La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 19 febbraio 2025 Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni. Gentile ministro Nordio, quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all'interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all'affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti. In collaborazione con il dipartimento di architettura dell'università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti. Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto. (…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell'atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all'indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l'incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all'interno degli istituti di pena”. Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo. Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale? Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. E adesso, che succede? Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare. Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ------------------------------------------------------------------------------------- Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli. Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto? Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più. Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi nette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari. Gentile Dottor Nordio quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia. Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a me viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri. Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso. Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli. Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano? Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”. Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica. Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società? C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più. È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019, nel 2022 dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto. Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima. Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli. Carceri, torniamo alla Costituzione L’Unità, 19 febbraio 2025 Pubblichiamo l’appello a Governo e Parlamento sottoscritto dai maggiori studiosi italiani di scienze sociali, di sociologia del diritto e della devianza. 31 dicembre 2024, il Capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, ribadisce che le condizioni delle carceri italiane offendono la Costituzione, la quale indica norme imprescindibili sull’esecuzione della pena detentiva. Il sovraffollamento, certo, ma ancora di più e maggiormente pervasiva, “l’aria che si respira”, mefitica in senso letterale e metaforico: il riferimento inevitabile è all’infelice e deplorevole uscita del Sottosegretario di Stato per la Giustizia, di “non lasciare respirare chi sta dietro quel vetro oscurato”. Un’affermazione che attesta chiaramente una visione vendicativa e discreditante della pena. Intanto nel 2024, 90 persone si sono tolte la vita all’interno degli Istituti italiani. Una ogni quattro giorni, un livello che non ha precedenti nelle carceri italiane; il tasso è più alto per le donne e per gli stranieri. Vanno aggiunti i 7 suicidi di agenti di polizia penitenziaria. Le risorse del trattamento sono davvero misere. Il lavoro, sempre definito dai vertici del DAP il “perno del trattamento”, coinvolge meno di un terzo delle persone detenute (al 31 dicembre 2023 il 28%; ma si tratta di lavoro di “casermaggio”, dequalificato e a turni brevi, mentre solo il 5% - 3.029 persone sui più di 62.000 presenti - sono alle dipendenze di cooperative o imprese esterne). Nel primo semestre del 2024 i corsi professionali registrano 3.716 iscritti, pari al 6% della popolazione detenuta; i percorsi di istruzione, dal canto loro, coinvolgono solo un terzo della popolazione detenuta. Quanto al titolo di studio, per la metà della popolazione detenuta non è rilevato, né rilevabile. Della restante metà 18.085 persone (meno del 30% del totale) possiedono un diploma di scuola media inferiore. Ciò conferma lo stato di marginalità sociale della stragrande maggioranza dei reclusi, cui fa riscontro l’assoluta carenza di risorse trattamentali, quasi totalmente delegate ad enti esterni: enti di volontariato o cooperative, docenti o ministri di culto. Si tratta di una presenza caratterizzata da pesanti squilibri territoriali (concentrazione al centro-nord) e limitata dalla circuitazione penitenziaria di sicurezza, per cui in molte aree le attività trattamentali si riducono allo zero. Eppure, i presupposti per far fronte a questa situazione, a partire dalla decongestione del sovraffollamento, ci sarebbero. Quasi un terzo della popolazione detenuta potrebbe giovare facilmente di un provvedimento di clemenza limitato ai reati minori e a residui pena non superiori ai due anni. Le persone anziane o malate dovrebbero poter accedere alla detenzione domiciliare. Ben la metà della popolazione detenuta, e addirittura più del 60% dei condannati definitivi, risulta scontare pene brevi o un attuale residuo pena inferiore ai quattro anni, potendo quindi fruire di misure alternative: quelle stesse che si sono da tempo dimostrate utili a ridurre drasticamente la recidiva, così anche in conformità alle istanze di sicurezza e di difesa sociale. Inoltre, è risaputo che la stragrande maggioranza dei detenuti per reati connessi al consumo e al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti sono in realtà tossicodipendenti che andrebbero affidati a centri sociosanitari di recupero e reinserimento sociale. Lo stesso dicasi per gli affetti da disagio psichico. Ma, dice il Ministro Nordio, l’indulto “sarebbe un segno di debolezza” e difficilmente l’attuale governo lo percorrerà. La congiuntura reazionaria, oltre che una malintesa e trasversalmente condivisa accezione di “certezza della pena”, promettono solo il peggio. Di fronte a questa situazione e a tutte le buone ragioni per denunciare e protestare contro un regime illegale, il Governo, in senso contrario, introduce nuove fattispecie di reato e aggravi di pena, oltre ad emanare un provvedimento (DM 14 maggio 2024) che istituisce il Gruppo di intervento operativo del Corpo di Polizia penitenziaria (GIO), finalizzato al controllo delle proteste e dei conflitti interni. A ciò si aggiunge il recente progetto di “scudo penale” per le forze dell’ordine, orientato quantomeno a neutralizzare il reato di tortura. In coerenza con queste prospettive fa la sua apparizione il Calendario 2025 della Polizia penitenziaria: una raccolta di immagini fuorvianti e pericolose che invocano la militarizzazione del Corpo di polizia, oggi a ordinamento civile, promuovendo un addestramento finalizzato all’utilizzo delle armi e delle tecniche di contenimento violento. A ciò si aggiunge il rifiuto della richiesta, da lungo tempo anche estesamente condivisa, di rendere identificabili gli agenti nel loro operato. Anche il Capo dello Stato ha fatto riferimento alle deplorevoli condizioni di lavoro in cui opera la polizia penitenziaria, dovute a sovraffollamento e carenze di organico, certo; ma forse anche all’essere chiamata alla gestione della quotidianità detentiva attraverso un’estenuante mediazione dei conflitti alla quale non è minimamente formata e che evidentemente non interessa a nessuno. Il video “pubblicitario” che presenta il calendario è gravemente fuorviante soprattutto per le nuove reclute, che così si vorrebbero motivate e selezionate come per andare alla guerra, per poi ritrovarsi a dover gestire sofferenza e miseria nelle sezioni sovraffollate, navigando a vista secondo un operare che, in caso di fallimento, si affida ai rapporti disciplinari. Alla luce di questa complessiva situazione, in quanto studiosi e docenti di scienze sociali, di sociologia del diritto e della devianza, sollecitiamo adeguati provvedimenti per ricondurre il settore penitenziario ai principi costituzionali, invertendo le imperanti tendenze sicuritarie verso sostanziose politiche di sicurezza sociale. In particolare, chiediamo al Governo e al Parlamento un intervento rivolto alla riduzione immediata del numero dei reclusi e al finanziamento di progetti di sostegno e integrazione sociale. La lezione scozzese: rilascio anticipato per 390 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2025 Con un surplus di appena 300 unità su 8.000, è stato avviato un piano per rendere gli istituti vivibili. Mentre in Italia è il caos: il sovraffollamento è di oltre 10mila reclusi, con un alto tasso di suicidi. Mentre l’Italia naviga in acque tempestose, tra carceri trasformate in polveriere e un drammatico aumento dei suicidi, la Scozia imbocca una rotta alternativa. Oltremanica, il governo scozzese ha deciso di puntare su coraggio e pragmatismo per risolvere una crisi che nel Belpaese sembra ormai cronica: il sovraffollamento carcerario. Se da noi le celle strapiene - con oltre 10mila detenuti in più rispetto alla capienza ufficiale - alimentano un circolo vizioso di illegalità e degrado, Edimburgo risponde con un piano rivoluzionario: il rilascio anticipato di 390 detenuti. Non un gesto dettato dalla resa, ma una strategia calibrata che potrebbe scrivere un nuovo capitolo nella storia della giustizia penale europea. Annunciato a settembre dalla ministra della Giustizia Angela Constance, il provvedimento riduce dal 50% al 40% la percentuale di pena da scontare per reati minori (condanne inferiori ai 4 anni). Attenzione però: nessuno sconto per chi si è macchiato di violenza domestica o reati sessuali. “Questa non è clemenza, ma responsabilità”, ha chiarito la ministra Constance durante la conferenza stampa. “Vogliamo alleggerire le prigioni per concentrarci sulla riabilitazione e sulla sicurezza reale”. Un calcolo preciso: -5% di popolazione carceraria, per riportare il sistema sotto la soglia critica di 8.007 posti, oggi superata con 8.300 detenuti. Il paradosso è stridente. La Scozia, con il suo “solo” 300 detenuti oltre la capienza, agisce tempestivamente. L’Italia, sommersa da un surplus di 10mila unità, resta paralizzata. Eppure i dati parlano chiaro: secondo il Consiglio d’Europa, il nostro tasso di suicidi carcerari (7,6 ogni 10mila detenuti) triplica quello scozzese. Segnale di un sistema al collasso, dove il diritto alla rieducazione - sancito dall’articolo 27 della Costituzione - rischia di diventare carta straccia. Niente liberazioni selvagge. Il governo ha strutturato l’operazione in tre ondate precise: 18-20 febbraio: primo gruppo in libertà; 4-6 marzo: seconda fase operativa; 18-20 marzo: chiusura del piano. Un calendario serrato che permette alle autorità di monitorare ogni caso e garantire supporto post-carcere: alloggi temporanei, assistenza psicologica e corsi professionali. Quella scozzese non è una semplice misura emergenziale, ma un cambio di paradigma. Ridurre la popolazione carceraria significa restituire ossigeno a un sistema sofferente: più risorse per programmi di rieducazione, agenti meno stressati, celle che non siano incubatrici di radicalizzazione. E soprattutto, una sfida culturale: dimostrare che la sicurezza non si misura in anni di galera, ma nella capacità di reinserire. E in Italia che cosa si fa? In Italia, la situazione è decisamente più grave, ma nessuna iniziativa governativa all’orizzonte. Secondo Irma Conti, del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, nel nostro Paese ci sono circa 19mila detenuti con pene residue fino a tre anni, che, secondo la normativa, potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative. Tuttavia, “la burocrazia e la carenza di risorse creano ostacoli”, ha sottolineato con forza la Garante. Ricordiamo che, dall’inizio del nuovo anno, si sono già registrati 12 suicidi nelle carceri italiane. L’ultimo episodio è avvenuto lunedì scorso al carcere di Pescara, dove un giovane detenuto egiziano di 24 anni, tossicodipendente, si è tolto la vita impiccandosi. Da quell’evento sono scoppiati tumulti: alcuni detenuti sono riusciti ad arrivare sul tetto, mentre altri hanno dato fuoco ai materassi. Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista Voci di dentro, che raccoglie contributi da tutte le carceri d’Italia e che si è recato sul posto, ha riferito all’Adnkronos: “C’è la polizia e un forte clima di tensione. Si assiste al viavai di ambulanze che portano in ospedale i detenuti intossicati. Tutto ciò è frutto di anni di mala gestione da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Qui dovrebbero esserci 240 detenuti, ma in realtà ce ne sono 440, il doppio. In alcune celle convivono fino a sei persone, prive persino di brande, con i materassi posizionati a terra. Una situazione che era già al limite”. La settimana precedente si erano verificati due suicidi nel giro di poche ore. Il primo venerdì pomeriggio a Prato, dove un detenuto d’origine nordafricana, poco più che ventenne, ha perso la vita inalando il gas della bomboletta da campeggio utilizzata per la preparazione dei cibi. Il secondo è accaduto sabato all’alba presso la casa circondariale di Sollicciano, dove un recluso rumeno di 39 anni si è impiccato nel bagno della sua cella. Giuseppe Fanfani, garante per la Regione Toscana dei detenuti, ha commentato la situazione al termine del secondo suicidio nel carcere fiorentino di Sollicciano: “Ormai le parole non bastano più. Non basta indignarsi, esprimere cordoglio o organizzare visite per toccare con mano la drammatica situazione di carceri fatiscenti, dove tutto sembra possibile tranne la riabilitazione e una vita dignitosa. Se questo stillicidio di tragedie non viene interrotto, saremo tutti complici”. Sulla stessa struttura, Fanfani ha dichiarato con fermezza: “Deve essere abbattuta e dismessa. Non risponde ad alcuno dei requisiti e delle finalità previste dalla Costituzione”, aggiungendo che l’istituto di Prato si trova “sostanzialmente nelle stesse condizioni di Sollicciano”. Concludendo, il garante ha affermato: “Non ci si suicida per caso. Si sceglie di morire a trenta anni quando si è sopraffatti dalla disperazione, dalla mancanza di speranza o anche solo da una parola di conforto. In carcere manca tutto, ma soprattutto manca una prospettiva di riabilitazione e reinserimento. Nessuno, in tutti questi anni, ha compreso o avuto il coraggio di affrontare questo impegno, e la politica in genere ha dimostrato di non essere né disponibile né preparata. Questo sistema detentivo genera solo disperazione e morte”. Mentre la Scozia dimostra come interventi tempestivi e innovativi possano trasformare il sistema penitenziario, offrendo una via d’uscita al sovraffollamento e promuovendo la riabilitazione, in Italia permangono criticità che mettono a rischio la vita e la dignità dei detenuti. La contrapposizione tra i due scenari evidenzia l’urgenza di riforme strutturali e una maggiore attenzione alle esigenze umane, affinché anche il nostro sistema possa evolversi in un modello sostenibile e soprattutto non anticostituzionale. Mentre da noi si discute addirittura di inasprire la detenzione, la Scozia scrive un manuale di buone pratiche. Con un messaggio chiaro: la giustizia che protegge davvero non si accontenta di punire. Deve osare, reinventarsi, guardare oltre le sbarre. Ecco perché la mafia c’entra con suicidi e sofferenze nelle nostre carceri di Sebastiano Ardita* Il Dubbio, 19 febbraio 2025 In una recente intervista al Corriere della Sera rilevavo come la capacità della mafia di controllare il carcere e continuare le attività criminali all’esterno fosse diretta conseguenza di alcune scelte di gestione che danno la possibilità ai detenuti più pericolosi e mafiosi di muoversi liberamente. Secondo l’Osservatorio sulle carceri delle Camere penali, le mie considerazioni “oltre a non essere suffragate… da dati certi”, finirebbero “per alimentare una pericolosa disinformazione dell’opinione pubblica”, che sarebbe “indotta, così, a coltivare logiche di estrema inciviltà, condensate nelle aberranti frasi del “gettare la chiave”, del “marcire in carcere” o “togliere il respiro ai detenuti”. Il comunicato contiene un difficoltoso tentativo di difendere il regime penitenziario c.d. aperto, attraverso un capovolgimento dei dati sulle criticità che ne sono conseguite. Tali dati - che mi sono stati trasmessi in via ufficiale dal Garante Nazionale quando ero componente del Csm - non dicono ma urlano che all’indomani dell’introduzione del regime aperto - a partire dal 2012 - vi è stata una impennata di aggressioni, di violenze, di introduzione illegale di telefoni, di atti di autolesionismo e di suicidi. Una oggettiva moltiplicazione di tutte le espressioni di disagio e di sofferenza della popolazione detenuta. Di tale palmare evidenza non vi è alcun riconoscimento nel comunicato; ma con un contorsionismo concettuale si fa riferimento ad un aumento di eventi critici come conseguenza di una non meglio precisata chiusura delle celle - che sarebbe avvenuta a partire dal 2020 - della cui effettiva attuazione non vi è traccia, e che è comunque smentita dagli esiti della recente inchiesta di Palermo. Sarebbe stata molto più lineare l’analisi di ciò che era il carcere nel 2012 - prima dell’esordio del regime aperto - e ciò che è divenuto poi: un luogo nel quale si è perduto il controllo pubblico degli spazi e si è privato di ogni privacy i detenuti più deboli. Alle regole dello Stato si sono sostituite quelle della autogestione criminale. Al sostegno psicologico e all’accoglienza si sono sostituite - come conseguenza delle celle aperte - le Piazze di spaccio gestite dentro il carcere dalla mafia e la cessione di droga ai detenuti che avrebbero necessità di intervento psichiatrico. Un annientamento personale che non è stato neppure preso in considerazione dai sostenitori delle celle aperte per valutare l’impennata dei suicidi. Affrettarsi a tenere fuori la gestione mafiosa delle carceri dal disastro del trattamento penitenziario significa offrire una spiegazione semplificata che finisce per coprire le gravi e specifiche responsabilità, facendole annegare in una imprecisata “incapacità di gestione del settore penitenziario e fallimento delle politiche praticate negli anni da tutti i governi, a prescindere dal colore”. Il che è semplicemente un modo per assolvere tutti e lasciare le cose come stanno. Il passo indietro compiuto dallo Stato con quello specifico atto ha travolto i detenuti più umili e disponibili ad accogliere l’intervento sociale e la rieducazione. Chi non comprende questo non ha idea di cosa sia il carcere e aderisce alla favola secondo cui i normali detenuti - gli ultimi - siano felici della introduzione delle celle aperte. Veniamo al nesso tra l’introduzione della circolare del 2015 indicata nel comunicato (ma non è l’unica) e la mafia. Quella circolare - viene affermato - non riguarderebbe il regime alta sicurezza. Si tratta di una affermazione destituita di ogni fondamento. È vero infatti che la circolare dichiara di rivolgersi soltanto alla media sicurezza, ma in un passaggio - ai limiti della dissimulazione dei suoi effetti - in essa si afferma che i detenuti in alta sicurezza devono stare aperti per 8 ore così come avrebbero già stabilito non meglio precisate autorità europee. Con questo espediente, mentre dichiara di non volersi occuparsi degli A. S., incidentalmente dispone per la prima volta di lasciare aperte per 8 ore le celle dei mafiosi che prima rimanevano chiuse. Un fatto se vogliamo ancor più grave e significativo è che proprio a partire dal 2015, quando gli eventi espressione del disagio iniziarono ad avere una moltiplicazione geometrica, il Dap ha smesso di produrre e diffondere la sua brochure semestrale sugli eventi critici. Neanche di questa circostanza qualcuno è stato chiamato a dare una spiegazione. Ma l’aspetto più singolare del comunicato dell’Osservatorio riguarda la presa di distanza dalla questione fondamentale, una mancanza che assomiglia ad una voragine: non c’è nessun tentativo di spiegazione del perché il potere mafioso abbia assunto il controllo delle carceri. Se il primato dello Stato nelle carceri non si riconosce come urgenza umanitaria, prima ancora che securitaria, indirettamente si rischia di sottovalutare la gravità dell’autogestione che prolifera nel disordine e si finisce per accettare la sostituzione del potere pubblico con il potere criminale. E questa preoccupazione non è quella di una parte - affermazione inaccettabile con la quale si vorrebbe screditare una idea sulla base della sua provenienza - ma dovrebbe essere di ogni cittadino che crede nel rispetto delle persone detenute, e vuol garantire loro una vita migliore e la speranza di uscirne in condizioni che consentano la ricostruzione di una vita. Tutti possono cambiare e possono essere difesi, anche i mafiosi; ma la mafia, con i suoi metodi, non cambia e non può essere chiamata fuori. Se la si fa comandare in carcere, i reclusi stanno male e lo Stato ha perso. Ecco perché la mafia c’entra eccome con i suicidi e con la sofferenza dei detenuti. *Procuratore Aggiunto a Catania Nella casa per le madri detenute la speranza vive assieme ai figli di Giorgio Paolucci Avvenire, 19 febbraio 2025 Le storie di Angelina e Carmen, ospiti delle case-famiglia di “Ciao”, raccontano la possibilità di un reinserimento sociale capace di garantire ai bambini un’infanzia più serena. Un progetto di accoglienza alternativo al carcere permette di scontare la pena in un ambiente familiare “È stata dura, molto dura. Il carcere mi ha temprato, mi ha costretto a fare i conti con i miei errori e con il dolore che avevo provocato. Prima che a me stessa, ai miei figli, vittime innocenti. Tra le mie quattro figlie, lei è quella che sta pagando il prezzo più alto”. “Lei” è Veronica, una pulce di quattro anni con due occhi luminosi che contemplano quelli di mamma Angelina. Nella sala giochi ci sono altri tre bambini, ospiti insieme alle madri di una casa famiglia protetta per donne detenute al quartiere Stadera di Milano. Si chiama Ciao, è la prima fondata quindici anni fa in Italia alla quale se ne è aggiunta una analoga a Roma. Tre alloggi per l’autonomia che possono ospitare sei donne e sette bambini, una sala di condivisione, la ludoteca e un lungo corridoio all’ultimo piano di un edificio messo a disposizione dalla parrocchia dei Quattro Evangelisti. Un’esperienza di alternativa alla detenzione in carcere nella quale si continua a scontare la pena, si costruiscono ponti con la società in vista di un reinserimento pieno, si offre ai bambini un ambiente adeguato alla crescita e al consolidamento di legami affettivi, e alla madre detenuta la possibilità di coltivare la propria maternità e acquisire la capacità di gestire una relazione equilibrata con il figlio. Prima di approdare qui, Angelina è passata dal carcere di Como e dall’Icam di San Vittore a Milano, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (in Italia ce ne sono cinque). “ Lì è certamente meglio che in prigione, ma Veronica aveva compreso molto bene la situazione: capitava che alla sera metteva in un sacchetto un pannolino, una bottiglia di latte e un giocattolo, prendeva per mano un altro bimbo e gli diceva “vieni a casa mia”, poi chiedeva all’assistente di aprire il blindo. Non ci voleva stare lì dentro, come è naturale che sia…”. E lei, mamma Angelina, come trovava le parole per dire la verità alla figlia? “Come può farlo una madre: “Mamma ha fatto la monella, per questo deve stare in punizione...”. Poi provavo a distrarla con un gioco e lei non ci pensava più. Ma quei giorni l’hanno segnata per sempre”. Ora che da tre anni sono ospiti di Ciao le cose sono molto cambiate, vivono in un ambiente formato famiglia, con relazioni significative in comunità, a scuola, nel quartiere. “Qui incontro operatori che hanno creduto in me, non mi hanno giudicato e sono diventati compagni di strada. Con loro ho imparato a togliermi la maschera, a comunicare emozioni che per tanto tempo avevo represso nella convinzione di essere una donna sbagliata. E sono nate anche amicizie con le altre donne: la sofferenza unisce, ci fa sentire bisognose dell’altro”. Angelina lavora in una mensa scolastica, periodicamente insieme a Veronica va a trovare il marito in carcere “perché lei non vede l’ora di passare qualche ora con il suo papà, lo riempie di baci e gli chiede “quando torni?”“. Educatori, psicologi, psicoterapisti e gli altri operatori di Ciao, in rete con i servizi pubblici, lavorano per favorire in ogni modo il diritto del bambino di crescere con la madre in maniera equilibrata. Alla frequenza scolastica si accompagnano laboratori di psicomotricità, arteterapia, gite, vacanze, momenti di festa, tutto ciò che può contribuire a farli sentire in una casa. Perché l’obiettivo fondamentale è che non ci siano più bambini in carcere: di cosa potrebbero essere dichiarati colpevoli? “Mamma sempre e ovunque” è il nome del progetto messo a punto in questi anni, raccogliendo la sollecitazione delle istituzioni penitenziarie a ospitare in luoghi diversi dal carcere le mamme detenute con i loro bambini, come auspicato dalla legge 62 del 2011 che stabilisce un principio meritorio senza però prevedere capitoli di spesa per realizzare lo scopo. In questi anni il sostegno economico è arrivato da campagne di raccolta fondi, donazioni private, convenzioni con il Comune di Milano e finanziamenti della Regione Lombardia figli di un emendamento alla legge di bilancio. Ma si è ancora lontani dal mettere a sistema un aspetto vitale per la continuazione di un’esperienza che cerca di attuare la funzione rieducativa dell’esecuzione penale, come viene enunciata dalla Costituzione. “Non ci sono certezze economiche per il futuro, ma noi insieme agli operatori siamo certi di essere nel posto giusto e andiamo avanti”, chiosa la presidente Elisabetta Fontana, pedagogista, uno sguardo che sprigiona passione per la vita. La madre è stata tra le fondatrici di Ciao, un acronimo che sta per “camminare insieme con amore verso Opera” perché l’origine di questa storia è nell’amicizia che univa un manipolo di volontari che frequentavano la Casa di reclusione alle porte di Milano. Lei fin da piccola ha respirato in famiglia il profumo della carità, ha alle spalle due anni di lavoro in Kosovo con la Caritas, il marito Andrea Tollis è il direttore di Ciao, i due figli qui sono di casa, amici e beniamini dei piccoli ospiti: una vocazione formato famiglia, un’esperienza totalizzante che richiede il sacrificio di essere sempre a disposizione ma restituisce la gioia di vedere esistenze trasformate e rilanciate. Elisabetta si definisce una donna “abbracciosa”: “Mi sento un po’ la mamma di queste mamme e dei loro figli, mi piace abbracciarle e loro mi chiedono abbracci. Accoglienza e condivisione sono le nostre parole d’ordine, qui la fragilità è all’ordine del giorno, ma in fondo non è un po’ così nella vita di tutti? Quando qualcuna va in crisi, la porto a leggere insieme a me il cartello che abbiamo messo in corridoio: “In questa casa siamo reali, a volte sbagliamo, ci divertiamo, diamo seconde possibilità. Chiediamo scusa, ci abbracciamo, siamo vitali, perdoniamo. Siamo una famiglia”“. Carmen si è lasciata alle spalle dieci anni di carcere, nel 2015 venne accolta a Ciao insieme al figlio di tre anni con una misura di affidamento ai servizi sociali, poi è andata in Campania con il compagno dell’epoca per ricostruire una vita nuova ma la realtà non ha rispecchiato le sue aspettative. Accolta nuovamente in comunità, oggi vive in un appartamento esterno alla casa famiglia protetta dove segue un percorso finalizzato all’autonomia. “La galera mi ha costretto a riflettere, mi ha fatto diventare una donna più forte, fino alla decisione di dare un taglio netto con il passato. Abitavo in un campo rom, facevo furti per vivere, mi sono resa conto di quanto fosse sbagliato prendere le cose degli altri e che non potevo rimanere schiava delle leggi del clan. Venire qui ha significato decidere per un cambiamento radicale, con l’aiuto degli operatori ho cominciato una strada nuova: mi sono messa in regola con i documenti, ho trovato un lavoro in un’impresa di pulizie, i miei due figli minori vanno a scuola e desiderano un futuro pulito. Ho chiesto il battesimo cattolico scegliendo due educatrici come madrine, era un modo per stringere un legame ancora più forte con le persone incontrate in questo posto. Quando hai bisogno, loro ci sono sempre. Ti aiutano a sperare”. Cosa direbbe a una mamma che si trovasse nella condizione in cui viveva dieci anni fa? “Le direi di non essere succube di altre persone che le impongono quello che deve fare. Di ascoltare la voce del cuore, e di trovare il coraggio di staccarsi dalla vita cattiva. Per il suo bene, per quello dei suoli figli. Cosa mi ha salvato? Avere incontrato persone che vogliono il mio bene”. Doppio Csm e Alta corte: due, tre idee per riaprire il dialogo tra toghe e politica di Alberto Cisterna Il Dubbio, 19 febbraio 2025 “Alea iacta est” si potrebbe dire con uno stilema abusato. Il 27 febbraio le toghe sciopereranno in difesa della Costituzione e contro il progetto di riforma all’esame del Parlamento. Qualche giorno dopo il presidente dell’Anm sarà ricevuto a palazzo Chigi per un incontro, non solo sollecitato da Cesare Parodi, ma tutto sommato reso anche necessario dal rinnovo dei vertici associativi dopo le recenti elezioni. In quali condizioni l’Anm giungerà al rendez-vous dipenderà da alcuni fattori al momento non facilmente identificabili. In uno scenario positivo, con una grande maggioranza di astensioni dal lavoro giudiziario e con una solidale partecipazione della pubblica opinione, c’è da immaginare che l’incontro partirà lo stesso con un sensibile, ma tuttavia non insuperabile disallineamento delle forze contrapposte. Una forte maggioranza di astensioni è, comunque, un segnale che la politica non può trascurare. Se i pianeti non dovessero allinearsi e la congiuntura volgesse al peggio, la posizione delle toghe ne risulterebbe, invece, ancor di più infragilita e sarebbe un sostanziale “via libera” alla riforma e al suo temibile referendum popolare. Il dado scorre sul tavolo e non deve sottovalutarsi il fatto che l’apertura della premier Meloni alla nuova leadership dell’Anm ha prodotto crepe tra le toghe, in parte timorose che possano raggiungersi accordi al ribasso sulla riforma che la corporazione non dovrebbe o potrebbe tollerare. Ora, escluso che l’incontro serva a ribadire posizioni ampiamente note o a stringere scellerate intese, è chiaro che l’Anm dovrà presentarsi con una proposta di dialogo che consenta una mediazione realistica. Lungo questa traiettoria è evidente che il doppio Csm e l’Alta Corte disciplinare sono due territori ampiamente negoziabili della riforma. La costituzione di un potere inquirente, costituzionalmente speculare al potere giudicante, rappresenta la solita eterogenesi dei fini che affligge i più radicali progetti riformatori. Anziché “accontentarsi” di dar vita a una più robusta separazione delle carriere con la costituzione, a esempio, di una sezione autonoma dei pubblici ministeri, analoga a quella esistente per i giudici onorari presso i Consigli giudiziari o a dar corso alla Costituzione vigente che già prevede che “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (articolo 107) - con la possibilità di approntare un apposito ordinamento giudiziario per la magistratura requirente, con regole, carriere e percorsi distinti da quelli dei giudici - la maggioranza politica ha deciso di creare un nuovo potere costituzionale che spacchetta quello giudiziario e si erge ad autonoma istituzione della Repubblica. Un moloch che tutti avvertono come pericoloso e sostanzialmente sottratto a qualsivoglia controllo con al vertice addirittura un organo di autogoverno presieduto, si badi bene, dal Presidente della Repubblica, a conferma della primaria rilevanza costituzionale del nuovo soggetto. Ora, dovrebbe essere abbastanza semplice spiegare alla pubblica opinione e, in primo luogo, all’avvocatura associata nelle Camere penali che una costruzione di questo rango comporta immediatamente l’upgrading costituzionale e, quindi, politico e, quindi, processuale del pubblico ministero; immacolato sacerdote di un potere che esplicita e contiene la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di tutti i cittadini e ne interpreta le condotte in vista del processo. Per giunta una corporazione collocata in un recinto professionale insuperabile e inattingibile cui accederanno, per concorso, tutti coloro che avvertono la vocazione ideale di essere rappresentanti di una siffatta potestà, senza alcun contatto formativo - neppure embrionale - con la giurisdizione, come pure oggi accade. Più ostico il discorso che riguarda l’Alta Corte disciplinare. La volontà di decontaminare la giustizia domestica del Csm dalla presenza delle correnti non ha mai avuto veri oppositori. È interesse di tutta la corporazione che il giudizio disciplinare, che è innanzitutto un pronunciamento deontologico, provenga da soggetti scevri da condizionamenti correntizi o immuni da spinte di appartenenza. Tuttavia, la magistratura sarebbe l’unica istituzione che collocherebbe la giustizia disciplinare fuori dal perimetro dell’autogoverno, affidandola a soggetti sostanzialmente e formalmente terzi. Questo può ergersi a minaccia grave per il funzionamento della giustizia disciplinare che ha bisogno, con l’alta sorveglianza della componente laica chiamata al presiederla, di magistrati che conoscano il funzionamento della macchina giudiziaria, ne intuiscano le difficoltà e le insidie, ne comprendano i rischi di disallineamento dalle prescrizioni comportamentali. Il tutto, ossia, senza la meccanicistica e asettica constatazione della violazione. Il ché non equivale a un insensato perdonismo (di cui, invero, la giurisprudenza del Csm è esente, dati alla mano), ma alla necessità di rendere il giudizio disciplinare realmente performante, adeguato e capace, quindi, di orientare i comportamenti di tutti i magistrati. Il rischio è che, restando l’iniziativa disciplinare in mano al procuratore generale della Cassazione e al ministro della Giustizia anche per i giudici, l’” alta” sentenza disciplinare si risolva nella mera, asettica constatazione della formale corrispondenza della condotta dell’incolpato al precetto sanzionatorio, senza il retroterra di consapevolezze che è invece indispensabile per sentenziare in questa materia e per rendere il giudice disciplinare scevro dai condizionamenti culturali e ideologici di chi promuove l’accusa. Almeno su queste due punti, sarebbe lecito attendersi un’apertura da parte della premier allorquando si confronterà con i vertici dell’Anm dopo lo sciopero. Certo dipenderà dalle percentuali di adesione, da un gioco di numeri, anche se è bene ricordare che il poeta Giovenale considerava con sdegno il gioco dei dadi: “quando mai fascino uguale vi fu nel gioco? Nelle bische non si va più con una borsa, come posta ci si gioca la cassaforte” ossia tutto. Carriere separate: dialogo o chiusura? Adesso è alta tensione nel Governo di Valentina Stella Il Dubbio, 19 febbraio 2025 Palazzo Chigi sarebbe pronto a mediare con la magistratura, ma il ministero della Giustizia non sarebbe disposto a modificare il ddl già approvato alla Camera. È tensione tra Palazzo Chigi e via Arenula in merito alla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Dalla presidenza del Consiglio ci sarebbe l’intenzione di aprire a possibili modifiche, mentre il ministero della Giustizia non sarebbe pronto ad alcuna trattativa con l’Associazione nazionale magistrati. In fondo Nordio l’ha definita “la madre di tutte le riforme” e svuotarla in qualche sua parte sarebbe una sconfitta sia simbolica che politica. Per spiegare meglio cosa starebbe succedendo partiamo da una dichiarazione resa ieri dal deputato di Forza Italia, Enrico Costa, che ha commentato i dati relativi alle azioni disciplinari svolte nei confronti dei magistrati responsabili direttamente o indirettamente per le ingiuste detenzioni, come emerso dalla Relazione al Parlamento fornita sul tema: su circa 5000 ingiuste detenzioni dal 2018 al 2024 “solo 9 condanne, sanzionato lo 0,15% degli errori”. I responsabili per Costa? “I magistrati fuori ruolo a via Arenula, poco propensi ad avviare azioni contro i loro colleghi”, ma “le responsabilità di questa indecente situazione sono in gran parte della politica, che continua a spendere tante parole, ma accetta passivamente questo conservativo status quo”, ossia quello di una magistratura che non paga mai in prima persona per i propri errori. Le parole pronunciate dall’azzurro Costa si collegano alle indiscrezioni che abbiamo raccolto in questi giorni e in parte già raccontato, ma ogni ora trovano altre conferme. Ci sarebbe appunto un atteggiamento ambiguo che in quest’ultimo periodo stanno assumendo il governo e una parte della maggioranza, in particolare Fratelli d’Italia, nei confronti della magistratura. Ricordiamo che da due settimane l’Anm ha un nuovo presidente, Cesare Parodi, che per la sua appartenenza a Magistratura indipendente e per uno stile comunicativo meno barricadiero rispetto all’ex vertice del “sindacato” delle toghe, Giuseppe Santalucia, sarebbe più gradito all’esecutivo, soprattutto al sottosegretario Alfredo Mantovano. Da qui l’ipotesi di una apertura al dialogo che prevedrebbe prima però, su indicazione di consiglieri molto vicini alla premier Giorgia Meloni, uno stop momentaneo ad alcune iniziative parlamentari volte ad inasprire ancora di più i rapporti con le toghe. Come più volte ripetuto, la premier il 5 marzo incontrerà l’Anm. Palazzo Chigi e una parte del partito della presidente del Consiglio sarebbe disposto a delle aperture verso Parodi e la sua Giunta esecutiva: c’è chi sostiene sul sorteggio non più puro ma temperato per i membri togati dei due Csm, chi proprio sulla possibilità di non prevedere più due diversi governi autonomi della magistratura, come anticipato dal Messaggero sabato scorso. Mentre, al contrario, da via Arenula parrebbe che si voglia andare dritti con il testo sulla separazione delle carriere già approvato alla Camera senza ipotizzare alcuna minima modifica al Senato. Unendo diversi puntini, comunque, non sarebbe inverosimile che una parte dell’esecutivo al momento stia cercando una tregua con la magistratura. Ad esempio la discussione sulla giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari si sta prolungando in commissione Giustizia della Camera, in quanto non sarebbero ancora arrivati neanche i pareri del Governo. Tuttora non è stato posto all’ordine del giorno il dibattito sulla “Commissione parlamentare di inchiesta sull’applicazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario e organizzazione della magistratura, di tutela della presunzione di non colpevolezza e di riparazione per l’ingiusta detenzione”, proposta sempre dal deputato Costa. Si registra anche una certa contrarietà alla proposta degli azzurri Costa/Calderone/Patriarca affinché gli atti specifici vengano trasmessi al Procuratore generale della Corte dei conti per l’esercizio, da parte dello Stato, di un’azione di rivalsa nei confronti del magistrato che ha causato una ingiusta detenzione. Insomma, una sorta di bastone e carota verso la magistratura che però sta destabilizzando una parte della maggioranza, soprattutto in Forza Italia, ma anche nella Lega. Infatti il Carroccio in questo momento sarebbe più in sintonia con Forza Italia sulla impossibilità di intavolare qualsiasi trattativa con l’Anm. La premier è pronta ad aprire una crisi all’interno della maggioranza proprio sull’unica riforma che viaggia spedita più delle altre? E quanto saranno utili a questo punto gli incontri chiesti dall’Anm ai gruppi parlamentari per partecipare le criticità della riforma? Qualcosa si potrebbe già intuire giovedì dal clima che si avvertirà in commissione Affari Costituzionali quando sarà audito Parodi. Ingiuste detenzioni: lo Stato paga, le toghe no: nove sanzioni in 7 anni di Valentina Stella Il Dubbio, 19 febbraio 2025 Ecco i dati riportati nella Relazione al Parlamento del ministero della Giustizia: nel 2024 risarcimenti per 26,9 milioni di euro. Nel 2024 lo Stato italiano ha pagato 26,9 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione. Dal 2018 all’anno scorso il totale della spesa è stata di poco superiore ai 220 milioni di euro. Nel 2024 le domande accolte sono state 552, il totale dal 2018 arriva a 4920 persone che sono finite in carcere per sbaglio. Sono solo alcuni dei dati riportati nella Relazione al Parlamento del ministero della Giustizia su “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione” relativi all’anno 2024. I distretti di Corte di Appello più significativi quanto ad entità numerica di richieste di risarcimento sono, mediamente, quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. Dalla relazione mancano però i dati relativi alle riforme di riparazione per gli errori giudiziari, ossia quando una persona viene riconosciuta innocente in seguito ad un nuovo processo di “revisione”, celebratosi dopo una condanna definitiva. Dal 2018 al 2024, si legge nella relazione, “quasi il 75% delle richieste di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta a motivo dell’accertata estraneità della persona ai fatti a lei contestati. Solo poco più del 25% circa delle richieste viene accolto per l’illegittimità della misura cautelare disposta, quale che sia stato poi l’esito del procedimento”. Le domande presentate nel 2024 sono state 1293: di queste ne sono state accolte il 46,6%, rigettate il 49,4%, dichiarate inammissibili il 4%. Dati che rispettano più o meno quelli degli anni precedenti. Secondo Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, giornalisti e fondatori dell’associazione Errorigiudiziari.com, “i casi di ingiusta detenzione effettivamente sono in diminuzione: nel 2023 furono 619, l’anno scorso 552. Con questi dati siamo abbondantemente sotto quel numero che si ripete spesso dei circa 1000 casi all’anno di riparazione per ingiusta detenzione. In realtà però non bisogna farsi trarre in inganno da tutto questo. Primo: il dato dei mille all’anno è un dato medio, da 33 anni a questa parte, cioè da quando si è cominciato a contabilizzare il numero delle ingiuste detenzioni. Secondo: sono aumentate nel corso degli anni le istanze di riparazione per ingiusta detenzione che vengono respinte. Quindi se è vero che sono diminuite i casi di ingiusta detenzione, ciò dipende soprattutto dal fatto che sta aumentando il numero di istanze respinte. Quando qualcuno presenta l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione è come se lanciasse una monetina, non sa mai se verrà fuori testa o croce. Per quanto riguarda il discorso dei costi: anche rispetto a questo, siamo assolutamente in linea con gli ultimi 33 anni. Abbiamo superato quota 900 milioni di euro negli ultimi 33 anni”. “Attenzione però”, concludono i due: “Sembrerebbe che lo Stato, non avendo più fondi nelle proprie casse, stia facendo di tutto per limitare le istanze di accoglimento. Sarebbe più utile, per studiare il fenomeno, che venisse accolta la proposta del deputato Costa di poter accedere a tutte le ordinanze - accolte e rigettate - per conoscere le motivazioni addotte dal giudice nell’uno e nell’altro caso”. C’è poi un capitolo dedicato ai “procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi”. Limitando l’analisi agli anni 2017-2022 che hanno visto tutti i loro procedimenti conclusi, nell’88,7% dei casi gli illeciti disciplinari si sono conclusi con esito positivo (assoluzione e non doversi procedere), mentre vi è stato esito negativo solo nel restante 11,3% dei casi (censura, ammonimento e trasferimento). In particolare, le azioni disciplinari dal 2017 al 2024 avviate verso i magistrati responsabili sono state 89, con il seguente esito: 44 non doversi procedere; 28 assoluzioni; 8 censure; 1 trasferimento; 8 ancora in corso. Quindi in totale, su circa 5000 ingiuste detenzioni “solo 9 condanne, sanzionato lo 0,15% degli errori”, ha criticato il deputato di Forza Italia Enrico Costa. Secondo il parlamentare, “un dato balza agli occhi: la progressiva riduzione delle azioni disciplinari promosse dal ministro della Giustizia. Nel 2017 sono state 11, 14 nel 2018, 22 nel 2019, 19 nel 2020, 2 nel 2021, 1 nel 2022, 3 nel 2023, 0 (zero) nel 2024”. Per il parlamentare azzurro “di questi numeri sono certamente responsabili i magistrati fuori ruolo di stanza in via Arenula, evidentemente poco propensi ad avviare azioni disciplinari nei confronti dei colleghi, anche quando questi colleghi tolgono la libertà a persone innocenti. Così come sia responsabile il Csm, che di fronte a 89 azioni disciplinari ha prodotto solo 9 sanzioni”. “I dati riportati portano ad una sola conclusione - ha concluso Costa - il magistrato che sbaglia non paga mai per i propri errori, neanche quando toglie la libertà a persone innocenti. Paga solo lo Stato. E le responsabilità di questa indecente situazione sono in gran parte della politica, che continua a spendere tante parole, ma accetta passivamente questo conservativo status quo”. Nordio s’è scordato la riforma del trojan di Paolo Comi L’Unità, 19 febbraio 2025 Uno strumento “incivile”, lo definì il ministro prendendo l’impegno a regolamentarlo. È trascorso più di un anno e non è cambiato nulla. Le intercettazioni abusive nei confronti di Casarini e Cancellato si sarebbero potute evitare. La riforma del trojan si è persa nelle secche di via Arenula. Le recenti intercettazioni abusive effettuate nei confronti di Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, e Luca Casarini, attivista della ong Mediterranea saving humans, molto probabilmente si sarebbero potute evitare se il ministro della Giustizia Carlo Nordio avesse dato seguito al suo impegno di regolamentare - una volta per tutte - l’utilizzo dei trojan, i micidiali virus informatici che non lasciano scampo agli smartphone. Il trojan è uno strumento “incivile” disse il Guardasigilli, affermando l’urgenza di una stretta su questo strumento. Nel 2017 era stato l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) ad introdurlo, affiancandolo così alle tradizionali intercettazioni telefoniche. Il captatore doveva essere utilizzato esclusivamente per il contrasto ai reati di eccezionale gravità, come quelli di mafia e terrorismo. Nel 2019, con l’avvento del grillino Alfonso Bonafede a via Arenula, il suo utilizzo venne però esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione, aumentando quindi a dismisura il suo impiego, con il concreto rischio di abusi. Come puntualmente è accaduto. Per stoppare il suo uso indiscriminato, essendo esso in grado anche di accendere le telecamere e di copiare tutti i dati presenti sul cellulare, il capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin, aveva depositato all’inizio della legislatura un disegno di legge per vietarlo nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione. “Con tale strumento viene registrata la vita privata, i gusti commerciali, l’orientamento sessuale, le preferenze sessuali. Ne vale la pena per il traffico di influenze o altri reati di questa natura. Chi conserverà questi dati? Che uso ne farà? Quali garanzie avranno i cittadini di un utilizzo corretto di questi dati?”, aveva affermato Zanettin. Un uso ‘distorto’ del trojan, si ricorderà, era avvenuto nel Palamaragate. “Le captazioni - precisò Zanettin - sono intervenute in relazione ad una ipotesi di reato, quella della corruzione (a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm, ndr), che la stessa Procura di Perugia che ha proceduto ammette e assume avvenuta molto tempo fa. Le loro trascrizioni, che dovevano rimanere segrete, sono invece finite su tutti i giornali prima ancora che venissero chiuse le indagini”. “In conseguenza di quelle intercettazioni, ben sei componenti dell’organo di autogoverno della magistratura, sotto una pressione mediatica e in taluni casi, almeno a mio giudizio - modesto, ma a mio giudizio - per comportamenti che reputo veniali, sono stati costretti alle dimissioni”, puntualizzò Zanettin, secondo cui “la composizione di quell’organo è stata alterata, anche, se vogliamo, sotto il profilo politico”. “Ecco - proseguì - quella del Csm è una vicenda piccola, circoscritta, ma, a mio giudizio, può essere paradigmatica di quali effetti distorsivi negli assetti democratici può avere l’utilizzo di metodi così invasivi”. “Io credo che un mezzo così pervasivo andrebbe utilizzato con la massima cautela e per questo ritengo che il Parlamento abbia sbagliato a introdurre l’utilizzo del trojan anche per i reati contro la pubblica amministrazione e allargare a dismisura l’utilizzo in generale di questo strumento dal carattere così pervasivo: noi stiamo vivendo una notte della ragione, una notte dello Stato di diritto”, concluse il senatore azzurro. La Commissione giustizia di Palazzo Madama, per la cronaca, fece anche una indagine conoscitiva sulle intercettazioni e sul trojan, chiamando esperti e professioni del settore. Il testo finale venne poi approvato dai parlamentari del centrodestra e da Ivan Scalfarotto di Italia viva. Votarono contro gli esponenti del Pd, del Movimento 5 stelle e dell’Alleanza Verdi Sinistra. La stessa Corte di Giustizia in tema di intercettazioni aveva peraltro messo dei paletti al riguardo. Nordio, prendendo la palla al balzo, a gennaio dell’anno scorso aveva preso in Parlamento l’impegno a regolamentare l’utilizzo del trojan, appellandosi all’articolo 15 della Costituzione sulla segretezza ed inviolabilità delle comunicazioni. Sono passati però dodici mesi e siamo ancora al punto di partenza. Con gli ascolti abusivi. Nel caso Cavallotti innocenti sacrificati per “vendicare” i martiri di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 19 febbraio 2025 La prevenzione è una distopia, un po’ come il mondo immaginato da Philip Dick in Minority Report. Un universo “so far away, so close”, per usare una suggestione di Marcello Fattore, rispetto a quello penale, nel quale a una sostanziale vicinanza delle sanzioni corrisponde una siderale distanza dei presupposti applicativi. Capita così, molto più spesso di quanto si pensi, che le persone assolte nel processo penale vengano tuttavia private di tutti i propri beni nel procedimento di prevenzione, molte volte iniziato, parallelamente al primo o dopo la sua conclusione con esito assolutorio. Ma capita anche che tutto ciò che orbita intorno al discorso sulla prevenzione, ne subisca la sinistra attrazione gravitazionale, fino a deformarsi e implodere nel deja vu di ripetitivi refrain e luoghi comuni. L’interrogazione parlamentare presentata dall’ onorevole Cafiero de Raho nel febbraio 2024 ne è un esempio paradigmatico. La somma distopia di un ex magistrato, che per decenni ha inflessibilmente difeso l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario dal potere politico, e che ora chiede alla politica (nazionale) di intervenire sulla magistratura (europea). La trita ricorsività degli argomenti a sostegno di tale richiesta: la prevenzione come pilastro della lotta alle mafie; il sangue dei martiri. Silenzio, assordante , sulle vittime innocenti di un sistema illiberale, implacabile e onnivoro; sulle fameliche riforme legislative che ne hanno ampliato a dismisura gli ambiti di intervento; sugli sconci interessi economici che ruotano intorno alle confische; sugli effetti desertificanti dell’economia legale, che attanagliano le regioni del Sud (come se ce ne fosse bisogno); sulle evidenti tensioni costituzionali di uno strumento che le Corti nazionali e convenzionali tengono da tempo sul filo di un equilibrio instabile; sugli sforzi che la giurisprudenza di legittimità, almeno da un decennio, profonde per dare alla prevenzione una comunque risicata apparenza di legalità. Nessuno di questi “fronzoli accademici”. Solo una chiamata alle armi, per giunta omissiva nel tacere che ormai, statisticamente, la prevenzione è più rivolta ai criminali comuni che ai mafiosi e del tutto inusuale nell’invocare pressioni governative sul Consiglio d’Europa. Ma è solo l’inizio di un nuovo circolo distopico, perché la risposta scritta del ministro Nordio pubblicata il 1 luglio 2024 è la perfetta endiade ideologica con l’interrogazione parlamentare. Anch’egli, per perfidia del fato, ex magistrato, il Ministro - che almeno non è dimentico delle sue battaglie per tenere la politica fuori dall’attività giurisdizionale e non si impegna ad “intervenire” sui Giudici europei - dopo aver sintetizzato le difese illustrate dal governo davanti alla Cedu, snocciola freddi dati “bellici”: solo nel 2022, 11.348 beni sequestrati e 3.065 confiscati, per un valore di oltre tre miliardi di euro i primi e di quasi ottocento milioni i secondi. L’esplicito riferimento alle dimensioni economiche del fenomeno, ostentato come qualcosa della quale andar fieri, è icastico: la prevenzione, in quattro o cinque anni, divora l’equivalente di una manovra Finanziaria. Una vasta ricchezza non sempre di provenienza illecita, ma sempre e per sempre dispersa, in quanto inserita in un circuito che non la valorizza, non la mantiene e spesso neanche la usa. Il Ministro non vede o non vuol vedere oltre i numeri: le persone schiacciate, i diritti difensivi negati, le decisioni sommarie, gli errori giudiziari, i patrimoni “alle ortiche”, il passato distrutto, il futuro negato. Tutto quel corredo di ingiustizia e dolore che la mostruosa legislazione di prevenzione porta con sé. Nessuno dei due, interrogatore e interrogando, già magistrati del Pubblico ministero, si cura poi di un paio di dettagli che evidentemente devono sembrar loro secondari, quasi insignificanti. È giusto, è opportuno, è lecito che il governo, che è parte del giudizio avanti la Corte Edu, si proponga di intervenire sui giudici per perorare la propria posizione e cercare il successo non con le proprie argomentazioni, ma giocando “sul limite estremo del campo di gioco”, come il personaggio di King Benny in Sleepers? Lo avrebbe mai perdonato a un avvocato, l’onorevole Cafiero de Raho quando era Pm? E poi, hanno presente i due magistrati/ politici che “gli imprenditori siciliani nel settore del gas” (i Cavallotti) hanno subito già anni di processi, carcere, sequestri, malagestio del loro patrimonio, per poi essere riconosciuti addirittura vittime di estorsione? E che la politica e, ancor di più, la magistratura dovrebbero soltanto chieder loro perdono, invece di escogitare stratagemmi per negar loro, ancora una volta, giustizia? Noi siamo sicuri che la Corte Europea saprà giudicare secondo Diritto sui ricorsi in materia di prevenzione presentati contro l’Italia. Non solo non si farà influenzare da ogni tentativo di condizionamento, ma saprà guardare con un inevitabile senso di ribrezzo a un sistema che brama il sangue degli innocenti per vendicare quello dei martiri. *Osservatorio misure di prevenzione e patrimoniali dell’Unione Camere Penali Italiane L’Italia fallisce l’obiettivo Pnrr sulla giustizia civile. Finanziamenti Ue a rischio di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 febbraio 2025 Nel 2024 le pendenze civili sono aumentate, facendo mancare all’Italia il target previsto dal Pnrr. Il mancato raggiungimento dell’obiettivo potrebbe comportare la perdita delle risorse europee. Nordio e il caos al Ministero. L’Italia ha mancato il raggiungimento di uno degli obiettivi più importanti previsti dal Pnrr sulla giustizia per il 2024. Si tratta della riduzione dell’arretrato civile: anziché diminuire, come era avvenuto dal 2021 in poi, nel 2024 le pendenze civili presso i tribunali sono aumentate a sorpresa del 3,5 per cento, raggiungendo quota 2.817.759, circa centomila in più del 2023. Rispetto al 2019 le pendenze sono calate del 91,7 per cento, contro l’obiettivo richiesto dal Pnrr del 95 per cento entro il 31 dicembre 2024. Emerge dalla relazione presentata dal ministro Carlo Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il mancato raggiungimento dell’obiettivo potrebbe comportare la perdita di finanziamenti destinati specificatamente al ministero della Giustizia, ma potrebbe anche influire sulle risorse assegnate allo stato italiano nel suo complesso. L’aumento inaspettato dell’arretrato civile pone a forte rischio il conseguimento del principale target richiesto dal Pnrr: la riduzione della durata dei processi civili. Alcuni segnali preoccupanti emergono già ora dalla relazione del ministero della Giustizia: la durata media dei procedimenti civili (il cosiddetto “disposition time”) nei tribunali è di 343 giorni, contro i 325 del 2023 (+5,5 per cento); ancora peggio va presso i giudici di pace, con una durata media di 379 giorni, contro i 341 del 2023 (+11,1 per cento). Sulla base di una proiezione dei numeri che arrivano dai diversi uffici giudiziari sarà pressoché impossibile centrare l’obiettivo più importante previsto dal Pnrr per la giustizia civile, cioè la riduzione del 40 per cento della durata media dei procedimenti civili entro giugno 2026. Altri segnali negativi arrivano sul fronte del personale. Il decreto n. 80 del 2021 ha previsto l’assunzione di 16.500 addetti all’ufficio per il processo, ma al 30 settembre 2024 risultano in servizio 8.804 persone. Lo stesso provvedimento ha previsto il reclutamento di figure professionali con diversi profili giuridico-amministrativi e tecnici a supporto delle cancellerie e delle altre linee di progetto in tema di digitalizzazione e di edilizia giudiziaria per complessive 5.410 unità, ma al 30 settembre scorso gli addetti in servizio risultano 3.101. Risultato: per quanto riguarda gli investimenti in ufficio per il processo e in capitale umano è stato utilizzato soltanto il 41,37 per cento del finanziamento del Pnrr, pari a oltre 2 miliardi di euro. Per l’edilizia giudiziaria risulta essere stato speso addirittura soltanto il 19,73 per cento del finanziamento Pnrr complessivo, pari a 411 milioni di euro. Nella relazione predisposta dal ministero della Giustizia si fa riferimento anche all’impegno assunto con la Commissione europea per la digitalizzazione del processo penale, anche attraverso l’applicativo processo penale (App). Proprio quello che, reso obbligatorio dal ministero a partire dal primo gennaio per il deposito di atti, documenti e memorie, ha subito mandato in tilt decine di tribunali e corti d’appello, costringendoli a rinviare l’entrata a regime del processo penale telematico. È evidente, insomma, che al ministero della Giustizia le cose non stiano funzionando a dovere. La ragione principale, rivelano fonti di Via Arenula, sta soprattutto nella confusione generata dalla centralizzazione dei poteri operata dal capo di gabinetto del ministro Nordio, Giusi Bartolozzi. Come raccontato da tempo su queste pagine, la “zarina di Via Arenula” ha accentrato a sé tutte le decisioni più importanti che competono al ministero, bypassando in maniera sistematica i vari capi dipartimento. Una modalità di operare che di certo mal si concilia con la definizione e soprattutto l’attuazione dei complessi piani di investimento previsti dal Pnrr, come dimostrano ora i risultati negativi (se si esclude il penale) messi nero su bianco dallo stesso ministero della Giustizia. Le incursioni di Bartolozzi nei dipartimenti e negli uffici di diretta collaborazione del ministro sono da tempo ritenute inaccettabili da molti capi degli uffici, che infatti negli ultimi mesi o hanno lasciato l’incarico (come il predecessore di Bartolozzi, il capo di gabinetto Alberto Rizzo, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, il direttore generale dei sistemi informativi automatizzati Vincenzo De Lisi, la direttrice dell’ispettorato Maria Rosaria Covelli, persino la capo ufficio stampa Raffaella Calandra) oppure non vedrebbero l’ora di farlo. Se Nordio intende invertire la rotta farebbe bene a cominciare a guardare a cosa succede all’interno del suo ministero. Il Governo vuole riaprire i tribunalini soppressi nel 2012: il totem della “prossimità” di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 febbraio 2025 Bassano del Grappa in Veneto, Lucera in Puglia e Rossano in Calabria: il sottosegretario Delmastro spinge per la riapertura dei piccoli tribunali chiusi con la riforma Severino. Il “no” di magistrati e avvocati: “Inutile e dannoso”. Dopo il populismo penale (con la creazione di una marea di nuovi reati e l’innalzamento generalizzato delle pene) e quello costituzionale (con l’inserimento nella Costituzione di buoni propositi, come quelli su ambiente, sport, animali e persino le isole, privi però di attuazione pratica), eccoci arrivati al populismo della geografia giudiziaria. Il governo ha intenzione di riaprire i piccoli tribunali soppressi nel 2012 con la riforma Severino, in nome della “giustizia di prossimità”. Nel 2012 la riforma elaborata dall’allora ministra della Giustizia Paola Severino operò la soppressione di 31 sedi di tribunale e delle relative procure, e di 220 sezioni distaccate di tribunale in tutto il territorio nazionale, in nome del risparmio per le casse pubbliche e anche di razionalizzazione della cosiddetta geografia giudiziaria. A distanza di tredici anni, il governo Meloni vuole invertire la rotta. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha annunciato un disegno di legge per la riapertura di alcune sedi soppresse. E due settimane fa, rispondendo a un’interrogazione al Senato, ha esplicitato la direzione che l’esecutivo intende seguire: “L’azione del governo sarà ispirata realmente al basilare principio della giustizia di prossimità, ampiamente richiamato in sede europea e facilmente sintetizzabile: più l’amministrazione della giustizia è vicina al cittadino, maggiori saranno le garanzie di tutela dei suoi diritti e dei suoi interessi”. Ma veramente riaprire delle piccole sedi di tribunale “sotto casa” serve a migliorare il servizio giudiziario, se poi a questi uffici vengono destinati una decina di magistrati, con poche risorse a disposizione e scarsissime, se non nulle, possibilità di specializzazione? Gli operatori della giustizia rispondono con un netto “no”. L’elenco delle sedi interessate dalla riforma non è ancora noto, ma Delmastro ha già preannunciato di stare pensando al ripristino dei tribunali di Bassano del Grappa in Veneto, Lucera in Puglia e Rossano in Calabria. Il primo, che dovrebbe prendere il nome di tribunale della Pedemontana, sarebbe destinato a occuparsi di alcune parti di territorio fra le province di Vicenza, Treviso e Padova. E qui, nel Veneto che si prepara alle elezioni regionali, che si è aperto il dibattito più intenso sull’opportunità di riaprire i “tribunalini”. La proposta del tribunale della Pedemontana (rilanciata con enfasi dall’altro sottosegretario alla Giustizia, il veneto Andrea Ostellari) ha trovato la contrarietà dei tre procuratori e dei tre presidenti dei tribunali di Vicenza, Padova e Treviso. All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’appello di Venezia, Carlo Citterio, ha parlato di “operazione nostalgica, slegata dalla realtà”, fatta di carenza di personale e risorse. Anche gli ordini degli avvocati delle tre province coinvolte hanno bocciato senza mezzi termini il progetto: “Se il nuovo tribunale verrà aperto, ciò determinerà una redistribuzione delle risorse che già operano presso altre sedi, che vedrebbero così accentuate le difficoltà in cui versano per essere private di risorse indispensabili e già insufficienti ad assicurare un servizio dignitoso: oggi nel Veneto manca mediamente il 10-12 per cento dei magistrati e circa il 30 per cento del personale di cancelleria”. Molto difficile, inoltre, immaginare che l’eventuale nuovo tribunale della Pedemontana possa operare con la celerità e la specializzazione richieste dal carico giudiziario, visto che “nel migliore dei casi saranno addetti una ventina di magistrati, che faticheranno a comporre i collegi in ragione delle incompatibilità e ai quali non sarà, nella sostanza, possibile assegnare la trattazione solo di alcune tipologie di controversie”. La riapertura dei “tribunalini” rischia anche di creare spaccature nella maggioranza. “Temo che un’ipotesi di tribunale della Pedemontana creerebbe un piccolo tribunale, un tribunalino nato morto e ammazzerebbe anche contemporaneamente il tribunale di Vicenza”, ha affermato il senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin. Mentre il governatore Luca Zaia ha espresso “grande soddisfazione per l’attenzione a una richiesta di un territorio veneto che rappresenta uno dei principali tessuti produttivi del paese”. Insomma, il tribunale della Pedemontana rischia di diventare persino un tema caldo in vista delle elezioni regionali venete. Reggio Emilia. Pestaggio nel carcere. “Incappucciare un uomo con una federa non è tortura?” di Andrea Aversa L’Unità, 19 febbraio 2025 Le dichiarazioni dell’avvocato Cimiotta dopo la sentenza che ha fatto discutere: “Attendiamo le motivazioni, pronti a impugnare la decisione del giudice”. “Ci lascia sbigottiti la pronuncia del Gup di Reggio Emilia in relazione alla derubricazione del reato di tortura in quello di abuso di autorità”, ha dichiarato l’avvocato Vito Cimiotta che sta rappresentando, costituendosi come parte civile, l’Associazione Yairaiha nell’ambito del processo sugli abusi avvenuti nel carcere di Reggio Emilia. Il procedimento si è svolto con rito abbreviato e oggi il Gup Guareschi ha condannato a pene che vanno dai 4 mesi ai due anni di reclusione i dieci agenti della polizia penitenziaria che nell’aprile 2023 si resero protagonisti del brutale pestaggio di un detenuto tunisino di 40 anni. Abusi e violenze nel carcere di Reggio Emilia - Le persone condannate non sono state ritenute colpevoli del reato di tortura. “È vero - ha affermato l’avvocato Cimiotta - che c’è un riconoscimento di responsabilità in capo agli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nel violento pestaggio ai danni del giovane detenuto tunisino, però ritenere che incappucciare un uomo con una federa è solo abuso di autorità, sembra molto riduttivo. In ogni caso attenderemo le motivazioni per comprendere quale sia stato l’iter logico che ha portato ad una simile decisione. Gli agenti sono stati condannati per percosse aggravate e non anche per lesioni. Anche questo mi lascia abbastanza perplesso. Ritengo che le lesioni siano conseguenza logica delle percosse”. Le condanne e la decisione del Gup: cade il reato di tortura - “Pur rappresentando un passo avanti nella lotta contro la violenza nelle carceri - ha continuato Cimiotta - resta l’amaro in bocca per l’esclusione del reato per cui era nata l’indagine, condotta in maniera egregia dalla Procura Reggiana. Il video agli atti dell’inchiesta ha mostrato immagini inaccettabili: un uomo incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato e ripetutamente colpito con calci e pugni, anche quando era già a terra per poi essere nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora. Questo emerge dal video, ognuno interpreti a modo proprio”. Le dichiarazioni dell’avvocato Vito Cimiotta - “Un comportamento che non solo viola i diritti fondamentali della persona, ma getta un’ombra sulle istituzioni che dovrebbero garantire la legalità e la sicurezza per tutti, detenuti e operatori. In ogni caso, come prima ribadito, valuteremo quando avremo modo di leggere ed attenzionare le motivazioni per ogni altra deduzione”, ha concluso l’avvocato Cimiotta. Reggio Emilia. Pestaggio nel carcere. “La sentenza? Una sconfitta per lo Stato” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 19 febbraio 2025 Parla la cognata del carcerato vittima delle percosse: “Vorrei che il ministro Nordio intervenisse”. “Come familiare, ma soprattutto come cittadina sono delusa. La sentenza di ieri è stata una sconfitta per tutti, per noi familiari ma anche per lo Stato e vorrei che il ministro Nordio intervenisse”. È l’amaro commento della cognata del detenuto tunisino vittima di un pestaggio ad opera di agenti della polizia penitenziaria, il 3 aprile 2023 nel carcere di Reggio Emilia. Fatto per cui lunedì c’è stata la sentenza di primo grado, in abbreviato: la gup Silvia Guareschi ha riqualificato le accuse di tortura e lesioni in abuso di autorità contro detenuto e percosse aggravate, condannando i dieci imputati, ma a pene da quattro mesi a due anni, molto più basse di quelle chieste dalla Procura. “Auspicavo - dice la cognata - una sentenza esemplare. Mi sembrava che anche da parte dei sindacati di polizia penitenziaria ci fosse una collaborazione per la ricerca della verità, a tutela di tutti. Invece è stata negata l’evidenza. I video sono palesi: oltre al cappuccio in testa, mio cognato è stato spogliato e picchiato senza motivo e siamo fortunati che non ci ha rimesso la vita. Con questa sentenza la giudice ha espresso il suo consenso a questa modalità operativa e la manifestazione di gioia (dopo la sentenza, da parte di imputati e loro familiari, ndr) mi dà la conferma che questo è un modus operandi. È una beffa anche per chi opera nella legalità: come lavoreranno ora gli operatori che seguono le regole dopo che questa gente l’ha fatta franca? Io non voglio schierarmi, c’è una grande parte di agenti che agiscono correttamente rispettando regole e protocolli. Ma questa sentenza ha sbeffeggiato anche loro”. Commenta con amarezza anche l’associazione Yairaiha onlus, assistita dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta, che si era costituita parte civile: “Ci lascia sbigottiti la derubricazione del reato di tortura in quello di abuso di autorità. È vero che c’è un riconoscimento di responsabilità in capo agli agenti di polizia penitenziaria, però ritenere che incappucciare un uomo con una federa è solo abuso di autorità, sembra molto riduttivo. In ogni caso attenderemo le motivazioni per comprendere quale sia stato l’iter logico che ha portato ad una simile decisione. Gli agenti sono stati condannati per percosse aggravate e non anche per lesioni. Anche questo mi lascia abbastanza perplesso. Il video ha mostrato immagini inaccettabili: un uomo incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato e ripetutamente colpito con calci e pugni, anche quando era già a terra per poi essere nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora. Questo emerge dal video, ognuno interpreti a modo proprio. Un comportamento che non solo viola i diritti fondamentali della persona, ma getta un’ombra sulle istituzioni che dovrebbero garantire la legalità e la sicurezza per tutti, detenuti e operatori”. Reggio Emilia. Pestaggio nel carcere. Il difensore degli agenti: “Chiederemo che tornino al lavoro” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 19 febbraio 2025 Per il giudice non fu tortura, il legale Conti dopo la derubricazione: “Ci fu un eccesso nell’uso della forza, ma il detenuto era aggressivo”. Il Sappe: “Serve una riforma del codice penale su quel reato”. Gli agenti sono al momento sottoposti solo a una sospensione cautelare amministrativa dalla loro attività, che era stata decisa dall’articolazione ministeriale di competenza in base alla grave contestazione che era stata mossa e all’entità della pena prevista. Ma dopo la riformulazione fatta nella sentenza di primo grado dal giudice Silvia Guareschi, e le pene molto più contenuta di quelle chieste dal pubblico ministero Maria Rita Pantani, ora gli agenti potrebbero chiedere di rientrare in servizio. Questa è l’intenzione che manifestano i due assistiti difesi dall’avvocato Alessandro Conti: “Ora l’accusa più grave è stata derubricata e sono state decise pene modeste. In base ad alcuni precedenti simili, crediamo che per loro sia possibile tornare al lavoro. Inoltreremo dunque un’istanza - dichiara Conti - al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma”. Agli agenti sono state comminate condanne dai 2 anni (uno solo) a 4 mesi, tutte con pena sospesa per cinque anni e non menzione nel casellario. “Mi riservo di leggere le motivazioni per poi valutare il ricorso in Appello”, dice il legale, che definisce comunque “equilibrato” il verdetto: “Il gup ha dato una giusta interpretazione dei fatti nonostante la pressione mediatica e i valori in campo”. Secondo Conti, “ci fu un eccesso nell’uso della forza, ma il detenuto era aggressivo e fu trasferito più volte. Nel panorama nazionale il carcere di Reggio è considerato ottimo sul piano socializzante, medico e alimentare”. Dello staff difensivo facevano parte anche gli avvocati Federico De Belvis, Nicola Tria, Sinuhe Curcuraci, Luigi Marinelli, Pier Francesco Rossi e Carlo De Stavola. Interviene anche il sindacato di polizia penitenziaria Sappe, rappresentato a Reggio dall’ispettore Michele Malorni, che chiede una riforma governativa: “Prendiamo atto della sentenza di Reggio e auspichiamo che in Appello possa essere riformata in modo più favorevole per i colleghi. Apprendiamo con molto favore - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale - che l’ipotesi di tortura è decaduta, come peraltro già avvenuto anche in un altro recente processo, a Trapani. Ciò dimostra che quello che noi diciamo da tempo è vero: la necessità di rivedere l’articolo 613 bis del codice penale (reato di tortura), mal formulato, perché non in linea con la convenzione Onu che enuncia un reato di scopo, le cui azioni dovrebbero essere finalizzate a estorcere confessioni oma punire qualcuno. Purtroppo l’attuale formulazione della norma replica sostanzialmente fattispecie meno gravi, già presenti nel nostro codice. Ciò consente l’applicazione di misure cautelari che pesano come un macigno sulla vita dei nostri colleghi e che non sarebbero giustificate da una diversa previsione normativa. Confidiamo pertanto nell’azione riformatrice del governo”. Avellino. Suicidio di Luigi Della Valle, il pm chiede l’assoluzione per il medico del carcere avellinotoday.it, 19 febbraio 2025 Si è svolta ieri presso il Tribunale di Avellino una nuova udienza relativa al suicidio in carcere di Luigi Della Valle, il detenuto che nell’estate del 2017 si tolse la vita nella sua cella all’Istituto di Reclusione di Avellino. Il processo, che si protrae da anni, continua a essere al centro dell’attenzione per le implicazioni sulla gestione della salute mentale nelle carceri italiane. Durante l’udienza l’avvocato di parte civile, la penalista Rosaria Vietri, e il Pubblico Ministero Luigi Iglio, hanno discusso, affrontando i nodi ancora irrisolti della vicenda. La difesa del medico del carcere di Bellizzi Irpino, accusato di omicidio colposo, aveva già ribadito che il professionista ha agito secondo i protocolli previsti e che non vi sarebbero state negligenze nel trattamento di Della Valle. Dall’altro, l’avvocato della famiglia del detenuto, Rosaria Vietri, ha insistito sulla presunta sottovalutazione delle condizioni psichiatriche del detenuto, evidenziando il mancato intervento preventivo nonostante i precedenti tentativi di suicidio. “È assurdo che un detenuto con bisogni umani sia stato completamente ignorato. L’imputato aveva il dovere di essere presente e vigilare. L’omissione della sua squadra è stata determinante ai fini della tragedia. Della Valle è stato abbandonato a se stesso. Oggi doveva emergere che il detenuto è stato solo riempito di antidepressivi e, purtroppo, nel luglio del 2017, ha deciso di togliersi la vita, lasciando tre figli. Io chiedo che l’imputato venga condannato per le responsabilità oggettive legate alla sua condotta”. Il Pubblico Ministero ha chiesto l’assoluzione - La difesa del medico del carcere ha inoltre sostenuto che il professionista non poteva prevedere con certezza il gesto estremo di Della Valle e che la gestione delle visite specialistiche e dei trattamenti farmacologici avveniva secondo le procedure standard. Tuttavia, l’accusa nonostante, nel corso del dibattimento, abbia messo in discussione l’efficacia di tali procedure, sottolineando come Della Valle fosse un soggetto ad alto rischio che avrebbe richiesto un’attenzione maggiore da parte degli operatori sanitari del carcere, ha chiesto l’assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste. La prossima udienza è attesa per il 12 marzo e, in quell’occasione, sarà anche emessa la sentenza. Bologna. Avvocati, due giorni di astensione: “Emergenza carcere” di Chiara Gabrielli Il Resto del Carlino, 19 febbraio 2025 La protesta è in programma per oggi e domani. Questa mattina iniziativa di sensibilizzazione in tribunale con l’assessora Conti. Avvocati, due giorni di astensione collettiva: la protesta è in programma per oggi e domani. Tra i motivi, i decessi nelle carceri, che continuano a crescere. Ma non solo: “Il direttivo e l’Osservatorio carcere esprimono la massima preoccupazione per l’imminente trasferimento di circa 50 giovani adulti” provenienti dagli Ipm di tutto il territorio nazionale al carcere di Bologna, “un’operazione tanto complessa quanto sciagurata” considerato “il già elevato tasso di sovraffollamento dell’istituto (170%)”. Questa scelta “aumenterebbe a dismisura le criticità”. La protesta prevede l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale in Tribunale, negli uffici giudiziari circondariali e distrettuali e del giudice di pace. Sarà garantito il servizio pubblico essenziale della celebrazione dei processi con imputati detenuti. Stamattina alle 9.30 si svolgerà un’iniziativa di sensibilizzazione in tribunale con l’assessora Isabella Conti. L’ordine degli avvocati boccia poi il processo telematico, esprimendo “allarme” e “preoccupazione” crescenti per i “disservizi informatici” negli uffici giudiziari. Il Consiglio dell’Ordine sottolinea che si stanno creando criticità che incidono “negativamente anche sulla gestione delle attività processuali dei difensori, con ritardi e altri disservizi che abbiamo potuto verificare nel corso delle udienze”. Si chiede di agire “con celerità per rendere pienamente efficienti i sistemi di gestione informatica e telematica”, specie “in vista dell’estensione del processo penale telematico al procedimento cautelare previsto per il primo aprile”. Per il momento, “è evidente che si è deciso di varare un sistema che appare segnato da troppe lacune e aporie tecniche, senza un sufficiente periodo preliminare di sperimentazione e senza aver garantito adeguata formazione professionale del personale, per di più in assenza della necessaria strumentazione informatica”. “Allarme” dunque, per quello che sta accadendo con l’obbligatorietà del deposito telematico di atti, documenti, richieste e memorie a Procura, Procura europea, Gip, Tribunale, Procura generale. È obbligatorio, ma c’è “una situazione gravemente critica sul funzionamento dei sistemi informatici” e per la “scarsa dotazione strumentale fornita agli uffici”. Firenze. “Visioni Aperte”: spettacoli e incontri per conoscere la vita di chi è detenuto intoscana.it, 19 febbraio 2025 La due giorni di parole, immagini e suoni dal carcere, si tiene al cinema La Compagnia di Firenze, il 26 e 27 febbraio, ad ingresso libero. In programma due matinées dedicate alle scuole, accessibili su prenotazione. È sul tema della costruzione di un canale di comunicazione tra la popolazione detenuta e la società, grazie ai percorsi culturali che quotidianamente vengono proposti da associazioni che si dedicano a questa fascia d’utenza, che si incentra l’iniziativa Visioni aperte: parole, immagini e suoni dal carcere. L’iniziativa, a cura del Coordinamento Teatro in Carcere Toscana e Lanterne Magiche - Fondazione Sistema Toscana, organizzata da Teatro Metropopolare, con il sostegno di Regione Toscana e il patrocinio del Ministero della Giustizia e del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, si tiene al cinema La Compagnia di Firenze (via Cavour 50/r) il 26 e i 27 febbraio In programma a Visioni Aperte due matinées (il 26 - 27 febbraio, ore 10 - 12.30), rivolte alle scuole, caratterizzate da un programma di esibizioni dal vivo e performance, con un’alternanza di linguaggi e forme espressive che ben rappresentano la composita proposta di interventi culturali all’interno dei diversi istituti di detenzione toscani. Sono tredici le associazioni teatrali e culturali che da anni lavorano portando la propria professionalità negli istituti di detenzione della Regione Toscana: il loro lavoro sarà presentato al pubblico degli studenti, grazie alle performance di musica, arte, danza, poesia. Sul palco de La Compagnia andrà in scena una sorta di spettacolo collettivo, per raccontare come si svolge la vita di chi è recluso e anche quella di chi, ogni giorno, crea un ponte con questo mondo “sommerso”. Le matinées sono rivolte alle classi della scuola secondaria (a partire dal terzo anno di scuola secondaria di I° grado), e sono particolarmente idonee per le scuole ad indirizzo artistico, classico, scienze umane ed economico sociale. Ingresso gratuito. Le scuole posso scegliere se partecipare ad una o ad entrambe le matinées. Prenotazione obbligatoria scrivendo a info@lanternemagiche.it (Per le scuole fuori dalla Città Metropolitana di Firenze, che abbiano difficoltà a raggiungere la sala, c’è la possibilità di seguire l’evento anche in streaming). Il programma dell’iniziativa del 26 febbraio pomeriggio, prevede un incontro, alle 14.30, dal titolo Il teatro in carcere e i suoi linguaggi, moderato dalla prof.ssa Laura Caretti, al quale interverranno i rappresentanti del Coordinamento Teatro in Carcere Toscana insieme a Stefano Tè, regista e direttore artistico della compagnia Teatro dei Venti, Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna e Armando Punzo, direttore artistico della Compagnia della Fortezza. Alle 17.00 si prosegue con la tavola rotonda, moderata dal giornalista Giorgio Bernardini, sul tema de Il ruolo della cultura nel carcere, alla quale interverranno Elena Pianea, Direttrice della Direzione Beni, Istituzioni, Attività Culturali e Sport della Regione; Francesca Romana Valenzi, Direttore Ufficio Detenuti Regione Lombardia e Direttore in missione Ufficio Detenuti Toscana; Mauro Palma, Presidente Centro di ricerca “European Phenological Center” Università Roma Tre, ex Garante Nazionale dei detenuti; Enrico Vincenzini, avvocato referente per la Toscana di Associazione Antigone; insieme ai rappresentanti del Coordinamento Teatro in Carcere Toscana. Alle 19.00 ci sarà la proiezione di estratti video, tratti dalle produzioni delle compagnie del Coordinamento Teatro in Carcere Toscana. Chiude la giornata della rassegna, alle ore 21.00, un evento dedicato al cinema, a cura di Lanterne Magiche con la proiezione del film Tehachapi, documentario per la regia di J.R. Nel corso della due giorni, nel foyer de La Compagnia, si terrà l’esposizione di materiali fotografici, tratti dalle esperienze del Coordinamento Teatro in Carcere della Toscana, mentre nella saletta de La Compagnia saranno proiettati brani dei video prodotti del Coordinamento Teatro in Carcere Toscana. Firenze. La sfida della regista Livia Gionfrida: il teatro in carcere “palestra multiculturale” di Costanza Baldini intoscana.it, 19 febbraio 2025 La regista fondatrice del Teatro Metropopolare di Prato, membro attivo del Coordinamento Regionale del Teatro in Carcere, racconta la sua esperienza e ci parla di “Visioni Aperte” le due giornate che si terranno il 26 e 27 febbraio al cinema La Compagnia di Firenze. Livia Gionfrida ha fondato nel 2006 il Teatro Metropopolare un collettivo artistico che ha scelto Prato come sede operativa, sviluppando progetti teatrali innovativi e impegnati socialmente. Dal 2008, il Teatro Metropopolare ha instaurato una collaborazione stabile con la Casa Circondariale La Dogaia di Prato, trasformando il carcere in un vero e proprio centro di ricerca teatrale e residenza artistica. Il collettivo ha realizzato numerose produzioni che coinvolgono sia detenuti che attori professionisti, affrontando opere di autori come William Shakespeare, Tennessee Williams e Samuel Beckett. La compagnia si distingue per l’impegno sociale e la ricerca artistica, offrendo una prospettiva unica nel panorama teatrale italiano. Attualmente Livia Gionfrida è membro attivo del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere. È una degli organizzatori di “Visioni Aperte” la due giorni che il 26 e 27 febbraio al cinema La Compagnia di Firenze racconterà la realtà del teatro in carcere in Toscana, un progetto pionieristico e unico in Italia che coinvolge 13 compagnie, fiore all’occhiello della Regione Toscana. Ciao Livia qual è secondo te l’importanza nel teatro nel carcere? Il teatro in carcere è fondamentale per una miriade di ragioni differenti. In prima linea perché è la manifestazione di quello che può essere l’attenzione che la comunità deve avere per un luogo che fa parte integrante della società. Il carcere non è un luogo che dobbiamo dimenticare o mettere da parte. Dentro il carcere ci sono persone che prima o poi torneranno nella comunità, quindi è fondamentale che come dice l’articolo 27 della Costituzione italiana che i detenuti abbiano l’opportunità di ricostruirsi una vita, di riflettere su quello che hanno fatto, la così detta “rieducazione” così viene chiamata dall’ordinamento penitenziario. A volte ci dimentichiamo che lo scopo del carcere non è una vendetta di Stato, i nostri padri costituenti ci hanno detto che deve servire ad avere una seconda chance. Il teatro entra in gioco perché è un luogo dell’anima e della mente, è una palestra sia di comunità che di relazione con l’esterno. Facendo teatro in 17-18 istituti noi apriamo il carcere al pubblico esterno, facciamo entrare artisti e operatori di vario genere. Lavoriamo sulle persone, sul loro vissuto emotivo e sulle loro storie, si crea quindi un doppio binario, da un lato il lavoro interiore di riscatto, dall’altro il riscatto anche della socializzazione che dovrebbe essere uno dei principali scopi del carcere. Perché altrimenti quando esci non se più neanche una persona. Nella tua esperienza in carcere hai visto gli effetti del teatro sui detenuti? Negli ultimi vent’anni ho visto svilupparsi tante realtà e ho visto gli effetti ultra positivi nelle persone. Teatro Metropopolare lavora anche con ex-detenuti, quindi oltre a tutto il teatro diventa anche un’opportunità di lavoro per i detenuti stessi. Oltre ad avere una situazione sociale più ricca di prima, perché hanno tanti contatti con gli operatori, quelli bravi lavorano che non è da poco. In Toscana abbiamo avuto anche il caso di Aniello Arena ex detenuto del carcere di Volterra che dopo l’esperienza nella compagnia di Armando Punzo ha fatto tanti film importanti, ha vinto anche diversi premi... Certo, Armando è stato un precursore e ha dato anche il via al coordinamento. Si può dire che fa parte integrante del lavoro che la Regione Toscana ha fatto sul teatro in carcere, dall’attenzione incredibile che viene posta su questa cosa. E secondo me questo rende un paese più civile, perché un paese si misura da come tratta i detenuti dentro le carceri. Come diceva Goliarda Sapienza: “Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale”. Ecco che quindi questa attenzione secondo me è fondamentale e devo dire che siamo in un momento storico di grande attenzione anche a livello Ministeriale. Speriamo che questo ci porti a una società migliore. Cosa succederà il 26 e 27 febbraio al cinema La Compagnia di Firenze? Al cinema La Compagnia di Firenze saranno protagoniste in due giorni 13 compagnie che operano nei carceri di tutta la Toscana: Firenze, Pisa, Prato, Livorno, Gorgona, Massa Marittima e molti altri. “Visioni Aperte” è il rilancio di un coordinamento che esiste da tanti anni, una cosa bellissima che va rinnovata, riscoperta. E sulla scia di questo rinnovamento che Teatro Metropopolare porta avanti da tanti anni, si è pensato di organizzare un evento collettivo per raccontare questo nostro movimento di cambiamento, di rivoluzione e anche per far conoscere l’esistenza di un qualcosa che giustamente viene definito il fiore all’occhiello della Regione Toscana. La Toscana è stata infatti la prima in Italia che ha creato un coordinamento delle compagnie di teatro in carcere. Siamo diventati un modello per le altre regioni. Qual è l’obiettivo della rassegna Visioni? Lo scopo della nostra rassegna è quello di fare conoscere la nostra realtà e sensibilizzare le persone all’esistenza di questi luoghi che bisogna aprire. Bisogna invitare le persone ed entrare. Nella due giorni è previsto un confronto con le scuole, un incontro con le nuove generazioni, perché è fondamentale che loro comprendano il significato costituzionale del carcere che non è vendetta e non è violenza o punizione, chiudere e buttare la chiave. Sicuramente è un luogo di grande sofferenza in cui è meglio non finire, ma è anche uno spazio in cui riflettere sui propri errori. Nel pomeriggio del 26 abbiamo previsto due tavoli importanti, uno più assembleare, dove le 13 compagnie si confronteranno, un discorso che ha a che fare anche con i linguaggi. Volevamo cioè sottolineare non soltanto l’aspetto sociale ma anche quello artistico. Dal teatro in carcere nascono esperienze artistiche importanti, io come regista ho imparato molto, sono 17 anni che lavoro in carcere, ho vinto dei premi grazie alle cose che ho imparato nel carcere. Quindi rifletteremo insieme su cosa il teatro in carcere può dare a livello di ricerca al teatro italiano. Il carcere è una palestra multiculturale, incontri persone che parlano cinque, sei lingue diverse e vengono da tutto il mondo, è un’occasione importante per un’artista. Il podcast Gattabuia: il carcere va ripensato dalle fondamenta di Isabella De Silvestro Il Domani, 19 febbraio 2025 Ascoltatrici e ascoltatori, insegnanti, ex detenute e detenuti, associazioni che operano dentro gli istituti penitenziari. Le reazioni e i riscontri ricevuti dopo la pubblicazione del podcast di Domani, prodotto da Emons Record e sostenuto dai lettori e dalle lettrici. “Mi sento il prodotto di quei 19 anni: malata, isolata, depressa, e per certi versi disadattata alla vita comunitaria”, racconta Teresa. Dall’uscita di Gattabuia, il podcast di Domani prodotto da Emons Record sulla vita quotidiana nelle carceri italiane, molte sono state le reazioni e i riscontri ricevuti. Non solo da parte delle ascoltatrici e degli ascoltatori che si sono avvicinati a questa inchiesta con la curiosità di conoscere un mondo distante, sigillato e spaventoso qual è il carcere, di cui comunemente si sa poco, ma anche da parte di insegnanti che hanno fatto ascoltare il podcast ai propri alunni, di circoli culturali che chiedono di organizzare dibattiti e presentazioni, di associazioni che operano negli istituti penitenziari e ne hanno discusso con i detenuti, di radio ed emittenti televisive che mi hanno invitata ad intervenire per discuterne. Una delle notizie più felici arriva da un agente penitenziario, che in un messaggio scrive: “Sono stato una settimana a Parma per un corso di alta formazione alla Scuola dell’Amministrazione penitenziaria. È stato davvero interessante e orientato verso un carcere più giusto, anche se, come sappiamo, ci vorrà molto tempo. Durante il corso si è parlato molto di Gattabuia, che è stato ascoltato da comandanti, agenti, garanti dei diritti dei detenuti”. Un equilibrio difficile - Durante la scrittura di Gattabuia, la difficoltà maggiore è stata quella di mantenere un tono che fosse equilibrato. E quando si parla di carcere tenersi in equilibrio è difficile. C’è il dolore che l’istituzione infligge ai detenuti e quella che i detenuti hanno inflitto alle vittime dei loro reati. C’è la violenza con cui gli agenti penitenziari si relazionano con la popolazione reclusa, e quella dei reclusi contro gli agenti. C’è la violenza della struttura edilizia e la dimenticanza istituzionale in cui il carcere è costretto a operare - sotto organico, carente di risorse, di spazi, di strumenti per rispettare il dettato costituzionale che vuole che la pena sia volta alla rieducazione del condannato - e c’è, più di tutto, l’indifferenza, che a volte diventa vero e proprio disprezzo, che si riserva al mondo-carcere nella sua interezza: l’istituzione reietta per definizione, un agglomerato di marginalità sociali da una parte e professionali dall’altra. E dunque, nella scrittura, dicevo, ci siamo imposti di stare in equilibrio tra queste contraddizioni e queste ingiustizie, avendo cura che il tono, la scelta delle parole e dei testimoni, dei punti di vista e dei racconti, del ritmo e delle musiche, cercassero di restituire almeno in parte questa complessità. Che Gattabuia sia stato ascoltato trasversalmente, da chi è già sensibile al tema come da chi non se ne è mai interessato, da chi fa attivismo fino a chi lavora in carcere, indossando la divisa della polizia, è un risultato che ha una rilevanza che mi azzarderei a definire politica, se politica vuole ancora dire il tentativo di vivere in comune armonizzando posizioni e necessità diverse, d’accordo però su alcuni valori fondamentali quali il rispetto della dignità umana. Matrioska - Un altro dei riscontri più preziosi è venuto dai detenuti e gli ex detenuti, uomini e donne che hanno vissuto il carcere sulla loro pelle e sanno meglio di qualunque studioso o giornalista che cosa significhi. “Stavo in una cella in un piano dismesso del carcere di Modena con gli schizzi di sangue sul muro e la turca. Per lavare il sangue ho allagato la cella” scrive in una mail Teresa, una donna che ha passato 19 anni in carcere e altrettanti anni agli arresti domiciliari, concessi per motivi di salute. Mi racconta di aver ascoltato ogni puntata almeno due volte, ripercorrendo la propria vita nelle sezioni di alta sicurezza delle prigioni italiane a partire dagli inizi degli anni Novanta. “Usi la metafora della matrioska per descrivere l’edilizia carceraria, ed è una matrioska anche la narrazione che si dipana nel corso delle puntate, dalla descrizione del labirinto fisico, spoglio e povero di stimoli alla deprivazione sensoriale che provoca, a cui seguono le relative malattie. Ho avuto esperienza diretta della voluta iper-burocratizzazione per accedere a qualsiasi necessità del detenuto, spogliato della sua identità e infantilizzato, al punto che per avere attenzione da parte dell’istituzione arriva al ferimento autoinferto. Come dici nel trailer, è la vita che resta a essere raccontata”. Io e Teresa ci siamo scritte e poi ci siamo sentite al telefono. Le ho chiesto di raccontarmi la sua storia: “L’ascolto di Gattabuia mi ha riportato ai miei quasi 19 anni di detenzione. Mi sento il prodotto di quei 19 anni: malata, isolata, depressa, e per certi versi disadattata alla vita comunitaria. Allo stesso tempo mi considero miracolosamente piena di risorse, alla continua ricerca di un contatto umano e culturale. Sono riuscita a conservare una certa vitalità, nonostante tutto il dolore passato” continua. Teresa racconta di aver passato i primi anni in isolamento, con una “guardiana” seduta davanti alla cella. Per la notte aveva trovato uno stratagemma: posizionava uno sgabello sulla rete metallica della branda e svitava la lampadina appesa al soffitto, così da evitare le continue accensioni della luce che le interrompevano il sonno. L’ora d’aria le era concessa in quello che definisce “un canile di due metri per quattro”, con una rete metallica a coprire il cielo; la doccia una sola volta a settimana ma le battiture delle inferriate della cella invece tre volte al giorno: alle 8 di mattina, alle 14 e alle 22. Il risveglio carcerario - La battitura è una pratica antica e ancora comune in tutte le carceri: i poliziotti battono il metallo delle sbarre per accertarsi che i detenuti non le stiano segretamente segando per evadere. “Ti dico che durante la mia detenzione sono stata trasportata al centro clinico di Pisa per un intervento chirurgico e sono rimasta collegata al drenaggio per sei giorni. Non mi hanno mai portato da mangiare. Mai. Però venivano a farmi la battitura”, ricorda la detenuta, e ne rievoca il rumore disturbante riprodotto dal sound-design curato dalla musicista Federica Furlani, che nel primo episodio di Gattabuia restituisce l’universo sonoro di un risveglio carcerario tra battiture, rumori di chiavi, aprirsi e chiudersi dei blindi, grida e televisori che trasmettono il telegiornale del mattino. Anche quando le condizioni di detenzione di Teresa sono migliorate, il doppio isolamento che viene dall’essere donne in un’istituzione pensata per contenere solo uomini non ha smesso di condannare lei e le sue cinque compagne di sezione a un grande senso di solitudine. “Il carcere non soddisfa nessuna minima garanzia di dignità per le donne. Ancora meno per le donne detenute per reati politici, rigorosamente separate dalle detenute comuni. Ma essere numericamente minoritarie non significa non essere”. Cosa chiediamo all’istituzione carceraria? La sesta puntata del podcast, intitolata “Fine pena mai” si interroga sul senso della pena, su cosa chiediamo, come società, all’istituzione carceraria. Matteo Gorelli, uno degli ex detenuti intervistati, afferma: “Tutti i reati vengono da due categorie: o da condizioni socio-economiche di merda, o da problemi psicologici e psichiatrici”. Una constatazione che Teresa definisce “semplice e folgorante”, e che riscontra ripesando alle persone conosciute tra le mura della prigione: “È sempre la povertà, intesa in ogni senso possibile, a essere all’origine della devianza e dunque della detenzione. E allora, in una società dove la povertà cresce sempre di più, come possiamo pensare a un tipo di carcere, diverso da quello che tortura, punisce e depriva le persone che dovrebbe risocializzare?” aggiunge. D’altronde, lo scrivevano Franco Basaglia e Franca Ongaro già più di cinquant’anni fa: “Nella società dell’abbondanza-fame o c’è “abbondanza” o c’è “fame”. Ma la fame non può manifestarsi brutalmente per ciò che è, ma deve venir velata e schermata attraverso le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza, colpa”. I due psichiatri hanno lottato per chiudere i manicomi, e ora abbiamo la legge 180. Quale tipo di riflessione possiamo oggi elaborare su un’istituzione come quella del carcere? Gattabuia prova a rispondere a questa domanda mostrando che il carcere, così com’è, non è una risposta alla povertà e alla criminalità, ma solo un loro prolungamento e rafforzamento. Se crediamo in una giustizia che non lasci indietro nessuno, dobbiamo avere il coraggio di ripensarlo dalle fondamenta. Giovedì 20 febbraio Gattabuia sarà presentato a Roma alla Libreria Zalib, in via della Penitenza, 35, alle 18.30. Isabella De Silvestro sarà in dialogo con Federica Delogu. Con le musiche originali del podcast eseguite live dalla sound designer Federica Furlani. Mettere alla prova e punire? La storia di L. di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 19 febbraio 2025 All’interno del sistema penale italiano, la messa alla prova, introdotta dalla legge 67/2014, può essere considerata come un caleidoscopio attraverso il quale leggere le contraddizioni che attraversano le questioni inerenti alla penalità. Si tratta di una misura di comunità ricalcata sull’omonimo istituto della giustizia minorile, che riguarda, al momento, circa 27.000 persone, di solito imputate per reati minori: guida in stato di ebbrezza, violazione delle leggi sugli stupefacenti, oltraggio a pubblico ufficiale. La durata prevista ricade in un arco temporale tra i due mesi e i due anni. Si tratta di un provvedimento carico di ambiguità, così come emerge nel podcast in 4 puntate Storia di L., realizzato dalla Società della Ragione, che narra la vicenda di uno dei beneficiari, preso in carico dalla Società stessa. La prima ambiguità del provvedimento riguarda proprio la ragione per cui è stato istituito: se da un lato si connota come un percorso alternativo alla detenzione (e alla condanna), dall’altro lato, finché l’esito positivo non sarà stato sanzionato dal tribunale di competenza, i beneficiari del provvedimento rimangono, fino al termine della prova, sospesi in un limbo che potrebbe trascinarli all’interno della soglia carceraria. Basta che disattendano qualcuna delle prescrizioni perché la prova sia considerata negativamente ed il procedimento penale riprenda il suo corso. La seconda ambiguità riguarda la carica di moralità che grava sulla messa alla prova. L’accettazione del provvedimento, se da un lato consente a chi ne beneficia di evitare il carcere e la condanna, dall’altro lato, non gli consente di sindacare sulla sua colpevolezza, o di discutere sulla fondatezza di una legge. Per questo motivo, spesso e volentieri, si tratta di un’adesione formale, anche strumentale da parte del beneficiario, non senza ragioni fondate. In primo luogo, se la messa alla prova evita la pena restrittiva, non evita però quella dello stigma. Le persone in messa alla prova gravitano sempre all’interno del sistema penale, e devono regolarmente dare conto della loro condotta. Si pensi alla consegna dei campioni delle urine, che rende problematico il consumo di bevande alcooliche o di sostanze. Si tratta di un aspetto che investe il secondo aspetto della strumentalità. La messa alla prova, infatti, rientra all’interno delle misure di giustizia nella comunità. Ma, come nota Patrizia Meringolo nel podcast, sul significato della parola comunità bisognerebbe mettersi d’accordo. Il provvedimento attuale sembra calibrato su un’idea restrittiva del termine, che non tiene conto della pluralità dei valori e degli stili di vita che caratterizzano la società contemporanea. D’altronde, come nota L., il protagonista, nei fogli Excel si parla di lavori di segreteria e di pulizie, che connotano la messa alla prova come una punizione da espletare sotto forma di lavoro servile. Nel caso di L., il lavoro con la Società della Ragione, è stato altro. Oltre a consentirgli di elaborare il suo vissuto, gli ha permesso di ampliare la sua consapevolezza della penalità. Un esito che è stato possibile grazie alla natura della Società, che, rifiutando di essere un mero luogo di parcheggio dal penale, ha sviluppato un intervento calibrato sulle peculiarità del beneficiario, attraverso un approccio relazionale. Un approccio che dovrebbe essere adottato anche da altre realtà e per altri casi, al fine di innescare un percorso positivo. Se non fosse che la messa alla prova è incastonata all’interno di una cornice penale ancora ispirata dai principi di legge e ordine, per cui, a fianco dei beneficiari delle misure alternative, continuano ad aumentare anche i detenuti. Probabilmente, depotenziando la penalità, si migliorerebbe la giustizia nella comunità. Purché la comunità si riveli aperta. Conoscere per deliberare. Illuminare i referendum di Vincenzo Vita Il Manifesto, 19 febbraio 2025 I referendum promossi insieme alla Cgil da moltissime associazioni saranno presto schede su cui esprimere il voto. Non è ancora nota la data, ma si spera che per puro buon senso si unifichi la scadenza con quella del prossimo voto amministrativo. Del resto, al riguardo esistono precedenti, a cominciare dal calendario scelto in occasione del taglio dei parlamentari nel 2020. In ogni caso, a prescindere dal giorno, siamo prossimi ad un passaggio di assoluto rilievo per la vicenda politica italiana e con prevedibili riflessi sovranazionali. Si tratta di cinque quesiti. Quattro riguardano le questioni del lavoro: stop ai licenziamenti illegittimi; maggiori tutele per lavoratrici e lavoratori delle piccole imprese; riduzione del precariato; sicurezza sui luoghi di impiego. Infine -ma non certamente ultimo per significato- il punto intriso di antiche polemiche sulla cittadinanza per chi non è nato in Italia. Manca dalla lista il capitolo sull’autonomia differenziata, che inerisce ad un tema caldissimo e di enormi effetti diretti o collaterali: la cosiddetta secessione dei ricchi evocata dal testo del ministro Calderoli. Quest’ultimo è stato sì ampiamente toccato dalla Corte costituzionale. Tuttavia, la stessa Corte non ha accettato - con motivazioni assai opinabili- l’opportunità dell’abrogazione richiesta da migliaia di cittadine e cittadini. In verità, malgrado la mobilitazione mobilitate di oltre cinque milioni di persone, la cognizione dell’argomento è ridottissima e i promotori sono alla mercé di un sistema mediatico silente, a mo’ di un deserto dei tartari disegnato come eterno criterio interpretativo da Dino Buzzati. Disattenzione o superficialità? No. Si tratta di una ben precisa scelta politica, in quanto l’opacizzato governo di destra potrebbe subire un colpo ferale in caso di sconfitta. L’esecutivo è sempre meno pimpante, in quanto i suoi architravi di riferimento -Unione europea e Nato - sono infragiliti e sottomessi dal ciclone dei due dittatori (così chiamati da Aldo Tortorella nel suo ultimo editoriale sul numero doppio 5/6 del 2024 di Critica marxista) Trump e Musk. Senza l’appoggio esterno dei grandi poteri del mappamondo, il re è nudo. Il governo appare per ciò che è: una mediocre propaggine periferica degli imperi, senza neppure lo smalto baldanzoso della fase ascendente. Ecco, allora, che la parte maggioritaria dell’informazione tace su un tornante tanto pieno di impatto. Ciò vale per le diverse testate, naturalmente. L’informazione, pubblica o privata che sia la natura societaria, è un bene comune. Soprattutto lo è la componente radiotelevisiva, questa sì debitrice allo Stato dell’opportunità di trasmettere. La Rai è persino (a osservare il palinsesto sembra strano) un servizio pubblico e dovrebbe avere tra gli obblighi essenziali il rispetto della Costituzione repubblicana, che sancisce senza dubbio che i comitati referendari sono un potere - per l’appunto- costituzionale. La conclamata “TeleMeloni” (terminologia esatta, ancorché non piaccia a Bruno Vespa) dovrebbe uscire dal colpevole silenzio sui temi in questione. Del resto, la impressionante strisciata che percorre i palinsesti dall’alba alla notte con gli ossessivi talk darebbe facilmente l’opportunità di invitare ospiti -di pareri anche lontani- in grado innanzitutto di permettere a chi guarda e a chi ascolta di conoscere per deliberare, secondo la fortunata espressione di Luigi Einaudi. Senza simile opportunità, il quadro si fa desolante, considerando i livelli abnormi di astensionismo registrati nelle ultime tornate elettorali. Perché siano validi i referendum abrogativi richiedono la maggioranza degli aventi diritto. Ecco. Le istituzioni competenti, dalla Commissione parlamentare di vigilanza all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono chiamate a permettere che si possa esplicare pienamente un diritto primario. Se necessario, sarà utile accompagnare la formazione dei comitati in corso con iniziative parlamentari specifiche promosse dalle opposizioni, e pure con qualche sit in a tutela della libertà, delle libertà. Subito, non c’è tempo. Il Governo Meloni e l’insofferenza verso la giustizia internazionale d Vitalba Azzollini Il Domani, 19 febbraio 2025 L’intolleranza del governo nei riguardi del sistema di giustizia internazionale risale a ben prima del caso Almasri. I toni collaborativi usati qualche giorno fa dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, verso la Corte penale internazionale (Cpi) non sono serviti a evitare l’apertura, da parte della stessa Corte, di un procedimento nei riguardi dell’Italia relativamente al caso Almasri. La Cpi, con una nota, ha invitato l’Italia a fornire, entro il 17 marzo 2025, informazioni sulla mancata consegna del comandante libico dopo il suo arresto. I giudici chiedono anche spiegazioni sui motivi per cui Almasri non sia stato perquisito e i materiali in suo possesso non siano stati sequestrati. Se la condotta di alcuni componenti dell’esecutivo rappresenta il primo caso in Europa di inosservanza degli obblighi di cooperazione verso la Corte, non va dimenticato che già in passato il governo non aveva assolto a quanto necessario per il funzionamento del sistema di giustizia internazionale, di cui la Cpi è uno dei protagonisti. La Corte e gli stati parte - Occorre premettere che, ai sensi dello statuto di Roma, istitutivo della Corte, “è dovere di ciascun stato esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili di crimini internazionali”. In altre parole, tutti gli stati parte devono impegnarsi a perseguire i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e l’aggressione. La Corte ha competenza a giudicare solo se uno stato non vuole o non può farlo. Molti dei paesi aderenti allo statuto si sono dotati degli strumenti di diritto a ciò necessari. L’Italia, invece, non ha ancora provveduto, salvo che per profili di collaborazione, come la consegna alla Cpi di persone che si trovino sul territorio italiano (legge 237/2012, spesso richiamata per il caso Almasri). Il Codice dei crimini internazionali - Nel marzo 2022, durante il governo Draghi, un’apposita Commissione aveva stilato - su incarico della ministra della Giustizia, Marta Cartabia - un “Codice dei crimini internazionali”, per dare finalmente “compiuto adempimento” agli obblighi derivanti dallo statuto di Roma, con l’introduzione nell’ordinamento dei crimini di competenza della Corte. Nel marzo 2023, il Consiglio dei ministri del governo Meloni aveva approvato un disegno di legge inerente al Codice citato. Si contemplava il crimine di aggressione, si estendevano i crimini di guerra, ma si stralciavano i crimini contro l’umanità, per i quali si riteneva necessario un approfondimento, e non si faceva menzione del genocidio. L’articolato risultava molto ridimensionato rispetto al testo della Commissione. E, comunque, dopo il marzo 2023 non se ne è saputo più nulla. In questo modo, il governo ha lasciato i giudici nazionali sprovvisti degli strumenti necessari non solo a perseguire i crimini internazionali previsti dallo statuto di Roma, ma anche a fornire alla Corte un utile supporto investigativo e di cooperazione, ostacolando così la piena operatività del sistema di giustizia internazionale. Una metafora spiega cosa ciò significhi: la Corte è come “un gigante senza braccia e senza gambe che abbisogna, per qualsivoglia attività, degli “arti” costituiti dagli sati parte”. In mancanza dell’attività di questi ultimi, il sistema non può funzionare. Le denunce alla Cpi - Qualcuno sostiene che siano state alcune denunce presentate alla Cpi per crimini contro l’umanità, commessi nei confronti di migranti, a indurre il governo a evitare che procure e tribunali nazionali possano svolgere indagini e procedimenti su tali crimini. Ad esempio, nel 2021, è stato denunciato un piano comune tra attori libici e “funzionari di alto livello degli stati membri e delle agenzie dell’Ue” per fermare i migranti. Piano realizzato, da un lato, con il Memorandum d’Intesa Italia-Libia e altri patti; dall’altro lato, attraverso la fornitura alla Libia di “materiali, capacity building e supporto operativo, compresa la localizzazione di migranti e rifugiati”. Per l’Italia sono stati indicati come “penalmente responsabili” ex ministri dell’Interno e un ex capo di gabinetto. Il riferimento pare essere a Marco Minniti, Matteo Salvini e Matteo Piantedosi. Nel 2024 è stato denunciato alla Cpi il ministro Piantedosi, che su X vantava di aver collaborato a respingere “16.220 i migranti diretti verso le coste europee”. Da ultimo, ci sono state denunce contro Giorgia Meloni, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi da parte di vittime delle torture di Almasri. Qualunque sia il motivo per cui il governo italiano non provvede ad attuare pienamente lo statuto di Roma, il rischio è che ne risulti minata l’autorevolezza della Corte. Un rischio che, alla luce dei fatti più recenti, potrebbe tramutarsi in certezza.