in ogni caso l’archiviazione “non potendo escludere” l’inconsapevolezza del sottosegretario di commetterlo. La vicenda è comunque finita a processo. Processo Delmastro, è il giorno dell’accusa: il Governo lascia le carceri (e il Dap) nel caos di Nello Trocchia Il Domani, 20 febbraio 2025 Il meloniano attende la requisitoria dei magistrati, che potrebbero chiedere l’assoluzione. In caso di condanna non si dimetterà. Al ministero della Giustizia intanto tutto è sospeso, dalla nomina del capo del Dap al contestato regolamento per gli agenti. Sguardo tronfio, pugno di ferro, passato da militante, ma Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia, è da giorni che mostra un altro volto: timoroso e remissivo. Il meloniano teme una possibile condanna nel processo per rivelazione di segreto d’ufficio: oggi, 20 febbraio, c’è la requisitoria della pubblica accusa. Lui nell’attesa rilascia interviste per garantire: “Resto anche se mi condannano”. In realtà l’unico effetto del processo al tribunale di Roma è quello di aver congelato il ministero della Giustizia. In via Arenula, sul fronte carceri e dintorni, è tutto fermo, si attende l’esito processuale che potrebbe consolidare il potere assoluto del meloniano oppure sancirne il ridimensionamento. Da due mesi la polizia penitenziaria non ha un capo, non è stato ancora nominato il sostituto di Giovanni Russo, il magistrato che ha lasciato l’incarico perché in rotta di collisione proprio con Delmastro. Non manca solo il capo del Dap, ma è bloccata anche l’approvazione del regolamento di servizio che il corpo attende dal lontano 2020, la bozza in discussione ha già raccolto critiche e sollevato polemiche per le modifiche proposte. Ma prima di raccontare lo stallo in via Arenula, sede del ministero, bisogna capire come potrebbe finire il processo che toglie il sonno al sottosegretario. La pubblica accusa dovrebbe chiedere l’assoluzione seguendo lo stesso criterio logico utilizzato nella prima fase delle indagini quando aveva chiesto l’archiviazione. I pm romani hanno riconosciuto l’esistenza oggettiva della violazione del segreto da parte di Delmastro, ma manca l’elemento soggettivo del reato: in pratica non sarebbe stato consapevole di violare la legge. La giudice aveva ribaltato il ragionamento e disposto l’imputazione coatta, i pm avevano nuovamente chiesto il non luogo a procedere, ma alla fine il gup di Roma aveva ordinato il processo che si è celebrato ed è alle battute finali. Se sarà condannato avremo un sottosegretario riconosciuto in primo grado colpevole di rivelazione di segreto, se sarà assolto avremo un sottosegretario che viola la legge senza saperlo mentre dovrebbe occuparsi di norme e giustizia. Comunque andrà a finire sarà un successo. Delmastro è già stato condannato in passato, con reato estinto, per guida in stato di ebrezza come ha confermato qualche mese fa a Domani. Il processo per rivelazione nasce, invece, dalla diffusione del contenuto di documenti sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, rinchiuso al 41bis nel carcere di Sassari, all’amico deputato, Giovanni Donzelli, che poi aveva pensato bene di utilizzarli in aula per attaccare l’opposizione. Per Delmastro non sono stati mesi facili perché sapeva di aver messo in imbarazzo il governo e l’amica, presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “Dentro il partito gira una battuta, “continuiamo ad aumentare i consensi nonostante Donzelli”, anche in quell’occasione il sottosegretario si è comportato da uomo delle istituzioni evitando lo scaricabarile ed affrontando il processo”, racconta un dirigente di Fdi. Nella requisitoria i pubblici ministeri dovrebbero replicare la richiesta presentata in sede di indagini preliminari, allora l’archiviazione e oggi l’assoluzione. L’esito del processo dovrebbe sbloccare due pratiche bloccate che riguardano il sistema carcere, ormai al collasso tra suicidi, atti di autolesionismo, aggressioni e sovraffollamento. Partiamo dalla nomina del nuovo capo del Dap che non si sblocca perché, come ha raccontato Domani, il nome della prescelta è stato annunciato alla stampa senza avvisare il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, suscitando così lo stupore e l’irritazione del Quirinale. Una sgrammaticatura istituzionale che comporta l’attuale stallo, grave e senza precedenti. Spetta proprio al presidente della Repubblica, che è il capo delle forze armate, firmare il decreto di nomina. Perfino in Consiglio dei ministri la pratica non è mai stata vagliata. Il nome su cui punta tutto il meloniano è quello di Lina Di Domenico, da due mesi facente funzioni. Ma è una candidatura che comincia a vacillare, troppo vicina al sottosegretario Delmastro e chiamata ad affrontare un impegno gravoso visto il collasso del sistema. L’assoluzione del sottosegretario, però, potrebbe rilanciare il suo ruolo e sbloccare la pratica al Dap. Il Dap deve anche terminare l’iter di approvazione del regolamento di servizio del corpo della polizia penitenziaria che manca da cinque anni. Solo che la bozza arrivata alle parti sociali contiene proposte di modifica a dir poco discutibili. La Uil e il segretario Gennarino De Fazio parlano di caduta di stile per commentare il nuovo articolo 15 che prevede “che i capelli siano puliti, ordinati”, ma anche quanto segue: “Le unghie devono essere curate e di moderata lunghezza e lo smalto, qualora applicato, non deve essere eccentrico o appariscente e deve essere di colore naturale in occasione di cerimonie”. C’è un altro aspetto che preoccupa i sindacati e riguarda l’impossibilità di parlare con l’esterno. Sembra una norma scritta per le notizie filtrate sul fallimentare progetto albanese. Si prevede il divieto di “fornire a chi non ne abbia titolo notizie relative ad eventi, servizi, provvedimenti e operazioni di qualsiasi natura”. Nuovo capo del Dap e regolamento possono attendere ora c’è il destino di Delmastro in gioco, il futuro del ministero passa dalle aule di giustizia. Caso Paragon, Nordio: “Nessun contratto stipulato dal Dap” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 febbraio 2025 Il Guardasigilli butta la palla in tribuna sul caso spyware: “La Penitenziaria non ha mai intercettato nessuno”. E alla fine Pd e Iv hanno deciso di rimodulare le loro interrogazioni al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il quale ha infine deciso di rispondere sul caso Paragon. Dunque il governo e la maggioranza hanno deciso di cambiare strategia rispetto a quanto dichiarato appena ventiquattro ore prima dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti, Alfredo Mantovano. Il quale aveva inviato una lettera al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, nella quale in sostanza spiegava che l’esecutivo non avrebbero potuto rispondere perché il tema deve essere trattato in sede di Copasir, cioè il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Ma si è infine arrivati a una conclusione, con la riformulazione delle interrogazioni nelle quali non si è fatto esplicito riferimento a Paragon ma a “come chi e quando” abbia intercettato giornalisti come nel caso del direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. “Le intercettazioni si fanno solo su autorizzazione dell’autorità giudiziaria” e “nessuna persona è stata mai intercettata da “strutture finanziate dal Ministero della giustizia nel 2024”“ così come “nessuna persona è stata mai intercettata dalla polizia penitenziaria”, ha detto Nordio in riferimento alla possibilità che fosse stata proprio la Polizia Penitenziaria ad aver utilizzato lo spyware Graphite della società Paragon Solutions in quanto la stessa azienda aveva fatto sapere che, oltre ai servizi segreti, c’era appunto un altro corpo di polizia a cui era stato fornito il sistema. Ma Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza avevano via via negato di avere in dotazione il software di spionaggio, e di conseguenza i sospetti si sono progressivamente concentrati sulla Polizia penitenziaria. Una risposta che non ha soddisfatto Pd e Iv, ma anche gli altri partiti di opposizione. “Sappiamo che giornalisti e attivisti italiani sono stati spiati con il spyware Graphite, utilizzato esclusivamente da organi dello stato - ha detto la leader dem Elly Schlein - È preciso dovere del governo fare chiarezza e dirci chi spiava queste persone e per quale motivo, risposta che lo stesso governo si è rifiutato di dare alle interrogazioni in Parlamento, in cui peraltro si chiedeva se la Polizia penitenziaria avesse mai acquisito o utilizzato Paragon: prima ancora di rispondere a questa semplice domanda, il sottosegretario Mantovano ha comunicato la classificazione di queste informazioni. Cosa sta nascondendo il governo Meloni? Il Paese si merita risposte e il luogo dove fornirle è il Parlamento”. Sulla stessa linea il presidente M5S Giuseppe Conte, secondo il quale quanto sta emergendo “è un fatto gravissimo” e per questo il M5S chiamerà “alla responsabilità questo governo che dovrebbe aver maggiore trasparenza verso i cittadini e maggiore rispetto nei loro confronti, non solo del Parlamento”. Poco prima delle (parziali) risposte di Nordio in Aula si era fatto sentire anche l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che sta cercando di tenere alta l’attenzione sul tema. “Se è vero ciò che dice il ministro, e noi abbiamo il dovere di credergli, a questo punto è evidente che nel Governo qualcuno mente - ha scritto il leader di Iv - Pensano di fregarci ma non ci conoscono. Un giornalista è stato intercettato in modo illegale: chi è stato? Se nessun Ministero è responsabile dell’acquisto del Trojan israeliano allora sono solo i servizi ad avere questo strumento. Ma se i servizi hanno intercettato un giornalista, Alfredo Mantovano ha mentito. Nordio ha messo molto in difficoltà Mantovano: ecco perché Mantovano non voleva che il Guardasigilli rispondesse in Aula”. E intanto ieri la Ong Mediterranea ha reso pubblico un report che dimostra come lo spionaggio nei confronti del suo fondatore, Luca Casarini, sia andato avanti per circa un anno prima che Meta avvertisse l’attività del fatto che il suo telefono fosse spiato. “Lo spionaggio (di Luca Casarini, ndr) è iniziato già a febbraio del 2024 - spiega la Ong - Il Governo italiano ha opposto il segreto di Stato alle legittime domande che il Parlamento in primis, ma anche tutti noi e l’opinione pubblica, rivolge per sapere chi ha autorizzato una simile attività lesiva dei diritti e delle libertà costituzionali, e in violazione alle Convenzioni internazionali, spiando giornalisti, attivisti, rifugiati e soprattutto con quali motivazioni. Noi contrapponiamo ai segreti di Stato, la condivisione e la trasparenza”. E proprio sulle intercettazioni a Casarini è intervenuto anche il leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, il quale ha rivelato che “la sera prima che a Luca Casarini fosse resa noto di un’attività di intercettazione io ero a cena da lui insieme ad altri parlamentari”, chiedendosi poi se per questo sia stato osservato e spiato anche lui. “È una domanda che aggiungiamo alle molte domande cui pare che il governo non sia intenzionato a dar risposte - ha aggiunto Questa vicenda è molto grave e disegna un’area importante di opacità”. A muoversi sono anche Odg e Fnsi, i quali hanno presentato una denuncia contro ignoti alla Procura di Roma con l’intento di “fare chiarezza sul caso dei giornalisti e attivisti spiati anche in Italia” attraverso lo spyware Graphite. “Vogliamo sapere chi è stato spiato, da chi e perché ha detto il presidente Fnsi, Vittorio Di Trapani - non è tollerabile che venga apposto il segreto di Stato su una circostanza di questo tipo ed è per questo che abbiamo deciso di rivolgersi alla magistratura, per sapere ciò che il governo non vuole dire nemmeno al Parlamento. Anche per il presidente dell’Ordine, Carlo Bartoli, “l’intera vicenda presenta tanti lati oscuri, che non si riesce a chiarire” e “non può esserci segreto di Stato su un caso come questo”. Caos Paragon, Nordio alla fine parla e scagiona il Dap di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 febbraio 2025 Il ministro smentisce la linea della segretezza di Mantovano. Il trojan in uso già nel 2024. Le opposizioni: “Spiati anche noi?”. Davanti al Copasir la difesa di Lo Voi per la vicenda Caputi: “Ho agito secondo le regole”. Il caso Paragon è ormai sprofondato nel caos più totale. Ieri pomeriggio il ministro Carlo Nordio ha detto alla Camera quello che appena il giorno precedente il sottosegretario Alfredo Mantovano sosteneva non si potesse rivelare. “Nessuna persona è mai stata intercettata da strutture finanziate dal ministero della giustizia nel 2024, e nessuna persona è mai stata intercettata dalla polizia penitenziaria”, ha testualmente affermato il Guardasigilli, scagionando così l’organo tirato in mezzo nei giorni scorsi da Matteo Renzi. E ancora, sul filo del tecnicismo: “Lo svolgimento delle attività di intercettazione è sempre delegato dall’autorità giudiziaria Le spese vengono liquidate direttamente dall’autorità giudiziaria e poi comunicate al ministero, quindi nessuna competenza nel merito è del Dap”. Quindi, ha concluso, “posso assicurare che nessun contratto è mai stato stipulato dal Dap o dalle dipendenti direzioni generali con qualsivoglia società di qualsiasi tipo”. E questo è l’ultimo giro del gioco del cerino acceso: nei giorni scorsi i vari organi di polizia giudiziaria hanno smentito di aver mai utilizzato il server Graphite, mentre i servizi segreti (sia Aise sia Aisi) hanno sì ammesso davanti al Copasir di averlo a disposizione, ma senza che sia mai stato usato per finalità meno che regolari (e ci mancherebbe). Dunque, mentre permane il mistero su chi abbia inoculato il trojan negli smartphone del direttore di Fanpage Francesco Cancellato e in quelli di diversi attivisti dell’ong Mediterranea, l’unica cosa certa è che qualcuno non sta dicendo il vero. Sul punto le opposizioni caricano a testa bassa a colpi di dichiarazioni furenti, senza tuttavia arrivare alle vie di fatto, cioè, magari, bloccare le attività parlamentari come era stato fatto in risposta ai silenzi governativi su Elmasry. Per dirimere ogni dubbio, oltretutto, basterebbe fare l’interrogazione più semplice del mondo e chiedere se Graphite sia in uso per una qualsiasi attività giudiziaria in corso o passata. Le risposte possibili sono sì o no. E anche dire che c’è il segreto investigativo sarebbe comunque una risposta. Intanto, ieri mattina, il Citizen Lab dell’Università di Toronto, che da settimane analizza i contenuti di 90 dispositivi europei infettati da Graphite, ha fatto sapere che lo smartphone del portavoce di Mediterranea Luca Casarini sarebbe stato bucato già nel febbraio 2024. Da qui l’inevitabile domanda sulle eventuali spiate anche nei confronti di chi ha avuto conversazioni telefoniche o scambi di messaggi con lui. Come diversi parlamentari, ad esempio. “La sera precedente al giorno in cui è stato reso noto che Casarini era spiato - ha detto ai cronisti il leader di Si Nicola Fratoianni - io era a cena con lui, assieme ad altri parlamentari. Vorrei sapere se mi hanno spiato”. E in verde Angelo Bonelli ha rincarato la dose: “Se Meloni pensa di essere Trump che firma ordini esecutivi, si sbaglia. Se dovesse uscire che il governo sta coprendo qualcuno, lei sarebbe direttamente responsabile”. Chi già è passato attraverso a una storia per certi versi simile è il dem Matteo Orfini, le cui conversazioni con Casarini finirono agli atti di un’inchiesta della procura di Ragusa e furono spiattellate sui giornali. “In questo caso, però, c’è un aspetto inquietante in più - ragiona Orfini con il manifesto -, perché non si capisce chi avrebbe utilizzato questo spyware. Siamo di fronte a qualcosa che è completamente al di fuori dello stato di diritto e il governo non risponde. Il sospetto che stiano coprendo qualcosa è naturale”. Nelle stesse ore di questo trambusto, andava in scena l’audizione del procuratore di Roma Francesco Lo Voi davanti al Copasir. L’oggetto del contendere erano le carte riservate stilate dall’Aisi finite nel fascicolo aperto in seguito alla denuncia del capo di gabinetto di palazzo Chigi Gaetano Caputi contro quattro giornalisti di Domani. Il Dis, sul punto, ha depositato un esposto alla procura di Perugia. Lo Voi al Copasir ha difeso il suo operato dicendo che il deposito degli atti è avvenuto seguendo quanto prescritto dalla legge a tutela del diritto di difesa. Il procuratore si è anche detto amareggiato per i vari attacchi mediatici subiti nelle ultime settimane. Una campagna cominciata dopo che aveva iscritto nel registro degli indagati la premier Meloni, Mantovano, Nordio e Piantedosi per la loro gestione della vicenda Elmasry. Un fascicolo nato in seguito all’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti e ora tra le mani del tribunale dei ministri, che deve decidere se dar seguito all’indagine o disporne l’archiviazione. Caso Paragon, Casarini: “Più che controllare vogliono schedarci” di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 febbraio 2025 Il fondatore di Mediterranea: “O dimostrano che siamo stati attaccati da uno Stato straniero o spiegano perché hanno autorizzato i servizi a spiarci. E devono spiegarlo anche nel caso del giornalista Cancellato”. Luca Casarini, fondatore di Mediterranea, è tra gli intercettati con il software Graphite di Paragon. Ieri ha ricevuto il primo report da The Citizen Lab, centro di ricerca canadese che sta conducendo un’inchiesta indipendente sui dispositivi. Quindi lo spyware è attivo da febbraio 2024. È stato spiato anche il Papa? No, perché non ho avuto conversazioni telefoniche con lui né gli ho mandato messaggi via cellulare. Quelli che ci siamo scambiati sono stati scritti a penna. Cosa cercavano nel suo smartphone le “autorità statali” che usano Graphite? Me lo sono chiesto anch’io, perché tutto quello che faccio è pubblico. Potrebbero aver lavorato per costruire dei dossier: queste intercettazioni, anche se legalmente autorizzate, sono preventive. Quindi i materiali non valgono a processo. Teoricamente dovrebbero essere distrutti entro sei mesi, ma chi lo sa. Comunque è un periodo sufficiente per costruire montature giudiziarie da offrire a qualche procura. Mi è già successo. Per il G8 di Genova del 2001 un fascicolo che ci accusava di associazione sovversiva girò undici procure prima di trovare casa, a Catanzaro. Questo tipo di intercettazioni, che deve autorizzare il procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, sono lecite solo per due ipotesi: terrorismo internazionale e minacce alla sicurezza della Repubblica. Sarebbe incredibile se attivisti per i diritti umani fossero considerati tali, mentre uno come Elmasry viene portato a casa con un volo di Stato. Sarebbe, come dice Vannacci, un “mondo al contrario”. Il Giornale ha citato una nota dei servizi su un’inchiesta per associazione a delinquere per favorire l’immigrazione illegale. Non parla dei soccorsi in mare, ma di “agevolazioni degli spostamenti di migranti clandestini sul territorio nazionale”. Che state facendo a terra? Favorire lo spostamento di migranti, richiedenti asilo o rifugiati sul territorio nazionale non è nemmeno un reato. Attiene alle normali attività di solidarietà. È cosa diversa dal favorire l’ingresso, crimine di cui sono accusato a Ragusa. Comunque credo che la nota si riferisca allo spionaggio delle reti di solidarietà. Ma è tutto pubblico. Refugees in Libya, citata con Mediterranea, è un’associazione legalmente costituita. Lo statuto dice che gestisce una linea telefonica per i migranti che hanno bisogno: in Italia, ma anche in Libia e Tunisia. Sono personalmente in contatto con internati nei lager o deportati nel deserto. Non c’è nulla di segreto. Più che controllare, credo vogliano schedare: avere i nomi dei rifugiati, sapere dove vanno, cosa fanno. Per un dossier o una montatura giudiziaria. La caratteristica di Graphite è che non si limita a registrare: può inserire materiali nel telefono. Il presidente di Refugees in Libya, David Yambio, sarebbe al centro dell’inchiesta per associazione. In che rapporti siete? Siamo fratelli. Da quando è stato il portavoce della prima protesta pubblica dei rifugiati in Libia, davanti agli uffici Unhcr di Tripoli. Tra il 20221 e il 2022 per oltre 100 giorni 3mila rifugiati hanno chiesto l’evacuazione per motivi umanitari. Le milizie hanno fatto sei morti e 600 arresti, su David hanno emesso un mandato di cattura. Poi è riuscito ad arrivare in Italia. Qui se la prendono con lui perché non sta zitto, perché continua a lottare per chi è in Libia o nel deserto tunisino. Vogliono fargli paura e silenziare una voce scomoda. Quindi noi facciamo il contrario: gli diamo spazio, lo aiutiamo, lo supportiamo. Tutti dovrebbero sostenere i Refugees in Libya. I soggetti spiati di cui conosciamo l’identità hanno a che fare con la Libia, a eccezione del direttore di Fanpage Francesco Cancellato. Che c’entra lui? Non mi spiego la sua presenza. Ma qui sorge un altro problema: palazzo Chigi non ha parlato di noi, ma ha negato di aver intercettato giornalisti. Perché le intercettazioni preventive, che possiamo definire “governative” visto che le fanno i servizi, sono vietate per i giornalisti. Oggi [ieri per chi legge, ndr] abbiamo saputo da Nordio che nessuna forza di polizia usa lo spyware, per cui restano solo i servizi: o dimostrano che siamo stati attaccati da uno Stato straniero oppure devono dire quali sono le ipotesi per cui hanno autorizzato questa cosa. E devono dirlo anche per Cancellato. Se la nostra vicenda è inaccettabile politicamente, la sua lo è anche legalmente. “In Brasile le carceri violano i diritti umani”: no all’estradizione di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 20 febbraio 2025 Ricercato dall’autorità giudiziaria del Brasile dopo una condanna a 8 anni e 2 mesi per violenza sessuale - accusa che nega - arrestato dai carabinieri il 28 novembre scorso, portato in carcere, poi messo ai domiciliari e autorizzato a recarsi al lavoro, l’uomo, operaio di 34 anni, resta in Italia. Ed è libero. Ieri, la Corte d’appello di Brescia ha detto ‘no’ alla richiesta di estradizione avanzata dal Brasile, perché le carceri brasiliane sono le peggiori al mondo: torture e violenze, rivolte e sovraffollamento, suicidi e omicidi. I giudici hanno dato ragione agli avvocati Carlo Alquati e Franco Antonioli, che sul sistema carcerario da anni in tilt in Brasile hanno puntato la loro difesa. La decisione della Corte d’appello riaccende un faro sulle carceri brasiliane. In udienza, i difensori dell’operaio hanno prodotto una sentenza della Corte d’appello di Torino, sentenze della Cassazione, articoli e pareri. Nel loro complesso lavoro di ricerca, li ha aiutati anche un importante studio legale del Brasile (assume le difese davanti alla Corte di giustizia europea). Una mole di carteggio. Come un articolo pubblicato dalle Nazioni Unite: ‘L’impunità per la tortura nelle carceri è la regola in Brasile’. Riguardava la richiesta di un’indagine immediata sui massacri avvenuti nelle carceri brasiliane. In un’intervista rilasciata al sito web della rivista Exame, il rappresentante regionale per il Sud America dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, Amerigo Incalcaterra, aveva affermato che “l’impunità nei casi di tortura praticata da agenti pubblici contro i prigionieri è diventata la regola - e non l’eccezione - nel sistema penitenziario brasiliano”. E, ancora, un articolo del 2023 su un condannato per stupro trovato morto nel penitenziario di Teresina. Tutti documenti sulla “degradante e pericolosa situazione carceraria in Brasile dove i diritti umani vengono violati”, spiega l’avvocato Alquati. “Non si tratta solo di carenze strutturali e di mancanza di igiene. Parliamo di violenze, a maggior ragione nei confronti dei presunti autori di reati sessuali: c’è un codice di condotta all’interno tra i detenuti. Il nostro assistito sarebbe stato maggiormente esposto. Questo deve aver fatto la differenza. Siamo riusciti a dimostrare che in Brasile c’è uno stato di cose incostituzionale per quanto riguarda il tema delle carceri: lo scenario attuale nelle carceri è in contrasto con la Costituzione federale del 1988”. Il 34enne è arrivato in Italia un anno e mezzo fa, prima della sentenza di condanna. Ed è arrivato “alla luce del sole”, con la moglie che è dalla sua parte e che a breve gli darà un figlio. “Sono venuti in Italia per dare un futuro migliore alla loro famiglia, perché là non ne potevano più. Amano l’Italia, vogliono restare in Italia”, prosegue l’avvocato Alquati. L’uomo ha trovato lavoro a tempo indeterminato in un’azienda dove “è molto stimato”. Coppia molto religiosa, marito e moglie: preghiere e rosario anche al Palagiustizia Zanardelli, due giorni fa. L’uomo sostiene che l’accusa di violenza sessuale non sta né in cielo né in terra. “Si professa assolutamente innocente”, dicono i suoi legali. In Brasile è stata chiesta la ‘revisau criminau’, la revisione del processo, come avviene anche in Italia (è noto il caso di Beniamino Zuncheddu, l’ex allevatore sardo assolto dopo 33 anni di carcere, a gennaio del 2024, con sentenza emessa nel processo di revisione per la strage di Sinnai). A Brescia, i giudici dovevano valutare solo la richiesta di estradizione, alla quale il Pg aveva dato parere favorevole. “La Corte d’appello non doveva giudicare sulla colpevolezza del nostro assistito. Non entra nel merito, ma la situazione era molto delicata. Noi abbiamo messo in luce una situazione carceraria pericolosa. Un caso giuridico, ma anche umano che la Corte ha ritenuto di accogliere. Siamo soddisfatti, ma ancora umili e circospetti”. Il Pg in Italia potrebbe impugnare la decisione. Il Brasile potrebbe prendersi l’avvocato e ricorrere in Cassazione nonostante lo ‘schiaffo’ ricevuto sulle condizioni carcerarie peggiori al mondo. Emilia-Romagna. Conti: “I detenuti tossicodipendenti dalle carceri alle comunità di recupero” Corriere della Romagna, 20 febbraio 2025 Nelle carceri dell’Emilia-Romagna “il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti, e come Regione ci stiamo inventando uno strumento che ci permetta di farli transitare dal carcere alle comunità di recupero”. A dirlo, parlando con i cronisti a margine di un’iniziativa della Camera penale davanti al Tribunale di Bologna, è l’assessora regionale al Welfare Isabella Conti. In particolare, spiega Conti, “potenziando il Sert”, che ad esempio “ora va alla Dozza soltanto due volte a settimana, e potenziando le relazioni con le comunità di recupero, possiamo individuare dei percorsi che consentano a questi detenuti di transitare dal carcere alle comunità di recupero”. Questo, assicura, “permetterebbe di ridurre il sovraffollamento, di fare interventi dal punto di vista sanitario e di finanziare corsi per i detenuti che consentano loro di avere un lavoro quando usciranno”. Quando una persona commette un reato, insiste Conti, “entra in carcere e perde la libertà, ma non deve perdere la dignità e non si deve abdicare al ruolo rieducativo della pena”, mentre “troppe volte abbiamo sentito, da destra, questa politica violenta e cinica del ‘buttiamo via la chiave’: la chiave non si butta, perché quando i detenuti usciranno, o avranno fatto un percorso vero di reinserimento, altrimenti ci troveremo ulteriori problemi in strada e ulteriore disagio”. Su questo, conclude, “non transigiamo: la Regione sta facendo una battaglia serrata e interverremo, perché possiamo risolvere una buona parte dei problemi che ci sono nelle carceri dell’Emilia-Romagna, a partire dal sovraffollamento”. Frosinone. Dramma della solitudine, detenuto si suicida in carcere rainews.it, 20 febbraio 2025 Aveva 52 anni, approfittando dell’assenza momentanea dei compagni di cella si è impiccato. Tra meno di un anno sarebbe uscito, ma non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo. Si è impiccato nella sua cella nel carcere di Frosinone. Un detenuto italiano di 52 anni si è suicidato a meno di un anno dal fine pena, ma quando sarebbe dovuto uscire dal penitenziario probabilmente non avrebbe trovato nessuno ad aspettarlo. Potrebbe essere questo il motivo del tragico gesto di cui ha dato notizia Massimo Costantino, segretario del sindacato Fns Cisl. Si tratta del secondo suicidio avvenuto in un penitenziario del Lazio dall’inizio dell’anno. L’uomo era arrivato un anno fa nel carcere di Frosinone dopo aver scontato cinque anni a Regina Coeli, sarebbe tornato in libertà tra poco. Tuttavia, Secondo il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, il detenuto non aveva nessuno ad attenderlo fuori e nell’ultimo anno non aveva ricevuto visite o effettuato colloqui. Era seguito dal Servizio per le Dipendenze e, a fine gennaio, l’équipe dell’istituto lo aveva proposto per un’alternativa in comunità, ma aveva rinunciato prima di poter intraprendere questo percorso. Il gesto estremo è avvenuto mentre uno dei due compagni di cella era a lezione e l’altro era a colloquio. Nel frattempo, il Garante dei detenuti partecipava a una riunione con la dirigenza della ASL di Frosinone e la direzione dell’istituto proprio nel penitenziario di via Cerreto, quando è arrivata la drammatica notizia. Attualmente, il carcere di Frosinone si trova in una condizione di sovraffollamento, con circa 60 detenuti in più rispetto alla capienza massima. Nelle ultime settimane, si sono verificati anche diversi episodi di aggressione al personale sanitario ASL operante all’interno della struttura. La situazione è resa ancora più critica dalla grave carenza di personale di Polizia Penitenziaria. Di fronte a questa emergenza, il sindacato Fns Cisl Lazio ha ribadito la necessità di misure eccezionali per migliorare la situazione nelle strutture penitenziarie e negli organici. Il sovraffollamento e la carenza di personale compromettono sia la sicurezza che il trattamento dei detenuti, rendendo ancora più difficile la gestione quotidiana all’interno del carcere di Frosinone. Bologna. Scontri e disordini al carcere del Pratello: “Anche i volontari lasciano l’istituto” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 20 febbraio 2025 “Gravi disordini tra minori avvenuti nel pomeriggio di domenica 16 e nella giornata del 18 febbraio”. Lo rende noto Salvatore Bianco di Fp Cgil. Si sarebbero verificati tensioni e scontri tra i minori detenuti del 1° e del 2° piano. Per riportare la situazione alla calma, fa sapere il sindacato, oltre al personale in servizio, è intervenuto un ispettore rientrato in servizio da casa: “Attualmente la struttura sta accogliendo ben 52 detenuti, mentre altri 6 sono presenti presso il Centro di Prima Accoglienza in attesa di udienza di convalida - spiega Bianco per cui il sovraffollamento è destinato purtroppo ad aumentare e far aumentare il rischio di altre tensioni, da quanto appreso, la struttura ha già recentemente accolto ben 57 detenuti, alloggiati con brandine nelle rispettive camere”. Inoltre, oltre alle tensioni, sono preoccupanti “offese e minacce da parte dei ristretti” agli agenti di polizia penitenziaria. Nei giorni scorsi, alla Dozza, due ispettori sono finiti al pronto soccorso con prognosi di cinque e dodici giorni, quando un detenuto ha danneggiato un ascensore e un altro ha tentato la fuga per i corridoi del penitenziario per sfuggire alla reclusione in isolamento. “Tutto ciò sta accadendo all’interno di una struttura inadeguata e fatiscente che questa O.S. denuncia ormai da troppo tempo - continua il sindacalista - infatti le segnalazioni fatte nel recente passato risultano essere cadute nel vuoto, a causa del totale disinteresse dell’Amministrazione”. A conferma dell’altissima tensione tra le mura dell’istituto per minori “sembrerebbe che anche l’associazione di volontariato che da anni segue la struttura, abbia temporaneamente sospeso le sue attività per evitare che ulteriori disordini”. Ad aggravare la situazione “si aggiungono i lavori di ristrutturazione che dal mese di marzo dovrebbero interessare la struttura dei servizi minorili, destinati ad aumentare i disagi per tutto quel personale che giornalmente deve recarsi in servizio, ma che vedrà fortemente limitati i posti auto disponibili, considerato che gli attuali parcheggi interni saranno destinati ai container”. Bianco inoltre si dice perplesso per la decisione di creare le sezioni minorili alla Dozza. Oggi, per protestare contro la situazione drammatica delle carceri, un gruppo di avvocati penalisti è scesa in piazza e si sta astenendo dalle udienze presidiando la sede del tribunale di via D’Azeglio per sensibilizzare chiunque passi. In prima linea Nicola Mazzacuva, presidente del Consiglio Camere Penali di Bologna: “Siamo qui perché la situazione carceraria è veramente tragica, soprattutto nel nostro distretto, come risulta anche dal numero dei suicidi che si sono verificati nella nostra realtà territoriale: già 13 nel 2025. Un numero così elevato che non si verifica neppure lontanamente nei Paesi europei. Bologna. Avvocati in sciopero: “Carceri allo stremo. Necessario l’indulto” di Erika Bertossi bolognatoday.it, 20 febbraio 2025 La situazione delle carceri, anche a Bologna, è drammatica: crescono giorno per giorno i suicidi in cella (l’età media dei detenuti che si tolgono la vita è molto bassa) mentre il problema del sovraffollamento resta tutt’altro che sotto controllo. Ed è per questo che, da questa mattina e per due giorni, un gruppo sostenuto di avvocati penalisti si sta astenendo dalle udienze presidiando la sede del tribunale di via D’Azeglio per sensibilizzare chiunque passi, che si tratti di colleghi o cittadini. In prima linea Nicola Mazzacuva, presidente del Consiglio Camere Penali di Bologna: “Siamo qui perché la situazione carceraria è veramente tragica, soprattutto nel nostro distretto, come risulta anche dal numero dei suicidi che si sono verificati nella nostra realtà territoriale: già 13 nel 2025. Un numero così elevato che non si verifica neppure lontanamente nei Paesi europei. Presente, davanti al Tribunale Penale di Bologna, l’assessora regionale Isabella Conti: “La Regione Emilia Romagna ha iniziato, immediatamente dal suo insediamento, a fare visita in carcere in tutte le strutture della regione: in Emilia-Romagna ci sono 10 istituti penitenziari. Abbiamo iniziato, con il presidente De Pascale e le Camere Penali, lo scorso 22 gennaio alla Dozza di Bologna: la situazione è gravissima dal punto di vista sia del sovraffollamento, ma anche della condizione di lavoro della Polizia Penitenziaria, visto che c’è un sottodimensionamento continuo del personale. Fattore che rende ancora peggiori le condizioni dei detenuti all’interno del carcere. Basti pensare che la pianta organica della Polizia Penitenziaria è pensata per il numero di detenuti ammessi, diciamo così, consentiti all’interno delle strutture, ma c’è un 30% di sovraffollamento. Alla Dozza possono stare 500 detenuti, ce ne sono 853”. Ed è quasi certo l’arrivo alla Dozza di Bologna di una cinquantina di detenuti minorenni. provenienti da tutta Italia. Ne ha parlato Isabella Conti, criticando duramente questa scelta: “La situazione già difficile è aggravata ulteriormente dalla notizia che ormai è certezza che in uno tra i più vecchi carceri d’Italia, struttura vetusta con una situazione di promiscuità anche delle docce e dei bagni, delle condizioni inaccettabili e intollerabili sia in previsione di portare dei detenuti minori all’interno di una condizione già così compromessa. Questa nostra mobilitazione è una mobilitazione che vuole rimarcare la necessità di ricordare a tutti noi che quando una persona commette un reato, certamente ha sbagliato, ma che quando entra in carcere viene privata della libertà e si affida totalmente allo Stato. Questo non significa dover privare queste persone di dignità e soprattutto abdicare al ruolo importante di rieducazione della pena e di reinserimento sociale. La chiave non si butta via come dicono alcuni”. “Abbiamo, come Direttivo della Camera Penale, criticato la possibilità che si paventa di inviare detenuti del carcere minorile alla Dozza, che è già sovraffollata. Ecco perché facciamo questa protesta, che crediamo sia, anzi siamo proprio convinti, sia una battaglia di civiltà che deve impegnare tutta la società” ha ribadito Mazzacuva. Milano. Cesare Beccaria non abita più qui di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 febbraio 2025 Reportage. Visita al “Beccaria”, l’Istituto penale per minorenni di Milano che fu l’orgoglio italiano. “Normalizzato” dopo la stagione di evasioni, proteste e bufere giudiziarie sugli agenti. Sono reclusi nella struttura sovraffollata 71 giovani, di cui 42 minori di 18 anni. Sono 50 gli extracomunitari, di cui 25 arrivati come minori non accompagnati. Hanno cementato i letti a terra, per evitare che venissero usati a mo’ di arieti per sfondare le sottili pareti e i portoni blindati (“infrastrutture non adatte a un penitenziario”, dicono adesso, come se non ci fosse più alcuna differenza). A decine li hanno trasferiti in altri istituti d’Italia, anche se lì a Milano avevano messo radici. E molti, superata la soglia della maggiore età, sono finiti addirittura nelle carceri per adulti. Hanno rafforzato le misure di contenimento; sono arrivati a dover vietare il possesso di accendini ai reclusi, per paura che appiccassero incendi. Ma il Dipartimento non fornisce accendini agli agenti, e non tutti sono disposti a munirsene come fosse uno strumento di lavoro, cosicché può accadere che la voglia di fumare di qualche adolescente irascibile non venga soddisfatta. E poi, hai voglia a parlare di “rivolte”. C’è stato un tempo in cui l’Istituto penale per minorenni (Ipm) di Milano (oggi solo maschile) era all’altezza del nome che portava. Intitolato a Cesare Beccaria, a cui si deve la rivoluzione illuministica della pena, da vent’anni circa ormai ha perso però quel lustro che lo rendeva l’orgoglio italiano in Europa nel campo della giustizia minorile. Un lasso di tempo durante il quale nell’Ipm sono cambiati direttori e comandanti tanto frequentemente che si fa fatica a tenere il conto. In più, tutti i dirigenti chiamati a guidare l’istituto lo hanno sempre fatto “a scavallo” - come si dice - con altri carceri per adulti. Il primo direttore a tempo pieno e specializzato in giustizia minorile, Claudio Ferrari, che fin dal suo arrivo a fine 2023 ha lavorato per sanare le irregolarità del luogo, è durato appena 11 mesi, trasferito perché non in possesso dei requisiti di anzianità necessari per guidare l’Istituto milanese che nel frattempo - guarda un po’ - era stato upgradato nella classificazione criminologica. Il ministero di Giustizia che improvvisamente ha scoperto il bug, evidentemente però tollera il fatto che neanche il nuovo comandante della polizia penitenziaria Raffaele Cristofaro (arrivato 5 mesi fa) abbia la qualifica adatta, come egli stesso ammette durante la visita del manifesto al Beccaria. Lunedì scorso, il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari, inaugurando in Lombardia tre comunità sperimentali socio-rieducative per minori in esecuzione penale o in misura cautelare, ha ricordato di quando - fino all’estate scorsa - il Beccaria era al centro delle cronache per due evasioni e per le non poche proteste culminate anche in momenti di forte tensione, con materassi dati a fuoco e devastazioni. E, a fronte, la polizia penitenziaria che temeva di intervenire, prefigurandosi chissà quale accusa di violenza. “Ora è sicuramente migliore rispetto a come l’abbiamo trovato nel 2022”, ha detto in sottosegretario leghista quasi rivendicandone (immotivatamente) il risultato. Ha sorvolato però sul terremoto giudiziario che sconvolse nell’aprile scorso l’Ipm, con 13 agenti arrestati e altri otto sospesi con l’accusa di aver commesso o coperto, a vario titolo, violenze sui detenuti tra il 2022 e il 2024. L’inchiesta ancora prosegue e alcuni di quei poliziotti penitenziari sono anche stati reintegrati, in altre sedi. Ma visitando altri Ipm d’Italia può capitare anche di sentir raccontare di quanto siano sempre stati “nervosi e intrattabili”, i minori detenuti trasferiti per sovraffollamento dall’istituto di Milano; e di quanto lo ridiventavano ogni volta che trascorrevano alcuni giorni al Beccaria per gli incontri con il magistrato di sorveglianza. “Ora non è più così: abbiamo risolto il problema disponendo il trasferimento del detenuto per le udienze nella stessa giornata”, riferisce Cristofaro secondo il quale il nervosismo sarebbe stato dovuto al malcontento dei giovani reclusi che non avrebbero voluto essere allontanati da Milano, perché lì ci sarebbe “il loro centro di interesse criminale”. Ma il comandante - trent’anni di esperienza nelle carceri per adulti e per la prima volta in un minorile, assegnato all’Ipm milanese in modalità provvisoria in attesa della nomina di un titolare con tutti i requisiti giusti - testimonia che al Beccaria “sono decisamente evidenti molti disturbi psichiatrici”. D’altronde le associazioni Altroconsumo e Antigone hanno calcolato che al Beccaria “tra il 2020 e il 2022 l’acquisto di benzodiazepine, sedativi e antipsicotici è cresciuto del 291%”. Nei 48 posti letto realmente disponibili (in due padiglioni) nell’istituto guidato dallo scorso novembre dall’ex vicedirettrice Raffaella Messina, il 10 febbraio scorso erano ristretti 71 giovani, di cui 42 minorenni e 29 maggiorenni. Da notare che in questo Ipm, non solo a causa del sovraffollamento, non c’è posto per separare gli alloggi degli adolescenti da quelli dei giovani adulti, e questo non aiuta né i ragazzi né gli operatori nel percorso di recupero. Dei 71 reclusi, sono 50 gli extracomunitari, di cui 25 arrivati in Italia come minori non accompagnati. L’assortimento degli ospiti del Beccaria racconta meglio di tante parole le mutazioni di una metropoli come Milano, uno dei passaggi obbligati dei migranti che vogliono raggiungere il nord dell’Europa ma anche spesso centro di gravità permanente per gli “erranti” (nel senso di “espulsi dal loro contesto originario, già disadattati alla partenza e senza un mandato”, come spiega la direttrice Raffaella Messina citando lo psicoantropologo Isam Idris) che anelano ad uno status inarrivabile, ai loro occhi. Anche se poi, a parte il brand in bella vista, i soldi in tasca per “contare”, il coltello “per sicurezza”, e solo più raramente “la pistola, che sporca (già usata, ndr) costa poco, ma solo se devi risolvere un problema grosso”, di una reale disponibilità economica questi giovani non saprebbero proprio cosa farsene. Perché in loro non c’è un vero disegno criminale, non ci sono ambizioni, c’è solo smarrimento. “Hanno bisogni che non sono in grado di verbalizzare e quindi agiscono attraverso azioni violente”, riferisce la direttrice. Ed è perfino comprensibile, per ragazzi che in alcuni casi (nessun nome, per tutela della privacy) a 14 anni sono partiti da città del nord Africa e hanno attraversato via terra, nascosti in camion o con altri mezzi di fortuna, nove Paesi europei e sono sopravvissuti alla vita di strada in decine di città prima di finire nelle mani sbagliate e quindi nella rete della giustizia minorile. “Prima però c’erano tante comunità - racconta Fabrizio Bruni che da 14 anni forma al lavoro i detenuti del Beccaria - e quando un ragazzo arrivava qui era perché aveva fallito tutti i percorsi terapeutici. Ora invece con i tagli sul sociale le comunità sono poche ed è aumentato pure il ricorso alla custodia cautelare”. “I ragazzi non scappano, se non vogliono scappare”, afferma con illuminante franchezza Raffaella Messina ricordando che “la vulnerabilità di questi adolescenti devianti magari c’è sempre stata, ma ora dipende più dalla relazione sbagliata con chi li ha in carico”. Un altro “elemento destabilizzante” di un Ipm come il Beccaria, sostiene ancora Messina, sta nel fatto che anche “i giovani poliziotti sono cambiati e avrebbero bisogno di più formazione”. Inoltre, “la maggioranza degli agenti viene dal sud Italia e non vuole vivere a Milano, quindi le richieste di trasferimento sono all’ordine del giorno. Il nostro è un lavoro delicato, difficile metterci impegno se sei solo di passaggio”. Da mesi però, ad affiancare la direzione, il Dap ha messo una dirigente Uiepe, dell’esecuzione penale esterna per adulti. “È un supporto”, assicura Raffaella Messina, non un commissariamento, come sostengono i maliziosi. Firenze. A scuola in carcere, intervista a Claudio Pedron insegnante di Sollicciano di Maria Gloria Roselli perunaltracitta.org, 20 febbraio 2025 Parliamo di carcere con Claudio Pedron, insegnante di Lingua Italiana, referente per il Cpia1 Firenze per il Ministero dell’Istruzione, all’interno del carcere di Sollicciano. In questo primo incontro Pedron parla della situazione della scuola in carcere, in una prossima intervista affronterà le tematiche relative alle possibili ricadute di un percorso culturale sulla condizione detentiva. Pedron insegna in carcere dal 1992, prima in quello di Volterra e dal 1999 a Sollicciano. Sono due mondi molto diversi, racconta: “il carcere di Volterra era con 100 persone quando sono arrivato io nel 92 e, anche se non era ancora il carcere che è adesso, c’era già la transizione da un carcere di massima sicurezza a uno che adesso è molto aperto alle attività”. Nel 1998 Pedron scelse di lavorare nel carcere fiorentino, una realtà che al tempo ospitava oltre 1000 persone e una forte presenza di migranti. Anche qui, per quanto riguarda la scuola, trovò una situazione di transizione, e c’è voluto un po’ di tempo per arrivare ad avere la completezza dell’orario scolastico, mattina e pomeriggio. Oltre ai corsi di alfabetizzazione, adsso c’è la scuola media con CPIA1, la scuola superiore con l’Istituto Russel Newton e l’alberghiero Aurelio Saffi. Qualche detenuto si è iscritto all’università con il Polo carcerario dell’ateneo di Firenze. Il CPIA1 Firenze è attivo anche al carcere Gozzini, che ospita un’ottantina di detenuti, con programmi di alfabetizzazione e di scuola media; l’istituto agrario assicura la scuola superiore. Al carcere minorile, che attualmente ospita una ventina di detenuti, dal momento che con le nuove leggi sono aumentati gli arresti fra i minori, il CPIA1 Firenze ha attivato un corso di alfabetizzazione, una sorta di biennio e alcuni corsi educativi, in quanto i numeri degli alunni sono troppo bassi per istituire la scuola. “Quando sono arrivato a Sollicciano”, racconta Pedron, “c’era un sovraffolamento con punte di 1100 detenuti, a fronte di una capienza di circa 500. Inoltre all’epoca i detenuti erano chiusi in cella per gran parte del giorno, quindi la partecipazione alla scuola era molto grande, molti venivano anche solo per uscire dalla cella e avere momenti di socializzazione. Col tempo molte cose sono cambiate, a cominciare dal rapporto degli agenti con i nostri allievi. La condanna dell’Europa ha portato a dimezzare il numero dei detenuti presenti, attualmente 540 circa. La struttura è rimasta la stessa, e anche le problematiche sono più o meno sempre le stesse. È stato costruito il Giardino degli Incontri che non c’era quando sono arrivato, ed è una bellissima cosa che serve agli incontri coi familiari e che ogni tanto viene usato anche per altre attività. Da quando sono coordinatore, continuando il lavoro fatto al tempo coi colleghi di allora, insieme ai compagni di lavoro abbiamo incrementato moltissimo i rapporti con l’esterno, ad esempio con i musei con i quali c’era un rapporto saltuario ed è ora diventato permanente, con l’Opera del Duomo, Palazzo Strozzi e con la rete Welcome e i musei ad esso collegati. Abbiamo attivato rapporti con Amnesty International, e Sollicciano è stato il primo carcere dove sono entrati, non per controllare ma per parlare di diritti e, vista la composizione di detenuti stranieri, che si aggira sul 70%, per discutere di cosa succedeva nei paesi di origine”. Chiedo a Pedron come funziona l’attività della scuola in carcere e mi risponde che in alcuni periodi partecipa qualche italiano, e ogni tanto qualche italiano che non sa scrivere e che quindi deve fare il percorso di alfabetizzazione, altrimenti la composizione è per il 90-95% di stranieri che frequentano la scuola perché la cosa importante per loro è acquisire la conoscenza di quella quantità minima di parole che gli permetta di sopravvivere. Nella pratica l’iscrizione alla scuola avviene dopo la presentazione di una cosiddetta domandina (perché è in formato A5) all’interno del carcere, segue un colloquio dove gli operatori scolastici valutano il livello da pre-A1 a B1 oppure scuola media o scuola superiore. Oltre che tramite la domanda, alcuni detenuti partecipano in quanto segnalati dagli educatori, gli FGP, funzionari giuridico-pedagogici, perché ad esempio non sanno la lingua, o ancora perché segnalati da psicologi o da psichiatri in quanto necessitano di un percorso di socializzazione, e la scuola è effettivamente il primo punto dove socializzare. Pedron fornisce anche i numeri degli iscritti, dato utile per tentare una visione delle condizioni di detenzione filtrata dall’osservatorio della scuola. “Fra tutti ci sono 140 iscritti ma ogni giorno non scendono 140 persone, ne scende la metà o poco più, perché tanti di loro sono impegnati a lavorare e normalmente preferiscono il lavoro alla scuola. Il lavoro è a turno di un mese quindi accade che dopo la fine del turno mensile tornino a scuola e noi garantiamo la continuità per ognuno. Inoltre vanno considerati quelli che escono dal carcere, o chi rinuncia, chi ha problemi con l’esterno, con la famiglia e finisce in depressione e dobbiamo andare a cercarli e recuperarli, chiedere aiuto agli psicologi o agli FGP, però è chiaro che se 140 vengono a scuola, e sto parlando anche del femminile, dove ci sono attualmente una sessantina di detenute, ci sono altre 350 persone che stanno in sezione e fanno la vita classica del carcere. Alcuni di loro lavorano in maniera continuativa. I lavori sono quelli utili alla sussistenza del carcere, come addetti alle pulizie, il fabbro o l’elettricista per aggiustare i guasti, i cuochi o i portavitto. Tutti pensano che nel carcere, come si vede nei film, ci sia la mensa, le divise, invece niente di tutto questo. Le celle fortunatamente sono aperte per tutta la giornata in quasi tutte le sezioni, vengono chiuse solo per dormire, tanto che il Ministero chiede che siano definite camere di pernottamento. In questo modo c’è movimento dentro la sezione ed è favorita la partecipazione alle attività. Ultimamente ci sono stati alcuni casi di suicidi, che denunciano forti stati di malessere. In modo del tutto paradossale, nel periodo in cui c’erano oltre 1000 persone, c’erano meno suicidi di adesso, probabilmente per una logica di controllo sociale, perché quando si vive in una cella con 4 persone è difficile avere quello spazio per farti del male. Da quando ho cominciato a lavorare dentro il carcere ho conosciuto l’autolesionismo, il farsi del male per ottenere qualcosa o perché afflitti da un forte malessere. Tornando ai numeri, per quanto riguarda i 350 che non passano dalla scuola, non riusciamo a recuperarli però cerchiamo di offrire, attraverso i progetti, la possibilità di attirarli, di coinvolgerli; ad esempio c’è chi si iscrive al corso di scrittura creativa, chi a quello di lettura ad alta voce, al corso di storia, c’è l’offerta della musica, del cinema e del teatro. Poi c’è un percorso di storia dell’arte e i progetti con i musei. Dai tempi della pandemia, la scuola è dotata di LIM, le lavagne interattive multimediali per ogni classe. Abbiamo ottenuto dal Comune di Firenze le cedole per comprare i libri e possiamo avere anche quaderni e cancelleria. Perciò ogni allievo ha un suo libro e riesce a fare un percorso che può anche continuare in cella se vuole. Naturalmente per chi non ha mai frequentato la scuola è tutto più difficile e la voglia di partecipare o di sentirsi fuori dalla cella e vedere altre cose sono elementi fondamentali”. Alle quotidiane difficoltà che possiamo immaginare un educatore deve affrontare, si sommano quelle derivanti dal mosaico linguistico e culturale che compone la popolazione carceraria. Firenze è un caso particolare, in quanto la percentuale si aggira sul 70%, a fronte del 35% circa della media nazionale. Racconta Pedron che nelle classi gli allievi formano un planisfero: tunisini, marocchini, egiziani si mettono insieme da una parte, lo stesso fanno i cileni e i peruviani nel gruppo dei sudamericani, allo stesso modo tengono ad aggregarsi rumeni, moldavi e albanesi, poi anche ghanesi e nigeriani nel gruppo centroafricano. Capita che un africano sia di lingua francese e comincia a parlare di più con marocchini o tunisini, perchè magari il suo compagno nigeriano parla in inglese. Tutti devono imparare a seguire le lezioni in italiano. Se a metà o alla fine dell’anno hanno imparato i nomi di tutti quanti e si mescolano, si aiutano e parlano tra loro è già un enorme successo. Le attività extra in questo senso sono utilissime per creare questo tipo di rapporto, che si rivela fondamentale anche nelle sezioni, perché lì sta il vero problema, dove i rapporti diventano conflittuali, dove i detenuti si trovano a condividere spazi piccoli con gente sconosciuta, che ha comportamenti diversi, orari di preghiere diverse, abitudini e vizi diversi. La gestione dei conflitti è talvolta molto difficoltosa e ricade sugli agenti di polizia penitenziaria la capacità di riuscire a trovare il modo di governare le situazioni. Bisogna poi considerare la presenza di problemi psicologici o psichiatrici che, secondo la ASL, in forme più o meno gravi, affligge il 70% dei detenuti, e non tutti dall’esterno verso l’interno; alcuni si ritrovano all’interno del carcere a sviluppare questo tipo di problematiche. Naturalmente questi disturbi se li portano a scuola. Dei 32 anni di esperienza, Pedron racconta tuttavia di non aver avuto problemi gravi di questo tipo, forse perchè chi sceglie di frequentare la scuola ha già un atteggiamento costruttivo, ancora maggiore se decidono di proseguire, e questa è l’abitudine che tendono a creare lui e i suoi colleghi, perchè il passaggio alfabetizzazione-scuola media-scuola superiore e, chi con condanne più lunghe, anche università, è per loro un grande risultato. Così incoraggiano anche le attività esterne e anche lì i risultati si vedono. “Numeri piccoli, certo, numeri piccoli ma è su quello che lavoriamo. Ognuno di loro è diverso”, aggiunge Pedron. Teramo. I detenuti-studenti di Castrogno che producono il “Liberolio” iltrafiletto.it, 20 febbraio 2025 Un progetto formativo per riscoprire le competenze lavorative dei detenuti: quando il gusto è liberatorio. Lavoro, gusto, libertà. Riscoprire il lavoro per riscoprirsi cittadini. Riscoprire il gusto per riscoprire competenze. Riscoprire la formazione per riscoprire poi la libertà. La realtà del carcere di Castrogno racconta tanto, ogni giorno. Ma tra le pagine di cronaca, tra i gridi di allarme, sa raccontare anche di speranza. All’interno del carcere ci sono gli studenti della scuola carceraria alberghiera e agraria, che quella speranza non la vogliono abbandonare. Il progetto presentato oggi grazie alla sinergia tra gli istituti Di Poppa-Rozzi, rappresentati dalla Dirigente scolastica Caterina Provvisiero, e la casa circondariale di Castrogno, rappresentata dalla Direttrice Maria Lucia Avvantaggiato e dal Comandante Igor De Amicis, ha proprio il sapore di quella speranza. “Liberolio” è l’olio realizzato dai detenuti studenti, insieme all’ideazione dell’etichetta e del messaggio “quando il gusto è liberatorio”. Una libertà consapevole che si realizza attraverso il reinserimento lavorativo perché i detenuti sono anche uomini e donne, studenti, persone con delle competenze da riscoprire. “L’olio è liberatorio perché dietro c’è un progetto di formazione che ha permesso ai detenuti e nostri studenti della scuola carceraria di acquisire competenze attraverso cui potranno essere reinseriti nel mondo del lavoro”, ha spiegato la preside Provvisiero. “È un ampliamento dell’offerta formativa degli istituti alberghiero e agrario, grazie al quale i detenuti hanno raccolto le olive, hanno imparato a potare, realizzando anche un progetto per le etichette. Dietro tutto ciò, c’è soprattutto la speranza”. “Libertà nel vero senso della parola, che si realizza attraverso il reinserimento nel lavoro: potenziare la produzione di olio significa dare ai detenuti delle competenze da poter impiegare in un lavoro onesto. Il lavoro è risorsa di reinserimento sociale”, ha detto la direttrice Avvantaggiato. “Con progetti come questo si elimina uno dei mali peggiori della detenzione: l’ozio. Quando si dà ai detenuti la possibilità di dare un senso alla loro esistenza, allora lì riscoprono il loro essere cittadini”, ha commentato il comandante De Amicis. Massa Carrara. Un mondo possibile con il teatro di Cristina Lorenzei La Nazione, 20 febbraio 2025 Armando Punzo ha presentato al Garibaldi la Compagnia della Fortezza: un futuro per i detenuti del carcere di Volterra. Voleva disegnare il silenzio, si domandava come fosse stare seduti su un raggio di luce. Dalla volontà di superare il teatro tradizionale, di andare oltre la stagione fatta di cartelloni e rassegne, Armando Punzo, più di 30 anni fa portò il teatro dentro il carcere di Volterra. Nacque quella compagnia della Fortezza che non solo aggiunse un importante tassello alla drammaturgia contemporanea, ma cambiò anche la stessa casa di reclusione toscana. Forse Punzo non è riuscito a sedersi su un raggio di luce, ma è riuscito a dare una veste al futuro di chi senza il teatro avrebbe perso ogni speranza. A trasformare il luogo della sofferenza in una utopia. Tanto che chi entra nella compagnia trova difficoltà a uscirne, anche a prezzo della libertà. É successo a Paul Ciocian che dopo aver terminato il periodo di reclusione è diventato cittadino di Volterra e continua la sua attività di attore a fianco di Punzo creando situazioni per chi pensava di non avere più vie d’uscita. Il contenuto dirompente di questo progetto è descritto nel film di Gianfranco Pannone “Qui è altrove. Buchi nella realtà” che è stato proiettato davanti a una sala strapiena al Garibaldi su iniziativa di Spazio Alberica con la collaborazione del gestore Silvano Andreini. Al termine della toccante pellicola che affonda le mani nelle viscere della Fortezza di Volterra quando questa si apre a tutte le compagnie di detenuti d’Italia con la masterclass ‘Per aspera ad astra’, Armando Punzo con l’attore Ciocian e il garante per i detenuti di Volterra, l’avvocato Ezio Menzione, si sono sottoposti a un fuoco di fila di domande del pubblico introdotti e presentati da Marina Babboni, già direttrice degli Animosi che nel ‘94 fece quella coraggiosa scelta di inserire il ‘Marat Sade’ interpretato dai detenuti di Punzo nel cartellone del teatro. Un incontro con il pubblico che è stato un excursus sulla vita carceraria, sui diritti dei detenuti, sull’importanza dell’attività teatrale e creativa che consente di aprire un ponte sul futuro di chi deve scontare una pena, che fa diventare lo spazio dentro le sbarre un luogo dove tutto è possibile. Lo stesso Menzione ha raccontato la portata del progetto che riesce a garantire il diritto alla libertà per chi quella libertà ha perso. “Il teatro consente di immaginare e costruire una vita per il dopo carcere, che spesso chi sta dentro non riesce a configurare”. “Non ci sono né santi né eroi - ha precisato Punzo - Ognuno di noi è mosso da una propria esigenza di salvezza personale. Io stesso mi sono avvicinato qui più di 30 anni fa per realizzare una mia idea di teatro che fuori non riuscivo a concretizzare. Solo riuscendo a stabilire una comunicazione con chi viene privato della forza del comunicare ho trovato un senso al mio lavoro”. Un miracolo che dura da 30 anni che è riuscito nella costruzione di un mondo possibile nel posto dove l’utopia viene spenta. Un rivoluzionario della prosa, che professa l’inutilità dell’arte ma che al contempo ti fa capire con il sublime quanto il teatro sia importante e necessario per l’umanità, la cui deflagrante portata è stata riconosciuta da Mattarella che gli ha conferito l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. Varese. L’incontro pubblico “Il Peso delle Sbarre” per riflettere sui pregiudizi verso i detenuti varesenews.it, 20 febbraio 2025 L’Organizzazione Culturale La Scelta invita la cittadinanza all’incontro pubblico “Il Peso delle Sbarre”, una serata di riflessione dedicata alla lotta contro i pregiudizi e i giudizi nei confronti dei detenuti e delle loro famiglie. L’evento si terrà venerdì 21 febbraio 2025 ad Arcisate, presso la Sala Frontalieri, con inizio alle ore 20:30. L’incontro vedrà la partecipazione di figure di rilievo nel campo della giustizia e del reinserimento sociale. Alcuni detenuti del Carcere di Bollate condivideranno le loro esperienze personali, mentre Don Matteo Rivolta, cappellano del Carcere di Varese, offrirà una prospettiva spirituale sul tema. Cristina Centamore e Luisa Colombo, collaboratrici del Carcere di Bollate, racconteranno il loro lavoro a sostegno del reinserimento dei detenuti. Sul versante giuridico Annalisa Palomba, giudice della Corte Costituzionale di Torino, analizzerà le questioni normative legate alla detenzione. L’incontro non sarà solo un momento di dibattito, ma offrirà anche uno spazio artistico. La serata sarà arricchita dall’esibizione musicale di Rossella Pennisi, accompagnata dalla chitarra di Tommaso Caprioli, con l’interpretazione del brano “La Casa in Riva al Mare” di Lucio Dalla, una canzone che affronta poeticamente il tema della prigionia e della speranza. A moderare il dibattito sarà Andrea Della Bella, giornalista di Malpensa24, che guiderà gli interventi e le riflessioni della serata. Napoli. Trenta detenuti sul palco del Trianon. Portano in scena “La Tempesta” di Shakespeare di Vincenzo Esposito Corriere del Mezzogiorno, 20 febbraio 2025 È la prima volta che accade. La curatrice Bifano: grande successo nel carcere di Secondigliano dei corsi di teatro. Per la prima volta una delegazione di trenta attori (tutti “regolarmente” detenuti) lascerà il carcere di Secondigliano per recitare sul palco di un vero teatro, davanti a un pubblico altrettanto vero. La Tempesta di William Shakespeare andrà in scena alle 18 del 20 febbraio nel teatro Trianon di Forcella. Una produzione curata e diretta da Marta Bifano in collaborazione con il ministero della Giustizia. Fino ad ora la “licenza recitativa” all’esterno di un penitenziario era stata concessa, e molto raramente, soltanto a un massimo di dodici detenuti. “Questa - spiega Marta Bifano - è la compagnia più numerosa che abbia mai lasciato un carcere. E ce lo siamo meritato. C’è grande passione e enorme trasporto nei detenuti che ogni giorno non vedono l’ora che inizino le prove. Sono emozionati e felici di poter recitare all’esterno”. Ma è la prima volta che accade? “Lo spettacolo era già andato in scena a ottobre per “Affabulazione”, la rassegna di teatro, musica e danza organizzata dal Comune di Napoli, ma avevamo recitato dentro le mura”. Un successo? “Sì, un’esperienza bellissima. Ogni giorno - conclude Bifano - tanti detenuti chiedono di entrare nella compagnia teatrale e nel progetto. Mi sa che il prossimo spettacolo che allestiremo sarà Carosello napoletano, così potranno esserci tutti”. Il via libera del ministero della Giustizia - L’allestimento del testo di Shakespeare, riadattato da Jorge Troccoli, è la restituzione del laboratorio culturale inclusivo e integrato di arteterapia e sartoria teatrale, rivolto alle persone detenute nella casa circondariale di Secondigliano. Infatti a tutto ciò che concerne il “contorno” dello spettacolo hanno lavorato altri dieci detenuti, realizzando gli abiti e le scene della “Tempesta”. Con i detenuti reciteranno anche alcuni attori professionisti. Chissà perché Shakespeare è il poeta “preferito” da chi vive dietro le sbarre. Forse perché nelle sue opere ha riversato tutti i temi dell’umano sentire (il tradimento, la vendetta, il perdono e l’amore). La Tempesta di domani sera al Trianon ricorda Cesare deve morire, un film del 2012 diretto da Paolo e Vittorio Taviani che narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Un film “potente”, ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2012. Firenze. “Dalla mia prospettiva”, il mondo visto dai ragazzi del carcere minorile di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2025 Il mondo visto da chi si trova all’interno di un carcere minorile. Lo racconta la mostra “Dalla mia prospettiva” in programma dal 20 febbraio al 22 marzo al Museo degli Innocenti di Firenze nella sala Agata Smeralda. In mostra 66 foto in bianco e nero frutto di laboratori promossi dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti negli istituti penali per minorenni di Catanzaro “Silvio Paternostro”, di Quartucciu (Cagliari), di Roma “Casal del Marmo” e di Torino “Ferrante Aporti” e del femminile di Pontremoli (Massa Carrara). Autori delle immagini sono 22 ragazzi e ragazze tra i 15 e i 17 anni che nel periodo agosto-dicembre 2024 nell’ambito di un progetto di ascolto dei minorenni detenuti. Tre i temi del percorso espositivo sui quali si sono svolte le attività: “come è cambiato il mio quotidiano”; “a chi o a cosa va il mio pensiero quando sono in istituto”; “quali sono i miei sogni”. Una occasione per esprimersi, per prendere consapevolezza di se stessi e gettare le basi per un nuovo futuro. Per l’Autorità garante, l’occasione di entrare in contatto con loro, di ascoltarli e di confrontarsi. I laboratori sono stati condotti dal fotografo Valerio Bispuri insieme all’ufficio dell’Autorità garante, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti. Un pannello, opera di Bispuri, narra il backstage del progetto. Le 66 foto sono state raccolte in una pubblicazione che sarà presentata a Firenze il 6 marzo 2025. L’abbraccio di Lucia all’assassino del marito: in un podcast la forza del perdono di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 20 febbraio 2025 Un podcast racconta la storia di Lucia Di Mauro Montanino e il suo incontro con Antonio, il giovane tra gli assassini del marito Gaetano. Le parole di don Burgio. Il perdono presuppone la necessità di superare un dolore, un dramma, una tragedia. Significa andare oltre le emozioni negative. È un atto di umanità, coraggio e generosità che spalanca le porte alla speranza. Lo sa bene Antonio, che la sera del 4 agosto 2009 partecipò al tentativo di rapina che si concluse con l’omicidio della guardia giurata Gaetano Montanino. Allora Antonio aveva solo 17 anni e fu condannato a 22 di carcere. Una vita finita, sulla carta. E invece ecco la potenza del perdono. Lucia Di Mauro Montanino, la vedova della guardia assassinata accetta di incontrare il ragazzo durante un evento organizzato da Libera di don Ciotti: “ Lo guardai. Mi aspettavo un mostro - ha detto Lucia -, invece vidi un ragazzino, un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato. Tremava, piangeva. Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Mi sono avvicinata. Antonio mi ha abbracciata”. Oggi Antonio è padre di due figli e Lucia, assistente sociale a Napoli, ha dedicato la sua vita ad aiutare gli adolescenti segnati dalla marginalità e dalla rabbia. Ed è diventata uno dei simboli della potenza della giustizia riparativa, che può trasformare il dolore in speranza. La sua storia verrà raccontata in “L’abbraccio che ripara - Perdonare un delitto”, il nuovo podcast di Kayros Onlus, ideato, scritto e narrato da Niccolò Agliardi, realizzato da Vois in collaborazione con Fondazione Cariplo e partito - con un episodio al giorno - il 18 febbraio su Sky Tg24 Insider e arriverà dal 27 febbraio su tutte le piattaforme. Kayros Onlus, produttrice del podcast, è l’associazione fondata nel 2000 da don Claudio Burgio che offre supporto e alloggio a minori in difficoltà: la sua missione è aiutare i giovani a ripartire attraverso l’ascolto, il perdono e il supporto educativo. Nel podcast, oltre a don Burgio, cappellano all’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, è previsto un intervento di don Luigi Ciotti, sacerdote fondatore dell’associazione Libera contro i soprusi delle mafie in tutta Italia e nel mondo. Spiega don Burgio: “C’è tanto di Kayros in questo podcast - racconta don Claudio Burgio, fondatore dell’associazione che offre supporto e alloggio a minori in difficoltà -. È la storia di ragazzi che si riconciliano con la vita, a volte con le vittime dei loro reati. Il podcast riflette bene le storie di questi ragazzi che hanno commesso reati ma che, se accompagnati e aiutati, riescono a rielaborare l’accaduto e dargli nuovo significato, una nuova direzione alla vita e una speranza che non sia solo ottimismo banale ma qualcosa di fondato”. La storia di Lucia che ha scelto di perdonare Antonio può essere dunque un esempio non solo della forza del perdono e della rinascita che racchiude ma perché potrebbe diventare un faro per tanti giovani in difficoltà. “Se questa storia potesse aiutare anche un solo ragazzo a pensarci prima, allora avremmo ottenuto un gigantesco risultato - ammette Agliardi - e questo è il nostro obiettivo”. Gattebuie. Voci femministe sul carcere podomatic.com, 20 febbraio 2025 Per la prima volta nella sua lunga storia DWF sceglie di dedicare un numero alla questione del carcere. In parte questa scelta dipende dal contesto: il 2024 è stato infatti definito l’anno nero delle carceri in Italia. Il sovraffollamento ha superato il 132% a fronte della diminuzione della capienza reale, gli spazi sono inadeguati, le strutture sempre più fatiscenti e senza manutenzione. Si è poi registrato il triste record di suicidi: 88 persone, di cui 2 donne, 23 giovani dai 19 ai 29 anni, 40 persone straniere. Eppure la nostra è una scelta che va al di là dei numeri e della stretta attualità. I femminismi si sono sempre confrontati - e scontrati - con le istituzioni, che sono espressione di una società, dei valori che formula, dei rapporti di forza che la contraddistinguono e delle relazioni tra i generi. Famiglia, ospedali, scuole, governo, sono modelli pensati intorno a un criterio puramente maschile, rappresentazione di un sistema di potere, oltre che di un’unica prospettiva, che definisce e impartisce ruoli, norme, posizioni. Il carcere è uno di questi, in cui la reclusione femminile è da sempre considerata marginale e residuale, inserita nello schema pensato da uomini per uomini, ma attorno a cui le esperienze e il pensiero femminista affondano radici lontane. Dall’incarcerazione di massa delle suffragiste agli inizi del Novecento e la pratica dell’alimentazione forzata in risposta ai loro incessanti scioperi della fame, fino all’abolizionismo del femminismo Nero negli anni Settanta, sono costanti gli sforzi per denunciare il carcere e sfidare la sua logica punitiva e repressiva. Qui il podcast https://www.podomatic.com/podcasts/redazione92692/episodes/2025-02-19T09_42_16-08_00 Istituto il Premio letterario “Meco” nel ricordo di don Domenico Ricca agensir.it, 20 febbraio 2025 Condividere, attraverso la scrittura, riflessioni, esperienze reali o immaginate legate al tema della detenzione, mettendo in luce sia le difficoltà che il potenziale di rinascita. Questo l’obiettivo del Premio letterario “Meco”, istituito da Forum Terzo settore in Piemonte e Salesiani Don Bosco Piemonte e Valle d’Aosta, in collaborazione con il settimanale diocesano “La Voce e Il Tempo” e con il patrocinio di Consiglio regionale del Piemonte e Città di Torino, per ricordare don Domenico “Meco” Ricca, sacerdote che ha dedicato una vita intera ai ragazzi detenuti nel carcere minorile del “Ferrante Aporti” di Torino. Di quei giovani, viene sottolineato in un comunicato dell’arcidiocesi di Torino, don Ricca “è stato per oltre quarant’anni anni non solo guida spirituale, ma soprattutto confidente, formatore e riferimento e, fatto non meno importante, ha contribuito con le sue proposte e le attività da lui organizzate a migliorare i percorsi di rieducazione e le condizioni di vita nell’Istituto torinese di pena per minori”. Per la prima edizione del concorso è stato scelto il tema “Dietro le sbarre” con l’intento di spingere ad esplorare e riflettere sulla condizione di prigionia che è privazione di libertà in senso fisico, psicologico e sociale. Le “sbarre” - come è spiegato nella pagina web di presentazione del Premio https://www.terzosettorepiemonte.it/progetto/premio-letterario-meco/ - rappresentano tutto ciò che separa un individuo dalla libertà come, oltre l’essere rinchiusi tra le mura di un carcere, possono essere pure le disabilità, le paure interiori, le discriminazioni o le dipendenze. Condizioni che portano a sentirsi bloccati, incapaci di esprimersi o di immaginare un futuro diverso. L’iniziativa in memoria di don Meco è un invito a pensare anche alle opportunità di riscatto che possono nascere proprio dalle difficoltà: attraverso la forza interiore, il supporto degli altri e le attività creative come lo sport, il teatro o la musica, si possono superare le “sbarre” visibili e invisibili, riscoprendo la speranza e la libertà. Tre le categorie in cui è articolato il concorso: “Giovani e adulti” (dai 19 anni in su), “Adolescenti” (dai 14 ai 18 anni), una sezione per i giovani ristretti all’Ipm “Ferrante Aporti” e, inoltre, due premi speciali sono riservati a persone con disabilità. Gli elaborati (saggio breve, poesia o racconto) con cui, attraverso riflessioni sul tema della detenzione, oppure la narrazione di esperienze reali o immaginate, evidenziando sia le difficoltà che il potenziale di rinascita, dovranno essere consegnati entro il 31 marzo. La cerimonia di premiazione avverrà nel mese di maggio al Salone del libro di Torino e, in quell’occasione, sarà anche presentata una pubblicazione con i migliori elaborati, il cui ricavato dalla vendita sarà interamente devoluto alla Comunità Harambée di Casale Monferrato (Al) che accoglie e sostiene minori fragili. Fondo contro la povertà educativa, studenti universitari danno “ripetizioni” a quelli delle medie di Paolo Foschini Corriere della Sera, 20 febbraio 2025 A pochi giorni dalla reintroduzione del finanziamento che la Manovra aveva tagliato al Fondo contro la povertà educativa minorile via al progetto Compiti@Casa selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini per aiutare gli studenti più giovani in situazioni di difficoltà. Milleseicento studenti delle secondarie di primo grado, insomma le medie come si diceva una volta. E ottocentoquaranta dell’università. Questi ultimi accanto ai primi per far loro da tutor: insomma aiutarli nei compiti a casa come si diceva una volta. A pochi giorni dalla reintroduzione del finanziamento che la Manovra aveva tagliato al Fondo contro la povertà educativa minorile (anche se solo con tre milioni all’anni invece dei venticinque sperati) vale la pena raccontare a puro titolo di esempio uno dei nuovi progetti tra gli oltre ottocento di cui il Fondo ha consentito finora la partenza. Questo in particolare si chiama Compiti@casa ed è stato selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini per sostenere il percorso scolastico degli studenti più giovani grazie alle “ripetizioni” (altro nome di una volta) fornite da quelli più “anziani” (si fa per dire): regolarmente formati apposta e quindi remunerati. Nelle materie scientifiche e umanistiche. A beneficio di chi è in situazione di difficoltà di apprendimento, disagio educativo, scarso rendimento scolastico, bassa partecipazione alla vita scolastica. Compiti@casa è un progetto triennale che ha l’obiettivo di innovare lo studio a distanza e sviluppare metodologie didattiche capaci di motivare e sostenere gli alunni e le alunne in difficoltà. Selezionato da Con i Bambini - come si è detto - nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, il progetto è stato ideato da Fondazione De Agostini e Università di Torino. Per questa edizione, oltre a Con i Bambini alla stessa Fondazione De Agostini, contribuiscono sostenerlo Fondazione Alberto e Franca Riva, UniCredit Foundation, Fondazione Comunità Novarese. Con partnership in tutta Italia: oltre all’Università di Torino in veste di responsabile scientifica si sono la cooperativa sociale romana Parsec come capofila e poi l’altra cooperativa sociale Raggio Verde (Novara), la Aps napoletana Traparentesi, l’associazione I Tetti Colorati (Ragusa), quindi tre atenei (La Sapienza di Roma, Federico II di Napoli, Università di Messina) e 16 scuole tra Piemonte, Lazio, Campania e Sicilia. I tutor sono selezionati tramite un bando e opportunamente preparati attraverso un percorso di formazione a cura dell’ateneo torinese. Per ognuno dei tre anni del progetto, le università coinvolte selezionano ognuna 70 tutor tra gli studenti dei propri corsi, 35 per l’area umanistica e 35 per l’area scientifica. Il tutorato ha una durata complessiva di 15 settimane e si attiva nel secondo quadrimestre. In ogni appuntamento un tutor incontra due alunni che frequentano la stessa classe. Sono previsti due appuntamenti settimanali di due ore ciascuno (un’ora per le materie umanistiche, un’ora per quelle scientifiche) per un totale complessivo di 60 ore per ogni alunno seguito. Le ragazze e i ragazzi che usufruiscono dei tutorati sono individuati dalle scuole secondarie di primo grado coinvolte, che scelgono 28 allievi per ogni anno di progetto. “Di fronte a una generazione scarsa numericamente e afflitta da stati di ansia che ne compromettono un sano ingresso nella vita adulta - sottolinea Barbara Guadagni, responsabile del progetto - è inaccettabile che molti studenti delle scuole medie vivano uno stato di frustrazione legato a uno scarso rendimento scolastico spesso motivato dalla povertà materiale e dalla povertà educativa delle loro famiglie. Il servizio che offriamo è teso a contrastare queste difficoltà”. Disagio giovanile, 1 ragazzo su 2 soffre di ansia: sempre più connessi e più soli di Valentina Rorato Corriere della Sera, 20 febbraio 2025 Non c’è equilibrio tra vita online e offline. Giovani sempre più connessi, ma soprattutto giovani sempre più soli. Trovare un equilibrio tra vita online e offline è la vera sfida della Generazione Z (e di quelle future), che soffre di ansia e frustrazione proprio a causa di questa disconnessione, che colpisce quasi 1 ragazzo su 2 di età compresa tra i 18 e i 28 anni. Lo dimostrano i dati della ricerca BVA Doxa commissionata da Lenovo. “In questo momento storico la Generazione Z si trova a dover affrontare sfide nuove legate alla disconnessione tra vita online e offline, con conseguenti difficoltà relazionali e sensazioni di disagio, inadeguatezza e solitudine. È fondamentale che i giovani non nascondano o addirittura reprimano le proprie emozioni e che non abbiamo paura di chiedere aiuto per affrontarle, noi siamo al loro fianco, pronti ad offrire, in forma anonima e senza mai esprimere giudizi, tutto il supporto di cui hanno bisogno”, si raccomanda Cristina Rigon, presidente di Telefono Amico Italia. Secondo la ricerca, più di un terzo (38%) dei ragazzi, invece, ritiene sia più facile esprimersi online piuttosto che offline, mentre il 75% vorrebbe poter avere conversazioni delicate e profonde con la famiglia e i propri cari nella vita reale. Quasi la metà degli intervistati parlerebbe volentieri con un professionista qualificato, per alimentare la fiducia necessaria per comunicare più apertamente con le persone che ama. Per aiutare i ragazzi a sentirsi a proprio agio nel mondo reale, come in quello virtuale, e a costruire connessioni sane tra le due realtà, Lenovo lancia la campagna, Meet Your Digital Self, che fa parte del progetto Work For Humankind. L’obiettivo è insegnare a tutti, non solo alla Generazione Z, le potenzialità delle nuove tecnologie, compresa l’intelligenza artificiale, e supportare gli esperti della salute mentale nell’affrontare l’aumento dei disturbi nei ragazzi. Protagonisti di questa operazione sono due avatar interattivi in 3D, creati con l’AI, capaci di rappresentare digitalmente due giovani e di sostenere conversazioni reali con i loro cari. Le due protagoniste dell’esperimento sono Chinatsu, una modella giapponese plus-size che nasconde la sua vita online alla famiglia, e Oscar, amante della moda in cui il mondo online è l’ultima forma di libertà. Tramite i due avatar, queste ragazze e le loro famiglie sono state in grado di conoscersi meglio: la mamma e la nonna hanno compreso la complessità della vita online della figlia e della nipote, che a loro volta hanno capito quale fosse la strada giusta per riconnettersi alla vita reale. “La tecnologia, se utilizzata in maniera responsabile, può giocare un ruolo cruciale nel supportare le persone, specialmente i giovani, che soffrono di solitudine o vivono momenti di disorientamento e disagio”, continua la presidente di Telefono Amico, che conferma un’altra novità: verrà potenziato il “servizio di sostegno empatico”, in costante crescita negli ultimi 4 anni e con oltre 12 mila richieste di aiuto provenienti da under 26 solo nel 2024. I ragazzi chiedono di essere ascoltati nel 30% dei casi via e-mail, mentre nel 40% tramite WhatsApp. Il canale di messaggistica istantanea è ovviamente rivolto a tutti, ma è stato creato appositamente per i giovani, proprio per rispondere meglio al loro modo di comunicare. La Corte Penale Internazionale mette sotto accusa l’Italia per la mancata consegna di Almasri Il Dubbio, 20 febbraio 2025 Il Governo italiano sarebbe inadempiente per non aver arrestato e consegnato il cittadino libico. Possibile deferimento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La Camera preliminare I della Corte Penale Internazionale ha notificato al governo italiano la decisione di avviare un procedimento per “accertare formalmente l’inadempienza” dell’Italia rispetto alla richiesta di arrestare e consegnare alla Corte Osama Elmasry-Almasri Njeem, cittadino libico ricercato. Il documento, inviato ufficialmente a Roma, ripercorre l’intera vicenda e richiama l’articolo 87, comma 7 dello Statuto di Roma, che disciplina la cooperazione tra gli Stati e la Corte. La Corte si riserva ora di valutare se la mancata esecuzione del mandato di cattura debba essere deferita al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e/o all’Assemblea degli Stati parte dello Statuto di Roma. Allo stesso tempo, la Camera preliminare ha riconosciuto che l’Italia ha già fornito alcune informazioni al Registro della Corte, attraverso due memorandum inviati dal Ministero della Giustizia il 27 gennaio e il 10 febbraio 2025. Tuttavia, prima di determinare ufficialmente una mancata cooperazione, la Corte ha stabilito di ascoltare la posizione del governo italiano. La Camera preliminare ha formalmente invitato l’Italia a presentare osservazioni per chiarire la mancata consegna di Osama Almasri dopo il suo arresto in territorio italiano. Il termine per fornire una risposta ufficiale è stato fissato al 17 marzo 2025. L’Italia dovrà inoltre spiegare la mancata ottemperanza alla richiesta di cooperazione riguardante la perquisizione e il sequestro di materiali trovati in possesso di Almasri. Il documento specifica infine che le osservazioni dovranno essere presentate in una delle lingue di lavoro della Corte, quindi non in italiano.