La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2025 Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni. Gentile ministro Nordio, quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all'interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all'affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti. In collaborazione con il dipartimento di architettura dell'università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti. Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto. (…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell'atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all'indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l'incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all'interno degli istituti di pena”. Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo. Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale? Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. E adesso, che succede? Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare. Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ------------------------------------------------------------------------------------- Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli. Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto? Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più. Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi nette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari. Gentile Dottor Nordio quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia. Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a me viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri. Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso. Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli. Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano? Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”. Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica. Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società? C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più. È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019, nel 2022 dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto. Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima. Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli. E adesso il Dap prova a opporsi all’intimità in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2025 Presentata una istanza di sospensiva contro l’ordinanza che impone alla direzione dell’istituto di permettere colloqui intimi per un detenuto di Parma. Ma il magistrato l’ha respinta evidenziando contraddizioni. Una battaglia serrata per difendere l’intimità in carcere: da un lato, le garanzie costituzionali; dall’altro, l’ostinata resistenza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione, insieme alle ordinanze della magistratura di sorveglianza, l’amministrazione penitenziaria si oppone invano a un diritto riconosciuto. È il caso di un detenuto in alta sicurezza nel carcere di Parma che, grazie al ricorso dell’avvocata Pina Di Credico, ha costretto la direzione penitenziaria ad accettare, entro 60 giorni, il diritto a colloqui intimi con la moglie, per decreto del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia. Tutto sembra finire per il meglio? No: il Dap ha presentato istanza di opposizione, ma il magistrato ha respinto con fermezza la richiesta di sospensiva. La vicenda risale alla sentenza n. 10/ 2024 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti, riconoscendo tale diritto come espressione del fondamentale diritto all’affettività e alla vita familiare. Nonostante ciò, la Direzione della Casa di reclusione di Parma aveva inizialmente negato al detenuto la possibilità di incontrare la moglie in condizioni di intimità, motivando il diniego con presunti “profili di pericolosità sociale”. Il detenuto, grazie al suo legale Pina Di Credico, aveva presentato reclamo, accolto dal magistrato di Sorveglianza Elena Bianchi con l’ordinanza del 7 febbraio scorso, che imponeva all’istituto di consentire i colloqui entro 60 giorni. Il Dap ha però reagito chiedendo una sospensiva, sostenendo che il recluso- pur essendo in regime di alta sicurezza - rappresenti ancora un rischio. Una richiesta che il magistrato ha definito “infondata”, rigettandola in tutte le sue parti. Il magistrato sottolinea che la richiesta di sospensiva non soddisfa i requisiti legali: né la fondatezza del diritto (fumus boni iuris) né il pericolo di un danno irreparabile (periculum in mora). Il Dap ha basato la sua opposizione su una nota della Dda di Napoli del 2022, che “non escludeva” legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, tale documento - non aggiornato e non incluso negli atti - viene smentito dalla relazione del 22 gennaio scorso, che descrive un detenuto profondamente cambiato: condotta esemplare, percorso di riflessione e pentimento sincero. Il magistrato evidenza un paradosso: mentre il Dap definisce il detenuto “pericoloso” per i colloqui intimi all’interno del carcere, allo stesso tempo proponeva di avviarlo alla sperimentazione premiale all’esterno, un regime che comporta rischi oggettivamente maggiori. Una contraddizione logica che mina la credibilità delle argomentazioni dell’amministrazione. Il Dap aveva sollevato anche questioni procedurali, sostenendo che, in assenza di una “cornice normativa” specifica dopo la sentenza della Consulta, le direzioni carcerarie non possano autonomamente regolare i colloqui. Il magistrato ribatte citando la stessa Corte costituzionale: in attesa di un intervento legislativo, spetta alle autorità garantire subito il diritto all’affettività, adottando soluzioni temporanee (come locali adattati) senza ulteriori ritardi. L’ordinanza stessa ricorda che la richiesta di del detenuto risale ad aprile 2024: oltre 10 mesi fa. I 60 giorni concessi nel febbraio 2025 sono già un compromesso, considerando che l’istituto avrebbe dovuto attivarsi tempestivamente per adeguare gli spazi. “Ritengo del tutto inappropriata l’istanza di sospensione del Dap, soprattutto perché la motivazione sarebbe connessa alla presunta pericolosità del detenuto, esclusa dal magistrato di Sorveglianza già con l’ordinanza genetica. Mi indigna che il Dap chieda una sospensione facendo riferimento a una nota della Dda, peraltro non presente neppure nel fascicolo del Magistrato di sorveglianza”, spiega duramente l’avvocata Pina Di Credico, raggiunta da Il Dubbio. “Applaudo”, prosegue la legale, “le argomentazioni della dottoressa Elena Banchi, soprattutto laddove rimarca che il mio reclamo era pendente da aprile 2024 a seguito di un rigetto dell’amministrazione penitenziaria, che non ha mai eccepito la pericolosità del detenuto come ragione ostativa ai colloqui intimi”. E chiosa con un auspicio: “Mi auguro che il rigetto del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, che rimarca come l’Istituto di pena non si sia attivato nel corso di un anno per realizzare strutture idonee, nonostante la pendenza del reclamo, serva a scoraggiare il Dap dall’utilizzare l’escamotage della presunta pericolosità del detenuto richiedente per negare l’espletamento dei colloqui intimi. Nel caso del detenuto di Parma, infatti, ritengo si tratti di un palese e maldestro tentativo di ritardare un doveroso adempimento in termini di creazione di locali ad hoc”. Sì al sesso con la moglie in carcere. Il Dap non ci sta: “Detenuto pericoloso” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2025 II dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fa ricorso, ma viene rigettato. Vi è un ulteriore strascico nella battaglia di un uomo detenuto nel carcere di Parma che aveva chiesto e ottenuto dal magistrato di sorveglianza competente di Reggio, Elena Bianchi, di poter avere “colloqui intimi” con la moglie. Lui è un 44enne di Napoli, condannato per reati aggravati dal metodo mafioso, vicino al clan dei Casalesi, in particolare al boss Francesco Schiavone detto “Sandokan”: aveva domandato l’anno scorso di poter avere incontri sessuali con la coniuge, in assenza della polizia penitenziaria. La direzione del carcere di Parma aveva detto no, dicendo di essere in attesa di istruzioni dagli uffici superiori sulle modalità per concretizzare i colloqui intimi. L’avvocato Pina Di Credico si era opposta alla decisione contraria, vedendo accolto il 7 febbraio proprio reclamo. Il legale si era appellata alla sentenza della Corte costituzionale del 26 gennaio 2024 secondo cui questi incontri sono espressione del diritto all’affettività con le persone stabilmente legate. E non possono essere negati salvo ragioni di sicurezza, di disciplina o di iter giudiziario. Il magistrato Bianchi aveva accolto la richiesta del legale, intimando alla struttura penitenziaria di Parma di attrezzarsi entro 60 giorni perché il detenuto potesse incontrare la coniuge, predisponendo uno spazio ad hoc, senza occhi a sorvegliare. Ma non è finita qui. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha presentato il 13 febbraio un’istanza per chiedere la sospensione dell’ordinanza. È stata addotta la pericolosità sociale del detenuto, emersa da una nota della Dda di Napoli, datata 2022, non presente agli atti, dove “non si escludeva che lui potesse ancora intrattenere collegamenti con l’organizzazione criminale”. Il magistrato Bianchi ha confermato la propria decisione, ribattendo che quel documento non rispecchia la situazione attuale del detenuto. Ha fatto riferimento a una recente relazione datata 22 gennaio: “Non soltanto ha tenuto una condotta intramuraria corretta, ma ha svolto un lungo percorso di riflessione e di analisi grazie agli operatori che lo hanno seguito nell’opera di cambiamento. Ha anche pensato di collaborare con la giustizia, affrontando l’argomento”. Strada che poi non ha intrapreso: “Una volta chiuso col suo passato, era ormai trascorso molto tempo dai fatti commessi”. Si ribadisce che “è consapevole del disvalore delle azioni illecite compiute, prova un sincero pentimento e fa un versamento periodico sul fondo per le vittime di mafia”. “Ritengo si tratti di un disperato tentativo di porre freno a un precedente importante - dichiara l’avvocato Di Credico - Mi auguro che la risposta del magistrato di sorveglianza costituisca un monito per il Dap e che la presunta e non meglio dimostrata pericolosità del detenuto non sia utilizzata come base legale per il diniego delle prossime richieste di colloqui intimi”. Sesso in carcere: diritto secondo la Cassazione di Gianfranco Amendola Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2025 “Non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati solo per ‘ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina’, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato”. Lo ha stabilito pochi giorni fa la Cassazione (prima sezione, n. 8/2025) accogliendo il ricorso di un detenuto di Asti contro il provvedimento con cui la casa di reclusione gli aveva negato un colloquio in intimità con la propria moglie, con la motivazione che “la struttura non lo consente”. Il divieto di colloqui intimi tra il detenuto e il partner lederebbe il “diritto [del primo] alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell’art. 2 Cost.”. È, per quanto ci risulta, la prima sentenza che conferisce concreta attuazione al principio stabilito dalla Corte Costituzionale la quale ha confermato che “la libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, diritto che lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare (…) in quanto ciò si tradurrebbe in una lesione della dignità della persona”. E ha, pertanto, dichiarato illegittima la legge penitenziaria “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa… a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Principio rimasto totalmente dimenticato tanto da provocare, a ottobre 2024, un deciso intervento dei magistrati di sorveglianza ove si stigmatizzava che “il tempo, non breve, ormai decorso dal 31.1.2024 senza che in alcun istituto penitenziario del Paese sia stata data esecuzione alla decisione della Consulta, di per sé dotata di immediata efficacia dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ci impone, dunque, di porre all’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria tale tema, auspicando un pronto adeguamento della stessa ai dettami costituzionali”. Tanto è vero che uno di questi magistrati, Fabio Gianfilippi, il 29 gennaio 2025, di fronte all’ennesimo diniego ad un detenuto, stabiliva che da esso “deriva un grave ed attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività del condannato”. E così, di fronte all’ennesimo diniego che qualificava come semplice “aspettativa” - e non diritto - il principio affermato dalla Corte costituzionale, oggi siamo arrivati alla Suprema Corte che, come abbiamo riportato, non ha avuto dubbi. Si tratta di un vero e proprio diritto e occorre renderlo effettivo nella pratica. Peraltro, seguendo anche quanto affermato dalla Corte costituzionale, secondo la quale “può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”. Strutture che, ad oggi, mancano ma che ora dovrebbero e potrebbero essere attrezzate al più presto, come già avviene in vari paesi europei e come convalidato dalla Corte europea. Certo, qualche dubbio rimane: ad esempio, perché l’incontro sessuale deve avvenire solo con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso? E in che modo la sessualità rientra nell’affettività? In proposito, è sempre la Corte costituzionale a stabilire che “la durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude”. Come non funziona la vita sessuale in carcere: una primitiva pena corporale di Andrea Pugiotto* Il Riformista, 18 febbraio 2025 “Noi non abbiamo, ma siamo un corpo” (A. Sofri, “Altri hotel”, 2002, 148). E dal corpo non si scappa, se chiede di vivere una relazione sessuale consensuale con il partner. L’ordinamento penitenziario, silente in materia, è applicato come se ne prevedesse il divieto. L’architrave di tale proibizione è nel principio di sorveglianza continua sulla persona detenuta, tradotto nella regola inderogabile del suo controllo visivo durante i colloqui e le visite dei familiari (art. 18, 2° comma). Dall’impossibilità di sottrarsi a questo panopticon deriva tutto il resto. I corpi reclusi sono inesorabilmente esposti a uno sguardo che li accompagna ovunque, anche durante le azioni fisiologicamente più intime (le porte dei bagni, in carcere, non hanno chiave). È uno sguardo che non conosce intervalli. E poiché c’è erotismo solo se un corpo è celato agli occhi dell’altro e non quando quel corpo è visto ossessivamente (M. Recalcati, “I tabù del mondo”, 2017, 94), la vita sessuale in carcere non può che ricalcare le forme ripetitive della pornografia o dell’atto osceno. Sono le modalità del sesso immaginato e solitario, per quanto possa esserlo in celle sovraffollate oltremisura. O della relazione omosessuale che, quale scelta obbligata di adattamento alla vita carceraria, non ha nulla della fraternità amorosa tra detenuti di cui parlava Pasolini (“Scritti corsari”, 1975, 197 ss.). Priva di alternative, assume tutt’altro significato: “Una volta, mentre andavo alle docce, ho visto due uomini fare l’amore. Decisi che quella doccia non era poi così indispensabile e me ne tornai da dov’ero venuto. Per non disturbare nessuno. Nemmeno i secondini che a turno si godevano lo spettacolo. Pensai a lungo a quello che avevo visto. Non era amore, non era sesso, forse era qualcos’altro. Mi era sembrata più una forma di sopravvivenza” (S. Bonvissuto, “Dentro”, 2012, 43-44). L’effetto inibitorio del controllo a vista stravolge anche il senso della pena. Ne muta, innanzitutto, la natura: estirpando la sessualità del detenuto, diventa una primitiva pena corporale. Non ne siete persuasi? Provate, allora, a immedesimarvi in chi - per anni, decenni, talvolta per sempre - non può più rivivere l’esperienza del contatto fisico con la persona desiderata, mentre lo scorrere del tempo ne sbiadisce anche la memoria sensoriale, fino a cancellarla. Provateci, se ne siete capaci. Cambia anche la finalità della pena, trasformata in un’obbligazione penitenziale: un’emenda moralistica, dove non c’è spazio per una sessualità ridotta a mero vizio e peccato da cui purificarsi. L’effetto collaterale è quello di una desertificazione affettiva che corrode, il più delle volte, anche i legami di coppia più saldi. Vale soprattutto per l’ergastolano senza scampo, ristretto a vita: per lui, e per la sua con-sorte (nomen omen), “la castrazione affettiva e sessuale è sancita in modo definitivo e senza appello” (N. Valentino, “L’ergastolo”, 2009, 44). Ingiustificato il controllo visivo sui colloqui - Questa condanna accessoria a un’ingiustificata solitudine, privando il detenuto della relazione più preziosa, può spianare la strada all’agìto autolesionistico e suicidario che sono “la voce del corpo quando il trauma spegne la parola” (V. Lingiardi, Corpo, umano, 2024, 12). Eppure, il diritto all’intimità inframuraria non è incompatibile con la condizione detentiva. Lo attesta l’esperienza di tanti altri paesi. Lo riconosce la Costituzione, secondo cui la carcerazione priva della sola libertà personale e giustifica ulteriori restrizioni soltanto se inestricabilmente correlate allo stato detentivo. Non altro, né nulla di più. Altrimenti - insegna la Consulta - “la limitazione acquisterebbe unicamente un valore affl ittivo supplementare” illegittimo (sent. n. 153/2013). Ecco perché il libero esercizio della propria sessualità dovrebbe risultare invulnerabile alla sanzione giuridica. C’è voluta la sentenza costituzionale n. 10/2024 per decretarlo, una volta per tutte: in assenza di ragioni di sicurezza o giudiziarie, è ingiustificato il controllo visivo sui colloqui in carcere tra il detenuto e il partner che, quindi, dovranno svolgersi in appositi spazi riservati. Dopo un anno, il giudicato costituzionale non abita ancora negli istituti di pena. Tamquam non esset. La latitanza del legislatore si è saldata con l’inerzia colpevole dell’amministrazione penitenziaria. Nell’attesa strumentale degli esiti di un’istruttoria senza fine affidata a un “gruppo di studio” messo in piedi dal DAP, tutto è come prima. Tocca allora al giudice di sorveglianza, “disapplicata sul punto ogni eventuale disposizione amministrativa confliggente”, disporre che sia consentito il colloquio intimo cui il detenuto ricorrente ha diritto (ord. 29 gennaio-4 febbraio 2025, n. 149, Magistrato di sorveglianza di Spoleto). Al suo godimento non si oppone solo uno spirito pubblico vendicativo, contrario all’idea stessa che cose del genere si possano fare in luoghi del genere, perché dentro si deve stare peggio che fuori: altrimenti che galera sarebbe? Il muro contro cui quel diritto rimbalza è di gomma speciale. Il sacrificio della sessualità, infatti, consente di padroneggiare il corpo ristretto e di signoreggiare su chi lo abita: è a questo bio-potere che il potere fatica a rinunciare. Da sempre, il corpo (della donna, del folle, del malato, del migrante, del detenuto) è territorio politico decisivo. Fondamentale, allora, è riuscire a dare un seguito coerente e concreto alla sent. n. 10/2024. *Professore Ordinario di Diritto costituzionale Don Vincenzo, cacciato dal carcere perché chiedeva dignità per i detenuti di Sabrina Viviani Il Riformista, 18 febbraio 2025 “Per l’amministrazione penitenziaria sono soltanto fascicoli, morti che camminano”. Della condizione delle persone detenute, dei suicidi, della drammatica situazione di Sollicciano abbiamo parlato con Vincenzo Russo, che è stato per molti anni il Cappellano del carcere di Firenze. Una testimonianza di ferma denuncia ma anche di speranza. Il sistema carcerario del nostro Paese è ormai al collasso: strutture fatiscenti, sovraffollamento e quotidiana mortificazione del valore rieducativo della pena. Tu, che per molti anni sei stato il Cappellano del carcere di Sollicciano, pensi sia possibile restituire umanità al carcere e speranza alle persone detenute? Il sistema penitenziario italiano, pur con differenze tra i vari istituti, presenta gravi criticità e, soprattutto, appare sostenuto da una visione umana, prima ancora che politica, che contraddice pienamente il dettato della nostra Costituzione. Il carcere, secondo il pensiero diffuso e dominante, deve servire per punire, vendicare, salvarci dal “cattivo” che deve pagare fino in fondo per quello che ha fatto. È una prospettiva carcerocentrica, questa, che non fa ben sperare per il futuro ma che, credo fermamente, può e deve cambiare. Mi piace un’espressione, utilizzata anche da Papa Francesco: il carcere deve avere finestre. La luce, infatti, deve entrare dentro, deve sostituire il buio di un estremo abbandono e di un tempo senza prospettive; deve essere possibile guardare fuori, avanti, per rendere concreto un domani, al termine della pena, nel quale rientrare nella vita sociale esterna con un bagaglio in più, costituito da un vero percorso di ricostruzione, di rafforzamento e di consapevolezza sulle proprie possibilità. La realtà, invece, è del tutto opposta. Varcando quella soglia si entra in un non luogo, dove la persona è annullata, perde la sua consistenza e diventa solo un fascicolo. Ad avvilirla subentrano una condizione degli ambienti ed un trattamento che hanno caratteristiche davvero inumane e degradanti. Tutto ciò, unito al sovraffollamento e aggravato da un sistema organizzativo che riduce il tempo della pena ad una permanenza continua in cella, in situazioni disagiate e insalubri, finisce per calpestare la dignità e negare la speranza. A subire questo inferno vi sono i cosiddetti “cattivi”, il cui vero nome porta segni di fragilità, spesso povertà, ed è contrassegnato, in molte situazioni, da una vulnerabilità sul piano della salute mentale o a causa della tossicodipendenza. Davanti a loro si spalanca un contesto che affligge, abbrutisce, spesso fa morire. Ma potrebbe essere diverso. Da luogo di contenimento a occasione di percorso, con il contributo di tutti affinché la persona possa rispondere in modo vero all’errore commesso. Sollicciano è stato definito uno dei peggiori carceri d’Italia. La drammaticità delle condizioni di vita al suo interno ha indotto anche la politica a invocarne la chiusura. Tu lo vai dicendo da anni e, oggi che la tua presa di posizione non è più voce solitaria, ritieni possibile un nuovo rapporto tra la città e il carcere che consenta di individuare concrete soluzione alternative? Oggi tutti criticano aspramente le condizioni di Sollicciano e ne invocano la chiusura. Che di fronte al suo stato non esistano altre soluzioni efficaci possibili rispetto a questa, credo sia ampiamente condivisibile, come dimostrano gli anni recenti nei quali, in modo maldestro, si è talvolta cercato di mettere qualche toppa. Il disastro strutturale e umano presente all’interno, frutto di anni di degrado e malagestione, è tale da richiedere un cambiamento radicale, che solo una nuova esperienza può portare. Non vorrei, però, che lo slogan di “abbattimento”, così in voga ora tra le fila delle varie parti politiche, divenisse una semplificazione della questione ed un fumo attraverso il quale nascondere la vera intenzione di non far nulla di concreto, se non piccoli aggiustamenti di puro imbellettamento superficiale. Occorrono proposte e soluzioni concrete, che per ora mancano, mentre tutti sono impegnati in proclamazioni di sdegno o in lanci di accuse reciproche, con un rimbalzo di responsabilità tra amministrazione centrale del Dap e Direzione dell’Istituto. Si parla di tutto, ma intanto si continua a tacere intorno ai detenuti che, in queste stesse ore, stanno continuando a subire l’inferno di sempre. Fino a qualche tempo fa le voci che si levavano erano isolate, inascoltate, anzi punite. Ne ho fatto esperienza personalmente, subendo l’allontanamento dall’Istituto proprio a causa delle mie denunce rispetto alle terribili condizioni presenti all’interno e alla palese violazione di diritti fondamentali dei detenuti. Ora, però, non dobbiamo fermarci a questo ma dobbiamo orientarci prontamente a qualcosa di diverso, che purtroppo sembra non essere realmente desiderato se non da pochi. La città di Firenze deve accogliere in sé la questione del carcere, deve considerare sua parte integrante le persone detenute per renderle partecipi di un percorso che abbia come unico scopo la vera inclusione, la cittadinanza piena. Il numero di suicidi in carcere è impressionante. In carcere si muore nella sostanziale indifferenza collettiva. L’ultimo suicidio a Sollicciano è di poco più di un mese fa. Come può essere arrestata questa terribile spirale di morte? L’anno 2024, a livello nazionale, è stato l’anno record di sempre per il numero dei suicidi nelle carceri. In generale, è stato l’anno con il maggior numero dei decessi. Ciò è indicativo nel dirci che questo luogo è diventato realtà di morte, contesto dove si soffre, ci si ammala e si va incontro ad un destino di non vita. In molti hanno descritto questa condizione con l’espressione “morti che camminano” riferita a chi è detenuto e, purtroppo, in molti casi non si tratta solo di una morte interiore, psicologica. Di carcere si muore concretamente: è la morte per pena. Sollicciano si è contraddistinto anche in questo ambito: negli ultimi tre anni si sono verificati dieci suicidi. Non si tratta di numeri da casistica, ma di persone che non ci sono più, che hanno concluso la loro vita in una situazione di abbandono, schiacciate da una condizione rispetto alla quale l’unica via possibile è apparsa essere, appunto, la morte. Pensiamo bene all’assurdo di tutto questo: l’istituzione nata per restituire alla vita piena e sociale le persone che, dopo l’errore, vivono l’esperienza della pena detentiva, non restituisce affatto alla vita ma alla morte. E se ciò non avviene, restituisce comunque persone peggiori di prima, annullate. Il primato di Sollicciano è una sconfitta per l’intera comunità cittadina. Questa spirale di morte, che non conosce fine, difficilmente potrà interrompersi se non subentrano subito veri cambiamenti, sotto ogni punto di vista, che devono coinvolgere l’intero sistema. Non si tratta solo del decoro e della bellezza, sì, bellezza degli spazi, ma di un intero contesto capace di mettere al centro la persona detenuta mai distaccandola dal contesto sociale esterno e di offrire ad essa percorsi ed opportunità attraverso le quali poter vivere ciò che, per inadempienze spesso dello Stato, non ha potuto incontrare prima. Occorre una vera rivoluzione culturale, sociale, di pensiero. Il successo di un percorso, come tanti ne ho visti, passa dalla valorizzazione di chi si ha davanti e non dalla sua affl izione. *Avvocato penalista Carriere separate, Forza Italia non cede: “La riforma impone due Csm” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2025 Gli azzurri blindano il testo e frenano sulle aperture ipotizzate nei giorni scorsi in vista dell’incontro tra Meloni e l’Anm: nessuna modifica al testo già approvato. “Il Csm unico non avrebbe senso: una volta che le carriere sono separate devono essere separati i Csm anche dal punto di vista delle procedure concorsuali”. Così il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia della Camera, ha risposto ad alcune indiscrezioni apparse sabato sul Messaggero secondo le quali la premier Meloni sarebbe pronta a riaprire il dialogo con la nuova Anm di Cesare Parodi escludendo la possibilità di due Csm separati - uno per i giudici, l’altro per i pm - ma lasciando quello attuale diviso però in due sezioni. A questa apertura si erano aggiunte quelle di qualche giorno fa relative al sorteggio; pensiamo, ad esempio, a quanto detto dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami. Ma gli azzurri, che della riforma ne hanno fatto un vero e proprio vessillo, non sono invece disposti a concedere nulla: “Il testo è assolutamente un’ottima sintesi ed è stato votato anche da una parte dell’opposizione, su questo andiamo avanti. Il testo è quello, non ci sono modifiche”, ha ribadito Pittalis. Di queste prese di posizione degli azzurri dovrà tenere conto la presidente del Consiglio in vista dell’incontro con la Giunta dell’Anm programmato per il 5 marzo: non vorrà di certo aprire una crisi interna su quella che al momento sembra essere l’unica grande riforma che andrà a dama, a differenza di quella dell’autonomia e del premierato. Per quanto possa riaprirsi un dialogo tra politica e magistratura con il cambio di presidenza dell’Anm, all’interno degli azionisti di Governo ci sono sensibilità diverse e non si possono sottovalutare. Inoltre quella di due Csm separati è il cuore della modifica costituzionale che porta il nome del ministro Nordio, che porta la separazione delle carriere al centro dell’organizzazione amministrativa del governo autonomo della magistratura. A livello simbolico, se il governo dovesse cedere su questo punto, sarebbe considerato un grande passo indietro per l’Esecutivo e una parziale vittoria della magistratura. Un Csm, pur unitario, ma suddiviso in due sezioni, era stato previsto in altri passati progetti di revisione. Ma poi fu archiviato. Come sappiamo uno dei motivi che utilizzano i fautori della separazione delle carriere è quello per cui “controllore” e “controllato”, ossia giudice e pubblico ministero, non possono appartenere a un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, non possono condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente. Sulla questione disciplinare, la riforma in discussione al Senato, e già approvato alla Camera, risolve il problema ipotizzando la creazione dell’Alta Corte. Sugli altri aspetti appunto prevede due Csm separati, condizione che eviterebbe, agli occhi dei favorevoli, che i pm possano decidere sulla carriera dei giudici. Due Consigli separati renderebbero, dal punto di vista dell’avvocatura e delle forze di maggioranza, il giudice più libero di non appiattirsi sulla tesi del pm, non avendo più il timore di vedersi la carriera rallentata in caso di decisione sgradita. Tesi sempre respinta dalla magistratura, soprattutto requirente, adducendo tra l’altro che, all’interno del Csm, la componente dei giudici è maggiore di quella dei pm, e quindi non potrebbero esercitare tutto questo potere. Adesso, però, la domanda che si pone è come il governo, in primis Meloni e Mantovano, come raccontato dal Messaggero, vogliano declinare la modifica. Come ci spiega il professor Giorgio Spangher, “dovrebbe essere dettagliato tutto con legge ordinaria che dovrebbe risolvere diverse questioni che così rimangono aperte. Ad esempio, ci sarebbero due elezioni distinte?”. In generale, critica Spangher, “se si iniziano a fare trattative di questo tipo si va verso uno svuotamento della riforma. Pensiamo al fatto che sia giudici che pm resterebbero entrambi a Palazzo Bachelet, e quindi non verrebbe meno quella osmosi che la riforma vorrebbe scongiurare”. Altre questioni che rimangono aperte: i pareri sulle riforme sarebbero dati in maniera distinta? E così anche le valutazioni di professionalità? Insomma, il tema sia a livello simbolico che a livello legislativo non è affatto di facile trattazione. Entrambi gli schieramenti - Anm e Palazzo Chigi - dovranno fare lunghi ragionamenti e la matassa non si scioglierebbe in un dì. “Ci farebbero comodo due magistrati morti”: le parole choc del presidente dell’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 febbraio 2025 Le parole sconcertanti di Cesare Parodi: due magistrati uccisi per fare recuperare consenso alle toghe in vista dello sciopero del 27 febbraio contro la riforma Nordio e il referendum. Colleghi e Csm non dicono niente? “Quanto ci farebbero comodo in questo periodo due magistrati morti”. A pronunciare queste parole sconcertanti sarebbe stato il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, durante la presentazione di un libro a Torino giovedì scorso. A riportare la frase, mai smentita da Parodi, è stato il quotidiano “La Stampa”. Parodi è intervenuto alla presentazione di un volume dedicato ai magistrati uccisi da mafia o terrorismo. Dopo l’incredibile affermazione, Parodi ha spiegato: “Quello che ci ha raccontato nel libro il collega è che il consenso nei massimi livelli arriva quando c’è la tangibile prova di questa testimonianza della magistratura”. Insomma, visto che la magistratura da alcuni anni non gode di grande fiducia da parte dell’opinione pubblica, a risollevarla potrebbe pensarci l’uccisione di due magistrati. Due nuovi Falcone o Borsellino. In questo modo le toghe potrebbero affrontare in maniera compatta la sfida dello sciopero contro la riforma Nordio, proclamato per il 27 febbraio, e poi il successivo referendum confermativo, appuntamenti per i quali l’Anm teme un clamoroso flop. Visto che a distanza di quattro giorni Parodi non ha ancora smentito le sue dichiarazioni, c’è da pensare che quelle parole siano veramente uscite dalla sua bocca. Seppur espresse con un intento provocatorio, queste parole meriterebbero paradossalmente la pronta condanna proprio dell’Associazione nazionale magistrati - ora però presieduta da Parodi - o l’apertura da parte del Csm di una pratica a tutela dell’ordine giudiziario: non fa certo bene all’immagine della magistratura, infatti, il fatto che un suo autorevole esponente invochi l’uccisione di due colleghi come mezzo per compattare la categoria. Per Parodi si tratta dell’ennesimo scivolone da quando è stato eletto presidente del sindacato delle toghe, cioè soltanto dieci giorni. Lo sciopero del 27 febbraio, più che una tappa, per alcuni rappresenta già la data di scadenza del suo mandato. “Le mie parole travisate”. La difesa di Parodi sui “magistrati morti” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2025 Il capo dell’Anm prova a spiegare quanto volesse dire con le parole “ci farebbero comodo in questo periodo due magistrati morti”. Profondo rammarico e grande amarezza per il fatto che le mie parole siano state travisate, avendo io voluto esprimere un pensiero in generale profondamente diverso. Non ho mai ipotizzato in nessun momento la morte di chicchessia. La magistratura italiana ha già pagato un doloroso tributo a mafia e terrorismo ed è una stagione che oggi è fortunatamente alle spalle, proprio grazie al sacrificio di tanti colleghi che sono la nostra stella polare”: con queste parole affidate al Dubbio il presidente dell’Anm Cesare Parodi prova a placare le polemiche nate dopo la frase pronunciata la scorsa settimana al Circolo dei lettori di Torino (“ci farebbero comodo in questo periodo due magistrati morti”). Abbiamo provato a capire quali fossero gli umori tra i magistrati per questa sua dichiarazione. Una frase per diversi suoi colleghi definita “infelice”, “uno scivolone”. Più duro un magistrato antimafia: “Questo è il presidente dell’Anm scelto da Area e da Unicost perché D’Amato non gli andava bene”. Proprio Area prova a buttare acqua sul fuoco. Un suo importante esponente ci dice: “si è trattato di una amara considerazione espressa da tanti bei capannelli alla macchinetta del caffè. Una ingenuità dirlo in pubblico di questi tempi di strumentalizzazioni mediatiche”. Sempre un esponente della corrente progressista dell’Anm ci ha aggiunto: “Sicuramente è inesperto ma abbastanza sveglio. Recupererà presto”. Altri lo descrivono come “una persona per bene. Più versato nella professione, nella pubblicistica e nella formazione che non nell’associazione”. Severo invece il giudizio di Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica: “Non è il registro comunicativo che ci attendiamo da un Presidente che si è impegnato a interpretare al meglio il mandato che l’assemblea dello scorso 15 dicembre ha affidato alla Giunta esecutiva centrale. Le sfide che ci attendono sono complesse e l’autorevolezza pubblica che le deve sostenere si conquista con interventi che esprimano a tutto tondo la sensibilità giuridica e culturale dell’intera magistratura. Insomma, una brutta caduta di stile, un gesto di insensibilità verso i familiari dei magistrati caduti, un inciampo a cui rimediare in fretta affinando una comunicazione pubblica che sinora non ha convinto”. Critico anche il Consigliere indipendente del Csm, Andrea Mirenda, che su Facebook ha scritto: “Per recuperare onore e prestigio, la Magistratura non ha affatto bisogno di un paio di giudici ammazzati. Servono, invece (cosa di cui non v’è traccia nei radar dell’ANM), equilibrio, etica, deontologia e terzietà nell’esercizio della funzione. Qualcuno lo dica al confuso dott. Parodi”. A commentare il suo post il collega Marco Mansi: “Frase davvero infelice che ricalca nel suo cinismo un’altra più tragica. “Io ho solo bisogno di avere alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace accanto ai vincitori” (Mussolini)”. Dunque non ci sono giudizi unanimi sull’accaduto. Certo la strategia di minimizzazione da parte di Area è quella più conveniente al momento: occorre proteggere il presidente per non indebolirlo pubblicamente alla vigilia di importanti appuntamenti. Screditare lui potrebbe mettere in pericolo l’autorevolezza dell’intera Anm. Giovedì, infatti, Parodi sarà audito dalla commissione Affari costituzionali del Senato proprio in tema di separazione delle carriere. Il 27 febbraio sarà il giorno dello sciopero indetto contro la modifica costituzionale. Obiettivo: superare il 70 per cento di adesioni e partecipare numerosi alle varie iniziative sul territorio. A Roma ci sarà un raduno a piazza Cavour dove si svolgerà un flash mob sulla scalinata della Cassazione a cui parteciperanno magistrati in toga, su cui sarà ben visibile una coccarda tricolore, simbolo della difesa della Costituzione, di cui avranno in mano una copia; seguirà la distribuzione ai passanti di copie della Costituzione e di coccarde tricolori. Poi ci si sposterà al cinema Adriano per un dibattito pubblico durante il quale prenderanno la parola, tra gli altri, proprio Parodi e il Segretario generale Rocco Maruotti. Tra i relatori anche l’ex vertice del “sindacato” delle toghe, Giuseppe Santalucia. A dimostrazione, probabilmente, della unità tra la vecchia e la nuova giunta, scricchiolata a poche ore dalla elezione di Parodi perché appartenente a Magistratura Indipendente, la corrente considerata dagli altri gruppi “filogovernativa”, e per le sue posizione aperturiste verso il Governo. Proprio con la premier Meloni Parodi e la sua giunta avranno un faccia a faccia il prossimo 5 marzo. E dato questo scenario, in cui è necessario almeno apparire compatti, è lo stesso Parodi in una intervista a Radio Popolare rilasciata ieri a ribadire: “Di fratture, all’interno della magistratura associata, in questo momento non ce ne sono. Questo dà fastidio a molti, non credo alla politica che fa la sua strada e il suo mestiere, ma magari a chi all’esterno della politica vorrebbe una magistratura divisa, vorrebbe un movimento che cerca di contrastare la riforma che sia collocabile in una parte della magistratura. Assicuro che non è così: tutti i gruppi associativi sono assolutamente convinti delle ragioni di questo movimento di pensiero che noi portiamo avanti. L’unica differenza, non rilevante, magari è sulle modalità di espressione di queste convinzioni sicuramente unitarie”. Dal caso Cavallotti alle retate finite nel nulla. L’innocenza maltrattata in Calabria è intollerabile di Mimmo Gangemi Il Dubbio, 18 febbraio 2025 Tommaso, vecchio ubriacone, era una calamità, quando compariva in piazza al rientro dalla cantina dove ogni pomeriggio svuotava una damigiana di vino cerasuolo. Invadeva qualsiasi compagnia, prendeva la parola e non gliela si toglieva più. Argomentava toscaneggiando. Alla fine domandava “hai capito?”, con veemenza, su uno a caso. L’interlocutore, già brillo - se non ubriaco a sua volta, per l’impatto con i fiati da avvinazzato in accompagno a quelle farneticazioni urlate a pochi centimetri dalla sua faccia - pur a volerlo non aveva modo di ribattere, per quello che si rispondeva da sé, sempre con le stesse parole, “se hai capito o non hai capito, è così e basta, perché l’ho detto io”. E tutti a convenirne. Si mettevano a discutere con un ubriaco? A farci lite? Ne avrebbero perso loro. La Giustizia inquirente, quella delle Procure antimafia, non tutta per fortuna, mi ricorda Tommaso, ha ragione comunque e a prescindere, pur ad averla sparata più grossa di una mongolfiera. E, a opporle qualcosa, ti confonde. In più, rispetto al “nostro”, ha il prestigio che le deriva dal posto a cassetta e dalla toga che, nell’appesantire le spalle, conferisce una supponenza che, minimo, rende venti centimetri più alti - fa lievitare da terra, chissà? A provarci, magari si cammina sulle acque. Mi è venuto in mente per aver letto la strabiliante interrogazione al ministro Nordio dell’onorevole Cafiero de Raho, tesa a indurre il Governo a un intervento presso il Consiglio d’Europa per impedire l’accoglimento di un ricorso di innocenti avverso l’abnormità di beni loro sequestrati, poi restituiti in rovina e senza alcuna possibilità risarcitoria - per evitare la “messa in discussione del pilastro fondamentale del contrasto delle mafie in Italia ed in Europa”, questa la motivazione. L’innocente, cioè, dovrebbe soggiacere chioccia al gallo pur di non inceppare un sistema da Inquisizione, pur di non guastare i risultati della lotta alla mafia, pur di conservare le leggi coercitive con cui essa è affrontata, con buona pace dello Stato di diritto nella nazione che si picca essere la patria del diritto, con buona pace di norme con un grosso tanfo d’incostituzionalità e contravvenendo alla presunzione di non colpevolezza. Nulla dovrebbe perciò contare, dice de Raho, essere estranei ai delitti che hanno comportato il provvedimento sui beni, perché c’è un’esigenza superiore e perché, comunque, i processi alla persona e il sequestro/ confisca marciano su due binari diversi, e i proprietari, pur non essendo né mafiosi né collusi in alcun modo, se la devono ingoiare. Mah! E sarebbe giustizia? Ed è normale che un ex magistrato di prestigio intralci così il cammino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, massacri il diritto e calpesti l’innocenza conclamata? Il caso in questione è quello di Pietro Cavallotti. Che è siciliano come la dottoressa Saguto, ben nota alle cronache per le vicende del suo ufficio palermitano e per la condanna definitiva che ha sul groppone. Eppure Saguto nulla ha insegnato, se de Raho insiste senza tener in conto che la garanzia degli innocenti vale molto più dei colpevoli che la fanno franca. E qui ecco spuntarmi Davigo, ma è un’altra storia, da riderci e da piangerci, di uno che non l’ha fatta franca. Quella norma è una vergogna nazionale che neanche nell’Argentina dei tempi bui. Con quale coscienza s’irrompe così nelle vite di persone perbene e le si manda in frantumi, etichettandole mafiose solo in base a vaghi e fumosi indizi, a congetture più o meno strampalate, chiacchiere e sentito dire, malevolenza magari, o inezie come bere un caffè con uno in odore di mafia, e tuttavia libero di circolare. De Raho da queste parti lo conosciamo bene. Fu Procuratore Antimafia di Reggio Calabria. È il Procuratore che consigliava ai reggini onesti di non uscire di casa, come faceva lui che nemmeno andava a giocare a tennis per non offrirsi alla possibilità d’impattare in personaggi equivoci. Non credo occorrano commenti. Gli ha fatto eco Chiara Colosimo, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, quel carrozzone inutile, il contentino ai bidonati della politica. Si è schierata a favore dell’abominio, dichiarando “… il fatto che, prima di una condanna, tu possa togliere dei beni a qualcuno è visto da pazzi, invece è la nostra più grande risorsa e capacità di fare antimafia”, testuale, nella sala Matteotti alla Camera. Ha poi obiettato alle legittime lamentale sull’ingiustizia subita esternate da Massimo Nicita - caso simile a quello Cavallotti - che basta fare richiesta di essere audito dalla Commissione Nazionale Antimafia e chiarire lì la propria posizione. Nicita la farà. E gli toccherà la sorte di Cavallotti, che ancora aspetta di essere convocato dall’allora Presidente Rosy Bindi. Quindi, innocenti fatevene una ragione se vi hanno rovinato, questo è, lo diciamo noi ed è così, come il nostro ubriacone insomma. Senza peraltro capire che questo, assieme a tant’altro, ha contribuito a una fiducia rasoterra della Giustizia, mai così bassa. Tutto questo, mentre il Sistema è un colabrodo, e la lotta antimafia peggio, se, tanto per fare un esempio, in Calabria il contrasto alla ‘ ndrangheta ha portato a un’innocenza maltrattata - gente che si è rivelata innocente alla fine dei tre gradi di giudizio - pari al 57%. Tutto questo, mentre l’Italia esalta certi combattenti dell’antimafia quasi fossero i nuovi Falcone e Borsellino, senza uno, dico uno, che si prenda la briga di andare a controllare la reale consistenza delle operazioni di polizia strombazzate a pieni polmoni e poi, al quaglio, risultate ben misera cosa, una falcidia di poveri cristi immolati alla vanità, e alle carriere, che avanzano e svettano, perché importa il clamore in uscita e non il bluff di ritorno. Chiudo con una nota personale: un mio amico medico riconosce la malattia che ha condotto alla morte solo guardando una fotografia del volto prima del trapasso: studio delle facies, si chiama in medicina. Ci azzecca quasi sempre. Beh, certuni guardiamoli in faccia da vivi. Non occorre il dono del mio amico per accorgersi che non c’è automatismo tra carriera e risultati in quest’Italia che troppo cammina all’indietro come il cordaio nell’intrecciare le corde. Me ne resi conto alla presentazione di un mio romanzo. Tra i relatori, un importante magistrato dell’antimafia. “Houston, abbiamo un problema, X è un cretino!”, fu il commento del giornalista che dirigeva il dibattito, esternato in una telefonata a un amico giudice di quelli bravi. Scrivo X perché non venga individuato e io non mi buschi una querela. So che non è facile identificarlo, non è che quella dei magistrati sia una categoria con meno cretini di altre, è nella media, però può fare danni più di chiunque, e alcuni sono talmente cretini da sentirsi gli anticipatori, in terra, del giudizio divino, un supporto al Padreterno insomma, presumono di sedere, se non alla Sua destra, nel posto immediatamente dopo. Calabria. “La dignità non si arresta, il carcere sia un luogo di riscatto e reinserimento” di Davide Imeneo avveniredicalabria.it, 18 febbraio 2025 Intervista alla Garante regionale dei diritti dei detenuti Giovanna Russo: “Sanità, sicurezza e giustizia riparativa le priorità per un nuovo umanesimo giuridico”. La dignità umana deve essere al centro del sistema penitenziario, che non può limitarsi alla punizione ma deve offrire reali possibilità di reinserimento. Ne è convinta Giovanna Russo, neo garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Calabria, che racconta in questa intervista le sfide e le priorità del suo mandato. Giovanna Russo, giovane avvocato reggino, è stata recentemente eletta alla guida dell’Ufficio regionale del Garante dei detenuti. Dopo l’esperienza maturata come garante comunale a Reggio Calabria, ora è pronta a estendere il suo impegno su scala regionale. Per lei, il carcere non può essere solo un luogo di espiazione, ma deve diventare un ambiente in cui i diritti siano garantiti e si offrano opportunità di riscatto. Crede che l’esperienza maturata come Garante comunale possa essere replicata con successo su scala regionale? Ci sono delle differenze sostanziali nell’approccio? Quasi cinque anni da garante di Reggio Calabria mi hanno permesso di maturare un’esperienza complessa, impegnativa e delicata. Ho visto le storture del sistema da una città tra le più complesse d’Italia, tracciando con le istituzioni un progetto di giustizia giusta e legalità dentro e fuori le mura. Siamo tutti consapevoli che, se non torniamo a occuparci insieme delle carceri, lasciamo spazio alla pervasività delle mafie, che depredano la qualità della vita negli istituti. Un metodo che adotterò su scala regionale, consapevole che solo un’azione corale può ripristinare la legalità, primo strumento di garanzia dei diritti, per un nuovo umanesimo giuridico. Qual è la situazione più urgente che ha trovato nel sistema penitenziario calabrese e quale sarà il primo passo concreto per affrontarla? La questione più urgente nel sistema penitenziario calabrese è la sanità. Le condizioni attuali non garantiscono un’assistenza adeguata, incidendo sulla qualità della vita nei penitenziari. Siamo già al lavoro con il Dipartimento Salute per dare subito risposte concrete. Particolare attenzione dovrà essere, poi, riservata alla gestione dei soggetti psichiatrici, un ambito in cui la Calabria, rispetto alle altre regioni d’Italia, può fare passi avanti significativi se avremo il coraggio e la determinazione di compiere alcune scelte. Un’altra criticità è la carenza di medici. Nei prossimi giorni presenterò al Dipartimento e al Provveditorato una progettualità che, se accolta, potrebbe offrire una soluzione immediata o almeno alleviare una criticità ormai insostenibile. Questa situazione incide sulla qualità della vita e del lavoro di medici, infermieri e agenti di sezione, che, nonostante l’impegno quotidiano, faticano a garantire un servizio adeguato. A loro va tutta la mia vicinanza istituzionale. La carenza di personale di polizia penitenziaria e la difficoltà nel garantire una sanità adeguata ai detenuti sono questioni ricorrenti: ci sono soluzioni praticabili nel breve termine? Le criticità a cui lei fa riferimento sono problemi diversi, ma connessi tra loro. Incidono sulla sicurezza e qualità della vita nei penitenziari. Il rischio di questa alterazione è che purtroppo si creino spazi vuoti in cui attecchisce la criminalità organizzata, dentro e fuori le mura. La soluzione comune andrebbe trovata partendo da un terreno comune: la sicurezza. Garantire un carcere sicuro significa adottare misure concrete per migliorare migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti. È partendo dalla sicurezza che potremo garantire spazi e cure adeguate a tutti i detenuti, soprattutto ai più deboli e vulnerabili. Ritiene che la giustizia riparativa possa essere una risposta efficace per ridurre il sovraffollamento carcerario? Non solo può, ma deve essere lo strumento per pacificare il microcosmo carcerario. Parlo di una giustizia riparativa e del metodo Morineau, una giustizia umanista. Il modello umanistico di riferimento è uno spazio fisico e metafisico che accoglie disordine, sofferenza e separazione, accompagnando il grido della ferita subita e la lotta interiore. Quel “saper essere” e “saper fare” nel quotidiano permettono di vivere con autenticità, rispettando le differenze reciproche e riconoscendo il valore del dono condiviso, con umiltà. Essere umili e gentili con autorevolezza ristabilisce equilibrio e pacificazione sociale intramuraria, favorendo spazi di trattamento. Molti detenuti, una volta usciti, si trovano privi di un supporto adeguato per ricostruire la propria vita. Quali strumenti concreti si possono mettere in campo per agevolare il reinserimento? Lavoro e supporto psicologico, anche dopo la detenzione. Riprendere in mano la propria vita non è facile, ma garantendo lavoro e assistenza adeguata otteniamo due risultati fondamentali: toglieremo manovalanza alle mafie e offriremo un futuro a persone e famiglie e, quindi, a nuove generazioni. In questo senso, merita un plauso il protocollo siglato in Prefettura a Reggio Calabria qualche mese fa, che, sotto la guida della Prefetta e con il lavoro dell’assessore al Lavoro della Regione Calabria, ha stanziato risorse per formazione e avviamento al lavoro. Un riconoscimento va a tutti i partner coinvolti: il loro impegno è creare concretamente cultura e riscatto. La Calabria ha un grande potenziale e il dialogo con i livelli centrali, in questo settore, è costante. Anzi, le politiche per un nuovo welfare penitenziario sono seguite con attenzione: la “casa di vetro” di cui parlo da anni. Pescara. Disordini in carcere dopo il suicidio di un 24enne egiziano di Patrizia Pennella Il Messaggero, 18 febbraio 2025 Alcuni connazionali del ragazzo hanno scatenato la rivolta, sedata a fatica. La protesta è esplosa quando i familiari erano già in fila per le visite. E anche quella è stata una parte di emergenza non semplice da gestire. Una giornata dura, durissima, quella di ieri per la casa circondariale di Pescara, dopo la morte di un giovane detenuto egiziano, che si è ucciso impiccandosi in cella. Ventiquattro anni, con qualche problema di adattamento, a Pescara era arrivato da fuori regione. Di fatto, tutti gli allarmi lanciati dal personale di polizia penitenziaria negli ultimi anni si sono concretizzati ieri: appena si è sparsa la voce della morte del 24enne egiziano, il clima di tensione si è fatto sempre più fitto. La protesta è partita proprio dal nucleo dei connazionali del ragazzo, che hanno iniziato ad appiccare il fuoco ai materassi all’interno delle celle. Si è sprigionato un fumo acre che ha invaso tutta la sezione. È stata applicata immediatamente la procedura di sicurezza e anche gli esterni che erano arrivati per le visite sono stati fatti allontanare. Intanto, alcuni detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto della sezione interna e il camminamento del muro di cinta: non ci sono stati comunque tentativi di evasione. Anche all’esterno è stato attivato un dispositivo, coordinato dal dirigente dell’ufficio prevenzione generale della questura, Pierpaolo Varrasso, per gestire le aree immediatamente vicine alla casa circondariale. Preoccupazione anche per la presenza dei familiari arrivati per le visite. All’interno del carcere, intanto è partita la lunga trattativa per convincere i rivoltosi a scendere dal tetto, andata a buon fine dopo qualche ora. La protesta sembrava rientrata quando, dall’interno delle celle, sono partiti nuovi incendi al piano terra, in spazi già devastati qualche settimana fa: per i vigili del fuoco, già intervenuti nella prima fase, non è stato semplice effettuare gli interventi anche tenendo conto del sovraffollamento della struttura. Le ambulanze inviate dalla centrale operativa del 118 hanno trasportato in ospedale nove agenti di polizia penitenziaria rimasti intossicati dal fumo. Medicati anche alcuni detenuti. La protesta, che avrebbe coinvolto oltre duecento persone, è rientrata nel pomeriggio, ma i vigili del fuoco in serata erano ancora al lavoro. Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, sottolinea: “Sono quotidiane le nostre denunce con le quali evidenziamo che la situazione penitenziaria è sempre ad alta tensione. Alla teoria di chi parla di carceri conoscendoli poco, ossia dalla parte della polizia penitenziaria, vogliamo rispondere con la concretezza dei fatti. Che parte da un dato incontrovertibile: la polizia penitenziaria continua a “tenere botta”, nonostante le quotidiane aggressioni. Servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza”. Invece, il segretario della Uilpa Pp Gennarino De Fazio spiega: “Con quello di oggi, sono ben 12 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere un operatore, mentre non si contano le tensioni. Va subito deflazionata la densità detentiva, va garantita l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive dell’intero sistema d’esecuzione penale”. Una politica di deflazione necessaria anche per Nicola Di Felice, segretario regionale di Osapp, che ribadisce come “la situazione all’interno del carcere di Pescara sia sempre più esplosiva, resa critica dal sovraffollamento”. “L’esplosione di rabbia e disperazione seguita a questa drammatica perdita è il segnale di un malessere profondo che non può più essere ignorato. Non si tratta di episodi isolati: è evidente che la condizione dei detenuti sia insostenibile e che il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena venga disatteso nella realtà quotidiana” affermano Saverio Gileno, Silvia Sbaraglia ed Emanuele Castigliego dei Giovani Democratici. “Considerata la gravità dei fatti, stiamo seguendo con attenzione l’attuazione dei provvedimenti approvati di recente dal governo” aggiungono Vincenzo D’Incecco e Carla Mannetti, consiglieri regionali della Lega. In serata è trapelata la notizia del trasferimento della direttrice del carcere, Armanda Rossi, in Campania: la dirigente è indagata per omissione di atti d’ufficio e la Procura le ha notificato nei giorni scorsi l’avviso di conclusione delle indagini. Pescara. Suicidio, proteste in carcere di Francesco Lo Piccolo vocididentro.it, 18 febbraio 2025 Ventiquattro anni, di origine egiziana, gravi problemi di dipendenza. Si è ucciso ieri mattina impiccandosi in carcere a Pescara. Gesto finale dovuto a malessere e disagio e che ha provocato, come reazione, l’ira di molti detenuti che hanno dato fuoco per protesta a materassi e suppellettili e reso inagibile tutto il primo piano della sezione penale. Giornataccia per il carcere di via San Donato: corridoi e celle si sono subito riempite di fumo nero, acre e tossico proveniente dai materassi che dovrebbero essere ignifughi, ma che in realtà sono semplici strisce di poliuretano dello spessore di pochi centimetri: per risparmiare sui costi e contravvenendo alle norme che prescrivono l’obbligo di utilizzo dei materassi ignifughi certificati per le strutture ricettive con più di 25 posti letto come ad esempio residenze sanitarie, RSA, case famiglia, case di cura, cliniche private, aziende sanitarie, alberghi. Norma che vale anche per le carceri dove invece viene tranquillamente violata. Una giornataccia che è la conseguenza diretta di una politica del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che usa il carcere come il luogo del concentramento di persone in stato di disagio, di giovani sofferenti per problemi di dipendenza, di emarginati sociali e stranieri. In definitiva quello accaduto a Pescara è il punto d’arrivo di una mala gestione che ha accatastato (tra sezione penale e giudiziaria) oltre 440 persone quando i posti sono appena 270, facendo crescere il numero dei detenuti di giorno in giorno. Il risultato è che tanti sono costretti a dormire per terra sulle strisce di poliuretano perché mancano brande a sufficienza, e altri vengono rinchiusi in locali senza il gabinetto come le sale colloqui avvocati, la stanzetta barberia o nelle stesse celle in disuso perché inagibili. Senza dimenticare che oltre alle brande mancano anche gli sgabelli e che nel carcere di Pescara o si mangia a turno o seduti sulle brande. E queste cose le ho viste di persona, come di persona ho visto gli agenti di polizia penitenziaria, anche questi in numero ridotto: appena 100 quando la pianta organica ne prevede 170 costringendoli così a tripli turni, oltre venti ore di lavoro di seguito. A Pescara come nel resto delle carceri italiane dove mancano, come afferma Gennarino De Fazio, segretario Uil, ben 16 mila unità. Con l’episodio di Pescara salgono a 13 le persone morte suicide in carcere, tre nello stesso istituto (Modena). Dall’inizio dell’anno è una strage, in tutto 24 morti comprese le persone decedute per malattia o per cause ancora da accertare. Oltre alla fragilità, tutte hanno in comune un passato fatto di disagi, difficoltà di vita e una carcerazione in carceri malsani come appunto Modena dove un’ispezione effettuata da Antigone a fine 2024 aveva messo in evidenza sporcizia, pareti scrostate, porte dei bagni delle celle arrugginite, lampade nei corridoi non funzionanti e un sovraffollamento oltre ogni limite: 568 detenuti di fronte a una capienza regolamentare di 372 posti. In un mondo normale, chi gestisce le cose così dovrebbe essere mandato via. E purtroppo non succede. Morto dopo morto, suicidio dopo suicidio, il carcere resta il luogo senza democrazia e senza diritti. La colpa di chi è? Dei detenuti che protestano? Io non lo credo proprio. E dubito che lo possano credere le persone di buonsenso. Lecce. Detenuto morto: nell’inchiesta per omicidio colposo anche l’ipotesi di un pestaggio di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 18 febbraio 2025 L’indagine sulla morte del 52enne Massimo Calò era stata avviata dopo la denuncia della famiglia: l’uomo aveva detto di essere caduto dal letto. Gli accertamenti ripartiti dal un post sui social. “Ha litigato in cella. È stato un mese in coma. Come si dice, ha ricevuto un colpo in testa con la caffettiera”. È questo il messaggio che ha ulteriormente acceso i riflettori sulla morte di Massimo Calò, leccese di 52 anni, deceduto il 4 febbraio a causa di un grave ematoma alla testa che lo aveva portato al coma. Una morte inizialmente attribuita a una caduta accidentale dal letto in cella, ma sulla quale un messaggio sui social ha ora sollevato il dubbio che l’uomo possa essere stato aggredito. Sono gli ultimi sviluppi sull’inchiesta avviata dalla procura di Lecce, che sta cercando di fare chiarezza sulle circostanze della morte dell’uomo. Il messaggio comparso sui social ha spinto gli investigatori a rivedere questa ipotesi: nel post, condiviso dai familiari di altri detenuti, infatti, si fa riferimento ad una lite in cella e di un colpo ricevuto con una caffettiera. L’ipotesi dell’aggressione sembra circolare da giorni tra gli stessi detenuti. Le indagini della polizia penitenziaria, coordinate dal pubblico ministero Maria Grazia Anastasia, sono ora finalizzate a verificare se effettivamente Calò sia stato vittima di un pestaggio, nonostante quest’ultimo abbia dichiarato ai medici di essersi ferito dopo essere caduto dal letto. Sulla morte dell’uomo è già stata avviata un’inchiesta per chiarire la condotta del medico di turno dell’infermeria del carcere di Lecce, accusato dai familiari di Calò di aver sottovalutato la gravità dell’ematoma. Calò, curato inizialmente nel penitenziario di Borgo San Nicola, dopo due giorni, fu trasportato d’urgenza al Fazzi e qui ricoverato per un’emorragia interna, morendo dopo quasi un mese di coma. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Morte del detenuto, i periti in aula: deceduto per asfissia chimica casertafocus.net, 18 febbraio 2025 Il decesso del detenuto Hakimi Lamine, avvenuto il 4 maggio 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quasi un mese dopo la perquisizione straordinaria - era il 6 aprile - nel corso della quale circa 300 agenti si resero responsabili di condotte violente verso i detenuti del reparto Nilo del carcere casertano, è avvenuto per “un’asfissia chimica dovuta alla contemporanea assunzione di farmaci contenenti benzodiazepine, oppiacei, neurolettici e antiepilettici”. Lo hanno affermato nell’udienza del maxi-processo in corso all’aula bunker annessa al carcere (105 imputati tra agenti della penitenziaria, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e medici Asl in servizio al carcere) i consulenti della Procura, Luca Lepore, medico-legale, e Vito De Novellis, farmacologo, che eseguirono l’autopsia sul corpo di Hakim nel maggio di 5 anni fa. Questo va quindi in contrasto l’accusa della Procura di Santa Maria Capua Vetere (pm Alessandro Milita, Alessandra Pinto e Daniela Pannone) secondo cui la morte di Hakimi sarebbe legata direttamente alle percosse subite il 6 aprile, fatto quest’ultimo che ha radicato la competenza della Corte d’Assise ed è contestato a dodici imputati (il reato è morte come conseguenza delle torture). “Dall’autopsia - spiega Lepore - non sono emersi eventi traumatici che possano aver causato la morte, ma solo un’ecchimosi allo zigomo, compatibile con le convulsioni dovute alla morte per asfissia e ferite dovute a passati atti di autolesionismo”. In aula è emerso che Hakimi prendeva da tempo un mix di farmaci per problemi legati soprattutto all’assunzione di stupefacenti, in particolare tre farmaci la cui concentrazione di principio attivo nel corpo di Hakimi dopo la morte, ha detto De Novellis, “è risultata compatibile con un’assunzione regolare, secondo la terapia prescritta”. Reggio Emilia. “Percosse” sul detenuto incappucciato. Ma non fu tortura di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 febbraio 2025 Il Gup riqualifica i reati e ammorbidisce le pene per i dieci agenti. “Attonito” il legale di parte civile. Condannati per falso tre poliziotti penitenziari. La testa chiusa in una federa stretta al collo, trasportato di peso nudo dalla cintola in giù, i colpi inferti “dall’alto verso il basso”, dove il detenuto già versava dopo lo sgambetto che lo avrebbe fatto crollare. Calpestato, secondo le immagini registrate dalle telecamere interne di videosorveglianza. Tutto questo non fu tortura, ma “abuso di autorità in concorso”. Non furono lesioni ma percosse aggravate. Il processo in primo grado, con rito abbreviato, ai dieci poliziotti penitenziari del carcere di Reggio Emilia che erano stati accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso in relazione al pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023, si è chiuso così, ieri, con pene molto più basse di quelle richieste dalla procura e con la riqualificazione dei reati a loro ascritti. Dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, la Giudice per le udienze preliminare reggiana, Silvia Guareschi, ha riconosciuto gli imputati rei di aver usato violenza nei confronti del detenuto ma ha negato che fosse tortura e ha comminato loro condanne che vanno dai due anni ai quattro mesi di reclusione, respingendo così le accuse del Pubblico ministero Maria Rita Pantani che aveva richiesto pene fino a cinque anni e otto mesi di carcere per un imputato in particolare, e cinque anni per altri sette agenti. Confermato, invece, il reato di falso per i tre imputati a cui era contestato. La vittima, un quarantenne di origine tunisina, è ancora rinchiuso nel carcere di Reggio Emilia per scontare gli ultimi mesi di pena dei tre anni di reclusione ai quali è stato condannato per reati legati allo spaccio. Quel giorno di quasi due anni fa, sul detenuto che, secondo gli agenti, stava facendo resistenza al trasferimento in isolamento si sono scagliati in tanti: secondo la ricostruzione della procura che ha mostrati i filmati della videosorveglianza annessi agli atti del processo, l’uomo fu incappucciato e brutalmente malmenato, anche quando era riverso a terra. Durante il rito abbreviato voluto dagli imputati, tutti gli agenti hanno chiesto scusa al detenuto che si è costituito parte civile. Otto di loro hanno anche versato mille euro ciascuno come gesto riparatorio. Ma prima del processo i poliziotti penitenziari che intervennero il 3 aprile 2023 (tra loro un vice ispettore, tutti ancora sospesi dal servizio) riferirono che il detenuto avesse sputato loro addosso e fosse armato di lamette da barba. Secondo la vittima, invece, le violenze continuarono anche quando venne trasferito in isolamento e lui dovette ferirsi con dei frammenti di un lavandino per richiamare l’attenzione del medico. Il quale gli venne in soccorso, trovandolo in una pozza di sangue. La sentenza, pronunciata in un’aula riempita dai parenti, dai colleghi e dagli amici degli imputati, è stata accolta dall’avvocato Luca Sebastiani, legale di parte civile per il detenuto, con stupore: “Sono perplesso e attonito - ha detto - leggeremo le motivazioni che hanno portato alla riqualificazione del reato di tortura che è ciò che più ci interessava. Al di là della pena, che non ci interessa in alcun modo, e del risarcimento che ci interessa in maniera incidentale - ha sottolineato l’avvocato - L’incappucciamento e il denudamento in quelle modalità, il pestaggio che c’è stato, come si vede dalle immagini di videosorveglianza, erano chiare e non a caso il Gip e il Riesame avevano confermato quella qualifica, la tortura. Ad oggi il quadro è cambiato, valuteremo le opportune mosse una volta lette le motivazioni”. Se non altro, il dispositivo emesso ieri, in primo grado, spazzerà via una certa vulgata cara alle destre secondo la quale la legge sulla tortura interferisce con il lavoro (sano) delle forze dell’ordine. Reggio Emilia. Detenuto pestato. Pene lievi per i 10 agenti: “Quella non fu tortura” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2025 L’uomo fu incappucciato, denudato e picchiato. Le telecamere ripresero tutto. Condanne da 4 mesi a due anni. La parte civile: “Siamo perplessi e attoniti”. Vi furono condotte illecite da parte degli agenti della polizia penitenziaria verso il 44enne tunisino allora detenuto nel carcere di Reggio Emilia, ma non tali da configurare la grave accusa di tortura aggravata formulata dalla Procura e riconosciuta in prima battuta anche dal gip. È il senso della sentenza di primo grado emessa ieri sera dal giudice dell’udienza preliminare Silvia Guareschi per i dieci agenti imputati, oltre che per quel reato, anche per lesioni al 44enne e falso nelle relazioni sull’episodio contestato, datato 3 aprile 2023, che fu denunciato dal detenuto. Tutti quanti, ora sottoposti alla misura cautelare della sospensione dal lavoro, hanno scelto il rito abbreviato. Il pm Maria Rita Pantani aveva chiesto pene severe: 5 anni e 8 mesi per il viceispettore Luca Privitera, accusato di tutti e tre i reati; 5 anni per altri sette imputati per tortura e lesioni; 2 anni e 4 mesi per i due che dovevano rispondere solo di falso. Il giudice Guareschi, ieri, ha riqualificato l’accusa di tortura aggravata nel reato di abuso di autorità contro detenuti in concorso e ha riformulato le lesioni in percosse. Poi ha deciso le condanne, tutte quante con pena sospesa per cinque anni e non menzione nel casellario, molto più lievi di quelle chieste dal pm e accolte con lacrime di commozione, abbracci e pacche sulle spalle. Per Privitera, disposti due anni per questi due reati più il falso. Il gup ha poi deciso, per abuso di autorità e percosse, un anno, con la continuazione tra i reati per gli assistenti capo Giovanni Mastinu e Angelo Pio Latino, oltre all’agente Giovanni Navazio. Sempre per queste due accuse, per l’assistente capo Federico Lioce una pena di 6 mesi e 20 giorni; agli agenti Angelo Di Pasqua, Giuseppe Valletta e Umberto Esposito Marroccella 4 mesi. Un anno, per il solo reato di falso del quale erano imputati, anche per l’assistente capo Andrea Affinito e il viceispettore Giampietro Urso. Gli accertamenti si erano basati sul video delle telecamere interne. Secondo la ricostruzione accusatoria, il detenuto uscì dalla stanza della direttrice del carcere dopo averla insultata per essere stato sanzionato per violazioni del regolamento. Fu incappucciato con una federa al collo e colpito con pugni mentre veniva spinto verso il reparto di isolamento. Quindi denudato e condotto nella cella; qui, non più col volto coperto, sarebbe stato preso a calci e pugni e lasciato nudo dalla cintola in giù. Secondo il pm, fu inventato che lui aveva lamette. Nel febbraio 2024 il Guardasigilli Nordio e il ministro degli interni Piantedosi parlarono di “cose inaccettabili”. I dieci imputati devono versare in solido tra loro una provvisionale di 10mila euro e il risarcimento al detenuto, parte civile con l’avvocato Luca Sebastiani. Esprime “soddisfazione”, seppur annuncia di valutare “ricorso in Appello”, l’avvocato De Belvis, che seguiva quattro persone. Sulla scia gli avvocati Tria e Rossi: “Le richieste di riqualificazione sono state accolte. Vi sono state sbavature nella condotta, ma non tortura”. Deluso l’avvocato Sebastiani: “La sentenza ci lascia attoniti e francamente preoccupati. Fu un fatto gravissimo, che non dovrebbe mai accadere”. Lapidario Michele Passione, avvocato del Garante nazionale: “È una sentenza sbagliata”. Il Garante regionale, Roberto Cavalieri, si è detto “dispiaciuto nel vedere manifestazioni di gioia. Per il giudice non fu tortura, ma restano gli altri reati riconosciuti”. E la senatrice Ilaria Cucchi: “Non mancava niente per qualificare tutto quello che avvenne nel carcere di Reggio Emilia per quello che è: tortura. Non sono ipotesi, ci sono i video che parlano da soli. Abbiamo ancora, forse per poco, un reato apposta nel nostro ordinamento. Io stessa mi ero battuta per la sua introduzione nel 2017. Ed è lì proprio perché ‘abuso di autorità’ non basta”. Modena. Allarme al Sant’Anna: “Servono risorse per il carcere” di Giacomo Bizziocchi, Beatrice Fanti, Matilde Ferrarini e Raffaella Petrella* Gazzetta di Modena, 18 febbraio 2025 Così l’avvocato Ricco e l’onorevole Ascari: “I detenuti fanno parte della nostra comunità”. “I nostri istituti di pena sono traboccanti di detenuti. A Modena, la Casa Circondariale di Sant’Anna ospita oltre 550 detenuti, a fronte di una capienza di 370 posti”, lo ricorda l’avvocato penalista Roberto Ricco. In aggiunta, a causa di una scarsità cronica di agenti della polizia penitenziaria e di personale sanitario e amministrativo negli istituti di detenzione italiani, la vita dentro le carceri diventa “un’esperienza disumanizzante”. Alla luce del sovraffollamento, purtroppo le condizioni di vita dei detenuti sono peggiorate, “quasi ovunque si riscontrano deficit dell’edilizia, celle vecchie e maleodoranti, bagni indegni, assenza di progetti lavorativi e ricreativi per i detenuti, carenza di assistenza sanitaria”, questo lo testimonia l’avvocato e deputato del Movimento 5 Stelle, Stefania Ascari, a seguito delle sue numerose visite ispettive. Il segnale d’allarme, già quest’anno, è stato innescato dai recenti suicidi verificatisi nel carcere Sant’Anna a partire dallo scorso Natale, preannunciando un futuro incerto. “Lo scorso anno è stato un caso record con oltre 90 suicidi di detenuti e quest’anno non sembrerebbe esser da meno. Il pensiero va rivolto al futuro: come possiamo evitare che ci siano così tanti decessi e suicidi?”, riflette Ricco. La risposta risiede nel “garantire supporto psicologico continuo ai detenuti, migliorare le condizioni della struttura e incrementare il personale per prevenire episodi simili. Servono risorse”, così Ascari. Essendo tale problematica ben nota anche alle autorità, nel corso degli anni, sono state proposte diverse riforme del sistema penale e penitenziario italiano, come la riforma che risale a 50 anni fa, che non ha portato i risultati sperati. Le modifiche degli anni 90, come la modifica Simeone, e le riforme del 2018-2019, volte ad ampliare l’accesso alle misure alternative “sono risultate inadeguate - sostiene Ascari - l’innalzamento delle pene per reati minori contribuisce all’aumento dei detenuti, e i tempi della giustizia sono troppo lunghi: molti detenuti restano in carcere nonostante abbiano maturato il diritto a misure alternative, perché le decisioni vengono prese in ritardo”. Per Ascari risulta doveroso cambiare “l’approccio punitivo trasformandolo in un sistema maggiormente orientato alla rieducazione e al reinserimento sociale; è la nostra Costituzione a scriverlo nero su bianco”. Ancora Ricco: “Conoscere le condizioni dei propri assistiti è moralmente difficile, perché non consentono di perseguire l’obiettivo principale della pena, che secondo la Costituzione è la rieducazione”. La situazione nella Casa Circondariale di Modena è preoccupante, “considerando che su 550 detenuti ci sono solo 40 lavori da assegnare”, asserisce Ricco. Questo significa che molti detenuti non hanno alcuna opportunità di lavorare e di acquisire competenze utili per il reinserimento. Risulta urgente, dunque, un intervento per fronteggiare il sovraffollamento, che implichi provvedimenti strutturali, aumenti di personale penitenziario (il quale si vede addossato una mole di lavoro insostenibile), una maggiore assistenza psicologica e socio-sanitaria, e maggiore implementazione di pene alternative. Spiega Ricco: “Il carcere di Sant’Anna, anche se fuori dal centro città, ne è parte. Pensare che i detenuti siano fuori dalla società è sbagliato, come non pensare alle loro condizioni per sgravarsi la coscienza”. “Le carceri non sono discariche sociali, ma luoghi di riscatto e di reinserimento sociale”, chiude Ascari. *Studenti del liceo Muratori-San Carlo, classe 5C Firenze. Sollicciano, ancora pressioni: “Va abbattuto e ricostruito” di Niccolò Gramigni La Nazione, 18 febbraio 2025 La prima cittadina dopo l’ennesimo suicidio: “La maggioranza non incide”. Un’escalation di problemi. Prima di tutto i morti, troppi. Ma pure altre situazioni poco decorose. E così si torna a parlare delle carceri. Venerdì un detenuto poco più che ventenne si è tolto la vita a Prato, alla Dogaia, inalando il gas di una bomboletta da campeggio in uso per preparare cibi e vivande. Il giorno dopo, a Sollicciano, un 39enne si è suicidato impiccandosi nel bagno della cella. A intervenire, nuovamente, sul tema è stata la sindaca Sara Funaro, nel corso di un’intervista a Rtv38. Funaro ha chiesto una “soluzione radicale” per risolvere una questione che è un’altra ferita per la città. “Quel carcere - ha detto Funaro - ha tantissime problematiche strutturali, di dignità e salubrità del luogo”. Per questo la soluzione è ricostruirlo completamente”. A Sollicciano, inoltre, dopo che Antonella Tuoni non è stata riconfermata alla direzione, “serve una guida. Ringrazio Tuoni per il lavoro che ha svolto in questi anni in totale collaborazione e sinergia con le istituzioni. Personalmente è stato un dispiacere non averla più alla guida del carcere. Ma ora chiediamo una guida, dal momento che la direttrice non c’è più”. Funaro ha attaccato anche dal punto di vista politico. “La sensazione - ha concluso - è che da parte della maggioranza di governo non ci sia la volontà di voler realmente incidere sulle politiche da mettere in campo per dare le risposte necessarie. Questa volontà non la vediamo, ma noi continueremo a mantenere alta l’attenzione perché il numero dei suicidi registrati nelle carceri stanno aumentando in maniera esponenziale”. “Solo due settimane fa si è tenuta a Palazzo Chigi un vertice alla presenza del Ministro Nordio e del sottosegretario Del Mastro, ho piena fiducia nel governo che ha intenzione di rilanciare il piano carceri con migliaia di nuovi posti detentivi e penitenziari moderni sul modello nordeuropeo” ha affermato Alessandro Draghi, consigliere di Fdi e vice presidente del Consiglio comunale. “Ci elenchi la sindaca Funaro - ha osservato Alberto Locchi di Fi - quali sono ‘le politiche da mettere in campo per dare risposte significative’ che i governi di centrosinistra hanno applicato per risolvere questo grave problema che viene da lontano e non è certo risalenti agli ultimissimi anni. Se questo tema si butta in becera politica perderemmo solo tempo senza risolvere i gravissimi problemi di Sollicciano”. Pavia. Apre a Casteggio una Comunità per giovani con disagio psichico provenienti dagli Ipm Corriere della Sera, 18 febbraio 2025 Altre due Comunità saranno realizzate nelle province di Brescia e Como entro l’estate. Apre a Casteggio, in provincia di Pavia, la prima comunità socio-rieducativa ad alta integrazione sanitaria per minori e giovani adulti con disagio psichico o con disturbi da uso di sostanze provenienti dal circuito della giustizia minorile. Altre due comunità saranno realizzate nelle province di Brescia e Como entro l’estate. Il progetto è stato presentato lunedì in Regione dagli assessori Guido Bertolaso (Welfare), Elena Lucchini (Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità) e Simona Tironi (Istruzione, Formazione, Lavoro), insieme al sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari e al capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Antonio Sangermano. L’iniziativa risponde alla necessità di accogliere minori provenienti dal circuito della giustizia minorile, garantendo loro un percorso terapeutico-riabilitativo adeguato. Grazie a un investimento di 2,52 milioni di euro, Regione Lombardia ha previsto l’attivazione totale di 36 posti, con una compartecipazione alla tariffa giornaliera di 320 euro al giorno (40% Ministero della Giustizia, 60% Regione). La prima comunità, gestita dall’ente Recovery for Life, ospita i primi 9 posti. Il modello clinico adottato integra un approccio psicologico, neuropsichiatrico e riabilitativo, con attività che spaziano dalla psicoterapia individuale e di gruppo fino a laboratori creativi, educazione alla legalità e attività sportive. Inoltre, è prevista una collaborazione con l’Università di Bologna per lo studio dei contesti di vita dei ragazzi attraverso un approccio antropologico, al fine di personalizzare al meglio i percorsi terapeutici. La Direzione Generale Welfare di Regione Lombardia coordinerà le attività delle nuove strutture tramite una cabina di regia che coinvolgerà gli enti gestori, il Centro per la Giustizia Minorile lombardo, il Tribunale per i minorenni e l’Asst Santi Paolo e Carlo. “L’adozione del modello di comunità sociorieducative ad alta integrazione sanitaria - ha detto l’assessore al Welfare Bertolaso - rappresenta un passo fondamentale per offrire un percorso di cura e riabilitazione efficace ai giovani con disagio psichico o disturbi da uso di sostanze, in particolare a coloro che provengono dal circuito della giustizia minorile”. “Per la nostra Regione - ha evidenziato l’assessore Lucchini - la tutela dei minori è una priorità. Per questo da anni stiamo lavorando alla costruzione di un sistema di welfare penale che garantista ai giovani sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria non solo una seconda possibilità, ma anche concrete opportunità di inclusione”. “Il nostro impegno - ha sottolineato l’assessore Tironi - è lavorare sul tema istruzione non solo per garantire il monitoraggio della continuità scolastica ma anche per offrire a questi ragazzi nuove opportunità per imparare un mestiere. Un sistema di valori e competenze che consentirà loro, una volta usciti, di inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro”. “Ringrazio Regione Lombardia - ha concluso il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato alla Giustizia - per la proficua collaborazione con il Ministero della Giustizia. Il Governo conferma il suo impegno nel contrasto alla violenza e alla devianza minorili”. Rimini. Carceri piene, tribunale vuoto. I penalisti scioperano per due giorni di Lorenzo Muccioli Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2025 Gli avvocati si astengono dal lavoro per protestare contro il sovraffollamento nell’istituto occupato al 123%. Carcere sovraffollato. E i penalisti riminesi si mettono in ‘pausa’. Sarà un’astensione dal lavoro di protesta quella che andrà in scena domani e dopodomani al Tribunale di Rimini, con la camera penale che, in attuazione di quanto deliberato dal Coordinamento delle camere penali del distretto dell’Emilia-Romagna, ha proclamato l’astensione degli avvocati di Rimini per le giornate del 19 e 20 febbraio. L’astensione è “volta a denunciare le drammatiche condizioni nelle carceri del distretto”, rende noto il direttivo della camera penale. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari “ha raggiunto livelli insostenibili”, sostiene ancora la camera penale, che sottolinea come il carcere di Rimini registri una occupazione del 123%, dato elevato ma comunque tra i più bassi in regione se paragonato con Bologna (175%) o Ravenna (173%). “Pressoché ovunque si riscontrano condizioni di detenzione degradanti, frequenti suicidi e rilevanti carenze di organico”, continua la camera penale di Rimini. “Molte delle carenze dell’Amministrazione penitenziaria trovano soluzione solo grazie all’impegno di una rete di associazioni di volontariato, che svolgono un ruolo di supplenza dello Stato in ambiti cruciali per la vita personale e relazionale dei detenuti. Le specifiche criticità della casa circondariale di Rimini sono note da tempo - spiega ancora il direttivo -: ambienti ammalorati e fatiscenti, in particolare nella prima sezione; detenuti con problemi di tossicodipendenza; carenza di personale di polizia penitenziaria, costretto troppo spesso a svolgere compiti che spettano ad altre figure professionali. Come penalisti non possiamo rimanere indifferenti di fronte allo svilimento dei principi costituzionali della tutela della dignità delle persone, ancorché ristrette, e della finalità rieducativa della pena. Riteniamo pertanto urgente, nell’immediato, un provvedimento di indulto, che potrebbe eventualmente essere limitato a specifiche tipologie di reati e sottoposto a determinate condizioni stabilite dal legislatore. Uno Stato non è debole se concede clemenza; lo è se consente che la sua Costituzione venga violata”. Bologna. Cisco estende alla Dozza il suo programma di formazione nelle carceri di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2025 Cisco amplia nel Centro Italia il suo programma di formazione delle competenze digitali nelle carceri. L’azienda nel penitenziario romano di Rebibbia ha iniziato l’attività tre anni fa, formando finora una cinquantina di persone. Quest’anno ha due aule, con 16 donne e 19 uomini. Qui ci sono detenuti che hanno passato il corso base e stanno facendo i corsi avanzati, molto impegnativi e complessi. Entro fine 2025 verrà aperto un analogo programma anche a Bologna. Cisco è una multinazionale statunitense che si occupa di innovazione digitale: networking, sicurezza, sistemi di collaborazione per far comunicare le persone, gestione cloud. È nata 40 anni fa arrivando a fatturare 54 miliardi di dollari l’anno, con oltre 80mila addetti nel mondo. In Italia è presente da 30 anni, con due sedi a Milano, una a Roma, un centro di ricerca a Vimercate e uno a Pisa. In Italia ci sono 600 addetti (di cui circa 30 a Pisa e 170 a Roma), con 1.500 rivenditori Cisco. “Come azienda - racconta Gianmatteo Manghi, amministratore delegato di Cisco Italia - abbiamo programmi sul territorio per cercare di promuovere le competenze e l’innovazione digitali. Da 25 anni abbiamo inaugurato la rete di Cisco Academy con contatti con 350 tra scuole superiori, Its Academy, istituti di formazione. Li sosteniamo con contenuti formativi, tecnologie, programmi, rivolgendoci a vari target: dagli studenti delle superiori fino ai lavoratori che si vogliono aggiornare”. Un programma che ogni anno si consolida. “Abbiamo formato - continua l’amministratore delegato - nel 2024 più di 70mila persone, molte delle quali in settori chiave come cybersicurezza e cloud. Secondo le nostre statistiche, chi non ha un lavoro e frequenta i nostri corsi entro sei mesi trova una occupazione con un tasso del 96%”. All’interno di questo impegno nella formazione, Cisco circa 20 anni fa ha avviato il suo programma negli istituti di pena. “Ci siamo detti - chiarisce Manghi - perché non portare queste attività formative nelle carceri? Gli obiettivi principali sono la giustizia riparativa e rieducativa, e insieme colmiamo il gap di competenze digitali aumentano le persone in possesso di professionalità molto richieste dal mercato”. L’iniziativa è quindi partita nel carcere di Bollate a Milano, e sempre al Nord si è estesa a Monza, Torino e Verona. Nel Centro, come detto, tre anni fa è partita l’iniziativa a Rebibbia e nel 2025 è previsto l’approdo a Bologna. “Fino al 2024 - sottolinea l’amministratore delegato di Cisco Italia - abbiamo formato 1.800 persone e al momento nel abbiamo 250 che seguono i nostri corsi. Ci sono detenuti che sono diventati docenti certificati, altri lavorano durante il giorno e poi tornano la sera in carcere. Abbiamo raggiunto un ottimo risultato, perché per i detenuti che frequentano i nostri corsi la recidiva e zero”, conclude. Firenze. Il carcere contro i diritti umani dei detenuti, convegno dell’Ordine degli Avvocati di Ginevra Montenovo ultimavoce.it, 18 febbraio 2025 Il carcere contro i diritti umani: il sistema carcerario sta raggiungendo livelli sempre più preoccupanti per la tutela dei diritti umani dei detenuti. È quanto riportato dall’ultimo convegno promosso dall’Ordine degli Avvocati di Firenze, che mette in risalto le disumane condizioni di vita che i detenuti devono affrontare ogni giorno. Diritti umani inesistenti, persone ammassate in celle troppo piccole e anguste, depressione all’ordine del giorno, mancanza di ascolto e supporto terapeutico. I carcerati in Italia sono individui abbandonati a se stessi, soli, costretti a vivere lottando con le unghie e con i denti per sopravvivere in un contesto fondato sulla violenza e sul degrado. Istituti penitenziari inadeguati, in cui la brutalità è all’ordine del giorno. In un mondo aggressivo, si diventa aggressivi pur di sopravvivere. Il carcere contro i diritti umani: un sistema penitenziario nemico della vita. Persone che hanno sbagliato, ma a cui viene negata ogni occasione per un reinserimento sociale, spesso costrette a rimanere nel limbo della pena, senza la possibilità che questa venga sfruttata per la costruzione di un futuro migliore, più sostenibile e conforme alle norme di comportamento umano personale e nei confronti della società. Sono argomenti d’impatto, in questi giorni sempre più noti: il 16 febbraio Casa Caciolle, a Firenze, ha ospitato il convegno “Il carcere: una istituzione al collasso”, incentrato sulla sensibile tematica della situazione dei detenuti. Argomenti principali del convegno sono stati la necessità di garantire nuovamente i loro diritti umani e l’urgenza di modificare l’obiettivo della pena, affinché non rimanga solo una punizione da scontare, ma un utile strumento per permettere ai singoli individui il reinserimento sociale nella comunità. Il convegno, promosso dalla Fondazione Forense e dall’Ordine degli Avvocati di Firenze, e supportato dalla Camera Penale e dall’Opera Divina Provvidenza Madonnina del Grappa, ha visto l’apertura con le parole di Luciano Eusebi, Professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e ha proseguito con l’intervento di diversi docenti di diritto penale dell’università di Firenze (Giovanni Flora, Fausto Giunta, Francesco Palazzo e Roberto Bartoli). L’opinione risulta univoca: le condizioni penitenziarie risultano ancora troppo carcero-centriche e il bisogno di un cambiamento appare ormai necessario per il rispetto di idonee condizioni umane dei detenuti. L’esperienza del carcere non può diventare solo una punizione con cui i carcerati devono fare i conti per la vita. Visti per sempre come buoi pronti al macello, rinchiusi e destinati a rimanere solo dei pregiudicati. L’unica certezza che hanno è il nutrimento necessario per non farli morire, ma non per farli vivere. Bisogna rimodellare le condizioni carcerarie, ponendo al centro i diritti umani dei detenuti, di cui hanno diritto e dei quali ormai sono totalmente privi. La loro tutela è necessaria e fondamentale, così come l’esigenza di un cambiamento basato sui principi costituzionali. Abbiamo il dovere umano di attuare una modifica radicale delle condizioni penitenziarie, puntando a un miglioramento di qualità che rispetti i detenuti, i diritti umani e le loro prime necessità. La seconda parte del convegno ha ospitato l’intervento delle persone che ogni giorno vivono il contesto penitenziario: associazioni volontarie operanti nelle carceri, sorveglianti e avvocati hanno preso la parola, confermando le brutalità che si nasconde dietro le sbarre dei penitenziari italiani. Nicola Paulesu, assessore al sociale del comune di Firenze, ha apertamente dichiarato quanto siano disumane le condizioni di vita nei penitenziari: luoghi in cui i diritti delle persone detenute e la loro identità di esseri umani ormai risultano fantasmi. Fa riferimento al carcere di Sollicciano e la necessità di un’imminente chiusura e ristrutturazione, che permetta al complesso di garantire le giuste condizioni di vita ai detenuti: in meno di due mesi, le celle del carcere hanno visto due suicidi, uno dei quali di appena 25 anni. Diritti umani fantasmi, l’importanza di un cambiamento immediato - Rispettare ogni essere umano come tale è un dovere globale: migliaia di detenuti, con vite già spezzate dal passato, affrontano l’ulteriore condanna di non vedere riconosciuti i loro diritti e di essere considerati per sempre dei pregiudicati. Il rispetto per l’identità dell’altro è un diritto su cui nessuno dovrebbe mai avere il potere di decidere. Abbiamo l’obbligo morale di considerarli esseri umani, così come di permettere loro un reinserimento sociale nella comunità, in misura con la giustizia umana che al momento sembra essere dimenticata dietro le sbarre. Una vita spezzata non deve esserlo per sempre, se segue la giusta strada. E noi non possiamo continuare a bloccarla, perché loro hanno lo stesso diritto di seguire la strada che noi per primi solchiamo ogni giorno. Legnano (Mi). Liberarsi dal carcere? A lezione con l’ex Garante dei detenuti Mauro Palma legnanonews.com, 18 febbraio 2025 Pena e giustizia ai tempi delle carceri sovraffollate protagoniste tra le mura del Liceo Galilei di Legnano nel primo incontro della seconda edizione del progetto “Il liceo dei cittadini”. Liberarsi dal carcere? La domanda, “spacchettata” nelle tante sfaccettature che hanno saputo cogliere gli studenti, è rimbalzata lunedì 17 febbraio tra le mura del Liceo Galilei di Legnano nel primo incontro della seconda edizione del progetto “Il liceo dei cittadini”, iniziativa nata e cresciuta con l’obiettivo di portare gli studenti “a farsi domande e a confrontarsi con personalità di primo piano del mondo istituzionale e accademico, oppure impegnate nel sociale”, per “aprire la scuola alla società, nella convinzione che debba essere un ponte verso l’esterno” e riaccendere i riflettori sulla complessità “di fronte ad un dibattito pubblico che tende a semplificare in maniera eccessiva”. A 625 anni esatti di distanza da quel 17 febbraio 1600 in cui Giordano Bruno fu bruciato sul rogo a Roma, gli studenti delle quarte del liceo di viale Gorizia hanno affrontato, tra una domanda e l’altra, concetti che hanno spaziato dalla giustizia alla pena - eternamente “strattonata” tra la Costituzione che parla di pena rieducativa e la pancia di una Nazione che ancora troppo spesso invoca una pena retributiva -, passando per le condizioni delle carceri. Lo hanno confrontandosi con Mauro Palma, matematico e dottore in giurisprudenza honoris causa all’Università di Buenos Aires e all’Università Roma Tre, dove è presidente del centro di ricerca European Penological Center, fondatore e oggi presidente onorario dell’associazione Antigone, già presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti e del Consiglio Europeo per la Cooperazione nell’esecuzione penale. Tutte domande, quelle degli studenti, che più attuali non si può, in un Paese che al 31 gennaio scorso, in base ai dati diffusi dal Ministero della Giustizia, contava quasi 62mila detenuti - lo 0,1% della popolazione totale - nelle sue 190 carceri, che in realtà potrebbero ospitarne 51.300 in base alla capienza regolamentare. Un Paese dove nei prossimi quattro anni il 60% circa dei detenuti potrebbe tornare in libertà, tra chi sconta pene non superiori a questo lasso di tempo e chi, pur scontandone di più lunghe, è ormai in dirittura di arrivo. Un Paese dove ci sono solamente quattro carceri femminili e si sta discutendo della possibilità di rendere facoltativo il differimento della pena per le donne incinte e le madri con bambini di meno di un anno di età. Domande che c’è da sperare vadano oltre il liceo di viale Gorizia. Milano. “Lontani, ma vicini”: fotografie dal carcere. In mostra al Pirellone gli scatti dei detenuti di Nicolò Rubeis Il Giornale, 18 febbraio 2025 Il presidente Romani: “Ponte con la realtà che c’è fuori”. Vallacchi (Pd): “Riportiamo nella società chi ha sbagliato”. Ventisette immagini che raccontano la vita dentro il carcere: le fotografie dei detenuti della Casa Circondariale di Lodi sono in mostra nello Spazio Eventi di Palazzo Pirelli. È stata inaugurata ieri pomeriggio la mostra “Distanti, ma vicini” che potrà essere visitata fino al 28 febbraio. “Questo progetto è un “ponte” tra il carcere e la realtà che c’è “fuori” - ha spiegato il presidente del Consiglio regionale Federico Romani - La sfida che i detenuti ci lanciano con questa mostra è chiara: dobbiamo superare barriere e pregiudizi. La cultura, in questo caso la fotografia, è lo strumento per farlo e questa mostra è un’occasione di riscatto sociale che ruota attorno al concetto di fiducia. Perché dare fiducia è la parola chiave da cui partire per far parlare i due mondi e promuovere, nei fatti, il reinserimento sociale dei detenuti”. “Questa mostra offre la possibilità di avvicinarsi al mondo delle carceri, di conoscerlo meglio e provare a dare le risposte alle necessità e ai bisogni di questo mondo - spiega la consigliera regionale Roberta Vallacchi (Pd) che ha promosso l’iniziativa - L’obiettivo del nostro sistema carcerario, infatti, è quello di riportare all’interno della società chi ha sbagliato e ha compreso il proprio errore perché le istituzioni si devono occupare di tutti, anche delle persone che sono ai margini della società”. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, sono opera di una trentina di detenuti che hanno frequentato il corso di fotografia coordinato dal fotografo Luca Rossato che sottolinea come “ogni scatto rappresenti un “ri-scatto”, un atto di resistenza contro il pregiudizio che troppo spesso accompagna i detenuti”. Foto che raccontano e testimoniano il tentativo, seppur difficile, di ricostruire una propria identità e un proprio percorso di reinserimento da dietro le sbarre. “Le immagini esposte a Palazzo Pirelli - ha sottolineato la direttrice della Casa Circondariale di Lodi Annalaura Confuorto non sono semplici fotografie, ma frammenti di un cammino intrapreso da chi, dietro le sbarre, lotta ogni giorno per ricostruire la propria identità e abbattere le distanze che lo dividono dal resto del mondo”. Oltre al presidente Romani e alla consigliera Vallacchi, sono intervenuti la rappresentante del Provveditore regionale del Ministero della Giustizia Francesca Valenzi, il sindaco di Lodi Andrea Furegato e il Garante regionale dei Detenuti Gianalberico De Vecchi. Hanno partecipato all’inaugurazione i Consiglieri regionali Paola Bocci (Pd), Pierfrancesco Majorino (Pd) e Luca Paladini (Patto civico), il Garante regionale per i Minori e le Fragilità Riccardo Bettiga e l’assessore alla Polizia Locale e Pari opportunità del Comune di Lodi Manuela Minojetti. La mostra potrà essere visitata fino a venerdì 28 febbraio dal lunedì al giovedì alle 9 alle 18 e venerdì dalle 9 alle 13. L’ingresso è libero. Como. In mostra un “Corpo a Corpo” con l’arte di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 febbraio 2025 Il progetto “Corpo a corpo”, organizzato dalla Fondazione Como Arte Ets nella Casa Circondariale di Como Bassone, oltre a visitatori entusiasti della mostra conclusiva e a recensioni positive, al suo attivo ha anche un matrimonio tra due detenuti che vi hanno partecipato. “Marcello e Anna (nomi di fantasia) si conoscevano già da tempo ma è stata lei a convincere il fidanzato a partecipare al percorso proposto dalla fondazione. Sarò tra gli invitati e ne sono felice perché durante il progetto vuol dire che sono nati rapporti umani autentici” racconta Chiara Anzani, vicepresidente di Como ArteEts, che aggiunge come è nato il progetto: “Siamo entrati come volontari in carcere nel 2023 con iniziative di animazione culturale. Vista la risposta positiva ho pensato che avrei potuto mettere la mia professione, quella di organizzare mostre, al servizio della comunità penitenziaria. Così ho proposto al direttore Fabrizio Rinaldi di organizzare una collettiva contemporanea aperta alla cittadinanza all’interno del carcere “. “Ho trovato interessante l’iniziativa perché, far apprezzare l’arte in un luogo inusuale, non pensato per godere di bellezza e creatività, possa anche essere un buon modo per conoscere una realtà complessa e difficile come quella del carcere, che tuttavia è parte integrante della città” spiega Rinaldi. La mostra, patrocinata da Regione Lombardia, Comune di Como e FAI con il sostegno di Soroptimist Club di Como e della Fondazione Provinciale della Comunità Comasca, si articola in tre diversi settori dell’Istituto, le sezioni maschile, transgender e femminile. Inaugurata il 1° febbraio, riaprirà al pubblico esterno, previa prenotazione, sabato 15 febbraio, e saranno gli stessi detenuti che hanno partecipato al progetto a illustrare ai visitatori le opere esposte. Obiettivo dell’iniziativa, in primo luogo, il coinvolgimento dei detenuti con un ruolo attivo in tutto il percorso, sia da un punto di vista artistico, sia come accompagnatori dei visitatori agli spazi detentivi. “Abbiamo scelto il tema del corpo - spiega il curatore Giovanni Berera - perché nella realtà del carcere è un concetto importante, è spazio di espressione e di protesta, è luogo fisico e carnale di cambiamento, di sofferenza e di speranza”. Un tema interpretato sotto molteplici punti di vista dagli espositori, gli artisti Marinella Senatore (coautrice con le detenute di Rebibbia dell’installazione realizzata in occasione dell’apertura della Porta Santa nel carcere romano), Pietro Terzini, Giulia Cenci, Mario Consiglio, Maurizio Bonfanti, Santiago Sierra e Jaime Poblete che, con detenute e detenuti ha realizzato l’opera “qué hay en el fundo de tu ojos?”. “Il lavoro è il risultato di un laboratorio esperienziale condotto nelle sezioni femminile, transgender e maschile - spiega Poblete - che ha prodotto piccoli elaborati e poi un’opera conclusiva. Ci siamo affidati al gioco saggio dello sguardo, ritrovando in esso l’eco di qualcosa di nascosto, quella forza senza pregiudizi che è il vero nutrimento per questa lotta corpo a corpo con la vita. Riunirci per fare arte è stato produttivo: tutti si sono messi in gioco perché si è stabilito tra noi un rapporto di complicità e fiducia”. Firenze: “Dalla mia prospettiva”: il mondo visto dalle ragazze e dai ragazzi degli Ipm garanteinfanzia.org, 18 febbraio 2025 Mostra fotografica dal 20 febbraio al Museo degli Innocenti di Firenze con gli scatti di 22 giovani detenuti. Un progetto dell’Autorità garante. Com’è il mondo visto da chi sta all’interno di un istituto penale minorile? A svelarlo la mostra “Dalla mia prospettiva” in programma dal 20 febbraio al 22 marzo al Museo degli Innocenti di Firenze nella sala Agata Smeralda. Si tratta di 66 foto in bianco e nero frutto di laboratori promossi dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti negli istituti penali per minorenni di Catanzaro “Silvio Paternostro”, di Quartucciu (Cagliari), di Roma “Casal del Marmo” e di Torino “Ferrante Aporti” e del femminile di Pontremoli (Massa Carrara). Le immagini sono state scattate da 22 ragazzi e ragazze tra i 15 e i 17 anni nel periodo agosto-dicembre 2024 nell’ambito di un progetto di ascolto dei minorenni detenuti. Il percorso espositivo della mostra a Firenze si sviluppa attorno ai tre temi sui quali si sono svolte le attività: “come è cambiato il mio quotidiano”; “a chi o a cosa va il mio pensiero quando sono in istituto”; “quali sono i miei sogni”. Per i ragazzi è stata l’occasione di esprimersi, di prendere consapevolezza di se stessi e di gettare le basi per il loro futuro. Per l’Autorità garante, l’occasione di entrare in contatto con loro, di ascoltarli e di confrontarsi. I laboratori sono stati condotti dal fotografo Valerio Bispuri insieme all’ufficio dell’Autorità garante, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti. Un pannello della mostra rivela il backstage del progetto, opera di Bispuri. Le 66 foto sono state raccolte in una pubblicazione che sarà presentata a Firenze il 6 marzo 2025. Il regime carcerario nell’Ottocento e una lezione per i giorni nostri di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 18 febbraio 2025 Il libro di Cristina Badon “Classi pericolose in attesa di giudizio. Le matricole di Regina Coeli e la repressione penale e sociale in Italia a fine Ottocento” (Il Formichiere). Ci sono almeno tre ragioni per le quali è consigliabile immergersi nella lettura del libro di Cristina Badon “Classi pericolose” in attesa di giudizio. Le matricole di Regina Coeli e la repressione penale e sociale in Italia a fine Ottocento (Il Formichiere, pp. 270, euro 20): ci consente di andare alle origini della pena carceraria e riflettere intorno alla sua effettiva funzione; fotografa con accuratezza, rigore e intensità narrativa i destinatari delle fobie repressive delle democrazie liberali negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo; ci aiuta a comprendere il presente della pena in Italia, a cinquant’anni dalla entrata in vigore dell’Ordinamento penitenziario. Il libro, introdotto da Mary Gibson, si inserisce con merito all’interno di un selezionato e, purtroppo non ampio, numero di opere storiche sulla pena e sul carcere, tra le quali meritano menzione, oltre ai volumi della stessa Mary Gibson, anche gli scritti di Guido Neppi Modona e Christian De Vito. L’approccio storico ha la forza argomentativa del ricorso alle fonti e nel libro di Cristina Badon queste ultime non mancano. Dunque, in primo luogo il libro di Badon torna indietro alle origini del carcere come pena negli Stati Uniti di inizio ‘800. Vengono descritti i tre modelli di Filadelfia, Auburn e Sing Sing. A tal fine vale sempre la pena rileggersi le bellissime pagine di Alexis de Tocqueville ne La Democrazia in America per comprendere come sin dalle origini della pena carceraria esistesse il mito “correzionalista”. Isolare per redimere, punire per correggere. Era questo il mandato del carcere, sin dalle sue radici moderne. E con questo mandato si forma il sistema penitenziario post-unitario italiano. Badon non si limita a ricostruire la storia fatta di norme, codici, regolamenti, esperti e ministri dell’Italia carceraria ottocentesca ma, affidandosi ai numeri, sempre esposti in modo chiaro e intellegibile da non esperti, ci racconta come, a pochi anni dalla Unità d’Italia, c’erano già oltre 75 mila detenuti nelle sovraffollate carceri del Regno. La composizione sociale e criminale è utile a capire chi erano i destinatari delle fobie repressive di allora: analfabeti, poveri, mendicanti e anarchici. In particolare, l’autrice si sofferma su tante storie di anarchici passati per il carcere romano. Giovani e meno giovani, definiti oziosi e pericolosi. Cent’anni prima Cesare Beccaria, nella sua straordinaria e riuscita opera Dei delitti e delle pene, se la prendeva non con i vagabondi ma con gli oziosi ricchi che non contribuivano al benessere sociale della loro nazione. I liberali al potere, cent’anni dopo, invece, incuranti degli insegnamenti del filosofo milanese, individuano nell’anarchico, meglio se povero e non istruito, la figura del nemico di classe da perseguire e incarcerare. Classi pericolose, oltre a essere il titolo del libro, è anche il titolo del regolamento di Polizia che fotografava i nemici dello Stato da sbattere in prigione. Anarchici che, come Gaetano Bresci (racconto di Sandro Pertini), “furono suicidati” nel carcere di Ventotene. Infine, il libro consente di aprire una finestra sul presente, segnato da un ritorno a una idea di società dove poveri e dissenzienti vanno esclusi e neutralizzati all’interno di un carcere chiuso, nel quale, con il recente disegno di legge sicurezza in discussione al Senato, disobbedire in forma nonviolenta agli ordini di Polizia costituisce un reato punibile fino a otto anni di prigione. I detenuti di oggi devono farsi la galera in silenzio come nel carcere romano di Regina Coeli di fine ‘800 di cui ci parla Badon. Luigi Manconi: “Io, militante da 60 anni, sempre alla ricerca del senso del dolore” di Ilaria Dioguardi vita.it, 18 febbraio 2025 Il sistema penitenziario italiano? “Molto vicino a una condizione di dichiarato fallimento”. “L’esperienza fondamentale per definire la mia idea e la mia pratica di politica è stato l’incontro con i familiari delle vittime e con le vittime: la vera questione per l’essere umano è la sua capacità di dare un senso alla sofferenza”. A parlare è Luigi Manconi, docente di Sociologia dei fenomeni politici e già presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, è stato parlamentare per tre legislature e sottosegretario alla Giustizia. Dallo scorso settembre è in libreria con “La scomparsa dei colori” (editore Garzanti), nel quale racconta la storia della perdita della sua vista e di una lenta discesa in un buio che non è tuttavia “un calamaio di compatta cupezza” perché “la cecità non è nera. È lattiginosa, a tratti caliginosa. E, talvolta, rivela sprazzi perfino luminescenti”. Una vita che è una militanza a difesa dei diritti. Nel 2001, ha fondato l’associazione “A buon diritto”, che tuttora presiede. Manconi, lei si è sempre battuto per i diritti, in particolare per i diritti delle persone detenute. Cosa pensa delle condizioni delle carceri, oggi, in Italia? Il sistema penitenziario italiano è molto vicino a una condizione di dichiarato fallimento. I dati sono impressionanti, il numero dei detenuti continua a crescere, oggi è intorno ai 63mila. Crescono le situazioni dove il sovraffollamento raggiunge punte elevatissime e drammatiche. Poi, cresce la dimensione patologica del carcere, il fatto che l’istituzione penitenziaria si conferma come un sistema patogeno e criminogeno. Patogeno e criminogeno? Patogeno perché produce, riproduce e diffonde psicosi, nevrosi, depressione, autolesionismo e suicidi. Il numero di questi ultimi, nel 2024, è stato il più alto di tutta la storia del nostro sistema penitenziario. C’è un dato ulteriore che viene sempre trascurato ed è rappresentato dai suicidi tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria, dove il tasso di autolesionismo è maggiore di quello presente negli altri corpi di polizia. Per quanto riguarda i suicidi tra i detenuti, ricordo che la frequenza dei suicidi nelle carceri è 22 volte superiore a quella tra la popolazione complessiva del nostro Paese. La sua condizione di cecità progressiva, l’ha resa più sensibile ai diritti? Qualsiasi risposta, in questo caso, risulta fallace. Quello che voglio evitare come la peste è l’idea che una patologia come la mia migliori la persona che la presenta. Io non sono migliorato, forse ho attenuato qualche tratto particolarmente aspro del mio carattere, ma certamente non sono un uomo migliore, e se lo sono non è merito del mio glaucoma. Patire una crisi, subire un danno, inevitabilmente rende più ricettivo rispetto al danno altrui. Mi auguro che la mia capacità di ascolto delle sofferenze altrui oggi sia particolarmente significativa e mi auguro che questa capacità di ascolto effettivamente sia cresciuta. Nell’Epilogo del suo ultimo libro “La scomparsa dei colori”, lei dice della sua cecità che è “un tratto costitutivo della mia persona e un suo connotato definitivo: l’ho acquisito, l’ho dato per scontato, soprattutto l’ho fatto mio. Insomma, mi sento un cieco a pieno titolo. Per capirci, non sono - come vuole quel linguaggio che pure rispetto e condivido - una “persona con disabilità”, bensì un disabile. Un soggetto deficitario. Un handicappato”. Io tengo molto a dire che questo libro è il racconto di un’esperienza di vita. Non vuol essere in alcun modo un libro edificante, secondo la terminologia che si applica alle biografie virtuose o alle storie di uomini che hanno svolto un ruolo nella comunità. Non è questo, è veramente il racconto di un’esperienza di vita. Se la mia esperienza di vita viene accolta e condivisa da altri e, quindi, viene accolto e condiviso anche il significato che questa mia personale tragedia può avere nelle persone che subiscono un danno (che può essere un psichico o fisico, una crisi senza soluzione che riguarda la vita intera delle persone, oppure un dolore non lenibile), io sono ovviamente felice... Da sempre, anche prima di questa mia vicenda personale, io ho pensato che la vera questione per l’essere umano è la sua capacità di dare un senso alla sofferenza. Il dramma, quello che porta allo smarrimento, alla disperazione, all’alienazione, è quando ci si trova incapaci di farsene una ragione. Per farsene una ragione bisogna elaborare un’idea che sia in grado di dare un significato a ciò che si patisce. Siamo totalmente lontani da un’idea espiativa e penitenziale, io non ho in alcun modo questa tentazione. Non penso che il dolore sia un contributo all’espiazione dei peccati. Non credo che la sofferenza sia un percorso di penitenza. Penso che la vera questione, quella che può salvarti anche all’interno di una dimensione autenticamente, profondamente tragica, l’unica idea che può salvarti è il fatto che il tuo dolore abbia un senso. Tant’è vero che io racconto nel libro (lo racconto ormai da 40 anni, quindi prescinde anche dalla mia cecità), come per me, che ho avuto costantemente nella vita una militanza politica, l’esperienza fondamentale per definire la mia idea e la mia pratica di politica è stato l’incontro con i familiari delle vittime e con le vittime: lì ho visto emergere la potenza del dolore che assumeva un suo senso, per esempio il perseguimento della verità e della giustizia. Questo è stato il fondamento della mia concezione della politica che, temo, sia molto rara e scarsamente condivisa, ma mi ha consentito ininterrottamente, da quando avevo 16 anni fino a oggi, di svolgere un’attività che io chiamo militanza. Lei si sente un militante? Sì, questa parola non mi disorienta e nemmeno mi disturba, ma la considero carica di una possibile nobiltà. Da militante ho sempre continuato a svolgere un’attività pubblica e di relazione. Qualche sera fa ho incontrato a Roma Maysoon Majidi, una ventottenne curda iraniana che, giunta in Italia con un barcone, si è trovata arrestata e detenuta per 10 mesi con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Grazie all’associazione che presiedo, “A buon diritto”, abbiamo svolto un’attività di mobilitazione molto orizzontale, fatta di gesti elementari e di piccole azioni, che ha consentito che questa vicenda fosse conosciuta e che ha portato a creare intorno a questa donna una rete di solidarietà attiva e impegnata che, infine, ha consentito anche una sua difesa in tribunale e una sua assoluzione. Questo significa essere militanti. Io sono uscito dal Parlamento nel 2018, ci sono stato per 12 anni. In tutta la lunga porzione della mia vita in cui non sono stato parlamentare, che è largamente prevalente su quella parlamentare, dopo il 2018, e soprattutto adesso che sto per compiere 77 anni, io spero di continuare a fare politica fino all’ultimo e, allo stesso tempo, confermo che l’idea che la politica sia l’attività parlamentare è per me un’idea totalmente infondata. Cosa la preoccupa dell’Italia oggi? Penso che esista una resistenza (con la r rigorosamente minuscola, quindi senza alcuna retorica partigiana e senza alcuna enfasi di tipo vittimistico), che è una resistenza che è stata di tantissime persone e di tantissime iniziative, aggregazioni, e che questo, soprattutto, non sia necessariamente una situazione tragica. Personalmente, ho vissuto questa mia lunga vita e della mia lunga militanza, nella gran parte del tempo, in una condizione di minorità e di minoranza. Penso vi sia, nella condizione di minorità e di minoranza (senza alcun compiacimento narcisistico, quindi senza alcuna retorica, come dicevo, vittimistica), non solo tantissimo da fare e, quindi, un impegno da sviluppare, ma un forte elemento di dignità. Si possono portare avanti valori e principi, si possono fare tante buone cose e, perfino, si possono ottenere successive vittorie anche in una condizione di minorità. Una buona pratica della resistenza di minoranza, se ha un compito importante, direi, addirittura (lo dico un po’ scherzando) una “missione” da svolgere, va svolta non solo sul piano politico, ma soprattutto su quello culturale. È il piano culturale che può permettere, in prospettiva, di passare da una condizione di minorità e di minoranza a una di maggioranza. Che non vuol dire conquistare il potere, ma significa esprimere le idee, i bisogni, le aspirazioni, le sofferenze della gran parte dei cittadini. Dove percepisce la speranza oggi? Come diceva Paolo: “Spes contra spem” (“la speranza contro la speranza”, ndr). Potremmo chiamarla la formula teologica dell’espressione di uso comune “nonostante tutto”. Io sto dentro una mobilitazione, che i sociologi non chiamano mobilitazione perché troppo spesso giudicano le cose con categorie vecchie, e che è fatta di migliaia di gruppi, associazioni, movimenti che operano rispetto alle politiche per l’immigrazione. Il numero di laboratori e scuole dove gli stranieri imparano l’italiano è amplissimo in Italia. In tutto ciò, che è una ricchezza solida, manca una rappresentanza politica. Io dico che manca perché, per me, la rappresentanza politica è fondamentale al fine di cambiare le cose. Però se, con il tempo, una rappresentanza politica adeguata si formasse, potrebbe incontrare un’Italia fatta di grande intelligenza, grande generosità e anche grande capacità di operare concretamente e di cambiare le cose nei rapporti sociali e nelle relazioni internazionali. Ci parla dell’associazione “A buon diritto”, che ha fondato e di cui è presidente? L’ho fondata nel 2001, quando interruppi per la prima volta la mia attività parlamentare. L’associazione ha continuato a fare quello che ho fatto prima e quello che avrei fatto dopo: l’attenzione ai diritti, alle libertà in particolare. Io sono particolarmente orgoglioso che ormai da 12 anni “A buon diritto” (un’associazione relativamente piccola) garantisce uno sportello legale per stranieri e richiedenti asilo che è a disposizione e viene utilizzato, ogni anno, da centinaia di stranieri. Lei sostenne con slancio gli inizi di VITA, 30 anni fa. Può dirci perché? Perché credevo, come credo oggi, al fatto che un giornale che fosse interamente dedicato ad alcuni temi avesse un ruolo prezioso. VITA voleva essere, è stato e continua ad essere l’espressione di un associazionismo forte, una struttura di coordinamento, che valorizza anche settori della attività di volontariato meno conosciuti. Innanzitutto quello che manca al volontariato, all’attività di solidarietà, all’iniziativa civica, alla mobilitazione collettiva, effettiva, è proprio uno spirito unitario, una capacità di relazione, una possibilità di rappresentanza che superi l’inevitabile frammentarietà delle singole iniziative, dei singoli gruppi, delle singole associazioni. Migranti. La Commissione Ue dà torto all’Italia di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 febbraio 2025 Protocollo Albania. In vista della decisione della Corte Ue, depositato un parere critico verso Roma. Meloni teme: “I giudici non compromettano i rimpatri”. Sono quindici, oltre quelle dei due ricorrenti, le memorie depositate alla Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa sui “paesi di origine sicuri” che sarà discussa tra una settimana in Lussemburgo. Di grande rilevanza è il parere della Commissione secondo la quale il diritto comunitario impedisce tale designazione in presenza di eccezioni per categorie di persone. Il ragionamento è che bisogna distinguere persecuzioni o violazioni contro singoli individui da situazioni in cui queste hanno carattere sistemico e riguardano interi gruppi di persone. Nel secondo caso la classificazione è contraria alla direttiva. Orientamento ben diverso da quello del governo Meloni che a maggio 2024 ha aggiunto alla lista di quelli “sicuri” paesi come Egitto o Bangladesh. Dalle schede allegate al decreto interministeriale, poi sostituito da una legge, si vede che le esclusioni per categorie sono tutt’altro che residuali. Per il Cairo riguardano: oppositori politici, dissidenti, attivisti e difensori dei diritti umani. Per Dacca: comunità lgbtqi+, vittime di violenza di genere, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici e condannati a morte. La verità è che il governo ha inserito quegli Stati nell’elenco per ragioni politiche: erano in testa agli sbarchi e doveva avviare il progetto albanese. Davanti alla Corte, però, dovrà motivare la scelta con argomentazioni giuridiche. Tra i paesi che hanno depositato osservazioni ci sono Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca, Cipro, Malta e Grecia. È verosimile, viste le loro posizioni sull’immigrazione, che siano abbastanza in linea con l’Italia. Anche la Francia sostiene la possibilità di considerare “sicuri” gli Stati in presenza di eccezioni per categorie di persone, ma la Germania è di parere opposto e pure sugli altri tre quesiti è molto distante dalle opinioni di Roma. Intanto ieri il commissario Ue per gli Affari interni Magnus Brunner, austriaco del partito popolare, ha risposto così a una domanda dell’Ansa sul protocollo Italia-Albania: “Dobbiamo lavorare insieme per trovare soluzioni che funzionino nella pratica e ora sto lavorando alla creazione di un quadro giuridico per sostenere i 27 nell’effettuare i rimpatri in modo efficace, quindi condividiamo pienamente questo obiettivo”. La dichiarazione è passata come un sostegno tout court ai centri d’oltre Adriatico, ma le parole sono più evasive di quel che sembra e anche il riferimento non è univoco. Citando le nuove norme relative ai rimpatri Brunner pare far cenno alla direttiva che la commissione presenterà a metà marzo. Sarà utile per il progetto albanese, ma solo nel caso in cui le strutture smettano di occuparsi di procedure accelerate di asilo e siano trasformate in Cpr per recludere solo gli irregolari da riportare a casa. Diventerebbero così il primo hub per rimpatri da un paese terzo, cosa che però non è possibile in base all’attuale legislazione Ue. Forse anche per questo del decreto governativo che avrebbe dovuto sancire tale trasformazione non si è più saputo nulla. L’operazione è meno semplice di quello che hanno sostenuto la settimana scorsa alcuni esponenti della maggioranza e, ammesso vada in porto, necessiterebbe di qualche forzatura del quadro giuridico. Di tutti questi temi è tornata a parlare ieri anche Giorgia Meloni, che questo pomeriggio incontrerà Brunner, ospite della Conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia. La premier ha sottolineato la necessità di rivedere la direttiva rimpatri del 2008 e anticipare l’entrata in vigore di alcuni punti del Patto Ue su immigrazione e asilo. Si è spinta a sostenere che la prevalenza della normativa comunitaria su quella italiana, un pilastro della costruzione dell’Unione, “appare fragile”. A dimostrarlo sarebbe il fatto che la Germania rimpatria in Afghanistan senza opposizioni dei giudici. Ma è l’ennesimo bluff: le procedure accelerate di frontiera che si fanno in Albania sono una cosa, i rimpatri un’altra. La definizione di “paese di origine sicuro” ha effetti sul tipo di procedura, quella rapida permette il trattenimento, ma non sulla possibilità di rimandare a casa chi non ha ottenuto la protezione internazionale. Meloni, però, ha mischiato le due cose anche nel suo avvertimento ai giudici del Lussemburgo: “L’auspicio è che la Corte di giustizia Ue scongiuri il rischio di compromettere le politiche di rimpatrio non solo dell’Italia ma di tutti gli Stati membri dell’Unione”. È un segno di debolezza, forse ha sentore che in quella sede le cose potrebbero non andare come spera. Migranti. Nuova stretta del Vimimale a prefetti e questori: “Aumentate i rimpatri” La Stampa, 18 febbraio 2025 L’input dato dalla premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi alla conferenza dei prefetti e questori d’Italia. Sono stati 5.406 nel 2024 gli stranieri rimpatriati in modo forzato, il 14% in più del 2023. Un forte input a prefetti e questori ad aumentare i rimpatri di migranti irregolari è arrivato - si apprende - nel corso della Conferenza dei prefetti e dei questori d’Italia sulle linee d’indirizzo per le politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, dove sono intervenuti - tra gli altri - la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. I dati esaminati dimostrerebbero che gli stranieri irregolari hanno una tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari e degli italiani. Sono stati 5.406 nel 2024 gli stranieri rimpatriati in modo forzato, il 14% in più rispetto all’anno precedente, quando erano stati 4.743. Si conferma dunque il trend all’incremento: erano stati infatti 4.304 i rimpatri nel 2022 e 3.837 nel 2021. È quanto emerge dai dati del Viminale, che evidenziano anche un calo degli arrivi di migranti nel 2024: sono stati 66.317 contro i 157.651 del 2023 (-58%). “Per il terzo anno di fila, e anche all’inizio di quest’anno, abbiamo registrato un incremento tra il 15 ed il 20% di espulsioni, di rimpatri effettivi”, ha affermato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. “Non sono ancora abbastanza, rispetto a quanto si potrebbe fare - ha continuato il titolare del Viminale - ma, ad esempio, rispetto al 2022 ci sono stati 1.300 espulsi in più, 1.300 potenziali fattori di insicurezza per i nostri concittadini. Persone individuate non solo perché irregolari sul territorio ma anche perché riconosciute come potenziale pericolo per la sicurezza collettiva”. Migranti. Cpr in Albania, ecco perché non si può di Gianfranco Schiavone L’Unità, 18 febbraio 2025 Il Governo italiano ha annunciato di voler utilizzare i centri attivati in Albania nell’ambito del Protocollo Italia-Albania ratificato con L. 14/24 come CPR (centri per il rimpatrio), abbandonando in tal modo l’obiettivo primario per cui il Protocollo stesso era nato, ovvero il primo esperimento in Europa di trasferimento coattivo di richiedenti asilo in un paese terinterne anche molto eterogenee (come in effetti accade tra i diversi Paesi UE), purché le norme interne siano conformi al sovraordinato diritto dell’Unione, in particolare alla Direttiva 115/2008/CE sui rimpatri. La Commissione Europea ha annunciato che a brevissimo (marzo 25) presenterà una proposta di rifusione di tale vigente direttiva che in effetti è piuttosto datata. Non sappiamo se il testo conterrà anche la possibilità di istituire in paesi terzi all’Unione Europea delle strutture di detenzione per i rimpatri (gentilmente chiamate “return hub” ovvero centri per il ritorno, per occultare la loro reale natura di luoghi di detenzione). Ciò che è chiaro è che tale eventuale proposta incontra non pochi problemi sia sotto il profilo della legittimità che della fattibilità, tanto che anche in un documento del Consiglio dell’Unione Europa del 7.11.24 (15071/24) elaborato sotto la presidenza ungherese, che spingeva per la realizzazione di tale intento, si evidenziava come “nell’esaminare la fattibilità, dobbiamo valutare come il concetto di “hub di rimpatrio” possa essere inserito nel quadro giuridico dell’UE”. Anche in un altro recentissimo documento del Consiglio elaborato sotto la presidenza polacca del 7.02.25 (5681/25) emerge la consapevolezza della difficoltà di conseguire l’obiettivo comune sostenendo la necessità di trovare “una base giuridica inquadrata in modo flessibile che consenta anche applicazioni più personalizzate in accordo con i potenziali Paesi ospitanti degli hub”. Nelle more di un futuro iter legislativo lungo ed incerto che coinvolgerà i due organi co-legislativi dell’Unione, il Parlamento e il Consiglio, rimarrà intanto in vigore l’attuale Direttiva; diversamente da quanto molti erroneamente pensano essa prevede che la detenzione per eseguire il rimpatrio può essere applicata solo come ultima istanza e che le misure coercitive devono essere “proporzionate” e non eccedere “un uso ragionevole della forza” (art. 8 par.4). Inoltre “gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento (il quale) ha durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio” (art.15 par.1). Altresì il trattenimento deve essere riesaminato nei suoi presupposti ad intervalli regolari da parte di un’autorità giudiziaria, e “quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi (o possono essere disposte misure meno afflittive) il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (art. 15 par.4). È dunque possibile che il trattenimento finalizzato all’esecuzione dell’allontanamento (se legittimamente disposto) sia attuato deportando intanto lo straniero in una struttura che si trova al di fuori del territorio dello Stato membro dell’Unione usando ciò quale misura deterrente? Molti, anche autorevoli, studiosi ritengono che ciò potrebbe essere legittimo solo se tutte, nessuna esclusa, le garanzie previste dal diritto europeo, vengano garantite in concreto. In un recentissimo documento denominato Planned Return Hubs in Thirds Countries (position paper 1/25) l’Agenzia Europea per i diritti fondamentali (FRA) sottolinea correttamente che gli stati UE mantengono i loro “obblighi in materia di diritti umani ogni volta che avranno un controllo effettivo sulle persone, anche se operano a livello extraterritoriale” e dopo aver condotto una disamina delle disposizioni normative applicabili e della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e aver ricordato che bisogna vigilare in modo rigoroso sul rispetto del divieto di non-respingimento, anche indiretto, conclude che “Il diritto dell’UE non vieta la creazione di centri per il rimpatrio, ma impone notevoli limitazioni” (par.51). Considerata la rilevanza dei diritti in gioco, secondo l’Agenzia tuttavia la creazione degli hub per il rimpatrio “dovrebbe includere disposizioni su meccanismi di monitoraggio dei diritti umani efficaci e indipendenti” (pag.5). La modesta analisi del sottoscritto si discosta parzialmente dalle conclusioni sopraindicate: ritengo, infatti, che nella valutazione delle garanzie di tutela dei diritti del cittadino straniero sottoposto ad un trattenimento per eseguire l’espulsione vada adottato un approccio sostanzialistico che guardi all’effettività di quelle stesse garanzie considerate nel loro complesso. Ritengo non sia possibile non considerare come un’eventuale deportazione della persona dentro una struttura di detenzione in un paese terzo (teoricamente dunque in qualunque parte del mondo) innanzitutto indebolirebbe in modo sostanziale il diritto ad una difesa effettiva; mai infatti il trattenuto incontrerebbe il suo avvocato (che il centro si trovi in Albania o altrove) e in realtà neppure il suo giudice; inoltre, come già avvenuto nei centri in Albania nel corso delle operazioni che finora hanno riguardato i richiedenti asilo, la stessa fattibilità dell’instaurarsi della relazione tra trattenuto e difensore (e quindi l’esercizio del diritto inalienabile alla difesa) verrebbe resa possibile solo nei limiti della benevola disponibilità di chi gestisce i centri. Ugualmente diverrebbe impossibile rispettare la vigente previsione in base alla quale gli “enti non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea” (Direttiva 115/2008/ CE art. 15 par.4). Per ragioni organizzative ed economiche, nessuna realtà non governativa riuscirebbe a farlo, specie a lungo. È incongruente affermare in modo solenne, come fa la citata Agenzia, che sono necessari meccanismi di monitoraggio efficaci e indipendenti se attuarli diviene impossibile nella sostanza. La stessa disposizione che prevede la necessità che il trattenimento sia rivisto ad intervalli regolari e sia sostituito subito da misure meno afflittive se ne ricorrono le condizioni (collaborazione dello straniero nel rimpatrio, intervenute vulnerabilità et.) sarebbe nei fatti vanificata; lo straniero dovrebbe infatti in questi casi rientrare nel paese UE, ma in concreto ciò non avverrebbe. I tragici fatti degli ultimi vent’anni ci ricordano che, nonostante le garanzie scritte sulla carta, il sistema dei centri di detenzione amministrativa, anche per la mancanza di una norma primaria che disciplina i modi del trattenimento (sul punto vedasi le eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice di Pace di Roma con ordinanze nn. 209-210-211-212/2024 pubblicate in G.U. n. 47 del 20.11.2024), è divenuto un gorgo allarmante di soprusi, violenze e radicali inadempienze. Ricordavo proprio su queste pagine (edizione del 19.12.24) come il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o punizioni inumani o degradanti (CPT) nel suo rapporto reso pubblico il 13 dicembre 2024 al Governo italiano abbia messo in evidenzia lo stato disastroso dei centri per i rimpatri in Italia, sia sotto il profilo materiale che sotto quello del rispetto dei diritti minimi dei trattenuti, giungendo persino ad evidenziare la totale aberrazione per cui “le condizioni di detenzione osservate in tutti i CPR visitati al momento della visita del 2024 potrebbero essere considerate simili a quelle esistenti all’interno delle unità di detenzione sotto il regime speciale dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario italiano”. Con un brivido che corre lungo la schiena è possibile dunque immaginare ciò che potrebbe accadere dentro strutture volutamente lontane, isolate e inaccessibili ubicate al di fuori del territorio nazionale. Ritengo dunque che un’interpretazione doverosamente restrittiva del vigente diritto dell’Unione Europea porti a concludere che le garanzie che devono essere assicurare ai trattenuti in attesa di allontanamento possano essere concretamente e pienamente rispettate solo nel territorio in cui lo Stato europeo esercita la propria piena giurisdizione e che da parte degli Stati non sia possibile eludere o comunque indebolire tali garanzie trasferendo coattivamente i trattenuti dal loro territorio verso un’area extraterritoriale. Stati Uniti. Trump, la democrazia irrispettosa di Luciano Violante Corriere della Sera, 18 febbraio 2025 Nella sua teoria politica contano solo il consenso, le minacce e i rapporti di forza. Diventa verità qualunque menzogna ripetuta più volte. Il diritto è un intralcio. Il presidente Trump realizza un modello di democrazia brutalista, antiestetica, anticonvenzionale, non conformista, non perbenista, irrispettosa. In pochi giorni ha rovesciato il mondo. Purtroppo è in sintonia con il corso della storia. Il segno del nostro tempo, indotto dalle tecnologie digitali e dal paradigma della competitività globale, è la velocità delle decisioni e delle esecuzioni, velocità che oggi manca alle procedure democratiche. Donald Trump esprime invece, con lucida rozzezza, vigore politico e capacità di decisione. Schianta le categorie proprie, a volte ipocritamente, della liberaldemocrazia: il rispetto dell’altro, l’attenzione alla verità, il pluralismo, il multilateralismo, la tolleranza delle differenze. Nella sua teoria politica contano solo il consenso, le minacce e i rapporti di forza. Diventa verità qualunque menzogna ripetuta più volte. Il diritto è un intralcio. Ha colto che c’è insofferenza per il politicamente corretto; che sono insopportabili le élites elitiste che si congratulano reciprocamente e le dileggia. Mentre la vecchia geopolitica si sta sgretolando e i paesi liberaldemocratici cercano di rimettere insieme i pezzi, Donald Trump lavora su un altro piano per costruire un nuovo equilibrio internazionale fondato sui rapporti privilegiati con due dittatori, quello russo e quello cinese. L’UE rischia di restare fuori gioco non perché debole, ma perché l’attuale liberaldemocrazia non rientra in questo schema. Lo scontro, quindi, è tra una democrazia brutalista, in corso, e una liberaldemocrazia modernizzata, da reinventare. Sbaglieremmo se ci limitassimo a puntare l’indice scandalizzato contro l’attuale presidente degli Stati Uniti. Va criticato. Ma non basta. Occorre contrastarlo dimostrando ai cittadini la convenienza di un moderno regime liberaldemocratico. La democrazia è stata considerata per più di due secoli il miglior regime per il governo delle nazioni. Oggi il vento è cambiato. Si è ridotto il numero dei regimi democratici nel mondo, è aumentato il numero dei regimi autoritari e si radicano sentimenti illiberali anche all’interno di paesi profondamente democratici. Il tema è la decisione. Tony Blair, nel suo ultimo libro, On Leadership, racconta che un paio di decenni fa quando visitava un paese che non era una democrazia, il leader si affrettava a spiegare che il paese non era ancora pronto per una trasformazione democratica, ma che ci sarebbe comunque arrivato. La democrazia era comunque un traguardo. Oggi spiega Blair, i leader di paesi non democratici, se sono di mentalità aperta, non disprezzano la democrazia, ma la mettono in discussione per la difficoltà di prendere decisioni e di attuarle. Una democrazia brutalista può essere fronteggiata solo da una liberaldemocrazia efficace, che preveda poteri di decisione, di attuazione e di controllo. I poteri di veto vanno aboliti perché paralizzano la decisione. È inammissibile l’integrazione tra potere politico e potere digitale: viene concessa libertà di azione ai boss del digitale, i quali, in cambio, usano i loro mezzi per sostenere il potere politico che li ha agevolati. Sulle migrazioni, che sono il campo sul quale si misura oggi gran parte del consenso elettorale, occorre dire la verità e occorrono azioni che rassicurino i cittadini, senza mortificare la dignità delle persone. Trump ha avviato uno scontro che ha come posta in gioco un nuovo equilibrio nel mondo e un nuovo modo di governare, senza contrappesi e sulla base del puro consenso elettorale. Non lo si deve irridere; si deve rispondere, prima che il modello venga replicato. Scozia. Sovraffollamento delle carceri, liberati in anticipo 390 detenuti agenzianova.com, 18 febbraio 2025 I condannati a meno di quattro anni possono essere liberati dopo aver scontato il 40% della pena. È iniziato in Scozia la liberazione anticipata di 390 detenuti, come parte di un’iniziativa per alleggerire il sovraffollamento delle carceri del Paese. La legge emergenziale, approvata lo scorso anno, consente ai detenuti condannati a meno di quattro anni di essere liberati dopo aver scontato il 40 per cento della pena. I detenuti con condanne per violenza domestica o reati sessuali sono esclusi. La ministra della Giustizia scozzese, Angela Constance, ha dichiarato che la popolazione carceraria è “troppo alta” e che il sovraffollamento impedisce la riabilitazione. Alla fine della scorsa settimana, nelle prigioni scozzesi c’erano 8.344 detenuti, oltre la capacità massima di 8.007. Francia. Stop alle attività ludiche in carcere dopo lo “scandalo” dei massaggi ai detenuti europa.today.it, 18 febbraio 2025 Il ministro dell’Interno Darmanin: “È fuori discussione che si possono avere attività ricreative che scioccano tutti i nostri concittadini”. Ma il vero problema da risolvere è il sovraffollamento. La Francia ha imposto una severa restrizione alla vita dei detenuti, vietando tutte le attività ludiche in prigione dopo che si è scoperto che alcuni carcerati avevano potuto ricevere massaggi. Rimarranno consentite, tuttavia, le attività sportive, l’istruzione e l’apprendimento della lingua francese. La decisione è stata annunciata dal ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, al termine di una visita al centro penitenziario di Condé-sur-Sarthe (Orne), uno dei quattro siti selezionati per ospitare un carcere di massima sicurezza destinato ai narcotrafficanti più pericolosi. Il caso - “È fuori discussione che possano esserci attività ricreative che scioccano tutti i nostri concittadini. Sono rimasto profondamente turbato anch’io quando ho appreso di questa iniziativa gratuita, proposta e accettata a livello locale”, ha dichiarato Darmanin. Il caso del carcere trasformato per un giorno in una sorta di spa riguarda il centro di detenzione preventiva di Toulouse-Seysses, nel sud-ovest della Francia. La controversia, diventata di rilevanza nazionale, è esplosa dopo la diffusione della notizia dei trattamenti facciali “regalati” ai detenuti, suscitando in particolare l’indignazione del potente sindacato Fo Justice. Secondo il quotidiano regionale La Dépêche, che ha riportato la notizia per primo, una ventina di detenuti avrebbero beneficiato di un massaggio facciale offerto da una scuola di Tolosa, appena una settimana dopo aver partecipato a un corso di “ballo country”. “Ho chiesto al direttore dell’amministrazione penitenziaria di impartire istruzioni a tutti i direttori dei centri di detenzione affinché si limitino rigorosamente al sostegno accademico, all’apprendimento della lingua francese, alle attività lavorative e a quelle sportive all’interno delle carceri”, ha spiegato il ministro dell’Interno. “Dobbiamo ora interrompere completamente queste attività, il cui senso sfugge a tutti. Saranno sospese a partire da oggi”, ha assicurato Darmanin. Il problema sovraffollamento - La polemica sulle insolite attività ricreative concesse ai prigionieri si inserisce in un acceso dibattito in Francia sulle condizioni di detenzione, mentre dallo scorso dicembre è stato raggiunto un nuovo record negativo. Secondo i dati pubblicati dal ministero della Giustizia, il numero di detenuti in Francia ha raggiunto quota 80.792, a fronte di una capienza massima di 62.404 posti, evidenziando un problema endemico di sovraffollamento carcerario. La densità media complessiva è del 129,5 per cento, ma in una quindicina di carceri o sezioni detentive il tasso è pari o superiore al doppio della capienza massima, con oltre 4mila detenuti - 4.255 per l’esattezza - costretti a dormire su materassi appoggiati sul pavimento. In un centro di custodia cautelare, dove sono rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio (e dunque presunti innocenti) oltre a coloro che scontano pene brevi, la densità carceraria ha addirittura raggiunto il 156,8 per cento.