La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 17 febbraio 2025 Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni. Gentile ministro Nordio, quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all'interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all'affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti. In collaborazione con il dipartimento di architettura dell'università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti. Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto. (…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell'atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all'indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l'incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all'interno degli istituti di pena”. Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo. Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale? Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. E adesso, che succede? Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare. Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ------------------------------------------------------------------------------------- Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli. Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto? Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più. Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi nette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari. Gentile Dottor Nordio quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia. Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a me viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri. Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso. Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli. Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano? Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”. Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica. Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società? C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più. È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019, nel 2022 dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto. Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima. Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli. Diritto all’affettività in carcere: tutto fermo un anno dopo la sentenza della Consulta di Ludovica Lopetti Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2025 A Padova il ministero ha bloccato il progetto già pronto. A gennaio 2024 la pronuncia della Corte costituzionale. A febbraio c’era già il primo progetto pronto per il carcere di Padova, ma il sottosegretario Ostellari ha negato l’autorizzazione e all’architetto è stato impedito il sopralluogo. Il tavolo di lavoro promesso non è mai partito. “La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude”. Con queste parole a gennaio 2024 la Corte costituzionale ha trasformato una battaglia di civiltà in un principio del nostro ordinamento, con una sentenza considerata storica. Un anno dopo, però, il diritto all’affettività in carcere resta una conquista astratta e non (o non solo) per mancanza di strutture o risorse. Il caso del carcere di Padova è emblematico: all’indomani della sentenza, grazie a una volontaria dell’istituto e di concerto con la direzione, è stato avviato un confronto per valutare come garantire l’intimità ai detenuti durante i colloqui con i familiari. Del progetto si è incaricato l’architetto Cesare Burdese, esperto di architettura penitenziaria, che ha disegnato quattro piccoli padiglioni (così come ipotizzato dal verdetto della Consulta) da realizzare vicino all’ingresso del carcere, ciascuno con un soggiorno dotato di angolo cottura, una camera da letto per due, un bagno e zone esterne coperte. Ai lavori avrebbero preso parte anche i detenuti insieme a un’impresa edile, mentre il budget sarebbe potuto arrivare dalla Cassa delle ammende, che finanzia proprio il reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a restrizioni della libertà. L’iter ha subito una brusca battuta d’arresto dopo le parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari: “In proposito non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la casa di reclusione Due Palazzi di Padova o altro istituto in Italia”, ha dichiarato a febbraio 2024. “Era tutto pronto, ma mi è stata negata la possibilità di accedere al carcere per il sopralluogo. La volontaria non ha più avuto l’autorizzazione per farmi entrare”, spiega Burdese, che in passato ha collaborato alla progettazione degli istituti di Bolzano, San Vito al Tagliamento e del carcere minorile di Torino. Così il progetto è rimasto sulla carta. Nella stessa occasione il sottosegretario ha promesso di creare “un tavolo di lavoro per approfondire la questione”, poi incardinato presso il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e coordinato dal suo direttore. Il team di lavoro è composto da direttori delle carceri, magistrati, docenti universitari e tecnici interni all’Amministrazione, che tra le altre cose dovrebbero definire i requisiti architettonici dei nuovi locali. Fino a poco tempo fa ne faceva parte (a titolo gratuito) anche Marella Santangelo, direttrice del Dipartimento di architettura all’Università Federico II di Napoli e delegata del Rettore al polo universitario del carcere di Secondigliano. “Insieme al capo dell’ufficio tecnico del Dap ci siamo messi a lavorare attingendo ai miei lavori precedenti. Abbiamo realizzato un progetto-prototipo sul carcere di Secondigliano, che sorge su un terreno da 400mila metri quadrati e ospita per l’80% detenuti in regime di alta sicurezza. Abbiamo fatto diversi sopralluoghi, siamo arrivati a un progetto esecutivo e prodotto una valutazione sommaria dei costi, tutto con il beneplacito della direzione”, spiega. A fine dicembre però la docente ha rassegnato le dimissioni. “Ho mandato tutto il materiale al Dap e ho atteso una risposta, delle indicazioni. Invece ho ricevuto un silenzio assordante. Mi spiace che sia morta lì, perché è una cosa che si può cominciare a fare domani”, commenta. ?Già la Consulta nella sentenza aveva suggerito delle soluzioni pratiche, mutuate da altri Paesi che da tempo consentono i colloqui privati senza controllo a vista (nel Consiglio d’Europa lo prevedono in 31). “Può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico”, vi si legge. Di recente anche la Cassazione ha ribadito l’obbligo, ribaltando la decisione di un magistrato di sorveglianza che aveva dichiarato inammissibile il reclamo di un detenuto ad Asti. In quel caso la direzione del carcere aveva negato il diritto a incontrare privatamente la partner perché “la struttura non lo consente”. Alcuni istituti hanno già degli spazi sperimentali, come la Ma.Ma di Renzo Piano per le mamme detenute a Rebibbia e la “casetta rossa” a Bollate, ma nessuno domani sarebbe in grado di soddisfare le domande di tutti i reclusi. Il 26 febbraio i Garanti dei detenuti di tutta Italia incontreranno il ministro Nordio e il dossier sarà sul tavolo. Nel frattempo ai primi di dicembre la deputata dem Debora Serracchiani ha chiesto conto del ritardo in un’interrogazione parlamentare. Il ministro ha replicato che ci sta lavorando il “gruppo di studio multidisciplinare”, ma sui tempi ha glissato. Il diritto all’affettività in carcere: tra promesse e realtà, il caso di Padova di Teodoro De Rosa unita.tv, 17 febbraio 2025 A un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività, il carcere di Padova affronta difficoltà burocratiche e mancanza di strutture, ostacolando l’implementazione dei colloqui intimi. La questione del diritto all’affettività all’interno delle carceri italiane ha assunto una nuova dimensione dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale nel gennaio 2024. Questo provvedimento ha sancito l’importanza di garantire ai detenuti e ai loro familiari la possibilità di esprimere affetto durante i colloqui, un aspetto che va oltre la mera dimensione sessuale. Tuttavia, a un anno di distanza, la situazione nelle carceri, in particolare a Padova, evidenzia come questo diritto rimanga ancora in gran parte inattuato, non solo per mancanza di strutture adeguate, ma anche per questioni burocratiche e autorizzative. La sentenza della Corte Costituzionale e le sue implicazioni - La Corte Costituzionale, con la sua sentenza di gennaio 2024, ha aperto la strada a un cambiamento significativo nel trattamento dei detenuti, sottolineando che la durata dei colloqui intimi deve essere proporzionata all’obiettivo di consentire un’espressione piena dell’affettività. Questo principio, considerato una vera e propria conquista di civiltà, ha sollevato speranze per un miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle carceri. Tuttavia, nonostante il riconoscimento giuridico di questo diritto, la sua applicazione pratica si è rivelata complessa e problematica. La mancanza di strutture adeguate è solo una parte del problema. Le difficoltà burocratiche e le resistenze interne all’amministrazione penitenziaria hanno ostacolato l’implementazione di progetti concreti. La situazione a Padova è emblematicamente rappresentativa di queste sfide, dove le buone intenzioni si sono scontrate con la realtà delle autorizzazioni necessarie per realizzare spazi dedicati ai colloqui intimi. Il progetto di intimità al carcere di Padova - Dopo la sentenza, un gruppo di lavoro, guidato dall’architetto Cesare Burdese, è stato incaricato di progettare spazi dedicati ai colloqui intimi nel carcere di Padova. Questo progetto prevedeva la costruzione di quattro piccoli padiglioni, ognuno dotato di soggiorno, angolo cottura, camera da letto e bagno, per garantire un ambiente confortevole e intimo. L’idea era di coinvolgere i detenuti nella realizzazione di queste strutture, utilizzando fondi provenienti dalla Cassa delle ammende, destinati al reinserimento sociale. Tuttavia, il progetto ha subito un brusco arresto a causa delle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che ha affermato che non esisteva alcuna autorizzazione specifica per l’implementazione di tali spazi nel carcere di Padova. Burdese ha lamentato la mancanza di accesso al carcere per effettuare i sopralluoghi necessari, evidenziando come la volontaria che stava collaborando al progetto non avesse più ricevuto l’autorizzazione per entrare. Di conseguenza, ciò che era stato concepito come un passo avanti è rimasto solo sulla carta. Il tavolo di lavoro e le promesse di riforma - In seguito alle difficoltà riscontrate, il sottosegretario Ostellari ha promesso la creazione di un tavolo di lavoro per approfondire la questione del diritto all’affettività in carcere. Questo gruppo, coordinato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, include direttori di carceri, magistrati e tecnici, con l’obiettivo di definire i requisiti architettonici per i nuovi spazi. Tra i membri del team figurava anche Marella Santangelo, direttrice del Dipartimento di Architettura all’Università Federico II di Napoli, che ha lavorato a un progetto prototipo per il carcere di Secondigliano. Nonostante gli sforzi, la situazione è rimasta stagnante. Santangelo ha presentato un progetto esecutivo, ma ha successivamente rassegnato le dimissioni a causa della mancanza di risposte e indicazioni da parte del Dap. La sua esperienza evidenzia come le buone intenzioni possano facilmente naufragare di fronte a un silenzio istituzionale che frena il progresso. Le esperienze di altri Paesi e le prospettive future - La Corte Costituzionale ha suggerito soluzioni pratiche ispirate a modelli di altri Paesi, dove i colloqui privati senza controllo a vista sono già una realtà. In Europa, 31 Stati membri del Consiglio d’Europa prevedono spazi dedicati per le visite intime, organizzati per ricreare un ambiente domestico. Tuttavia, in Italia, la situazione è ben diversa, con pochi istituti che offrono spazi sperimentali, come la Ma.Ma di Renzo Piano a Rebibbia e la “casetta rossa” a Bollate. Il 26 febbraio, i Garanti dei detenuti di tutta Italia si incontreranno con il ministro Nordio per discutere di queste problematiche. Nel frattempo, la deputata Debora Serracchiani ha sollevato interrogativi sul ritardo nell’attuazione delle riforme attraverso un’interrogazione parlamentare. Il ministro ha confermato che il gruppo di studio multidisciplinare sta lavorando sulla questione, ma non ha fornito indicazioni sui tempi di realizzazione. La situazione attuale mette in luce la necessità di un impegno concreto per garantire il diritto all’affettività in carcere, un aspetto fondamentale per il benessere dei detenuti e delle loro famiglie. La strada da percorrere è ancora lunga, ma le aspettative rimangono vive, in attesa di un cambiamento reale e tangibile. Il destino infernale della popolazione carceraria: una dignità non negoziabile di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 17 febbraio 2025 Decidiamo di parlare ancora una volta di carcere, nelle stesse ore nelle quali viene rilanciato, sui principali organi di stampa, un nuovo allarme sicurezza nelle nostre strutture detentive. Ad innescarlo, una indagine della Procura di Palermo, dalla quale emergerebbe tra l’altro - secondo le cronache - che la criminalità organizzata governa indisturbata le carceri, e dalle carceri continua a governare i propri affari illeciti nei territori da essa controllati. Lo strumento del diavolo sembrerebbe essere quello dei telefoni cellulari, che entrano indisturbati nelle celle, consentendo ai detenuti in grado di procurarseli - capibastone in testa - di continuare ad operare all’esterno, guadagnando forza e prestigio criminale all’interno. Indagine certamente importante, che dovrà accertare le falle e le responsabilità all’interno del sistema carceri, in modo da restituire agli istituti penitenziari una delle sue funzioni irrinunciabili, che è certamente quella di isolare e sterilizzare la pericolosità sociale del detenuto. Non vorremmo però che questa indagine divenisse la ghiotta occasione per rilanciare richieste indiscriminate di irrigidimento complessivo delle regole di vita nel carcere, che finiscano per colpire le condizioni - già assai precarie, e spesso ben oltre i limiti della decenza - nelle quali vive quotidianamente la gran parte dei detenuti, che in realtà nulla ha a che fare con la criminalità organizzata. L’intervento - Una cosa è intervenire sulla tenuta e sulla impermeabilità delle sezioni di alta sicurezza, altra cosa è cogliere l’occasione per pericolosi rilanci securitari nella ordinaria vita nelle carceri. In una intervista sul Corriere della Sera, per esempio, il dott. Sebastiano Ardita sembra andare esattamente in questa direzione, se arriva ad imputare, secondo una logica che a me appare del tutto misteriosa, il numero impressionante dei suicidi non alle condizioni infami della ordinaria vita nelle carceri, ma invece allo strapotere che in esse eserciterebbero le mafie (“Con il pretesto del sovraffollamento delle carceri si è deciso di aprire le celle ai mafiosi, il che consente ai più pericolosi di circolare ed assumere il controllo dei penitenziari, provocando peraltro la mattanza dei diritti dei reclusi più deboli. Lo attesta l’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi: un cedimento alla sicurezza e al benessere con l’alibi della tutela dei diritti dei detenuti”). Il fenomeno dei suicidi - Si tratta di una lettura davvero stupefacente del fenomeno drammatico dei suicidi o tentati suicidi nelle carceri, segnata da una specie di ossessione mafiocentrica, che fa del tema -pur molto serio - del contrasto alla criminalità organizzata una sorta di unità di misura universale sulla quale organizzare e misurare qualunque pensiero o ragionamento che abbia a che fare con i temi della amministrazione della giustizia. Noi invece pensiamo che il sovraffollamento non sia un “pretesto”, che la tutela dei diritti dei detenuti non sia un “alibi”, e soprattutto che la vergogna dei suicidi non abbia proprio nulla a che fare con il -preteso o reale che sia - spadroneggiare delle mafie nelle carceri. Da Einaudi a Calamandrei: i padri costituenti vollero l’immunità per i rappresentanti del popolo di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 febbraio 2025 La norma che proteggeva i parlamentari dal potere giudiziari venne modificata nel 1993, nel pieno delle inchieste su Tangentopoli. “Nell’assemblea che scrisse la Carta c’erano ampie convergenze in un confronto laico. Cosa sorprendente se si pensa alle barricate erette oggi quando si parla di giustizia”, spiega Giovanni Gizzetta. L’articolo 68 della Costituzione sulla cosiddetta “immunità parlamentare” o “immunità penale” è stato modificato con la legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3. Trentadue anni fa l’esigenza del legislatore di intervenire sulla norma originaria, presente nella Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, fu dettata dal terremoto provocato dalle inchieste e dagli arresti di “Mani pulite”. La classe politica del nostro Paese dell’epoca venne spazzata via per aprire la fase della “Seconda Repubblica”. Partiamo dal dato normativo. L’articolo 68 prevede che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Il secondo comma stabilisce invece che “senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”. Al terzo comma si aggiunge che “analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. Prima del 1993, era previsto l’intervento del Parlamento per autorizzare l’inizio delle indagini su un membro di una Camera e per procedere all’arresto in attuazione di una condanna definitiva. L’immunità parlamentare, contenuta nell’articolo 68, esiste tuttora. “Ma nel disgraziato annus orribilis 1993 - come ha rilevato il presidente della Fondazione Einaudi, Giuseppe Benedetto (si veda Il Dubbio dell’8 febbraio) - è stata cambiata la nostra Carta espungendo dall’articolo il cuore dello stesso, cioè l’autorizzazione a procedere. Cioè la possibilità per il Parlamento di intervenire quando un pubblico ministero chiede ad esempio l’avvio di un procedimento penale nei confronti di un membro del Parlamento stesso. Questa norma voluta dai nostri padri costituenti, come Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti, è stata poi modificata da personaggi di ben altro spessore proprio in quella legislatura”. Nei lavori dell’Assemblea Costituente venne riconosciuta ai parlamentari una immunità molto più estesa. Era infatti necessaria l’autorizzazione anche per avviare indagini a carico di un parlamentare - deputato o senatore - per arrestarlo pur in presenza di una condanna irrevocabile. Le cose, come detto, cambiarono con le inchieste di “Mani pulite” e con i referendum contro la partitocrazia. I lavori che hanno portato alla stesura dell’articolo 68 nella versione originaria presero in considerazione esigenze molto precise. Quasi ottant’anni fa si decise di conferire ai parlamentari una immunità robusta. “I costituenti - evidenzia Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Roma “Tor Vergata” -, come si evince chiaramente dai lavori dell’Assemblea Costituente, condividevano una duplice preoccupazione. Da un lato quella di un possibile condizionamento della magistratura da parte della politica e dall’altro quella di un rischio di chiusura autoreferenziale e corporativa della magistratura, con effetti anche di tensione tra politica e giurisdizione. Conseguentemente la soluzione fu quella di accentuare la separazione tra le due sfere di potere: da un lato con la creazione di un circuito di autonomia dell’organizzazione amministrativa della magistratura e dall’altro con l’introduzione, tra l’altro, dell’istituto dell’autorizzazione a procedere da parte delle Camere. Per un verso, nacque, così, il Csm, peraltro in una composizione tale da rendere maggioritaria la componente togata. Soluzione che fu preferita “in zona Cesarini”, e non senza esitazioni, visto che il progetto base su cui discusse l’Assemblea prevedeva una composizione paritaria. Per altro verso, fu prevista, appunto, l’autorizzazione a procedere nel caso di iniziative giudiziarie che riguardassero i parlamentari in carica. Essa, è bene ricordarlo, valeva solo per il periodo in cui i parlamentari esercitavano la funzione, potendo viceversa la magistratura procedere senza più necessità di autorizzazione alla fine del loro mandato”. La discussione che ha portato all’articolo 68 della Costituzione, nella versione rimasta in vigore fino al 1993, ha registrato una certa uniformità di vedute. “Le posizioni dei costituenti - spiega il professor Guzzetta - erano molto convergenti nel contesto di un dibattito molto laico. Una cosa sorprendente se si pensa alle barricate che oggi vengono erette ogni qual volta si parli dei temi della giustizia. L’unica posizione eccentrica, almeno nella prima fase, fu quella di Palmiro Togliatti che, nella logica giacobina propria del fronte popolare, avrebbe voluto dei giudici scelti mediante elezione popolare e quindi di derivazione politica. Non dimentichiamo che Togliatti era anche fortemente contrario alla Corte costituzionale. Era inconcepibile, nella sua visione, che ci fosse un organo legittimato a sindacare le scelte del Parlamento, quale organo espressione diretta della sovranità popolare”. Alcuni momenti storici hanno dimostrato che la Carta Costituzionale può essere modificata. Non è un’eresia, come rileva Giovanni Guzzetta: “Non vi sono dubbi che la Carta costituzionale possa essere modificata, con il solo limite di quei principi supremi e diritti inviolabili che ne costituiscono il nucleo duro, secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale. Aggiungo, se mi consente un’autocitazione del volume “La Repubblica transitoria”, che il procedimento di revisione fu concepito in termini di una rigidità tendenzialmente più attenuata rispetto ad altre soluzioni che si imposero in altre Costituzioni dell’epoca”. Un nuovo intervento sull’articolo 68 della Costituzione, dunque, alla luce delle ultime prese di posizione di alcuni partiti, non è da escludere. Occorre un approccio realistico e non ipocrita. “Non vedo - aggiunge il costituzionalista di “Tor Vergata” - alcuna preclusione giuridica a un intervento in questo senso. Si tratta comunque di una valutazione squisitamente politica e di opportunità, sulla quale non ho alcun titolo per pronunciarmi. Ciò detto, però, ritengo che sia intellettualmente onesto segnalare come, abbandonata la soluzione originaria, quella della netta separazione, e cioè di una simmetria tra garanzia dell’indipendenza della magistratura dalla politica e speculare garanzia dell’autonomia della politica dalla magistratura, l’evoluzione di questi ultimi anni abbia talvolta determinato situazioni di squilibrio, enfatizzate da derive populistiche e antipolitiche, che hanno accentuato la conflittualità. Io credo che l’articolo 68 avrebbe bisogno di un “tagliando”, anche se la soluzione non dev’essere necessariamente quello del ritorno all’antico e all’autorizzazione”. Un esempio? “La soluzione - conclude il professor Guzzetta - per le intercettazioni dei parlamentari è una sorta di ossimoro, che il ministro dell’epoca, l’insigne costituzionalista Paolo Barile, non mancò di sottolineare. L’intercettazione, infatti, è un classico atto di indagine “a sorpresa”, prevedere una previa autorizzazione per procedere a intercettare un parlamentare è una pura ipocrisia che serve solo come alibi per non dire che le intercettazioni sono semplicemente vietate. Un’ipocrisia che, però, produce danni, perché, com’è noto, la giurisprudenza costituzionale ammette le intercettazioni casuali dei parlamentari; quelle cioè in cui il parlamentare è solo un indiretto e casuale interlocutore di chi è destinatario dell’intercettazione. In questo modo però si aggiunge oggettivamente ipocrisia a ipocrisia. Perché il parlamentare che sa di poter essere intercettato, seppur casualmente, sarà condotto a comportarsi di conseguenza, optando per un atteggiamento di comunicazione prudente e difensiva. E così una norma che era nata per tutelare, a torto o a ragione, il diritto del parlamentare di comunicare liberamente senza il timore di essere intercettato a sua insaputa, oggi ha realizzato l’effetto opposto di ipotecare la libertà di comunicare dello stesso, senza doversi preoccupare di un possibile utilizzo di quanto dice e di come lo dice. Ormai l’unica tutela residua si ha quando un parlamentare comunica con un altro parlamentare o altro titolare di immunità, perché in tal caso non può esservi, per definizione, una intercettazione casuale”. La lunga marcia dell’immunità: da privilegio dei re a garanzia per tutti di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 17 febbraio 2025 L’immunità politica è un principio fondante delle democrazie moderne e una conseguenza della separazione dei poteri; lo scopo è proteggere i parlamentari eletti da eventuali attacchi giudiziari arbitrari e motivati da finalità eversive. In sostanza si configura come una forma di garanzia dell’equilibrio democratico. Ma non sempre è stato così, al contrario nel mondo antico l’immunità era strettamente connessa allo status sociale e determinava una chiara condizione di privilegio e non un diritto universale. È il caso dell’antica Roma in cui le famiglie patrizie o nobiliari che detenevano una grande influenza politica ed economica spesso godevano di immunità dalle leggi ordinarie e soprattutto dai tributi fiscali. I membri dell’élite romana, che avevano ruoli di governo o possedevano terre, non erano obbligati a pagare le imposte come invece era d’obbligo per i membri della plebe. Anche i magistrati erano esentati dalla giurisdizione ordinaria nel senso che non potevano essere perseguiti per le loro azioni durante il mandato tranne in casi estremi come nel reato di “lesa maestà”. Persino i soldati in servizio attivo non potevano essere sottoposti a procedimenti legali ordinari, se non in casi di crimini gravi. Inoltre, i generali romani, che erano tra i funzionari più potenti dell’impero, godevano di un’ulteriore protezione che li esentava da qualsiasi responsabilità legale durante il loro comando militare. Esisteva anche una forma di “immunità religiosa”, prerogativa di sacerdoti e vestali protetti dalle leggi ordinarie in virtù della sacralità della loro funzione. Nel Medioevo, la nozione di immunità si estende con l’istituzione e il consolidamento del potere ecclesiastico. La Chiesa cattolica, in particolare, gode di una protezione speciale. I chierici, ad esempio, erano esentati dalla giurisdizione civile e penale dei tribunali laici, un privilegio che divenne una parte fondamentale del corpus giuridico medievale. Il diritto canonico, infatti, stabiliva una netta separazione tra giustizia religiosa e civile. Un caso significativo si ebbe durante il pontificato di Papa Innocenzo III, che, all’inizio del XIII secolo, amplia i diritti di immunità per il clero, in particolare per i vescovi e gli abati. Questo contribuisce a consolidare l’influenza della Chiesa sulla politica e sulle leggi dei regni cristiani, creando una gerarchia che poneva il potere spirituale al di sopra delle leggi terrene. Dopo il Rinascimento, la nozione di immunità acquisisce un significato centrale nella formazione delle monarchie assolute: i sovrani vengono elevati a un livello quasi divino. È il filosofo francese Jean Bodin che nel suo trattato Les Six Livres de la République (1576), teorizza il concetto di sovranità assoluta, con l’idea che il monarca fosse al di sopra della legge e non potesse essere perseguito o giudicato. L’esempio esempio più lampante riguarda la Francia di Luigi XIV, il Re Sole, che governò dal 1643 al 1715. Durante il suo lunghissimo regno, il monarca non poteva venire incriminato da nessun tribunale, in quanto era considerato l’incarnazione dello Stato stesso, “l’état c’est moi”. È con la Rivoluzione Francese del 1789, che l’idea di immunità subisce una trasformazione radicale, quasi un rovesciamento. La dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) sancisce il principio di uguaglianza davanti alla legge, riducendo notevolmente le applicazioni degli antichi privilegi riservati a clero e nobiltà. Nel XIX e XX secolo, con l’affermarsi dei regimi parlamentari, si definisce il principio dell’immunità parlamentare come lo intendiamo noi oggi. Un passaggio emblematico fu la British Parliamentary Immunity, che a partire dal XVII secolo stabilì che i membri del Parlamento non potessero essere arrestati durante le sessioni parlamentari, a meno che non fossero accusati di crimini gravi. La protezione degli individui dal sistema legale ordinario fu motivata dal principio che l’indipendenza del legislatore fosse essenziale per un governo democratico. L’evoluzione storica della nozione di immunità mostra un movimento graduale verso una maggiore responsabilizzazione dei poteri politici, sia nazionali che internazionali. Mentre in epoche passate l’immunità era spesso uno strumento di protezione per i potenti, oggi essa è soggetta a un bilanciamento tra le esigenze di giustizia e la protezione dell’indipendenza delle istituzioni politiche. Gli sviluppi contemporanei, come quelli legati alla Corte Penale Internazionale, stanno cercando di ridurre l’impunità politica, ma restano ancora significative controversie sulla sua applicazione in ambiti nazionali e internazionali. La sfida futura consisterà nel garantire un equilibrio che tuteli i diritti fondamentali senza compromettere l’efficacia delle funzioni politiche e governative. “Non fu un errore cambiare la norma quando diventò un’autodifesa corporativa” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 febbraio 2025 Stefano Ceccanti: “Nella Prima Repubblica un certo squilibrio si è venuto a creare per la crisi degli assetti tradizionali del sistema dei partiti più che per iniziativa autonoma del potere giudiziario. L’articolo 68 della Costituzione prevede sempre alcune garanzie per i parlamentari”, afferma il professore Stefano Ceccanti, Ordinario di diritto pubblico comparato all’Università La Sapienza e, nella scorsa legislatura, deputato del Partito democratico. Professor Ceccanti, prima di ogni valutazione, può illustrarci l’evoluzione che ha avuto l’istituto dell’immunità parlamentare? Il testo vigente oggi prevede alcune garanzie, ossia l’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio del mandato parlamentare, l’autorizzazione del Parlamento per perquisizioni personali o domiciliari, arresti, privazione della libertà personale, detenzione tranne nei casi di condanna definitiva e di flagranza di reato, intercettazioni, sequestro di corrispondenza. In origine però c’erano due differenze, due tutele in più, venute meno nel 1993. Quella più importante che è venuta meno è l’autorizzazione a procedere per i procedimenti penali; l’altra era l’autorizzazione per le condanne definitive. È la prima cosa che è diventata oggetto di dibattito. Secondo lei, i padri costituenti come avrebbero commentato l’assetto attuale. Lo “stravolgimento” è stato innegabile… Sappiamo che i costituenti avevano ritenuto allora di dover equilibrare una fortissima autonomia della magistratura con altrettanto forti garanzie per i parlamentari, specie di opposizione. Però sarebbe abusivo attribuire loro dei commenti sul sistema post 1993. Non è possibile far loro dire né che avrebbero ritenuto intangibile la formulazione di allora né preferibile quella attuale. Il giudizio appartiene alla nostra responsabilità. In ogni caso, comunque, la Costituzione non appartiene a nessuno, neanche a coloro che l’hanno scritta, per quanta deferenza si possa e si debba avere nei loro confronti. Non saremmo comunque tenuti a ritenere indiscutibile il loro parere, come neanche quello di chi cambiò l’articolo nel 1993. Non ritiene però un “errore” la formulazione vigente? In particolare l’aver tolto l’autorizzazione a procedere per i procedimenti penali? Francamente no e mi spiego. Soprattutto nella prima legislatura quella garanzia servì a difendere le prerogative del Parlamento e in specie degli eletti dell’opposizione rispetto a un potere giudiziario che i costituenti temevano come invasivo perché non aveva avuto una forte discontinuità rispetto al regime. Con l’andare degli anni il diniego dell’autorizzazione divenne però un blocco generalizzato verso qualsiasi reato, del tutto sconnesso dall’attività parlamentare. C’erano quindi delle ragioni di fondo nella revisione del 1993. La politica secondo lei non dimostrò “debolezza” decidendo di rivedere l’immunità parlamentare? Ovviamente c’era anche un elemento di debolezza in quella scelta, ma da decenni i più attenti osservatori e studiosi del Parlamento avevano denunciato la trasformazione di quella garanzia in senso corporativo, di autodifesa arbitraria. Per cui credo che le ragioni positive, di scelta, prevalessero su quelle negative di debolezza. Sullo sfondo rimane però sempre il tema irrisolto del rapporto della politica la magistratura. Crede che si arriverà mai a un punto di equilibrio? Dovremmo più lavorare in positivo, nel senso della costruzione di governi stabili ed efficienti per raggiungere questo equilibrio, più che in negativo. In fondo anche nella cosiddetta prima Repubblica un certo squilibrio si è venuto a creare per la crisi degli assetti tradizionali del sistema dei partiti più che per iniziativa autonoma del potere giudiziario, che ha spesso beneficiato per espandersi di leggi fatte dal Parlamento. Se poi, in questo quadro, vogliamo andare anche verso la separazione delle carriere in termini di principio sono d’accordo, ma attenzione a fare confusione mescolandola con scelte deresponsabilizzanti quali quella del sorteggio per i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Processo civile, luci e molte ombre. La svolta del rinvio pregiudiziale alla Suprema corte di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 17 febbraio 2025 Alle inaugurazioni in Cassazione e soprattutto nelle Corti d’Appello, fin troppo entusiasmo per la trattazione scritta nei giudizi. Proficuo il dialogo tra i tribunali e Piazza Cavour. Dalla lettura delle relazioni sull’amministrazione della giustizia presentate dai vertici della Cassazione e delle Corti d’Appello emerge, per l’ambito civilistico, un’attenzione costante ai nuovi istituti introdotti dalle ultime riforme. L’evoluzione del diritto negli ultimi anni ha mostrato un bilanciamento tra innovazione normativa ed esigenze di efficienza processuale: novità come la digitalizzazione delle udienze, il rinvio pregiudiziale e la specializzazione delle sezioni giudicanti hanno contribuito a una maggiore rapidità nella definizione delle controversie. Tuttavia, restano criticità legate alla gestione del carico di lavoro, alle carenze di organico e all’impatto di alcune riforme, soprattutto in ambito familiaristico. Solo attraverso un costante monitoraggio e un adeguamento sempre più mirato delle normative all’evoluzione sociale sarà possibile garantire un sistema giudiziario più efficiente, accessibile e in linea con le esigenze dei cittadini. Ma proviamo ad accennare qui una fotografia del sistema. Un aspetto particolarmente segnalato dalle relazioni inaugurali è stata la possibilità di svolgere le udienze da remoto. In molte Corti d’appello si è osservata una preferenza crescente per la sostituzione dell’udienza con lo scambio delle note scritte. Dal punto di vista statistico, le relazioni evidenziano un calo complessivo delle nuove iscrizioni, nel civile, pari al 2,1%. Nel complesso, nell’anno appena trascorso, gli uffici giudiziari hanno definito un numero di procedimenti pari a 2.640.341, leggermente superiore al numero di quelli iscritti (2.605.064). I dati generali confermano un progressivo miglioramento dell’efficienza del sistema. Un importante sviluppo riguarda, come detto, il rinvio pregiudiziale, che ha rafforzato il rapporto tra i giudici del merito e quelli di legittimità, permettendo di chiarire questioni complesse e di migliorare la qualità delle decisioni. Tale strumento è stato concepito con la finalità precipua di garantire, in tempi significativamente ridotti, l’enunciazione di un principio di diritto su questioni giuridiche nuove, evitando così che tali problematiche emergano solo a seguito dell’iter ordinario dei mezzi di impugnazione. Il presupposto essenziale per l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale è che la questione sottoposta alla Cassazione presenti gravi difficoltà interpretative e possa riproporsi in un numero significativo di procedimenti, senza che la stessa abbia già formato oggetto di statuizioni della Suprema corte. La valutazione preliminare dell’ammissibilità della questione spetta al primo presidente della Corte, il quale, ove ritenga che ricorrano i presupposti richiesti dalla legge, provvede all’assegnazione della questione alle Sezioni Unite o a una delle Sezioni semplici. Qualora, invece, l’istanza non risulti ammissibile, il primo presidente emette, entro 90 giorni, un decreto di inammissibilità, determinando la restituzione degli atti al giudice a quo. Dal punto di vista organizzativo, è stato istituito un apposito organo denominato Ufficio delle questioni pregiudiziali (Uqp), incaricato di supportare il primo presidente nella valutazione dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale. Tale ufficio è composto dal direttore del Massimario, dal coordinatore delle Sezioni Unite civili e dal direttore del Ced. L’introduzione del rinvio pregiudiziale rappresenta un significativo passo avanti nell’ambito della nomofilachia, consentendo alla Suprema corte di intervenire tempestivamente nella risoluzione di problematiche interpretative rilevanti per la giurisprudenza di merito. Non sono mancate perplessità e riserve da parte della Dottrina, soprattutto in ordine al rischio di deresponsabilizzazione dei giudici di merito e all’eventuale riduzione del confronto giurisprudenziale tra gli organi giurisdizionali. Tale critica, tuttavia, a parere di chi scrive, appare priva di fondamento, in quanto il meccanismo del rinvio pregiudiziale configura una sinergia tra il giudice a quo e la Corte di Cassazione, finalizzata a garantire l’uniformità interpretativa delle norme e ad evitare che questioni giuridiche complesse restino prive di una soluzione chiara e tempestiva. Negli ultimi anni, il settore civile della Cassazione ha attraversato un processo di trasformazione significativo, caratterizzato da profonde innovazioni sia sul piano normativo che organizzativo. Tra i cambiamenti più rilevanti v’è stata l’istituzione dell’Ufficio per il processo, struttura pensata per supportare l’attività giurisdizionale, e la soppressione della Sesta Sezione civile, precedentemente incaricata di gestire i ricorsi inammissibili e manifestamente infondati. Al suo posto, sono stati creati gli uffici spoglio-sezionali, con il compito di esaminare attentamente i ricorsi sopravvenuti per individuare il percorso processuale più adeguato alla loro trattazione. Un ulteriore elemento di novità è stata la maggiore valorizzazione della specializzazione per ambiti di materie, aspetto fondamentale per garantire maggiore efficienza nella gestione delle controversie. A questo si aggiunge l’importante passo avanti nella digitalizzazione del processo, con l’introduzione del processo telematico. Dal dicembre 2024, infatti, è stata resa possibile la pubblicazione immediata in via telematica delle sentenze e delle ordinanze depositate dal presidente del collegio, un’innovazione che ha contribuito a rendere più rapida la comunicazione degli esiti processuali. Queste riforme, unite all’impegno costante dei magistrati, hanno inevitabilmente avuto un impatto sui tempi del processo di Cassazione. L’impegno per i prossimi anni sarà quello di consolidare e migliorare ulteriormente le performance raggiunte, garantendo un sistema giustizia più efficiente e in linea con gli obiettivi prefissati a livello nazionale ed europeo. Stiamo a vedere. *Avvocato, direttore ISPEG La giustizia ambientale riguarda tutti di Luigi Ripamonti Corriere della Sera, 17 febbraio 2025 Terra dei fuochi, il “rifiuto” dello Stato italiano. Il recente pronunciamento della corte Europea a proposito della “terra dei fuochi” ha riportato all’attenzione la giustizia ambientale, di cui scrive Alessandro Miani sul Corriere Salute del 16 febbraio. La vicenda campana mette a fuoco il problema nel nostro Paese a partire da una questione legata a una vicenda scientemente dolosa, quale è lo sversamento di rifiuti tossici in aree non idonee, ma il tema della giustizia ambientale è più vasto, su scala mondiale, e chiama in causa le scelte di ciascuno di noi, ogni giorno, a partire da gesti a cui rischiamo di attribuire ancora poca importanza, dalla disattenzione nella raccolta differenziata, allo spreco dell’acqua domestica, all’uso di combustibili fossili anche quando sostituibili con alternative da fonti rinnovabili. Può essere poco “di moda” ricordarlo in un momento in cui le politiche green sono in crisi anche a causa di rispettabili considerazioni che insistono, per esempio, sull’occupazione. Nondimeno, si può esercitare il buon senso e la buona cittadinanza anche senza passare per massimalisti. È banale ricordare che l’Oceano è fatto di gocce, ma rimane vero. E ciascuno versa la propria nel mare della responsabilità collettiva. Anche se rimane (verrebbe da dire inspiegabilmente, ma sarebbe ingenuo) aperta secondo alcuni la discussione sul portato antropico (cioè di noi umani) nel cambiamento climatico, resta il fatto che di questa epocale mutazione abbiamo cominciato ormai a fare esperienza tutti, pure alle nostre latitudini dove comunque, per ora, le sue conseguenze sono relativamente sopportabili. Ma se guardiamo appena un po’ più a Sud dei nostri confini ci rendiamo conto che gli effetti sono già devastanti, e siccità e fame sono grandi “promotori” non di viaggi della speranza ma della disperazione. Tenere conto di questo è giustizia ambientale, all’ennesima potenza. E possiamo fare a meno di provare a raccontarci che non dipende, seppure in quota parte, anche da noi. Letture consigliate: “Il muro” di John Lanchester (Sellerio, 2019), romanzo “di prospettiva”. Giustizia ambientale in Italia: una sfida sociale ed ecologica di Alessandro Miani* Corriere della Sera, 17 febbraio 2025 Ci sono aree del Paese in cui l’esposizione ad agenti inquinanti è nettamente maggiore. Bisogna garantire un futuro sostenibile e giusto, per proteggere la salute pubblica e rafforzare il tessuto sociale ed economico. La giustizia ambientale è un tema cruciale per l’Italia, Paese che, pur vantando una ricca biodiversità e un patrimonio naturale unico, deve però fare i conti con una crescente disuguaglianza sociale nell’accesso a un ambiente sano. La relazione tra condizioni socio-economiche e rischio ambientale è evidente: le comunità più vulnerabili subiscono l’impatto maggiore di inquinamento e degrado ambientale. Questo fenomeno solleva questioni etiche e politiche, sottolineando la necessità di azioni mirate per assicurare una distribuzione equa dei benefici ambientali e la protezione dei gruppi più svantaggiati. La questione si manifesta con forza soprattutto nelle aree urbane e industrializzate, dove vive oltre il 70% della popolazione. Secondo un rapporto dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), oltre il 28% degli italiani vive in aree ad elevato rischio di inquinamento, con concentrazioni di polveri sottili (PM10 e PM2,5) che superano regolarmente i limiti di sicurezza fissati da UE e Oms. Città come Torino, Milano e Roma hanno registrato livelli di inquinamento atmosferico tali da essere tra le prime in Europa per la quantità di giorni di superamento dei limiti di PM10, con gravi conseguenze per la salute pubblica. Questo tipo di inquinamento colpisce in maniera sproporzionata le fasce di popolazione più deboli: bambini, anziani e famiglie a basso reddito, che spesso vivono nelle periferie delle grandi città, vicino a siti industriali o arterie stradali trafficate. La mancanza di spazi verdi accessibili e la scarsa qualità dell’aria sono fattori che aumentano il rischio di malattie respiratorie e cardiovascolari in questi gruppi, con un’incidenza del 20-30% maggiore rispetto a chi vive in quartieri con migliori condizioni ambientali. Un altro esempio emblematico è quello delle “terre dei fuochi”, aree caratterizzate da contaminazione del suolo e dell’acqua a causa dell’abbandono di rifiuti pericolosi, perlopiù in Campania, Calabria e Puglia. Qui, secondo una ricerca dell’Istituto Nazionale dei Tumori, l’incidenza di tumori è superiore del 22% rispetto alla media nazionale, con una mortalità infantile del 15% più alta rispetto ad altre zone d’Italia. Questi dati evidenziano come il degrado ambientale sia una componente chiave delle disuguaglianze sociali, andando a colpire proprio quelle comunità che hanno meno risorse. L’inclusione della giustizia ambientale nelle politiche nazionali è fondamentale per garantire un futuro sostenibile e giusto, per proteggere la salute pubblica e rafforzare il tessuto sociale ed economico. È solo attraverso una visione integrata e inclusiva, che coinvolga cittadini, Istituzioni e imprese, che sarà possibile assicurare a tutti il diritto di vivere in un ambiente sano, sicuro e sostenibile. *Presidente SIMA e IWBI Italian Ambassador Prato. Suicidio in carcere con la bomboletta del gas. Lettera al sindaco di Vito Totire vocididentro.it, 17 febbraio 2025 Lettera aperta di Vito Totire alla sindaca di Prato in seguito al suicidio in carcere di un detenuto di 32 anni per inalazione del gas di un fornellino (secondo mezzo suicidario in carcere dopo l’impiccagione). Oggetto: morti in carcere. “Non intendiamo solo mettere “il dito nella piaga” ma fare una proposta precisa che stiamo cercando di diffondere (vox clamans in deserto) quantomeno dal 2004. Apprendiamo la drammatica notizia dell’ennesimo morto “suicida” all’interno del carcere di Prato: un giovane di 32 anni; i “precedenti” del carcere di Prato lei li conosce meglio di noi quindi non ci soffermiamo. Ogni luogo di lavoro in Italia ha una sua valutazione del rischio (DVR) introdotto formalmente come documento in forma scritta nel 1994; il carcere non ha un DVR sistemico salvo un DVR limitato ai lavoratori dell’istituto; ma al di là delle procedure formali ci chiediamo perché l’istituzione continua a tacere sul rischio connesso alla circolazione di bombolette di gas. La domanda è retorica: è storicamente peculiare delle istituzioni totali l’insensibilità al tema della prevenzione della salute e degli “incidenti”; sta di fatto tuttavia che la gestione attuale delle bombolette nelle carceri si configura come un vero e proprio “crimine di pace” (per usare un termine suggerito da Franco Basaglia). I crudi dati epidemiologici ci dicono che le bombolette di gas sono il secondo mezzo suicidario in carcere dopo l’impiccagione; non siamo ingenui e sappiamo bene che la prevenzione del suicidio non può fare affidamento solo sulla non disponibilità del mezzo autolesivo ma consentire ancora la circolazione di bombolette in carcere rappresenta comunque una facilitazione all’atto; ciononostante diverse persone che commentano eventi luttuosi come l’ultimo del carcere di Prato parlano delle bombolette come di un oggetto “regolarmente detenuto” che servirebbe (dicono) a riscaldare i cibi. Non ci siamo! L’apparente “liberalità” nella distribuzione delle bombolette nelle carceri ha la funzione di tamponare una incapacità dell’istituzione di gestire il cibo e l’alimentazione in maniera adeguata; la carta dell’ONU (1965) che fa riferimento alle persone private della libertà include tra i diritti fondamentali quello della disponibilità del refettorio; viceversa nei penitenziari italiani c’è una commistione inaccettabile tra spazi dedicati ai servizi igienici e spazi dedicati alla pulizia delle stoviglie e, in sostanza, quasi tutti i detenuti mangiano “in camera” che quindi non è solo “di pernottamento” come eufemisticamente viene definita, da qualche anno , la cella. Ma c’è una altra questione che va oltre il rischio suicidario e riguarda la condotta cosiddetta “voluttuaria” che in sostanza è condotta autolesionista; contrasta palesemente con ogni programma o piano di prevenzione, ancorché “minimo”, la diffusione delle bombolette ad una popolazione così pesantemente connotata da condotte tossicodipendenti o da pulsioni tossicofile; ci risulta che comunemente la bomboletta venga definita “da campeggio”: il carcere di Prato non è tuttavia un “campeggio”. La disponibilità del mezzo suicidario/voluttuario peraltro ci mette in condizione ogni volta, nelle tristi e drammatiche indagini post-morte, a interrogarci: si è trattato di un suicidio o di un epilogo preterintenzionale di una condotta non suicidaria? Non che l’interrogativo post-morte sia particolarmente significativo se vogliamo fare davvero prevenzione. Sul fatto che poi certi eventi possano essere considerati suicidi “volontari” e non suicidi incentivati o del tutto reattivi a condizioni di costrittività e di deprivazione socio-sensoriale evitabili, è tutto da discutere ma non lo faremo in maniera esaustiva in questa breve lettera aperta. Vogliamo evitare una chiave di lettura della nostra posizione come “proibizionista”; intendiamoci: non si tratta solo di evitare il mezzo che facilità il passaggio all’atto (togliere bombolette, lenzuola, lacci ecc.) ma si deve dare anche una risposta alla pulsione tossicofila che è dietro la condotta autolesionista e la risposta deve essere la capacità di presa in carico del disagio, anche qui, senza usare la “scorciatoia miracolistica” della overdose di psicofarmaci “legali”. In sostanza la bomboletta è un evento sentinella pesantemente ignorato, nello stile più classico delle istituzioni totali, ma è ora di dire “basta”. Sappiamo ovviamente che a Prato si discute da tempo sulla drammatica situazione del carcere ma se non si trova il bandolo della matassa rimaniamo legati al palo come confermato, purtroppo, dall’attuale andamento degli eventi suicidari che non evidenzia nel 2025 una controtendenza rispetto al disastroso 2024; non si tratta di “contare i numeri” e di sperare che in una riduzione degli eventi, si tratta di concretizzare un piano che garantisca alle persone private della libertà la stessa speranza di vita e di salute che auspichiamo per tutti gli esseri viventi sul nostro pianeta. La totale “impotenza” dei decisori politici nazionali/governativi ci fa pensare che una àncora di salvezza possano essere i sindaci in virtù del loro ruolo di “autorità sanitaria locale”. Ormai siamo stanchi e nauseati delle parole al vento “il giorno dopo”; signora Sindaco accolga il nostro invito a parlarne nella ipotesi di emanare una ordinanza che possa “bonificare”, per quanto possibile, le gravi condizioni di rischio presenti nel carcere di Prato e che possa aprire un varco nella direzione del rispetto della vita e dei diritti umani delle persone private della libertà, il che sarebbe un vantaggio per la civiltà di tutto il paese. Se ne vogliamo “parlare” siamo disponibili”. Avellino. Detenuto vittima di pestaggio in carcere: il Dap indaga sul video choc di Katiuscia Guarino Il Mattino, 17 febbraio 2025 È stato già trasferito il detenuto vittima del brutale pestaggio ripreso con un telefono cellulare all’interno del carcere di Avellino e finito su alcune chat nel giorno di San Valentino. Un filmato terribile - pubblicato ieri dal Mattino - della durata 19 secondi, che fa riferimento alle violenze avvenute quindici giorni fa ai danni di un detenuto di Casalnuovo (Napoli). A sferrare i colpi sarebbero stati i suoi compagni di cella, proprio all’interno della stanza del penitenziario. Gli avrebbero dato una lezione, in seguito a un comportamento poco consono assunto dalla vittima nel corso dei colloqui nei confronti di alcuni visitatori. Ipotesi sulla quale si stanno facendo i dovuti approfondimenti. Si sta accertando, inoltre, chi abbia ripreso quella terribile sequenza si tratterebbe comunque di un altro recluso da quello smartphone è poi partito per poi essere diffuso rapidamente nel giorno di San Valentino. Su quanto accaduto quindici giorni fa e sul video di 19 secondi che riprende il pestaggio, c’è un’inchiesta della Procura della Repubblica di Avellino e una interna da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Una vicenda sulla quale si sta cercando di fare piena luce rapidamente. Il detenuto bersaglio degli altri reclusi è stato trasferito in un’altra struttura carceraria della Campania. In seguito al pestaggio, era stato temporaneamente fatto traslocare in un’ala della sezione femminile in attesa di andare in un altro penitenziario. Qui, quindici giorni fa diede in escandescenze. Bologna. Giovani detenuti alla Dozza? Un errore di Direttivo “Extrema Ratio” Il Resto del carlino, 17 febbraio 2025 È purtroppo evidente il cortocircuito in atto: per tamponare l’effetto delle politiche carcerogene prodotto dal Decreto Caivano, si è costretti a delocalizzare fino a cinquanta ragazzi spostandoli in un carcere per adulti già fortemente sovrappopolato. La Dozza conta 852 detenuti per una capienza poco superiore a 500 posti. Un tasso di sovraffollamento del 170,4%. Si vuole contrastare una patologia, il numero fuori controllo di ingressi negli istituti di pena minorili, senza intervenire alla radice del problema. È vero che le sezioni sarebbero separate, ma le risorse a disposizione resterebbero le medesime: i detenuti minori verranno coinvolti nelle attività trattamentali, dal momento che la carenza di organico tra gli operatori penitenziari è una questione, oltre che sistemica, irrisolta? Per tenerli ben separati dagli adulti, infatti, il pericolo è che si crei una situazione di isolamento ingiustificata, soprattutto se consideriamo che tra i ragazzi individuati sono già presenti difficoltà nella continuità del progetto rieducativo. Vi è il concreto rischio, insomma, di creare ulteriori sezioni-ghetto. Questa gestione delle persone ristrette compromette il naturale corso di un progetto di reinserimento che possa definirsi solido, rendendo molto difficile la realizzazione di percorsi trattamentali a media e lunga scadenza. In sintesi, come sottolineato anche dall’assessora Matilde Madrid, si tratta di una decisione non condivisibile e preoccupante, soprattutto perché s’intravede già un suo prolungamento nella possibilità di rinnovo dopo i tre mesi, con il risultato di una nociva stabilizzazione. Bologna. La sezione speciale per “giovani adulti” al carcere della Dozza zic.it, 17 febbraio 2025 Il decreto Caivano ha prodotto l’esplosione degli Istituti Penali Minorili, ha fatto aumentare le fattispecie di reato per le quali i ragazzi possono essere reclusi. Il provvedimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria previsto per la casa circondariale di Bologna deve essere fermato. Un “carcere speciale” per ragazzi che hanno commesso reati quando non avevano ancora compiuto diciotto anni: questa sarebbe la definizione più corretta per descrivere il progetto che il ministero della Giustizia ha in mente di “sprigionare” nel carcere della Dozza. Parliamo dell’apertura di una sezione all’interno del penitenziario bolognese destinata a cosiddetti “giovani adulti problematici” provenienti da tutti gli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) italiani. Il loro numero non è certo: si parla a volte di cinquanta, a volte di settanta. Si tratta di ragazzi condannati da minorenni la cui pena sfora il diciottesimo anno d’età. La legge prevede che gli Ipm debbano assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, quali la custodia cautelare o l’espiazione della pena per ragazzi che abbiano compiuto reati da minorenni e, quando nell’esecuzione della condanna, superino il limite della maggiore età, possano essere custoditi negli Istituti Minorili fino a 25 anni. Questo è avvenuto fino all’entrata del cosiddetto “Decreto Caivano”, convertito in legge nel mese di novembre del 2023, emanato dal governo Meloni a fronte di una dichiarata “emergenza criminale minorile” che confligge con i dati (Istat) sui minori denunciati all’autorità giudiziaria, che evidenziano un andamento oscillatorio che ha visto i numeri relativi al 2022 completamente in linea con gli anni precedenti. Nel giro di pochi mesi l’”effetto Caivano” ha prodotto quasi il raddoppio delle presenze di ragazzi negli Ipm facendo esplodere quasi tutti gli Istituti. La nuova legge è intervenuta sul sistema della giustizia penale minorile italiana (che a detta di molti giuristi era tra le più avanzate d’Europa) attraverso varie misure che hanno prodotto un vero e proprio contraccolpo “carcero-centrico” in spregio alle cosiddette “pene di comunità” e alla territorializzazione dei processi educativi. Sono state aggravate le pene detentive anche per reati lievi in materia di stupefacenti e sono stati ampliati tutti i presupposti della custodia cautelare in carcere. Il Decreto Caivano ha scardinato uno degli strumenti cardine dell’ordinamento penale minorile: la “messa alla prova”. Una misura che era stata inserita nell’ordinamento in un’ottica universalistica, aperta ad ogni tipo di imputato minorenne e per qualunque reato, che sospendeva il procedimento penale per un periodo di tempo in cui il minore avrebbe dovuto seguire un progetto predisposto dal Servizio sociale minorile ministeriale, che influiva anche in termini di abbattimento della ricaduta del sistema penale. Il Decreto Caivano ha fortemente depotenziato la “messa alla prova”, escludendola per i reati più gravi (quelli di più forte impatto sociale). Quindi, in Istituti super-affollati, sono emerse figure di ragazzi “non educativamente recuperabili” attraverso progetti sociali, terapeutici e psicologici. Bene, queste figure di “giovani adulti problematici” saranno raggruppate a Bologna in un unico luogo di reclusione in una sezione del carcere della Dozza. Non si tratta di un’ipotesi di lavoro del Ministero della Giustizia, ma di un percorso già avviato e supportato non solo dalle tante voci critiche che si sono sentite queste settimane, ma già da atti concreti. Uno di questi è il reclutamento di 50 agenti penitenziari che saranno destinati alla “sezione di reclusione giovanile”, con una “diaria” speciale di 100 euro giornalieri in più dell’ordinario stipendio. La sezione dei “giovani adulti” sarebbe installata nei due reparti dell’attuale Sezione Penale, dove sono reclusi detenuti “definitivi” con pene superiori ai cinque anni: uno degli luoghi di maggiore “equilibrio” all’interno della casa circondariale bolognese, dove i detenuti nell’arco della giornata possono usufruire di spazi lavorativi, di studio (due biblioteche) o di attività sportive (un campo da calcio e una palestra). Tutti questi detenuti verrebbero dislocati nell’attuale sezione di Alta Sicurezza (con lo spostamento degli “AS” in altre carceri) dove è impossibile svolgere le attività che abbiamo appena descritto, aggravando così le condizioni di detenzione per persone che, in larga parte, devono rimanere dietro le sbarre per molto tempo. È abbastanza semplice comprendere come una situazione di questo tipo vada ad aggravare una situazione già molto pesante presente nel carcere bolognese, soprattutto nelle sezioni giudiziarie, con detenuti costretti a vivere in perenne stato di sovraffollamento, con percentuali di tossicodipendenza elevatissime che si assommano a problemi di salute fisica e mentale in continuo aumento. Non si tratta di gridare al lupo al lupo, ma di dire che quella che si sta approntando da parte del governo è una vera e propria follia. L’hanno detto e gridato in molti in queste settimane, persone e realtà che svolgono compiti differenti, anche da ambiti impensabili. Vedremo se tutti questi soggetti saranno in grado di fermare un provvedimento che dà sempre più l’idea di come la carcerizzazione sia la strada maestra (l’unica) che l’esecutivo, guidato da Giorgia Meloni e coperto sul fronte della giustizia da un “garantista” strampalato come Nordio, ha imboccato fin dal suo insediamento per affrontare le varie problematiche sociali presenti nei territori. Bergamo. “Forno al Fresco”: così in carcere il pane restituisce dignità ai detenuti di Sabrina Penteriani L’Eco di Bergamo, 17 febbraio 2025 Da ormai 10 anni i volontari della Cooperativa Calimero offrono un’opportunità di lavoro e reinserimento. “Non restare immobile/ sul bordo della strada - scrive il poeta portoghese Mario Benedetti - non lasciar cadere le palpebre/ pesanti come giudizi”. Un invito a vivere davvero, a togliere le macerie del passato, a non arrendersi, scoperchiando il cielo della vita, ritrovando i sogni. È questo il senso del progetto “Forno al Fresco” che la cooperativa Calimero porta avanti da dieci anni nella Casa Circondariale di Bergamo, offrendo a 9 detenuti la possibilità di imparare un mestiere e ottenere così, una volta usciti, una strada diversa, per costruirsi una vita migliore, un’opportunità di riscatto. “Quest’anno abbiamo prodotto quasi 12 mila panettoni - racconta Emilia Colombo, presidente della cooperativa sociale - Abbiamo iniziato a sfornarli a ottobre. Adesso stiamo producendo pane, biscotti, grissini, cracker, sempre con grande attenzione alle farine. Per le nostre pagnotte fatte con lievito madre usiamo per esempio la semola biologica di grano duro di Libera, cereale coltivato sui terreni sequestrati alle mafie. Fra i nostri cavalli di battaglia ci sono sempre i grandi lievitati, a seconda della stagione. Presto inizieremo con le colombe”. Detenzione con dignità - Avere un lavoro significa vivere il periodo di detenzione con dignità: “I detenuti sono assunti come dipendenti della cooperativa - continua Emilia -, e ottengono il relativo salario. Ovviamente non possono uscire dal carcere, e generalmente iniziano con una borsa lavoro e un periodo di formazione”. Nei locali del carcere è stato allestito un forno dove i detenuti lavorano su tre turni. “Come accade per ogni progetto della cooperativa sociale - spiega Emilia - l’obiettivo è che stiano per un periodo con noi e poi al momento del reinserimento nella società possano contare sulle competenze acquisite, dal punto di vista professionale e delle relazioni umane. Il nostro mastro pasticcere tra poco uscirà dal carcere, ha compiuto con noi un percorso molto significativo, e ora sogna di poter aprire una bottega tutta sua. In generale secondo le statistiche nazionali le persone che possono lavorare in carcere hanno una probabilità di recidiva molto più bassa: solo il 30% finisce per tornarci contro l’80% degli altri detenuti”. Alcuni detenuti che hanno partecipato al progetto sono diventati panificatori - Diversi detenuti che hanno partecipato al progetto della Cooperativa Calimero hanno proseguito il mestiere di panificatore o pasticciere trovando impiego in locali e ristoranti del territorio. Alcuni sono stati inseriti in altri progetti della cooperativa: “Una volta scontata la pena - chiarisce Emilia - noi possiamo proporre lavori di pulizie o assemblaggio”. Anche se c’è il sogno che questa attività in futuro “possa crescere e ampliarsi anche fuori dal carcere”. Il turno mattutino, come spiega Roberto Pellegrini, coordinatore del “Forno al Fresco”, si svolge dalle 6 alle 12, quello pomeridiano dalle 12 alle 18, poi c’è quello notturno da mezzanotte alle 6, dedicato prevalentemente alla panificazione, mentre negli altri si producono biscotti, cracker e grissini. “Sono i lavoratori più anziani - dice Roberto - a insegnare ai più giovani. Recentemente abbiamo preso anche un cuoco esterno che sta imparando tutte le tecniche di produzione da affiancare al nostro “maestro d’arte” per avere almeno due persone che possano dare continuità alla produzione. Questa attività sicuramente permette di vivere il periodo della detenzione in modo più dignitoso, occupando il tempo in modo produttivo, e ottenendo un guadagno per sostenere la famiglia o mettere da parte dei risparmi per la vita futura. Ci sono esempi positivi di ex detenuti che hanno trovato occupazione in panifici o pizzerie”. Si recupera autostima - Un aiuto per recuperare autostima e fiducia in sé stessi: “Offre anche la possibilità di costruire relazioni positive con altri detenuti e volontari. È un contesto lavorativo strutturato, con regole e rapporti gerarchici, si sperimenta ciò che si trova fuori”. Assumere un compito e portarlo a termine, anche questa è una scuola di vita: “È fondamentale la formazione alla responsabilità, comprendere e seguire tutte le fasi di produzione per garantire la qualità del prodotto finale”. Sempre delicato il ruolo di affiancamento svolto dal coordinatore: “Bisogna ascoltare molto e motivare le scelte. Le ore di lavoro offrono anche la possibilità di confrontarsi e scambiare idee e consigli. È importante che nei detenuti resti accesa una prospettiva per il futuro e un ritorno nella società. Nonostante le difficoltà e i ritmi sostenuti del lavoro, c’è un bel clima di collaborazione”. Lavorare insieme è già un modo per incontrarsi, per incrociare sguardi, attitudini, storie diverse. Un’esperienza vissuta in modo intenso anche dai volontari che affiancano l’attività dei detenuti nel “Forno al fresco”, come Flavio Valli. “Ho iniziato nel 2020 - racconta - un po’ prima del covid. Ero andato in pensione nel 2018, dopo una vita trascorsa nel mondo della cooperazione, in diversi ruoli. Sono stato educatore, ma anche presidente della cooperativa “L’Impronta” e poi di “Namastè”. Dopo un anno mi sono accorto che non ce la facevo a restare inattivo, così ho colto un’occasione scoperta per caso leggendo “L’Eco di Bergamo”: un corso di formazione segnalato dal Csv per rimpolpare la squadra dei volontari del carcere”. Una formazione lunga e impegnativa, durata un anno, che Flavio ha trovato molto stimolante: “Ci hanno spiegato che non potevamo salvare nessuno. Ci hanno preparato quindi a instaurare un rapporto empatico, attento e solidale, ma con la giusta distanza, perché il rapporto con un detenuto resta fragile e complesso. Non è detto che un volontario riceva il feedback che si aspetta, come ho avuto modo di capire di persona negli ultimi quattro anni”. I volontari che partecipano al progetto “Forno al fresco” sono quattro: “Oltre a me - dice Flavio - ci sono tre signore. Abbiamo iniziato il nostro servizio entrando due alla volta, poi, dopo un po’ di tirocinio, abbiamo iniziato a sperimentarci da soli, così riusciamo ad assicurare una copertura quasi completa. Ognuno di noi assicura un giorno alla settimana, nei periodi di picco un po’ di più”. Le regole non cambiano - Gli spazi del forno seguono le stesse regole in vigore negli altri locali della struttura carceraria: “Questo ovviamente determina delle differenze rispetto a un comune forno - chiarisce Flavio -. Per entrare, per esempio, si lasciano all’ingresso tutti gli oggetti personali, bisogna attraversare i diversi punti di controllo, si resta in una zona chiusa”. La maggior parte dei detenuti impegnati nell’attività del forno ha un’età compresa tra i venti e i 35 anni: “Imparano a svolgere un lavoro che serve alla comunità, coprendo anche i turni notturni, come accade nelle botteghe di panificazione che si trovano all’esterno”. Il ruolo dei volontari è importante e delicato, come sottolinea Flavio: “Lavoriamo con loro. Non facciamo gli educatori, non ci mettiamo a spiegare loro come gira il mondo. Stiamo lì, ascoltiamo, a volte non si dice nulla, non si parla. Non sempre, infatti, i detenuti hanno voglia di comunicare, di mettere sul tavolo le loro emozioni. Aspettiamo che nasca un’empatia dai gesti, dalle azioni comuni, che rendono più facile raccontarsi. Col tempo capita di conoscere situazioni personali e familiari complesse”. A 64 anni, Flavio dice di trovarsi comunque a suo agio nel ruolo del “bocia”: “È molto importante assistere, impacchettare, inscatolare, restare a disposizione per qualunque attività accessoria. Una volta sfornato un panettone, per esempio, bisogna metterlo nella confezione di plastica, inscatolarlo e trasferirlo su uno scaffale. Ma svolgiamo anche compiti più umili come pulire un lavandino o spazzare per terra”. Pronti agli imprevisti - L’assetto quotidiano del forno è sensibile alle situazioni che possono verificarsi nelle celle: “Ci possono essere imprevisti, punizioni, malattie, periodi di isolamento, e ovviamente non sono previste sostituzioni, perciò in certi momenti il lavoro deve continuare anche con carenze di organico. Il ruolo dei volontari è cruciale, soprattutto in queste circostanze: non possiamo sostituire nessuno, ma contribuiamo sicuramente a rendere più efficace e rapido il lavoro degli altri”. Anche per i volontari questo affiancamento diventa occasione per sperimentare e mettersi in gioco: “Il carcere è diverso da qualunque altro luogo - osserva Flavio -. E non è un ambiente facile, qualcuno, per vari motivi, entra come volontario ma poi non continua. Mi ha insegnato a stare zitto, ascoltare, aspettare, è un esercizio continuo di umanità. Non si può vivere di rendita, si spende molto, senza aspettarsi niente in cambio. Entrare in carcere spinge a riflettere su se stessi e sul mondo, e sicuramente spinge a relativizzare altri problemi della vita quotidiana. D’altra parte penso siano molto importanti presenze “esterne” per i detenuti, perché li aiutano a mantenere il contatto con la realtà, e a confidare nella possibilità di tornare ad avere una buona vita dopo aver pagato il loro conto con la giustizia. Mi addolora a volte vedere come ci siano ragazzi che si sono bruciati la vita per gesti impulsivi o colpi di testa. Mi auguro - conclude il racconto Flavio Valli - che trovino una possibilità di riscatto. Quando torno a casa mi sento come dopo una camminata in montagna: una grande fatica da cui si torna fortificati”. I prodotti del “Forno al fresco” vengono venduti a rivenditori: si trovano per esempio nei bar, ristoranti, scuole e altre realtà. Per informazioni si può consultare il sito www.fornoalfresco.it. Roma. A “Conciliazione 5” Yan Pei-Ming racconta i detenuti di Chiara Capuani romasette.it, 17 febbraio 2025 Lo spazio espositivo inaugurato con l’allestimento “Oltre il muro. Regina Coeli a Roma”, di Yan Pei-Ming: 27 ritratti della comunità carceraria. Il cardinale de Mendonca: “È una galleria di strada”. Abbattere metaforicamente un muro - quello che circonda il carcere romano di Regina Coeli - per portare fuori le storie dei detenuti e di tutte quelle persone, tra operatori e volontari, che vi orbitano intorno. Una “magia” resa possibile grazie all’iniziativa del dicastero per la Cultura e l’educazione, che per la realizzazione dello spazio espositivo “Conciliazione 5” ha coinvolto l’istituto penitenziario romano in un progetto artistico di unione, comunione e speranza, inserito nella preziosa cornice del Giubileo degli artisti. Sabato 15 febbraio infatti la window gallery collocata nell’omonima via che porta a piazza San Pietro è stata inaugurata con l’allestimento “Oltre il muro. Regina Coeli Roma”, dell’artista cinese Yan Pei-Ming, che ha realizzato ben 27 ritratti della comunità carceraria romana. Dipinti ad acquerello, con una tecnica unica, che spalancano le porte a una realtà spesso dimenticata. “Abbiamo pensato a “Conciliazione 5” come a uno spazio dedicato alla memoria, di resistenza all’oblio - ha spiegato il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del dicastero per la Cultura e l’educazione, intervenuto all’inaugurazione -. Vogliamo generare aree sempre più complesse, che uniscano rumore e silenzio, velocità e lentezza. “Conciliazione 5” è una galleria di strada, l’abbiamo pensata come un’utopia station, un luogo dove avviene la ricerca del bello, del vero”, ha aggiunto, prima di rivolgere un pensiero al Santo Padre: “Sappiamo che Papa Francesco è in ospedale e preghiamo affinché stia meglio, ma uniti alla sua visione vogliamo celebrare gli artisti, persone che nell’arte e nella cultura trovano la speranza”. Ed è proprio la speranza a fare da leit motiv per “Conciliazione 5”, che nel corso dell’anno giubilare vedrà esposte quattro mostre che ruotano tutte intorno a questo tema. A curarle è Cristiana Perrella, intervenuta all’inaugurazione di sabato, per introdurre la prima delle esposizioni previste. “Il Papa dice che gli artisti sono capaci di sognare una nuova visione del mondo, ha una fiducia straordinaria nell’arte. E noi, partendo da questo piccolo spazio, vogliamo portare l’arte a tutti - le sue parole -. Questo è l’anno straordinario del Giubileo e la zona intorno al Vaticano è piena di persone prese dal loro viaggio spirituale, ma non solo. A fare da collante è anche l’incontro con l’altro e l’incontro con l’arte è ciò a cui auspichiamo. Il tema della speranza ci ha condotto al carcere, a guardare oltre quel muro, verso quelle persone. E ho pensato che il loro sguardo potesse essere catturato da un artista che ha fatto del ritratto il suo segno distintivo”. “Tutte le storie sono uniche, nessuna è uguale all’altra - ha detto a Roma Sette l’artista Yan Pei-Ming -. Raccontare alcune delle storie dei detenuti del Regina Coeli è stato difficile in alcuni momenti, ma quello avuto con loro è stato un incontro prezioso”. Nato a Shanghai nel 1960, Pei-Ming si è trasferito in giovane età in Francia, a Digione, diventando famoso per i suoi ritratti di grandi dimensioni, opere caratterizzate da pennellate vigorose e principalmente in bianco e nero. L’artista, il giorno prima dell’esposizione, si è recato al Regina Coeli per conoscere personalmente i detenuti. “Ringrazio tutti loro - ha detto ancora -. Il messaggio che voglio inviare con la mia arte è di speranza, per la vita, per il futuro, soprattutto in questo Giubileo”. Gli acquerelli del maestro Pei Ming sono stati poi proiettati sul muro del carcere: una finestra sul mondo che guarda all’inclusione. “Tutta la comunità penitenziaria ha vissuto con grande emozione l’attenzione che Papa Francesco ha rivolto al carcere - ha detto Lina Di Domenico, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “Abbiamo lavorato a lungo per portare avanti questo progetto, in modo sinergico con tutte le parti coinvolte. Il compito istituzionale dell’amministrazione penitenziaria - ha concluso - è proprio quello di portare fuori ciò che è dentro”. Saluzzo (Cn). “La Favola Bella”, in scena lo spettacolo degli attori-detenuti ideawebtv.it, 17 febbraio 2025 Venerdì 21 febbraio alle ore 21,00 a calcare il palcoscenico dell’Auditorium di Marene saranno gli attori-Detenuti del Carcere di Saluzzo che, grazie alla produzione di Voci Erranti Onlus e sotto la direzione di Grazia Isoardi, racconteranno delle favole particolari. Partendo dalla storia di Cappuccetto Rosso, conosciuta da tutti, gli attori ci faranno entrare nell’antica necessità di fabulare, arte che trasforma la meraviglia in parola e la parola in nuove meraviglie. “C’era una volta...” è l’incipit di quasi tutti i racconti, fiabe e favole; poi i protagonisti sono bambini ingenui, boschi misteriosi, cacciatori salvifici, lupi famelici. Ma il ruolo del lupo è quello di colui che obbedisce ad un istinto o, invece, ha un ruolo di castigatore per le disobbedienze di coloro che si sono fatti attrarre dalla trasgressione? Nella rilettura della fiaba di Cappuccetto Rosso, il gruppo di detenuti si è riconosciuto nel branco di lupi ed ha voluto raccontare la propria storia vera, non una fiaba, arrivando a guardare in faccia le proprie paure e difficoltà della crescita, l’avidità spinta all’eccesso da una continua “fame”. Una serata di riflessione che potrà portare molti spettatori a ricredersi sulle proprie convinzioni ed anche a capire che, spesso, siamo solo stati più fortunati a nascere e crescere in ambienti più facili. Anche questo appuntamento è realizzato con il sostegno ed il contributo della Fondazione CRS e della Cassa di Risparmio di Savigliano, del Comune di Marene e della Fondazione CRC. Un ringraziamento particolare va anche alla Pro Loco, al Circolo Noi, alla Biblioteca ed alla Parrocchia di Marene che sostengono da anni il progetto culturale dell’Auditorium. Per la prenotazione del posto è sufficiente accedere a https://www.eventbrite.com/e/biglietti-la-favola-bella-1141111387879 o al sito https://parrocchiamarene.it/auditorium oppure rivolgersi alla Biblioteca Falcone Borsellino durante gli orari di apertura della stessa. Per informazioni ci si può rivolgere alla mail auditoriumsangiuseppemarene@gmail.com. Lo “spaccone” e le parole che tornano di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 17 febbraio 2025 I nostri governanti usano la lingua come un’arma d’offesa, d’intimidazione, di paura. Sono vocaboli che appartengono all’area semantica del bullismo. Ma non avremmo mai pensato che si allargasse allo spazio politico. Ci sono parole che seguono il cambiamento del mondo, ci sono parole che lo provocano. I nostri governanti usano la lingua come un’arma d’offesa, d’intimidazione, di paura. È sempre accaduto? D’accordo, ma da un po’ di tempo il fenomeno, tipico dei regimi totalitari, è diventato massiccio anche nelle cosiddette democrazie. È il trionfo della parola non argomentata ma smisurata, studiata per essere fuori controllo e dunque per farsi minacciosa. Ovvio che il pensiero va subito a Trump, che non fa che lanciare strali verbali a destra e a manca come oggetti contundenti con il proposito di intimorire gli avversari. Ora, questo modo di essere, che, intendiamoci, non si limita al solo presidente americano, ha riportato alla luce vocaboli che fino a ieri pensavamo desueti. Sono vocaboli che appartengono all’area semantica del bullismo. Ma non avremmo mai pensato che si allargasse allo spazio politico un concetto (e le rispettive parole) utilizzato finora in campo sociale o psicologico (e per lo più relativo a una psicologia adolescenziale). Pensate a un sostantivo come “spaccone”, tornato in auge con i derivati “spacconata” e “spacconeria”, dal verbo “spaccare”, che meglio di tutti definisce l’obiettivo della politica trumpiana. E ancora: “smargiasso” e “smargiassata” (Gadda accusò lo “stivaluto” di aver intrapreso la “smargiassata africana”). E in questo settore l’italiano offre un repertorio sterminato di aggettivi che si possono attribuire a ragion veduta a questo o a quello, a questa o a quella (e scusate se nel riportarli uso il maschile sovra esteso): “gradasso” (derivato dal nome proprio di un guerriero saraceno dei poemi cavallereschi), “guascone”, “guasconata”, “gaglioffo”, “fanfarone”, “fanfaronata” (da “fanfara”), e si potrebbe continuare. Venerdì è saltato fuori un sostantivo che avevamo archiviato nel cine-immaginario da Far West: “sceriffo”, che in origine segnalava, in Inghilterra, il magistrato a difesa della contea, e che oggi sembra esattamente l’opposto. Un bullo che si diverte a provocare. Gli odiatori soffrono di un disagio della mente. Ma accorgersene è difficile di Jacopo Fo* Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2025 Odiare provoca un eccesso di cortisolo, norepinefrina e altri ormoni dello stress. Il che non fa bene alla salute. Ma questo sovraccarico influenza la mente e tende a focalizzarsi sulle esperienze negative; poi le esperienze belle e buone non le vedi proprio! Molte ricerche ci dicono che questo stato incentiva pensieri ed emozioni negativi: pessimismo, amarezza, ansia, paura. Così una persona ammalata di odio non se ne rende conto. È convinta di non odiare in modo sistematico e si considera una persona giusta che semplicemente non sopporta la stupidità, la scorrettezza, le ingiustizie. A 18 anni io volevo vendicare mia madre ammazzando i fascisti che l’avevano rapita. Entrai così in Rosso, l’organizzazione terroristica di Toni Negri. Un giorno incontrai una ragazza con la quale avevo avuto una storia. Anche lei era favorevole alla lotta armata. Dopo un po’ che parlavamo lei mi guarda esasperata e mi dice: “Jacopo, smettila! È la quinta volta che mi spieghi perché dobbiamo passare dalle parole ai fatti!” Io restai ammutolito, non mi ero proprio accorto di continuare a ripetere le stesse cose. Questa è una caratteristica delle persone ammalate di odio: ripetono ossessivamente gli stessi ragionamenti. E non se ne accorgono. Qualunque critica viene rifiutata con un: “Tu non capisci!”. Per mia fortuna era una ragazza che stimavo, che mi voleva bene e che condivideva le mie idee a dirmi che ero entrato in uno stato di ossessione! Questo fu determinante per farmi capire che ero andato fuori di testa, iniziò così un percorso che rapidamente mi portò ad abbandonare la lotta armata, per fortuna prima di mettermi a sparare. Ma fu solo il primo passo verso la comprensione del mio stato mentale. Non volevo più ammazzare qualcuno ma restavo dell’idea che dovevo difendermi, nessuno avrebbe potuto mettermi i piedi in testa. Passarono 5 anni. Era il 1979 quando una sera andai al Titan, a Roma, una discoteca che veniva chiusa una volta al mese per sparatoria. Il mio locale preferito. Per passare da una sala all’altra c’era solo un corridoio lungo e stretto. Un gruppo di cinque borgatari grandi e grossi, di quelli con le giacche di pelle e i tatuaggi, giocavano a rompere i coglioni: uno si era messo con un braccio teso in orizzontale, la mano appoggiata al muro e tutti dovevano chinarsi per passare. Quei teppisti lo trovavano divertente. Io passai senza chinarmi, spingendo via di petto quel braccio. Pesavo 56 chili, spalle rachitiche, muscoli non pervenuti, ma non mi sarei inchinato di fronte a nessuno. Quando passai oltre uno dei bellimbusti mormorò qualche mala parola. Io quella sera, a causa di motivi indiscutibili, avevo sotto la giacca un martello da carpentiere e nessuna remora a usarlo. Mi girai verso questi teppisti e con il dito indice feci loro cenno di farsi sotto. Il primo che mi fosse venuto addosso se la sarebbe vista male. ?Poi potevano anche ammazzarmi. Sinceramente non me ne fregava un cazzo di morire. Uno di loro, che era il doppio di me, mi guardò negli occhi e mi disse: “Ma tu hai da stà calmo! Te fa male d’esse così incazzato! Te rovini la salute!”. Non smetterò mai di serbare gratitudine per quel giovinastro. Con tre frasi mi fece capire che la sindrome dell’odio mi dominava ancora. Stavo ancora sclerando. Quelle parole se me le avesse dette uno psicologo, un sacerdote, un maestro spirituale, mi sarebbero rimbalzate. Ma se un ceffo come quello ti dice che devi darti una calmata, ti viene un dubbio! Abbandonai Roma e andai a vivere in mezzo a una foresta umbra a ossigenarmi il sistema nervoso. Quando sei preso dalla sindrome dell’odio solo un colpo di fortuna ti può far rendere conto di quanto stai male, proprio perché la rabbia ti porta a non sentire più le tue stesse emozioni. Figuriamoci se senti quelle degli altri… La tua empatia sta a zero. E anche la tua capacità di ascoltare quello che dici. Nel prossimo post cercherò di rispondere alla domanda: puoi smettere di volerti vendicare anche se non sei San Francesco? *Autore, attore e scrittore Il Governo vuole vietare per legge l’educazione sessuo-affettiva a scuola di Simone Alliva Il Domani, 17 febbraio 2025 La chiamano “Educazione alle relazioni”. In un tempo in cui chi “educa al rispetto” nelle scuole viene messo alla porta, chi “educa alle differenze” tacciato di voler promuovere una presunta ideologia del gender, il comune di Roma sceglie la strada delle relazioni tra esseri umani per promuovere un bando di 420mila euro per finanziare progetti di educazione affettiva nelle scuole medie della capitale. “Non è vero che le nuove generazioni si sono “perse”. Siamo noi adulti ad aver trasmesso loro un concetto di relazione fatta di disparità e di potere”, spiega Elisa Ercoli, presidente dell’associazione Differenza donna, da trent’anni al fianco delle donne vittime di violenza. Lo fa alla presentazione del progetto, fortemente voluto dalla consigliera capitolina di Roma Futura, Tiziana Biolghini e dall’assessora alla Scuola, formazione e lavoro, Claudia Pratelli. Il bando prevede che gli enti del Terzo Settore presentino un massimo di tre proposte, ciascuna collegata a un singolo istituto scolastico dei quindici municipi. Queste dovranno rientrare in quattro aree tematiche: educazione socioaffettiva e alle relazioni; educazione alla parità tra i generi; prevenzione e contrasto di violenza e discriminazione legate al genere e all’orientamento sessuale; attività contro il cyberbullismo. È il tentativo di coprire un vuoto su una questione ignorata da sempre da tutti i governi. L’Italia resta uno degli ultimi stati dell’Ue in cui l’educazione sessuale o affettiva non è obbligatoria a scuola. Dal 1977 a oggi ci sono state 16 proposte di legge, tutte naufragate. La sinistra tentenna, la destra con l’arrivo dei Pro-Vita dentro le sue file, in Parlamento, resta ossessionata dal fantasma del gender e blocca ogni tentativo di progresso. Contraria è la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: “Credo sia meglio che venga affidata alle famiglie”, ripete da sempre la leader di Fratelli d’Italia. Tempi lontani quelli raccontati dal giornalista Aldo Torchiaro, suo ex compagno del liceo: “Al Vespucci di Roma promuovemmo l’ora di educazione sessuale fatta da quelli del consultorio dell’Aied”. Il contrasto alla violenza di genere a destra è rappresentato da iniziative spot impregnate spesso di emotività, sulla scia di fatti cronaca: dallo stupro di Palermo a quello di Caivano, passando per i femminicidi, una donna morta per mano di un uomo ogni tre giorni. Così il governo ha valutato l’asse improbabile Eugenia Roccella-Rocco Siffredi contro il porno a altre iniziative di carattere giustizialista come la castrazione chimica per gli stupratori fortemente voluta da Matteo Salvini. Fino ad arrivare al protocollo “Educare al rispetto”, firmato dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara e dalla fondazione Giulia Cecchettin, criticato dalle associazioni: “Non stanzia fondi né tanto meno propone iniziative sistematiche e strutturali per operare un cambiamento reale”, commenta la rete “Educare alle differenze” che dal 2017 raccoglie una moltitudine di associazioni che lavorano, con linguaggi e competenze diverse, per la realizzazione di progetti educativi finalizzati al superamento di sessismo, omolesbobitransfobia, abilismo e razzismi. Da Nord a Sud, sono tanti i progetti educativi nelle scuole, anche sulla spinta di una necessità reale come dimostra un’indagine realizzata da Save the Children in collaborazione con Ipsos “L’educazione affettiva e sessuale in adolescenza” dove i genitori che ritengono utile l’educazione affettiva e sessuale come materia obbligatoria a scuola sono il 91%. Necessità che non trova spazio dentro il Parlamento dove l’attacco ai singoli progetti da parte della maggioranza è all’ordine del giorno. L’iniziativa di Roma è stata fortemente criticata prima dalle associazioni ultra cattoliche e anti diritti come la lobby Pro-Vita e Militia Christi: “Contrasta la sana antropologia, la dignità umana a e l’autentica felicità”. Poi, in aula, dal deputato della Lega Rossano Sasso, capogruppo in commissione Scienza, Cultura e Istruzione: “Il sindaco Gualtieri l’educazione sessuale se la faccia a casa sua. Fuori dalle scuole l’ideologia gender”. Nel mirino anche il progetto di Pavia “Far bene per star bene”, approvato nel 2014 dall’amministrazione di centrodestra guidata da Alessandro Cattaneo per contrastare violenza di genere e discriminazioni sulla quale oggi, Pro-Vita in tandem con la Lega chiede al ministro Valditara un’ispezione. È il segnale di un lavorio in corso. Il deputato Sasso primo firmatario di una risoluzione contro l’educazione sessuo-affettiva ha recentemente invitato il ministro a formulare “una legge apposita che preveda il consenso informato contro queste pericolose derive”. Una legge per bloccare “l’ideologia gender” nelle scuole è la proposta che lancerà mercoledì Pro Vita & Famiglia con un’apposita campagna. Un testo in realtà già c’è, depositato dalla deputata leghista Laura Ravetto: “Divieto dell’inserimento di obiettivi educativi fondati sulle teorie del gender nell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche”. In senso tecnico, all’articolo 1 si legge: “Le istituzioni scolastiche [...] non possono introdurre [...]obiettivi di apprendimento improntati alla cultura gender”. Crescono ancora i senza fissa dimora morti in strada di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2025 “Sono persone che si trovano isolate all’improvviso. In aumento i giovani, anche a causa del Fentanyl”. Le cause dei decessi riflettono una condizione di estrema vulnerabilità, in cui fattori personali, sociali e ambientali si intrecciano aggravando situazioni spesso già precarie. La presidente della Federazione: “Il governo non sembra interessato a dialogare su questo tema”. L’hanno definita la “strage invisibile”. Stiamo parlando dei 434 senza fissa dimora deceduti lo scorso anno. Il dato arriva dal rapporto 2024, pubblicato in questi giorni dall’osservatorio della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. Una fotografia che da anni non cambia. Anzi. Dal 2020 - inizio di questo monitoraggio - si assiste ad una lenta e costante crescita del numero dei decessi delle persone che vivono per strada. Nel 2023 erano 415 e nel 2022 si registravano 399 persone morte. Gli sforzi fatti dalle associazioni che si occupano di clochard sembrano vani e “il governo - ci dice Cristina Avonto presidente della Federazione italiana organismi per le persone senza fissa dimora - non sembra essere interessato a dialogare con il Terzo Settore su questo tema”. Alcune tendenze osservate negli anni precedenti si confermano costanti: la stagionalità dei decessi distribuiti lungo tutto l’anno ma con picchi nei mesi estivi e invernali; il profilo sociografico delle vittime, in prevalenza uomini (91%), stranieri (61%) e con un’età media di 44 anni; la distribuzione geografica, che vede una concentrazione di decessi soprattutto nelle grandi città, con Roma (31) e Milano (23) ai primi posti; la cronicizzazione delle condizioni di isolamento e abbandono. Un altro elemento che purtroppo si ripete è l’impossibilità di risalire all’identità di molte persone decedute, che rimangono dunque senza nome e prive di un riconoscimento ufficiale e di quella dignità che il ricordo dovrebbe garantire. Ma quest’anno i dati mettono in luce anche nuove dinamiche preoccupanti, come l’aumento dei giovani tra le persone decedute. Molti di questi casi si verificano in circostanze drammatiche e allarmanti, tra cui un numero significativo di suicidi, sottolineando la gravità della condizione di questa fascia di popolazione. Nel 2024, i 17 - 29enni che hanno lasciato la vita sono stati ben 76 individui pari al 18% del totale delle morti tra le persone senza dimora: questa fascia d’età risulta la seconda più colpita, subito dopo i 40-49enni. Si tratta perlopiù di giovani uomini (89%) e di nazionalità straniera (92%). È questa la vera emergenza anche nel nostro Paese: il fenomeno young homeless. “È una tendenza europea. In Italia è legata al tema dell’abbandono scolastico, della rottura delle relazioni con le agenzie educative e dai problemi mentali che il Covid ha acuito. Serve una risposta ad hoc. In Europa ci si sta interrogando da tempo su questo tema”, spiega la presidente. Tra coloro per cui è stato possibile approfondire i percorsi di vita emergono storie di ragazzi e ragazze finiti da poco in strada ma anche di molti che, nonostante la giovane età avevano già accumulato anni di marginalità: almeno uno su quattro viveva senza una dimora stabile e sicura da oltre due anni. Le cause dei decessi riflettono, invece, una condizione di estrema vulnerabilità, in cui fattori personali, sociali e ambientali si intrecciano aggravando situazioni spesso già precarie. Ma soprattutto quello che appare evidente è che la strada amplifica gli effetti causati da un malore generico, una caduta, una malattia lieve o un in accidente, così come del “freddo” o del “caldo”, rendendo fatali dei meri eventi naturali. Vivere senza un alloggio adeguato espone queste persone a rischi costanti, spesso molto maggiori e diversi rispetto a quelli a cui è esposta la popolazione generale. “Dobbiamo riflettere - sottolinea Avonto a “Il Fatto Quotidiano.it” - sull’età media di chi perda la vita in strada: 44 anni. Sono persone che si ritrovano senza un tetto improvvisamente e non hanno gli strumenti per affrontare questa nuova dimensione. Chi fa il clochard da tempo sviluppa delle abilità che queste persone non hanno. Il fenomeno è proprio cambiato: oggi tra i senza fissa dimora non ci sono più i tossici tipici degli anni Ottanta ma magari dei ragazzi che fanno uso di Fentanyl”. Avonto ci tiene a far notare che se è vero che il 61% delle persone decedute era di origine straniera va registrata comunque una percentuale del 27% di italiani che hanno perso la vita per strada. L’osservatorio lancia anche qualche soluzione: “È necessario - sottolineano i ricercatori - andare incontro alle persone, raggiungerle fisicamente in strada, perché è lì che vivono e, troppo spesso, trovano la morte. La strada, luogo di violenza, di incidenti e aggressioni, può diventare il punto di partenza per incontrare queste persone, porsi in ascolto, comprendere la natura del disagio ed intervenire con soluzioni alternative, integrate tra sociale, sanità e comunità al fine di portare avanti un cambiamento di approccio al fenomeno della grave marginalità adulta. Partire dunque dalla strada per arrivare alla casa, come insegna il modello Housing First che ad oggi rimane l’approccio più promettente”. Occidente, le illusioni pericolose di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 febbraio 2025 Vincere le elezioni non autorizza a ignorare la legge nazionale e il diritto internazionale; a punire i giudici o i giornalisti; a ignorare la scienza. Tagliare fuori l’Europa dai negoziati sull’Ucraina è un insulto alla Nato. Premiare l’aggressione di Putin significa concedere alla Russia il ruolo di potenza dominante sul continente. Un fratello e una sorella abitano insieme nella vecchia dimora di famiglia. Una vita tranquilla e abitudinaria. Un giorno sentono strani rumori provenire da una stanza della casa. Decidono di ignorarli. In fondo, di quella stanza possono fare a meno. Ma i rumori aumentano, si spostano anche in un’altra stanza. Poi in un’altra ancora. Alla fine i fratelli abbandonano la casa, terrorizzati, senza capire cos’è accaduto. Il racconto Casa tomada (Casa occupata) è del 1946, venne pubblicato in una rivista letteraria diretta da Jorge Luis Borges. L’autore, Julio Cortázar, lo scrisse forse come reazione al peronismo, che l’aveva privato della cattedra. Ma la lezione è utile a tutti, ancora oggi. Per ignavia o per pigrizia, spesso, scegliamo d’ignorare ripetuti segnali d’allarme. Sappiamo che sta accadendo qualcosa di grave, ma facciamo finta di niente. Ci ritiriamo in quello che ci sembra uno spazio sicuro. Finché, di colpo, smette di esserlo. Donald Trump, in meno di un mese, ci ha fatto capire cos’ha in mente: sconvolgere il mondo, e vedere cosa succede. Tagliare fuori l’Europa dai negoziati sull’Ucraina è un insulto alla Nato. Premiare l’aggressione di Putin significa concedere alla Russia il ruolo di potenza dominante sul continente. Arrivare a Monaco di Baviera e irridere le libertà europee, come ha fatto il vice-presidente J.D. Vance, è offensivo. Proporre di svuotare Gaza e farne un resort a stelle e strisce è, semplicemente, folle. L’Occidente è la nostra casa comune, e Donald Trump la sta occupando. Ma tutti - chi più, chi meno - fatichiamo ad ammetterlo. Pensiamo di abitare una stanza distante e sicura, protetta da leggi e tradizioni; siamo convinti che nessuno proverà a forzarla. Ne siamo certi? L’illusione non è solo europea. È prima di tutto, americana. Negli Usa stanno accadendo cose gravi: il perdono agli assalitori del Congresso, la nomina di un complottista no-vax a capo della sanità, la cancellazione dell’agenzia che si occupa degli aiuti internazionali, il licenziamento brutale di funzionari pubblici (gente con famiglie, non robot). I grandi media - New York Times in testa - denunciano, stigmatizzano, protestano: ma non danno l’impressione di cogliere l’enormità dei fatti e la gravità del momento. Lo stesso fanno tanti cittadini di fede democratica, soprattutto se vivono sulle due coste: pensano di essere al sicuro. Sì, ma fino a quando? Anche in Italia assistiamo a uno spettacolo simile. Il nostro legame con gli Usa non è solo storico, militare, diplomatico, economico, scientifico, culturale. È un forte legame psicologico. Per alcuni è ammirazione, addirittura dipendenza. Per altri stupore, condito di diffidenza. Ma tutti siamo legati agli Stati Uniti d’America, e fatichiamo ad ammettere che sono in pericolo. Si leggono colossali sciocchezze, si sentono clamorose ingenuità. “Donald Trump è stato eletto!”, gridano in tanti. Dimenticano che democrazia non vuol dire dittatura della maggioranza. Vincere le elezioni non autorizza a ignorare la legge nazionale e il diritto internazionale; a punire i giudici o i giornalisti; a ignorare la scienza. Sui social media, sabato, Donald Trump ha scritto: “He who saves his Country does not violate any Law”. Chi salva il proprio Paese non viola alcuna Legge. È un’affermazione pericolosa. Ma molti non lo capiscono. Avete paura di Donald Trump? Pochi, in Italia, risponderanno a questa domanda. Quasi tutti ricorreranno a quello che, in inglese, si chiama wishful thinking: confonderanno i giudizi con i desideri. Diranno che, in fondo, Trump è un negoziatore scaltro, e chissà cos’ha in mente (sull’Ucraina, sulla Russia, su Gaza). Che non ricorrerà alla forza per prendersi Panama o la Groenlandia. Che rispetterà il Canada. Che non lascerà la Nato. Che i tecno-oligarchi, alla fine, lo riporteranno alla ragione. Siamo certi? Li sentiamo tutti, gli scricchiolii inquietanti dentro la nostra casa comune. Ma abbiamo paura di aprire la porta e andare a vedere. Restiamo nelle nostre stanze, illudendoci di essere al sicuro. Per quanto? La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane di Beatrice Biliato* altreconomia.it, 17 febbraio 2025 Il procuratore capo della Cpi Karim Khan ha richiesto a fine gennaio un mandato di arresto per i leader dei Talebani, accusati di aver commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. Un atto importante per le donne perseguitate e per certi versi inedito ma che per essere efficace richiede che i Paesi occidentali e i firmatari dello Statuto di Roma rinnovino il sostegno alla Corte. Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan. È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+. Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari. Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto. Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti. La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere. Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi - Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024. Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti. Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani. Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani. I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana. Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo. La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente. Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali. Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile. Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty International ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili. L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale. Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata. Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana. La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan. *Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)