La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2025 Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni. Gentile ministro Nordio, quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all'interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all'affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti. In collaborazione con il dipartimento di architettura dell'università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti. Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto. (…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell'atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all'indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l'incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all'interno degli istituti di pena”. Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo. Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale? Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. E adesso, che succede? Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare. Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ------------------------------------------------------------------------------------- Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli. Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto? Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più. Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi nette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari. Gentile Dottor Nordio quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia. Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a me viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri. Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso. Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli. Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano? Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”. Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica. Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società? C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più. È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019, nel 2022 dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto. Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima. Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli. Carcerati di burocrazia di Franco Giubilei La Stampa, 16 febbraio 2025 Ventimila persone potrebbero uscire dagli istituti, ma le pratiche sono al palo. Sovraffollamento e strutture inadeguate. In un giorno altri due suicidi in cella. Nel giorno in cui il bollettino dei suicidi in carcere registra un nuovo, drammatico balzo in avanti - due vittime in 12 ore a Firenze e Prato, già 12 i morti da inizio anno - il collegio del Garante dei detenuti rivela che il sovraffollamento, forse la causa principale di disagio dietro le sbarre, potrebbe essere ridotto drasticamente. Certo, ci sarebbe una serie di condizioni da rispettare: la macchina burocratico-giudiziaria, innanzitutto, dovrebbe funzionare molto meglio. Non ci sono evidenze sul nesso suicidi-sovraffollamento - premette Irma Conti, del collegio del Garante -. Su questo fenomeno bisogna dire però che 19 mila detenuti, con pene residue fino a tre anni, in base alla normativa potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative”. Invece queste persone restano recluse perché “la burocrazia, la carenza di risorse e di informatizzazione nei tribunali di sorveglianza creano ostacoli”. Parliamo di poco meno di un terzo di quanti stanno scontando una pena detentiva negli istituti italiani, una cifra enorme, ma in realtà la situazione è un po’ più complicata: “Dobbiamo concentrarci sulle persone che rispondono ai requisiti richiesti dalla legge per beneficiare dell’affidamento in prova alternativo al carcere - precisa Conti -. Il punto essenziale è che abbiano un domicilio, ma tenendo conto di questo requisito, 7-8 mila persone possono concretamente uscire, e potrebbero farlo domattina”. Giusto l’uso del condizionale, “potrebbero”, ma sempre a patto che la semplificazione delle procedure e la dotazione di mezzi adeguati delle autorità giudiziarie competenti siano attuate. Il che è molto meno scontato. Sotto il primo profilo, osserva il Garante, “la legge già prevede che il tribunale di sorveglianza decida con un’unica valutazione (prima erano due) sulla possibilità di essere liberato per chi deve ancora scontare 18 mesi in cella”. Anche la richiesta di affidamento in prova, che un tempo il giudice doveva analizzare ogni sei mesi, “ora viene valutata una volta sola, al momento dell’istanza”. Tutto ciò però si scontra con l’inefficienza del sistema: “I tribunali di sorveglianza devono essere informatizzati, le risorse giudiziarie e amministrative devono essere implementate”, osserva Conti. Nel frattempo, i detenuti aspettano e il loro numero aumenta: erano oltre 62 mila alla fine del 2024, con un aumento del 3,3% rispetto all’anno precedente, secondo i dati dell’associazione Antigone. Che sottolinea come il numero di 19 mila reclusi che potrebbero accedere a soluzioni alternative alla cella si riduca a poco meno di un terzo della cifra citata dal Garante: “Più che di problemi burocratici alla base di questo problema, parlerei di questioni di politica penitenziaria - fa notare Michele Miravalle, di Antigone -. Una parte considerevole di quei detenuti, parliamo di 6-7mila persone, non può uscire dal carcere perché non ha una casa, una famiglia o una persona affidabile secondo la legge che possa ospitarla. E questa la difficoltà più grave”. Per ovviare ci vorrebbe una rete esterna di supporto, allo stato attuale inesistente: “Strutture di tipo comunitario con supporto sociale e psicologico, magari gestite dagli enti locali, che per il magistrato possano costituire un domicilio credibile - dice Miravalle Esiste anche una proposta di legge in questo senso del 2023, a firma di Riccardo Magi, che è rimasta lettera morta”. Il reinserimento lavorativo è un’altra via nella stessa direzione: “Servirebbero percorsi formativi adeguati all’interno del carcere che garantiscano un lavoro - aggiunge il responsabile di Antigone - così il giudice potrebbe accordare la misura alternativa. Sarebbe anche un modo per limitare il fenomeno della recidiva”. Salute in carcere, un diritto negato. Ecco perché il problema dei detenuti riguarda tutti noi di Antonio Ferrero La Stampa, 16 febbraio 2025 Ammetto il mio scetticismo ma un convegno infrasettimanale sul problema della salute in carcere non credevo avrebbe suscitato grande interesse: viviamo un’epoca di radicalizzazione delle posizioni ideologiche e di rinnovato sospetto verso la diversità e le sofferenze di chi sta in carcere sono per lo più ignorate se non, nemmeno troppo velatamente, ritenute meritate. Pertanto constatare che la sala polivalente CDT di Cuneo ieri era gremita per il convegno “Salute in carcere: un diritto negato?” mi ha piacevolmente sorpreso. L’iniziativa dell’evento è partita dalle consigliere regionali Giulia Marro e Alice Ravinale, in collaborazione con l’associazione Co.N.O.S.C.I. e aveva come obiettivo sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sull’importanza di garantire un accesso equo e adeguato alle cure per le persone detenute. È una scommessa non da poco poiché l’attuale polarizzazione sociale e politica tende a spingere sempre più verso gli estremi di un malinteso pietismo o del cattivismo del “buttiamo via la chiave”. Invece, gli ospiti intervenuti hanno saputo mantenere un apprezzabile equilibrio sottolineando alcuni aspetti che vale la pena rilanciare oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Il primo, ripreso più volte dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, dalla consigliera Giulia Marro, dal presidente del Co.N.O.S.C.I. Sandro Libianchi oltre che da buona parte dei relatori, è che il problema della salute in carcere non può essere ignorato perché tocca l’intero territorio. In particolare, per quanto riguarda le dipendenze da droghe o da psicofarmaci: il 30% dei reclusi ha problemi di dipendenze, il che significa o che le droghe sono state all’origine dei reati che li hanno condotti in prigione, o che il carcere ne ha amplificato o addirittura ha dato inizio al problema che, se non adeguatamene affrontato, si ripeterà aggravato appena usciranno. Curare le dipendenze dei carcerati significa anche garantire la sicurezza della città in cui verranno reinseriti una volta scontata la pena. Detto egoisticamente: preoccuparsi della salute fisica e psichica dei detenuti serve forse più a noi “fuori” che a chi è “dentro”. Anche perché spesso il carcere alimenta l’uso e l’abuso di sostanze non necessariamente illegali ma che danno dipendenza. Lo ha spiegato con chiarezza il giornalista Luca Rondi presentando i risultati di un’inchiesta svolta per la rivista Altraeconomia in cui ha rivelato come nelle prigioni italiane la circolazione di stupefacenti illegali sia impensabilmente diffusa e come gli stessi trattamenti terapeutici per i reclusi troppo spesso presentino dosaggi fino a cinque volte maggiori di quanto prescritto per chi è libero. Questo perché il ricorso a trattamenti eccessivi risulta un utile supporto per mantenere l’ordine in condizioni di carenza di organico della polizia penitenziaria. È molto comune che giovani con disagi legati a uso di psicofarmaci o droghe in carcere vedano trasformato il loro problema in dipendenza. Per questo diversi relatori, il garante Bruno Mellano in testa, hanno sottolineato come il titolo corretto del convegno avrebbe dovuto eliminare il punto interrogativo, affermando senza remore che la salute in carcere è un diritto negato. Per motivi di dinamiche e equilibri interni alle istituzioni penitenziarie ma anche per una certa difficoltà amministrativa di rapporti tra le Asl locali, che di fatto hanno in carico anche i detenuti, e il ministero della Giustizia che deve occuparsi della gestione pratica dei reclusi. Che il problema della salute in carcere non sia alieno all’intera società è stato spiegato con puntualità dalla sociologa Franca Beccaria attraverso i dati di una ricerca che evidenzia come tutti i giovani finiti in prigione e con problemi di dipendenze abbiano sottolineato, nessuno escluso, che all’origine del malessere che li ha portati a delinquere vi siano stati disagi con le famiglie (troppo rigide o assenti) o con la scuola che non ha fatto nulla per valorizzarli o cercare di favorirne l’inserimento in società. Insomma, il problema della salute dei detenuti riguarda soprattutto noi. Il carcere per adulti non è luogo da ragazzi di David Allegranti La Nazione, 16 febbraio 2025 Anche gli istituti penali per minorenni sono sovraffollati. È lecito domandarsi se un giorno assisteremo a suicidi anche tra i giovani detenuti. Il ministero della Giustizia ha trovato un curioso modo di risolvere la questione: esternalizzare la detenzione minorile al carcere per gli adulti. Nelle sovraffollate e fatiscenti carceri italiane ci si continua a suicidare. A poche ore di distanza, tra il pomeriggio di venerdì e la mattina di ieri, due detenuti si sono tolti la vita. Uno a Prato, l’altro a Firenze. Come già spiegato su queste colonne, le cause di un suicidio possono essere molteplici e ogni suicidio fa storia a sé. Ma se in una cittadina di 60mila abitanti, tanti quanti sono i detenuti attualmente presenti negli istituti penitenziari, ci fossero novanta suicidi l’anno (record stabilito nel 2024; ora siamo a 12 in un mese e mezzo), probabilmente ci chiederemmo, ogni giorno, che cosa sta succedendo e perché. Magari un giorno uno studio scientifico ci spiegherà che il sovraffollamento non c’entra niente con la volontà di togliersi la vita, ma per ora possiamo chiederci se invece non sia proprio fra le cause che rendono la vita in prigione così insostenibile. Oltretutto, il sovraffollamento non colpisce più soltanto le prigioni per adulti, ma anche gli Istituti Penali per Minorenni. È lecito domandarsi se un giorno non assisteremo a fenomeni suicidari anche tra i giovani detenuti. Il ministero della Giustizia ha tuttavia trovato un curioso modo di risolvere la questione: esternalizzare la detenzione minorile al carcere per gli adulti, concentrando fino a 50 giovani adulti - provenienti da vari istituti - all’interno di una sezione detentiva della Casa Circondariale di Bologna. I giovani ristretti, che dovrebbero essere trasferiti il prossimo 25 febbraio, saranno separati dagli adulti. Ma cambierà poco. Si tratta di una soluzione organizzativa che - hanno spiegato qualche giorno fa Antonio Ianniello, garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, e Roberto Cavalieri, garante della Regione Emilia-Romagna - “suscita enormi perplessità e grave preoccupazione nella misura in cui si prefigura un’alta concentrazione di vicende personali e detentive più problematiche di altre, anche incardinata nella prospettiva concreta di una precaria e incongrua offerta di interventi educativi, e anche non escludendo che possano comunque prendere corpo forme di pericolosa e negativa influenza da parte della popolazione detenuta adulta in danno dei ragazzi, benché tenuti separati. I presupposti di amplificate difficoltà sembrano già essere concreti”. Peraltro, com’è la situazione del carcere di Bologna? Pessima, come nel resto d’Italia. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, “il carcere di Bologna ospita 810 detenuti su una capienza regolamentare di 500 posti. 535 persone hanno una condanna definitiva, 409 sono stranieri/e, 73 sono donne”. In generale, “la situazione tra le sezioni risulta disomogenea: il ‘clima’ appare più disteso in alcuni reparti a ‘trattamento avanzato’, mentre una situazione più problematica si percepisce in spazi destinati al ‘trattamento ordinario’, con diverse celle buie e silenziose”. Magari Carlo Nordio con una magia alla Harry Potter allargherà il carcere di Bologna, anche se può sempre spostare 50 ristretti altrove (nel carcere di Fossombrone, nelle Marche, pare, alla faccia del principio di territorialità della pena). Ma resta un fatto: non è un’ala del carcere degli adulti il posto per i giovani detenuti che scontano la pena per reati commessi da minorenni. La crisi nel sistema carcerario italiano di Patricia Iori ultimavoce.it, 16 febbraio 2025 Il sistema carcerario italiano si trova ad affrontare una situazione sempre più complessa e delicata, in cui la burocrazia, la carenza di risorse e la scarsa informatizzazione delle pratiche legate alla detenzione contribuiscono a creare un clima di sofferenza e incertezza per i detenuti. Un rapporto recente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha mostrato una cifra preoccupante: circa 19.000 persone attualmente rinchiuse nelle carceri italiane potrebbero essere libere, se solo il sistema riuscisse a superare le difficoltà burocratiche e operative che impediscono loro di ottenere il giusto trattamento. La situazione è resa ancor più tragica dal fatto che una buona parte dei detenuti che si trovano in queste condizioni è composta da persone che, pur non avendo ancora ricevuto una condanna definitiva, restano in attesa di processo. Questo lungo periodo di detenzione preventiva sta minando la salute mentale di molti, portando, nei casi più estremi, a gesti disperati come il suicidio. Il fenomeno riguarda soprattutto coloro che sono accusati di reati di maltrattamenti in famiglia, con una preoccupante incidenza di suicidi tra queste persone, come sottolineato da Irma Conti, membro del collegio Garante dei detenuti. Burocrazia e ritardi: il labirinto del sistema carcerario - Uno dei problemi principali che ostacola il miglioramento delle condizioni detentive in Italia è la burocrazia, che rende estremamente complesso e lento l’accesso a misure alternative alla detenzione. Il sistema giudiziario, infatti, si trova in un circolo vizioso in cui la mole di pratiche, la carenza di personale e la mancanza di un’efficace gestione informatizzata dei dati impediscono di gestire le richieste di scarcerazione o di accesso a misure alternative con la dovuta tempestività. Il Garante per i diritti dei detenuti ha più volte denunciato la lentezza del processo che dovrebbe portare all’adozione di provvedimenti che consentano ai detenuti di beneficiare di forme alternative di detenzione, come gli arresti domiciliari o la libertà vigilata. Questi strumenti, infatti, potrebbero rappresentare una soluzione più adeguata per molti detenuti, soprattutto quelli che non hanno ancora ricevuto una sentenza definitiva. Tuttavia, le difficoltà burocratiche e le carenze nel sistema giuridico impediscono che tali misure vengano adottate in tempi rapidi. L’assenza di un sistema informatizzato che consenta di monitorare e gestire in maniera efficiente i casi dei detenuti contribuisce ulteriormente a rallentare l’intero processo. La gestione cartacea delle pratiche, spesso disorganizzata e congestionata, crea enormi ritardi nel trattamento dei detenuti, i quali si vedono costretti a rimanere in carcere più a lungo del necessario. Le conseguenze psicologiche della detenzione preventiva - Le problematiche burocratiche e organizzative non sono però l’unico fattore che incide negativamente sulla vita dei detenuti. La detenzione preventiva, che riguarda una parte significativa della popolazione carceraria italiana, ha un impatto devastante sulla salute mentale dei prigionieri. In particolare, chi si trova in carcere in attesa di processo si trova spesso in una condizione di incertezza e di angoscia che può portare a gravi conseguenze psicologiche. Studi condotti nel sistema penitenziario italiano hanno mostrato che la detenzione senza una condanna definitiva può comportare gravi disturbi psicologici, come ansia, depressione, eccessiva aggressività o, nei casi più estremi, il suicidio. Questo è un fenomeno che riguarda in particolare coloro che sono accusati di reati di maltrattamenti in famiglia, come evidenziato dallo studio condotto da Irma Conti. Secondo le analisi del Garante, infatti, una buona parte dei detenuti che si sono tolti la vita in carcere era accusata di reati legati alla violenza domestica, un ambito che, per la sua stessa natura, tende a generare situazioni di grande tensione psicologica. I dati relativi ai suicidi in carcere sono allarmanti e sono sintomi di un malessere diffuso che coinvolge i detenuti, in particolare quelli che vivono l’incertezza del processo o le difficoltà legate alla gestione delle proprie pratiche legali. Il rischio che il sistema penitenziario diventi un luogo di sofferenza fisica e psicologica è ormai una realtà concreta, e la situazione diventa particolarmente grave quando la detenzione è ingiustificata, in attesa di una sentenza che potrebbe, in molti casi, portare all’assoluzione. Il ruolo del Garante dei detenuti: una voce per i diritti - Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute svolge un ruolo fondamentale nel monitorare le condizioni delle carceri italiane e nel tutelare i diritti dei detenuti. Il lavoro del Garante è spesso orientato a fare luce sulle problematiche strutturali e organizzative che contribuiscono alla grave situazione del sistema penitenziario. Le segnalazioni e le analisi fornite dal Garante sono essenziali per comprendere la portata delle difficoltà che i detenuti affrontano quotidianamente. Nel suo recente intervento, Irma Conti, membro del collegio Garante, ha messo in luce la necessità di una riforma del sistema carcerario che affronti in modo deciso i problemi legati alla burocrazia, alla gestione delle risorse e alla scarsità di personale. Inoltre, il Garante ha ricordato anche la necessità di migliorare l’informatizzazione delle pratiche legali, una misura che potrebbe agevolare notevolmente il trattamento dei detenuti e ridurre i tempi di attesa per l’accesso a misure alternative. Il lavoro del Garante è dunque un elemento cruciale nel tentativo di migliorare le condizioni delle carceri italiane e garantire il rispetto dei diritti umani per tutte le persone private della libertà. Tuttavia, la sua attività non può essere sufficiente se non accompagnata da un impegno concreto da parte delle istituzioni competenti per riformare il sistema penitenziario in modo strutturale. La necessità di riforma: un sistema da ripensare - La questione del sovraffollamento carcerario e delle condizioni di vita dei detenuti in Italia è ormai diventata una questione di rilevanza internazionale. Le istituzioni europee e le organizzazioni per i diritti umani hanno più volte sollevato preoccupazioni riguardo alle condizioni delle carceri italiane, chiedendo un intervento urgente per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Le riforme necessarie non possono limitarsi a interventi sporadici, ma devono prevedere un ripensamento complessivo del sistema. In primo luogo, è fondamentale migliorare le strutture carcerarie, garantendo condizioni di vita dignitose e salute adeguata per tutti i detenuti. Inoltre, va messa in atto una riforma profonda del sistema giudiziario che velocizzi i processi e riduca il numero di detenuti in attesa di condanna definitiva. L’adozione di misure alternative alla detenzione deve essere promossa in modo più efficace, garantendo che ogni persona possa essere trattata secondo il principio di non colpevolezza fino a prova contraria. Infine, la digitalizzazione e l’informatizzazione del sistema carcerario sono passi fondamentali per rendere il sistema più efficiente e meno vulnerabile alla lentezza burocratica che, attualmente, penalizza i detenuti. Il futuro delle carceri italiane - Il sistema carcerario italiano si trova di fronte a una sfida enorme: quella di garantire condizioni dignitose ai detenuti, tutelare i loro diritti e risolvere i problemi strutturali che da anni affliggono le carceri. L’introduzione di riforme e l’adozione di misure concrete per ridurre il sovraffollamento, velocizzare i processi e migliorare le condizioni di vita sono fondamentali per risolvere questa crisi. Amore vietato: la sessualità negata in carcere di Mauro Giansante prismag.it, 16 febbraio 2025 In prigione il diritto all’affettività continua a non essere garantito: una lesione sia per i detenuti sia per le persone a loro care che stanno fuori. La pandemia aveva aperto alcuni spiragli, ma il governo Meloni ha imposto l’idea di un carcere duro e puro. Ne abbiamo parlato con attivisti ed esperti. Amare dietro le sbarre si può. Si deve. Non è una frase fatta, ma il succo di una sentenza della Corte di Cassazione che ha aperto questo 2025. Una sentenza storica in materia di diritti dei detenuti. La Corte costituzionale lo aveva già sancito a fine gennaio 2024, quando aveva ribadito che i colloqui intimi, compresi quelli a carattere sessuale, possono essere vietati solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”, cioè per il comportamento non corretto del detenuto o per ragioni giudiziarie (in caso di soggetto ancora imputato). Eppure, appena un giorno dopo la pubblicazione della sentenza, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno ha ricordato la linea del suo governo sul carcere. “L’Italia intende fare la sua parte per garantire condizioni migliori a chi deve scontare una pena qui”, ma “la mia idea non è che questo si debba fare adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle nostre carceri. Dobbiamo adeguare le nostre carceri alle necessità. Questo fa uno Stato serio. È per questo che abbiamo nominato un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria per realizzare settemila nuovi posti”. Secondo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale della Onlus Antigone, “sono parole e promesse che hanno fatto in tanti e nessuno ci è riuscito perché anche costruire carceri è difficile per soldi e tempi. Dovremmo, invece, ragionare su misure garantiste”. Per la numero uno dell’associazione che prende il nome dalla protagonista di Sofocle ingiustamente imprigionata, sul tema dell’affettività “la sentenza del 2024 della Corte costituzionale doveva essere intesa come immediatamente operativa e invece l’amministrazione penitenziaria è stata inadempiente. La Cassazione è andata oltre, qualificando la vita sessuale del detenuto con il proprio partner come un diritto e non soltanto come una legittima aspettativa”. Ora, secondo Marietti, “ci si aspetterebbe che si trovino al più presto le modalità per esercitare questo diritto”. Il problema, però, è che la mentalità giustizialista dell’esecutivo in carica è rimasta intatta e, anzi, si è aggiunta la nomina di un commissario all’edilizia penitenziaria - Marco Doglio, ex Cassa depositi e prestiti - per avviare un programma di ampliamento dei posti di detenzione come unica soluzione per far fronte al sovraffollamento carcerario. Un problema atavico per l’Italia, che non accenna a ridursi: secondo il rapporto di metà gennaio stilato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sono 61.852 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 46.839 posti disponibili. Il divario rispetto alla capienza regolamentare di 51.312 posti è così pari a 4.473. A livello nazionale, l’indice di sovraffollamento è arrivato al 132,05 per cento, con il carcere di San Vittore di Milano ancora in testa alla classifica a causa di una percentuale record del 218,3 per cento. Nessuno sa a che punto sia l’operato di Doglio al momento. E anche in tema di affettività, “nulla si muove”, specifica Marietti, “perché sebbene da mesi sia attiva una commissione per valutare gli spazi negli istituti, non è stato fatto granché. Né sono state effettivamente create stanze apposite per stare in intimità con il partner”. Ancor più grave, se vogliamo, è che neanche l’epoca Covid-19 abbia insegnato nulla. “Anzi, siamo tornati indietro rispetto ai tempi in cui, sebbene con disposizioni emergenziali, era aumentato il numero delle telefonate consentite. Oggi i detenuti sono tornati a poter sentire i propri cari solo per dieci minuti a settimana e hanno visto fare dietrofront anche sull’apertura delle celle disposta dopo la sentenza Torreggiani”. Una disposizione per cui le celle di media sicurezza sarebbero potute restare aperte almeno otto ore al giorno. Per smuovere qualcosa in tema di affettività, Ornella Favero - coordinatrice della rivista Ristretti Orizzonti - spiega che “dopo un’interrogazione parlamentare, il ministro Carlo Nordio aveva promesso risposte sui lavori di un Tavolo apposito, ma ancora non sappiamo nulla. Stiamo lavorando tramite alcuni reclami dei detenuti e vogliamo riprendere in mano l’iniziativa”. Nel resto d’Europa sono tanti gli esempi operativi a garanzia del diritto all’amore anche dietro le sbarre. Oltre alle classiche stanze e a generici colloqui prolungati e non sorvegliati ci sono anche piccoli appartamenti per i detenuti e i loro partner o familiari. “Rispetto ad altri Paesi”, aggiunge Favero, “in Italia era emerso che non è necessaria una legge per garantire il diritto all’affettività”. E l’unico tentativo di sperimentazione di cui si è parlato nei mesi scorsi è stato subito accantonato. “Il direttore del carcere di Padova”, racconta Favero, “era favorevole, ma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (Lega) ha bloccato tutto. Ma l’integrità degli affetti riguarda sia i detenuti che i loro cari che sono fuori, ed è un qualcosa che non dovrebbe avere colore politico”. Tra l’altro, quella della stanza dell’affettività non sarebbe neanche l’unica soluzione. Per Irma Conti, garante nazionale dei detenuti, sarebbero più idonei dei permessi (da concedere in base alla condizione della pena) di uscita dalla casa circondariale. Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa - Polizia penitenziaria, “non si può non tener conto del dettato costituzionale. L’affettività ci dev’essere e va esercitata ma oggi dobbiamo parlare più in generale di effettività dei diritti in carcere, sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari e tutti gli operatori”. E se questa è una situazione ereditata, “sta progressivamente peggiorando”. Basti guardare agli 88 suicidi con cui si è tragicamente chiuso il 2024, stabilendo un nuovo, triste, record. Controlli dal cielo sulle carceri. Per la sicurezza spunta il drone di Luca Bonzanni Avvenire, 16 febbraio 2025 Il controllo delle carceri potrà passare anche dal cielo, con nuove tecnologie. Come in una partita di scacchi, la polizia penitenziaria s’appresta a utilizzare i droni per monitorare il perimetro dei penitenziari, dopo che negli ultimi tempi proprio questi apparecchi sono diventati un nuovo strumento per provare a violare la sicurezza degli istituti. Una sorta di “controffensiva” che porterà a istituire, all’interno degli organigrammi della polizia penitenziaria, anche la specializzazione di “operatore di aeromobili a pilotaggio remoto”. Cioè i droni, appunto: la svolta è messa nero su bianco nella bozza di un decreto del ministero della Giustizia condiviso nei giorni scorsi con i sindacati di categoria per un primo confronto, in attesa dei successivi passi formali. Alla base di questa novità, come scorre nella premessa del documento consultato da Avvenire, c’è la “necessità di favorire l’efficientamento e l’ottimizzazione dei processi amministrativi e organizzativi del Corpo di polizia penitenziaria, nonché l’innalzamento dei livelli di sicurezza all’interno degli istituti penitenziari anche in chiave di contrasto al fenomeno dell’introduzione illecita di sostanze stupefacenti e psicotrope o di oggetti non consentiti mediante l’utilizzo di aeromobili a pilotaggio remoto da parte della criminalità organizzata”. La tecnologia è ormai una frontiera costantemente esplorata per far breccia nelle carceri, negli ultimi mesi sono stati sventati più tentativi di introdurre materiali illeciti oltre le mura cinta proprio attraverso l’uso di droni. L’elenco dei precedenti s’è fatto corposo: il 5 febbraio due agenti fuori servizio hanno intercettato un apparecchio sopra la casa circondariale di Terni, a fine gennaio un drone con droga e cellulari è caduto in un’area esterna del carcere di Messina, a inizio anno un drone era stato intercettato nei pressi di Poggioreale, a dicembre era accaduto a Foggia, a settembre a Lecce, ad aprile a Bergamo. Tema di attualità anche alla luce di recenti inchieste che hanno evidenziato una certa permeabilità degli istituti. Così, il ministero della Giustizia accelera sulle contromisure: già a luglio 2023 il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) aveva sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Enac (l’Ente nazionale per l’aviazione civile) per definire una cornice normativa, ora si punta sulla specializzazione della polizia penitenziaria. La bozza del decreto ministeriale, infatti, disciplina le modalità di accesso a questa nuova mansione, prevedendo sia la figura dell’operatore sia quella dell’istruttore. Gli operatori non saranno impiegati in via esclusiva in questa nuova funzione, ma potranno svolgere anche le mansioni classiche, intervenendo poi con i droni al momento del bisogno, restando però “allenati” attraverso esercitazioni periodiche; oltre ai reparti in servizio nelle case circondariali e di reclusione, i “piloti” di droni potranno essere assegnati anche al Gruppo operativo mobile (che gestisce gli interventi straordinari, ad esempio durante le rivolte) e ad altre specifiche direzioni del ministero della Giustizia. Stando alla bozza del decreto, l’uso dei droni porterebbe “vantaggi in termini di sicurezza, di efficienza operativa e di riduzione dei costi”. Inoltre, “su richiesta del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità”, questo personale “potrà essere impiegato anche presso le strutture penitenziarie per i minori”. Il “borsino” di cellulari e sim introdotti illegalmente nelle carceri di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2025 Nel 2024 sequestrati 2.252 telefoni nelle celle: 6 al giorno. I prezzi di acquisto spaziano da 150 a 2mila euro. Mercato dei criptofonini alle stelle. Da una decina di anni, accade di tutto nelle carceri italiane. Persino che i boss possano videochiamare dalla cella per godersi una lezione impartita ad un rivale, gustarsi la festa di compleanno di un familiare, fare acquisti online o impartire - caso frequentissimo - ordini con i quali continuare a governare ciò che accade fuori. Pur stando dentro, magari in una cella di massima sicurezza o, perché no, in regime di carcere duro. Così, mentre il “pasticcio” sulla schermatura degli istituti penitenziari continua, basta dare un’occhiata ai recentissimi numeri snocciolati dal direttore generale Detenuti e trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Ernesto Napolillo, per capire la gravità della situazione. Le linee guida - Napolillo - con alcune linee guida spedite nei primi giorni di febbraio 2025 ai provveditorati regionali e alle direzioni degli istituti penitenziari, che il Sole 24 Ore ha potuto leggere - ha fotografato l’invasione dei cellulari nelle celle. Tra l’altro, dal 22 ottobre 2020 è un reato introdurre o detenere telefoni cellulari o dispositivi mobili in carcere, con una pena prevista da 1 a 4 anni di reclusione. Non può essere certo questa minaccia a scoraggiare boss e detenuti di alta sicurezza. Al massimo qualche autore di reato minore. Nel 2022 sono stati rinvenuti 1.084 telefoni e sim card, diventati 1.595 nel 2023 e 2.252 nel 2024. In pratica, lo scorso anno, sono stati scovato oltre sei cellulari (o sim card) al giorno. Nel giro di due anni l’incremento è stato del 107,74%. Se ne sono stati scovati 2.252 lo scorso anno, bisogna verosimilmente moltiplicare almeno per 3 la cifra dei cellulari e delle sim card che giravano tra celle, corridoi, spazi comuni interni al perimetro carcerario. Questo fenomeno, scrive Napolillo, “desta enorme preoccupazione”. E non si vede come potrebbe essere diversamente. Non da oggi, però. Da almeno un decennio nel corso del quale il letargo della politica - che tra l’altro sceglie direttamente o indirettamente anche i vertici della classe dirigente amministrativa che si avvicendano con un sistema di spoil system la cui efficienza è sotto gli occhi di tutti - ha consentito alla criminalità organizzata di spadroneggiare negli istituti penitenziari. Affari a gonfie vele - All’interno degli istituti impazza un florido commercio di telefoni e sim card, che arricchisce i più forti e lo stesso Napolillo scrive che c’è “un gigantesco business illecito, che costituisce all’evidenza fonte di indebito arricchimento e appare parimenti atto a creare indebiti rapporti di gerarchia e di primazia tra reclusi, che la Direzione devono assolutamente contrastare”. Tariffe e mercato nero - Circa quattro anni fa nella casa circondariale di Catanzaro si pagavano da 150 a 300 euro per un telefono e le sim card viaggiavano intorno ai 40 euro. I cinque cellulari sequestrati nel 2021 al fratello di un boss, se fossero entrati nel carcere di Bologna utilizzando un drone, avrebbero fruttato circa 6.400 euro. Ogni microtelefono poteva essere venduto anche 800 euro e i due iPhone 5, ad almeno duemila euro. Vasto raggio - Il 19 marzo 2024, due distinte indagini della Procura di Napoli ha fatto luce sulla distribuzione di droga e telefoni in ben 19 carceri: Frosinone, Napoli - Secondigliano, Cosenza, Siracusa, Lanciano, Augusta, Catania, Terni, Rovigo, Caltanissetta, Roma-Rebibbia, Avellino, Trapani, Benevento, Melfi, Asti, Saluzzo, Viterbo e Sulmona) e sull’utilizzo di telefoni da parte di alcuni detenuti. I rifornimenti avvenivano con droni gestiti da una sorta di service che aveva tariffe precise al centesimo: mille euro per consegnare uno smartphone, 250 euro per un telefonino abilitato alle sole chiamate vocali (oltre a settemila euro per mezzo chilogrammo di droga). L’audizione di Gratteri - In altre parole, i costi salgono o scendono a seconda degli istituti, di chi chiede, di chi vende e di cosa si può offrire dall’una e dall’altra parte in una serie di servizi allargati ben oltre i confini delle mura carcerarie. Il 15 gennaio 2025 il capo della Procura di Napoli, Nicola Gratteri, ha svolto un’audizione in Commissione parlamentare antimafia nel corso della quale è tornato sul tema più delicato delle comunicazioni nelle carceri: i criptofonini, vale a dire telefoni cellulari tecnologicamente avanzati, dotati di un sistema di cifratura del segnale e di protezione dell’accesso. Gratteri ha anche spiegato chi e a quale prezzo mette a disposizione la sua tecnologia per intercettare le conversazioni che avvengono con i criptofonini. I criptofonini - “Sì, i criptofonini ci sono - ha affermato Gratteri - e costano 3.500 euro. Sono telefoni dedicati che funzionano come citofoni. Io posso parlare con Bogotà, Caracas, Cartagena con questi telefoni. Durano sei-otto mesi, poi bisogna cambiarli. Si figuri se un narcotrafficante non ha un telefono dedicato. Questa tecnologia costa cinque milioni di euro. È una tecnologia che hanno soprattutto gli israeliani, che vendono gli israeliani, perché da questo punto di vista sono molto avanti rispetto al resto del mondo, che vendono anche ad aziende e agenzie private, anche ad agenzie di servizi segreti nel mondo, anche nel mondo occidentale. È una decisione politica comprare o meno questi sistemi di intercettazione, è una scelta”. Appunto. È sempre questione di scelte politiche. Incontro col governo, resistenze nell’Anm. Margini ristretti di trattativa sulla riforma di Anna Maria Greco Il Giornale, 16 febbraio 2025 Lo sciopero è confermato. L’ipotesi di correttivi minori. Il 5 marzo ci sarà l’incontro tra la premier Giorgia Meloni e i vertici della nuova Anm chiesto dal presidente Cesare Parodi (di Magistratura indipendente) subito dopo la sua elezione, suscitando qualche malumore nelle correnti di sinistra che partecipano alla giunta, malgrado la conferma dello sciopero del 27 febbraio. Se il tono di Parodi è stato molto dialogante, anche di fronte alla quasi immediata risposta di Palazzo Chigi, quello degli altri esponenti della nuova giunta lo è un po’ meno. Non tanto quello del vicepresidente Marcello De Chiara (Unità per la costituzione), che ha detto di considerare l’incontro “positivo”, malgrado la convinzione che la riforma vada cambiata, ma soprattutto quello del segretario Rocco Maruotti (della progressista Area), che ha espresso “forti perplessità sull’utilità dell’incontro”, sottolineando che l’apertura del governo sia venuta “solo pochi minuti dopo l’elezione e del nuovo presidente”. A Palazzo Chigi andranno tutti e tre e lì si vedranno le diverse sfumature di apertura al confronto, insieme alla concreta disponibilità del governo, cioè gli spazi per eventuali modifiche. Potrebbe finire in un dialogo tra sordi ma anche essere utile per svelenire il clima. Certo, da tutt’e due le parti, ci sarà bisogno di qualche concessione, insomma di un dialogo vero. Tre giorni fa, parlando agli avvocati siciliani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha forse indicato la strada. Ha detto che la riforma costituzionale per la separazione delle carriere “non si modifica”, ma più interessante è il secondo passaggio in cui ha spiegato che sarà seguita da una serie di leggi ordinarie per definire aspetti come la riserva delle cosiddette quote rosa e il sistema di sorteggio. Un modo come dire che se il testo rimarrà blindato in parlamento, dopo la prima approvazione alla Camera e negli altri tre passaggi, sarà però possibile in fase di attuazione qualche correzione. È stata anche una risposta al vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, quando ha chiesto che il nostro Paese “dia una risposta alle criticità” rilevate nella riforma dalla Commissione Ue “per evitare di subire censure, come è avvenuto alla Polonia”. È il caso di ricordare che l’organo di autogoverno della magistratura, che dovrebbe sdoppiarsi tra quello per i pm e quello per i giudici, ha dato parere negativo alla riforma l’8 gennaio e l’avvocato numero due del Csm è vicino alla Lega. Sono tre le criticità. Uno: il progetto di riforma riguarda la sola magistratura ordinaria e “i magistrati dovrebbero essere giudicati da giudici tratti a sorteggio a differenza delle altre categorie professionali”. Due: nella riforma c’è un “difetto di coordinamento perché non si prevede il ricorso per Cassazione, ma solo davanti alla medesima Alta Corte sebbene in composizione diversa”, e “non si capisce bene se il ricorso per Cassazione è previsto solo per motivi di legittimità”. Tre: la riforma “non affronta i problemi relativi all’esercizio dell’azione disciplinare del Pg nel nuovo contesto determinato dal parallelo abbandono del principio costituzionale dell’unità della magistratura: ora potrebbe apparire distonica la designazione del Pg per magistrati giudicanti che appartengono” a carriere diverse e separate. Separazione delle carriere: inutile e pericolosa di Gioacchino Scaduto Il Manifesto, 16 febbraio 2025 Non ho mai avvertito il tema della separazione delle carriere come una bestemmia. Al contrario, negli anni 90, quando era stato da poco adottato il nuovo codice di procedura penale che aveva abolito la figura del giudice istruttore ed aveva disegnato in modo del tutto nuovo la funzione del pubblico ministero e introdotto la figura del giudice per le indagini preliminari e quando, soprattutto, si viveva un periodo emergenziale, segnato da omicidi e stragi mafiose nel quale era sentito come dominante l’obiettivo della sicurezza anche a discapito dei valori della giurisdizione, sono stato tendenzialmente favorevole. Ma oggi che le emergenze sono ben altre, dovendo decidere da che parte stare, aspetto ancora che qualcuno mi spieghi qual è l’urgenza di questa riforma costituzionale e quali ne sono i benefici per la collettività posto che quelli fin qui tanto sbandierati dai proponenti e dai loro sostenitori rispondono soltanto ad esigenze di propaganda e sono privi di ogni serio contenuto. Si tratta della asserita necessità di rafforzamento della “terzietà” del giudice, smentita dai dati incontrovertibili ricavabili dal numero di sentenze assolutorie, di archiviazioni, di rigetti di richieste di misura cautelare e persino di ordinanze che le mantengono contro l’opinione del pubblico ministero. Si tratta, ancora, dell’asserita esigenza di garantire un percorso professionale e un contesto organizzativo differenziati, che in realtà sono già egregiamente garantiti dalla legge che ha drasticamente ridotto la possibilità di un passaggio da una funzione all’altra e che, di fatto, ha già introdotto la separazione delle funzioni. Si tratta, infine, dell’argomento comparativo secondo cui in Europa il pubblico ministero è, quasi ovunque, separato dal giudice; argomento ad un tempo irrilevante, attesa la legittimità di tradizioni ed organizzazioni sociali differenti ed incompleto perché non si dice che in tutti i casi citati il pubblico ministero separato da giudice è, ove più ove meno, subordinato al potere esecutivo. La ragione dell’urgente riforma va necessariamente cercata e trovata, allora, nel non detto e cioè nella volontà di indebolire l’ordine giudiziario, ancora oggi in grado di porre, in attuazione della Costituzione, un serio limite all’esercizio del potere. Che questa sia la vera ragione del progetto riformatore che, peraltro, non ha alcuna benefica ricaduta sull’efficienza del sistema, carente per altre ragioni - personale, mezzi materiali, procedure - lo dimostrano non solo le infelici battute del ministro Nordio, secondo cui i pubblici ministeri sarebbero “superpoliziotti senza controllo”, artefici di “clonazioni di fascicoli” e di “indagini occulte ed eterne” ma i contenuti della riforma che, in particolare, prevede lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura - uno per i giudici ed uno per i pubblici ministeri - e la modifica del suo sistema elettorale. Oggi, i componenti togati dell’organo di autogoverno sono scelti ed eletti liberamente con il voto da giudici e pubblici ministeri, i quali riconoscono negli eletti una effettiva capacità di rappresentanza. La riforma Nordio prevede, invece, che i componenti togati siano “eletti per sorteggio”. Ora, non sarebbe il caso di dilungarsi sull’assurdità di una simile proposta, quasi un ossimoro, “eletti per sorteggio”, se non rivelasse e fosse funzionale, unitamente alla divisione dell’organo di autogoverno, al raggiungimento del vero obiettivo della riforma: l’indebolimento, quando non l’asservimento, come nel caso del pubblico ministero, del potere giudiziario che in atto, unitamente ad altri, costituisce quel sistema di pesi e contrappesi posto, non a caso, dai costituenti a fondamento del nostro stato democratico e che oggi, in tempi di assalto alla democrazia, va ad ogni costo difeso. “Ci farebbero comodo due magistrati morti”. Davvero il capo dell’Anm ha detto questa follia? di Davide Vari Il Dubbio, 16 febbraio 2025 “Quanto ci farebbero comodo due magistrati morti”. Una frase così non si scrive, non si dice, non si pensa. E invece l’avrebbe detta - ma noi speriamo ancora che non sia vero - il presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo La Stampa - che l’ha pubblicata con molta “discrezione” - l’avrebbe pronunciata a Torino, durante un’iniziativa che, forse, credeva fosse tra pochi intimi. E siccome nessuno ha ancora smentito - e nel tempo che passa senza smentite il fango si addensa, si compatta, diventa solido - siamo costretti a prendere sul serio questa frase. E siamo assaliti da un conato di vergogna. Ripetiamolo, perché non ci si crede: il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi avrebbe detto che alla magistratura, oggi, servirebbero due morti. Due toghe cadute, magari sotto i colpi del crimine, sotto il piombo dei mafiosi, sotto l’esplosivo di qualche reduce della lotta armata. Un sacrificio umano per ricompattare un corpo che si è scoperto malato, affamato di potere, come ci ha raccontato Palamara nel Sistema. Avremmo bisogno di due morti, avrebbe detto il presidente dell’Anm (ripetiamolo ancora). E lo avrebbe detto nel paese di Falcone, Borsellino, Terranova, Livatino, Chinnici, Scopelliti; nel Paese del sangue versato da uomini dello Stato assassinati perché indossavano quella toga. La stessa che indossa il presidente Parodi. E se fosse vero - e noi speriamo ancora di no - Parodi dovrebbe fare solo una cosa: chiedere scusa e dimettersi. Ma non accadrà. Perché in Italia le cose non si dicono, si lasciano evaporare nell’aria, si dissolvono nel brusio delle smentite che non smentiscono, delle spiegazioni che non spiegano. E così il corpo della magistratura, avvitato su se stesso, continuerà il suo lento processo di autodistruzione. Cos’è l’interdittiva antimafia: un sistema incontrollabile di Vito Pacca L’Unità, 16 febbraio 2025 Ci si trova spesso di fronte a un netto squilibrio tra la realtà oggettiva e le probabilità logiche. Il caso di una piccola impresa di Avellino. L’interdittiva antimafia vede le sue origini con il decreto legislativo n. 159 del 2011 che ha dato vita al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione introducendo nel nostro ordinamento giuridico il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, notoriamente conosciuto come articolo 416 bis. Il provvedimento di interdittiva antimafia, che per sua natura viene collocato nell’ambito dei provvedimenti di carattere amministrativo emanati dal Prefetto, tende a eliminare o limitare la capacità giuridica delle società in probabile odore di mafia. Il termine “probabile” è doverosamente riportato in quanto uno dei pilastri su cui fonda le sue radici questo provvedimento è proprio il principio del “più probabile che non” che, in ambito civilistico, il giudice applica riconoscendo semplicemente “che il fatto sia avvenuto con una ragionevole probabilità logica”, in barba al principio “iuxta alligata et probata” in base al quale, invece, il giudice deve giudicare solo secondo le prove raggiunte e i documenti allegati. Fatta questa breve ma necessaria e doverosa premessa, passiamo al fatto. In data 16 dicembre 2024, la Prefettura di Avellino trasmette via PEC un “Preavviso di diniego iscrizione-permanenza in white list/Informazione antimafia interdittiva” a una piccola impresa operante nell’ambito dei lavori edili stradali, di cui ne seguo le sorti. Il preavviso evidenziava, in primo luogo, la “cointeressenza” della piccola realtà irpina con una società già oggetto di provvedimento di interdittiva antimafia e in attesa di pronuncia da parte del TAR di Salerno. In secondo luogo, “l’assunzione” di un operaio che, cinque mesi dopo il licenziamento veniva condannato per reati associativi di natura mafiosa. La cointeressenza, rappresentata nel preavviso di diniego, prendeva spunto da un passaggio di documenti tra la società colpita dal provvedimento di interdittiva e una terza impresa, committente dei lavori. A conti fatti, la piccola impresa, mia assistita, aveva semplicemente assunto ruolo di tramite, dunque, un ruolo del tutto marginale. Tra l’altro, i rapporti in essere tra la piccola impresa e la società interdetta erano limitati a uno spazio temporale ben preciso e assolutamente ridotto rispetto a quello che potrebbe configurarsi un continuo legame commerciale e imprenditoriale facendo escludere, quindi, l’individuazione di un elemento di stabile compartecipazione. L’assunzione dell’operaio condannato per reati associativi di natura mafiosa (anche in questo caso si parla di brevissimi periodi di tempo ovvero limitati alla fattuale necessità per mancanza di manodopera) ha determinato l’emissione del preavviso nonostante lo stesso sia stato licenziato, per incomprensioni con la proprietà, come dicevamo, ben cinque mesi prima della sua condanna. La presenza del soggetto in questione è stata considerata, evidentemente, quale elemento determinante ai fini dell’emissione del preavviso, disconoscendo, di converso, la mera collaborazione temporanea quale realtà oggettiva. Tanto è bastato all’Autorità competente per decidere di emettere un “Preavviso di diniego iscrizione-permanenza in white list”. Senza essere sentenzioso, è chiaro che, alla luce di quanto riportato, l’intero istituto va assolutamente modificato, corretto, migliorato e contestualizzato tenendo conto degli aspetti che, inevitabilmente, contraddistinguono, vuoi per fatti vuoi per vicende, le varie realtà imprenditoriali. Le innovazioni portate dal Disegno di legge 152/2021, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose, convertito, con modificazioni, nella legge n.233/2021, non hanno provveduto, a mio modesto avviso, a somministrare nuova linfa alla delicata materia. Sarebbe stato necessario approvare uno speciale e specifico emendamento atto a modificare e migliorare alcuni aspetti del provvedimento di interdittiva antimafia, allo stato delle cose, tanto invasivo quanto dirompente, a tratti addirittura incontrollabile. Dopo le questioni sollevate, a partire dal caso dei fratelli Cavallotti, in materia di sequestri e confische di prevenzione, la CEDU di recente ha esaminato con particolare attenzione anche le interdittive antimafia focalizzando l’interesse sulla valutazione dei presupposti applicativi dei provvedimenti prefettizi. Non di rado ci si è trovati di fronte a un netto squilibrio tra la realtà oggettiva e le probabilità logiche. I giudici della Corte Europea hanno posto finalmente al governo italiano specifici quesiti sull’effettivo carattere delle misure interdittive e sulla rispondenza del procedimento prefettizio ai canoni del giusto processo. *Avvocato Foro di Benevento Se immunità è sinonimo d’impunità di Paolo Biondani L’Espresso, 16 febbraio 2025 I partiti di governo vogliono ripristinare l’autorizzazione a procedere totale per i parlamentari. Intanto si abusa dell’insindacabilità per le opinioni, intesa spesso come licenza di diffamare. Sognano l’immunità totale: il potere di bloccare la giustizia con un voto politico della loro maggioranza parlamentare. E intanto abusano delle immunità che hanno già, a cominciare dall’”insindacabilità”: una tutela democratica della libertà di opinione che e? degenerata in licenza arbitraria di screditare e diffamare persone innocenti. In queste settimane due partiti di governo, Forza Italia e Lega, con alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, hanno rilanciato la vecchia proposta di ripristinare l’autorizzazione a procedere, cioe? il divieto di sottoporre a procedimento penale un parlamentare senza il permesso dei suoi colleghi della Camera o del Senato. E? un privilegio da casta politica che fu abolito nel 1993 dal Parlamento stesso, a larghissima maggioranza, quando le indagini milanesi di “Mani pulite” svelarono il massiccio sistema di corruzione che per decenni aveva dominato e danneggiato l’Italia (documentato da oltre 1.200 condanne oggi dimenticate). Nell’articolo 68 della Costituzione e?, invece, sopravvissuta la norma che protegge la libertà di pensiero applicata alla politica: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni date e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni”. Giuristi come Gustavo Zagrebelsky e Andrea Pisaneschi hanno rintracciato l’origine di questa immunità in una risoluzione della Camera inglese del 1667, poi recepita nel Bill of Rights: “Se una legge non puo? far torto a nessuno, egualmente deve dirsi di chi l’abbia all’inizio proposta. I membri della Camera devono essere liberi esattamente come la Camera”. Inserita nella Costituzione italiana, nata dalla Liberazione dal nazifascismo, all’inizio l’insindacabilità veniva invocata soprattutto per difendere parlamentari dell’opposizione di sinistra, impegnati a denunciare in sede politica presunte corruzioni, connivenze mafiose, omicidi di sindacalisti, stragi di contadini. Nel passaggio alla cosiddetta Seconda Repubblica, pero?, l’insindacabilità e? diventata una specie di scudo stellare, utilizzato principalmente da parlamentari di centrodestra, per fermare qualsiasi processo per diffamazione e perfino per reati piu? gravi. “I casi di insindacabilità sono cresciuti per numero, frequenza e campi di applicazione a partire dagli anni Novanta”, spiega l’avvocato e giurista milanese Carlo Melzi d’Eril, esperto di Diritto dell’informazione. “L’estensione eccessiva di questa prerogativa, che rischia di lasciare senza alcuna tutela legale le vittime di attacchi denigratori anche gravissimi, ha determinato una serie di interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha fissato dei limiti generali. La nostra Corte costituzionale ha poi applicato e precisato questi princi?pi risolvendo decine di conflitti tra magistratura e classe politica”. Tra i casi conclamati di abuso dell’immunità spicca la delibera con cui il Senato, nel 2015, ha affermato che “rientra nelle funzioni parlamentari” dichiarare in un comizio che una ministra con la pelle nera ha “sembianze di orango”. E? un insulto razzista proferito nel 2013, a una festa della Lega nella Bergamasca, da Roberto Calderoli, allora vicepresidente del Senato, per screditare Ce?cile Kyenge, ministra per l’Integrazione di origini congolesi, cittadina italiana dal 1994, laureata in Medicina alla Cattolica, eletta deputata nel 2013 con centomila preferenze ed europarlamentare dal 2014 al 2019. Nel 2016 il Tribunale di Bergamo fa intervenire la Corte costituzionale, che annulla la delibera del Senato: l’insindacabilità “non può essere estesa sino a ricomprendere gli insulti”. Quindi il processo riprende, ma alla fine vince comunque Calderoli. L’ex ministro leghista viene condannato in primo e secondo grado, ma nel 2023 la Cassazione ordina di rifare l’appello per un vizio procedurale: il mancato rinvio di un’udienza per malattia. Calderoli viene ricondannato, ma nel 2024 la Cassazione, pur riconfermando la “diffamazione con l’aggravante del razzismo”, deve dichiarare la prescrizione del reato. Negli ultimi trent’anni la Consulta ha dovuto risolvere decine di conflitti. Numerose pronunce riguardano alcuni politici, accusati di molte diffamazioni. Il primo e? Vittorio Sgarbi che già dagli anni Novanta colleziona querele e cause civili per i suoi attacchi televisivi ai pubblici ministeri del pool Anticorruzione di Milano e dell’Antimafia di Palermo. I suoi processi fanno giurisprudenza: la Corte costituzionale stabilisce per la prima volta che anche un parlamentare, se sparla di “magistrati assassini”, va processato per diffamazione. Un altro recordman e? stato il compianto Lino Jannuzzi, l’ex giornalista che, dopo l’elezione in Parlamento con Forza Italia, scateno? campagne denigratorie contro il procuratore Gian Carlo Caselli e altri magistrati: condannato piu? volte dopo la revoca dell’insindacabilità, ha poi beneficiato della grazia. Diverse pronunce, con esiti alterni, riguardano Silvio Berlusconi. Ad esempio nel 2010, quando era capo del governo, la sua maggioranza ha dichiarato “insindacabile” un suo attacco (uno dei tanti) ad Antonio Di Pietro: Berlusconi insinuava che l’ex magistrato si sarebbe “laureato senza studiare, grazie ai Servizi segreti”. La Corte costituzionale nel 2013 ha tolto l’immunità al Cavaliere, sottolineando che l’accusa era falsa, per cui rappresenta “solo un’offesa” senza dignità politica. In altri casi, invece, Berlusconi ha visto confermare l’immunità. La Consulta e? intervenuta piu? volte anche a sfavore di Maurizio Gasparri, che si e? visto annullare svariate immunità politiche, tornando sotto processo con l’accusa di avere diffamato plotoni di giudici e perfino giornalisti. Uno dei casi piu? assurdi riguarda Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano, eletto nel 2013 senatore di Forza Italia. Nel 2014 il Senato ha dichiarato “insindacabile” un suo attacco del 2012, totalmente infondato, contro l’allora magistrato milanese Alfredo Robledo, che l’ha contro-denunciato. Dopo un lungo iter, nel 2021 la Corte costituzionale ha annullato quell’alibi politico retroattivo: non si puo? avere l’immunità ancor prima di diventare parlamentare. Memorabile anche il caso dell’ex ministro Carlo Giovanardi. Nel processo “Aemilia” contro la ‘ndrangheta, viene intercettata una sua manovra per cancellare le interdittive antimafia che hanno colpito due aziende emiliane. Giovanardi viene quindi accusato di avere minacciato il prefetto di Modena, prospettandogli trasferimenti punitivi, e utilizzato atti segreti. Nel 2022 il Senato a maggioranza gli concede l’insindacabilità. Ma il tribunale ricorre alla Corte costituzionale, che nel dicembre 2023 la annulla: le minacce e le violazioni del segreto istruttorio “non sono riconducibili alla nozione di opinione”. A forza di pronunce costituzionali, la situazione legale ora e? più chiara. “La Corte europea ha fissato un limite generale”, riassume Melzi d’Eril: “L’insindacabilità e? piena per votazioni, interrogazioni e altri atti parlamentari tipici. Fuori dal Parlamento, va riconosciuta solo in via eccezionale: un comizio elettorale o un discorso televisivo, ad esempio, devono avere un contenuto che corrisponda a specifici atti parlamentari. Ma il rischio di abusi chiaramente c’e? ancora: non si può escludere che un atto parlamentare possa essere precostituito per creare una sorta di alibi”. Toscana. Due suicidi in carcere in 24 ore. Il Garante: “Manca una prospettiva di reinserimento” di Ilaria Solaini Avvenire, 16 febbraio 2025 La denuncia di strutture fatiscenti, sovraffollate e che non permettono percorsi rieducativi. L’arcivescovo di Firenze: l’anno giubilare ci interroghi, servono azioni concrete. A distanza di poche ore un giovane detenuto, di circa 20 anni, di origine nordafricana nel carcere di Prato e un’altra persona reclusa di trent’anni circa, di nazionalità rumena nella Casa Circondariale di Sollicciano a Firenze hanno preso la terribile quanto irreversibile decisione di togliersi la vita. Il Garante regionale della Toscana, Giuseppe Fanfani di fronte agli 11 suicidi nelle carceri italiane già registrati in queste primissime settimane del 2025, ha sottolineato, ancora una volta, che “ormai le parole non bastano più. Non basta indignarsi, esprimere cordoglio, vicinanza, organizzare visite per toccare con mano la drammatica situazione di carceri fatiscenti, dove tutto sembra possibile tranne riabilitazione e una vita dignitosa. Se questo stillicidio non viene interrotto, saremo tutti complici”. Secondo le prime ricostruzioni fornite dalla polizia penitenziaria, il ragazzo poco che vent’enne avrebbe inalato il gas dalla bomboletta da campeggio comunemente in uso per preparare cibi e vivande; mentre l’altra persona si è impiccata nel bagno della sua cella al reparto giudiziario. Sulla struttura fiorentina al confine con la cittadina di Scandicci il Garante si è espresso più volte: “Deve essere abbattuta e dismessa. Non risponde ad alcuno dei requisiti e delle finalità previste dalla Costituzione”, ma pure l’istituto di Prato con al suo interno oltre 630 detenuti, nonostante la capienza stimata sia di 480, “sostanzialmente si trova nelle stesse condizioni di Sollicciano”. Inoltre, entrambe le strutture di detenzione si trovano “senza un direttore titolare e soffrono di una gravissima carenza di organico nei ruoli apicali della polizia penitenziaria” ha aggiunto Donato Nolé, coordinatore nazionale del sindacato Fp Cgil. Nelle strutture di reclusione i suicidi, che erano stati 89 nel 2024, il numero più alto di sempre, a cui si aggiungono i 7 agenti penitenziari che si sono tolti la vita lo scorso anno, rappresentano un fenomeno che rende chiaro e manifesto il livello di degrado inaccettabile a cui è arrivato il sistema penitenziario in Italia per chi è detenuto e dovrebbe trovare una strada per riabilitarsi, ma anche per chi ci lavora: “Non ci si suicida per caso - ha ribadito il Garante Fanfani -. Si sceglie di morire a trenta anni quando si è sopraffatti dalla disperazione, dalla mancanza di speranza o anche solo di una parola di conforto. In carcere manca tutto, ma manca soprattutto una prospettiva di riabilitazione e di reinserimento. Manca una mano amica che ti accompagni in un percorso riabilitativo. Nessuno in questi lunghi anni lo ha compreso o ha avuto il coraggio di misurarsi con questo impegno e la politica in genere ha dimostrato di non essere né disponibile né preparata”. Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, servono interventi per deflazionare la densità detentiva, poiché ci sono 16mila reclusi in più rispetto ai posti disponibili. Ma non è tutto: vanno potenziati “gli organici della Polizia penitenziaria” mancano 18mila agenti e altre figure professionali. E ancora, secondo De Fazio “vanno ammodernate le strutture, le infrastrutture e gli equipaggiamenti e assicurata l’assistenza sanitaria”. Un appello accorato è arrivato anche dall’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli che conosce molto bene la struttura di Sollicciano, essendo stato cappellano nella casa circondariale fiorentina per oltre un anno: non ha chiesto solo “una parola forte perché la società si renda conto di quello che sta succedendo”, ma anche che “le parole siano accompagnate da gesti concreti perché queste cose non si ripetano più”. “Ci vuole davvero grande un’attenzione altrimenti le carceri diventano discariche sociali - ha aggiunto il presule -. Purtroppo lo sono già. Questo, soprattutto nell’anno giubilare deve interrogarci”. Va ricordato che il Papa ha scelto nell’anno giubilare di aprire la seconda Porta santa nel carcere di Rebibbia e prima ancora con la bolla “Spes non confundit” aveva chiesto ai governi di concedere ai detenuti il condono delle pene. “Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza”. Veneto. “Liberiamo le produzioni”, boom di imprese nei penitenziari di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 16 febbraio 2025 L’impresa chiama, le carceri rispondono. Succede nei 9 penitenziari del Veneto, dove c’è una presenza consolidata di aziende con le loro lavorazioni. Un microcosmo fatto di molte cooperative e imprese sociali del territorio, presentato, dati e informazioni alla mano, in “Liberiamo le produzioni”, catalogo promosso dal Provveditorato regionale, Regione e Unioncamere. Come tutte le strategie win-win, l’incontro imprese-carcere funziona e dà i suoi frutti. Non si tratta “solo” di garantire prospettive di vita e di reinserimento alle persone detenute. Lavanderie, sartorie, legatorie, laboratori cosmetici, orti. Nelle carceri venete si diversifica. E diversi sono i vantaggi per le aziende: sgravi fiscali e contributivi, abbattimento dei costi di produzione - grazie alle convenzioni tra le direzioni e le imprese per la gestione degli spazi in comodato d’uso. Sono pari a zero i tassi di assenteismo, perché i detenuti-lavoratori sono e si sentono attivamente coinvolti. Le attività sono diverse, ma il comune denominatore è l’utilizzo degli spazi all’interno dei penitenziari, sottratti al tempo vuoto della detenzione e all’antiquata logica del carcere come luogo di frustrazione e attesa. E poi, i detenuti al centro delle produzioni, adeguatamente formati e affiancati da personale specializzato. Si parte dal carcere femminile della Giudecca di Venezia. Dentro troviamo una lavanderia industriale con 12 detenute-operaie, che ha come committenti alcune strutture ricettive del centro storico. E poi, una sartoria dove lavorano 5 donne, le cui lavorazioni sono destinate, tra gli altri, ad hotel come l’Hilton e il Danieli. Ma ancora, un orto di 6.000 metri quadri in cui le detenute producono frutta e verdura destinate alla vendita al mercato. Infine, un laboratorio di cosmetica, i cui prodotti sono destinati alla vendita online e in negozio, ma anche per la fornitura di alberghi. Sia nell’istituto maschile di Santa Maria Maggiore che in quello femminile della Giudecca sono attivi laboratori di pvc riciclato e di serigrafia. Dai 3 ai 5 detenuti, in base ai periodi di produzione, creano borse, zaini e altri accessori del marchio “Malefatte”, destinati all’e-commerce e alla vendita in negozio. Ci spostiamo nel carcere veronese di Montorio, dove c’è una sartoria dedicata agli accessori che ha come committenti, tra gli altri, il gruppo Oniverse (Calzedonia, Tezenis, Intimissimi e Falconeri), ma anche Ikea e Bauli. Sono 17 i detenuti impiegati, 10 donne e 7 uomini. A Belluno è presente una lavorazione per l’assemblaggio nel settore occhialeria, e all’anno ci lavorano 38 detenuti. A Padova c’è un laboratorio di gastronomia che serve mense universitarie, ristoranti, bar: occupa tra i 20 e i 25 ristretti l’anno per la formazione o il tirocinio, e tra gli 8 e i 12 con contratto di lavoro dipendente. Ma ancora, il Due Palazzi ospita lavorazioni di assemblaggio e confezionamento, legatoria e cartotecnica. Vi sono impiegati tra i 20 e i 25 detenuti, che gestiscono attivamente anche la biblioteca dell’istituto. 40 i ristretti che lavorano nel contact center per prenotare visite mediche all’Ulss Euganea di Padova. Assemblaggio, verniciatura e regolazione di chitarre e bassi elettrici sono la specialità di un laboratorio nel carcere di Treviso. Si lavora su committenza privata, ma i prodotti vengono venduti anche in negozio. Firenze. Ancora morte a Sollicciano. Secondo suicidio dell’anno: “Le parole non bastano più” di Lucia Bigozzi La Nazione, 16 febbraio 2025 Un detenuto di 38 anni trovato senza vita ieri mattina nella sua cella. Dal Garante ai sindacati: “Adesso servono subito interventi concreti”. Un’altra morte in carcere. Ieri mattina alle 5.40 un giovane rumeno di 38 anni si è impiccato nella sua cella a Sollicciano nel reparto giudiziario. È il secondo caso dall’inizio dell’anno, dopo che nei primi giorni del 2025 si era ucciso un venticinquenne egiziano. È il secondo caso in pochissime ore dopo la morte in cella a Prato, dove un detenuto si è ucciso inalando gas da un fornellino. La lunga scia di morte ha riportato d’attualità le terribili condizioni del carcere fiorentino scatenando reazioni a tutto campo, dal garante toscano dei detenuti al vescovo, dai sindacati all’assessore al sociale del Comune. Tutti invocano finalmente azioni concrete, a partire dalla nomina di un direttore stabile, per cercare di risolvere i problemi. “Ormai le parole non bastano più. Non basta indignarsi, esprimere cordoglio, vicinanza, organizzare visite per toccare con mano la drammatica situazione di carceri fatiscenti dove tutto sembra possibile tranne riabilitazione e una vita dignitosa. Se questo stillicidio non viene interrotto, saremo tutti complici - denuncia Giuseppe Fanfani - Questo sistema detentivo genera solo disperazione e morte. Sollicciano deve essere abbattuto e dismesso. Non risponde ad alcuno dei requisiti e delle finalità previste dalla Costituzione”. “Non ci si suicida per caso - commenta ancora Fanfani -. Si sceglie di morire a 30 anni quando si è sopraffatti dalla disperazione, dalla mancanza di speranza. In carcere manca tutto, soprattutto una prospettiva. La politica ha dimostrato di non essere né disponibile né preparata”. Durissimo anche il Sappe toscano con il suo segretario Francesco Oliviero: “Oramai non ci meravigliamo più, considerate le condizioni dei due istituti di Prato e Firenze”. Riguardo a Sollicciano, dove a togliersi la vita è stato un detenuto “appena trasferito da Siena”, Oliviero aggiunge: “È ormai da tempo fuori controllo e ha una struttura che secondo le norme vigenti non può definirsi un istituto penitenziario con finalità di custodia e rieducative. Sono indispensabili da parte del Dap prese di posizioni chiare. Gli agenti sono stremati e non riescono più a sostenere la pressione quotidiana”. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, criticando il governo, sottolinea che “continua, nella sostanziale indifferenza della politica di maggioranza, la strage nelle carceri del Paese dove vige una pena di morte di fatto che colpisce random”. La Fp Cgil polizia penitenziaria, con il suo coordinatore nazionale Donato Nolè, evidenzia invece che le morti sono avvenute entrambe in istituti “senza un direttore titolare e che soffrono di una gravissima carenza di organico nei ruoli apicali della polizia penitenziaria. Questi gesti estremi rappresentano il sintomo di uno stato di abbandono generale del sistema carcerario, con condizioni di vita insostenibili sia per i detenuti che per il personale di polizia penitenziaria. Il personale in servizio è composto in larga parte da agenti giovanissimi, costretti a lavorare in condizioni disumane, analoghe a quelle in cui vivono i detenuti. Cos’altro deve accadere per garantire stabilità? Chiediamo un intervento immediato del ministero della Giustizia e del Dap”. Per l’arcivescovo Gherardo Gambelli “Sollicciano invece di essere un luogo di rieducazione e di aiuto per le persone è davvero un luogo segnato dalla disperazione e dalla tristezza”. Gambelli, già cappellano del carcere, ieri da Arezzo ha voluto esprimere “tutta la sua solidarietà nei confronti dei familiari” del detenuto scomparso e ha chiesto “che la società si renda conto di quello che sta succedendo. Le parole siano accompagnate da gesti concreti. Così le carceri diventano discariche sociali”. Parla di condizioni “disumane” l’assessore al welfare Nicola Paulesu. “È il momento del cordoglio e del dolore - le sue parole - Ma tutto questo è inaccettabile, le condizioni in cui versa il penitenziario sono prive di dignità per i detenuti, per chi lavora e per tutti coloro che vi operano”. L’assessore sottolinea anche che la “mancanza di una direzione stabile, rende ancora più complicata la gestione di una situazione intollerabile. È urgente che arrivi una guida anche per avere un’interlocuzione costante e poter lavorare su progetti di reinserimento”. Infine il Direttivo della Camera Penale di Firenze: “I suicidi in carcere non sono solo una tragedia personale, ma un fallimento collettivo della società e del sistema giustizia, un sistema che ha smarrito il senso di umanità che invece dovrebbe accompagnare il percorso di espiazione della pena. Tutto questo a qualcuno interessa ancora? A noi sì, ma abbiamo il tragico sospetto di essere rimasti in pochi”. Prato. Suicidio in carcere con il gas: “Errore le bombolette nelle celle” di Laura Natoli La Nazione, 16 febbraio 2025 I dirigenti scolastici delle classi in carceri: “Era nostro studente. Necessari investimenti più ampi in politiche educative”. La procura ha disposto l’autopsia sul corpo del detenuto, magrebino di 32 anni, che venerdì pomeriggio si è tolto la vita inalando il gas della bomboletta data in dotazione nelle celle per riscaldare le bevande. Si tratta del sesto suicidio che avviene dell’interno della Dogaia in poco più di un anno. “Non serve a nulla continuare a fare la conta delle cose che non vanno (la mancanza di un direttore e di un comandante, la carenza di organico, il sovraffollamento, le difficoltà strutturali). Quello che dovevamo segnalare, lo abbiamo detto in più occasioni. Quello che manca davvero è la volontà di risolvere i problemi”. Attacca così Paolo Alonge, segretario provinciale del Sinappe (sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria), che spesso è in prima linea insieme ai colleghi per arginare disordini e situazioni complesse all’interno della casa circondariale di Prato. “L’episodio di venerdì ne è la riprova - aggiunge Alonge - Le bombolette di gas all’interno delle celle sono armi spesso usate contro gli agenti in servizio, eppure sono concesse dal Ministero”. Alonge spiega che le bombolette di gas, uguali a quelle usate per il campeggio, sono pericolose in quanto il gas non solo viene inalato come se fosse una droga, ma le bombolette vengono usate per dare fuoco alle celle, attaccare gli agenti o trasformarle in lame rudimentali, simili a coltelli. “Abbiamo spiegato più volte che andrebbero eliminate o sostituite con delle piastre ma nessuno ci ha mai ascoltato. Due anni fa a un mio collega fu lanciato in faccia l’olio bollente. Ripeto il vero problema è il totale disinteresse da parte degli organi istituzionali. Ci si dovrebbe sedere a un tavolo ma a nessuno interessa”. Intanto sul suicidio avvenuto alla Dogaia venerdì, a cui ieri se ne è aggiunto un altro a Sollicciano, intervengono i presidi del Cpia 1 di Prato, del Datini, Dagomari e Buzzi, insieme ai rispettivi dirigenti scolastici Teresa Bifulco, Francesca Zannoni, Claudia Del Pace e Alessandro Marinelli che hanno espresso “sgomento” per la tragica scomparsa del giovane detenuto. “Questa perdita ci colpisce profondamente perché era un nostro studente - scrivono - un giovane che aveva scelto di intraprendere un percorso di istruzione nonostante le difficoltà. La scuola in carcere è un’opportunità di crescita, riscatto e reinserimento sociale, ma da sola non basta: serve un sistema di sostegno più forte e condizioni di vita dignitose per chi è detenuto. Il crescente numero di suicidi in carcere è un segnale drammatico che non può essere ignorato”. I dirigenti ribadiscono “l’impegno per offrire ai detenuti un’istruzione di qualità, un’opportunità di crescita e di cambiamento. Ma è necessario un investimento più ampio in politiche educative, sociali e di supporto psicologico per prevenire il senso di abbandono e disperazione che porta a tragedie come questa. Il carcere non è solo un luogo di pena”. “Due suicidi in 12 ore sono il segno di un sistema penitenziario al collasso - dice invece Marco Biagioni segretario del Pd Prato. Il dramma delle carceri italiane non può più essere ignorato. La Dogaia è priva di un direttore effettivo, mancano educatori e personale sanitario, le condizioni di vita dei detenuti sono inaccettabili, il personale della polizia penitenziaria è sottodimensionato. Chiedo al governo come si possa pensare di aumentare i reati puniti con il carcere quando le nostre strutture non sono nemmeno in grado di gestire la situazione attuale”. Modena. Trovato morto in carcere: “Vogliamo sapere perché” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 16 febbraio 2025 La sorella di Mohamed Doubali, detenuto vittima di un’overdose di farmaci “Stava bene, non aveva motivi per togliersi la vita. Deve emergere la verità”. “Vogliamo conoscere la verità sulla causa della morte perché mio fratello non voleva morire. É entrato in carcere sulle proprie gambe e ne é uscito morto. Noi siamo sprofondati nel baratro”. Sono queste le dichiarazioni intrise di lacrime di Halima Doubali, sorella di Mohamed residente a Cesena. Parliamo del 27enne trovato cadavere in cella lo scorso tre febbraio, pare a seguito di una assunzione smodata di farmaci. Per la sua morte la procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio colposo, che vede l’iscrizione di tre sanitari del penitenziario, tra cui uno psicologo. A quanto pare, infatti, il ragazzo - detenuto per reati quali lesioni e rapina - aveva manifestato problemi psichiatrici ed era in cura. Lunedì’ scorso è stato conferito incarico ai periti per l’esame autoptico in contraddittorio e sono stati nominati anche i periti di parte. L’iscrizione dei medici rappresenta ovviamente un atto dovuto volto a stabilire se siano ravvisabili responsabilità per la morte del giovane e se possa anche configurarsi una mancata vigilanza. “Io e mia sorella siamo qui in Italia da 18 anni - continua Halima. Siamo cittadine italiane. Nostro fratello era arrivato in Italia quattro anni fa e purtroppo si era lasciato trascinare da brutte compagnie. Io e mia sorella siamo andate a trovarlo in carcere a Modena il primo di dicembre e stava bene - rimarca la giovane - e non abbiamo mai sospettato che potesse togliersi la vita. Nostra madre lo aveva sentito al telefono pochi giorni prima della morte e ci aveva detto di averlo sentito bene. Una volta fuori dal carcere, infatti, Mohamed avrebbe voluto raggiungere la mamma in Marocco per poi ricominciare una nuova vita. Era un ragazzo dolce e buono. Solo dopo la sua morte abbiamo scoperto dai giornali che soffrisse di disturbi psichiatrici e che prendesse farmaci per questo motivo. Noi familiari siamo caduti nel dolore più profondo, insopportabile e chiediamo solo che sia fatta luce sulla sua more”. Ad intervenire è anche Tea Federico, legale della famiglia: “Esprimo piena fiducia nell’operato della Procura della Repubblica di Modena che ha tempestivamente avviato le indagini, seppur come atto dovuto, su questa vicenda che ha colpito un giovane di soli 27 anni. Confidiamo che le indagini faranno piena luce su eventuali criticità nell’assistenza sanitaria fornita al giovane Mohamed - rimarca il legale. La ricerca della verità rappresenta non solo un diritto della famiglia, ma un interesse dell’intera collettività, considerando che la tutela della vita nelle strutture penitenziarie è un indicatore fondamentale della civiltà giuridica di un paese. Non si può morire di carcere”. Firenze. Sovraffollato, senza agenti né educatori: l’Ipm Meucci è una polveriera di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 febbraio 2025 Sono 26 i giovani detenuti, la capienza è 17: “Col decreto Caivano è cambiato tutto”. Sono sempre più critiche le condizioni del carcere minorile fiorentino Meucci. Domenica scorsa, dentro una cella dell’istituto penale in via degli Orti Oricellari c’è stato un incendio ed è stata necessaria l’evacuazione della cella. Sono intervenuti i vigili del fuoco e due giovani detenuti sono stati portati in ospedale. Un episodio piccolo che però mette in luce, ancora una volta, le varie problematiche del carcere. Prima fra tutte quella del sovraffollamento: su una capienza regolamentare di 17 detenuti, nell’istituto ci sono 26 ragazzini. Effetto del decreto Caivano, come in altre carceri minorili d’Italia, che si sono riempite da quando la norma del governo Meloni ha inasprito le pene ai danni dei minorenni e facilitato l’applicazione della custodia cautelare degli under 18, alcuni dei quali sono così finiti dietro le sbarre. “Con il decreto Caivano abbiamo assistito da un giorno all’altro al cambiamento radicale della logica carceraria sui minorenni - dice Enrico Vincenzini, responsabile per la Toscana dell’associazione Antigone - Al centro di questo nuovo sistema c’è la punizione penale e di conseguenza la carcerazione, e quindi i numeri dei minori in cella sono aumentati mese dopo mese, tanto che oggi si registra un sovraffollamento che non c’era mai stato in passato e questo non fa che aumentare le tensioni all’interno di questi istituti penali, come abbiamo visto nel caso del Meucci di Firenze”. Ma non sono soltanto i numeri dei detenuti minorenni ad allarmare la situazione del carcere fiorentino Meucci. In modo inversamente proporzionale, mancano gli educatori. “La pianta organica ne dovrebbe prevedere almeno sei o sette operatori sul fronte dell’educazione - aggiunge Vincenzini - mentre nel caso del Meucci ce ne sono complessivamente soltanto cinque”. Poi c’è la questione dello scarso numero di agenti penitenziari: “Dovrebbero essere previsti almeno una quarantina, ne risultano in servizio soltanto diciotto”. I posti negli istituti penali minorili italiani sono 516 e il tasso di affollamento medio è pari al 110%, questo secondo i dati Antigone relativi alla fine dell’anno scorso. Dei 17 istituti presenti sul territorio, ben 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Nei 5 istituti non sovraffollati, si registra comunque una situazione assai precaria, essendo tutti al limite della capienza. Per far fronte al sovraffollamento sono state aggiunte brandine da campeggio e in alcuni casi anche materassi per terra. La presenza negli istituti penali minorile, hanno spiegato da Antigone, oggi è fatta soprattutto di ragazzi e ragazze minorenni che rappresentano il 61% del totale dei reclusi. Un trend invertito rispetto a poco tempo fa, quando ad essere in maggioranza erano i giovani adulti - ragazzi fino a 25 anni che erano entrati nel sistema della giustizia minorile da minorenni. Secondo l’associazione, il decreto legge Caivano ha infatti reso più facile il trasferimento dei ragazzi che hanno compiuto la maggiore età a un carcere per adulti, misura troppo spesso applicata per problemi di sovraffollamento o per gestire situazioni problematiche, ma che va a interrompere un percorso educativo magari risalente e rende ben più difficile la reintegrazione sociale del giovane. Firenze. Ordine Avvocati: “Il carcere è un’istituzione al collasso, vanno garantiti i diritti umani” reportpistoia.com, 16 febbraio 2025 La necessità di garantire i diritti umani anche all’interno degli istituti penitenziari, la lotta contro le condizioni di violenza e degrado nelle carceri, e il fondamentale obiettivo di trasformare la pena in un’occasione di reinserimento sociale. Questi i temi centrali del convegno “Il carcere: una istituzione al collasso” svoltosi ieri a Casa Caciolle, a Firenze. L’evento, promosso dalla Fondazione per la Formazione Forense e dall’Ordine degli Avvocati di Firenze, ha visto il sostegno della Camera Penale e dell’Opera Divina Provvidenza Madonnina del Grappa. Il convegno si è aperto con un intervento del Prof. Luciano Eusebi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, seguito dai contributi dei docenti di diritto penale dell’Università di Firenze, Francesco Palazzo, Giovanni Flora, Fausto Giunta e Roberto Bartoli. Gli esperti hanno sottolineato l’urgenza di superare una visione “carcero-centrica” del diritto penale e la necessità di un cambio di paradigma che ponga al centro, nella fase esecutiva, i diritti dei detenuti, la tutela della dignità umana e l’attuazione dei principi costituzionali. È stata ribadita anche l’urgenza di interventi legislativi per il miglioramento delle condizioni carcerarie. Durante il dialogo con Don Vincenzo Russo, l’Arcivescovo di Firenze Mons. Gherardo Gambelli ha ricordato che in carcere non si trovano solo “colpevoli” ma persone, che fanno parte della nostra comunità. Monsignor Gambelli ha, inoltre, richiamato il messaggio di speranza di Papa Francesco, evidenziando la tragica realtà delle “morti per pena”, fenomeno che continua a segnare drammaticamente il sistema penitenziario. Sotto l’hashtag #SolliccianoDeveChiudere, la sessione pomeridiana del convegno ha dato voce a coloro che vivono e operano all’interno delle carceri. Interventi da parte della magistratura di sorveglianza, dell’avvocatura, delle associazioni che operano in carcere e dell’assessore al sociale del Comune di Firenze, Nicola Paulesu, hanno denunciato condizioni di vita inaccettabili nel carcere di Sollicciano, con un richiamo a interventi urgenti e non più rinviabili. È stato sottolineato che “chiudere Sollicciano” non può essere solo uno slogan, ma una proposta concreta per superare una struttura carceraria che, per la sua fatiscenza, costringe i detenuti a vivere in condizioni disumane e degradanti. La denuncia di ieri si è fatta ancora più drammatica con la notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto a Sollicciano. “Si tratta del secondo suicidio in meno di due mesi, un dato tragico che non può lasciare indifferenti - commenta Sergio Paparo, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Firenze-. I suicidi, infatti, non sono solo numeri, ma storie di persone che hanno vissuto situazioni insostenibili. Il 3 gennaio scorso, un ragazzo egiziano di soli 25 anni si è tolto la vita, e oggi è toccato a un giovane romeno di 39 anni. Le loro vite spezzate rappresentano un monito per tutti noi. Non possiamo più attendere! La condizione di invivibilità della Casa Circondariale di Sollicciano è insostenibile. È il momento di agire per garantire una giustizia che rispetti la dignità umana e promuova il reinserimento sociale dei detenuti”. Ferrara. Nuovo padiglione Arginone, Cucchi (Avs): “Sottrarrà spazi per attività detenuti” estense.com, 16 febbraio 2025 La senatrice di Alleanza Verdi Sinistra Italiana: “Rischio che i lavori di ampliamento siano solo un palliativo all’emergenza e non risolvano il problema del sovraffollamento” I lavori di ampliamento per la costruzione di un nuovo padiglione nel carcere di via Arginone arriveranno in parlamento. A portarceli è la senatrice Ilaria Cucchi di Alleanza Verdi Sinistra Italiana con un’interrogazione ai ministri Carlo Nordio (Giustizia) e Matteo Salvini (Infrastrutture e Trasporti). Per la senatrice, infatti, la realizzazione del nuovo spazio “sottrarrà un’area per l’attività all’aperto” a cui partecipano i detenuti. Una di queste è l’orto, che - spiega Cucchi - “occupa 250 metri quadri di superficie del cortile interno. Il nuovo padiglione ne sottrarrebbe una buona parte riducendo l’attività e il numero di detenuti coinvolti”. Ma non solo, nell’istituto - aggiunge la senatrice di Avs - c’è anche il “laboratorio Raee, attività di lavorazione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, che potrebbe essere ridimensionato per la costruzione del nuovo padiglione”. “L’ex direttore ad interim del carcere aveva provato ad opporsi alla realizzazione del padiglione, ma senza esito” fa sapere Cucchi, che fa notare come “l’ampliamento, che si svilupperà su una superficie di 5.000 metri quadri, aggiungerà solo80 posti in più ai 244 posti regolamentari e non risolverà il sovraffollamento, considerando che attualmente risultano essere detenute 392 persone”. “Come pensano di poter migliorare la qualità di vita dei detenuti se le attività vengono ridotte se non addirittura eliminate” domanda Cucchi che, ai ministri Nordio e Salvini chiede anche se “non ritengano che i lavori di ampliamento dell’istituto penitenziario di Ferrara siano solo un palliativo all’emergenza e non risolvano il problema del sovraffollamento, anche a seguito dei numerosi casi di suicidio verificatisi nell’anno 2024 e quelli che già si sono verificati nel 2025?. Milano. I detenuti di San Vittore scrivono al Papa: “Caro Francesco sei il nostro faro” Corriere della Sera, 16 febbraio 2025 Avrebbero dovuto esibirsi davanti al Papa il 17 febbraio, in occasione del Giubileo degli Artisti. Ecco le lettere che i detenuti del reparto La Nave gli hanno scritto all’indomani del suo ricovero. “Amatissimo Santo Padre...”: comincia così una delle lettere che i detenuti del reparto La Nave di San Vittore hanno indirizzato a papa Francesco. Per settimane si erano preparati con il loro coro e tutto era pronto per la trasferta che - con una grande collaborazione della Polizia penitenziaria, delle direzioni delle carceri e dei provveditorati coinvolti - li avrebbe portati a esibirsi lunedì 17 febbraio davanti al Pontefice, in occasione del Giubileo degli Artisti a Cinecittà. Prima volta di un Papa negli studi ma anche occasione rarissima per un coro di persone detenute. La notizia del suo ricovero e dell’inevitabile annullamento dell’incontro è arrivata a San Vittore proprio al termine di quella che doveva essere la prova generale, nella tarda mattinata di venerdì 14. E loro hanno immediatamente preso carta e penna. “Amatissimo Santo Padre - hanno scritto - siamo sinceramente addolorati dalla notizia del Vostro ricovero in ospedale ma ci rendiamo conto della necessità. Voi non vi risparmiate mai e i continui affaticamenti per starci vicino hanno reso necessario questo stop. Qui a La Nave era tutto pronto, non vedevamo l’ora di incontrarvi per condividere del tempo, generosamente e senza filtri avete voluto renderci partecipi dell’evento preparato in occasione del Giubileo. La vostra salute viene prima di tutto. Vi preghiamo di non essere dispiaciuto e pensate che siete presente nelle nostre preghiere affinché vi rimettiate presto. Quando tornerete di nuovo in forze saremo felici di poter recuperare il nostro incontro, così da rivedere il Papa e il Papà forte che siete: a presto Santità”. Non è stata l’unica lettera. Il coro è solo una delle attività del reparto La Nave, gestito a San Vittore dalla Asst Santi Paolo e Carlo. Le persone detenute che ne fanno parte si chiamano tra loro “marinai”. E alcuni di loro hanno voluto spiegare al Santo Padre di cosa si tratta: “Era stato organizzato tutto nei minimi particolari. Da diverse settimane il coro della Nave, il reparto avanzato del carcere di San Vittore dove sono allocati i detenuti che seguono un percorso riabilitativo per problemi di dipendenza, avrebbe partecipato a Cinecittà al Giubileo degli Artisti per esibirsi al cospetto del nostro carissimo papa Francesco. Purtroppo il Pontefice ha dovuto annullare l’impegno per un ricovero cautelativo imposto dei medici a causa di una grave bronchite. Naturalmente siamo tutti vicini al caro Papa e gli auguriamo con tutto l’amore dal profondo dei nostri cuori di ristabilirsi prontamente, pregando per lui con maggiore e sincera intensità. A presto papa Francesco: sei il nostro faro nella tempesta della nostra esistenza. I tuoi marinai della Nave”. E non è ancora tutto. Perché il coro che si sarebbe esibito davanti al Papa comprendeva, oltre alle persone detenute, anche una formazione ulteriore composta da ex detenuti e pazienti del SerD: tutti con la partecipazione e il coordinamento dei volontari dell’Associazione Amici della Nave OdV, da anni impegnata a sostenere le attività del reparto dentro e fuori dal carcere. La stessa associazione anzi aveva coinvolto nella trasferta anche un gruppo di giovani musicisti del Cpm Music Institute, la scuola di musica di Franco Mussida: a sua volta volontario nelle carceri da moltissimo tempo. Ma è stato proprio uno degli ex detenuti partecipanti a quello che quanti ne fanno parte chiamano tra loro il “coro dei fuori” a voler condividere, all’indomani della notizia del ricovero del Santo Padre, un messaggio personale di incoraggiamento per tutti. “Volevo semplicemente esternare il mio rammarico - ha scritto - per l’evento sfumato. Pregherò per il Santo Padre. Ma credo che sia importante sottolineare l’impegno profuso da tutti noi. Ieri ne ho avuto riprova. Pensando ai compagni detenuti credo che, come avvenuto per me negli anni trascorsi alla Nave, la delusione sia quintuplicata per la mancata uscita. Ma sappiate, amici detenuti della Nave, che nulla pregiudicherà il vostro impegno quotidiano, la vostra voglia di riprendere in mano la vostra vita e di cercare quello spiraglio di luce attraverso le sbarre. Io sto cercando di farcela, e credo anche voi. Un abbraccio da Tiziano. Uno di voi”. Ferrara. Dalla giustizia riparativa alla mediazione dei conflitti, Unife riflette sulla pace ferraratoday.it, 16 febbraio 2025 L’Università di Ferrara sarà la sede della prima Winter School del Dottorato di ricerca di interesse nazionale in studi per la pace. Una cinquantina di giovani dottorande e dottorandi prenderanno parte all’evento, arrivando dai diversi atenei che partecipano al Din, coordinati da La Sapienza di Roma. Oltre una settantina sono le università raccolte nella rete Runipace, con docenti e ospiti dall’Italia e da altri Paesi europei. Si tratta di un momento essenziale della didattica del dottorato, ma anche di una occasione per riflettere insieme sulla mediazione nonviolenta del conflitto umano, sulla sua genesi, sul nesso tra democrazia, imperialismo e guerra, sulle risorse e i limiti del diritto internazionale e delle istituzioni sovranazionali. L’appuntamento è anche sul senso degli studi per la pace, e sul ruolo che l’educazione e la formazione universitaria possono svolgere per favorire una cultura su questo tema. Sarà anche un’opportunità per conoscersi, tra dottorandi e docenti del Din e per coinvolgere, in alcuni eventi mirati, studentesse e studenti di Unife e la comunità ferrarese nel suo complesso, con tante associazioni e segmenti del Terzo settore coinvolti, nella logica della Terza missione. La Winter avrà luogo tra lunedì 17 e venerdì, a palazzo Turchi di Bagno. Si comincerà con l’intervento di Jean-Loup Amselle, già docente all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, nel pomeriggio di lunedì 17, su ‘L’invenzione del Sahel’, su conflitto umano nell’area africana. La conclusione dell’iniziativa è prevista venerdì 21, con l’intervento in remoto di Tomaso Montanari su patrimonio culturale e costruzione della pace. Nel mezzo, panel, conferenze, tavole rotonde sulla giustizia riparativa, sull’educazione alla pace, sulla mediazione dei conflitti internazionali, sul rapporto tra economia, squilibri ambientali e guerra, con un intervento lunedì sera di sindacati confederali e Legacoop al circolo Arci Bolognesi di Ferrara, sui programmi da loro avviati nell’ambito della cooperazione internazionale e nella mediazione dei conflitti. Sicurezza e disuguaglianze, gli immigrati sono il nemico sbagliato di Stefano Fassina Il Domani, 16 febbraio 2025 Se l’unico soggetto in giro sul quale scaricare sofferenza sociale e smarrimento identitario è l’immigrazione, le destre trionferanno. La vera risposta non è soltanto nota, ma arrivata come autodenuncia: “C’è la guerra di classe, noi i ricchi la stiamo vincendo” (Warren Buffet, New York Times, 26/11/06). Il “nemico vero” dei lavoratori e delle classi medie spiaggiate sono dunque gli oligarchi della finanza, dei media, delle multinazionali. Nei giorni scorsi, grande attenzione è stata dedicata alle politiche di gestione delle immigrazioni dei governi di centrosinistra, da ultimo da Keir Starmer, premier del Regno Unito. Si è stigmatizzato l’inseguimento della destra su un’agenda regressiva. Ma è questo il punto decisivo? Accettiamo la lettura dell’impoverimento del lavoro e dell’ansia da insicurezza delle classi medie come conseguenza degli immigrati, ma prospettiamo soluzioni diverse dalla ferocia delle destre? Gli immigrati non sono la principale, né tra le più rilevanti cause della svalutazione del lavoro e del risentimento diffuso. Anzi, sono essenziali nell’inverno demografico. Tuttavia, la realtà va oltre i numeri dell’Inps. L’impatto dell’immigrazione sulle fasce di lavoro poco qualificato, sulla sicurezza, in particolare delle periferie, e sullo spaesamento culturale, variabile immateriale ma incisiva, non è un’invenzione. Oltre il sacro dovere del soccorso di chi affoga in mare, i limiti alla capacità di integrazione esistono e rilevano, e le agghiaccianti previsioni di medio-lungo periodo sulla carenza di manodopera autoctona non li attenuano. Qui, però, non si intende entrare nel merito delle politiche migratorie, a cominciare dalla rianimazione della cooperazione internazionale per promuovere il diritto a non emigrare. Qui, oltre a riconoscere il problema, si intende affrontare il nodo politico: se l’unico “nemico” in giro sul quale scaricare sofferenza sociale e smarrimento identitario è l’immigrazione, nonostante la disumanità delle misure minacciate o adottate, le destre trionferanno. Non vi sarà spazio per policy equilibrate. Data l’impennata delle disuguaglianze e la precarizzazione delle vite, nella stagione del ritorno della Politica, il programma giusto non è sufficiente. Va proposta una visione, quindi un “nemico” riconoscibile. Altrimenti, la sinistra non recupera l’attenzione delle fasce sociali impoverite e smarrite. È essenziale il “nemico” vero, alternativo al nemico caricaturizzato dalla destra per tenere, come sempre, a riparo gli interessi al comando. La guerra di classe - Chi è? La risposta non soltanto è nota, ma è arrivata come autodenuncia: “C’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe di ricchi che sta facendo la guerra e stiamo vincendo” (Warren Buffet, New York Times, 26/11/06). Il magnate della finanza USA lo ammetteva pochi anni dopo che Tony Blair, idolo delle “Terze vie”, aveva affermato: “La guerra di classe è finita … siamo tutti classe media”. Lo richiama in una convincente ricostruzione storica Pier Giorgio Ardeni (Le classi sociali in Italia, oggi, Laterza 2024). Il “nemico vero” dei lavoratori e delle classi medie spiaggiate esiste: sono gli oligarchi della finanza, dei media, delle multinazionali, i loro manager ultramilionari e i loro intellettuali dolosamente organici nelle tecnostrutture “indipendenti”, nella comunicazione, nell’accademia e nella politica. Ad esempio, dall’altra parte dell’Atlantico, è quell’1% e la relativa corte bersagliati nel 2008 da quel 99% affogato nella tempesta dei mutui sub-prime. È, da questa parte, quella élites espressa dal presidente Macron, puntata dai gilets jaunes e dalle sterminate piazze di lavoratrici e lavoratori infuriati per ulteriori tagli alle pensioni. Per far riconoscere il “nemico”, non è sufficiente nominarlo. Vanno evidenziate le sue armi. Vanno riconosciuti i meccanismi di accumulazione del potere abilmente mascherati dall’operazione egemonica post ‘89. È il “capitalismo degenerato” evocato qui da Fabrizio Barca. Va denunciata, quindi, la regolazione neo-liberista, dominante anche nei Trattati Ue, radicalmente contraddittori con l’Art. 41 della nostra Costituzione: è stata l’eliminazione di ogni vincolo e funzione di utilità sociale ai movimenti di capitali, merci, servizi e persone a succhiare dignità e futuro al lavoro e, conseguentemente, a concentrare reddito, ricchezza, potere economico, mediatico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia cosmopolita. È stato il mercato assoluto a svuotare le democrazie fondate sul welfare. In particolare, nel “Vecchio Continente”, attraverso lo sleale mercato unico europeo, ancora più feroce verso il lavoro dopo il disinvolto allargamento a Est. Non vi sono scorciatoie. Urge intenso e faticoso impegno culturale e politico per rilegittimare ed estendere il conflitto sociale funzionale agli interessi di lavoratrici e lavoratori. È proprio il conflitto esorcizzato come “tossico” dalla nostra Presidente del Consiglio. Migranti. Tra i braccianti sfruttati in Liguria: “Nei campi raccolgo le loro denunce” di Diego Motta Avvenire, 16 febbraio 2025 Lahat Seye, un giovane sindacalista di origini senegalesi, incontra i braccianti nelle serre e nei terreni della Piana di Albenga. “Vanno informati sui loro diritti”. Il caso dei locali affittati a più lavoratori. Nella Piana agricola di Albenga, Lahat Seye, un giovane sindacalista di origini senegalesi, sta diventando un ospite fisso. Gira a bordo della sua piccola auto e incontra i lavoratori stranieri, impegnati nelle serre e nei campi. “Quante ore lavori? Hai un contratto? Conosci i tuoi diritti?” ripete ai tanti che lo incontrano. In mano ha un pacchetto di volantini con orari, informazioni e servizi per chi voglia mettersi in regola. “Hai visto come erano interessati? - dice -. Oggi erano tutti nuovi, non li avevo mai visti. Dieci giorni fa qui c’erano altri braccianti: le aziende li spostano dove hanno bisogno”. L’importante è non farsi notare dai datori di lavoro, per non mettere in difficoltà i ragazzi stranieri. “Per trovarli, spesso devi arrivare la mattina presto, ma di solito scappano via... Oggi pomeriggio siamo stati fortunati. Non ho mai visto così tante donne” aggiunge. Alcuni dei braccianti sorridono, altri fanno un cenno e restano ad ascoltare. Un ragazzo che arriva dal Bangladesh è contento di sapere che esiste qualcuno a cui rivolgersi per avere un pezzo di carta su cui scrivere orari e ricompensa, una giovane dell’Est Europa invece preferisce non parlare. La maggior parte si ferma, sente quel che dice Lahat e poi torna china sulla terra. “Fanno turni massacranti: 10 ore al posto delle 6 previste dai loro contratti truffa. Guardali: vengono spremuti come limoni”. Non c’è ombra di padrone adesso, “ma è possibile secondo te che queste piccole aziende familiari alla fine non riescano ad assumere nessuno?” si chiede Margherita Arleo, segretaria provinciale della Flai Cgil Savona, che ci accompagna tra serre e campi. A dominare, nella Piana come in città, non è solo la grande paura di questi braccianti di uscire dal buio dell’illegalità e denunciare. È la grande indifferenza che sembra circondarli: avviene tutto alla luce del sole, ma pare più conveniente chiudere occhio. “La situazione è grave, questi lavoratori ufficialmente non esistono e invece ci chiedono aiuto - spiega nel palazzo del Comune il sindaco di Albenga, Riccardo Tomatis -. Mi chiede se ci sono complicità da parte degli italiani? Complicità no, tolleranza sì”. La tolleranza è innanzitutto un tetto, o un sottotetto, all’interno del quale le famiglie del posto sistemano persone che si alzeranno alla luce dell’alba. Sono alloggi di fortuna in cui si vive e si dorme in spazi ristretti e sovraffollati: garage oppure magazzini, in condizioni igieniche al limite. Basta ovviamente pagare chi affitta. Non nella stagione estiva, però, perché gli spazi vanno liberati per i turisti. Così alcuni di questi ragazzi ad agosto dormono in tenda, sulla spiaggia. Di solito, gli invisibili si materializzano sulle strade, al mattino e alla sera. Si vedono partire dalla periferia diretti verso i campi, in bicicletta. “Intercettarli per noi è molto complicato” racconta Lahat, una volta raggiunta la sede del sindacato in centro. Il modo migliore “è andare fuori dalle scuole serali e attendere che finiscano le lezioni. Sono di fretta, è vero, a volte vogliono parlare e a volte hanno paura”. È come se il loro datore di lavoro fosse sempre presente, “un’ombra che si allunga su questi ragazzi anche quando non c’è” aggiunge Margherita Arleo. Hanno grossi problemi con la lingua e, per chiedere il rispetto dei loro diritti, devono prima sapere comunicare. Alcuni di loro si trovano stretti nei meccanismi dell’accoglienza, un boomerang per diversi profughi: dopo 60 giorni nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, possono uscire e andare a lavorare come braccianti oppure operai edili. Sono incentivati a incassare soldi e buste paga in nero, perché a fronte di retribuzioni anche basse, sarebbero costretti a uscire dai centri. Arrivando con i decreti flussi, non hanno una carta d’identità e non possono aprire un conto corrente. “Per questo vengono da noi, a questo sportello”. Il permesso di soggiorno dura al massimo nove mesi, nel frattempo i lavori stagionali non consentono a questi giovani migranti di mettersi in regola. “È un sistema che produce irregolarità su irregolarità, quello in cui siamo immersi. È iniziato tutto con la Bossi-Fini, è proseguito con i decreti Salvini e poi con i provvedimenti di questa legislatura: stiamo creando solo caos, clandestinità e ricattabilità sociale”. Nel frattempo, ci sono le singole comunità che provano a riunirsi e a mobilitarsi, per uscire dal limbo e sfondare il muro dell’indifferenza e dell’omertà: i lavoratori del Mali, ad esempio, si trovano una volta al mese alla Camera del Lavoro di Savona, per condividere la loro condizione e fare fronte comune nelle rivendicazioni. La storia di Lahat Seye è emblematica: giunto in Italia nel 2002 dal Senegal, partecipa a cortei e manifestazioni come quella storica del Circo Massimo. “Per gli altri non esistevo, poi ho incontrato un funzionario della Cgil del mio stesso Paese. Mi ha spiegato cosa voleva dire combattere per difendere la mia dignità, mi ha invitato a parlare su un palco davanti ad altri colleghi: io, che non ero nessuno”. Oggi Lahat può dire di aver sperimentato che “il lavoro per uno straniero è una gabbia, è il sistema stesso a creare schiavitù”. Visto dai sindacati, c’è come un cerchio invisibile tracciato dai datori di lavoro, creato ad arte dalle piccole aziende familiari italiane, una bolla che imprigiona il lavoratore straniero appena arrivato, tra obblighi contrattuali firmati sull’acqua e stringenti necessità di vedersi riconosciuti percorsi fatti e documenti. In realtà, il sindaco di Albenga difende l’operato delle categorie dei rappresentanti agricoli, dalla Coldiretti alla Cia, fino a Confagricoltura, che nelle occasioni di confronto a livello locale e istituzionale hanno mostrato “interesse e sensibilità - dice Tomatis - per la manodopera specializzata che ricevono, che va tutelata”. Il tema degli sfruttati, con una certa cautela, è messo nero su bianco anche nel “Piano locale di contrasto allo sfruttamento lavorativo e al caporalato in agricoltura” redatto dall’amministrazione locale per il periodo 2023-2026. “Non si sono ad oggi registrati fenomeni di caporalato sul territorio e i fenomeni di sfruttamento sono stati rari” si scrive nelle 56 pagine del documento, presentato anche in sede nazionale per poter ricevere i fondi del Pnrr. “Allo stato attuale - prosegue il testo - nell’ambito delle politiche lavorative rivolte ai cittadini stranieri, gli interventi più urgenti riguardano la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e quindi la promozione presso i lavoratori di un’adeguata formazione”. Intanto negli uffici del sindacato di Savona, il telefono continua a suonare. “Ultimamente stiamo registrando un flusso enorme di badanti che vogliono mettersi in regola. Non ci sono solo gli invisibili del ghetto o gli stagionali. Ci sono tante persone che non sono qui per caso: hanno scelto l’Italia, come ho fatto io più di vent’anni fa - dice Lahat -. Non possiamo consegnarle a un futuro di clandestinità”. L’avanzata del fanatismo religioso e il rischio della violenza in nome di Dio di Anna Foa La Stampa, 16 febbraio 2025 In questi tempi difficili sempre più spesso chi commette nefandezze si trincera dietro al volere divino. Dopo il fondamentalismo islamico e l’estremismo nel mondo ebraico, toccherà anche a quello cristiano? In questi tempi difficili in cui tutte le nostre certezze sembrano sgretolarsi, anche il rapporto di Dio con le armi ci appare mutato. Sempre più spesso, sulla bocca di quanti compiono le peggiori nefandezze, troviamo il richiamo alla volontà di Dio, al loro farsi meri strumenti del volere divino. Così, evidentemente, sulla bocca dei fondamentalisti islamici che uccidono civili innocenti, come è avvenuto il 7 ottobre, che decapitano vecchi archeologi, come a Palmira Khaled al-Asaad. Non parlo qui della violenza delle guerre e del terrorismo in generale, ma solo di quello che si richiama a Dio per compiersi. Quello dei fanatici, insomma. Pensavamo che l’Islam fosse rimasto l’ultima tra le religioni monoteiste a ripararsi dietro il volere divino per uccidere, ma temo proprio che ci siamo sbagliati. Credevamo infatti che nelle altre due religioni monoteiste questa fase fosse ormai superata. Che gli ebrei, che almeno dopo il periodo biblico, fitto di stermini, non hanno mai avuto la spada dalla parte del manico, semplicemente non fossero passati attraverso questa fase, quasi fosse una malattia giovanile destinata a guarire con l’età e la saggezza. Certo, anche fra gli ebrei non erano pochi gli episodi in cui ci si richiamava a Dio per uccidere. Nel primo secolo d.C., a suscitare la guerra contro i romani che avrebbe portato alla distruzione di Gerusalemme e alla scomparsa del Regno di Giuda, furono dei fanatici religiosi, i cosiddetti “zeloti” o gli ancor più estremi “sicari”. In tempi recenti, ne è un tragico esempio l’assassinio dei musulmani nella moschea di Hebron da parte dell’estremista religioso ebreo Baruch Goldstein, che non solo trasforma il suo atto terroristico in una sorta di preghiera, ma uccide esseri umani a loro volta in preghiera. E ancor più vicino a noi, ma ancor più devastante per le sue conseguenze, l’assassinio di Yitzhak Rabin. Ma in questi giorni non più solo alcuni singoli esaltati ma decine di migliaia di fanatici uccidono e distruggono, nel desiderio di sbarazzarsi dei palestinesi e di ricostruire la grande Israele della Bibbia. Lo fanno perché hanno finalmente la spada dalla parte del manico, è solo quindi una questione di possibilità, o ci sono pulsioni più profonde e più pericolose in questo loro vedersi come uno strumento del Signore? Almeno, si pensava, si può escludere da questo delirio religioso il cristianesimo, dimostrando così che è possibile considerare la violenza religiosa come una fase superabile, come un momento esclusivamente legato al potere. Infatti anche nel mondo cristiano, in particolare in quello cattolico, si è smesso di esercitare la violenza in nome di Dio solo quando non si è più potuto farlo. Perché molto a lungo, invece, i cattolici hanno ucciso nel nome di Dio. Pensiamo alla Crociata degli Albigesi, nel 1209, quando, si dice, il legato pontificio Arnaud Amaury fece uccidere tutti, eretici o no, al grido di “Uccidete, uccidete, Dio riconoscerà i suoi”. E agli infiniti episodi di massacri, piccoli o grandi, dalle Crociate alla caccia alle streghe, ai roghi degli eretici, alle guerre di religione. Al fatto, come tanti storici sottolineano, che fra le guerre quelle di religione sono le più crudeli e sanguinose, quasi agire in nome di Dio togliesse ogni remora e ogni scrupolo agli eserciti in guerra. Oggi, nel mondo cristiano questo ha smesso di succedere. Ma è una conquista definitiva? O torneremo indietro, e non ci saranno più conquiste destinate a durare? L’ho pensato quando ho visto una foto di Trump in preghiera che circola sul web, anche se è di oltre un anno fa ed è forse un fake dovuto all’Intelligenza artificiale, perché Trump vi appare con sei dita. E pensiamo al mondo degli evangelici bianchi americani, che lo appoggia e sostiene, riproponendo violenze in nome di Cristo, e fin uccidendo i medici abortisti. Forse anche i cristiani torneranno ad uccidere in nome di Dio? O, se non sempre ad uccidere, a spostar popoli, a creare spiagge sopra i cadaveri, ad imporre ricatti e volontà? O possiamo dare per definitiva questa loro svolta, aspettando che anche gli altri, musulmani ed ebrei, smettano di uccidere, che diventino infine saggi ed umani? Ucraina. La profezia che non si autoavvera di Massimo Nava Corriere della Sera, 16 febbraio 2025 Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca il diritto internazionale, in Ucraina come a Gaza, va ancora più rapidamente in soffitta, con buona pace delle anime belle. Dal giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, decine di leader occidentali, commentatori, rappresentanti della Nato, analisti di politica estera, importanti media sono stati convinti sostenitori di quella che in psicologia si definisce “profezia che si autoavvera”, ossia quei meccanismi mentali che mettiamo in atto per confermare aspettative che supponiamo si realizzino. In altre parole, se crediamo che una situazione sia reale, agiremo come se lo fosse. La palese violazione del diritto internazionale da parte della Russia e la conseguente condanna dell’invasione espressa dalla maggioranza dei Paesi rappresentati all’ONU sono state la bussola che ha ispirato tutte le decisioni e giudizi successivi: sostegno finanziario e militare a Kiev senza condizioni, sanzioni economiche e isolamento della Russia, promesse di rapida integrazione dell’Ucraina nella Ue e nella Nato, censure e rimbrotti nei confronti delle poche voci critiche, inascoltate Cassandre, spesso bollate come filorusse. Corollario di questo quadro, i frequenti riferimenti alla Storia, interpretata tuttavia a senso unico, per cui si sono amplificati i richiami a Churchill contro Hitler, a un’Europa forte, unita e belligerante capace di fermare e respingere il neo imperialismo russo, a un’Ucraina pacifica e democratica eletta a vittima sacrificale delle mire del Cremlino, all’idea che come nel passato il mondo libero dovesse trionfare sulla dittatura per il solo fatto di essere eticamente migliore e persino più forte. A poco o nulla sono servite le analisi della situazione sul campo, non frutto di propaganda, bensì confermate da fonti ucraine e occidentali, ovvero che i rapporti di forza nelle trincee e nel confronto armato erano e sono eccessivamente sbilanciati a favore della Russia. Questo nonostante la mole impressionante di armamenti ricevuti da Kiev nei tre anni di guerra. A poco o nulla sono serviti gli allarmi sull’effettiva capacità degli ucraini di resistere, considerando peraltro l’altissimo numero di diserzioni e fughe all’estero, nonostante la legge marziale e la propaganda patriottica e tenendo conto della superiore potenzialità produttiva della macchina bellica russa rispetto alle pur consistenti forniture occidentali. A poco o nulla sono servite le constatazioni sull’effettiva compattezza dell’Europa e dell’Occidente, quando in realtà le opinioni pubbliche e le stesse capitali si sono progressivamente divise sull’andamento del conflitto e sulle possibili vie d’uscita, nonostante una pervicace narrazione ufficiale non più condivisa dietro le quinte dell’establishment politico ed economico. A poco o nulla sono servite analisi di natura economica, ovvero sul prezzo che l’Europa avrebbe pagato in conseguenza delle sanzioni, del taglio delle forniture energetiche e dei rapporti commerciali. E sul prezzo che pagherà domani: tagliata fuori dalle trattative di pace, ma caricata di responsabilità morali e finanziarie verso l’Ucraina. In questo quadro, la presunta unità occidentale strideva con il fatto oggettivo che gli Stati Uniti moltiplicavano le vendite di armi, petrolio e gas, mentre l’Europa s’impoveriva e ne subiva anche i contraccolpi politici, con l’avanzata dell’estrema destra populista ed euroscettica in molti Paesi e soprattutto in Francia e Germania, aprendo crepe profonde nel “motore” della Ue. A poco o nulla sono serviti infine i richiami alla genesi del conflitto, che non nasce dopo l’invasione russa del 2022, bensì in conseguenza della destabilizzazione del quadro politico ucraino e delle spinte autonomistiche del Donbass russofono, sostenute da Mosca e represse da Kiev, rimaste sospese dopo il fallimento degli accordi di Minsk firmati nel 2014 e nel 2015. Accordi che riletti oggi disegnano una possibile fine del conflitto come un tragico gioco dell’oca, nel senso che centinaia di migliaia di morti e immense distruzioni ci riportano al punto di partenza: territori contesi che restano sotto controllo russo e che saranno probabilmente il prezzo che l’Ucraina dovrà pagare per la pace. In pratica, un ibrido e osceno riconoscimento della violazione di quel diritto internazionale che si voleva a tutti i costi difendere. Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca il diritto internazionale, in Ucraina come a Gaza, va ancora più rapidamente in soffitta, con buona pace delle anime belle. La vecchia formula invocata inutilmente in Medio Oriente - terra in cambio di pace - in Ucraina si traduce in un cinico “terre in cambio di pace”, laddove per “terre” s’intende il granaio d’Europa, che sarà sfruttato dalle multinazionali del settore agroalimentare e “terre rare”, ovvero il ricchissimo patrimonio minerario dell’Ucraina su cui metteranno le mani gli Stati Uniti come precondizione per ottenere ancora aiuti militari e investimenti nella ricostruzione. Quanto alle promesse di ingresso nella UE e nella Nato rimarranno nell’aria, senza scadenza, accarezzate dalle prossime generazioni di ucraini impoveriti, disperati e soprattutto traditi. Ciò che ieri veniva affermato come “irreversibile” e “prossimo” oggi è considerato “illusorio”. Quanto ai richiami storici, l’unico che oggi sembra ancora considerabile è anche il più eticamente grottesco: il nuovo Muro di Berlino eretto in Ucraina, ovvero la riproposizione delle due Germanie, una protetta dall’Europa e dall’Occidente, l’altra, più piccola, controllata dalla Russia, in un limbo diplomatico e legale in attesa che si realizzi, come nelle favole, il sogno della riunificazione. Stati Uniti. Un giudice ordina a Trump di ripristinare i fondi UsAid di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 16 febbraio 2025 Ma le ong: “Stiamo sospendendo comunque i programmi”. Stefano Piziali, direttore generale di Cesvi: “È troppo rischioso spendere senza avere la certezza legale che i costi saranno riconosciuti”. Arriva una prima incoraggiante vittoria per le organizzazioni umanitarie colpite dai tagli di Musk & Trump: un giudice federale ha sospeso il blocco agli aiuti esteri americani: l’amministrazione Usa “non è riuscita a giustificare lo straordinario danno causato da questa sospensione su larga scala”, è la motivazione dell’ordinanza firmata ieri da Amir Ali, giudice distrettuale di Washington. Ali ha stabilito dunque che deve ripartire il finanziamento di tutti i contratti, le sovvenzioni e i prestiti che erano in essere prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Non c’è nulla di arbitrario e capriccioso nel fatto che le agenzie esecutive conducano una revisione dei programmi - ha spiegato il giudice -. Ma non è stata offerta alcuna spiegazione sul perché la revisione dei programmi, molti dei quali di lunga data e in corso in base a termini contrattuali, abbia richiesto una sospensione immediata e totale degli aiuti esteri stanziati”. A contestare in tribunale questo ordine esecutivo di Trump è stato un gruppo di beneficiari dei finanziamenti, che hanno fatto leva sul fatto che il governo non ha l’autorità di sospendere del tutto i finanziamenti già stanziati dal Congresso. “Le aziende stanno chiudendo, licenziando i dipendenti... il cibo sta marcendo, i farmaci stanno scadendo”, ha riferito l’avvocato Stephen Wirth durante l’udienza. Il congelamento degli aiuti sta mettendo in pericolo la vita di milioni di bambini e delle loro famiglie nei fronti caldi della Terra, avvertono anche in Italia diverse ong impegnate all’estero. E la revoca temporanea dello stop agli aiuti Usa decisa dal giudice potrebbe non bastare a invertire questo pericoloso trend. “La stragrande maggioranza delle organizzazioni sta sospendendo comunque i programmi perché è troppo rischioso spendere senza avere la certezza legale che i costi saranno riconosciuti - dice al Corriere Stefano Piziali, direttore generale di Cesvi - Quella che stiamo affrontando non è solo una crisi economica, ma anche una crisi di solidarietà. Il rischio è un ritorno a una politica globale di disimpegno, che abbandona intere popolazioni al loro destino”. L’organizzazione umanitaria nata a Bergamo e presente in 23 Paesi ha dovuto sospendere in Pakistan le attività rivolte alle comunità colpite dalle inondazioni e interrompere i contratti a una 40 quarantina di collaboratori. Le équipe di Medici senza Frontiere riferiscono della chiusura di alcune cliniche in Sudafrica e avvertono che nella Repubblica Democratica del Congo è a rischio il modello di maggior successo di distribuzione di famaci antiretrovirali contro l’Hiv, quelli gestiti dalla comunità. “Nonostante una deroga limitata che copre alcune attività, i nostri team stanno vedendo persone che hanno già perso l’accesso alle cure salvavita e non sanno se o quando il loro trattamento continuerà” segnala la direttrice generale Avril Benoît. Msf non riceve finanziamenti dal governo Usa ma molte delle sue attività dipendono da programmi che sono stati interrotti. Anche Medici del Mondo (400 progetti in oltre 70 Paesi) parla di “grave impatto” su molti dei suoi progetti tesi a favorire l’accesso alle cure sanitarie. In Siria, dove dopo la caduta di Assad, l’aiuto umanitario è essenziale per ricostruire il Paese e supportare i civili che tornano a casa dopo 13 anni di conflitto, “abbiamo già dovuto chiudere 12 dei 17 nostri centri nel nord, una regione devastata da anni di guerra e dal grande terremoto del 2023. Qui milioni di abitanti dipendono dagli aiuti sanitari esterni” osservano. Sempre più critica la situazuone anche in Congo, che sta vivendo una delle peggiori crisi umanitarie della sua storia con un sistema sanitario fragile dopo decenni di instabilità. “Nel Sud Kivu oltre 600.000 persone, tra cui donne e bambini, dipendono dal nostro progetto finanziato dagli Stati Uniti per accedere a servizi sanitari essenziali, tra cui cure materne, nutrizione, accesso all’acqua potabile, igiene e protezione. L’interruzione di questo progetto significa tra l’altro che le persone che hanno subito violenze sessuali non riceveranno più supporto psicosociale”. È di ieri la denuncia di Unicef per stupri e abusi verso minori compiuti da uomini armati nel Nord e Sud Kivu, “a livelli che superano qualsiasi cosa abbiamo visto negli ultimi anni”. Stati Uniti. “Così nasconderemo i ragazzi dalle retate di Trump” di Elena Molinari Avvenire, 16 febbraio 2025 Revocato il divieto all’Immigration and customs enforcement, o Ice, la polizia del dipartimento per la Sicurezza nazionale, di effettuare arresti in “luoghi sensibili” come chiese, ospedali e scuole. “L’Ice dovrà arrestare me prima di arrestare sua figlia”. Berena Cabarcas parla al telefono con una mamma, una delle tante che da due settimane chiama ripetutamente per convincerle a rimandare a scuola i loro figli. Come preside dell’International community high school (Ichs), scuola superiore pubblica che accoglie adolescenti appena arrivati negli Stati Uniti con poco inglese, Cabarcas è in prima linea nella resistenza alla stretta sull’immigrazione di Donald Trump. Le famiglie dei suoi studenti del South Bronx (il quartiere più povero degli Stati Uniti a meno di dieci chilometri da uno dei più ricchi, Manhattan) sono terrorizzate dalla decisione del neo presidente di revocare il divieto all’Immigration and customs enforcement, o Ice, la polizia del dipartimento per la Sicurezza nazionale, di effettuare arresti in “luoghi sensibili” come chiese, ospedali e scuole. Lo scopo della prassi di lunga data era non allontanare persone vulnerabili da servizi di base. E infatti la sua eliminazione, insieme alla promessa di Trump di avviare “la più grande deportazione della storia americana”, ha fatto calare la frequenza media giornaliera delle scuole pubbliche statunitensi dal 90% abituale a meno dell’85%, secondo il ministero dell’Istruzione. Il che significa che quasi due milioni e mezzo di bambini e ragazzi mancano all’appello. “Finora non è arrivato nessun agente - dice Cabarcas, che guida l’Ichs dalla sua fondazione nel 2006 -, ma abbiamo già subito l’impatto delle retate sui luoghi di lavoro, sia qui nel Bronx che dall’altra parte del fiume Hudson a Newark, che hanno avuto effetti devastanti su alcuni dei nostri ragazzi. Alcuni sono tornati a casa e hanno scoperto che i genitori erano stati detenuti e hanno dovuto fare da mamma e papà ai fratelli più piccoli”. Da quando Trump ha dichiarato guerra agli immigrati senza documenti, il personale dell’Ichs ha messo a punto un protocollo per proteggere i loro studenti, facendo leva sul divieto imposto dal dipartimento all’Istruzione della città di New York alle forze dell’ordine federali di entrare nelle scuole se non in circostanze molto limitate e urgenti, come una sparatoria. Ma la preside trova difficile dover reagire costantemente alle mosse del governo federale contro gli immigrati, che si intensificano di giorno in giorno. L’Ichs condivide la sede con due scuole medie in due edifici pericolosamente trascurati come i marciapiedi crepati che li circondano. Santiago Gonzalez, venezuelano padre di due bambini di 10 e 12 anni che come lui sono in attesa di una decisione sulla loro domanda d’asilo, ha continuato a portare i figli a scuola anche se lo riempie di ansia. “Ho fotocopiato i documenti della domanda di asilo e altre carte e li ho messi nei loro zaini - dice -. Ma non mi sento sicuro quando li accompagno o li vengo a prendere. Ormai non mi sento sicuro nemmeno quando esco di casa”. La paura è più acuta nei nuclei in cui un membro è privo di documenti: 6,3 milioni di famiglie in tutto il Paese, secondo il Pew Research Center. È difficile sapere quanti genitori nei cinque distretti di New York tengono i propri figli a casa a causa del timore di essere deportati, ma si stima che dall’estate 2022 circa 48.000 nuovi arrivati. I senza documenti si siano iscritti alle scuole cittadine. Per legge, tutti i bambini presenti negli Stati Uniti hanno diritto all’istruzione pubblica, indipendentemente dal loro status, e le scuole non chiedono visti o permessi di soggiorno per l’iscrizione. Se a New York non ci sono ancora stati raid nelle classi, recentemente alcuni agenti federali si sono presentati in una scuola elementare di Chicago, ma il personale scolastico ha impedito loro di entrare. È quello che Cabarcas conta di fare se qualcuno non atteso chiede di entrare nel suo istituto, come ha spiegato nel corso di due sessioni informative con le famiglie degli studenti, in cui ha illustrato i loro diritti e le regole della città di New York che vietano la condivisione dei dati personali degli studenti con le autorità federali. Almeno per ora, perché l’attuale sindaco della Grande Mela, Eric Adams, è determinato a modificare le leggi che dal 1985 fanno della metropoli una città “santuario”. Adams ha coltivato un rapporto stretto con Trump, incontrando il suo “Zar di confine”, andando a trovare il presidente a Mar-A-Lago e partecipando all’inaugurazione a Washington. Il sindaco, che l’anno scorso è stato incriminato per corruzione federale, ha anche detto che non criticherà Trump e ha rifiutato di prendere posizione sulla sua decisione di effettuare arresti nelle scuole. E questa settimana, Trump ha chiesto ai procuratori federali di archiviare le accuse nei suoi confronti provocando le dimissioni dei sei più alti procuratori statunitensi. “Non mi sento per nulla protetta dal sindaco”, dice Cabarcas, che è invece incoraggiata dalle direttive emesse di recente dal procuratore generale dello Stato di New York, dalla governatrice Kathy Hochul e dal dipartimento statale all’Istruzione. “Agli agenti dell’Ice non è consentito l’accesso alle scuole a meno che non forniscano un mandato giudiziario penale firmato da un magistrato federale. Le scuole non ammetteranno agenti sulla base di un mandato amministrativo o di altro atto sull’immigrazione”, si legge nelle linee guida, che poi si rivolgono direttamente ai presidi: “Se un funzionario governativo arriva nella tua scuola chiedendo informazioni o l’accesso e non ha un appuntamento, non consentirne l’ingresso”, affermano. Nel caso in cui i funzionari riescano a entrare, i membri del personale scolastico devono chiudersi negli uffici amministrativi, mettere la scuola immediatamente in “lockdown” - come nei casi di minacce armate - e comunicare con gli agenti solo tramite l’interfono. E se un funzionario delle forze dell’ordine federali o locali richiede informazioni sugli studenti, la scuola deve immediatamente contattare l’avvocato della propria commissione scolastica e informare l’Ufficio Privacy statale. Cabarcas ha diffuso copie delle linee guida agli insegnati e alle famiglie, sperando di rassicurarle, e si sta accertando di disporre di numeri di telefono accurati e aggiornati per le famiglie di tutti gli studenti nel caso in cui si presentino agenti dell’immigrazione e la scuola abbia bisogno di raggiungere rapidamente i genitori. “Speriamo che non succeda nulla ma non possiamo promettere alle famiglie che non si presenterà nessuno”, dice la preside, consapevole che le istruzioni dello Stato sono già state contestate sia dal basso (dal sindaco Adams) che dall’alto (dal governo federale) e che una battaglia istituzionale sui diritti di scuole come la sua di proteggere i ragazzi potrebbe esplodere in qualsiasi momento, Il dipartimento per la Sicurezza nazionale di Trump, ad esempio, ha già fatto sapere ai governatori degli Stati “santuario” che “bloccare l’accesso a luoghi sensibili impedisce agli uomini e alle donne coraggiosi dell’Ice di far rispettare le nostre leggi sull’immigrazione e di catturare stranieri criminali - inclusi omicidi e stupratori - che sono entrati illegalmente nel nostro Paese”. Per ora i 300 ragazzi dell’International community high school sono al sicuro e Cabarcas farà di tutto perché continuino a esserlo, possano dedicarsi a imparare l’inglese e a prepararsi per corsi professionali o l’università. “Se necessario, mi chiuderò con sua figlia nel mio ufficio”, assicura per telefono alla mamma preoccupata. E questa, prima di riagganciare, promette che “domani la ragazza sarà in classe”.