La Corte Costituzionale e una sentenza calpestata, minimizzata, trattata come carta straccia a cura di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 15 febbraio 2025 Da più di un anno nelle carceri si spera che le disposizioni impartite dalla Corte Costituzionale in tema di diritto ai colloqui intimi diventino vita vera e affetti non più negati. Ma quella speranza sta diventando delusione, sconforto che serpeggia tra le persone detenute, che si erano illuse che nel volgere di poco tempo si riuscisse a dare soluzione a un problema che si trascina da decenni. Gentile ministro Nordio, quando le è stato chiesto in un’interrogazione parlamentare se, in relazione alla sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, non ritenesse necessario «adottare le necessarie immediate misure di competenza volte a dare piena esecuzione alla decisione della Consulta», Lei ministro ha risposto di aver istituito il 28 marzo 2024 a questo fine “un apposito gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta coerente con il sistema vigente, anche in considerazione delle diversità strutturali che connotano gli istituti penitenziari sul territorio nazionale”. Ha inoltre spiegato che “è stato effettuato un minuzioso monitoraggio, a livello nazionale inteso a verificare la sussistenza, all'interno delle strutture penitenziarie del territorio, di spazi adeguati e funzionali a garantire le condizioni più favorevoli alla piena espressione di detto diritto all'affettività, in termini di dignità e riservatezza dei detenuti. In collaborazione con il dipartimento di architettura dell'università di Napoli Federico II, si è lavorato poi per verificare le potenzialità di spazi inutilizzati o sottoutilizzati, fino alla sperimentazione progettuale su spazi ad oggi mancanti. Il Gruppo di Studio si è occupato inoltre di determinare durata, frequenza e modalità con cui detti colloqui riservati possono svolgersi, in quanto profilo chiaramente incidente sul numero degli spazi ritenuti idonei, che andrà garantito in misura adeguata a rendere davvero effettivo quel diritto. (…) Le attività del gruppo di studio sono, dunque, il segno tangibile dell'atteggiamento propositivo assunto dal Dicastero all'indomani della pronuncia della Consulta, la cui attuazione richiederà un adeguamento, anche strutturale, del sistema carcerario, che dovrà conciliarsi con l'incomprimibile esigenza di salvaguardare le condizioni di sicurezza all'interno degli istituti di pena”. Da allora sono passati altri mesi, e questi risultati del Gruppo di studio ancora non li abbiamo visti. Nel frattempo, nelle carceri si continua a star male, e non c’è niente che attenui la sofferenza provocata da condizioni detentive sempre meno a misura d’uomo. Ma perché, gentile ministro, non provate a far fronte alla “desertificazione affettiva”, come la definisce la Corte Costituzionale, prodotta dalla galera partendo proprio da un po’ di amore in più, come impone con forza la Corte Costituzionale? Il magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che aveva sollevato la questione di incostituzionalità rispetto ai mancati colloqui intimi nelle carceri italiane, in assenza di una risposta chiara da parte delle Istituzioni, che sono del tutto latitanti oggi rispetto al diritto all’intimità negato, ha risposto al reclamo di una persona detenuta, che chiedeva di fare colloqui riservati con la sua compagna, stabilendo che la Casa circondariale di Terni, dove si trova il detenuto, debba procedere, entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, a individuare degli spazi adeguati per garantire la riservatezza e l’assenza di controlli visivi durante gli incontri. Lo stesso ha fatto la magistrata di Sorveglianza Elena Banchi dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, che, alla richiesta di un detenuto di Parma, di poter fare colloqui intimi, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha sostenuto che il diniego del carcere è immotivato e che “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. E adesso, che succede? Solo chi l’ha provata può capire la profondità della sofferenza cagionata alle persone a cui vengono negate le relazioni affettive più intime. A questa sofferenza si somma ora la sensazione di essere stati presi in giro e la delusione per una sentenza, che quasi nessuno sembra voler applicare. Ma noi vogliamo essere, come ci ha consigliato una persona amica della redazione, dei “sognatori prudenti” e sperare che siano proprio i direttori degli istituti di pena a pretendere di ospitare, nelle strutture che dirigono, i colloqui intimi. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che vorremmo giungessero direttamente al ministro. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ------------------------------------------------------------------------------------- Da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte di Ignazio Bonaccorsi, Ristretti Orizzonti Egregio ministro Nordio, chi le scrive è un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo, sono in carcere da 33 anni ininterrottamente e so bene cosa significa stare tutto questo tempo senza poter avere nessun contatto fisico con la moglie e con i figli, se non in quell’ora di colloquio alla settimana, sempre per chi lo può effettuare, non tutti possono affrontare un viaggio costoso, specialmente chi deve venire, come i miei famigliari, dalla Sicilia a Padova, dove mi trovo io. Questo quindi significa ancora meno contatti con la famiglia, e le posso assicurare che da quando sono in carcere ne ho viste tante di famiglie distrutte, separazioni, matrimoni andati in frantumi e di tutti questi disastri le conseguenze le subiscono i figli. Ora quello che voglio dire è questo: c’è una sentenza dalla Corte Costituzionale che dice che un detenuto ha il diritto di usufruire dei colloqui intimi con la moglie o la compagna, ma da un anno non ne sappiamo più niente. Ci hanno detto che c’è un tavolo con diverse figure istituzionali che se ne sta occupando, ma niente si muove, per sapere qualcosa di positivo quanto dobbiamo aspettare? Perché quando vengono fatte nuove leggi restrittive “contro di noi” entrano subito in vigore e vengono rispettate, quando invece sarebbero a nostro favore si blocca tutto? Secondo me prima verrà applicata la sentenza e meno matrimoni si sfasceranno, la speranza è che ci sia qualcosa di positivo finalmente per i nostri cari, anche perché siamo persone che abbiamo una età avanzata e non ci possono togliere anche questo diritto a un po’ di amore in più. Mio figlio mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella di Salvatore Fani, Ristretti Orizzonti Per me il carcere vero non è la struttura detentiva con tutti i suoi problemi, la mia prigione e quello che mi nette davvero in difficoltà è come faccio a spiegare a un bambino di cinque anni quelle scelte delle Istituzioni che non capiamo nemmeno noi: privarci degli affetti è vergognoso, mio figlio cresce solo con la mamma, loro due se la devono cavare da soli negli affetti, soli nelle paure. Io non so rispondere a mio figlio quando mi chiede perché non può avere un fratello o una sorella. Mi domando perché mi tolgono la gioia di fare qualcosa per la mia famiglia, la possibilità di stare bene per persone che reati non ne hanno mai commesso, è molto triste che una pena venga scontata anche da loro, dai miei cari. Gentile Dottor Nordio quando la Corte Costituzionale si è espressa a favore dei colloqui intimi ho incominciato a programmarmi il futuro e guardando mio figlio negli occhi gli ho promesso un fratello con cui crescere. Ma questo suo e anche nostro desiderio di mantenere il nostro legame famigliare, di restare uniti anche se separati dal carcere, dopo poco più di un anno buio ha ricevuto un’altra porta in faccia. Che delusione vedere che non si fa niente per permetterci i colloqui intimi, mi sento come da bambino quando mi hanno rubato l’infanzia e il futuro, sono un uomo adulto, responsabile, genitore, marito che non può fare progetti per la sua famiglia, si sente un fallito e inizio a chiedermi se il cambiamento è davvero possibile, se ne vale la pena, visto che il nostro futuro è sempre ostacolato. È difficile superare quest’altra delusione, a me viene voglia di mollare tutto e tornare a fare quello che so fare, non quello che dovrei fare, ma non voglio fermarmi su questi pensieri. Chi sconta una pena è già privato della libertà, non penso sia umano distruggergli la famiglia di Mattia Griggio, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Mattia, sono detenuto presso la Casa di reclusione di Padova da un anno. Quando sono entrato era appena stata emessa la sentenza della Corte Costituzionale che rendeva i colloqui intimi un diritto, e devo dire che mi sono quasi commosso. Questa è la mia terza carcerazione, ho tre bambini piccoli e sono per loro “l’unico genitore possibile” a causa di gravissime vicissitudini. Ricordo con sofferenza per me e per loro le ultime due carcerazioni, l’angoscia della loro madre, la mia ex compagna, nel non poter godere con me di qualche momento di intimità sia da soli sia con i nostri figli. Ora che sono un padre single, e che purtroppo, vedo i miei figli solo ogni due o tre settimane per appena due ore, in una stanza piccola dove ci sentiamo e siamo controllati, comprendo ancora di più il loro disagio. Io sono osservato 24 ore su 24 qui dentro, ma loro cos’hanno fatto per meritarsi di non esser mai a loro agio quando incontrano chi amano? Mi chiedo come possa la politica restare ferma da decenni di fronte a tutto questo. Non voglio nemmeno citare la Costituzione, che è chiarissima in merito alla tutela degli affetti e delle famiglie, ma semplicemente il buon senso comune. Ora c’è una sentenza che prevede di attuare gli incontri intimi nelle carceri, mi auguro che lo Stato, con la stessa velocità con cui applica leggi peggiorative per noi, applichi questa legge “migliorativa”. Poter disporre di incontri intimi con il proprio partner credo sia un diritto scontato e necessario, e uno Stato normale dovrebbe tutelarlo e basta. Chi sconta una pena è già privato della libertà, ma non penso sia umano distruggergli la famiglia che si è creato con amore e fatica. Io attualmente non ho una compagna, ma poter restare qualche ora con i miei figli una volta alla settimana senza avere alcun controllo ridarebbe loro un po’ di affetto “sincero” ed umanità, e soprattutto farebbe da grandissimo deterrente ai rischi del loro problematico sviluppo psicologico. Quanti minori sono cresciuti con problemi psicologici dovuti alla carcerazione dei padri? E questi non divengono un costo ulteriore per la società? C’è poi un problema enorme nelle nostre carceri: i suicidi a cui assistiamo. Aprire agli incontri intimi come tutti i paesi civili sarebbe certamente una risposta a tutta questa gratuita sofferenza. Credo che chi è autore di reati comuni, se è in carcere per essere rieducato e scontare la sua pena, dovrebbe poter incontrare anche ogni giorno i propri familiari in un luogo appartato. Questa è semplicemente normalità, nulla di più. È un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli di Jody Garbin, Ristretti Orizzonti Mi chiamo Jody Garbin, sono detenuto nella Casa di reclusione di Padova dal 2019, nel 2022 dopo 14 anni di convivenza con la madre dei miei due splendidi figli ci siamo separati perché io ho una condanna a 18 anni di carcere e non si può pretendere che una moglie stia con il proprio marito per anni vedendolo per un totale di solo tre giorni all’anno e avendo come unico segno di affetto un abbraccio e un bacetto. Vede signor ministro, ormai la mia famiglia si è distrutta perché prima non c’erano altre possibilità di vedersi se non quelle misere sei ore al mese di colloquio in uno spazio rumoroso condiviso con tante altre famiglie, però ora che c’è una sentenza che dice chiaramente che è un nostro diritto poter dare e ricevere affetto dalle nostre mogli, speravamo che le cose cambiassero, ma è già passato un anno e siamo sempre nelle stesse condizioni di prima. Io vorrei che chi ha il potere e il dovere di applicare la sentenza si desse una mossa perché non è giusto che altre famiglie vadano distrutte e i nostri figli debbano soffrire per questi motivi, noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo, ma le nostre famiglie non hanno fatto nulla di male e non capisco parchè debbano pagare pure loro per i nostri sbagli. Dopo l’ordinanza per il detenuto di Parma si riparla di affettività di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2025 Interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti (Italia Viva). Nel sistema penitenziario italiano, l’ordinanza sul detenuto di Parma ha riacceso il dibattito sull’affettività negata in carcere. La decisione, in linea con la sentenza della Corte costituzionale n. 10/ 2024, ha dichiarato illegittimo il divieto di colloqui intimi tra detenuti e i loro cari, riaffermando il diritto all’intimità e alla risocializzazione come elementi fondamentali della dignità umana. Nonostante la sentenza della Consulta garantisca il diritto ai colloqui intimi, oltre un anno è trascorso senza che alcun detenuto ne abbia beneficiato. Questo divieto, privo di motivazioni legate alla pericolosità, rischia di rendere la pena eccessivamente punitiva, ostacolando il reinserimento sociale e aggravando il disagio psicologico. In questo contesto, il 10 febbraio 2025 l’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia ha accolto il reclamo di un detenuto del carcere di Parma, assistito dall’avvocata Pina Di Credico, che aveva già il 4 marzo 2024 richiesto il riconoscimento concreto del diritto all’affettività. È in questo quadro che si inserisce la recente vicenda al centro dell’interrogazione parlamentare presentata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva al ministro della Giustizia. La risposta della Direzione del carcere non si fece attendere: il 9 aprile 2024 fu respinta la richiesta, motivando l’azione con l’attesa di determinazioni provenienti dai Superiori Uffici, che avrebbero dovuto definire le modalità operative per l’attuazione dei colloqui intimi. Inoltre, in una nota del 25 maggio 2024, la Direzione precisò che gli spazi idonei a ospitare tali incontri non erano a disposizione dell’Istituto e che il Dap aveva costituito un gruppo di lavoro composto da esperti. Questo gruppo aveva richiesto ulteriori informazioni alla Direzione della Casa circondariale di Parma, al fine di individuare possibili soluzioni operative per garantire il diritto sancito. La Corte Costituzionale aveva previsto un intervento legislativo per risolvere le problematiche operative, auspicando nel frattempo un impegno coordinato di tutta l’amministrazione della giustizia. Solo una sinergia tra legislativo, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria potrà evitare che la pena diventi uno strumento di isolamento. A supportare questa visione, la Corte di Cassazione (sentenza n. 8/ 2024) ha ribadito l’ammissibilità del reclamo per il diritto all’affettività, riconoscendo il diritto del detenuto a colloqui intimi con la moglie, negabile solo per motivi di sicurezza, ordine, disciplina o in presenza di comportamenti scorretti. L’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, dopo aver verificato con due relazioni la condotta esemplare del detenuto, ha disposto che, entro 60 giorni, questi potrà avere un colloquio intimo visivo senza sorveglianza, seguendo le modalità della sentenza della Corte Costituzionale e negli spazi designati dal carcere di Parma. L’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti si focalizza su tre quesiti: se il Ministro della Giustizia conosca la situazione, quali azioni concrete siano state intraprese per attuare la sentenza (in particolare i risultati del tavolo tecnico del Ministero), e se siano state diffuse circolari o note dall’Amministrazione penitenziaria volte a ostacolare l’attuazione del diritto sancito. Questa interrogazione si configura come un indispensabile strumento di pressione, volto a sollecitare un impegno coordinato e tempestivo per adeguare la prassi penitenziaria ai principi costituzionali e ai diritti umani fondamentali, promuovendo così una pena che, anziché escludere, contribuisca alla risocializzazione. Carcere, quale futuro? Iniziamo da lavoro e affettività di Ilaria Dioguardi vita.it, 15 febbraio 2025 In un incontro organizzato da Antigone in occasione dei 50 anni dell’Ordinamento penitenziario si è cercato di rispondere alla domanda: “Qual è il futuro del carcere in Italia?”. Massimo Parisi, direttore del Personale del Dap: “Stiamo lavorando per creare un ufficio che si occupi del lavoro penitenziario. A breve uscirà una direttiva dell’amministrazione sull’affettività negli istituti di pena, va attuata la sentenza della Corte costituzionale”. Patrizio Gonnella (Antigone): “Bisogna costruire un altro modello di carcere”. Uno sguardo sul futuro del carcere nel nostro Paese. È quello che si è cercato di immaginare durante l’incontro di chiusura della due-giorni organizzata dall’associazione Antigone, dal titolo “A 50 anni dalla approvazione dell’Ordinamento penitenziario. Passato, presente e futuro della pena in Italia”, alla Casa internazionale delle donne di Roma. Impossibile non partire dal problema del sovraffollamento. Sono 61.916 i detenuti negli istituti di pena al 31 gennaio 2025 (dati del ministero della Giustizia) a fronte di 46.839 posti disponibili. La capienza regolamentare sarebbe di 51.312, ma quasi 5mila spazi sono inagibili. Ci sono 15mila persone detenute in più rispetto ai posti disponibili. Sempre l’anno scorso, le persone che si sono suicidate durante la detenzione sono state 88, più 146 che hanno perso la vita dietro le sbarre per motivi di altra natura. Nel 2025 sono già 10 i suicidi e 25 i decessi per motivi di altra natura. Gli istituti penitenziari visitati, nel 2024, da Antigone sono stati 87. Nel 48% non era garantita l’acqua calda tutto il giorno e per tutto l’anno. Strutturare il lavoro in carcere “Stiamo immettendo nel sistema una generazione nuova di direttori, un centinaio. Di educatori ne mancano 33 sul territorio nazionale. L’educatore è una figura che si è burocratizzata, si è perso un po’ il rapporto con le persone”, ha detto Massimo Parisi, direttore generale del Personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. “Stiamo lavorando per creare un ufficio che si occupi del lavoro penitenziario, che è un aspetto che va rinsaldato con una riorganizzazione. Il lavoro in carcere non può dipendere dall’iniziativa del singolo, ma deve essere strutturato. Le persone detenute ammesse all’articolo 21 in Italia sono responsabilità dei direttori. Bisogna avere la capacità di individuare lavoro all’esterno, anche con le risorse del Terzo settore”. In arrivo una direttiva del Dap sull’affettività - Inoltre, Parisi ha detto che “a breve uscirà una direttiva dell’amministrazione sull’affettività. Va attuata la sentenza della Corte costituzionale”. Il direttore si riferisce alla sentenza 10 del 2024 con la quale in carcere viene consentito il diritto a colloqui in intimità con i partner. “Bisogna costruire un altro modello di carcere”, ha detto il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. ““Facciamo respirare i diritti” è la nostra campagna 2025”. “Il carcere ha un futuro oppure il futuro è il carcere? “Avremo sempre più carcere, dovremmo porci la questione che ci saranno sempre più persone detenute. Con il Decreto Sicurezza sono aumentate le pene, anche le rivolte passive vengono punite. Dovremmo farci questa domanda: “Il carcere ha un futuro oppure il futuro è il carcere? ““, ha detto Marcello Bortolato, presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze. “Se il carcere ha un futuro è una domanda di cui possiamo liberarci, non è possibile avere un’alternativa. Ma è possibile il superamento del modello rieducativo con tutti i suoi difetti. La grande questione della riforma del 1975 è stata l’introduzione di misure alternative al carcere. Dobbiamo salvaguardare quel sistema e chiederci se è ancora attuale il presupposto culturale del sistema alternativo”. “Le misure alternative non sono un’alternativa al carcere” - “Dobbiamo pensare sempre alle misure alternative come strumento di reinserimento sociale. Se nel 2011 le misure alternative erano 22.300, oggi ce ne sono quasi 90mila. Ma ad una diminuzione così importante delle misure alternative non ha corrisposto un abbassamento degli ingressi in carceri, che sono aumentati. Dobbiamo capire”, ha continuato Bortolato, “che le misure alternative non sono un’alternativa al carcere. La pena che si espia negli istituti di pena è diventata ingiusta perché non è rieducativa”. Quali sono le risposte possibili nell’immediato futuro? Secondo Bortolato due proposte “avrebbero il compito di liberare dei posti letto. Bisognerebbe far capire all’opinione pubblica di concedere qualche giorno in più di libertà a chi se lo merita. Il secondo è l’indulto. Bisogna far sentire la propria voce su due questioni del Ddl Sicurezza: l’incriminazione per rivolta in carcere e il tema delle donne detenute con figli piccoli. Su questi due punti bisogna far sentire la propria voce, aumentano il conflitto nelle carceri”. Bortolato ha concluso affermando che “far partecipare i detenuti alle scelte di vita detentiva in carcere è il miglior antidoto alle rivolte e al disagio psichico (quindi al rischio dei suicidi), ove possibile”. Mauro Palma: “Sul carcere nessuna visione, solo ordine e sicurezza” di Angela Stella L’Unità, 15 febbraio 2025 A 50 anni dalla grande riforma penitenziaria “nessun bilancio positivo”: “laddove si applicano quei principi si parla ancora di istituti sperimentali”. Mauro Palma, già Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura ed ex Garante nazionale dei detenuti, è intervenuto all’evento dell’Associazione Antigone sui 50 anni dall’approvazione dell’ordinamento penitenziario. Che bilancio fare? Non amo le celebrazioni e soprattutto è particolarmente difficile celebrare una norma che tutti si affannano a dire che è bella, ma non applicata: cinquant’anni dopo. Non solo, ma laddove si dà, faticosamente, piena attuazione ai principi e alle norme che questa riforma detta, si parla ancora di Istituti ‘particolari’, addirittura ‘sperimentali’. Quindi, non è possibile fare un bilancio positivo. E, infatti, questi due giorni organizzati da Antigone hanno avuto la caratteristica positiva di non celebrare, ma di indagare gli aspetti anche ambigui che il testo approvato faticosamente nel 1975 presentava già. E su queste crepe si è inserita l’ondata contro riformatrice in cui siamo ancora immersi. Le nostre carceri sono illegali? Sono più rispondenti alle circolari, alle indicazioni dell’amministrazione penitenziaria che non al dettato delle norme iscritte nella riforma e ancor meno al solco delineato dalla Costituzione per le pene. Nelle ultime settimane a due detenuti di due diverse carceri italiane è stato accordato il permesso di fare colloqui intimi con le proprie compagne senza la sorveglianza della polizia penitenziaria, con l’obiettivo di avere rapporti sessuali: sono i primi due casi da quando, l’anno scorso, una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività in carcere. Significa che ora il Dap dovrà darsi seriamente da fare per rispettare la sentenza della Consulta e trovare spazi idonei? Sono due ordinanze molto importanti. Il Dap avrebbe dovuto attrezzarsi il giorno dopo del deposito della sentenza 10 del gennaio 2024 della Corte costituzionale. E non lo ha fatto: ha nominato una commissione - tipico modo per ritardare il tutto - e ha imposto ai singoli provveditori regionali di non prendere iniziative autonome, neppure laddove le prime esperienza stavano per essere attuate. La sentenza afferma: “l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze [ad] accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena]. La sentenza, dunque, doveva trovare applicazione a partire dal giorno successivo. Ora queste importanti ordinanze, che certamente non troveranno applicazioni domani, perché si aprirà un percorso di ricorsi e controricorsi, richiamano l’amministrazione alle sue responsabilità e mi auguro che siano seguite da altre, molte, della stessa chiarezza che diano uno scossone. Nordio continua a dire che i suicidi sono “un fardello insopportabile”. Non le sembra un po’ stucchevole e anche inopportuno ripetere sempre la stessa frase ma poi non cambiare la situazione? I suicidi hanno sempre un elemento di insondabilità e di intima decisione che va rispettato senza forzare interpretazioni con tono certo. Tuttavia richiamano la responsabilità di interrogarsi e agire; soprattutto chi ha la responsabilità di un settore dove il tasso di suicidi è circa venti volte maggiore di quello al di fuori di esso. Il fardello si comprende, ma richiede anche intervento perché altrimenti l’insopportabilità diviene la cifra descrittiva del mondo recluso, per chi vi è ristretto, per chi opera all’interno di esso e ora anche di chi ne ha la responsabilità politica e amministrativa. Lei è fiducioso che il nuovo commissario all’edilizia penitenziaria possa davvero elaborare un progetto che in tempi adeguati dia respiro alle carceri? Assolutamente scettico. Per i tempi assegnati e per la carenza di un’idea della carcerazione - che vada un po’ oltre il mero contenimento delle persone - da parte di chi ne ha attualmente la gestione politica e amministrativa. Progettare e costruire richiede la premessa di una chiara visione della funzione che entro quegli spazi si dovrà assolvere. Che, appunto, non può limitarsi a creare posti. Questa chiarezza manca e il tutto si riduce a ordine e sicurezza. Dopo l’inchiesta di Palermo di qualche giorno fa il Governo vorrebbe rimettere mano ed irrigidire ancora di più il 41 bis. Eppure l’indagine riguarda l’alta sicurezza… Non abbiamo ben compreso il collegamento. Non vedo cosa si possa accentuare nel regime speciale del 41bis, già molto molto restrittivo. E non penso che si abbia realmente intenzione di intervenire su tale regime. Resta però il fatto che il numero delle persone mediamente ristrette in tale regime resta costante (attorno a un po’ più di 700) e credo che questo sia anche dovuto alla tendenza delle procure a richiedere tale regime anche per casi che potrebbero essere nel circuito dell’alta sicurezza: forse perché ritengono quest’ultimo, come emerge da dichiarazioni recenti, poco affidabile. Allora va compreso questo nodo, ricordando che l’alta sicurezza è un ‘circuito’ e non un ‘regime’ e i due termini non sono e non devono essere sinonimi. Già sul 41 bis è spesso intervenuta la Consulta e anche il Cpt si è espresso negativamente. Come si potrebbe peggiorare ancora di più la situazione? Non è possibile. Al contrario, andrebbe redatta una nuova circolare che tenga conto di tutti gli aspetti che la Corte costituzionale ha già censurato in quella - piuttosto parossistica - emanata nel 2017. Deve restare il principio che l’obiettivo è la non comunicazione con le organizzazioni criminali e non la maggiore afflizione. Tra le ipotesi a cui sta lavorando la Commissione antimafia c’è anche quella del ripristino del divieto eliminato nel 2022 - di concedere benefici penitenziari ai condannati previsti dalla norma salvo che nei casi di collaborazione con la giustizia. Ma come sarebbe possibile se la Corte Costituzionale ha bocciato l’ergastolo ostativo, benché con il primo decreto del Governo il detenuto dovrebbe comunque superare una “prova diabolica” per accedere alla liberazione condizionale? Non ho idea su come si voglia intervenire, ma resta fermo un principio. Se la Corte costituzionale censura una norma e chiama il Parlamento a legiferare in proposito e se, dopo un gran dibattere, il Parlamento interviene rivedendo quel principio, anche se piega fino all’estremo limite il confine posto dalla Corte, non è pensabile né corretto sul piano ordinamentale ritornare indietro. Non è il gioco dell’oca: è tema che riguarda la civiltà giuridica e democratica e non credo che il governo abbia intenzione di aggredirlo. Caro dottor Ardita, i mafiosi non c’entrano con i suicidi e le rivolte di Osservatorio carceri Ucpi Il Dubbio, 15 febbraio 2025 Abbiamo letto sul sito del Corriere della Sera un’intervista al Procuratore Aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, sui recenti arresti disposti dall’AG di Palermo, che avrebbero evidenziato l’uso indebito di telefonini in carcere. Senza entrare nel merito dell’indagine, ci preme intervenire su alcune affermazioni del magistrato. Il dottor Ardita sostiene che “col pretesto del sovraffollamento si è deciso di aprire le celle dei mafiosi, consentendo loro di controllare i penitenziari”, con un aumento di reati e suicidi. Inoltre, denuncia “circolari ministeriali e disposizioni che hanno favorito rivolte e la presenza mafiosa nelle carceri”. Ora, ci riesce difficile far finta di nulla rispetto alle sopra riportate frasi, anche perché, oltre a non essere suffragate, come troppo spesso accade, da dati certi, esse finiscono per alimentare una pericolosa disinformazione dell’opinione pubblica, indotta, così, a coltivare logiche di estrema inciviltà, condensate nelle aberranti frasi del “gettare la chiave”, del “marcire in carcere” o, come avvenuto di recente, a opera di un sottosegretario alquanto eccentrico, del “togliere il respiro ai detenuti”. Ma vediamo i dati. Il regime delle celle aperte è stato introdotto nel 2015 solo per le sezioni di Media Sicurezza, non per quelle di Alta Sicurezza dove sono detenuti i mafiosi. Tale misura rispondeva alla condanna della Cedu (sentenza Torreggiani) per il trattamento degradante dei detenuti. Con la pandemia, nel 2020 le celle sono state chiuse per motivi sanitari. Tuttavia, il Dap, nel 2022, ha reintrodotto una gestione più rigida, riducendo il regime aperto. I dati mostrano che, nel periodo 2013- 2017, le aggressioni agli agenti erano circa 450 all’anno. Nel 2023 sono salite a 1.760, e nel 2024 hanno raggiunto le 2.154. Paradossalmente, il picco si è registrato proprio nel ritorno al regime chiuso, mentre gli studi di Antigone evidenziano che la custodia aperta ha ridotto i conflitti. Quanto alle rivolte, il pensiero corre velocemente alla pagina più buia delle carceri italiane. Come ricorderanno i più, in concomitanza con la esplosione della pandemia da Covid 19, si sono registrati improvvise e violente rivolte negli istituti penitenziari. Nel marzo 2020, la paura del contagio e la sospensione dei colloqui scatenarono rivolte in 57 istituti, coinvolgendo 7.517 detenuti, con 13 morti: - 3 a Rieti, 1 a Bologna, 5 a Modena, - 4 trasferiti da Modena e deceduti ad Ascoli, Alessandria, Parma e Verona. All’epoca si diffuse la narrazione che la mafia avesse orchestrato i disordini, ma l’inchiesta della Commissione Lari ha escluso questa ipotesi. Le rivolte furono il risultato del sovraffollamento, della cattiva gestione sanitaria e del senso di abbandono. Inoltre, i detenuti di Alta Sicurezza non vi parteciparono e, in alcuni casi, cercarono di far rientrare i disordini. Veniamo, infine, ai suicidi in carcere. Affermare che l’impennata dei suicidi sia il segno di occupazione prepotente delle carceri da parte della criminalità mafiosa, a discapito dei diritti dei detenuti, appare smentita dall’analisi delle statistiche ufficiali. La rilevazione analitica fornita dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale ha segnalato come l’ 80% dei suicidi in carcere nel 2024 si sono verificati in circuiti e sezioni penitenziarie a celle chiuse o isolate, il 95% circa in istituti con elevati indici di sovraffollamento, in molti di essi non vi sono detenuti in Alta Sicurezza. Su una cosa ci sentiamo, tuttavia, in pieno accordo con il dottor Ardita, sull’assoluta incapacità di gestione del settore penitenziario e sul fallimento delle politiche praticate negli anni da tutti i governi, a prescindere dal colore, per il carcere. Non a caso da tempo sosteniamo l’assoluta urgenza di rivedere gli assetti istituzionali del Dap, troppo spesso appannaggio di magistrati fuori ruolo, specie del pubblico ministero, per affidarne la gestione a manager di alto profilo in grado di far camminare sulle proprie gambe la più grande azienda di Stato, realizzando, così, in pieno il dettato costituzionale del reinserimento sociale, anche produttivo, dei detenuti. Il vitto in carcere è una galleria dell’orrore. Cibo di pessima qualità e scarsa quantità di Gabriella Stramaccioni* Il Riformista, 15 febbraio 2025 Fra le varie problematiche che ho dovuto affrontare nel mio ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, c’è quella relativa al vitto e sopravvitto. È una questione significativa di come funzioni il sistema penale. Il vitto è rappresentato dai tre pasti principali che vengono distribuiti da parte dell’amministrazione penitenziaria alla popolazione detenuta. Il sopravvitto consiste in tutti quegli alimenti (autorizzati in apposita lista dall’amministrazione penitenziaria) che le persone ristrette possono acquistare a loro spese. Presentata così, la questione potrebbe sembrare chiara, ma analizzandola attentamente dal di dentro (e cioè dal carcere) mi sono subito resa conto che tanto chiara la questione non era. Il primo riscontro, a quella che già all’inizio mi sembrava una situazione opaca, è stato di informarmi su quanto il Dipartimento pagasse per il vitto giornaliero per ogni detenuto: 2,39 euro per colazione, pranzo e cena. Esattamente la quota con la quale la ditta che serviva il vitto a Rebibbia si era aggiudicato l’appalto. Una quota palesemente insufficiente per far fronte ad una alimentazione adeguata. Così, controllando le modalità di erogazione del sopravvitto, ho scoperto che la gestione di vitto e sopravvitto era allora riconducibile alla stessa ditta. Mi è stato a quel punto più chiaro capire i tanti reclami che avevo ricevuto dai detenuti in merito da una parte alla pessima qualità e alla scarsa quantità del vitto giornaliero, e dall’altra per l’elevato costo per acquistare i prodotti dal sopravvitto. Prezzi assolutamente esagerati per prodotti di pessima qualità. Pomodori, frutta, carne, formaggi, pagati a peso d’oro anche quando si trattava (per la maggior parte dei casi) di prodotti di scarto. Ho deciso di seguire questa vicenda che mi sembrava assurda ed ingiusta. La maggior parte degli interlocutori a cui mi sono rivolta mi diceva: “Ma funziona così da anni”; “Ma tanto lo sanno tutti ed il sistema non cambierà mai”. Non mi sono arresa e ho iniziato quella che non sapevo sarebbe diventata la mia battaglia solitaria per molti mesi. Ho iniziato a raccogliere i reclami, a controllare quotidianamente il vitto che veniva servito, a confrontarlo con le “tabelle vittuarie”, a fare le verifiche sul cibo acquistato. Ho analizzato le salsicce acquistate al prezzo di carne pregiata: erano piene di grasso e riempite di colorante, il pollo intero era senza ali (perché le ali venivano vendute a parte), le uova arrivavano sempre prossime alla scadenza, i limoni marci, i pomodorini in poltiglia, la frutta immangiabile. Nel frattempo la qualità del vitto che veniva distribuito era veramente scarsa e scadente: latte diluito con acqua, caffè fatto con i fondi, carne contenente altre sostanze. Una vera galleria dell’orrore. Ho raccolto tutto pazientemente grazie alla collaborazione di alcuni detenuti che non ne potevano più di subire questo stato di cose. Ho preparato un dossier molto documentato e ho consegnato un esposto alla Procura di Roma. Nel frattempo anche la Corte dei Conti del Lazio ha segnalato anomalie nella gara di appalto. Poi sono arrivate alcune interrogazioni parlamentari rivolte al Ministro della Giustizia (allora Marta Cartabia) che, in Senato, ha ammesso che era necessario modificare le gare di appalto per la fornitura del vitto e per garantire il sopravvitto. Per mia fortuna, l’esposto presentato in Procura è andato avanti e sono stata ascoltata come persona informata dei fatti da un bravissimo colonnello della Guardia di Finanza. Grazie alla sua attenzione e professionalità, riesco a ricostruire tanti passaggi e situazioni che porteranno ad un blitz (gennaio 2023) della Guardia di Finanza all’interno degli istituti penitenziari di Rebibbia per il sequestro degli alimenti predisposti per il vitto. Nel giugno 202z1vengono rinviati a giudizio i proprietari della ditta fornitrice di vitto e sopravvitto. A novembre 202z1 inizia il processo. In una recente interrogazione al Senato per la mancata costituzione parte civile al processo da parte del Ministero della Giustizia, il Ministro Nordio ha richiesto informazioni del procedimento alla Procura di Roma che ha così risposto: “All’esito di articolata indagine, consistita anche in attività tecniche che hanno permesso di appurare la costante sostituzione del cibo oggetto di fornitura con alimenti avariati o comunque non rispettosi delle indicazioni riportate nel capitolo tecnico di gara, è stata effettuata una ispezione presso i magazzini di Rebibbia con conseguente sequestro a sorpresa degli alimenti oggetto del servizio di vitto: le successive analisi hanno confermato appieno quanto sino a quel momento era stato oggetto di censura da parte del garante dei detenuti o ascoltato nelle conversazioni captate”. La parola “appieno” mi ripaga dell’impegno profuso e dell’isolamento subìto da parte di chi doveva invece tutelare il mio lavoro. *Ex Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma Una seconda chance per tutti i detenuti di Floriana Rullo Corriere della Sera, 15 febbraio 2025 La formazione professionale in carcere e l’inserimento lavorativo dentro e fuori le strutture. Le associazioni che mettono “in rete” carceri, istituzioni e imprese, perché “a guadagnarci sono tutti”. Una seconda chance per i detenuti che vogliono essere reinseriti nel mondo del lavoro. Progetti di rinascita per chi desidera trovare un’occupazione una volta lasciato il carcere. A Torino la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, attiva in ambito penale da circa mezzo secolo e guidata da Martino Zucco-Chinà, offre formazione professionale a più di 5mila persone dei dodici penitenziari del Piemonte. Dati alla mano, già il 40% di loro è stato inserito in percorsi lavorativi nelle aziende del territorio. Sono nel carcere circondariale Lorusso e Cutugno e nell’istituto penale minorile Ferrante Aporti, le ore di corso erogate complessivamente sono 4.900, 160 i detenuti coinvolti. A promuovere il reinserimento nel mondo del lavoro ci pensa anche l’associazione no profit nata nel 2022 Seconda Chance. “Entro nei ristoranti, nei bar, nei centri sportivi, contatto le aziende, i commercianti - racconta l’ideatrice nonché cronista giudiziaria di La7, Flavia Filippi -. Quando riesco a parlarci, ne convinco uno su 50. Se riesco a prenderli per mano e portarli con me in carcere, sento che è fatta: a quel punto non è mai successo che dicano di no. Anzi, se ne volevano uno, ne prendono due”. Tra gli altri, ha convinto McDonald’s a inserire due detenuti nella sede di Fossano che stanno finendo di scontare la pena nella casa di reclusione. “Il nostro compito è sensibilizzare gli imprenditori sulle ricadute positive, economiche e sociali dell’impiego di detenuti e mettere in rete i vari soggetti (carceri, istituzioni, imprese) che, insieme, possono dare una seconda possibilità ai detenuti”, spiega Claudia Polidoro, referente di Seconda Chance per il Piemonte. Così è accaduto anche a Villafalletto, sempre nel Cuneese, dove Egidio Fiandino, titolare di un’azienda agricola, ha assunto un ergastolano, detenuto a Saluzzo. “Non sono matto come qualcuno mi ha detto - racconta Fiandino. Ho fatto una cosa che sentivo di dover fare. Mi è capitata l’opportunità di scegliere questo ragazzo e non ci ho pensato un secondo”. Inserimenti che, ovviamente, partono dalla formazione che avviene nei penitenziari. Come il progetto di responsabilità sociale “Ricomincio da me”, che ha l’obiettivo di dare competenze tecniche che facilitino l’inserimento lavorativo. Anche i Comuni fanno la loro parte: succede a Montegrosso Grana dove l’amministrazione ha istituito un nuovo cantiere di 12 mesi per 25 ore settimanali per due persone sottoposte a misure restrittive. “Questi progetti rappresentano uno straordinario strumento di solidarietà e dignità umana - dice il sindaco Stefano Isaia -. Nessun isolamento e nessuna stigmatizzazione sociale, al contrario: la possibilità di un’esperienza formativa al servizio della collettività”. Nel carcere di Alessandria nel 2021 è stato realizzato un “luppoleto Galeotto”, interamente curato dai detenuti. Tra le birre proposte, la Pentita, da bere senza rimorso, la Rubentjna, nata da luppoli “rubati” a Torino e portati ad Alessandria, e la Sbirra, agrumata, “illegale non berla”. Tra gli esempi di reinserimento lavorativo non si possono non citare i tanti ristoranti e le mense gestite dai detenuti, a partire dal Gattabuia di Verbania, che si autodefinisce un “progetto di economia carceraria”. L’Anm incontra Meloni: in ballo il futuro della riforma di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2025 Il vertice è previsto una settimana dopo lo sciopero del 27 febbraio, che potrebbe essere boicottato dai giovani magistrati. “Siamo lieti di poter incontrare il presidente del Consiglio il prossimo 5 marzo. A lei esporremo le ragioni della radicale contrarietà alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e riteniamo che la salvaguardia della giurisdizione sia una assoluta emergenza per l’intera comunità nazionale. Chiediamo inoltre di incontrare, appena possibile, anche i gruppi parlamentari di maggioranza e opposizione in modo da esporre con chiarezza ed esaustività a tutte le forze il nostro punto di vista”. Così una nota della Giunta esecutiva centrale dell’Anm, che nello stesso giorno ha anche chiesto un “incontro conoscitivo” al Capo dello Stato per presentare, come di prassi, i nuovi vertici del “sindacato” delle toghe. Dunque l’incontro con la premier, a cui prenderanno molto probabilmente parte anche il ministro Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano, arriverà esattamente sette giorni dopo lo sciopero proclamato dall’Anm contro la riforma della separazione delle carriere. Se l’adesione all’astensione sarà quella auspicata, ossia superiore al 70 per cento, l’Anm sarà sicuramente più forte nel presentarsi all’incontro; in caso contrario la sua posizione risulterebbe indebolita. Tuttavia gli animi non sono molto sereni a pochi giorni dagli eventi che ogni giunta locale organizzerà sui territori. Innanzitutto un gruppo di giovani magistrati di tutta Italia non iscritti a nessuna corrente sarebbe pronto a non incrociare le braccia il 27 febbraio e a non prendere parte più a nessuna iniziativa futura relativa alla campagna referendaria, perché rimasto deluso per come sono stati scelti i nuovi vertici dell’Anm. Il malumore deriverebbe dal fatto che i criteri di scelta non sarebbero stati quelli democratici dei primi eletti in ogni gruppo ma si sarebbe verificata la solita spartizione correntizia, senza poi pure fornire alcuna spiegazione sul risultato raggiunto. Insomma il gesto di rifiuto dello sciopero sarebbe solo la prima manifestazione di una forte disaffezione verso l’Anm, che era stata superata da poco, quando tutti i magistrati sotto la vecchia presidenza si erano ritrovati uniti contro la “madre di tutte le riforme”. Altro timore è il possibile sabotaggio del 27 da parte di un gruppo di Magistratura indipendente, come già anticipato nei giorni scorsi. Che ci sia una spaccatura all’interno del gruppo conservatore lo testimonierebbe anche il fatto che in Csm ci sarebbero posizioni diverse sulla scelta del nuovo procuratore generale di Cassazione: una crepa che si potrebbe riverberare anche in vista dell’astensione. Inoltre alcuni magistrati hanno mostrato preoccupazione su quello che il neo presidente Parodi potrà dire nell’incontro a Palazzo Chigi. Questo non solo per le sbavature iniziali da quando è stato eletto, ma anche per la frase, ancora non smentita nel momento in cui andiamo in stampa, che avrebbe pronunciato in un dibattito di due giorni fa a Torino, per cui “ci farebbero comodo in questo periodo due magistrati morti”. Parodi avrebbe poi tentato di spiegare il suo pensiero, ma intanto era già sceso il gelo in sala e il giorno dopo anche nelle chat dei gruppi dopo aver letto l’articolo de “La Stampa di Torino”. Ma poi, tutti continuano a domandarsi: a cosa serviranno tutti questi incontri se fino ad ora la narrazione è stata quella di un “no” netto alla riforma? Tra l’altro, ieri la commissione Affari Costituzionali del Senato ha stilato il calendario delle audizioni e il neo presidente dovrebbe essere audito il prossimo 20 febbraio. Come ribadisce al Dubbio il segretario generale, Rocco Maruotti, “noi non abbiamo un mandato a trattare. Abbiamo già espresso un giudizio totalmente negativo su ogni aspetto della riforma, nel suo complesso. Come giunta non abbiamo un potere decisionale ma solo quello di dare esecuzione a quanto sancito dai documenti del Congresso di Palermo e dell’assemblea del 15 dicembre”. E però dalla maggioranza stanno arrivando spazi di apertura per una mediazione. Ultima quella del capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Galeazzo Bignami, che due giorni fa in una intervista al “Giorno” ha auspicato un “confronto proficuo” sul tema del sorteggio nei due Csm. Sulla tale possibilità la presidente di Unicost, Rosella Marro, replica: “Non siamo affatto disponibili a questo tipo di trattative, anche perché stiamo parlando di una riforma costituzionale. Il confronto dovrà riguardare tutti gli aspetti ampiamente critici della riforma, dalla previsione del doppio Cam alla struttura dell’Alta Corte, e non di certo riguardare solo il sistema di individuazione dei consiglieri che pure risulta inaccettabile (neanche l’amministratore di condominio si estrae a sorte tra i condomini). Quindi siamo disponibili ad un confronto che riguardi tutti gli aspetti della riforma. Da parte nostra noi rimaniamo fermi a quanto stabilito a Palermo e a dicembre a Roma nell’assemblea. Se qualcuno - e mi riferisco a certa stampa o esponenti della maggioranza - pensano di avvelenare i pozzi e dividere la magistratura con queste proposte, noi non cadremo nel tranello”. In sintesi: Area, Md, Unicost restano su posizione barricadere. E invece Mi? Dl Caivano, spaccio: con la recidiva scatta l’aggravante della “non occasionalità” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2025 La Cassazione, sentenza 5842/2025, chiarisce che l’aggravante ricorre nel caso in cui l’agente, al momento del fatto, abbia già riportato almeno un precedente specifico. Linea dura della Cassazione nella interpretazione del cd. decreto Caivano per chi reitera il reato di spaccio di lieve entità. La Terza Sezione penale, sentenza n. 5842/2025, ha affermato che l’elemento “specializzante” della “non occasionalità”, richiesto per l’integrazione dell’ipotesi circostanziata di cui all’articolo 73, co. 5, secondo periodo, Dpr ottobre 1990, n. 309, ricorre nel caso in cui l’agente, al momento del fatto, abbia già riportato almeno un precedente specifico, sicché la circostanza deve ritenersi contestata in fatto ove sia contestata la recidiva specifica. Confermata dunque la condanna alla pena di due anni e otto mesi di reclusione comminata al ricorrente dalla Corte di appello di Roma per traffico di stupefacenti e resistenza a pubblico ufficiale. Nel ricorrere in Cassazione, l’imputato aveva contestato, tra l’altro, il fatto che l’aggravante della non occasionalità che non gli era stata contestata. La Suprema corte ricorda che l’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990 prevede il reato di “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope”; il comma 5, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce con reclusione da sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329 “chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità”. Per effetto delle modifiche apportate dalla legge 13 novembre 2023, n. 159, di conversione dell’articolo 4, comma 3, Dl 15 settembre 2023, n. 123 (cd. “decreto Caivano”), al comma 5 è stato aggiunto un secondo periodo, a tenore del quale “chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità”. La Suprema corte spiega che si tratta di una “peculiare ipotesi circostanziale della fattispecie base”, che si differenzia “per l’elemento specializzante della “non occasionalità” della condotta. L’effetto sul terreno sanzionatorio non però è l’aumento del massimo della pena edittale - che coincide con quello comminato dall’ipotesi base -, benì l’innalzamento del minimo, con riferimento sia alla pena detentiva, sia alla pena pecuniaria. “Quanto, poi, all’elemento specializzante - ossia al fatto che la condotta non deve essere occasionale - deve ritenersi che esso sia integrato allorquando l’agente, al momento del fatto, abbia già riportato almeno un precedente specifico”. E ciò argomenta la Corte, si desume, in primo luogo, dal significato letterale della “non occasionalità”: “se è occasionale la condotta che si è verificata una sola volta, per converso non occasionale è la condotta che si è realizzata più di una volta, e, quindi, almeno due” (ipotesi diversa dalla “abitualità”, che ha carattere “più pregnante”, per integrare la quale è necessario che l’agente abbia già commesso, in precedenza, almeno due illeciti). E allora, tornando al caso di specie, per la Cassazione: se è vero che nell’imputazione non vi è un esplicito riferimento all’articolo, 73, co. 5, secondo periodo, Dpr n. 309 del 1990 - cioè all’ipotesi aggravata dal Dl Caivano (ndr) -, nondimeno deve ritenersi che, in fatto, sia stata contestata la non occasionalità della condotta, agevolmente desumibile dalla espressa contestazione della recidiva specifica infraquinquennale: il che sta evidentemente a significare che l’agente aveva già riportato una condanna definitiva per la medesima violazione e, che, quindi, il fatto, oggetto di contestazione, non è “occasionale”. La Corte di merito ha così dato peso al “recentissimo” precedente per spaccio (commesso il 20 dicembre 2022) in relazione al quale l’imputato aveva riportato la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità; affermando “l’inefficacia dissuasiva di tale pena, che, lungi dal favorire il reinserimento sociale del condannato, è stata, invece, interpretata da costui come una sorta di impunità, tanto che l’imputato ha commesso un nuovo delitto della stessa specie a brevissima distanza di tempo”. Riguardo, infine, la resistenza a pubblico ufficiale, la Cassazione afferma che integra l’elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che, per sfuggire all’intervento delle forze dell’ordine, si dia alla fuga, alla guida di un’autovettura, ponendo deliberatamente in pericolo l’incolumità personale degli altri utenti della strada (n. 41408), tra cui il personale delle forze dell’ordine. Nel caso affrontato, l’imputato, alla guida di un ciclomotore, “per sottrarsi al controllo, tentando di passare in un varco tra il veicolo dei militari e un’autovettura in sosta, ha impattato contro lo sportello dell’auto di servizio: condotta evidentemente pericolosa per l’incolumità fisica degli occupanti”. Violenza domestica, la Cedu condanna l’Italia sul caso Buscemi: una vittoria per tutte le donne di Nadia Somma Caiati* Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2025 È arrivata un’altra condanna per l’Italia da parte della Cedu in materia di violenza domestica per violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti umani: “Nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”. Le autorità italiane - secondo i giudici di Bruxelles - non hanno agito con sufficiente tempestività e ragionevole diligenza dimostrando incapacità nel condurre le indagini e non hanno garantito che l’autore del reato fosse perseguito e punito senza indebiti ritardi. Tantomeno tennero conto del problema specifico della violenza domestica e di conseguenza non fornirono una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati dalla ricorrente, agendo “in spregio al loro obbligo di garantire che l’accusato di minacce e molestie fosse processato rapidamente e non potesse quindi beneficiare della prescrizione”. Il ricorso è stato presentato da Patrizia Pagliarone e curato dall’avvocato Nicola Pignatelli del Foro di Pisa con la collaborazione del professore Giuseppe Campanelli. Nel 2018, il caso ebbe molta risonanza mediatica e politica perché coinvolse l’attore Andrea Buscemi, candidato con la Lega e nominato assessore nel Comune di Pisa mentre era a processo per stalking. Vi furono dure prese di posizione contro la giunta comunale, la Casa delle donne di Pisa organizzò manifestazioni, sit-in e lanciò una petizione chiedendo la revoca dell’incarico all’assessore (poi dimesso dal sindaco). Proteste alle quali Buscemi rispose querelando Carla Pochini, all’epoca presidente della Casa delle donne. Venne assolta per diritto di critica. La vicenda si chiuse politicamente ma processualmente si trascinò per anni. Patrizia Pagliarone presentò denuncia per stalking nel 2009 ma con sentenza dell’8 gennaio 2016, il Tribunale di Pisa assolse Buscemi. La Procura fece ricorso e, il 30 maggio del 2017, la Corte d’appello di Firenze assolse Andrea Buscemi per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge di stalking (ossia il 25 febbraio 2009) e dichiarò prescritti i fatti commessi dopo tale data. I giudici di secondo grado osservarono però che la fase investigativa e il processo davanti al tribunale erano durati così a lungo che il periodo di prescrizione del reato era completamente scaduto ma condannò Buscemi a risarcire la parte offesa. ?La Cassazione nel giugno 2019, nove anni e mezzo dopo la presentazione della denuncia, confermò la prescrizione del reato ma annullò la sentenza per quanto riguardava la responsabilità dell’imputato perché non adeguatamente motivata, in quanto il procedimento non era stato riaperto all’udienza di appello. La causa venne rinviata al tribunale civile. Fu un iter complesso e travagliato che causò non poca sofferenza a Patrizia Pagliarone e l’amarezza di non aver ottenuto giustizia, fino ad oggi. Queste sono le sue parole: “Questa sentenza mi restituisce un frammento di gioia e riaccende in me una scintilla di fiducia nella Giustizia, ma quanta sofferenza ho dovuto sopportare! Questa vicenda mi ha lacerata dentro e fuori. Il mio corpo porta i segni di questa battaglia, la mia mente ne è ancora prigioniera, anche perché dopo più di 15 anni dalla denuncia, l’incubo non è ancora finito: il processo principale non è ancora terminato, a causa dell’ennesimo ricorso in Cassazione di chi è stato condannato al risarcimento dei danni. Eppure, se c’è una luce in fondo a questo tunnel, è la speranza che la mia storia possa servire a qualcosa. Se questa sentenza può contribuire a cambiare qualcosa, a migliorare la situazione in Italia, a dare forza ad altre donne che subiscono ciò che ho vissuto io, allora almeno il mio dolore non sarà stato vano.” La Cedu nel condannare l’Italia ha ribadito che si aspetta severità dagli Stati quando perseguono i responsabili della violenza domestica, perché la posta in gioco non è la questione della responsabilità penale individuale degli autori ma anche gli attacchi all’integrità fisica e morale degli individui. Ogni Stato “ha il dovere combattere il senso di impunità di cui gli aggressori possono pensare di beneficiare e mantenere la fiducia del pubblico nello Stato di diritto e il suo sostegno, in modo da evitare qualsiasi apparenza di tolleranza o collusione da parte delle autorità nei confronti degli atti di violenza”. “L’accoglimento del nostro ricorso e la condanna dell’Italia dimostra - è il commento dell’avvocato Pignatelli - come il sistema della Cedu costituisca un baluardo effettivo, uno strumento di chiusura, della tutela dei diritti fondamentali e in particolar modo dei diritti dei soggetti vulnerabili. La sentenza, al di là del caso singolo, afferma come la inadeguatezza, normativa e giurisdizionale, di un ordinamento nei modi e nei tempi di reazione nei confronti delle violenze domestiche si risolva in una grave violazione della Convenzione europea. Una vittoria per tutte le donne. Un obbligo per tutti a proseguire in questo percorso.” *Responsabile Centro antiviolenza Demetra Firenze. Detenuto si impicca nel bagno della cella nel carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 febbraio 2025 Suicidio nel carcere di Sollicciano a Firenze, a distanza di un giorno dal suicidio nel carcere di Prato. A perdere la vita è stato un detenuto romeno di 39 anni che era ancora in attesa di giudizio. L’uomo si è impiccato con un laccio rudimentale all’interno del bagno della sua cella, che aveva chiuso dall’interno. Ad accorgersi del suicidio, sia il compagno di cella che gli agenti penitenziari. Inutili sono stati i soccorsi. “Quello successo stamani è un’ennesima triste pagina dell’istituto fiorentino” - ha commentato Antonio Mautone, segretario generale territoriale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Firenze. “Sono anni che denunciamo lo stato di totale abbandono dell’istituto sia da un punto strutturale che da un punto di vista assistenziale. È necessario intervenire immediatamente su una situazione ignorata da troppo tempo dalle istituzioni che aggrava ancora di più le condizioni di vita dei detenuti e degli stessi operatori che quotidianamente garantiscono l’ordine e la sicurezza all’interno della struttura. Speriamo vivamente che quello successo stamani sia l’ultimo triste evento da registrare nella struttura fiorentina poiché siamo fortemente convinti che all’interno delle carceri la vita debba essere tutelata e non persa”. Proprio venerdì, nel corso del convegno “Il carcere: una istituzione al collasso”, è arrivato l’appello di Comune e Diocesi ad avere una direzione stabile nel penitenziario fiorentino, dove la direttrice Antonella Tuoni non ha ricevuto il rinnovo dell’incarico e dove si alternano direttori provvisori. Secondo l’assessore al sociale Nicola Paulesu, “la direzione stabile che non c’è è l’esempio di quello che significa non avere la possibilità di gestire una situazione e costruire percorsi e progetti. Sollicciano è parte della nostra città e se non ha una guida, se quindi l’amministrazione comunale non ha interlocutori, allora costruire dei percorsi è difficile, così come è difficile portare avanti progetti di rieducazione e reinserimento in uscita dal carcere”. Per Paulesu, in ogni caso, “Sollicciano è una struttura che dovrebbe chiudere all’istante per le condizioni strutturali in cui versa, i detenuti dovrebbero essere portati da altre parti e dovrebbero avviarsi dei lavori radicali di ristrutturazione”. Secondo l’arcivescovo Gherardo Gambelli, “se c’è un progetto allora sarei favorevole alla chiusura altrimenti non avrebbe senso”, mentre sul caso della direzione mancante ha aggiunto: “La cosa più urgente è che ci sia una presenza capace di assicurare la garanzia di poter collaborare con le istituzioni presenti nel carcere”. Prato. Detenuto si uccide nel carcere della Dogaia inalando gas dalla bomboletta del fornellino notiziediprato.it, 15 febbraio 2025 La denuncia della Fp Cgil: “Non vorremmo fare anche quest’anno la triste conta delle vittime”. Entrambi gli istituti sono privi di direttore effettivo. Un detenuto marocchino di 32 anni si è suicidato in una cella del reparto di media sicurezza nel carcere della Dogaia a Prato. La scoperta è stata fatta nel pomeriggio di ieri, venerdì 14 febbraio. Inutili i soccorsi: quando i medici sono intervenuti, per l’uomo non c’era già più niente da fare. Il 32enne si è tolto la vita inalando il gas del fornellino che usava in cella. È il primo suicidio alla Dogaia dall’inizio dell’anno. È stata disposta l’autopsia per fare piena luce sull’accaduto mentre i rilievi sono stati affidati alla polizia scientifica. Un altro suicidio, stavolta nel carcere di Sollicciano, è stato invece scoperto all’alba di oggi, sabato 15 febbraio. Vittima un 38enne albanese che si è impiccato nella propria cella. Anche in questo caso non c’è stata alcuna possibilità di intervento: quando è stato dato l’allarme il detenuto era già morto. “In poche ore due suicidi - il commento di Giulio Riccio, Fp Cgil - due morti in due istituti di primissimo piano ed entrambi privi di un direttore effettivo. La situazione non accenna a migliorare, semmai il contrario. Assistere al degrado è inaccettabile. Non vorremmo fare anche quest’anno la triste conta delle vittime. È urgente un intervento che ristabilisca condizioni di lavoro e di vita umane e dignitose”. Parole cui fanno eco quelle di Donato Nolè, coordinatore nazionale sempre della Fp Cgil polizia penitenziaria: “Ci chiediamo: cos’altro deve accadere per garantire stabilità a questi istituti? - dice -. Perché non viene nominato un direttore titolare? Perché gli istituti più complessi sono privi di dirigenti, funzionari, ispettori e sovrintendenti della polizia penitenziaria? Esprimiamo la nostra massima solidarietà al personale tutto, che nonostante il grave stato di abbandono continua a garantire servizi e sicurezza, spesso a discapito della propria salute e in condizioni di lavoro inaccettabili. Chiediamo un intervento immediato del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per porre fine a questa emergenza e restituire dignità al sistema carcerario toscano”. Piacenza. Morto suicida in carcere, la compagna: “Lo hanno lasciato morire” di Filippo Fiorini La Stampa, 15 febbraio 2025 Wajdi Hella si è ucciso il 30 dicembre all’1,40. 10 mesi scontati e due anni ancora da fare, per spaccio e resistenza a pubblico ufficiale. Da 28 giorni era stato trasferito dal carcere di Ferrara a quello di Piacenza. Aveva 27 anni. La settimana prossima, il 20 febbraio, l’avvocato Luca Romagnoli lo avrebbe accompagnato davanti al giudice di sorveglianza di Bologna, per sapere se accoglieva la sua istanza di affidamento in prova: una cooperativa della provincia di Pisa, aveva accettato di farlo lavorare con loro. Dal giorno della sua morte, circolano strane voci. La Polizia penitenziaria avrebbe saputo in anticipo che lui stava per impiccarsi, ma per qualche motivo lo ha lasciato fare. La procura ha bloccato la restituzione della salma e chiesto l’autopsia, i cui risultati non sono ancora stati scritti. La sua compagna, Giuliana Cugilli, è convinta che “che lui non volesse affatto uccidersi”, ma “compiere un atto dimostrativo per avere migliori condizioni detentive” e che “le guardie lo abbiano lasciato morire”. Lo dice perché lo aveva già fatto in passato e perché, da quando era a Piacenza, le raccontava di essere entrato in scontro con il personale del carcere. Giuliana, quando ha parlato l’ultima volta con Wajid? “Ci siamo sentiti il venerdì sera prima che morisse, il 27 dicembre. Mi ha chiesto di andarlo a visitare in carcere il giorno dopo. Io abito a Lucca, non sono vicina. All’ingresso del penitenziario, però non mi hanno detto che non avevo l’autorizzazione per entrare. A quel punto sono rimasta una ventina di minuti fuori dal cancello aspettando una sua telefonata, la chiamata di qualcuno, che mi dicesse che potevo vederlo, ma non è successo”. Questa è una prassi normale? “Il 2 dicembre è stato trasferito da Ferrara a Piacenza. Quando era a Ferrara, ci sentivamo regolarmente tutti i giorni, anche con le videochiamate. A Piacenza, invece, è stata concessa solo una telefonata a settimana, perché voleva sentire me e nostro figlio”. Aveva avuto sentore che Whajdi potesse commettere un gesto del genere? “No, al contrario, sono sicura che non si volesse ammazzare. Quando abbiamo parlato, venerdì, ci ha salutato normalmente, dicendo che si sarebbero risentiti. Questo non è un suicidio, ma un atto dimostrativo finito in tragedia”. Cosa glielo fa pensare? “Io non posso accusare nessuno, ma conoscevo bene Wajdi. In carcere ha sempre fatto questo tipo cose. Io ero contraria, gli dicevo di smetterla, avevo paura che si facesse male seriamente. Temevo che si trovasse con delle persone come quelle che gli sono capitate la notte in cui si è impiccato, che lo lasciassero morire. Sono sicura che lui abbia voluto simulare il tentativo di suicidio, perché sapeva che c’era qualcuno nei pressi che poteva dargli una mano, altrimenti non avrebbe assolutamente corso il rischio. Noi il 20 febbraio avevamo un’udienza. Se il giudice lo avesse permesso, sarebbe uscito dal carcere in affidamento, con un lavoro. Non si è mai voluto ammazzare. Non vedeva l’ora di tornare a casa. Se ha fatto quella cosa, è perché sapeva che c’erano le guardie lì vicino. Essendo in isolamento, doveva essere guardato a vista. Nel corso della sua detenzione, ho sempre parlato con la psichiatra che lo seguiva nel primo carcere, cioè quello di Lucca. Lì gli era stato assegnato un alto rischio di suicidio. A Ferrara il livello è sceso a medio. A Piacenza, dopo neanche un mese che era lì, gli è stato tolto”. Come mai era in isolamento? “Perché non voleva stare con gli altri detenuti. Mesi addietro, mi aveva detto, Giuliana, prima di uscire voglio stare un paio di mesi senza toccare nessun medicinale. C’è un bambino di mezzo e voglio stare bene con voi due, essere lucido. Nelle ultime telefonate, mi diceva di non voler stare nel padiglione generale, perché è pieno di tossici. Gira il Subutex, gira di tutto. Lui non ci voleva andare per non essere tentato e avere una ricaduta. In carcere è facile utilizzare quelle cose, per far passare la giornata. E per questo mi diceva che le guardie lo ricattavano. Gli dicevano che se non si fosse convinto ad andare con gli altri, non gli avrebbero più fatto incontrare noi famigliari. Gli avevano anche tolto la televisione dalla cella”. Intende dire che lo volevano punire perché si rifiutava di stare con gli altri detenuti? “Esattamente”. Da quanto tempo era in carcere e quanto gli restava per uscire? “Era dentro da 9 mesi e mezzo e per finire di scontare la pena, ci sarebbero voluti altri due anni. Però, il 20 febbraio sarebbe uscito in prova. Io mi ero impegnata ed ero riuscita a fargli avere un contratto di lavoro, con una cooperativa. Me lo aveva chiesto lui come favore. Non mi ha mai dato la sensazione di volersi ammazzare”. Palermo. La morte di Patricia Nike arriva in Parlamento grazie a Ilaria Cucchi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2025 La foto è lì, a ricordare un ultimo gesto di umanità in un sistema che sembra averla dimenticata. Patricia Nike, 54 anni, nigeriana, malata e fragile, piange disperata tra le braccia di un’agente penitenziaria durante la visita di Papa Francesco al carcere di Rebibbia nel marzo 2024. Il Pontefice le accarezza il volto, promettendo preghiere. Nove mesi dopo, il 12 gennaio 2025, Patricia muore sola in una cella del carcere Pagliarelli di Palermo, dopo un trasferimento inspiegabile e una sequenza di negligenze che oggi la senatrice Ilaria Cucchi (Alleanza verdi e sinistra) cerca di portare alla luce con un’interrogazione parlamentare indirizzata ai ministri della Giustizia e della Sanità. Il caso, ricordiamo, è stato sollevato da Claudio Bottan, autore della rivista Voci dentro fondata da Francesco Lo Piccolo. Come emerge dal documento reperito dalla senatrice Cucchi, Patricia Nike era affetta da Hiv, epatite B e C, linfoadenomegalie diffuse e necessitava di un deambulatore per muoversi. Nonostante ciò, l’8 gennaio 2025 viene trasferita da Rebibbia a Palermo, in ambulanza, con la motivazione ufficiale di “deflazionamento” del carcere romano, gravemente sovraffollato. La direzione di Rebibbia aveva assicurato che la donna, pur con patologie croniche, fosse in condizioni di viaggiare. A Palermo, però, la realtà si rivela ben diversa: secondo il responsabile sanitario del Pagliarelli, Patricia era arrivata in condizioni critiche, al punto da richiedere accertamenti urgenti. Il 9 gennaio, appena un giorno dopo l’arrivo, viene sedata con Valium dopo una crisi di agitazione psicomotoria. Tre giorni dopo, il 12 gennaio, muore. A Palermo non aveva familiari, né assistenza adeguata: una compagna di cella era stata incaricata di aiutarla, ma le sue condizioni, già compromesse, non hanno retto allo stress del trasferimento e alla carenza di cure. L’interrogazione della senatrice Cucchi solleva interrogativi scomodi. Perché trasferire una donna così malata in un carcere siciliano anch’esso sovraffollato (1.400 detenuti su 1.000 posti), privandola del resto di una “rete affettiva”? Perché la cartella clinica non è stata trasmessa nonostante le richieste? Perché le relazioni sanitarie di Rebibbia e Palermo sono in netto contrasto? La senatrice chiede inoltre se sia stata eseguita un’autopsia, dove sia stata sepolta la donna e quali iniziative i ministri intendano adottare per verificare le responsabilità. Ma la questione va oltre il singolo caso: “Quali azioni concrete verranno intraprese per superare il sovraffollamento e garantire il diritto alla salute dei detenuti?”, si legge nell’interrogazione. La vicenda di Patricia non è isolata. Il carcere italiano è un “buco nero” per i detenuti fragili: malati cronici, tossicodipendenti, stranieri senza permesso di soggiorno. Persone che, come Patricia, non dovrebbero essere in carcere, ma in strutture sanitarie. Il trasferimento da Rebibbia a Palermo sembra rientrare in una logica di “spostamento del problema”, aggravata da dinamiche opache. A novembre 2024, la direttrice del Pagliarelli aveva già lanciato l’allarme sul sovraffollamento, mentre Rebibbia procedeva a trasferimenti per lavori di ristrutturazione. Intanto, la richiesta di sospensione della pena per Patricia - avanzata mesi prima per consentirle cure adeguate - era stata respinta con la motivazione che Rebibbia potesse assisterla. Una decisione che oggi appare grottesca. “La trasparenza non è una virtù dell’istituzione penitenziaria”, ha scritto Bottan su Voci Dentro. La morte di Patricia, infatti, non è stata classificata come “evento critico” dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, quasi fosse un incidente di percorso. Senza il lavoro di Voci dentro e l’interrogazione della Cucchi, la sua storia sarebbe rimasta sepolta nel silenzio. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, non usa mezzi termini: “Sono delitti di Stato”. Il riferimento è a un sistema che, per carenza di personale, fondi e volontà politica, condanna i detenuti più deboli a una morte lenta. Come il caso del detenuto anziano di Rebibbia a cui veniva negata la chemioterapia per mancanza di scorte, o del giovane con tumore alla vescica abbandonato a sé stesso. L’interrogazione della senatrice Cucchi non è solo una richiesta di verità, ma un atto d’accusa verso un sistema incapace di proteggere i diritti fondamentali. Le domande ai ministri sono precise. Perché non si è tenuto conto delle condizioni di salute di Patricia prima del trasferimento? Come giustificare lo spostamento in un carcere altrettanto sovraffollato? Perché non è stata fornita la cartella clinica? Quali iniziative verranno prese per evitare altre morti simili? La senatrice chiede anche l’autopsia (ancora non eseguita) e informazioni sulla sepoltura, dettagli che potrebbero chiarire le cause del decesso. Ma il cuore della questione resta il sovraffollamento carcerario, definito dalla stessa Cucchi “una violazione sistematica dei diritti umani”. Modena. Detenuto morto al Sant’Anna, ci sono tre indagati per omicidio colposo sulpanaro.net, 15 febbraio 2025 La Procura di Modena ha aperto un fascicolo per omicidio colposo per far luce sulla morte, avvenuta lo scorso 3 febbraio al carcere di Sant’Anna, del 27enne Mohamed Doubali. Il giovane marocchino venne trovato senza vita alla mattina, probabilmente per un’ingestione eccessiva di farmaci. Come riporta la stampa locale, l’uomo aveva una normale prescrizione di farmaci, essendo in cura presso il SerD di Modena. Aveva problemi di droga, ma era seguito anche dal centro per la salute mentale. Il 29 gennaio era stato visto da uno psicologo e, dopo questa visita, gli era stato tolto il rischio suicidario lieve che aveva in precedenza. Poi, il 3 febbraio è stato rinvenuto senza vita. Tre gli indagati dal pm Paola Campilongo: due medici e uno psicologo in servizio nel penitenziario. Lunedì 17 febbraio è stato affidato l’incarico al medico legale di effettuare l’autopsia che dovrebbe fare luce sulla morte. L’indagine è un atto dovuto da parte della Procura, per permettere gli esami necessari a chiarire le circostanze del decesso. Bologna. È stato confermato il trasferimento di minori al carcere della Dozza bolognatoday.it, 15 febbraio 2025 L’assessora comunale Matilde Madrid: “Una decisione sopra la testa degli enti territoriali”. Una decisione “sopra la testa degli enti territoriali” e che “a questo punto pare inderogabile e non ritirabile”. L’assessora al Welfare del Comune di Bologna Matilde Madrid accoglie così la decisione di trasferire una cinquantina di detenuti provenienti da istituti minorili al carcere della Dozza. Questa sarebbe una novità in tutto e per tutto, visto che il penitenziario bolognese non aveva mai accolto detenuti minorenni. Il condizionale è d’obbligo, visto che non è ancora chiaro se i reclusi saranno effettivamente minori di 18 anni o solamente provenienti da istituti minorili. Attualmente, infatti, la carcerazione in un istituto di questo tipo è possibile fino all’età di 25 anni. Ciò che è certo è che il trasferimento si farà, anche se sia la Regione Emilia-Romagna che il Comune di Bologna hanno lamentato poca trasparenza da parte del ministero della Giustizia, tanto che l’assessora regionale al Welfare Isabella Conti nei giorni scorsi aveva scritto una lettera al ministro Nordio per chiedere delucidazioni. Conti, nel testo, diceva di aver appreso della notizia solamente attraverso la stampa. Una cosa simile la dice oggi Matilde Madrid, chiamata ad aggiornare il Consiglio comunale sulla vicenda. Madrid, come scrive la Dire, di fatto ha confermato l’operazione: “Per noi fino a qualche ora fa era una ipotesi, perché nessuno ci aveva ufficialmente detto nulla”. Nella giornata di ieri, invece, a Palazzo d’Accursio è arrivata una nota del capo dipartimento della giustizia minorile, che però ha rassicurato l’amministrazione sulla “temporaneità” dell’operazione. Nel testo veniva annunciato anche un tavolo tecnico a cui il Comune, per bocca dell’assessora, ha già detto che parteciperà. Sul trasferimento si apprendono ulteriori dettagli. La sezione che ospiterà i detenuti provenienti da istituti minorili oggi ospita un centinaio di persone: la sezione sarà svuotata per accogliere i cinquanta giovani in arrivo alla Dozza, uno per cella. Ma oltre ai dubbi in merito all’opportunità di trasferire ragazzi così giovani all’interno di un penitenziario per adulti e sull’impatto che avrà sul loro percorso di vita, le perplessità rimangono anche sulle modalità con cui Roma ha lavorato: “È una vergogna che lavorassero da nove mesi a questa operazione e che i nostri garanti abbiano appreso la notizia da Facebook” commenta Antonella Di Pietro, consigliera dem a Palazzo d’Accursio che aveva posto la domanda all’assessora Madrid. Napoli. Detenuti all’Università, il procuratore generale agli imprenditori: “È ora di farli lavorare” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 15 febbraio 2025 Lo aveva spiegato nel suo primo discorso dopo la nomina, ci era tornato poi in occasione dell’intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Le carceri rappresentano l’umanità dolente che interpella la coscienza di tutti noi, sia come magistrati sia come cittadini, e si deve fare di più perché non ci sia solo la realizzazione della pena ma anche l’umanità”. Parole cariche di significato, quelle del procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli. Alle parole seguono i fatti: dopo Nisida, Aldo Policastro ha voluto visitare le “aree trattamentali” dell’Istituto penitenziario di Secondigliano, consapevole del fatto che la giustizia giusta è, sì, quella che condanna i colpevoli, ma lo è due volte quando concorre ad offrire un’opportunità ai detenuti. Una visita lunga e approfondita, con al fianco la direttrice della struttura Giulia Russo. “Spesso - spiega Policastro al Mattino - quando si parla di carcere lo si fa in termini negativi, invece va prestata attenzione anche a quanto di positivo c’è e va apprezzato. Ecco, è il caso di Secondigliano”. Il Pg si riferisce ai percorsi formativi che garantiscono ai detenuti competenza lavorativa, preparazione professionale e per ciò stesso opportunità concrete di sbocchi lavorativi che - a fine pena - saranno utili al reinserimento nel tessuto sociale. “Ho potuto vedere come si lavora nei laboratori della media e alta sicurezza, dal padiglione “Mediterraneo” allo “Ionio” - prosegue l’alto magistrato - così come al polo universitario. Ho incontrato un ragazzo che sta per laurearsi in Scienze Politiche con una bella tesi sul potere; sono rimasto colpito dalla grande manualità di chi segue i corsi di sartoria (che produce anche toghe e abiti talari, ndr), di falegnameria, dalle capacità degli ospiti della scuola di fabbro, edile, elettricista. C’è persino un laboratorio di odontotecnica, e poi i corsi di botanica e agronomia, informatica. Occasioni che realizzano un miracolo dietro le sbarre, qui si respira un’aria di serenità”. Ed è ragionando su questo modello di carcere “che salva” che il procuratore generale si dice pronto a fare un altro passo importante: “Nella scia di esperimenti positivi - sono sempre parole del procuratore generale - e penso a quanti, usciti dal carcere, frequentano ora corsi di formazione per poi essere assunti in alcune realtà imprenditoriali importanti come la Kimbo, mi riprometto di invitare ad un tavolo di programmazione la parte sana dell’imprenditoria napoletana di questa città che è disponibile a offrire opportunità di lavoro per chi torna libero, alimentando così questo circuito virtuoso di reinserimento nella società civile”. Nel suo giro tra laboratori e aule del polo universitario - a Secondigliano sono già numerosi gli ospiti che sono riusciti a conseguire una laurea, grazie ai corsi che si tengono settimanalmente - Policastro ha incrociato gli sguardi di Nino, Giuseppe, Luigi, Massimo e tanti altri ancora, cogliendo nei loro occhi una genuina voglia di riscatto. Ognuno portatore di una storia difficile, con il suo carico di dolore per il male fatto agli altri, ma prima ancora a sé stessi. Storie maledette di vita fuori giri, consumata a cento all’ora e a commettere reati: dall’associazione mafiosa allo spaccio, dalle lesioni alle truffe, per finire all’omicidio. C’è di tutto nei padiglioni visitati dal Pg. Ma questo “modello Secondigliano” segna un cambio di passo rispetto a molte altre realtà in cui il carcere esprime solo dolore, sofferenza e solitudine. E sarà giusto ricordare i meriti della direttrice Giulia Russo, che dal primo giorno ha creduto in questa mission e dando spazio anche alla fantasia di chi è costretto a vivere dietro le sbarre: Secondigliano oggi è diventato un polo artistico che produce spettacoli teatrali di livello, e nel teatro del polo Mediterraneo a giorni andrà in scena nientemeno che “La Tempesta” di Shakespeare. In un orizzonte nemmeno lontano Policastro ha anche un altro progetto: “Mi piacerebbe che all’esterno dell’istituto di Secondigliano, come è già avvenuto per il carcere milanese di Opera, si potesse realizzare un ristorante che offre piatti cucinati dai detenuti. Anche questa può diventare una strada da percorrere per valorizzare le capacità di tanti e offrire loro la speranza di un futuro nuovo e dignitoso. Se non si pensa al dopo, è inutile pensare al presente”. Perugia. Lo sport per rieducare i giovani detenuti di Michele Nucci La Nazione, 15 febbraio 2025 Comune, avvocati e organi giudiziari: accordo per far svolgere attività motorie o lavori socialmente utili presso enti o associazioni sportive. Lo sport come momento di rieducazione e formazione nei confronti dei giovani detenuti. Ma non solo, perché la ‘misura’ interesserà sia i minori che gli adulti. È l’ultima iniziativa in campo sociale della giunta comunale guidata dalla sindaca Vittoria Ferdinandi che, su proposta dell’Assessorato dello Sport, ha manifestato la volontà di partecipare alla prossima sottoscrizione di un protocollo d’intesa in questo senso. L’accordo promosso insieme alla Commissione ‘Oltre il Diritto’ dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, è funzionale a consentire a minori, giovani adulti e adulti, assoggettati a procedimento penale e detenuti, di sperimentare l’attività sportiva o svolgere lavori socialmente utili presso enti o associazioni sportive, rivolti anche alla cura e tutela della disabilità, così da acquisire “elementi rieducativi e formativi”, ovvero comportamenti e regole propri di tale contesto. Tutto ciò allo scopo di favorire “un inserimento e/o reinserimento sociale alternativo ai circuiti devianti e con elementi di rischio”. Numerose le altre realtà che hanno già rappresentato la volontà di aderire all’intesa in occasione di un imminente evento organizzato per il tramite della Commissione dell’Ordine degli Avvocati di Perugia: Corte d’Appello di Perugia, Procura generale presso la Corte di appello di Perugia, Tribunale di Perugia, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, Tribunale dei Minorenni di Perugia, Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Perugia, Ufficio del Giudice di Pace di Perugia-Città di Castello-Gubbio-Todi-Foligno-Città della Pieve-Castiglione del Lago, Tribunale di Sorveglianza di Perugia, Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Perugia, Centro per la giustizia minorile per l’Umbria e la Toscana, Ufficio di servizio sociale per i minorenni di Perugia, Comitato regionale Coni Umbria, Casa Circondariale di Capanne e Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia. “E’ un’iniziativa che ho a cuore da molti anni - afferma l’assessore comunale allo sport, Pierluigi Vossi -. Questo futuro protocollo d’intesa coniuga le mie due passioni, ovvero l’attività forense e lo sport, e l’ho predisposto prima di questo incarico amministrativo assieme alla Commissione ‘Oltre il diritto’. Oggi ho ritenuto essenziale estendere la partecipazione anche alla nostra amministrazione. Il Comune di Perugia - precisa Vossi - così, potrà impegnarsi a promuoverne le finalità presso le associazioni e società affidatarie dei suoi impianti sportivi a mezzo di appositi regolamenti e convenzioni, oltre che a segnalare il nominativo di quelle disposte a condividere le progettualità di riabilitazione sociale e ad accogliere le persone destinatarie dell’intervento”. Quel profumo di riscatto che apre le porte delle celle di Massimo Congiu Il Manifesto, 15 febbraio 2025 La storia di tre donne, Teresa, Anna e Alice, è al centro del romanzo della scrittrice napoletana Maria Rosaria Selo “Pucundria” (Marotta e Cafiero). Lo spunto per il libro è stato fornito all’autrice dal laboratorio di scrittura creativa da lei tenuto nel carcere femminile di Pozzuoli. Teresa è una guardia carceraria che vive con la figlia Alice. Piero, suo ex compagno e padre della ragazza, non c’è più; era un uomo violento al quale Teresa aveva puntato la pistola per difendersi dall’ennesima aggressione. Anna è una donna esile e segnata dalla vita, condannata in carcere per l’uccisione del suo compagno. Un altro episodio avvenuto al culmine di una serie di aggressioni da parte di lui. Le tre donne sono protagoniste di Pucundria (Marotta e Cafiero, pp. 320, euro 20), di Maria Rosaria Selo, scrittrice napoletana vincitrice di diversi premi. Lo spunto per questa storia di resistenza da parte di donne è stato fornito all’autrice dal laboratorio di scrittura creativa da lei tenuto nel carcere femminile di Pozzuoli, sgomberato a maggio scorso per i postumi delle forti scosse di terremoto verificatesi in quel periodo. Ed è proprio lì che Alice e Anna si incontrano. La prima scorge nella detenuta qualcosa di familiare, come un filo che la lega a essa e che scoprirà essere fatto di sofferenza e sopportazione, ma anche di rinascita. Questa comunanza intuita a un primo sguardo porta Alice ad avvicinarsi ad Anna, a cercare di vincere la diffidenza di lei, guidata da quella magia che è l’incontro. Ecco che vite segnate da prove dolorose si incrociano e sperimentano la pietà, la capacità di specchiarsi l’una nell’altra anche se da ruoli differenti. Il confronto avviene tra le mura del carcere, in quel mondo isolato dove puoi fingere e ti puoi nascondere solo fino ad un certo punto. Pucundria è una storia di sofferenza ma anche di redenzione in senso laico, di rigenerazione umana e di speranza. È la storia di un profumo che si diffonde tra le spesse pareti del carcere, tra le sue sbarre. Un profumo che sa di riconciliazione con la vita, di rafforzamento di legami familiari messi a dura prova da tante brutture, dall’incomprensibile, dall’inaccettabile. Nella storia, narrata con partecipazione, questo invito alla speranza parte proprio dal mondo dei reclusi ed è una voce che sottolinea piaghe sociali come la violenza sulle donne, da queste ultime spesso vissuta con una lunga sopportazione che attraversa intere generazioni, e problemi irrisolti come quello della realtà carceraria. Entrambi sono un buco nero nella coscienza collettiva e sovente oggetto di rimozione. Nel penitenziario femminile di Pozzuoli, raccontato da Pucundria, donne indurite dalle loro passate vicissitudini e dalla detenzione, mostrano di non aver mai conosciuto grazia e gioia, di aver vissuto private di qualsiasi ideale all’interno di una condizione esistenziale ereditata e da loro vista come unica possibile. Alcune di loro, però, riusciranno a individuare un bene comune che le vedrà complici nella tensione al riscatto e, al recupero di un rapporto, ciascuna con la propria coscienza ferita. L’auspicio è che quel profumo capace di risvegliare i sensi e che sa anche un po’ di nostalgia di sé stessi, come in uno dei significati del titolo del libro, riesca a uscire dalle case violate dalla brutalità e dalle mura carcerarie. Mura che racchiudono un concentrato di disperazione più che contenere spazi in cui si lavora al reinserimento sociale. E pensare che quest’ultima dovrebbe essere la missione degli istituti di pena. Così non è nella pratica e va detto che pagare un debito con la giustizia, con la società, non può significare essere privati della propria dignità di uomini, di donne, come le protagoniste della nostra storia Anche questo fa parte del messaggio di Pucundria. Torna il finanziamento al Fondo per la povertà educativa minorile: nove milioni fino al 2027 di Paolo Foschini Corriere della Sera, 15 febbraio 2025 Prorogato per altri tre anni, fino al 2027 compreso, il finanziamento al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile che la legge di Bilancio aveva cancellato: crediti d’imposta per tre milioni all’anno. Alla fine è andata: prorogato per altri tre anni, fino al 2027 compreso, il finanziamento al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile. Significa che il Fondo - il quale consente alle Fondazioni bancaria il recupero fiscale di ciò che stanziano a favore di progetti educativi, finora centinaia - oltre a conservare naturalmente le risorse di cui disponeva finora avrà a disposizione complessivamente altre nove milioni di euro: tre all’anno per tre anni, a partire da quello in corso. È una buona notizia contenuta nel decreto Milleproroghe convertito in legge dal Senato con voto di fiducia: 97 sì, 57 contrari. Lo stesso testo era stato approvato poche ore prima dalla I Commissione, sulla base di un emendamento di Mariastella Gelmini. Anche se sullo stesso tema gli emendamenti erano stati diversi, e tutti nella stessa direzione. Una prima versione prevedeva in realtà un credito di imposta di 25 milioni di euro per ogni anno. Ma anche nella misura approvata si tratta comunque di una correzione di rotta importante rispetto alla Legge di Bilancio che il finanziamento al Fondo lo aveva tagliato del tutto. Le dichiarazioni di soddisfazione in effetti sono state trasversali. Come trasversali erano state le proteste, soprattutto da parte della società civile e in primo luogo dal Forum del Terzo settore e dal presidente dell’impresa sociale Con i Bambini, Marco Rossi-Doria, da cui il Fondo viene materialmente gestito: strumento di contrasto alle diseguaglianze che negli anni ha messo in campo centinaia di progetti in tutta Italia, dalle aree metropolitane a quelle più periferiche. Ora il testo passa alla Camera. Purtroppo nel testo del Milleproroghe approvato dal Senato non c’è l’innalzamento del tetto al finanziamento del 5 per mille: altra battaglia a cui il Terzo settore teneva molto. Ma due buone notizie in una volta sola sarebbero state troppe. Fine vita, la legge toscana non crea un diritto a morire: lo garantisce di Chiara Lalli Il Dubbio, 15 febbraio 2025 Polemiche per la prima norma regionale che detta tempi e procedure certe per accedere al suicidio assistito. Zaia: “Inaccettabile non dare seguito a una sentenza della Consulta”. Secondo Pro Vita è una legge “barbara e disumana”, che “spingerà alla morte di Stato migliaia di malati”. È pure incostituzionale perché scipperebbe il lavoro al legislatore - che però intanto non lavora (ma non è questo il punto). “È una sconfitta per tutti”, secondo il presidente della conferenza episcopale della Toscana. Di cosa parlano? Di una legge regionale di organizzazione dei servizi sanitari che la Regione Toscana ha approvato ieri. Nessun nuovo diritto, ma solo la garanzia di applicazione di due sentenze della Corte costituzionale. Come ci siamo arrivati? Con una proposta di legge popolare dell’Associazione Luca Coscioni, con migliaia di firme, con alcuni emendamenti che non hanno cambiato significativamente il testo di “Liberi subito”, con la votazione di martedì: 27 a favore, 13 contrari, nessun astenuto e un non espresso. A cosa serve questa legge regionale? Basterebbe leggerla questa legge, ma figuriamoci. “Con questa legge la Regione, nell’esercizio delle proprie competenze in materia di tutela della salute, e in attuazione di una sentenza immediatamente esecutiva, detta norme a carattere organizzativo e procedurale per disciplinare in modo uniforme sul proprio territorio l’esercizio delle funzioni che la giurisprudenza costituzionale attribuisce alle aziende sanitarie nella materia di cui trattasi”. Le aziende sanitarie istituiranno una commissione per verificare i requisiti di chi chiede il suicidio assistito. Sarà composta da un palliativista, uno psichiatra, un anestesista, uno psicologo, un medico legale e un infermiere. A questi si aggiungerà uno specialista della patologia della persona che ha chiesto la verifica. La partecipazione alla commissione sarà volontaria. Tra le parti più importanti c’è l’indicazione dei tempi di risposta da parte del servizio sanitario: la verifica deve concludersi entro 20 giorni dalla richiesta (con la possibilità di sospendere per 5 giorni per accertamenti diagnostici); se l’esito è positivo entro 10 giorni andranno indicati il farmaco e le modalità di assunzione; la commissione deve verificare anche che la persona che ha chiesto la verifica abbia avuto tutte le informazioni sui propri diritti, sulla possibilità di accedere alle cure palliative e alla sedazione palliativa. La commissione chiederà un parere al comitato etico che dovrà esprimersi entro 7 giorni, compresi in quei 20 giorni. Naturalmente, si può cambiare idea fino alla fine. Non è che se hai chiesto la verifica dei requisiti devi poi morire. Perché questa possibilità ha più a che fare con la libertà che con la morte. Come commenta Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Coscioni, in Toscana non ci saranno più casi come quello di Gloria, che ha dovuto ripiegare sulla sedazione palliativa - che non voleva perché avrebbe desiderato rimanere lucida e non scivolare in un limbo indeterminato - perché i mesi di attesa le hanno di fatto impedito di godere di un suo diritto: scegliere se, quando e come morire. E quando un diritto rimane impigliato in un tempo indefinito non è più un diritto. Gloria è solo l’ultimo caso, ma molte altre persone sono rimaste incastrate in questa burocrazia del rimandare, ritardare, ignorare. Questa legge regionale è insomma solo una applicazione delle due sentenze della Corte, la 242 del 2019 e la 135 del 2024. I requisiti per la richiesta di verifica sono quelli che già valgono in tutta l’Italia, ma la Toscana garantirà i tempi di risposta (che, ripeto, è importantissimo perché troppe volte le persone hanno aspettato mesi, anni). Possiamo essere d’accordo oppure no. Ma ci sono due sentenze della Corte e fare finta di essere morti non è una strategia moralmente ammissibile. Possiamo essere d’accordo oppure no. Ma un diritto non obbliga nessuno a usarlo. Un divieto invece riguarda tutti. Come ha detto Luca Zaia, parlando di un regolamento per la Regione Veneto che dovrebbe solo rispettare la sentenza 242 del 2019: “Ripeto, si tratta di non essere ipocriti. Se qualcuno è contrario, anche se io non condivido l’atteggiamento poco liberale, proponga una legge che vieti il fine vita e non se ne parla più. Ma è inaccettabile il non dare seguito a una sentenza della Corte”. Migranti. Il carcere alla fine della traversata, quei “capitani” scambiati per scafisti di Enrica Muraglie Il Manifesto, 15 febbraio 2025 Il report di Arci Porco Rosso e Borderline Europe. Nel 2024 sono 106 le persone finite nei guai, tra loro anche minorenni. Dopo la traversata in mare, il carcere. Questa la destinazione finale per 106 persone migranti che nel 2024 sono riuscite a raggiungere l’Italia, e che poi si sono ritrovate dietro le sbarre, con lunghe pene a proprio carico. Lo documenta il nuovo report di Arci Porco Rosso e Borderline Europe, dal 2021 impegnate nel monitoraggio delle notizie sull’arresto di “migranti accusati di aver facilitato l’immigrazione irregolare”. Cui si aggiungono altri casi, altre storie, riportati alla luce dalla rete di avvocati e avvocate che collaborano con l’associazione palermitana, e di cui la stampa locale non si occupa. Ai cosiddetti scafisti “prediligiamo la parola capitani, anche se i capitani non sono effettivamente le persone che hanno condotto le imbarcazioni, i processi sono sommari”, ci racconta Sara Traylor di Arci Porco Rosso, una delle curatrici del rapporto. “Capitani” nel senso di persone che guidano le imbarcazioni da una costa all’altra, perché costrette dalle circostanze e per metterne in salvo decine, a volte centinaia di altre. È stato documentato e testimoniato lungamente, eppure gli arresti aumentano: soltanto in Italia oltre 3.000 dal 2013, si rileva nel rapporto, e la tendenza nel 2024 è in aumento rispetto all’anno precedente. Egiziani in testa alle nazionalità più “criminalizzate”, oltre un terzo dei detenuti, seguono i migranti tunisini. “Siamo in un momento in cui la volontà politica si infrange contro alcune garanzie di legge”, prosegue Traylor, “e promulga le stesse leggi goffe e disumane che infatti, fino adesso, non sono state applicate”. Il riferimento è all’art. 12bis introdotto dal DL 20/2023, meglio conosciuto come decreto Cutro, che “alza in maniera esponenziale le pene minime previste per aver facilitato l’attraversamento irregolare della frontiera, se durante il viaggio è avvenuta la morte o la lesione grave di una o più persone”. Il rischio è fino a trent’anni di carcere, reclusione massima. Nell’anno appena concluso si sono svolti i primi due processi incardinati per art. 12 bis, e in entrambi i casi il tribunale di competenza ha ritenuto il nuovo reato “non applicabile”, come si legge nei testi delle sentenze. Traylor si augura che “questa tendenza continui”: a marzo il tribunale per i minorenni di Palermo dovrà pronunciarsi su Ahmed, un diciassettenne egiziano accusato di aver trafficato esseri umani, “uno scempio che si accanisce su persone sopravvissute a naufragi e disastri marittimi, e come sempre non tiene conto delle responsabilità istituzionali di questi eventi”, sottolinea il rapporto. Proprio sui minori arrivati in Italia via mare, e nei confronti dei quali non mancano condanne anche molto severe, è l’accento del rapporto. “Si sono dichiarati minori, hanno prodotto documentazioni ufficiali attestanti l’età, eppure per la giustizia italiana rimangono adulti e come tali devono essere trattati”: un ragazzo senegalese arrestato nel 2016 e uno guineano fermato nel 2023, condannati rispettivamente dal tribunale ordinario di Trapani, e dalla Corte di appello di Palermo. E che pure sarebbero competenti a giudicare persone adulte. La ricerca dei responsabili del “traffico di clandestini” - espressione che per la Carta di Roma è colonna portante dei discorsi d’odio, oltre che giuridicamente scorretta - in “tutto il globo terracqueo”, come si è ripromessa la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, non riguarda soltanto l’Italia e l’Europa, si allarga progressivamente ai paesi di tutto il mondo occidentale. A dicembre il tribunale di Catania ha condannato a quattro anni e otto mesi di detenzione tre palestinesi di Gaza. Erano arrivati in Italia attraverso il Mediterraneo, e hanno portato avanti un lungo sciopero della fame in difesa della loro innocenza. “Non sono riusciti ad approdare in un posto più sicuro di quello che hanno lasciato”, ci dice Sara Traylor. Quel posto sicuro verso cui anche Maysoon Majidi era diretta, la regista e attivista curdo-iraniana accusata di aver condotto un’imbarcazione proveniente dalle coste della Turchia, di recente liberata. Rimane in carcere Ufuk Akturk, il suo coimputato, condannato a otto anni e quattro mesi per aver fatto arrivare una barca di persone sane e salve sulle coste calabresi. Migranti. Ecco servita l’inchiesta fantasma per criminalizzare le ong di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 febbraio 2025 Veleni contro il rifugiato che aveva denunciato Elmasry. Il Giornale: “A Palermo indagano per associazione a delinquere”. L’incrocio con la vicenda Paragon. Un’indagine fantasma della procura distrettuale di Palermo sull’ong Mediterranea. Esisterebbe almeno dal maggio del 2024 e al suo interno potrebbe nascondersi la chiave del mistero Graphite, lo spyware dell’azienda israeliana Paragon Solutions infilato negli smartphone di giornalisti e attivisti in Italia e in altri paesi europei. Lo dice Il Giornale in un articolo che dà conto della presunta esistenza di una carta intestata del ministero dell’Interno, datata 6 maggio 2024, indirizzata a non meglio precisati “servizi d’intelligence” e intitolata “Ong Mediterranea Saving Humans - Attività di agevolazione degli spostamenti di migranti clandestini sul territorio nazionale”. Un brogliaccio, una velina, un appunto: non si sa bene. Come non si sa bene se a Palermo stiano davvero conducendo un’indagine di questo tenore: le verifiche fatte dal manifesto in tal senso hanno dato esito negativo, ma se davvero la materia è oggetto d’interesse per la procura distrettuale restano aperti ampi margini di dubbio. La versione del Giornale, comunque, prevede che il portavoce di Refugees in Lybia David Yambio - che nei giorni scorsi ha denunciato pubblicamente le sevizie ricevute dal capo della polizia giudiziaria libica Osama Elmasry - sarebbe stato oggetto di “mirati approfondimenti investigativi finalizzati a definire la rete di favoreggiatori attivi sul territorio nazionale, nonché ulteriori accertamenti sulle utenze degli indagati”. Gli autori del documento, inoltre, parlerebbero pure di “contatti con importanti soggetti del mondo istituzionale ed ecclesiastico che notoriamente condividono le posizioni delle ong in merito alla gestione dei flussi migratori”. Il tutto nell’ambito di un’inchiesta per “associazione a delinquere nel reato di immigrazione clandestina”. Non sarebbe una prima assoluta, ad ogni buon conto: il precedente più noto è il caso Iuventa, cioè il celeberrimo teorema della procura di Trapani contro le ong Jugend Rettet, Save The Children e Medici Senza Frontiere, con dieci persone accusate di avere stretto accori con i trafficanti di esseri umani e di non aver mai soccorso persone in mare per scopi umanitari, ma di essersi prestati a fare da “taxi” prelevandole da navi libiche che poi tornavano indietro indisturbate. L’inchiesta, costata oltre 3 milioni di euro, è finita solo dopo 9 anni con il pm che ha chiesto il non luogo a procedere e il giudice che infine ha prosciolto tutti. Lo schema è esattamente lo stesso che il Giornale adombra sopra Yambio e Mediterranea: una maxi inchiesta su reati pesantissimi che, comunque andrà a finire, potrebbe rivelarsi un macigno sulle attività delle ong. “È un tentativo di depistaggio”, dice il portavoce di Mediterranea Luca Casarini, che è anche uno degli spiati attraverso Graphite. “L’obiettivo - prosegue - è cercare di mettere una pezza al fatto che in questo paese si proteggono i boss delle milizie libiche che hanno in mano il traffico di armi, petrolio ed esseri umani, e allo stesso tempo si criminalizzano coloro che operano il soccorso in mare”. Anche Yambio (che ha scoperto di avere Graphite sul suo smartphone lo scorso novembre) contrattacca: “Questa non è altro che una campagna diffamatoria. La Libia mi ha insegnato cosa significa essere disumanizzati. L’Europa mi insegna cosa significa essere cancellati”. La contromossa, sul piano pratico, è semplice: Mediterranea chiederà per vie legali alla procura di Palermo se esistono o meno indagini a suo carico. Secondo il codice di procedura penale, il pm, tramite un decreto motivato, può disporre il segreto sulle iscrizioni nel registro degli indagati per un periodo di tre mesi non rinnovabile. Dunque, al massimo, ci vorrà solo un po’ di tempo per capire se sta davvero succedendo qualcosa o no. In ogni caso, giorno dopo giorno, l’intrigo italo-libico si fa sempre più complesso e sempre più inquietante. Facile, infatti, collegare l’inchiesta fantasma di cui parla il Giornale con lo scandalo Paragon. Il governo sin qui ha ammesso che lo spyware è regolarmente in uso, senza tuttavia chiarire in quali circostanze e da parte di quale organo investigativo o di intelligence. Una procura distrettuale impegnata in un’indagine per associazione a delinquere a cavallo tra l’Italia e il Nord Africa, verosimilmente, ha a disposizione strumenti del genere. C’è però un problema di contorni: l’inchiesta palermitana esiste davvero? Da quanto sarebbe aperta? Da quanto tempo sarebbero attive le intercettazioni? Chi le sta facendo? La vulgata della destra, lanciata dal Giornale e alimentata dai tanti propagandisti che si aggirano per i social, è che i casi Elmasry e Paragon sarebbero stati lanciati per coprire i loschi traffici delle ong e delle organizzazioni che si occupano dei diritti dei migranti. Ovviamente il gioco funziona solo riabilitando il boia libico (che infatti ormai viene descritto come un benefattore) e demolendo figure come quelle di Yambio, la cui testimonianza va sminuita e screditata. Fa niente se la Corte penale internazionale apre un fascicolo contro l’Italia proprio per la facilità con cui ha lasciato andare via un aguzzino sul quale pende un mandato d’arresto internazionale: anche L’Aja fa parte del complotto. Dalla vicenda Almasri alle guerre, l’erosione del diritto internazionale di Eugenio Mazzarella Il Dubbio, 15 febbraio 2025 L’America di Donald Trump vuole tornare grande mandando al macero diritti umani, diritti internazionali, la salute dell’ambiente e quella dei popoli, la fame e la povertà nel mondo. La vicenda Almasri, prima arrestato in Italia e poi liberato e rimpatriato con volo di Stato, per come è stata trattata, e non solo dal governo Meloni, ma dai paesi europei, al netto delle pronunce della Cpi, e le dichiarazioni incredibili di Trump su Gaza, con a fianco un compiaciuto Netanyahu, sono la fine ufficiale, dopo essere stata da tempo ufficiosa, dei diritti umani e del diritto internazionale, nato sulle ceneri di Auschwitz e della tragedia della II guerra mondiale. Collego le due vicende - una relativa alla provincia europea e italiana, una al geo-mondo americano - perché sono una vergogna foriera di tragedie ulteriori a quelle già immani cui assistiamo. Almasri è tornato in trionfo dai suoi sodali in Libia a riprendere il lavoro sporco che da tre lustri fa, per l’incapacità europea e italiana di gestire le migrazioni dall’Africa sul Mediterraneo, in nome e per conto delle nostre paure di “invasione”. Almasri ci garantisce con pratiche da carnefice e da trafficante di vite umane, se fa testo il mandato di cattura della Cpi, che ci siano meno morti in mare, sì che si possa raccontare che le politiche dure e pure sull’immigrazione clandestina via mare fanno meno morti di quelle permissive, e quindi sono paradossalmente più umanitarie. Una bestemmia logica, prima che morale, perché non conta i morti a terra inclusi nella pseudo-soluzione dei morti in mare, da evitare perché più visibili e impopolari, perché da come andavano le cose il diritto del mare ormai era diventato il diritto del male. Trasferito a terra questo diritto del male, fa meno specie ed è più facile invocare la sicurezza nazionale. Ma è con le dichiarazioni di Trump su Gaza che siamo tornati, dal diritto naturale a sostegno dei diritti umani, che aveva fecondato il costituzionalismo e il diritto internazionale dopo la fine della II guerra mondiale e Norimberga, al diritto di natura nel senso del diritto del più forte nella sua versione più cruda. Gaza in mano americana, dopo che Netanyahu avrà finito di farne terra bruciata, per seguirne la ricostruzione come riviera a mare, la “dislocazione” su base “volontaria” (per evitare morte, fame e tendopoli) dei palestinesi, dove che sia purché non restino lì a intralciare il Grande Israele di Netanyahu e della destra israeliana (poi si vedrà come sloggiarli anche dalla Cisgiordania), è davvero la fine ufficiale a livello globale dei diritti umani e del diritto internazionale. L’espressione più chiara del foro delle controversie internazionali non è più quello della diplomazia, delle corti di giustizia, degli organismi internazionali, ma il foro delle armi, di un diritto di guerra che non si avverte limitato neppure dalle convenzioni internazionali sottoscritte al riguardo. Per oltre un anno abbiamo sentito la tesi che dopo il massacro abietto del 7 ottobre, in Palestina era in essere una legittima autodifesa, magari un po’ esagerata, ma che niente aveva a che fare con genocidio, pulizia etnica, deportazione. Bene, oggi ci aspettiamo che alcune almeno delle icone, anche “morali”, di questa narrativa ci facciano ascoltare la loro voce in dissenso. Fin qui sentiamo un clamoroso silenzio. Al più qualche minimizzazione nei talk show. Bene. Questi silenzi e queste minimizzazioni, tenendo conto anche dall’uscita minacciata di Trump dall’Oms, da agenzie umanitarie e da istanze giuridiche internazionali, cui si comminano persino sanzioni per pronunce ritenute avverse a sé e ai propri alleati, prendano la parola e ci facciano capire dove stiamo andando, per chi domani suonerà la campana. L’America di Trump vuole tornare grande mandando al macero diritti umani, diritti internazionali, la salute dell’ambiente e quella dei popoli, la fame e la povertà nel mondo, cioè sostanzialmente buttando a mare la morale del Samaritano insegnata da quel Dio dei cristiani cui Trump, e la destra americana, fanno continuo riferimento. Quel Dio che lo avrebbe salvato da un attentato per il popolo americano. Un popolo, però, nell’interpretazione che ne dà Trump, più simile alla tribù anglosassone immigrata che nell’Ottocento ha fatto terra bruciata delle tribù native di una terra che non gli era stata neanche promessa, che quello che ha difeso e salvato la libertà in Occidente nel ‘900. Un mix di interessi reattivi alla crisi socioeconomica del sogno americano nell’America profonda e della propria missione imperiale e di un misticismo della politica, che rischia di essere una miscela esplosiva, impossibile da maneggiare. E che bene che vada rischia di fare del Duemila il secolo antiamericano, dopo che il ‘900 era stato, e non solo in termini di mera potenza, il secolo americano. L’Europa deve dare prova di forza di fronte ai dittatori-bulli Trump e Putin di Bill Emmott* La Stampa, 15 febbraio 2025 Se l’Ue vuole tutelare la propria sicurezza dovrà essere un partner coraggioso e ambizioso per l’Ucraina. Quello che può fare oggi è impegnarsi a continuare ad approvvigionare Kiev con armi e aiuti finanziari. Donald Trump sta proponendo di capitolare a vantaggio della Russia o no? I messaggi riguardanti la guerra in Ucraina sono vaghi e confusi come non mai, che provengano dallo stesso presidente Trump a Washington o dal suo segretario della Difesa Pete Hegseth e dal vicepresidente JD Vance in viaggio in Europa. A prescindere dalla realtà, due cose sono ormai evidenti: niente potrà o riuscirà a sistemare le cose fino a quando non si svolgeranno seri negoziati tra la vittima, l’Ucraina, e l’invasore, la Russia, e quindi panico, sdegno o disperazione preventivi sono inutili; secondo, se l’Europa intende tutelare la propria sicurezza sul lungo periodo dovrà essere un partner coraggioso, ambizioso e forte per l’Ucraina, sia subito sia in futuro. Non si tratta di niente di nuovo. I leader europei devono comprendere come proteggere adeguatamente gli interessi delle rispettive nazioni in un mondo nel quale la partnership con gli Stati Uniti è nel migliore dei casi sospesa, nel peggiore cancellata. Questo significa che lusingare Donald Trump o fargli concessioni non soltanto è una perdita di tempo ma è anche controproducente. L’Europa deve dare prova di forza, non di piaggeria, nei confronti di entrambi i dittatori bulli che ha di fronte, Donald Trump e Vladimir Putin. Naturalmente, l’Europa è divisa. Ma lo è sempre, e per questo motivo è fondamentale l’Unione europea; per questo motivo perfino l’Ue deve operare spesso con coalizioni di volenterosi, più che con un consenso pieno. L’Ue è rimasta divisa per tutto il tempo della guerra in Ucraina, eppure ha fatto molto. Secondo l’Ukraine Support Tracker compilato dal Kiel Institut tedesco, tra gennaio 2022 e dicembre 2024 i Paesi e le istituzioni europee hanno fornito aiuti militari, umanitari e finanziari all’Ucraina per 132 miliardi di euro, rispetto ai 114 miliardi dati dagli Stati Uniti, e si sono già impegnati a darne per altri 115 miliardi. Funzionari ed esperti ucraini sono realistici sulla situazione del loro Paese. Se l’America dovesse ritirare il suo aiuto e la Russia dovesse rifiutarsi di porre fine alla sua aggressione, l’Ucraina potrebbe e vorrebbe continuare a combattere. Molto probabilmente, continuerebbe a perdere territori, ma con la stessa lentezza con la quale li ha persi l’anno scorso. Il problema principale per Kiev sarebbe perdere i sistemi missilistici americani a lunga gittata con i quali attaccare le linee di approvvigionamento e gli arsenali di armi della Russia, anche se non ne ha ricevuti in quantità tali da fare una grande differenza. Gli ucraini sono equilibrati anche nei confronti delle condizioni necessarie a ottenere un accordo di cessate il fuoco: sanno che dovrebbero accettare l’attuale occupazione da parte dei russi di circa il 20 per cento del loro territorio, Crimea inclusa, e che non potranno essere accolti come membri della Nato quanto meno per tutto il mandato di Trump alla Casa Bianca. Tuttavia, abbastanza ragionevolmente non sono disposti a cedere più territorio di questo, né sono intenzionati ad accettare restrizioni di sorta sulla loro sovranità e indipendenza. Perché un accordo possa essere sostenibile, gli ucraini vogliono che i loro partner offrano serie garanzie di sicurezza, tali da dissuadere in futuro un’altra invasione russa. Non sarà una cosa molto popolare da dire, ad appena una settimana di distanza dalle elezioni nazionali in Germania, ma la fatidica frase pronunciata nel 2015 dell’allora cancelliera Angela Merkel in riferimento all’ondata di immigrati dalla Siria, oggi si addice bene all’Ucraina: “Wir Schaffen Das”, “Ce la possiamo fare”. Sì, l’Europa ce la può fare, e questo significa che può farsi avanti e dare all’Ucraina tutto l’aiuto di cui questa ha bisogno per migliorare la sua posizione negoziale e preservare indipendenza e sicurezza. Quello che l’Europa può fare, in primis, è impegnarsi a continuare ad approvvigionare l’Ucraina con armi e aiuti finanziari, se Kiev dovrà andare avanti a combattere. Le riserve di munizioni e armi dei Paesi europei sono troppo esigue per poter fare una differenza di spessore nella guerra, ma basterebbero a rendere plausibile la minaccia da parte dell’Ucraina di voler continuare a combattere senza gli Stati Uniti. Non va dimenticato, infatti, che l’ostacolo principale alla fornitura di armi a lunga gittata l’anno scorso non è stato quello americano, bensì il rifiuto da parte della Germania di dare all’Ucraina i suoi missili Taurus. Un nuovo cancelliere e un nuovo governo dovrebbero assumere un atteggiamento più coraggioso per proteggere la sicurezza europea. Durante i negoziati di pace, il favore più grande che l’Europa potrà fare è promettere di mandare rinforzi all’Ucraina per garantirne la sicurezza a lungo termine. Una leggenda assai diffusa vuole che tali rinforzi debbano essere talmente grandi che gli eserciti europei non saranno in grado di metterli a disposizione. In verità, le forze di peacekeeping potrebbero essere limitate in un primo tempo e poi aumentare gradualmente. Per Italia, Germania, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Francia e Polonia potrebbe voler dire, per esempio, mettere a disposizione cinquemila uomini a testa per la creazione di un primo contingente di peacekeeping, usando le rispettive forze aeree per imporre “no-fly zone” come il presidente Volodymyr Zelensky aveva chiesto nel 2022. Se si patteggerà un cessate il fuoco, potrà avere inizio la ricostruzione delle città ucraine devastate, e si tratterà di una ricostruzione costosa. In ogni caso, il cessate il fuoco darebbe adito anche a un miglioramento immediato dell’economia ucraina e si attirerebbero capitali da tutto il mondo. In definitiva, la tragica verità della ricostruzione postbellica è che potrebbe essere redditizia, a patto che il conflitto sia definitivamente concluso. L’Europa può fare queste promesse e assumersene la responsabilità senza farle sembrare concessioni a Trump: sono auspicabili a prescindere, così come sono. Inoltre, daranno all’Europa potere di leva per altri aspetti dell’ormai ostile relazione transatlantica. In tutti gli aspetti della relazione, sarà indispensabile dimostrare forza. La risposta appropriata ai dazi di Trump del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e alluminio dall’Europa consiste nell’imposizione di dazi identici sulle importazioni dall’America. Trump dice di voler imporre anche quelli che definisce “dazi reciproci”: in questo caso, l’Ue dovrebbe applicare per ogni dazio imposto dall’America un dazio identico su qualcosa che gli Usa proteggono. È verosimile che l’attacco più grosso prenderà di mira il Digital Services Act, lo strumento con il quale l’Ue cerca di regolamentare le grandi piattaforme online come Facebook, Google, TikTok e X. Sarà un grosso attacco perché queste piattaforme appartengono a miliardari vicini a Trump, guidati da Elon Musk, che vorrebbero che il presidente americano usasse il suo potere di leva sui dazi e sull’Ucraina per costringere l’Ue ad abbandonare l’Dsa. Per l’Europa sarebbe un disastro. Un bullo come Trump reagisce soltanto alla forza. Wir Schaffen Das, Europa: possiamo farcela. *Traduzione di Anna Bissanti Stati Uniti. Le vere mire di Donald per il controllo globale di Ettore Sequi La Stampa, 15 febbraio 2025 I nuovi dazi approvati mercoledì da Donald Trump infliggono un altro colpo al sistema commerciale multilaterale. In poche settimane, Washington ha chiarito che le tariffe non sono più solo uno strumento di difesa economica, ma anche un’arma di pressione strategica per imporre vincoli agli alleati e costi più elevati ai rivali. Dietro la retorica della protezione dell’industria americana e della riduzione del deficit commerciale si cela un obiettivo più ambizioso: rafforzare il controllo di Washington sulle dinamiche economiche globali. I dazi servono soprattutto a trasformare il commercio in un pilastro della sicurezza nazionale e della politica di potenza americana, oltre che a frenare i flussi migratori o il traffico di fentanyl. Con i dazi verso Canada e Messico, e le dichiarazioni provocatorie su Groenlandia e Panama, Washington traccia un perimetro preciso della propria sfera d’influenza nell’emisfero occidentale. È la riedizione in chiave trumpiana della dottrina Monroe, una dottrina “Donroe” per ammonire che nessun attore esterno, soprattutto la Cina, può interferire negli equilibri economici e strategici delle Americhe. Con Bruxelles il confronto si gioca su un altro terreno. Per Washington l’Unione Europea non è solo un partner commerciale, ma anche una potenza regolatoria in grado di influenzare, attraverso normative come il Digital Service Act, l’espansione delle big tech americane, ostacolando uno dei principali strumenti di supremazia di questa Amministrazione. Le indagini della Commissione Europea su X e META lo dimostrano. Trump non considera l’Europa un avversario geopolitico, ma un freno da disinnescare attraverso pressioni economiche e un’offensiva tariffaria mirata, capace di influenzare le fragili economie europee e, di conseguenza, anche il potere normativo dell’UE. La partita più importante, tuttavia, si gioca con la Cina, vero rivale sistemico degli Stati Uniti. Le tariffe finora imposte a Pechino non sono, per ora, un attacco frontale, ma un avvertimento. La Cina ha risposto con moderazione, mostrando di voler evitare un’escalation che potrebbe ritorcersi contro la sua stessa economia. Pechino è infatti alle prese con una sfida esistenziale: mantenere una crescita sufficiente ad arginare la disoccupazione giovanile e prevenire potenziali tensioni sociali. Il rallentamento della domanda interna ha reso l’economia cinese sempre più dipendente dalle esportazioni. Per compensare questa debolezza, il governo cinese sostiene con sussidi massicci la propria industria manifatturiera, che inonda i mercati globali con prodotti di buona qualità e sottocosto, alterando la concorrenza. Stati Uniti ed Europa denunciano questa strategia come una distorsione dei mercati e accusano Pechino di scaricare all’estero il suo eccesso produttivo. La Cina ha rafforzato la sua presenza nei mercati emergenti, costruito nuove catene di approvvigionamento e stretto accordi strategici per creare piattaforme di accesso ai mercati occidentali. Soprattutto, Pechino aggira i dazi triangolando le esportazioni attraverso Paesi come Vietnam, Malesia e Messico, che fungono da piattaforme di transito per prodotti rietichettati prima di raggiungere il mercato statunitense. Per contrastare questo meccanismo, l’Amministrazione Trump potrebbe applicare dazi indiscriminati, ma ciò sarebbe controproducente: colpendo anche gli alleati, Washington rischierebbe di erodere la fiducia internazionale e di spingere la Cina verso un nuovo sistema di relazioni commerciali meno dipendente dagli Stati Uniti. Anche potenze come il Giappone e l’India osservano con attenzione la politica tariffaria americana e stanno valutando la possibilità di diversificare le proprie catene di fornitura, nella consapevolezza di quanto le tensioni commerciali possano ridefinire l’architettura economica globale. Le implicazioni delle politiche americane vanno oltre l’economia. L’imprevedibilità delle decisioni di Trump mina la credibilità di Washington: se persino gli alleati non sono al riparo dai dazi, spesso punitivi, chi può fidarsi della stabilità del sistema guidato dagli Stati Uniti? Inoltre, l’approccio americano, che privilegia la coercizione alla cooperazione, invia un segnale pericoloso: la forza può rivelarsi più efficace del dialogo. Una lezione che la Cina potrebbe applicare in futuro su dossier sensibili come Taiwan. La politica tariffaria di Trump, nata per riaffermare la supremazia degli Stati Uniti, rischia di minare la stessa architettura economica che ha sostenuto il primato americano, favorendo l’ascesa di un ordine multipolare con Pechino in posizione centrale. Stati Uniti. Con il Salvador intesa sull’export di detenuti di Daniele Mastrogiacomo L’Espresso, 15 febbraio 2025 L’accordo prevede lo sviluppo di tecnologia nucleare contro la disponibilità, retribuita, ad accogliere i reclusi americani nelle prigioni lager del Paese del Centroamerica. Detenuti in cambio di nucleare. Tra Usa e Salvador si è raggiunto un insolito accordo che accontenta sia Donald Trump sia Nayib Bukele. Artefice di questo bizzarro scambio, che baratta merce umana in cambio di energia atomica, è il Segretario di Stato Marc Rubio. Nel suo giro tra i Paesi del Centro e Sud America per la campagna anti-migranti ingaggiata subito dal nuovo inquilino della Casa Bianca ha fatto tappa anche nel piccolo Stato un tempo dominato dalle maras, le bande di criminali incalliti che avevano trasformato quella terra in un vero inferno di violenza e sopraffazione. L’idea l’ha suggerita il padre padrone del Salvador che con il tycoon ha molto da condividere. Oltre che sui sistemi per combattere la criminalità hanno visioni comuni sulle criptovalute: il presidente del Salvador è stato il primo, e finora unico capo di Stato, ad aver abolito il conio locale per abbracciare i Bitcoin e adottarli come moneta di scambio persino tra i piccoli commercianti informali. “Abbiamo offerto agli Stati Uniti d’America - ha scritto Bukele su X - l’opportunità di esternalizzare parte del loro sistema carcerario. Siamo disposti ad accogliere solo criminali condannati, inclusi cittadini americani, nella nostra megaprigione in cambio di un compenso. Il tasso sarebbe relativamente basso per gli Usa ma significativo per noi e renderebbe sostenibile l’intero sistema carcerario”. Un appalto sui detenuti. Del resto, il Salvador se lo può permettere: il supercarcere di Tecoluca, 74 km a Est di San Salvador, ospita il Centro de Confinación de Terrorismo (Cecot), il più grande di tutto il Continente latinoamericano; qui sono incarcerati oltre 20mila membri delle gang di Mara Salvatrucha 13 e Barrio 18, due delle più potenti della regione, smantellate tre anni fa dall’amatissimo presidente. La struttura può ospitare fino a 40mila detenuti anche se oggi non si sa esattamente quanti ne siano rinchiusi. Si tratta di un vero campo di concentramento, più volte condannato dalle organizzazioni internazionali per i diritti dell’uomo. La maggior parte dei prigionieri è accusata di far parte delle maras. Magari solo per un tatuaggio sospetto che li collega a una delle tante gang adesso ridotte al silenzio. Non hanno garanzie, difese, processi. Spesso attendono mesi per conoscere il loro destino e magari essere scarcerati, senza molte scuse, dopo che è stata accertata la loro estraneità al mondo della criminalità. Rubio è apparso entusiasta dell’idea. In cambio gli Usa fornirebbero strumenti e soldi per allestire delle centrali nucleari in Salvador. “Puntiamo - ha spiegato il Segretario di Stato Usa - a fare di questo Paese un luogo dove tutte le tecnologie, tutte le industrie, tutte le promesse di questo nuovo secolo possano essere trovate”. L’accordo si chiama Memorandum d’intesa sulla cooperazione nucleare civile strategica, Ncmou. È stato firmato dalla ministra degli Esteri del Salvador Alexandra Hill Tinoco che ha parlato di “nuova strategia che fornirà energia 24 ore al giorno, ogni giorno, a un prezzo competitivo senza dipendere dalla geopolitica o dai prezzi del petrolio”.