L’allarme dei penalisti: “Ridare al carcere piena costituzionalità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2025 L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane lancia un appello drammatico e urgente: serve un intervento parlamentare straordinario per “ridare piena costituzionalità al carcere”, restituendo dignità a un sistema che, numeri alla mano, si è trasformato in un “cimitero dei viventi”. I dati del 2024, definiti “da fare accapponare la pelle”, raccontano una crisi umanitaria senza precedenti, mentre il governo risponde con soluzioni inefficaci e la politica sembra voltare lo sguardo. Il rapporto dell’Osservatorio dipinge un quadro agghiacciante: 90 suicidi tra i detenuti, il numero più alto mai registrato, e 246 morti in carcere per cause varie, il picco dal 1992. A questi si aggiungono oltre 2.000 tentativi di suicidio e 13.000 atti di autolesionismo, segni di un disagio che diventa disperazione. Il 2025 non promette miglioramenti: già nei primi giorni dell’anno si contano 9 suicidi (contro i 4 dello stesso periodo del 2024), tra cui tre a Modena, due a Cagliari e uno nel carcere romano di Regina Coeli. A morire, però, non sono solo i detenuti: a Paola, nel cosentino, si è tolto la vita anche un operatore penitenziario, vittima di un sistema allo stremo. Il sovraffollamento rimane una piaga insanabile: le carceri italiane ospitano 15.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, superando i limiti imposti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani del 2013. Un fenomeno in crescita: tra il 2021 e il 2024, i detenuti sono aumentati di 8.000 unità, mentre i posti sono diminuiti di 1.000. Se il trend proseguirà, entro il 2027 ci saranno 30.000 detenuti in eccesso, nonostante il piano governativo di ampliare le strutture con 7.000 nuovi posti. “Una goccia nel mare”, denuncia l’Osservatorio, che accusa l’esecutivo di “tirare a campare” con soluzioni “stantie e inefficaci”. La presidente del Consiglio, interpellata sulla questione, ha ribadito la linea dell’ampliamento degli istituti penitenziari. L’Osservatorio risponde che, costruire nuove celle senza ridurre il numero di detenuti, è come “svuotare il mare con un secchio”. La priorità, invece, dovrebbe essere l’adozione di politiche deflattive: limitare la custodia cautelare, incentivare misure alternative alla detenzione e sgravi per reati minori. L’Italia, già condannata più volte dalla Cedu per condizioni carcerarie “disumane e degradanti” (violando l’articolo 3 della Convenzione Europea), non ha migliorato la situazione. Il sovraffollamento cronico impedisce di garantire servizi essenziali come assistenza sanitaria, attività riabilitative e contatti familiari, trasformando il carcere in un luogo che “non rieduca, non reintegra: uccide”. L’Ucpi, denunciando l’inerzia del governo, chiede al Parlamento di attivare un dibattito urgente per riforme strutturali, tra cui un provvedimento di indulto e la revisione delle norme sull’esecuzione penale, allineandole ai principi costituzionali (come gli articoli 27 e 32, che tutelano dignità e rieducazione). L’appello coincide con il Giubileo 2025, durante cui Papa Francesco ha aperto una Porta Santa a Rebibbia, sollecitando amnistia e indulto per restituire speranza ai detenuti. Un invito disatteso dall’Italia, nonostante la Costituzione vieti trattamenti contrari alla dignità umana. “Solo un’azione coraggiosa della politica può evitare il collasso”, conclude l’Osservatorio. La posta in gioco non è solo il rispetto dei diritti umani, ma la credibilità stessa delle istituzioni. In un Paese che si definisce civile, lasciare che il carcere diventi un “luogo di morte” è una sconfitta per tutti. Servono scelte radicali: meno celle, più giustizia. L’effetto Caivano sugli istituti minorili e il caso emblematico di Casal del Marmo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2025 Come ha accuratamente analizzato il Garante regionale Stefano Anastasìa, secondo gli ultimi dati del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, al 31 dicembre 2024 in Italia erano 14.968 i minorenni o giovani adulti in carico agli uffici territoriali, con un incremento del 5% rispetto al 2023. Ma è la situazione delle carceri minorili a destare allarme: negli istituti penali minorili si è passati da 1.444 ristretti a fine 2023 a 1.707 a fine 2024, con un +18% in un solo anno. Un aumento ancora più marcato se si considera il periodo successivo al decreto Caivano (settembre 2023): nei 18 mesi dalla sua approvazione, il numero di giovani detenuti è salito del 48%, invertendo una tendenza alla stabilità registrata tra il 2019 e il 2023. Il decreto, nato per contrastare il degrado nei territori a rischio (come Caivano), ha di fatto innescato un effetto inflazionistico della detenzione minorile, spingendo verso il carcere ragazzi spesso privi di reti familiari solide. A confermarlo è l’aumento dei minori stranieri in Ipm: 292 alla fine del 2024, con un’incidenza del 49,7% sul totale (contro il 32% nelle carceri per adulti). Nel Lazio, l’Ipm Casal del Marmo a Roma è diventato l’emblema di questa crisi. Tra giugno 2023 e dicembre 2024, i minori ristretti sono passati da 49 a 63, superando di 6 unità la capienza massima (57 posti). A ciò si aggiungono 87 giovani in comunità (erano 75 nel 2023, + 16%). Ma i numeri raccontano solo una parte del problema. In una lettera inviata il 27 dicembre 2024 al Capo del Dipartimento per la giustizia minorile, Antonio Sangermano, i Garanti regionali Stefano Anastasìa (Regione Lazio) e Valentina Calderone (Roma Capitale) hanno denunciato una situazione al collasso: “Le proteste, i danneggiamenti e le aggressioni tra ragazzi e verso gli agenti sono sintomo di una crisi strutturale”, hanno scritto. Durante una visita il 18 dicembre 2024, i Garanti hanno riscontrato 56 maschi e 13 femmine detenuti, con 5 stanze inagibili e palazzine maschili sovraffollate. La carenza di personale di polizia penitenziaria (meno del 50% dell’organico previsto) ha portato all’annullamento di attività educative, scarsa partecipazione ai progetti scolastici e ritardi negli accompagnamenti. “I ragazzi vivono in un clima di frustrazione e aggressività, con giornate sostanzialmente vuote”, hanno aggiunto i Garanti, chiedendo interventi urgenti per garantire continuità alle attività formative. Nella sua risposta, Sangermano ha annunciato una serie di misure concrete per affrontare la situazione. Ha parlato dell’istituzione di due nuove comunità socio- educative ad alta integrazione sanitaria nel Lazio e di un piano di assunzioni mirato a rafforzare la presenza di figure pedagogiche e sociali. Ha poi sottolineato l’imminente arrivo di un nuovo comandante di reparto a Casal del Marmo, ponendo fine a un lungo periodo di instabilità gestionale. Inoltre, ha evidenziato l’avvio di collaborazioni con Sant’Egidio e il Centro Alletti per lo sviluppo di laboratori creativi, oltre alla pubblicazione di un avviso pubblico per corsi di formazione professionale, finanziati dalla Regione Lazio. Nel contempo ha riconosciuto che la sicurezza resta il problema principale, aggravato dalle frequenti assenze per malattia del personale. Ha infine ammesso che molte criticità affondano le radici in problemi strutturali di lunga data, come il continuo turn- over dirigenziale, la scarsa valorizzazione dei percorsi educativi e le carenze infrastrutturali. Il caso di Casal del Marmo riflette una piaga nazionale: quasi 1 minore su 2 detenuto in Ipm è straniero. Privi di reti familiari stabili e con difficoltà linguistiche, questi ragazzi sono più esposti al circuito penale. A ciò si aggiunge la mancanza di strutture dedicate: mentre i nuovi progetti di Sangermano promettono interventi, la realtà quotidiana è fatta di aulette scolastiche semivuote e attività annullate per mancanza di agenti. I dati nazionali e il caso di Casal del Marmo rivelano, di fatto, un sistema al limite. Un sistema che un tempo era preso come un esempio virtuoso. Troppo pochi i posti nelle residenze per i detenuti infermi di mente di Natascia Ronchetti Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2025 Le 32 Rems oggi esistenti in Italia dispongono di appena 630 posti letto, ne occorrerebbero almeno il doppio. Ciò che teme la Corte Costituzionale - e cioè che le gravi criticità delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) non tutelino né i detenuti con disturbi mentali che devono essere curati né la sicurezza pubblica - è già accaduto. Due volte nell’arco di poco tempo. Prima, nell’ottobre del 2023 a Milano, l’omicidio di Marta Di Nardo, da parte di un pregiudicato infermo di mente in attesa di ricovero. Poi, poco più di due mesi fa, a Caprarola (Viterbo), l’uccisione di un netturbino ad opera di un altro pregiudicato, anche egli in lista d’attesa per essere ricoverato. Entrambi erano in libertà vigilata. Il fallimento delle Rems - Sono trascorsi tre anni da quando la Consulta ha rilevato “numerosi profili di frizione con i principi costituzionali” nell’applicazione concreta della legge 81 del 2014. Vale a dire la normativa che ha istituito le Rems, affidandone la gestione ai sistemi sanitari regionali e archiviando definitivamente l’era degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tre anni di silenzio, senza alcun intervento legislativo. Un silenzio rotto principalmente dalle voci degli psichiatri, da tempo in rivolta. “La legge 81 è un fallimento totale ma nessuno ha ancora messo mano a una riforma, sollecitata peraltro dalla stessa Consulta”, dice Giuseppe Nicolò, direttore del dipartimento Salute mentale dell’Asl Roma 5. Nessuno, tra gli psichiatri, vuole fare marcia indietro e tornare all’orrore degli Opg, dove la custodia prevaleva sulle cure. “Ma il sistema rischia di saltare”, osserva Emi Bondi, ex presidente della Società italiana di Psichiatria e membro del tavolo tecnico sulla salute mentale voluto dal ministro Orazio Schillaci. Il punto è che le 32 Rems oggi esistenti in Italia dispongono di appena 630 posti letto. Troppo pochi. Ne occorrerebbero almeno il doppio. E anche così non si riuscirebbe ad assorbire il numero delle persone in lista d’attesa, che sono 750: hanno commesso reati ma sono inferme di mente e non possono essere trattenute in carcere. Mentre altre 45 si trovano dove non dovrebbero essere: dietro le sbarre. Senza contare la distribuzione non omogenea sul territorio. In Umbria e in Calabria non è presente nemmeno una struttura e in Friuli Venezia Giulia si contano appena tre posti letto. Senza contare che la legge 81 ha sganciato le Rems dalle competenze del ministero della Giustizia, affidandole al servizio sanitario nazionale, quindi alle Regioni. Condizione, questa, che la Consulta aveva già giudicato incompatibile con l’articolo 110 della Costituzione, che assegna al Guardasigilli la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi che riguardano la giustizia. L’intervento del Csm - Nei giorni scorsi il Consiglio superiore della magistratura ha però approvato all’unanimità il documento finale sulle Rems, frutto del lavoro della commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione penale. Documento che chiede il rafforzamento dei servizi territoriali di salute mentale e una riforma strutturale complessiva. Non solo aumentando sensibilmente i posti letto disponibili ma ripensando l’intero sistema. Anche prevedendo strutture ad alta sicurezza per gestire i casi più complicati e socialmente pericolosi. E istituendo un albo di esperti psichiatrici per offrire consulenze capaci di evitare il ricorso improprio alle Rems. Infine, i magistrati chiedono il coinvolgimento del ministero della Giustizia nella gestione di queste strutture, in linea con quanto sollecitato dalla stessa corte Costituzionale con la sentenza 22/2022: un aspetto dirimente. Ai medici anche compiti di custodia - L’assegnazione delle competenze alla sanità pubblica ha infatti portato all’estromissione della polizia penitenziaria dalle strutture (la vigilanza è affidata a guardie giurate), caricando sulle spalle dei medici - denunciano gli psichiatri - anche compiti di custodia. Con l’aggravante che una sentenza della Corte di Cassazione, nel 2005, ha annoverato tra i disturbi mentali anche i comportamenti antisociali. “Il risultato è che spesso nelle Rems troviamo pregiudicati che dovrebbero stare in carcere mentre altri, infermi, sono in libertà vigilata, con risvolti sociali drammatici”, spiega Bondi. Come se non bastasse sull’intero sistema regna una grande confusione. “C’è persino una enorme discrepanza tra i dati che sono in possesso del ministero della Salute e quelli a disposizione del dicastero alla Giustizia”, dice Nicolò. È il magistrato, sulla base di una perizia psichiatrica, a disporre la misura del ricovero in una Rems. E siccome il posto non c’è, il pregiudicato può restare in attesa a lungo, in libertà vigilata. Con il risultato che il sistema non riesce a tutelare né le potenziali vittime di aggressioni né il diritto alla salute del malato che ha commesso reati, come è stato appunto sottolineato dagli stessi giudici della Consulta, secondo i quali il magistrato non può inoltre sottostare al tipo di organizzazione che si sono date le Regioni. Il documento del CSm ha di fatto recepito ciò che la Società italiana di psichiatria rivendica da tempo: il primo passo dovrebbe essere quello di ripristinare il controllo sulle Rems da parte del ministero della Giustizia. “Chiediamo anche - dice Bondi - una gradualità di percorsi per le persone con vizi di mente. Le strutture dovrebbero essere organizzate su più livelli correlati all’intensità e alla gravità del disturbo, con la possibilità di prevedere una forma di custodia per i soggetti che manifestano un alto grado di pericolosità sociale”. Il nodo mai sciolto della salute nelle carceri: “Ecco perché l’argomento riguarda tutti” di Antonio Ferrero La Stampa, 1 febbraio 2025 “È provato che laddove la detenzione è volta verso una rieducazione, la recidiva è minore quindi è anche un investimento. Non è soltanto un discorso di misura di civiltà generica o di sensibilità verso i detenuti, ma una garanzia per la società. Le carceri dovrebbero diventare il meno possibile palestra di crimine o criminogene. Invece, non curandosi di quanto succede in prigione, la società alimenta attraverso il carcere il circolo vizioso della delinquenza, perché aumenta la possibilità di reiterare i reati”. Il discorso del dottor Alberto Arnaudo, medico già direttore del Serd di Cuneo, sulla necessità di portare l’attenzione sulle condizioni di vita di chi in carcere soffre per motivi diversi, è molto pragmatico. “La privazione della libertà è sempre qualche cosa che fa male, non è un successo privare qualcuno della libertà. Questa è già una punizione: aggiungerci la trascuratezza delle più elementari misure logistiche, oltre che di assistenza sanitaria alle persone, è una crudeltà in più” spiega nel presentare le motivazioni all’origine del convegno che si terrà a Cuneo il 14 febbraio su “Salute in carcere: un diritto negato?” organizzato da C.o.N.O.S.C.I e dalle consigliere regionali Giulia Marro e Alice Ravinale. L’intenzione è quella di sensibilizzare la cittadinanza su un problema spesso trascurato, se non realmente rimosso, ossia la questione del benessere in carcere. Non si tratta di un tema “buonista” o irrilevante, precisa Arnaudo, perché “noi pensiamo ai detenuti, ma bisogna riflettere anche sul disagio di chi in carcere lavora. Le misure di scarsa civiltà, sovraffollamento o condizioni ambientali invivibili, si riverberano anche sul personale”. È dunque un discorso non solo di civiltà e giustizia (“Non dimentichiamo che il nostro ordinamento dice che la pena deve essere volta a rieducare, non soltanto a trattenere o punire” ricorda Arnaudo), ma di opportunità collettiva: un detenuto recuperato nella salute del corpo e della psiche è più probabilmente un futuro cittadino inserito nella società di quanto possa esserlo un tossicodipendente devastato dall’esperienza detentiva. Anche perché, come precisa con amara consapevolezza, “tutto questo parte da un discorso di benessere, per quanto parlare di benessere in carcere sia un ossimoro. Perché se uno è privato della libertà non può stare bene. Appunto per questo tutto il resto non dovrebbe essere aggiunto”. In quest’ottica il convegno del 14 proverà a chiarire alcuni aspetti della situazione attuale della gestione dell’infermità in carcere, di qualunque tipo si tratti. È un argomento di grande rilevanza, perché la maggior parte delle persone non è consapevole di quanto il trattamento della malattia in prigione sia cambiato negli ultimi anni: “Il Dpcm del 2008 ha trasferito le funzioni della sanità in carcere dal ministero della Giustizia a quello della Sanità sancendo il principio che l’assistenza sanitaria a chi è detenuto deve essere il più possibile equiparata a quella per chi è fuori - spiega ancora Arnaudo -. Questo significa che il personale sanitario che opera adesso in prigione è personale della Asl, ma lavora in una situazione in cui le strutture e le regole sono a capo del ministero della Giustizia. È come se a curare gli alpini alla caserma di San Rocco andasse il medico di base anziché quello militare, per capirci. Il principio è assolutamente giusto e condivisibile, però i problemi sono enormi da un punto di vista di attuazione gestionale delle attività perché le esigenze di sicurezza non sempre collimano con quelle di salute”. In particolare, durante il convegno Arnaudo si concentrerà sul problema su cui ha lavorato per più di 35 anni: “Il pomeriggio è dedicato soprattutto al discorso delle tossico-alcol dipendenze. L’assistenza ai tossicodipendenti detenuti è una delle prime attività cliniche che è stata demandata alle Asl, prima ancora del Dpcm del 2008. Quando è passato tutto in carico all’Asl, la gestione è diventata ovviamente più complicata e problematica. Non è la stessa cosa proporre terapie, anche efficaci, fuori dal carcere e farlo all’interno. Così come non è la stessa cosa il rapporto con i pazienti: è chiaro che il paziente che sta male da recluso ha un disagio psichico per il fatto che è in carcere. Se poi le condizioni generali sono particolarmente difficili, le fragilità che già c’erano prima della privazione della libertà, esasperate dalle nuove condizioni di vita e dalla malattia, portano spesso a cortocircuiti che purtroppo non raramente si concludono con i suicidi in carcere, che sono sempre più numerosi”. Insomma, se è vero, come diceva Voltaire, che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, in Italia abbiamo ancora parecchio da fare. Il convegno del 14 febbraio può aiutare a conoscere meglio la situazione reale. Venerdì 14 febbraio si terrà il convegno “Salute in carcere: un diritto negato?”. L’iniziativa è organizzata da “C.o.N.O.S.C.I.” (Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane) e dalle consigliere regionali regionali di Avs Giulia Marro e Alice Ravinale. È prevista la registrazione dell’evento con una pubblicazione successiva e l’elaborazione di un documento finale. La segreteria scientifica che cura l’evento è composta dai dottori Sandro Libianchi e Alberto Arnaudo: il primo, presidente del C.o.N.O.S.C.I., il secondo per molti anni direttore del Ser.D. di Cuneo. Il convegno inizierà alle 9,30 e, dopo la pausa dalle 13 alle 14, riprenderà fino alle 17,30 con l’alternarsi di più di quindici esperti del settore. Si terrà a Cuneo, alla sala polivalente Cdt di largo Barale 1, con prenotazione scrivendo una mail a conosci2000@hotmail.com. Non dovrei essere più un “Fine Pena Mai”, sono solo un ergastolano che aspetta di Filippo Rigano* L’Unità, 1 febbraio 2025 Sono un ergastolano “ostativo” che alberga ininterrottamente nelle patrie galere dal 1993 del secolo scorso. Eh sì, perché bisogna fare i conti anche con il tempo che macina gli anni della vita fino alla vecchiaia, e alla morte. Quando ho varcato le porte del carcere, di anni ne avevo 36, oggi ne ho 68. Sapevo a malapena leggere e scrivere, come titolo di studio avevo soltanto la seconda elementare. Il 23 ottobre 2019, nel teatro del carcere di Rebibbia, sono riuscito a laurearmi in giurisprudenza con lode dell’Università di Tor Vergata. Ho dimostrato progressi nello studio, nel lavoro, nel senso critico del passato per cui sto scontando la mia pena. Nonostante ciò non riesco a respirare neanche un’ora di libertà. Per la legge non dovrei essere più un “ergastolano ostativo”, un “fine pena mai”. Come tanti altri, sono un ergastolano che aspetta. Nel carcere di Rebibbia, nella sezione di alta sicurezza, il magistrato e il tribunale di sorveglianza non concedono benefici penitenziari da anni. Nessun detenuto riesce a ottenere un permesso premio o la semilibertà. Io ho presentato istanza di permesso nel lontano giugno 2020, dopo 31 anni di detenzione. Il magistrato ha deciso e notificato il rigetto il 7 luglio 2024, dopo quattro anni e due mesi dalla richiesta e tanti solleciti. La direzione distrettuale antimafia (DDA) aveva espresso parere contrario con le solite frasi. La cosca è ancora attiva. Si può dedurre che sia ancora legato. Essendo libero potrebbe riorganizzare. Non si esclude il pericolo di ripristino dei collegamenti… Un parere negativo privo di ogni profilo di attualità e senza tener conto del percorso rieducativo intrapreso nei lunghissimi anni di carcerazione. I giudici si accodano e rigettano. La stessa decisione ha preso il tribunale di sorveglianza di Roma. Addirittura criticando pure l’area educativa che aveva stilato una “relazione di sintesi” positiva. Oltretutto, con questo orientamento: se la persona detenuta non viene declassificata dal circuito di alta sicurezza a quello di media sicurezza, non gli spetta niente, deve solo aspettare. E siccome non declassificano mai nessuno, tu non esci mai. Capisco la portata del fenomeno mediatico nel caso in cui un ergastolano, dopo aver scontato quarant’anni di carcere, esce grazie a un beneficio premiale. I mezzi di informazione amplificano alcune voci presenti nella società e scatenano un putiferio per la decisione del giudice di turno, e danno vita a una campagna di disinformazione con la quale alimentano paura e in sicurezza tra la gente. Allora, i giudici di sorveglianza non concedono nulla e, probabilmente, lo fanno per non creare precedenti, ma facendo così creano un danno all’individuo e al diritto. Così, l’articolo 27, comma tre, della Costituzione va a farsi benedire. Io ho rivisitato completamente il mio vissuto. Ho fatto tutto per dimostrarlo, ho trovato il coraggio di prendere le distanze da quel passato buio, dalle vecchie logiche e da qualsiasi forma di criminalità. La logica imporrebbe la necessità di valutare la persona per quello che è oggi e non per quello che è stato ai tempi delle sue azioni. La persona nuova che è divenuta, è conosciuta dall’equipe trattamentale dell’Istituto, non dalla DDA che conosce semmai quella di trent’anni addietro, e pensa sia sempre la stessa. Se i magistrati e i tribunali di sorveglianza non concedono benefici a detenuti con sintesi trattamentali positive fatte da tutti gli operatori carcerari, si registra un vero fallimento del reinserimento nella vita sociale del detenuto, ma soprattutto un fallimento costituzionale, quello della funzione rieducativa della pena. Questo succede perché non si crede fino in fondo alla rieducazione del condannato. Bisogna credere invece alla rieducazione e avere mo lto più coraggio nel dare fiducia e credito all’individuo che abbia dimostrato nella pena un radicale cambiamento nel senso del rispetto delle regole della Comunità, mettendolo alla prova. La nostra Costituzione è improntata al principio di umanità e reinserimento sociale del detenuto. Che senso di umanità dimostra uno Stato che ha in mente forme punitive eterne. L’eterno non è umano, e una pena eterna non può essere che disumana. L’assoluto insito nel concetto di perpetuità ci allontana da ciò che intendiamo con la parola democrazia. La rieducazione non è un termine vuoto, privo di senso, ma il contenuto di una vita intera della persona detenuta che nella pena recupera sé stessa, specialmente quando ha capito gli errori del passato e dal male si è catapultata nel bene. Ho trascorso 31 anni di vita in carcere per il peso gravoso dei miei reati e delle condanne riportate, ma nessuno, in nessun tempo, può arrogarsi il diritto di negare per sempre la libertà al suo prossimo. *Detenuto nel carcere di Rebibbia Meno leggi e più chiare di Francesco Mandoi L’Espresso, 1 febbraio 2025 La separazione delle carriere nasconde un’iperproduzione di norme, spesso contraddittorie. Mentre rimangono i vuoti d’organico in tutti i settori del sistema giustizia. La cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario si è svolta in un momento in cui è molto alta l’attenzione della pubblica opinione sullo scontro tra magistratura e politica, determinato dalle scelte legislative in materia di ordinamento giudiziario, prima fra tutte quella della separazione delle carriere fra magistratura giudicante e requirente. Nelle relazioni in Cassazione e nelle Corti d’appello si possono rinvenire informazioni utili sullo stato della giustizia nel nostro Paese e sulla congruità delle risposte legislative in cantiere. Sulla capacità del sistema di rispondere alle richieste di giustizia in tempi ragionevoli, con decisioni coerenti al principio della certezza del diritto, garantendo l’accesso alla giustizia per tutti i cittadini in condizioni di parità. In Cassazione si dà atto della consistente diminuzione delle pendenze sia in ambito civile che penale, addirittura anticipando i tempi previsti nel Pnrr, e della significativa diminuzione della durata dei processi. Ma si denuncia che in entrambi i settori sono in controtendenza la giustizia minorile e quella dei giudici di pace, che vedono aumenti di pendenze e di durata dei procedimenti. Il dato viene spiegato “con la grave scopertura degli organici” e con l’ampliamento della competenza del giudice di pace sia in ambito civile che per effetto delle riforme legislative in materia penale. Tuttavia la durata media di un processo (sia civile che penale) è ancora troppo alta e la diminuzione delle pendenze avviene a macchia di leopardo in tutto il territorio nazionale ed è rallentata dalle gravi carenze organizzative e di personale amministrativo e ausiliario e della magistratura onoraria, cui la legislazione attuale affida un ruolo decisivo per la celerità dei procedimenti. Le carenze d’organico della magistratura, intorno al 20 per cento, non hanno impedito il conseguimento di risultati soddisfacenti, anche a dispetto del flop dei programmi di informatizzazione denunciato in tutte le Corti d’appello. Ciò è avvenuto per effetto di uno “sforzo inedito” della magistratura, nonostante le criticità e gli effetti della legislazione sia in ambito civile che penale susseguitasi nel tempo. Si tratta di quella “produzione legislativa particolarmente intensa e spesso a cadenze ravvicinate sullo stesso ambito di materia che non ha eguali nel panorama europeo”, dalla quale deriva il rischio di “provocare disorientamento nella collettività, di inviare messaggi confliggenti a seconda del contingente momento politico, di perdere la sua capacità di ordinare in modo efficace e razionale una certa comunità di persone”. Il numero elevato di leggi, adottate sotto la pressione della pubblica opinione, e il loro mancato coordinamento con le altre leggi vigenti ha reso il quadro normativo poco chiaro, rendendo difficoltosa l’attività dei magistrati costretti a scegliere tra il non decidere e il trovare parametri costituzionali per rispondere ai casi concreti derivanti dalle nuove richieste di una società dinamica. Con “l’autorità giudiziaria costretta a fungere da impropria sede per l’elaborazione di principi etici su cui fondare la convivenza civile” o “a riempire di contenuto” leggi infarcite di clausole generali, spesso frutto di delicati compromessi politici. Queste significative e oggettive caratteristiche delle regole che la magistratura deve applicare ai casi concreti sono difficili da spiegare alla pubblica opinione, il cui sguardo si sofferma sull’esito dei casi più dibattuti e controversi (pensiamo alla vicenda della identificazione dei “Paesi sicuri” per i migranti) senza avere gli strumenti per comprendere fino in fondo le ragioni delle decisioni, sulle quali quasi mai si sofferma l’attenzione dei media. La descrizione della magistratura che viene fatta nelle relazioni non è, quindi, un immotivato encomio autoassolutorio, ma la costatazione delle difficoltà che si incontrano nell’impegno dei singoli magistrati dettato dalla consapevolezza che “la testimonianza offerta nella trattazione del singolo caso sarà assunta dalla persona interessata come paradigma del funzionamento dell’intera struttura giudiziaria e che, quindi, sempre alto e costante deve essere il rigore etico professionale”. Questo quadro del sistema giustizia mostra chiaramente che “il re è nudo”, nel senso che le riforme ordinamentali non sono la risposta all’esigenza di giustizia che promana dai cittadini: occorre piuttosto un impegno forte della politica per rendere agevole e affidabile il lavoro della magistratura. Leggi chiare, comprensibili, applicabili senza necessità di ricorrere a interpretazioni sistematiche o analogiche; strumenti idonei, appropriati e, soprattutto, dal funzionamento verificato; ripianamento dei vuoti di organico: sono questi gli unici percorsi efficaci per restituire ai cittadini fiducia nella giustizia. Le modalità di elezione dei membri del Csm e la separazione delle carriere tra pm e giudici sono argomenti, a mio avviso, fuorvianti e suggestivi, idonei solo a far credere alla pubblica opinione che la responsabilità della mancanza di risposte alle crescenti esigenze di giustizia siano da attribuire a ragioni proprie dell’istituzione magistratura, e non anche alle scelte e all’opera di coloro che, rappresentando il potere legislativo, hanno il dovere di mettere la magistratura in condizioni di rendere al meglio il suo servizio. Lo spartiacque sulla giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 1 febbraio 2025 Le strade sono due. La prima è accelerare sulla via della riforma Nordio. Nella seconda lo sbocco potrebbe essere sciogliere il conflitto sul terreno elettorale. È stato un gesto di correttezza istituzionale, ma anche d’intelligenza politica la visita al Quirinale di Giorgia Meloni nel pieno del conflitto con la magistratura sul caso Almasri. Ciò non significa, è ovvio, che l’attacco sferrato ai giudici con toni senza dubbio inusuali abbia ottenuto una sorta di approvazione dal capo dello Stato, che rappresenta anche il vertice del Csm. Sarebbe persino strano immaginarlo: Mattarella si è sempre sforzato, come è logico, di non esasperare i contrasti, soprattutto quando appaiono più che insidiosi, come l’attuale. Significa tuttavia che la presidente del Consiglio è stata attenta a non rompere gli argini. Si è assunta la responsabilità politica delle sue azioni e delle sue parole, dopo aver messo al corrente Mattarella delle zone d’ombra in cui galleggia la vicenda e degli errori nei quali, a suo avviso, è incorso il procuratore Lo Voi. Dopodiché è evidente che a palazzo Chigi si considera il caso una sorta di spartiacque politico. Non un incidente da chiudere al più presto e nemmeno da lasciar sfiorire lentamente nel Tribunale dei ministri. In un certo senso, e per quanto sia rischiosa questa linea, l’idea è quella di ridefinire il rapporto tra il governo e quella parte della magistratura - e forse anche degli apparati - che agiscono come fossero soggetti politici. Che sia vero o no, questo è il messaggio brutalmente inviato all’opinione pubblica. Così almeno va interpretata la frase chiave pronunciata dalla premier. Non “la nazione sono io”: affermazione ruvida e certo esagerata che vuole alludere alle elezioni vinte nel ‘22 e al ruolo che ne è derivato. No, la frase chiave è un’altra: “Se i giudici vogliono governare, allora si candidino”. Significa appunto attribuire ai magistrati (un settore di loro, si suppone) la volontà di prevaricare il potere politico attribuendo a se stessi funzioni e compiti che vanno ben oltre la lettera della Costituzione. Ma a sua volta questa frase di Giorgia Meloni è rivelatrice: se l’attacco subito è più politico che giudiziario, anche la risposta è tutta politica. E dunque le strade sono soprattutto due. La prima è accelerare sulla via della riforma costituzionale Nordio, il cui punto cruciale - ormai è noto - risiede nella separazione delle carriere. Se consiste in questo la replica ai magistrati politicizzati, o supposti tali nell’ottica di palazzo Chigi, dobbiamo attenderci mesi di conflitti ancora più esasperati. Il caso del libico torturatore, rimandato in Libia sulla base di una ragion di Stato che molti non accettano come spiegazione, potrebbe essere solo l’inizio di quel che verrà; potrebbe essere la pistola di Sarajevo anticipatrice di uno scontro assai più ampio. Da quel che vediamo, la premier lo mette in conto e non ha intenzione di ritrarsi. Ma c’è poi la seconda via. Se i magistrati (una parte di loro) sono accusati di far politica “senza volersi candidare”, lo sbocco potrebbe essere proprio questo: sciogliere il conflitto sul terreno elettorale. Il chiarimento con giudici e procuratori avverrebbe nelle urne. Da una parte il centrodestra, che su questo terreno è senz’altro unito. Dall’altra non direttamente i magistrati, è logico, bensì lo schieramento che li sostiene. Ossia il centrosinistra nelle sue varie anime, di sicuro non altrettanto unite nella difesa della magistratura di quanto sia la destra nel contrapporvisi. Nei fatti la riforma Nordio, unita alla minaccia di elezioni anticipate, potrebbe creare una pressione davvero potente nei confronti dell’opposizione. Ciò nel momento in cui, a quanto pare, la polemica su Almasri ha provocato un aumento - forse solo temporaneo - della popolarità della presidente del Consiglio. Sappiamo che le Camere le dissolve il capo dello Stato. Ma è anche vero che senza Fratelli d’Italia non c’è governo possibile nella legislatura. Giustizia, migranti e altri scontri di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 1 febbraio 2025 Giustizia come tema dominante, terreno di scontro, chimera eterna fatta di pezzi diversi come il mostro della mitologia greca: verità ideali e parziali, strumentalizzazioni presunte o effettive. Dopo la breve stagione in cui tutte le curve tifavano per lei, da più di 30 anni la magistratura è l’istituzione più divisiva, ciclicamente accusata di interferenze indebite (a volte anche da sinistra) e perfino di eversione (più spesso da destra). Ora sembra prossimo il cortocircuito. Tra le ambiziose e controverse riforme imbastite dal governo Meloni, quella della giustizia appare la meno condannata all’inconcludenza, anche se superare tutti gli ostacoli (l’opposizione dell’Associazione magistrati e di una parte del Paese che si presume non trascurabile) non sarà semplice. In questo conflitto perenne, ogni spunto è una battaglia. Districarsi tra fatti oggettivi e propaganda non è semplice, anche perché gli eventi non danno tregua. Siamo ancora nel pieno del caso Almasri - il generale libico accusato di crimini contro l’umanità e ricondotto in patria, la successiva iscrizione dei vertici del governo nel registro degli indagati per “favoreggiamento” e “peculato” decisa dal procuratore capo di Roma Lo Voi, la veemente reazione della presidente del Consiglio - ed ecco che riesplode quello dei migranti trattenuti nei centri costruiti dall’Italia in Albania: ieri la Corte d’Appello di Roma non ha convalidato il fermo di 43 persone, rimandando ancora una volta all’atteso pronunciamento della Corte di Giustizia europea sulla validità delle norme varate dal governo italiano in materia di rimpatri. Il governo lo vede come l’ennesimo ostacolo indebito all’attuazione delle sue politiche, l’opposizione come la prova definitiva del fallimento del piano-Albania. Ha detto Fiorenza Sarzanini a Otto e mezzo su La7: “Anche questo scontro era abbastanza prevedibile. La scelta del governo di spostare la competenza alle Corti d’Appello era evidentemente inutile, un ulteriore tassello di questa sfida. Abbassare i toni? I toni non si potranno abbassare mai se la politica non smetterà di usare la giustizia come una clava, o come forma di rivalsa verso l’avversario o come forma di incitamento. Perché è chiaro che Meloni in questo momento sta sfruttando l’onda contro i magistrati, che in Italia vengono vissuti come quelli che vogliono condizionare la vita delle persone. Meloni sta guadagnando consenso, non a caso oggi ha postato che lei va avanti perché ha il consenso dei cittadini. La giustizia però è una cosa seria, è un’altra cosa, sfruttarla in questo modo è un danno per tutti”. “Su Almasri bastava mettere il segreto di Stato ma la premier non l’ha fatto. Perché anche il caso Almasri è stato in qualche modo usato nella propaganda contro la Corte penale internazionale. Qui non c’era un ostaggio da scambiare - perché è chiaro che noi dovevamo riportare a casa Cecilia Sala, e bene ha fatto il governo a trattare con l’Iran, a liberare Abedini e a ridarglielo. Noi siamo ricattati dalla Libia perché se non davamo Almasri ci mandavano 100 mila migranti in più? Poniamo il segreto di Stato e glielo riportiamo. Metterlo su un aereo di Stato, con lui che arriva in favor di telecamera e viene rilasciato in trionfo, mi sembra troppo. Ma non credo che sia incapacità. Perché questo governo quando deve fare le cose bene le fa, come appunto nel caso Sala. Qui c’era da andare contro la Cpi, perché la Cpi non ha fatto arrestare Almasri - come secondo me poteva - in Germania, e ha aspettato che arrivasse in Italia. C’era insomma un’altra contrapposizione che si voleva evidenziare. Una settimana prima il ministro degli Esteri Tajani aveva detto che se Netanyahu venisse in Italia noi non lo arresteremmo, anzi gli daremmo l’immunità. È chiaramente una sfida alla Cpi. Ma noi della Cpi siamo fondatori. Allora usciamone”. Scrive da parte sua Massimo Franco: “Il rumore di fondo non si placa. E ognuno tiene il punto, tra governo e magistratura. E in ritardo si fanno sentire anche le opposizioni, additando “il vittimismo” di Giorgia Meloni; e chiedendole di andare in Parlamento a spiegare il pasticcio del generale libico riportato nel suo Paese nonostante un mandato di cattura della Corte penale internazionale. Ma c’è molto di non detto, da parte di tutti. Forse perché non sempre è possibile guardare dentro l’intera area grigia che ammanta il principio di sicurezza nazionale, e operazioni coperte pure nel passato e con altri governi. L’impressione è che la vicenda di Osama Almasri sia diventata un caso solo per la sua gestione approssimativa e confusa (...). L’imbarazzo è palpabile, nonostante tanti aspetti ancora poco chiari. Ma alla fine rischiano di farsi male tutti, e di far male all’Italia. I sondaggi, al momento, tendono a premiare Giorgia Meloni”. Proviamo quindi ad azzardare un paio di punti sui cui i lettori del Corriere possano accordarsi idealmente, a prescindere dai loro orientamenti: 1) Il governo ha fatto bene a rimpatriare Almasri, come aveva fatto bene a rimpatriare Abedini: lì si trattava di salvare un’italiana, qui di evitare che altri italiani in Libia diventassero a loro volta ostaggi, se non vittime di esecuzioni, e anche di scongiurare altre rappresaglie nella forma di nuove ondate di migranti organizzate ad arte. Perché bisogna ricordare senza ipocrisie - come ha fatto in questi giorni Goffredo Buccini qui e qui - che queste regole d’ingaggio con la Libia (tu mi trattieni i migranti, io ti pago e non guardo come lo fai) le ha stabilite nel 2017 un governo guidato dal Pd con un memorandum rinnovato nel 2020 dal governo Conte 2 e nel 2023 dal governo Meloni, che ha ereditato e condiviso l’impianto, replicandolo di fatto con l’Algeria. Tutte cose che le opposizioni sanno bene ma fingono di non sapere. 2) Il governo ha fatto male a non apporre il segreto di Stato sull’affare Almasri, cosa che avrebbe scongiurato qualsiasi inchiesta; a non assumersi in questo modo la responsabilità politica della scelta, perché di decisione politica si è trattato, come Giovanni Bianconi ha spiegato fin dall’inizio della vicenda; a non chiamare l’opposizione più responsabile a condividere il senso vero (e le radici profonde) di questa scelta, come nel caso di Cecilia Sala; ad approfittare dell’inchiesta avviata dal procuratore Lo Voi per cambiare discorso e scatenare una nuova polemica contro il presunto complotto dei magistrati di sinistra per rovesciare Meloni, con ciò fingendo che Lo Voi sia di sinistra quando ha tutt’altra storia, e poi usando contro di lui la macchina del fango attraverso il Tg1, insinuando che quella di Lo Voi sia una vendetta personale contro il sottosegretario Mantovano che gli ha tolto i voli di Stato, e così contraddicendo peraltro tutto l’impianto polemico (se è vendetta personale di un magistrato per niente “comunista”, non c’entra niente il presunto complotto “comunista”). Non fateci scegliere tra la giustizia politicizzata e la giustizia sottomessa alla politica di Marco Taradash linkiesta.it, 1 febbraio 2025 Per combattere lo storico protagonismo dei pm, il governo Meloni vuole piegare la magistratura all’esecutivo, come già avviene in molti regimi illiberali. Ma la democrazia si basa su contrappesi, non su giudici complici o pubblici ministeri persecutori. Vorrei che il Governo non mettesse ancora a dura prova la mia convinzione, stavo per scrivere fede, nella separazione delle carriere. Io voglio un giudice che possa giudicare, ascoltate accusa e difesa, senza il retropensiero che un giorno quel pubblico ministero cui dà torto si trovi a decidere della sua carriera nel Consiglio superiore della magistratura che li unisce, e senza che legami di altro genere possano influenzare le sue scelte. Voglio un pm che si batta per la sua convinzione di colpevolezza dell’imputato senza disporre di strumenti diversi dall’avvocato che gli si contrappone. Cose semplici che normalmente tutte le democrazie offrono in termini di garanzie ai cittadini. Però queste scorribande di Giorgia Meloni e dei suoi sostenitori, vecchi e ahimè nuovi, nelle terre fumose delle cospirazioni giudiziarie e geopolitiche alle volte mi creano dubbi. Vogliono davvero Meloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani una magistratura sottomessa e condiscendente come cercano di ottenere gli amici della nostra presidente del Consiglio, come Viktor Orbán e i suoi camerateschi alleati? La mia risposta è semplice: sì lo vogliono. Questo fa vacillare la mia fede? No, perché questa maggioranza politica agisce con la stessa mentalità delle toghe politicamente organizzate che negli ultimi trent’anni hanno cercato, spesso riuscendoci, di determinare le scelte politiche sottomettendole alla loro furia etica. Quindi calma e gesso. Combatteremo per la separazione delle carriere contro le prevaricazioni del potere giudiziario contro lo stato di diritto. Con la stessa determinazione ci opporremo a chi pretende la sottomissione della giustizia al potere esecutivo nel nome del primato della politica esercitato sullo Stato di diritto. Un primato che giunge fino a negare che vi fossero elementi di valutazione rilevanti dopo la liberazione e riconsegna al proprio paese, e alla propria terrificante mansione, di un crudele ufficiale omicida. Non basta a questo governo, e ai giuristi che ne avallano i comportamenti, che il giudizio finale sulla scelta compiuta, che ha motivazioni su cui concordo (la ragion di Stato, ovvero la tutela degli interessi delle aziende italiane e della vita di chi vi lavora) e altre da cui ogni persona civile dovrebbe dissociarsi (il buon funzionamento dei lager libici “a tutela dei nostri confini”), non basta dunque che il giudizio ultimo sull’avvio di un procedimento contro il governo spetti al Parlamento, cioè alla maggioranza, cioè alla Politica? Se non vi basta osservatevi per un attimo nello specchio delle toghe giustizialiste: quelle sguardo, quelle rughe, quel ghigno sono i vostri. Il Csm diventa campo di battaglia nella lotta tra governo e toghe di Simona Musco Il Dubbio, 1 febbraio 2025 Con la pratica contro Lo Voi, Palazzo Bachelet solleva un nuovo fronte contro la magistratura. La richiesta finirà nel nulla, ma il messaggio politico è chiaro. Quello di Francesco Lo Voi, il procuratore di Roma che ha iscritto sul registro degli indagati la presidente Giorgia Meloni e i suoi uomini per il caso Almasri, è stato più un assist al governo che un colpo messo a segno dalla magistratura nella battaglia contro la separazione delle carriere. Perché ha consentito ai vertici di Palazzo Chigi di non rispondere in aula delle proprie scelte, dopo aver negato a lungo la ragione di Stato che oggi si troverebbe a dover rivendicare. Con la conseguenza di dover ammettere la confusione di quelle ore, quando la minaccia di una “invasione” di migranti dalla Libia come ritorsione per la detenzione del generale-torturatore ha spinto il governo a optare per il suo rilascio. Creata la condizione per poter invocare il segreto investigativo e disertare il Parlamento, dunque, la partita si svolge tutta sui social - dove Meloni ha rivelato di essere indagata - e sui giornali. E nel mirino finisce principalmente Lo Voi, attaccato per aver sindacato su una scelta “politica”, per aver chiesto un volo di Stato per tornare nella sua Sicilia e per aver svelato un’inchiesta sui Servizi segreti, con un documento inserito in un fascicolo relativo ad un’indagine su alcuni giornalisti di Domani. Così il moderato procuratore di Roma è diventato il nemico pubblico numero uno. O meglio, il pretesto per sparare ancora a pallettoni sulla magistratura. Ciò nonostante un dato, banale: la denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti si basa su articoli di giornale, sul decreto della Corte d’appello di Roma e sulla richiesta del procuratore generale. Tutti fatti che Lo Voi conosceva benissimo senza bisogno di attingere ad alcuna denuncia e che consentivano un’iscrizione d’ufficio. Ma non c’è stata, fino all’esposto di Li Gotti, che, dunque, potrebbe aver messo il procuratore con le spalle al muro, ipotizza qualcuno. Il risultato è stato quello di trascinare la magistratura sul ring. E così, il procuratore - certamente non un simpatizzante dei partiti di sinistra - è finito nel mirino pure dei laici di centrodestra del Csm, che con una richiesta di pratica “contro” Lo Voi provano a centrare un duplice risultato: ottenerne il trasferimento e sollecitare un procedimento disciplinare a suo carico. Insomma, punirlo, in un modo o nell’altro. Il sottotesto è chiaro: la magistratura sta facendo di tutto per fermare il governo, intenzionato a mettere mano alle carriere separando i pm dai giudici. E l’indagine sarebbe solo un pezzo di questo tentativo di sabotaggio avviato con la protesta nelle aule di giustizia durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando i magistrati hanno abbandonato le cerimonie, Costituzione in mano, durante le relazioni dei rappresentanti del governo. “Noi non remiamo né a favore, né contro il governo si è smarcata a Tagadà Alessandra Maddalena (in foto), vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati -. Non è questo che ci viene chiesto dalla Costituzione. Semplicemente applichiamo la legge nei limiti in cui la Costituzione ci impone di farlo”, ha aggiunto, stigmatizzando le “aggressioni” che “sono segno dell’insofferenza verso il controllo di legalità della magistratura”. La battaglia, però, c’è tutta. Al Csm, il giorno dopo la presentazione della prima pratica contro Lo Voi, tutto tace. O almeno così si fa credere. L’unico commento che è possibile strappare, dunque, è tutto relativo alla procedura: “L’articolo 2 e la procedura di trasferimento non servono e non devono servire per contestare singoli provvedimenti giurisdizionali - si limita a commentare il togato di Unicost Marco Bisogni -. Questo è quanto ho sottolineato anche in casi analoghi”. La richiesta dei laici, come detto, invoca anche possibili provvedimenti disciplinari. Ma gli unici a poter avviare un’azione di questo tipo sono la Procura generale della Cassazione e il ministro della Giustizia, che difficilmente, in questo caso, potrebbe muoversi senza essere accusato di voler punire chi lo ha messo sotto inchiesta. Quindi si attendono le mosse del Comitato di Presidenza, che dovrà decidere nel silenzio - almeno ufficiale - del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è anche il numero uno di Palazzo Bachelet. Di comunicazioni ufficiali tra il Capo dello Stato e il vicepresidente Fabio Pinelli non si ha notizia. Certo è, però, che nei giorni scorsi i due si sono incrociati più volte e non è escluso che Mattarella abbia espresso la sua opinione in merito alla vicenda. Anche perché prima di rivelare via social di essere indagata Giorgia Meloni ha fatto un salto al Quirinale, per evitare che il Presidente della Repubblica scoprisse il tutto dai giornali. Tra i corridoi di Palazzo Bachelet, insomma, non si muove una foglia. Le discussioni si svolgono in privato, via chat. E il mantra delle toghe è di evitare l’innalzamento dei toni. “Non serve - sussurra un magistrato -. Non è nostro interesse alzare il livello dello scontro, quello che ci serve è spiegare perché la riforma è pericolosa”. La pratica richiesta dal centrodestra - questa l’unica certezza - finirà nel nulla, come le precedenti dello stesso tenore. Anche perché, a dirla tutta, le pratiche hanno una funzione esclusivamente “politica”: comunicare all’esterno un pensiero, di fatto confermando la battaglia tra politica e magistratura. E il messaggio è già stato inviato. L’unico a sbottonarsi, come sempre, è l’indipendente Andrea Mirenda: “I laici di centrodestra, tutti raffinati giuristi, sanno perfettamente come sia assolutamente inammissibile invocare l’incompatibilità ambientale del magistrato per l’attività di interpretazione della legge”. L’altro piano del dibattito interno è tutto tecnico: davvero poteva essere ipotizzato il favoreggiamento? O era più credibile l’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio, dato il silenzio di Nordio rispetto alle richieste della Corte d’Appello per sanare la procedura di consegna di Almasri alla Cpi? Domande che, probabilmente, non avranno ragione di ottenere risposta. “Ma quale atto dovuto, i pm non sono passacarte”. Parla Sabino Cassese di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 febbraio 2025 “I procuratori non sono postini. Se lo fossero, qualunque denunciante un ministro che voli a cavallo di un asino dovrebbe avere diritto alla trasmissione al Tribunale dei ministri”, dice il giudice emerito della Consulta. “Ma dal governo scarsa chiarezza nell’evocare la ragion di stato”. Ma quale “atto dovuto”. Anche Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, al Foglio esprime perplessità sulla decisione del procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, di mettere sotto indagine la premier Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano per il caso Almasri, sulla base di un esposto composto da 15 righe e un rimando ad articoli di stampa. Cassese ricorda innanzitutto l’articolo 6 della tanto richiamata legge costituzionale n. 1 del 1989, secondo cui il procuratore della Repubblica, una volta ricevuta una denuncia che riguarda presunti reati compiuti da membri del governo, “omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni”, trasmette gli atti al Tribunale dei ministri. “Omessa ogni indagine non vuol dire alla cieca. Non vuol dire che il procuratore della Repubblica è un mero passacarte. Se lo fosse, qualunque denunciante un ministro che voli a cavallo di un asino dovrebbe avere diritto alla trasmissione al Tribunale dei ministri”, afferma Cassese. Ritiene che le ipotesi di reato di peculato e di favoreggiamento abbiano fondamento? “Rileggiamo l’articolo 378 del codice penale: ‘Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni’. C’è stato aiuto a eludere o a sottrarsi, oppure qualcosa di più, visto che è stato usato un aereo di stato? E questo solo particolare non avrebbe dovuto attrarre l’attenzione della procura, se a essa noto?”, si chiede Cassese. Come ormai evidente, dietro la scelta di far rimpatriare Almasri c’è stata una decisione di carattere politico, e dunque di far prevalere una ragion di stato (sia essa legata ai flussi migratori, al rischio di ritorsioni nei confronti di italiani in Libia o altro). In un paese come il nostro, in cui l’espressione “ragion di Stato” appare una bestemmia, è possibile immaginare che il governo dica esplicitamente ai cittadini di aver liberato un criminale libico, spiegandone le ragioni, senza che scoppi un putiferio? “Le ricostruzioni delle dichiarazioni fatte in sede governativa mostrano che vi è stato scarso coordinamento. Vi è stata scarsa chiarezza nell’andare al nocciolo del problema, cioè nell’evocare la ragion di stato. Ragion di stato vuol dire che c’è un interesse collettivo preminente che spiega singole azioni e che talora non può essere reso pubblico integralmente. Ma questo richiede che venga affermato dal governo in modo diretto e, se possibile, dichiarando i motivi che non possono neanche essi essere oggetto di una illustrazione”, replica Cassese. Che immagine del paese emerge da questa vicenda, soprattutto nei rapporti tra le sue varie istituzioni (governo, magistratura, apparati di sicurezza, forze dell’ordine)? “Vi sono numerosi motivi di preoccupazione, che riguardano il funzionamento delle nostre istituzioni. Primo: vengono accusati di così gravi reati non solo il presidente del Consiglio dei ministri, ma anche tre componenti del governo che provengono dai grandi corpi dello stato, che hanno un curriculum professionale di prim’ordine e svolgono un ruolo fondamentale nell’apparato statale. Questo non è un aspetto che avrebbe dovuto interessare la procura, non per fare trattamenti diseguali, ma per soppesare attentamente quella ‘trasmissione’, anche per evitare di autoattribuirsi il ruolo di meri postini? Le procure italiane agiscono sempre a occhi chiusi?”, si interroga Cassese. “Secondo: l’organismo dello stato ha regole che non sono diverse dagli altri organismi viventi e non tollera contrasti di questo genere e di questa portata. Per cui quei collegi e quegli organi monocratici che svolgono funzioni di garanzia del suo funzionamento dovrebbero intervenire. Terzo: episodi di questo tipo, da un lato, finiscono per contribuire al giudizio negativo sul funzionamento complessivo dello stato; dall’altro, hanno un secondo effetto negativo, che consiste nel distogliere l’attenzione della collettività, dei politici, degli apparati dai problemi fondamentali del paese, conseguenza tanto più grave in un momento storico nel quale i partiti, divenuti gusci vuoti, non riescono a svolgere una funzione di orientamento, guida, educazione”, conclude Cassese. Quel preciso confine tra giustizia e politica di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 1 febbraio 2025 “Il procuratore Francesco Lo Voi, lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona nella vicenda Open Arms, mi ha appena inviato un avviso di garanzia in relazione al rimpatrio del cittadino libico Almasri”: presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Proditorio attacco al governo attuato da quella magistratura che non tollera che ci sia una riforma della giustizia”: ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani. Complotto della magistratura, che a questo punto vedrebbe complici procuratore e giudici della Corte penale internazionale de L’Aja, fino ai magistrati italiani aderenti alla Associazione nazionale magistrati e infine al procuratore della Repubblica di Roma. Da più parti si ripropone la frusta denuncia della “giustizia a orologeria”. Imbarazzato il senatore Gasparri perché avendo già nei giorni scorsi denunciato la “eversione della magistratura” si è trovato a corto di ulteriori invettive. Tutto ha origine dal messaggio sui social, che oggi vuol dire mondovisione, urbi et orbi, si diceva una volta in altro contesto, della presidente Meloni. A parte l’inelegante riferimento personale al procuratore Lo Voi, che avrebbe percorso lo stivale da Palermo a Roma al solo scopo di trovarsi pronto per mettere in difficoltà esponenti della destra di governo, il nucleo del messaggio è nel riferimento ad “avviso di garanzia”. Non è sottigliezza di giuridichese, nel linguaggio comune informazione, avviso, comunicazione possono apparire intercambiali, ma “garanzia” no, vuol dire qualcosa di preciso: la procura ti avvisa, a tua “garanzia” che sta compiendo un atto di indagine nei tuoi confronti. Non è affatto così. I malevoli vi vedono una precisa strategia comunicativa, i benevoli un eccesso di ossequio alla efficacia comunicativa da parte degli esperti. Ma il messaggio che è stato lanciato fa intendere una scelta discrezionale del malevolo procuratore Lo Voi, mentre se vi è un atto dovuto (sfidando l’Accademia della Crusca azzarderei “dovutissimo”) è proprio questo. Per fortuna la diffusione sui siti di informazione del testo, anzi della fotto, dell’atto della procura di Roma ha fatto giustizia di questa disinformazione. Un esempio di come, a differenza di quanto si è voluto imporre per altri atti giudiziari, i riassunti possano tradire il senso e che l’unica garanzia di corretta informazione sia la pubblicazione del testo integrale. Di fronte a una denuncia, che non sia palesemente di un folle, la legge costituzionale n. 1 del 1989: prevede che: “Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7 (cosiddetto Tribunale dei ministri), dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati” (art 6. comma 2). Il termine è strettissimo proprio perché al procuratore è preclusa ogni indagine. Orologeria perché la comunicazione è stata inviata il 28 gennaio quando il 29 gennaio era previsto che il governo riferisse in Parlamento? Ma se la comunicazione fosse stata inviata il 30 egualmente orologeria perché si sarebbe detto che il procuratore aveva teso un’imboscata al governo, inducendolo a riferire in Parlamento senza essere al corrente della attivazione della procedura. Ora i passi successivi. Il Tribunale dei ministri ha un termine brevissimo, novanta giorni, per compiere indagini preliminari con due possibili esiti: archiviazione con decreto non impugnabile o trasmissione alla Camera competente. L’autorizzazione a procedere può essere negata se la Camera reputa, “con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Un preciso confine tra giustizia e politica posto dal saggio legislatore del 1989, ma il presupposto è l’assunzione di responsabilità politica per le scelte di governo. Ciò che finora non è avvenuto: contrariamente a quanto si tende a disinformare, la corte di Appello di Roma ha disposto la scarcerazione di Almansri perché il ministro della Giustizia, tempestivamente e ripetutamente sollecitato a confermare la richiesta di arresto, semplicemente non ha risposto. Avrebbe potuto addurre “il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”, magari con sinteticissima motivazione, adducendo il segreto di Stato. Non lo ha fatto. Un problema aperto. Se oggi il governo assumesse, con atto formale, quella responsabilità politica che il ministro Nordio aveva eluso, il Tribunale dei ministri potrebbe trovarsi a dover valutare se ricorre la causa di giustificazione generale dell’”esercizio di un diritto o adempimento di un dovere” (art. 51 codice penale) e, se del caso, procedere all’archiviazione, non impugnabile, senza neanche trasmettere gli atti alla Camera. Rimarrebbe aperto il problema della compatibilità di un tale atteggiamento del governo italiano a fronte dell’”obbligo generale di cooperare” di cui all’art. 86 dello statuto della Corte penale internazionale che viene chiamato “Statuto di Roma” per essere appunto stato firmato a Roma nel 1998. Sarebbe proprio l’Italia a non adempiere gli obblighi assunti a Roma. Questioni complesse e delicate, ma il discrimine tra assunzione di responsabilità politica del Governo e procedure giudiziarie, internazionali e interne, è chiarissimo. Fare confusione, indurre scorretta informazione non giova alla fiducia di cui le istituzioni della politica e della giustizia devono godere in un ordinamento democratico. Violenza domestica, la criminologa che parla con i mariti detenuti di Mariangela Campo Corriere della Sera, 1 febbraio 2025 “Io imputato? Volevo solo fare un po’ d’ordine in casa mia”. La violenza domestica è un problema radicato, conseguenza di dinamiche culturali, psicologiche e sociali. Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, nel 2023 in Italia 31.500 donne hanno intrapreso un percorso di uscita dalla violenza, con il 52% degli abusi perpetrati dal partner. Preoccupa l’alta percentuale di minori vittime o testimoni di violenza (77,6%), così come i casi di violenza durante la gravidanza (14,6%). In Lombardia, le segnalazioni al numero antiviolenza 1522 sono aumentate, con un picco del 72% a Sondrio e incrementi significativi anche a Cremona, Lecco, Brescia, Bergamo e Como. A Milano, Isabella Merzagora, docente di Criminologia alla Statale, ha fondato il progetto S.A.Vi.D (Stop alla violenza domestica) per affrontare il problema alla radice: intervenire su chi ha già commesso atti di violenza per evitare che si ripetano. Un progetto innovativo, nato dall’esigenza di colmare un vuoto nel sistema di prevenzione. Per costruire un metodo efficace, Merzagora ha studiato da vicino la realtà carceraria, soprattutto in Lombardia. Ha parlato con uomini condannati per violenza domestica per capire come si sviluppa la mentalità abusante: quali idee hanno sulla violenza, quali giustificazioni si danno, se riconoscono i loro comportamenti come sbagliati. “Molti non considerano violenza gli insulti, le minacce, il controllo sulla partner. C’è chi crede che il matrimonio implichi diritti sul corpo della moglie”, spiega. Come nasce S.A.Vi.D? “Durante il mio lavoro in una commissione ministeriale sulla violenza di coppia, ho scoperto che in molti Paesi europei esistevano programmi specifici per chi aveva agito violenza, mentre in Italia no. Così ho deciso di avviare un progetto per colmare questa lacuna”. Ci sono dati sugli uomini che hanno agito violenza o che pensavano di farlo? “Il progetto ha seguito oltre cento uomini, inclusi quelli segnalati per stalking e inviati direttamente dalla Questura, spesso in seguito a provvedimenti del Codice Rosso. Che tipo di persone incontrate? Ci sono tre categorie principali: uomini inviati dal Tribunale, che devono seguire il percorso per ottenere misure alternative al carcere; chi arriva spontaneamente o su consiglio dell’avvocato, spesso con l’obiettivo di migliorare la propria posizione giudiziaria; soggetti segnalati dalla Questura, senza obbligo di partecipazione. Anche quando la motivazione iniziale è opportunistica, il nostro lavoro è serio e rigoroso: puntiamo a far comprendere la responsabilità e le conseguenze delle loro azioni”. Mi fa un esempio di come si svolge un colloquio con un marito abusante? “Così, il fatto che sua moglie e i bambini se ne siano andati, è stata una vera e propria sorpresa per lei...”. “Certo, naturalmente è stata una sorpresa. Mi hanno portato posto di polizia. Mi hanno accusato. Non ho mai sentito che sia successo prima. Quel che succede all’interno di casa tua non sono fatti loro!”. “Se sei stato accusato, questo sembra voler dire che hai infranto la legge. Qual è l’accusa?”. “Sono stato accusato di aver aggredito mia moglie. E questo non ha senso. Mio padre non è mai stato imputato per aver aggredito mia madre, eppure si picchiavano anche loro. I ragazzi con cui lavoro insegnano la disciplina alle loro mogli. Volevo solo fare un po’ d’ordine in casa mia”... Ci sono caratteristiche sociali, demografiche o culturali comuni agli uomini che si rivolgono al centro? “Li divido in quattro tipologie. Senz’altro ci sono i malati mentali, ma sono una minoranza, che necessita di cure psichiatriche. Rari anche i casi di uomini che commettono violenza in situazioni eccezionali e non ripetibili. Sono tanti invece i maltrattatori seriali, con anni di comportamenti abusivi alle spalle, e i soggetti con problemi di attaccamento patologico, che sfociano in comportamenti violenti”. Il Codice Rosso ha cambiato qualcosa? “Ha accelerato le segnalazioni e portato più uomini nei centri, ma il problema resta culturale. C’è ancora chi vede la violenza come un diritto o un metodo di controllo”. Che cosa si può fare per prevenire? “Dobbiamo partire dalle scuole, educare alla parità e al rispetto per fermare la violenza prima che inizi”. La Lombardia e Milano cosa fanno? “La Lombardia è tra le regioni più attive nella lotta alla violenza domestica, con centri specializzati e programmi di prevenzione. Qui abbiamo avviato collaborazioni con Tribunale e Questura per monitorare le recidive e fornire strumenti utili ai magistrati. L’obiettivo è rendere Milano un modello di intervento contro la violenza di genere, puntando su educazione, sensibilizzazione e prevenzione”. Messina. Detenuto morto in carcere, Mattarella scrive alla madre in cerca della verità di Alessandra Serio tempostretto.it, 1 febbraio 2025 Il Presidente della Repubblica ha risposto all’appello di Michela, impegnata nella battaglia per fare luce sul caso di Ivan Lauria. È stata una grande emozione per Michela Lauria trovarsi tra le mani la lettera in busta bianca proveniente dal Quirinale. Non poteva credere ai suoi occhi: tra le migliaia di appelli che riceve, il Capo dello Stato ha deciso di rispondere anche a lei, mosso dal clamore per il caso di Ivan Lauria, il detenuto messinese morto in carcere a Catanzaro. Una morte avvenuta in circostanze poco chiare, secondo la mamma e il legale, l’avvocato Pietro Ruggeri, che in una intervista ad Alessandra Serio e Silvia De Domenico hanno ricostruito tutta la vicenda. Una pagina social per sostenere la battaglia in cerca della verità - La lettera non le restituisce il figlio strappatole prima dalla droga e dal carcere e poi da una morte ritenuta ingiusta, ma le porta forza nella dolorosa battaglia che, ha spiegato al nostro giornale, conduce anche in nome di tutte le altre madri nella sua stessa condizione. Battaglia portata avanti anche attraverso una pagina social denominata “Verità e giustizia per Ivan”. La risposta di Mattarella all’appello di una madre - Il Presidente Sergio Mattarella ha espresso vicinanza e partecipazione per la tragica morte di Ivan (qui l’intervista alla madre dove ricostruisce la storia del ragazzo), ed ha assicurato tutto il suo impegno per il contrasto di questi fenomeni e per ottenere una adeguata risposta, non soltanto giudiziaria, alle problematiche condizioni carcerarie. La morte poco chiara di un ragazzo che non doveva essere detenuto - Intanto l’inchiesta per fare luce sulla morte di Ivan va avanti. Il 28enne è morto in cella a Catanzaro il 15 novembre scorso. La madre ha scoperto soltanto il giorno dopo, quando l’hanno avvisata per recuperare il corpo senza vita del figlio, che Ivan era stato trasferito a Catanzaro già da qualche settimana. Il referto medico parla di un arresto cardio circolatorio senza altri accenni ma secondo la mamma sul corpo del ragazzo ci sono i segni di un pestaggio. Oltre alle circostanze relative alle ultime ore di Ivan, Michela Lauria e l’avvocato Ruggeri vogliono capire perché, malgrado le sue condizioni, il ragazzo era ancora dietro le sbarre. Vigevano (Pv). Di fronte all’ennesimo suicidio in carcere chiediamoci cosa non funziona pdregionelombardia.it, 1 febbraio 2025 “Siamo addolorati per quanto accaduto in carcere a Vigevano, ma l’ennesimo suicidio non rappresenta altro che un dato: il sistema, nel suo complesso, non funziona. E mai come in questo caso è palese”, lo dicono Roberta Vallacchi, consigliera regionale del Pd e componente della Commissione Carceri del consiglio regionale, e Arianna Spissu, segretaria cittadina dei dem, dopo la morte del detenuto incarcerato per una rapina da 55 euro e già segnalato per essere un soggetto fragile. “Per questo le istituzioni dovevano prenderlo in carico prima di adesso, evitando così che si arrivasse al reato”, precisano le dem. “Quanto è avvenuto è emblematico: sarebbe stato un caso da misura alternativa, avendo importanti problemi di fragilità e tentativi di gesti estremi alle spalle. Eppure, qualsiasi altra soluzione gli è stata negata. Quindi, cosa serve per poter evitare una situazione come quella che poi è successa? Gli strumenti legislativi ci sono, il problema è che devono essere attuati e devono essere fatti stanziamenti in questa direzione. Ma se si considera il tema del carcere come marginale e punitivo, viene a essere deficitaria la stessa democrazia, che nel caso degli istituti penitenziari parla di rieducazione e reinserimento”, insistono Vallacchi e Spissu. “È un tema su cui occorre intervenire con estrema urgenza, tenendo presente che, come denunciano i sindacati della Polizia penitenziaria, dall’inizio dell’anno, cioè meno di un mese, i suicidi in carcere in Italia sono già stati 9 e questo è il secondo, in pochi mesi, nell’istituto penitenziario di Vigevano. Sono i tanti dimenticati, di cui nessuno si occupa davvero”, concludono Vallacchi e Spissu. Ivrea (To). Sospeso il giornale del carcere: “Per riaprirlo cambiate volontari” di Lorenzo Zaccagnini La Sentinella del Canavese, 1 febbraio 2025 Dopo 6 anni di attività, l’esperienza di “Fenice”, giornale online redatto dai detenuti del carcere di Ivrea ed edito dall’associazione Rosse Torri, è stata momentaneamente sospesa dalla direzione. “Riteniamo sia venuto meno il rapporto di fiducia verso gli operatori esterni incaricati del progetto - comunica la direttrice della casa circondariale Alessia Aguglia. L’intento rimane quello di continuare l’attività dopo una rivisitazione della convenzione siglata in aprile, ritenendo che a garanzia della reale efficacia rieducativa sia necessario un chiarimento dei parametri in cui questa debba svolgersi. Qualora sia ancora interesse dell’associazione, si chiede l’individuazione di altri operatori quali soggetti incaricati, affinché l’attività possa proseguire con un’effettiva funzione rieducativa e con la consapevolezza che i soggetti opereranno sotto il controllo del direttore”. Non è la prima volta che la Fenice attraversa momenti complicati: una prima sospensione era già avvenuta nel marzo 2023, ma la situazione si era sbloccata con un protocollo firmato ad aprile. “La sospensione dell’attività è stata decisa a fine novembre dalla direzione, ufficialmente per accertamenti sui computer, già periodicamente effettuati, senza altre spiegazioni se non una generica immagine negativa della vita in carcere che sarebbe emersa dagli articoli e la presenza, all’interno dei computer, di elementi, file musicali e giochi, secondo la direzione non attinenti all’attività - rispondono dall’associazione Rosse Torri, editrice del giornale Varieventuali di cui la Fenice è un inserto -. Passato un altro mese arriva la risposta che comunica la possibilità di riaprire la redazione solo previo cambio degli operatori volontari e la ridefinizione della attività sotto il pieno controllo della direzione. I volontari però non sono sostituibili in qualsiasi momento, perché un’esperienza di lavoro redazionale di sei anni all’interno di una struttura complicata come quella di un carcere non si improvvisa. In pratica questo significa volere la chiusura dell’esperienza Fenice, senza motivazioni credibili a parte l’insofferenza verso una realtà che riusciva in qualche modo a far arrivare la voce delle persone detenute al di fuori del carcere. Più che sulla sicurezza, che giustamente preoccupa il dipartimento penitenziario, il problema sembra essere lasciare le persone detenute libere di esprimere la loro voce, pur mediata dall’intervento di volontari esterni”. Interlocuzioni tra l’associazione, la direzione del carcere, Tino Beiletti dell’Associazione volontari penitenziari, il sindaco Matteo Chiantore e il Garante dei detenuti sono in corso. Il 25 è previsto un consiglio comunale in carcere. Vicenza. Laboratorio e migliaia di polpette “Costruiamo il futuro dei reclusi” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 1 febbraio 2025 Al Del Papa è stata realizzata una cucina professionale e quattro carcerati sono al lavoro per la padovana Marcolin. L’azienda punta ad assumere altri sei detenuti. C’è solamente l’imbarazzo della scelta tra pollo e speck, brasato, tonno e cipolle, verdure e infine le più richieste, quelle con il baccalà. Arriva fino a 8.000 pezzi la produzione giornaliera di polpette nel nuovo laboratorio di cucina del carcere Del Papa di San Pio X, attivo da novembre ma inaugurato ufficialmente soltanto ieri mattina. Si tratta di una struttura all’avanguardia, dell’ampiezza di circa 300 metri quadri, ricavata da un’ala ormai in disuso e realizzata grazie all’intraprendenza della gastronomia padovana Marcolin (con un punto vendita nel Sotto salone di Padova, che ha deciso di entrare nelle mura della casa circondariale e assumere alle sue dipendenze alcuni dei detenuti. “Il progetto è nato ancora due anni fa - spiega Stefano Marcolin, che porta avanti assieme al fratello Andrea e alla sorella Anna la storica attività fondata dal padre Francesco -. Noi abbiamo una struttura di 800 metri quadrati a Selvazzano, ma avevamo bisogno di un altro spazio per la preparazione delle polpette, che sono sempre più richieste. L’idea del laboratorio all’interno del carcere è uscita durante una cena, dopo che mio fratello Andrea aveva letto del bando, e così ci siamo buttati in questa nuova avventura: è stato un percorso complicato, sia per adattare gli spazi alle nostre esigenze che per la formazione del personale, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”. Il laboratorio è formato da diverse aree: c’è la zona di stoccaggio delle materie prima, formata da due locali, e quella di preparazione e pulizia delle verdure. C’è poi l’area della cucina vera e propria, seguita dalla zona di abbattimento, quella di confezionamento e, infine, l’area di stoccaggio merci, dove possono venire immagazzinati fino a dodici bancali di polpette, pronte per essere distribuite a bar e ristoranti. All’interno dei locali è custodita un’apparecchiatura dal valore di circa 400 mila euro, mentre per quanto riguarda la qualità del cibo è stata ottenuta la certificazione Ce, tanto che le polpette possono essere vendute in tutti gli stati dell’Unione Europea. Al momento nel laboratorio lavorano quattro detenuti, regolarmente assunti dalla società, ma l’obiettivo dei fratelli Marcolin è quello di portare a dieci il numero di dipendenti. Ieri mattina, in occasione dell’inaugurazione ufficiale, erano presenti diverse autorità: tra gli altri, c’erano il comandante provinciale dei carabinieri Giuseppe Moscati, l’omologo della guardia di finanza Cosmo Virgilio, il comandante del Coespu Giuseppe De Magistris, il prefetto Filippo Romano e il procuratore aggiunto Giorgio Falcone. Era presente anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che ha sottolineato l’importanza di progetti come questo. “Quella degli operatori del carcere è una grande famiglia - commenta -, donne e uomini che fanno funzionare una macchina complessa. Noi cerchiamo di raccontare fuori quanto avviene dentro, ed è importante investire in due strumenti concreti che sono la formazione è il lavoro: quest’ultimo, consente ai detenuti di uscire dal circuito criminale. Progetti come questo costituiscono il futuro per i detenuti”. Infine, grande soddisfazione anche da parte della direttrice del carcere, Luciana Traetta, che si è detta doppiamente felice per il risultato ottenuto. “Sono contenta, per noi è un momento molto importante - le sue parole -. Questo progetto, che io ho raccolto in corso d’opera, unisce il concetto dell’opportunità di lavoro, i cui effetti sono tangibili, alla realtà esterna di Vicenza, della quale ci sentiamo partecipi e percepiamo la presenza”. Padova. “Riportare il carcere al centro della città contro tutti i pregiudizi” Il Mattino di Padova, 1 febbraio 2025 Mercoledì un convegno al San Gaetano con l’ex direttore Cantone. L’assessora Colonnello: “Valorizzeremo la co-progettazione”. Non più un posto fuori dalla città che nasconde i problemi, come vorrebbe una certa retorica securitaria. Ma un luogo dentro Padova, anzi al cuore della città. Così difendiamo i diritti delle persone detenute, invertendo la retorica del fuori”. E il messaggio dell’assessora al sociale Margherita Colonnello nel convegno mercoledì scorso al San Gaetano che ha raccontato il percorso di co-progettazione che ha coinvolto le istituzioni e le tante realtà che operano nel complesso di via Due Palazzi. Un pomeriggio dunque che è servito a raccontare il Tavolo Carcere del Comune con le tante realtà che vi partecipano: dagli Operatori carcerari volontari (Ocv), a Ristretti Orizzonti, dal Coordinamento Carcere, alla cooperativa Giotto, fino agli educatori e alla polizia penitenziaria. Tanti i temi affrontati che hanno spaziato dalla storia del terzo settore in carcere -che ha visto Padova sempre all’avanguardia - fino ai temi più importanti per il futuro. Come quello di garantire l’affettività ai detenuti, l’ultimo fronte su cui sta lavorando Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. A concludere l’intervento di Carmelo Cantone, esperto di politiche penitenziarie e già direttore della casa di reclusione di Padova: “Ho sempre difeso l’esperienza di questo istituto come uno dei più innovativi in Italia. E d’altronde è risaputo che sia così”. A confermarlo anche alcuni detenuti in affidamento che hanno raccontato la loro storia di redenzione e rinascita. I problemi - come la questione del sovraffollamento e l’alto numero di tentativi di suicidio sono stati ricordati dal garante dei diritti dei detenuti Antonio Bincoletto. Mentre il presidente della fondazione Cariparo Gilberto Muraro ha garantito il sostegno dell’ente ai progetti innovativi della co-programmazione. Il sindaco Sergio Giordani, infine, nel suo messaggio di saluto ha voluto ribadire il supporto dell’amministrazione “alle tante attività, cooperative ed associazioni, che hanno fatto delle nostre carceri realtà vive e in costante dialogo con la città”. A raccontare il percorso della co-progettazione sono stati il docente del Bo Alessio Vieno e l’assistente sociale Sonia Mazzon: “Parlare di carcere significa avere a cuore la questione della convivenza tra persone che portano con sé una storia fatta anche di rottura delle relazioni, storie che restano ferite ma che scelgono di intraprendere un percorso in cui si prendono cura di sé, un percorso di formazione all’umano - ha raccontato quest’ultima. Le nostre attività devono essere capaci di dare parola ai detenuti, soprattutto a quel 60% che non vi partecipa, perché possa vivere il tempo della detenzione come una opportunità reale di cambiamento”. “Dobbiamo continuare a far funzionare la collaborazione interistituzionale ha concluso l’assessora al Sociale. E valorizzare proposte di cittadinanza attiva, coinvolgendo i detenuti nella scelta delle attività”. Imperia. “Il carcere incontra la cittadinanza” alla Biblioteca Civica, un convegno per riavvicinare i detenuti e la società imperiapost.it, 1 febbraio 2025 Progetti, obiettivi e sfide per ottenere il pieno reinserimento dell’individuo all’interno della società. Si è tenuto questo pomeriggio presso la Biblioteca Civica “Lagorio” di Imperia il convegno “Il carcere incontra la cittadinanza”, un’occasione per riflettere e mettere in contatto due realtà che si trovano per forza di cose separate: i detenuti e la cittadinanza. Tra gli argomenti affrontati ci sono la condizione della detenzione e le cause che possono condurre una persona verso l’illegalità, ma anche - e forse soprattutto- gli obiettivi e le sfide per far sì che si annulli il rischio di una recidiva e si ottenga il pieno reinserimento dell’individuo all’interno della società. Per questo è fondamentale che la cittadinanza sia al corrente della vita che si svolge all’interno di una casa circondariale, comprese le attività che vengono svolte dai detenuti. Tra queste ci sono anche diverse attività di tipo artistico, alcune delle quali sono state presentate oggi. A fare da cornice infatti sono state le opere prodotte durante il Laboratorio Pittura e tecniche espressive SiAmo, tenuto all’interno del carcere da Annalisa Fontanin. Un’altra attività tra quelle che sono state presentate alla cittadinanza è quella del Cineforum di Imperia, che dal 2009 collabora con il carcere di Imperia selezionando e proiettando film per i detenuti. In apertura il Sindaco di Imperia Claudio Scajola ha portato i saluti del Comune. Il primo cittadino ha ricordato che nel 2024 è stato raggiunto il record di 88 suicidi all’interno delle carceri italiane, “un record mai raggiunto nelle statistiche ministeriali” precisa. Tra i presenti anche l’Assessore con delega ai Servizi Sociali Laura Gandolfo, che ha predisposto insieme alla direttrice Tancredi una convenzione tra il Comune di Imperia e il Carcere, sottoscritta da entrambe le parti. Al convegno, moderato dalla Responsabile Area Trattamentale della Casa Circondariale di Imperia Marisa Bonfà, sono intervenuti la Direttrice della Casa Circondariale di Imperia Caterina Tancredi, il Provveditore Amministrazione Penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Antonio Galati, il Magistrato di Sorveglianza di Genova Francesco Parodo, il Direttore della Scuola di Formazione del personale dell’Amministrazione penitenziaria di Cairo Montenotte Giuseppe Zito, il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Liguria Doriano Saracino, il Dirigente Scolastico del C.P.I.A. della Provincia di Imperia Luigi Romano, la Presidente del Cineforum di Imperia Marinella Faedda, la docente del Laboratorio Pittura e tecniche espressive SiAmo Annalisa Fontanin, il Docente di Percorsi di autodeterminazione Danilo Bonifazio, Francesca Rodi del Programma G.O.L. U.S.S del C.P.I. di Imperia, il Referente Formazione Continua dell’Ente S.E.I. - C.P.T Roberto Fresu e il Presidente del Comitato San Giovanni Marco Podestà, oltre ad alcuni ispettori della Polizia Penitenziaria e ad alcuni detenuti che hanno raccontato la loro esperienza diretta. Spiega Caterina Tancredi: “Abbiamo organizzato questa giornata, ‘Il carcere incontra la cittadinanza’, per far conoscere alla cittadinanza quelle che sono le attività che si svolgono all’interno dell’istituto, anche se oggi interverranno tra i relatori soltanto alcuni dei docenti dei corsi e delle attività che appunto proponiamo ai nostri detenuti. Sono varie attività attraverso le quali cerchiamo di attuare quello che è il nostro mandato istituzionale che è il reinserimento sociale dei detenuti ma soprattutto questa giornata ha un po’ lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza tutta e le associazioni di categoria che operano appunto nel settore economico locale, perché sostanzialmente uno degli ostacoli maggiori che si frappone al reinserimento sociale e la scarsità o addirittura la mancanza di attività lavorative. Per cui il nostro scopo è quello di far conoscere intanto la realtà penitenziaria e che per poter realizzare quello che è il nostro mandato istituzionale occorre un lavoro di rete, occorre il contributo di tutti, di tutta la collettività”. Dice Marinella Faedda: “Il Cineforum Imperia entra nella Casa Circondariale di Imperia fin dal 2009, quindi sono 16 anni quest’anno che noi facciamo attività di volontariato all’interno della Casa Circondariale. Tutti i film che noi proiettiamo sono concordati con gli educatori, con gli psicologi e con gli insegnanti che entrano nella casa circondariale. Sono film che hanno una valenza culturale, naturalmente sociale, interraziale, per cui poi si prestano a discussioni con i detenuti dopo la visione. Di solito le proiezioni avvengono una volta ogni 15 giorni, ogni 20 giorni, dipende insomma da quello che concordiamo con gli educatori. La maggior parte dei film sono molto piaciuti comunque ai detenuti e hanno dato adito appunto a dei dibattiti anche molto interessanti”. “Per quanto riguarda i titoli noi scegliamo assolutamente dei film che non abbiano dei contenuti di violenza, che non abbiano eccessivo turpiloquio che non offendano le religioni e quindi stiamo molto attenti nella nostra scelta ai film che proiettiamo”. - Continua la Presidente del Cineforum. - Per esempio Sotto le stelle di Parigi, un titolo molto interessante che parla di una clochard che incontrerà un ragazzino di colore che ha perduto la mamma e lo riporterà appunto alla sua mamma. Oppure Oui, Chef! - La Brigade, un altro titolo molto molto bello che è stato proiettato al Cinema Centrale per la giornata internazionale del rifugiato, oppure titoli che piacciono molto come Race, la storia di Jesse Owens, o per esempio Pelé, la storia di Pelé è molto piaciuta chiaramente perché comunque tutte le storie che si basano sugli sport piacciono comunque ai detenuti e ai ragazzi in genere”. Racconta Annalisa Fontanin: “Il carcere offre moltissime opportunità artistiche e culturali come scrittura creativa, teatro, cinema, nonché anche questo corso di arte, diciamo, è veramente completo perché si può svolgere completamente un discorso pittorico e abbiamo un bello studio sopra l’ultimo piano del carcere e quindi da diversi anni portiamo avanti questo progetto che ha dato dei risultati veramente straordinari, lo dico per me perché anch’io sono cresciuta insieme ai ragazzi. Quindi abbiamo affrontato molte tematiche, dalle tematiche spirituali a tematiche intimiste ecco, oppure anche alla costruzione di oggetti come velieri, come oggetti ecco di vario genere in quanto c’erano detenuti che avevano magari più un bisogno manuale, invece altri avevano un bisogno profondo proprio di espressione e quindi abbiamo usato anche la poesia, la musica perché sono diciamo forme d’arte che vanno veramente a scavare nel profondo e che possono dare dei risultati anche misteriosi diciamo, per ciò che vanno a scoprire e a tirare fuori dalla persona, perché l’arte è appunto un processo interiore che poi si materializza in qualcosa che può essere un quadro, una scultura, ecco, può essere qualcosa in particolare, anche come un testo scritto che ne abbiamo avuti. E questo rivolto naturalmente a tutte le realtà culturali etniche quindi, c’è di tutto nel carcere, tutti hanno risposto veramente in modo entusiasmante e quindi è un processo che ha iniziato e che continua a dare dei risultati sempre più interessanti. Anche quando abbiamo affrontato la tematica della violenza contro la donna, approfittando appunto del 25 novembre, sono venuti fuori lavori straordinari che sono esposti qui in questa mostra. Quindi invito tutti a venirla a vedere, sarà esposta qui fino a lunedì mattina”. Siena. Il 10 febbraio l’evento “Pena e speranza, la vita in carcere, le riforme necessarie” centritalianews.it, 1 febbraio 2025 Lunedì 10 febbraio, alle ore 17, nel salone d’onore del Palazzo Arcivescovile di Siena, nell’ambito delle iniziative giubilari dell’arcidiocesi, si terrà l’evento “Pena e speranza, La vita in carcere, le riforme necessarie”, promossa dalla Fondazione Derek Rocco Barnabei in collaborazione con l’Arcidiocesi di Siena, Colle Val d’Elsa, Montalcino. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di focalizzare l’attenzione sulle tante criticità che coinvolgono le persone che scontano una pena all’interno del carcere ed anche a sostegno della moratoria e dell’abolizione della pena di morte. Un tema di grande attualità soprattutto in vista del prossimo Giubileo dei detenuti che si terrà a dicembre di quest’anno. Intervengono: il card. Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena - Colle di Val D’Elsa-Montalcino; Anna Carli, presidente della Fondazione D. R. Barnabei; Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio; Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti per la Regione Toscana. “Papa Francesco - spiega il card. Lojudice - ha voluto aprire una porta santa all’interno di un carcere indicando a tutti la strada da percorrere per trasformare i luoghi di detenzione in “laboratori” dove coltivare la speranza. Per questo abbiamo deciso, con la Fondazione Barnabei, di iniziare un percorso che ci porterà a vivere a dicembre il Giubileo dei detenuti”. “Un primo momento di riflessione, quello del 10 febbraio - aggiunge il cardinale - per rimettere al centro l’uomo e i suoi inalienabili diritti anche dietro le sbarre. Per tale occasione verrà anche istituito un comitato organizzatore che dovrà definire contenuti e modalità per lo svolgimento dell’evento di dicembre”. “La Fondazione Derek Rocco Barnabei - dice la presidente Anna Carli - fu costituita dalle Istituzioni senesi per dare seguito al testamento morale di questo giovane italo-americano la cui esecuzione della condanna a morte non fu scongiurata nonostante una campagna internazionale a suo sostegno, per la quale Siena si impegnò a fondo anche per i legami che la famiglia di origine aveva avuto con la nostra Città. La Fondazione, oltre a sostenere la moratoria e l’abolizione della pena di morte, è impegnata per il riconoscimento di tutti i diritti umani e per la dignità delle persone che scontano una pena all’interno del carcere”. “Il Giubileo dei Detenuti e la collaborazione con l’Arcidiocesi - conclude la Presidente della Fondazione - sono opportunità di riflessione e di impegno per tutti noi, credenti e non credenti, che hanno a cuore la dignità della persona e il rispetto delle finalità previste dalla nostra Costituzione per la pena detentiva. La perdita della libertà deve essere accompagnata da una condizione di vita attenta alle potenzialità e alle fragilità della personalità del detenuto o della detenuta, e quindi umanamente rispettosa e tale da dare nuovo senso al futuro e da scongiurare scelte personali drammatiche e irreversibili” Palermo. Detenuti dell’Ucciardone cureranno Museo del presente ansa.it, 1 febbraio 2025 La struttura è gestita dalla Fondazione Falcone a Palermo. È stato firmato giovedì pomeriggio, presso la sede della Fondazione Falcone di Palazzo Jung, a Palermo, un accordo pilota che vede coinvolta la stessa Fondazione, l’amministrazione penitenziaria, il Comune di Palermo ed il ministero della Giustizia, per l’impiego dei detenuti provenienti dalla casa di reclusione Ucciardone ad attività socialmente utili all’interno del Museo del presente. Il progetto avrà inizio domani ed un gruppo di detenuti si occuperà della manutenzione del verde all’interno della struttura e della cura del museo. “La Fondazione - spiega Maria Falcone, presidente della Fondazione Falcone - è un’organizzazione che porta avanti i valori della democrazia e cerca di far sì, come ci ha insegnato Beccaria, che il carcere possa essere un momento di recupero. Queste forme di partecipazione, da parte di quei detenuti che sono in grado di poterlo fare, è importante per riconoscere da parte loro l’importanza della vita sociale”. “Questo spazio è dedicato al presente e in questo bisogna immaginare di costruire un futuro basato sulla bellezza e sulla cultura della memoria e bisogna farlo attraverso l’impegno - spiega Alessandro De Lisi, curatore della Fondazione Falcone - lavorare con i detenuti e le detenute significa oggi costruire un modello sociale basato sulla consapevolezza che c’è sempre una terza via per coloro che hanno sbagliato”. “L’Ucciardone - sottolinea Fabio Prestopino, direttore della casa di reclusione Ucciardone di Palermo - vuole essere parte integrante della comunità palermitana e lo diviene anche in questo modo. Ci saranno dei detenuti che ammessi ai lavori di pubblica utilità collaboreranno alla manutenzione di questo bene”. Minori in carcere: “Con i percorsi giusti possono cambiare e avere un futuro migliore” di Alessandra Stoppini santalessandro.org, 1 febbraio 2025 Minori in carcere: “Con i percorsi giusti possono cambiare e avere un futuro migliore”. “Sono tra quelli che non si stancano di sognare un futuro fuori per i ragazzi che hanno sbagliato, nessuna concessione alla superficialità quindi, ma duro lavoro di educazione alla responsabilità”. Domenico Cambareri, parroco in provincia di Bologna e cappellano dell’Istituto Penale per i Minorenni del capoluogo, ha scritto “Ti sogno fuori” (Edizioni San Paolo 2024, Prefazione di Susanna Marietti, pp. 149, 16,00 euro), che raccoglie “Lettere da un prete da galera”, come recita il sottotitolo del testo. Lettere briose, profonde, filosofiche, dense di umanità e di straordinarie lezioni educative, tra testi di canzoni trap e brani di Seneca. È il dialogo che Don Domenico “prete di galera”, cappellano del carcere minorile di Bologna, intraprende idealmente con Y, uno dei tanti ragazzi che ha incontrato e oggi, dopo avere scontato la sua pena, vive libero. Il testo offre uno scorcio straordinario dal punto di vista di un educatore, ed è anche un affresco del mondo degli IPM (Istituti Penali per i Minorenni): realtà sconosciute ai più, e relegate a una sorta di irrilevanza sociale. Ne parliamo con Don Domenico Cambareri, laureato in Italianistica all’Università di Bologna, che ha conseguito a Firenze il dottorato di ricerca in Teologia dogmatica alla Facoltà Teologica dell’Italia centrale. Qual è l’età minima per entrare nel carcere minorile? “L’età minima per essere detenuto in un IPM è quella di avere l’età dell’imputabilità ossia 15 anni. A 25 anni invece, nel giorno del loro compleanno, i ragazzi vengono trasferiti nel carcere per adulti. Quindi 9 anni. In seguito al Decreto Caivano, sono aumentate le possibilità di essere incarcerati. In alcuni casi, anche un oltraggio a pubblico ufficiale può essere punito con il carcere”. Che differenza c’è tra carcere minorile e riformatorio? “Il riformatorio era, fino al 1988, il luogo in cui venivano reclusi i ragazzi dai 14 ai 21 anni. Questo è durato fino alla riforma Orlando del 2018, perché prima anche negli IPM si restava fino ai 21 anni. Il riformatorio, che era puramente contenitivo e paternalistico, è diventato una realtà che recepisce le indicazioni della pedagogia moderna”. Evasioni, rivolte, come quelle avvenute di recente al “Cesare Beccaria” di Milano, per Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria): “Da molto, troppo tempo arrivano segnali preoccupanti dall’universo penitenziario minorile”. Quali sono le falle del sistema? “È il contrasto tra il progetto di giustizia minorile, che negli ideali è molto esigente e dispendioso, e le risorse. Anche quest’anno sono stati tagliati dei fondi. Il grosso di questa spesa va alla sicurezza, quindi il contenimento dei ragazzi cala la prospettiva educativa, il lavoro educativo su di loro”. Il Ministero della Giustizia ha comunicato che, dopo un’ispezione svolta nei giorni scorsi al carcere Beccaria da parte di funzionari del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, sono stati individuati “alcuni interventi infrastrutturali da svolgersi con la massima urgenza”. Basteranno? “Il Beccaria è un cantiere da tempo immemorabile… Bisogna anche approntare strutture a scopi educativi, non solo volte a prevenire evasioni e rivolte. C’è la possibilità di ottenere la semilibertà, il ragazzo meritevole viene portato a stare in una cella speciale da solo, ma nell’IPM di Bologna queste celle mancano. Quindi, i ragazzi meritevoli rimangono in questo brodo primordiale, insieme agli altri detenuti, esponendosi a gravi rischi”. I ragazzi stranieri negli Istituti Penali per i Minorenni sono oltre la metà. Spesso nati in un’Italia che, nonostante il fiorire di una copiosa legislazione sul tema dell’immigrazione, non ha ancora risolto l’integrazione nella società. Che cosa ne pensa? “Questi ragazzi non hanno una rete sociale alternativa e parallela a quella dei ragazzi italiani, che secondo le statistiche delinquono di più. Dico sempre a questi giovani detenuti stranieri: “Voi dovete decidere o scegliere di essere italiani o nuovi italiani, qualsiasi cosa sarete”. Molti di loro non hanno idea della complessità di una società occidentale come la nostra. Vivo a Bologna e mi sono reso conto che c’è un fortissimo razzismo, mai l’avrei sospettato, e questo i ragazzi me l’hanno fatto notare. La cosa strana è che vengono discriminati ragazzi che parlano con l’accento bolognese, immigrati di seconda generazione”. Ci racconta brevemente la storia di Y? “Con la sua testimonianza Y racconta la parabola migliore di un IPM, meriterebbe la cittadinanza italiana per il suo percorso. Ragazzo simbolo di tutti quei giovani ricchi di talento ma frenati da povertà e da problemi familiari. Posso dire che da cappellano ho avuto il privilegio di assistere alla resurrezione di Y”. Le storie e le voci di questi giovanissimi danno la misura di quanto sia importante non arrendersi, come comunità, e fornire strumenti di cambiamento, percorsi di riconciliazione, prospettive di futuro. Come fare? “Serve una grande alleanza tra la città e il carcere minorile per far tornare i giovani detenuti alla legalità. Puntare su tre cose: una scuola fatta bene, percorsi di lavoro, esperienze formative di discontinuità con il passato dei ragazzi”. Un altro carcere è possibile di Beppe Donadio La Regione, 1 febbraio 2025 Almeno a Volterra, dove la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo vive il teatro, utopia realizzabile. Gianfranco Pannone la racconta in “Qui è altrove”. “Nel momento in cui io entro a teatro non sto in carcere, inizio a nuotare in un altro mondo, che è il mondo in cui vorrei vivere. Poi alle nove si accende una lampadina, girano le chiavi, chiudono la porta e torni in cella”. Forse nessuna delle dichiarazioni contenute in ‘Qui è altrove - Buchi nella realtà’, documentario scritto e diretto da Gianfranco Pannone, spiega da un lato il progetto di Armando Punzo, regista, attore e drammaturgo italiano che dal 1988 porta il teatro tra i detenuti di Volterra, e dall’altro realizza lo scopo del regista, quello di raccontare il lavoro di Punzo senza che si vedano le sbarre. Le parole iniziali sono di uno degli attori-detenuti della Compagnia della Fortezza, uno dei primi progetti di teatro in carcere nati in Italia, facente capo a Punzo. Prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film, co-prodotto da Rsi, “Qui è altrove - Buchi nella realtà” ha avuto la sua prima ieri al Cinema Iride di Lugano e qui resterà fino a lunedì. “Il film nasce come ‘Qui e altrove’ e poi, girando, il titolo ha accolto il verbo, per il paradosso dello stare imprigionati in un luogo e il contemporaneo sentirsi in un altro, l’utopia che Armando prova a trasmettere con il suo teatro”. Così Pannone, che documenta l’allestimento estivo dello spettacolo nel carcere della Fortezza Medicea di Volterra, mentre 16 compagnie teatrali operanti in vari istituti di pena italiani si ritrovano come ogni anno per il progetto ‘Per Aspera ad Astra’, che permette ad allievi giovani e meno giovani di conoscere il lavoro di Punzo da dentro. Lavoro che, di fronte ai 67 suicidi verificatisi solo nei primi mesi del 2024, dimostra che “a Volterra un altro carcere è possibile”, dice il regista. Gianfranco Pannone, per una volta non ci vengono raccontate le storie dei reclusi, quelle le possiamo immaginare dai volti… L’assunto era proprio quello di fare un film sul teatro in carcere e non sul carcere. È stato un mio desiderio quello di non chiedere il passato ai detenuti, che sono innanzitutto persone che hanno, per sfortuna o errori fatti, la sventura di essere reclusi. Nemmeno ho chiesto loro il motivo per il quale si trovano lì. Ho saputo solo i loro nomi e che seguono con interesse il teatro di Armando, al quale anche io sono molto legato. So che stanno facendo questa esperienza da attori e siccome conosco persone che dopo il carcere hanno avuto successo, come Aniello Arena (candidato a un David di Donatello e vincitore di un Nastro d’Argento, sempre per ‘Reality’ di Matteo Garrone, ndr), ho capito che è possibile uscire dai propri tunnel. Qualcuno nel film dice ‘scendo a Napoli per i colloqui di riavvicinamento, ma non vedo l’ora di tornare, il teatro è qualcosa che metto nel bagagliaio per il mio futuro’… È un’immagine molto diretta ma autentica di Vincenzo, uno dei detenuti. Gli sfugge anche un “a volte solo per passare il tempo”, poi si corregge, ma anche lì è sincero perché spesso è così che si comincia a fare teatro, per sfuggire alla noia e alla pesantezza del carcere. Dice: “Io ad Armando lo guardo in bocca” (il labiale, per seguirne le battute, ndr), testimonianza di un legame molto forte con Punzo, che ha un rapporto anche amicale con i detenuti ma che resta punto di riferimento forte: il teatro ruota intorno a lui e alla sua idea di teatro, che non ha nulla di pedagogico. Un po’ come la sua idea di film, Pannone, che lascia poco spazio alla fiction... È una scelta. Per quel che riguarda il cinema documentario, si tratta della libertà di lavorare in una sorta di work in progress grazie al quale poter mettere e potermi mettere in discussione. Il teatro di Armando e il mio cinema sono diversi, però anche lui come me lavora molto sul work in progress, sul costruire lo spettacolo anche sulle suggestioni reciproche regista-attore-detenuto. Il cinema documentario, in particolare, riesce a essere autentico e addirittura scandaloso senza volerlo, perché la realtà ti arriva in faccia. In questo film abbiamo lavorato molto sui corpi dei protagonisti, lo stare loro addosso ci serviva a far dimenticare che stavamo in un carcere. La dimensione corale, inoltre, ha messo insieme detenuti, gente di teatro che lavora fuori dal carcere e partecipanti alla masterclass di Per Aspera ad Astra, con le sbarre che sono finite con l’essere messe da parte. Questo almeno era l’intento del film. Quanto alto è il rischio di coinvolgimento nel raccontare una realtà di questo tipo? Un po’ come ogni buon giornalista, credo che un regista debba mantenere la giusta distanza. È una lezione che ho imparato facendo cinema documentario da più di 35 anni. Fai un film ‘con’ e non un film ‘su’, stai dentro una situazione e allo stesso tempo ti assicuri il distacco che preserva dal facile coinvolgimento, che può portare sia a un giudizio sbagliato sulla persona, perché emotivo, o a un’adesione eccessiva, col rischio di esaltare persone che io voglio rimangano tali. Secondo la logica di alcuni, in una vicenda come questa esiste il detenuto che deve pagare la pena e scontarla a pane e acqua, ma c’è anche l’eroizzazione del carcerato, che è una sorta di razzismo al contrario. La mia è una distanza anche affettuosa, cerco di non essere freddo ma allo stesso tempo abbastanza lucido da poter restituire parte dell’essenza di quelle persone e del luogo in cui vivono. Non sapendo che dentro c’è un carcere, la Fortezza Medicea di Volterra da fuori pare un posto da mostre d’arte… Per anni la Fortezza è stato uno dei peggiori carceri d’Italia, come racconta Armando. Lì ho visto la bellezza nella bruttezza, nel senso che è un carcere e non puoi nasconderlo, però dentro c’è un’utopia possibile, il teatro, che diventa atto politico fuori dalle ideologie e dalle appartenenze, perché concede a chi sconta la pena la possibilità di vedersi in un’altra dimensione e magari di uscirne, anche se Armando rifiuta qualsiasi prestazione salvifica. ‘Non sono venuto nel carcere per il carcere - dice Punzo nel film - non dovevo salvare qualcuno se non me stesso e un mondo che pare non piacermi. Sono testimone di un’esperienza che può scalfire la realtà’… È esattamente quello che è successo, è anche un modo per responsabilizzare la persona. Armando è un guru del teatro, ma allo stesso tempo nel non pretendere di salvare, affida la responsabilità di qualsiasi scelta interna alla propria condizione, a partire dal carcere, alla responsabilità individuale. Tanto meno io ho mai pensato di fare un film salvifico, pietistico o sociologico. Ho voluto seguire questa linea di Armando condividendola in una chiave di affabulazione cinematografica. Dalle parole delle associazioni che portano il teatro dietro le sbarre emerge soprattutto l’avvicinamento tra carcere e città. Cosa emerge, nel suo caso, dal tempo trascorso nella Fortezza? Da questo film sono uscito con l’idea di essere un uomo fortunato, che non è poco. Chiunque può ritrovarsi su una via difficile, perché a volte a fare la differenza non sono solo le scelte personali ma anche quelle prese da altri, a cominciare dalla dimensione sociale o di classe. Detto ciò, l’esperienza mi ha molto arricchito. Ogni tanto torno a teatro, che è la mia origine, e vedere la forza con cui Armando rimette in gioco il carcere è qualcosa che mi ha affascinato. Manconi: “I casi Uva, Cucchi e gli altri torturati non hanno insegnato nulla” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2025 Il sociologo: “Osservo il rischio di una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per i pubblici agenti, di un regime processuale speciale”. Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente - “La scomparsa dei colori”, edito da Garzanti - racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto. In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa? Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele. Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità, si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità. I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva? È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell’ordine pubblico. Ma, pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità collettiva, dell’istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né, infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica. Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita? Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella Lucia Uva e dell’avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare. Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno delle forze dell’ordine? Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente, dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia. Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla violenza nell’attività di repressione, quando necessaria Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no? Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di stato, all’arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e non un ministro dell’Interno che, al momento di assumere il comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia intrapreso. Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su questo? Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria. Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all’infinito, e che, come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall’interno: da un poliziotto, da un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero desolante. Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato. Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe migliorato? Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma spiegai che, se fosse mancato un solo voto all’approvazione, mi sarei recato in Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un ruolo assai importante. Migranti. Ancora uno schiaffo al “modello Albania”: i richiedenti asilo tornano in Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2025 La Corte, inoltre, ha deciso di rimettere ancora una volta gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. La Corte d’Appello di Roma - Sezione Persona, famiglia, minorenni e protezione Internazionale -, ha sospeso ieri il giudizio di convalida dei trattenimenti dei 43 migranti portati, martedì scorso, in Albania nel centro di Gjader. La Corte, inoltre, ha deciso di rimettere gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ponendo un quesito pregiudiziale: “Se il diritto dell’Unione Europea e, in particolare, gli articoli 36, 37 e 46 della Direttiva 2013/32/Ue, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che un Paese terzo sia definito di origine sicuro qualora, in tale Paese, vi siano una o più categorie di persone per le quali non siano soddisfatte le condizioni sostanziali di tale designazione, enunciate nell’allegato I della Direttiva”. Dei 43 migranti 38 provenivano dal Bangladesh, 8 dall’Egitto. Domani mattina alle 12 una nave della Guardia Costiera arriverà in Albania per riportarli in Italia. Già due giorni fa altri sei migranti erano stati riportati in Italia perché minorenni o vulnerabili e quindi non “eleggibili” per la procedura accelerata di frontiera: un altro aspetto paradossale di questa norma che non prevede i dovuti accertamenti prima della partenza per l’Albania. Ieri in videoconferenza per le udienze c’erano i richiedenti asilo assistiti dai loro legali ed i magistrati della Corte d’Appello. Presenti nella struttura albanese quattro parlamentari del Pd - Chiara Braga, Matteo Orfini, Andrea Casu e Marco Simiani - ed una delegazione del Tavolo asilo e immigrazione (di cui fanno parte Arci, Asgi e Casa dei diritti sociali). Solo un mese fa dal palco di Atreju, la premier Giorgia Meloni, con un tono di certo non pacato, disse: “I centri in Albania funzioneranno. Funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano”. Ebbene, per la terza volta, questo modello è fallito. I precedenti trasferimenti di migranti in Albania organizzati dal governo - ad ottobre e a novembre scorsi - erano stati vanificati dalle decisioni dei magistrati della sezione immigrazione del Tribunale di Roma, che non aveva convalidato i trattenimenti disposti dalla questura della Capitale. La prima pronuncia risale al 18 ottobre, la seconda decisione è dell’11 novembre. Rispetto al primo caso, il governo aveva nel frattempo emanato un decreto per definire la nuova lista di Paesi sicuri. Il provvedimento non era tuttavia servito ad evitare un esito diverso del giudizio. I magistrati, infatti, sospesero il giudizio sulla convalida del trattenimento rimettendo tutto nelle mani della Corte di Giustizia europea, come accaduto ieri. Come non è servito ad ottenere un esito diverso il fatto che il Parlamento nel frattempo abbia approvato una legge che ha trasferito le competenze in materia di trattenimento dai tribunali alle Corti d’Appello. Inoltre, come hanno sottolineato in questi giorni alcuni analisti, il governo poteva evitare di trasportare i migranti in Albania in attesa della decisione della Cgue, già chiamata a pronunciarsi sulla stessa questione. Si riunirà il 25 febbraio, anche se la decisione è attesa nei mesi successivi. Ovviamente non sono mancate le reazioni politiche. “Giorgia Meloni si rassegni, i centri in Albania non funzionano e non funzioneranno, sono un clamoroso fallimento”, ha commentato la segretaria del Pd Elly Schlein, che ha concluso: “Aumentano a dismisura le risorse pubbliche sprecate a causa dell’ostinata volontà del governo di non rispettare le leggi e le sentenze europee. I diritti non possono essere modificati con stratagemmi come quello di spostare i giudizi dai tribunali per l’immigrazione alle Corti d’Appello, nel tentativo del governo di scegliersi i giudici”. Al contrario, per il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, punta il dito contro le toghe: “Continua l’opera di boicottaggio della magistratura italiana alle politiche di sicurezza per contrastare l’immigrazione clandestina. La sfida è politica, temeraria e appare ostile ai principi fondamentali dell’ordinamento. Ma bisogna andare avanti perché il disegno è troppo politico per essere subìto passivamente”. Mentre per il segretario di +Europa, Riccardo Magi, “a Meloni non resta che dichiarare fallito questo sadico esperimento ed evitarci le sue solite vagonate di vittimismo”. Migranti. “Modello albanese”, le ragioni di un fallimento crudele di Filippo Miraglia Il Manifesto, 1 febbraio 2025 La presidente del Consiglio ha puntato tutto sul “modello albanese”, anche sapendo che le probabilità di perdere erano molto alte. Difficilmente il risultato nel nuovo anno avrebbe potuto essere diverso, rispetto alle bocciature con cui si era chiuso il precedente. Forse Giorgia Meloni aveva già pronti due video da postare sui social. Uno con la parte della vincitrice, il suo esempio funziona e diventerà il modello dell’Unione europea. L’altro con quella della vittima, i soliti magistrati che impediscono al governo di lavorare, che non collaborano. Entrambi i casi funzionali alla propaganda. Quella che evidentemente rappresenta l’unico reale obiettivo di questa maggioranza che, come tutte le nuove destre autoritarie del cosiddetto occidente, puntano le loro carte sull’odio e sulla criminalizzazione degli stranieri. Pensavano probabilmente di intimidire i magistrati della Corte d’appello e di convincere, con la campagna mediatica di questi giorni, qualcuno a prendere decisioni diverse da quelle prese dai colleghi e dalle colleghe del tribunale ordinario. Ma quelle decisioni si basavano sulla legge e non sui desideri del governo o sui sondaggi. Il governo non ha trovato nessun giudice collaborativo, ma solo giudici che applicano la legge. Ed è intollerabile per Giorgia Meloni e i suoi ministri, come si vede dalle reazioni, che anche loro - “eletti dal popolo” - debbano rispettare le leggi. Soprattutto se si tratta di norme che tutelano i diritti umani, i diritti fondamentali delle persone. Noi che siamo stati, come associazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione, insieme ai parlamentari dell’opposizione, in questi giorni a monitorare le procedure e le condizioni dei migranti sottoposti a questa ennesima deportazione, abbiamo potuto verificare che nei campi di detenzione italiani in Albania la civiltà del diritto è stata cancellata. Le persone si sono ritrovate in un incubo senza sapere perché e senza potersi difendere. Quasi tutti hanno subito torture in Libia e quindi non potevano, secondo lo stesso protocollo firmato tra Italia e Albania, essere sottoposti alla procedura accelerata, in quanto vulnerabili. Ma non c’era nessun soggetto terzo, non governativo, a verificare la loro condizione. Nessuno di loro ha potuto parlare con un legale prima di essere ascoltato dalla Commissione per l’asilo e così tutti si sono visti respingere in pochi minuti la loro domanda, per una presunta “manifesta infondatezza”. Infondatezza che evidentemente deve essere stata valutata in blocco, un tanto al chilo, senza discernere e senza ascoltare. Allo stesso modo le convalide si sono svolte in tempi e con modi che non hanno nulla a che vedere con le garanzie previste dalla nostra Costituzione e dalle leggi. Gli avvocati d’ufficio, che avrebbero dovuto tutelare le persone sottoposte al trattenimento, hanno potuto incontrare i migranti detenuti in Albania solo durante le udienze di convalida. Un governo che urla al complotto quando ad essere accusati sono ministri potenti e con più di una copertura istituzionale, calpesta le garanzie per chi non ha alcuna tutela. Eppure, nonostante le ripetute e prevedibili bocciature, l’orrore delle deportazioni al quale ci tocca assistere va avanti. Non è più tollerabile. Il fallimento è palese, dopo tre tentativi andati tutti male, e dovrebbe indurre a questo punto anche questo governo a fermarsi, a interrompere i continui tentativi di infrangere norme fondamentali per una democrazia. Sappiamo che non succederà. Non è nell’interesse dell’esecutivo il rispetto dei diritti fondamentali. Per quanti come noi credono nei principi della Costituzione e nella tutela dei diritti umani, il fallimento della propaganda fatta sulla pelle delle persone e pagata con i soldi del contribuente è una buona notizia. Godiamocela dando il benvenuto alle vittime di questa terribile farsa. Migranti in Albania, l’ira di Palazzo Chigi per il fermo non convalidato di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 1 febbraio 2025 Per il Governo non serve aspettare la decisione della giustizia Ue. Avanti tutta, “a testa alta” e col timone puntato verso le coste dell’Albania. Giorgia Meloni è più infuriata che mai e non darà alle opposizioni la soddisfazione di mettere i sigilli ai centri di Shenjin e Gjader. La premier va avanti, perché è sempre più convinta che “il governo è nel giusto”. La Corte d’appello non ha convalidato il fermo di 43 migranti e lei ha già deciso la linea: ricorso in Cassazione. Anche perché tra Palazzo Chigi e Viminale la decisione di sospendere il giudizio in attesa del verdetto della Corte di giustizia Ue è stata letta come un segnale di debolezza dei magistrati. A Palazzo Chigi temevano il nuovo colpo di ruspa, il che in parte spiega i toni di Meloni contro uno dei pilastri dell’architettura costituzionale. Giovedì, rispondendo a Nicola Porro, la premier aveva tuonato contro quei giudici, “fortunatamente pochi, che vogliono decidere la politica dell’immigrazione e se e come riformare la giustizia”. E ieri si è ancor più convinta che calarsi l’elmetto sulla testa e scendere in trincea contro le presunte “toghe rosse” di berlusconiana memoria sia stata la scelta giusta. E così, a caldo, ha affidato a fonti di governo il suo “grande, profondo stupore” per la decisione di quei magistrati della Corte d’appello a cui aveva consegnato per decreto l’onere di decidere del destino dei profughi dopo le sentenze sfavorevoli al governo. “A nostro avviso non c’è la necessità di aspettare il pronunciamento della giustizia europea”, è la reazione ufficiosa dei vertici dell’esecutivo. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari ha consegnato al partito il mandato di attaccare la Corte d’appello per “non aver rispettato la decisione della Cassazione”, in virtù della quale competerebbe al governo individuare i “Paesi sicuri”. In uno dei suoi dispacci, diffusi via social per puntellarsi a colpi di “mi piace”, Meloni si è dipinta come un capo di governo che “lavora senza sosta per portare risultati all’Italia”. Mentre fuori da Palazzo Chigi, nei corridoi dei tribunali e nei partiti di opposizione, “c’è chi prova invano a smontarli”. L’attacco alle toghe, o contrattacco che sia, in termini di consenso funziona e lei lo rivendica postando la Supermedia Youtrend. Se Fdi sale di mezzo punto rispetto al 16 gennaio e agguanta il 30,1%, vuol dire che “nonostante gli attacchi gratuiti e i tentativi di destabilizzare il governo, il sostegno degli italiani rimane solido”. Per le opposizioni è una deriva trumpiana. Per lei è la constatazione che il lavoro del suo esecutivo “per difendere l’interesse nazionale è quello giusto”. E dunque, ecco il teorema, sbagliano quei magistrati che “vogliono governare” e usano le carte bollate per smontare il lavoro della destra. Vale per la sentenza sui migranti, vissuta come un “boicottaggio” e un gesto di “resistenza” delle toghe frutto di un “disegno politico”, e vale per il caso del torturatore libico Almasri, rimandato a Tripoli con tanto di volo di Stato. Scelta che ha portato il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, a iscrivere nel registro delle notizie di reato la premier, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano. Prima di girare il video in cui ha dichiarato guerra alle toghe, Meloni martedì pomeriggio è andata al Colle per informare il capo dello Stato dell’avviso ricevuto. “Mattarella non sapeva nulla, Lo Voi non ha avuto la cortesia di fargli una telefonata”, rimprovera un meloniano. Occhi negli occhi, la leader della destra ha condiviso con il presidente l’arrabbiatura per un atto che giudica “arbitrario e per nulla dovuto”. Gli ha spiegato di ritenerlo “un attacco al governo, alla democrazia e allo Stato” e lo ha informato delle sue bellicose intenzioni politiche: “È una cosa che non ha precedenti e non starò ferma, prenderò le mie contromisure”. A Chigi sperano che aver fatto trapelare la notizia possa togliere armi agli avversari, come se aver parlato col capo dello Stato possa garantire alla premier una qualche “copertura”. A proposito di “contromisure”, il centro studi di FdI, che ha la supervisione di Fazzolari, ha messo a punto un circostanziato dossier contro Lo Voi. In cui tra l’altro si legge che Giuseppe Conte, da premier “per gli affari correnti”, il 9 febbraio 2021 candidò il procuratore alla Corte penale internazionale. Sanzionare il magistrato è una priorità per il cerchio magico della premier. Martedì Mantovano riferirà al Copasir, non su Almasri, bensì sulla vicenda che riguarda il capo di Gabinetto, Gaetano Caputi. Il sottosegretario insisterà su un documento riservato dell’Aisi arrivato al Domani, con l’intento di causare problemi disciplinari al procuratore. Migranti. Quell’imbarazzante braccio di ferro di Alessandro De Angelis La Stampa, 1 febbraio 2025 La prima volta, lo scorso ottobre, i migranti erano una ventina, i trattenimenti in Albania furono bloccati, e si disse: colpa dei giudici. La seconda volta, a novembre, erano sette. Stesso copione, recitato con qualche decibel in più, per traferire il messaggio: non è il modello in sé che non funziona, è il pregiudizio delle toghe che lo blocca. Ad integrare il racconto fu varato, a mo’ di toppa riparatrice, il decreto migranti presentato come sfida, sempre ai giudici e come segnale di “efficienza”. Decreto piuttosto farraginoso, che interveniva sulla famosa lista dei Paesi sicuri, con l’idea di ridurre i margini interpretativi dei giudici. Fino a un certo punto però perché, per evitare l’incostituzionalità, quella funzione interpretativa non poteva essere tolta. Si poteva solo intervenire sulla lista dei Paesi sicuri, trasformandola da decreto interministeriale in legge. Ma è rimasta la discrezionalità di applicare la norma europea. Poiché anche quel decreto era solo uno spot per mostrare la non arrendevolezza sul tema, ma del tutto inutile nella sua applicazione pratica, altro intervento legislativo: i giudici dei tribunali sono ostili, allora trasferiamo la competenza alle corti d’Appello. Peccato che, per assenza di personale, vengono chiamati a decidere quelli che stavano nei tribunali ordinari. E patatrac: nuovo pronunciamento, medesimo esito, ieri, per quarantadue migranti. C’è poco da fare, il punto è che il modello in sé che non funziona e non c’è forzatura giuridica che tenga. Ma la questione è più grande dei cavilli. È la classica, imperitura storia del dito e della luna. L’ossessione del dito (il cavillo) è solo la trovata propagandistica. Serve a mantenere il racconto cattivista, che si nutre di emozioni e di lavoro sull’immaginario, sulla ragione sociale “par excellance” della destra sovranista: la difesa dei confini. Le emozioni sono le paure, l’immaginario è il pugno di ferro, con i migranti e coi giudici, il “nemico” che, dall’Albania a Lo Voi, vuole impedire la rivoluzione. Il punto però è la luna. E cioè che il modello, presentato come un deterrente per fermare i flussi che arrivano anche da altre parti del “globo terracqueo”, non funziona. Né in sé né come “deterrente”. Anche ammesso che funzionasse sarebbe del tutto insufficiente un centro che al massimo può accogliere tremila migranti l’anno. Proprio gli ultimi quindici giorni squadernano il punto politico di fondo. Mentre riparte l’ennesima nave per l’Albania con quaranta poveri cristi, l’Africa, e in particolare la Libia, è un colabrodo come ha documentato Francesco Grignetti su questo giornale: 3354 migranti arrivati in due settimane. E, in fondo, anche il caso Almasri è una conferma della centralità della Libia, altro che Albania, e della preoccupazione di non far saltare il tappo. Neanche il peggiore dei criminali può essere definito spazzatura di Riccardo Maccioni Avvenire, 1 febbraio 2025 Le inaccettabili parole di Kristi Noem, stretta collaboratrice di Trump, sui migranti irregolari rivelano come sempre più che l’aggressività e la cattiveria siano considerati valori. No, la bontà non sta vivendo un momento felice. Da bambini era la morale della favola, il quid, quasi un superpotere, che alla fine del racconto, tra draghi ammansiti e falsi príncipi smascherati, premiava l’umile, il povero. Una virtù talmente affascinante da confonderla con la bellezza. E non era un errore perché con l’avanzare degli anni abbiamo imparato che spesso il bello educa al bene, purificando gli occhi, ammorbidendo il cuore, riempiendo i sogni di storie e visi felici. Poi qualcosa dev’essere andato storto, qualcuno ha messo un bastoncino a interrompere la ruota della storia, così da invertirne il giro. Difficile capire chi sia stato il primo a indicare in modo esplicito l’egoismo come motore del mondo, quale allenatore per giustificare una sconfitta abbia coniato la formula: “non siamo stati sufficientemente cattivi”, quando i leader hanno iniziato ad augurarsi reciprocamente ogni male. Di sicuro c’è stata un’escalation, con gli hurrà e gli scroscianti applausi a salutare la promessa-minaccia di realizzare la più grande “deportazione” (o “remigrazione”) di massa della storia. E qualcuno, nella gara che incorona il più cattivo è andato persino oltre. Abbiamo tutti sotto gli occhi l’immagine di Kristi Noem, la nuova segretaria alla sicurezza del governo Trump (l’equivalente del nostro ministro degli interni) che commentando il fermo di una persona irregolare ha scritto sui social: “Sacchi di immondizia come questi vanno rimossi dalle nostre strade”. E qui, anche il più comprensivo dei tolleranti prende le distanze, perché neppure il peggiore dei criminali è spazzatura, nessun uomo e nessuna donna è rifiuto, discarica, ciarpame. E al tempo stesso non esiste vita che non meriti di essere vissuta, senza alcuna eccezione. Credere il contrario significa alimentare la cultura dello scarto, che oggi riguarda i migranti e domani, in nome del profitto e di criteri esclusivamente utilitaristici, potrà estendersi ad altri soggetti considerati improduttivi come gli anziani, i malati, i disabili. Non si tratta naturalmente di ostacolare il cammino della legge, chi delinque va punito, ma di coniugare giustizia e umanità, come nella più banale delle definizioni del diritto. Una questione di attenzione minima, basica, che non ha bisogno neanche di richiamarsi al Vangelo, che non guarda per forza al buon samaritano, o al numero infinito delle volte in cui bisogna perdonare. La fede semmai chiede un passo in più, educa alla mitezza e alla misericordia, impegna, per quanto possibile, a capire, sotto la guida della Parola, la logica di Dio, per poi provare a imitarlo, accogliendo la sua volontà. Si dirà che la storia recente, dalla Shoah in giù, ha conosciuto momenti di gran lunga peggiori e che oggi semplicemente si dice in modo chiaro e diretto quello che fino a ieri veniva mascherato sotto un velo di ipocrisia e buona educazione. Può darsi, però mai, o quasi, prima, si sono rivendicate con altrettanta veemenza la cattiveria e l’aggressività come valori. E poi le parole costituiscono, potenzialmente un’arma, capace di ferire in profondità. Non a caso tra le torture, sono particolarmente subdole quella basate sugli insulti, sul colpire l’altro nelle sue debolezze, tirando fuori fragilità con cui faticava a fare i conti. È la strategia che prova a rendere l’avversario, il nemico una “non persona”, annullandolo per poi farne uso senza problemi, per i propri fini. I tagli guariscono, ha scritto un ragazzo in un post, le parole cattive fanno male per sempre. Una dichiarazione, per non dire una denuncia, di umanità, che riguarda tutti e ciascuno. E che di nuovo può interpellare la fede. Il Dio dei cristiani, infatti, avendo scelto di condividere la sua vita con la nostra ci invita a essere profondamente umani. Non si può invocarlo e pretendere di amarlo rifiutando il tempo, la storia, e quindi anche i difetti, le colpe, gli sbagli delle persone. Tantomeno pretendendo di esserne giudici supremi. “Il soprannaturale stesso è carnale” diceva Peguy, a confermare l’invito esplicito di sant’Agostino: “Passa attraverso l’uomo e giungi a Dio”. Il santo vescovo parla di uomini e donne nella loro totalità, comprese le parole. Che possono affondare nell’odio, nelle divisioni, o essere strumento per costruire un ponte tra terra e cielo. Come succede nelle fiabe. Quelle in cui vince la bontà. Degli ultimi, dei poveri, dei dimenticati. Venezuela. “Alberto Trentini è accusato di terrorismo, la situazione è difficile” di Gloria Bertasi Corriere del Veneto, 1 febbraio 2025 Vertice tra Brugnaro e Tajani sul cooperante veneziano in carcere. “È accusato di terrorismo, purtroppo la situazione è complicata”. Di Alberto Trentini, cooperante veneziano di 45 anni, non si hanno notizie da metà novembre, da quando è stato fermato a Guasdalito, in Venezuela, e poi tradotto in carcere a Caracas. Finora che potesse essere accusato di attività sovversive contro la repubblica bolivariana di Nicolás Maduro era solo un timore, rinfocolato dalle notizie diffuse dagli oppositori del presidente venezuelano, ma non c’era mai stata l’ufficialità. Che ieri è arrivata dal sindaco Luigi Brugnaro, a poche ore dal presidio organizzato dai suoi amici in piazza San Marco. “Abbiamo chiesto di poterlo incontrare - sottolinea Brugnaro - ci sono una serie di attività in corso. Il tema è seguito ma purtroppo la situazione è complicata”. Con un’accusa di terrorismo, precisa, “non si può intervenire su un Paese terzo”. A complicare la situazione di Trentini, che in Venezuela era arrivato in ottobre con il ruolo di coordinare di campo per l’ong Humanity & Inclusion dopo quindici anni di esperienze nella cooperazione internazionale, anche i rapporti tesi tra Italia e Maduro, la cui rielezione non è stata riconosciuta dal governo. La denuncia pubblica della sua scomparsa è arrivata a metà gennaio con la famiglia, assistita dall’avvocata genovese Alessandra Ballerini, a chiederne la liberazione: “Sono sessanta giorni e sessanta notti che non sappiamo nulla di mio figlio”, le prime parole della madre. “La Farnesina è al lavoro”, garantisce Brugnaro che nei giorni scorsi ha incontrato il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani. È il titolare della Farnesina che sta cercando di aiutare Trentini: il 16 gennaio ha visto l’incaricato agli affari esteri di Caracas e in quella circostanza ha chiesto la liberazione del cooperante e degli altri italo-venezuelani detenuti. “Non è una rappresaglia di Maduro, stiamo lavorando e non è il momento delle polemiche”, ha garantito il ministro due settimane fa. Da allora, non ci sono state più novità. Per sollecitarle, ieri pomeriggio, una quarantina di amici di Trentini, cresciuto a San Pietro di Castello a Venezia e laureatosi in Storia a Ca’ Foscari con due master nel Regno Unito, hanno srotolato lo striscione “Alberto Trentini libero” all’altezza del molo di San Marco. “La situazione è delicata - le parole di Luca Tiozzo, portavoce degli amici -, questo ritrovo vuole sensibilizzare tutti affinché l’attenzione sulla situazione di Alberto resti alta. Alberto è un uomo per bene, che dedica la sua vita ai più fragili e non ha mai usato la violenza in vita sua. Abbiamo bisogno di tenere alta l’urgenza anche per le sue condizioni di salute (soffre di pressione alta e deve assumere farmaci, ndr)”. Dalla famiglia, un messaggio disperato: “Non sentire e non vedere nostro figlio è una sofferenza intollerabile”. Al Lido, dove risiedono i Trentini dalla pensione, le parrocchie si sono riunite in preghiera e sabato 8 di fronte alla chiesa di Sant’Antonio (frequentata dai genitori) si terrà una fiaccolata alle 19.30. Intanto prosegue la raccolta firme sula piattaforma “Change.org”: a oggi in 41.200 hanno sottoscritto la petizione. Stando a fonti ufficiose, Trentini potrebbe essere detenuto nelle Oficinas del Saime, Dgcim ossia la sede del Servizio amministrativo di identificazione, migrazione ed immigrazione, Direzione generale del controspionaggio militare.