I primi sì dei giudici a incontri intimi in carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2025 A Parma e Terni accolte le ragioni dei detenuti contro i no del ministero. I magistrati applicano le indicazioni di Consulta e Cassazione. Arrivano i primi provvedimenti sul riconoscimento del diritto all’affettività nelle carceri. A più di un anno dalla sentenza della Corte costituzionale e a poche settimane dalla pronuncia della Cassazione che ha contestato il declassamento a semplice aspettativa della richiesta di momenti di intimità, i magistrati di sorveglianza intervengono per dare effettività a un riconoscimento sinora rimasto solo sulla carta. I ricorsi - Sia a Spoleto sia a Parma, con provvedimenti dal contenuto analogo, infatti vengono accolti i reclami presentati da detenuti contro le decisioni degli istituti penitenziari che hanno negato la possibilità di colloqui intimi con la compagna. Starà ora all’amministrazione penitenziaria valutare la possibilità di impugnazione davanti al tribunale di sorveglianza prima e in Cassazione eventualmente dopo. Possibile infine, davanti a una ripetuta inerzia nel dare esecuzione a verdetti favorevoli ai detenuti, anche l’esercizio del giudizio di ottemperanza con la nomina di un commissario a supplenza della stasi dell’amministrazione. 60 giorni per adeguarsi - Intanto, però, entrambi i provvedimenti dei giudici di sorveglianza danno tempo 60 giorni di tempo ai due penitenziari, quello di Parma e quello di Terni, per individuare le modalità con le quali far svolgere un colloquio visivo intimo, senza il controllo a vista della polizia penitenziaria. Soluzioni temporanee - Se in entrambi i casi l’amministrazione penitenziaria si era trincerata tra l’altr0 dietro la totale assenza di interventi da parte delle strutture superiori per dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale del gennaio 2024, ora i due provvedimenti ricordano che al diritto all’affettività, in assenza delle condizioni ostative individuate dalla stessa Consulta, può essere realizzato anche attraverso “soluzioni temporanee, in assenza di interventi più strutturati e definitivi”. Responsabilità dei dirigenti - A chiamare i dirigenti delle carceri a un’assunzione di responsabilità del resto è la stessa Corte costituzionale, si legge nel provvedimento dell’Ufficio di sorveglianza di Reggio Emilia (con giurisdizione su Parma), a segnalare come “in attesa di un auspicato intervento legislativo, la preminente necessità di garantire anche alle persone detenute di poter esprimere una normale affettività in ambito familiare, rende necessario un intervento dell’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, al fine di dare un’ordinata attuazione alle decisioni, incluse le direzioni degli istituti”. Non pesa l’alta sicurezza - Non pesa poi il fatto che tutti e due i detenuti siano collocati con posizione definitiva nel circuito di alta sicurezza (pochi giorni fa oggetto delle dichiarazioni del Procuratore antimafia Giovanni Melillo come ormai assolutamente permeabile alle diverse infiltrazioni della criminalità organizzata). È la stessa Corte costituzionale infatti, si ricorda, a indicare che non esistono ostacoli normativi all’esercizio dell’affettività all’interno del carcere visto che l’ostatività del titolo di reato incide sulla concessione dei benefici penitenziari, ma non sulle modalità dei colloqui. Tanto è vero che colloqui visivi senza ascolto da parte della polizia penitenziaria sono da tempo ammessi anche per chi è nel circuito di alta sicurezza, con esigenze quindi particolari di controllo. Infatti, si osserva nei provvedimenti, i detenuti da tempo svolgono colloqui visivi con la partner non assoggettati a misure di registrazione o di ascolto. Escluse quindi, a dire dei magistrati, possibilità di strumentalizzazione a fini illeciti del colloquio intimo. Nessun ostacolo soggettivo - Alla base delle decisioni contrarie al riconoscimento del colloquio protetto infine mai erano stati messi in evidenza profili soggettivi attinenti alla personalità dei detenuti. Anzi, ed è il caso del detenuto a Parma, semmai a emergere è una condotta assolutamente regolare, la consapevolezza della gravità delle azioni commesse, la presa di distanza dal contesto criminale di provenienza, l’affrancamento dall’uso di sostanze stupefacenti e l’adesione ai programmi trattamentali. Amirante: “Finora nessun intervento è stato fatto per applicare la sentenza della Consulta” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2025 In assenza di interventi strutturali occorre, secondo la coordinatrice nazionale dei Magistrati di Sorveglianza, procedere con soluzioni temporanee individuabili dalle direzioni degli istituti. Monica Amirante, presidente del tribunale di sorveglianza di Salerno, è la coordinatrice nazionale dei magistrati di sorveglianza, un segmento della magistratura (230 circa) tra quelli più sotto pressione ed esposti alle polemiche per le possibili ricadute delle decisioni prese ogni giorno sul trattamento dei detenuti. Dopo le prime pronunce che riconoscono ai detenuti il diritto all’affettività è prevedibile un aumento significativo delle richieste? Sì, più forte sarà la comunicazione più estese saranno le domande per vedere riconosciuto un diritto che del resto è stato riconosciuto poco più di un anno fa dalla Corte costituzionale, e poche settimane fa, dalla Cassazione. Ma va ricordato che si tratta di un diritto che è parte costitutiva degli ordinamenti penitenziari di molti altri Paesi, non solo europei. Ecco, dalla sentenza della Consulta è trascorso più di un anno, eppure nulla è stato fatto dal ministero della Giustizia per darvi esecuzione. Ora a muoversi sono i singoli magistrati di sorveglianza in una funzione quasi di supplenza. Non è grave? Certo. Pochi mesi fa abbiamo scritto al ministero della Giustizia sottolineando la criticità della situazione attuale. La sentenza della Corte costituzionale, che riconosce il diritto delle persone detenute all’espressione di una normale affettività con il partner, in assenza di ragioni di sicurezza che la impediscono, è totalmente inapplicata. Da quanto risulta in nessun istituto penitenziario sono stati individuati tempi e modi per dare anche solo le prime risposte a queste richieste, coerenti con la funzione rieducativa della pena. Sull’attività del tavolo costituito al ministero poco sappiamo. Difficile però pensare che in condizioni di vita troppo spesso drammatiche, certificate dal numero crescente di suicidi, si possano individuare spazi per incontri in condizioni di assoluta riservatezza... Questo è senz’altro vero, tuttavia non può fondare l’assenza di qualsiasi intervento. Anche nei programmi attuali predisposti dai diversi Provveditorati (le articolazioni nelle Regioni del ministero della Giustizia, ndr) non si trova traccia di un minimo livello di attenzione sul punto. Poi è chiaro che le condizioni di Poggioreale non sono quelle di istituti di dimensione minore. Meglio sarebbe allora una gradualità nell’applicazione allora? Ma la stessa Corte costituzionale ne era consapevole ed emerge dalla sentenza di gennaio 2024. E del resto anche questi ultimi interventi dei colleghi mettono proprio in evidenza come, in assenza di misure strutturali, è però possibile procedere comunque, anche con soluzioni temporanee che le direzioni degli istituti potranno individuare. Sesso in carcere nelle stanze dell’amore. I primi due permessi a Parma e a Terni di Claudia Osmetti Libero, 14 febbraio 2025 I rispettivi magistrati di sorveglianza hanno accolto i ricorsi dei detenuti, che dunque potranno intrattenersi intimamente con le partner in locali appositi e non sorvegliati. L’anno scorso la consulta aveva dichiarato illegittimo il divieto. È la magistratura di sorveglianza (in due casi differenti, il primo a Terni e il secondo a Parma) a creare, di fatto, un “precedente”: per la prima volta nella storia italiana a due detenuti è stato accordato il permesso a fare colloqui intimi con la propria compagna (nella vicenda umbra) e con la propria moglie (in quella emiliano-romagnola). Sì alle “stanze dell’amore”, insomma. Sì al diritto all’affettività in prigione. Gli incontri sentimentali, in entrambe le situazioni, hanno l’obiettivo dichiarato (esplicitato dai diretti interessati nelle rispettive richieste) di permettere ai due carcerati di avere rapporti sessuali all’interno delle strutture che li ospitano e, di conseguenza, si potranno svolgere senza la sorveglianza della polizia penitenziaria. Non è stato facile ottenerli, né a Terni né a Parma: al primo rifiuto da parte della prigione, infatti, sono state necessarie due azioni legali portate avanti grazie all’aiuto dei rispettivi avvocati e durate parecchi mesi. Ma alla fine è arrivata l’ordinanza (anzi, le ordinanze: due, separate, per due storie praticamente fotocopia e con la sola differenza che il detenuto di Terni ha motivato la sua domanda col desiderio di genitorialità mentre quello di Parma con l’intenzione, alla stessa stregua sacrosanta, di poter stare in intimità con la propria consorte) che dà alla direzione delle carceri un lasso di tempo di due mesi per attrezzarsi e rendere operativi gli incontri. Del diritto al sesso dietro le sbarre se ne parla, in verità, da anni. Da quando, cioè, la Corte Costituzionale lo ha messo nero su bianco nei fogli di una sentenza (la numero 10 del 2024) che sottolineava come “l’ordinamento giudico tuteli tutte le relazioni affettive” e, di conseguenza, che “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità, ma non può annullarla alla radice con una previsione astratta e generalizzata”. Una decisione che era stata, tredici mesi fa, giustamente considerata una rivoluzione, ma che si era scontrata quasi subito con un problema di ordine pratico: la Consulta non ha mai chiarito le modalità e la procedura con cui attuare, concretamente, il suo dispositivo. A Padova, per esempio, nel carcere cittadino, alcune associazioni si sono mosse per creare queste “stanze dell’amore” incamerando il parere positivo della direzione, ma il progetto è stato bloccato per una questione di ricerca delle competenze effettive a portarlo a termine. L’allestimento vero e proprio, ha sostenuto il governo, spettava al dap, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Risultato: tutto fermo. La soluzione potrebbe arrivare, adesso, proprio dai pronunciamenti della magistratura di sorveglianza che, non solo ha approvato le due richieste in questione, ma ha anche incaricato (nello specifico) chi dovrà garantire le “stanze dall’amore”: ossia le carceri nelle quali i detenuti sono ospiti. Ed è proprio per questo che i casi di Terni e di Parma (che riguardano due detenuti di alta sicurezza, ossia sottoposti a un regime carcerario non ordinario ma che prevede una sorveglianza maggiore, e che hanno dimostrato la loro buona condotta) potrebbero riaprire la strada che, a tutti gli effetti, è quella indicata dalla Corte Costituzionale, tanto che un richiamo al suo dispositivo compare in entrambe le domande presentate. L’avvocato Pina di Credico che ha seguito la pratica parmigiana sta assistendo anche altri due detenuti nella stessa condizione che, tuttavia, al momento, sono ancora in attesa di una risposta da parte della struttura. Anche Ornella Favero, come riporta Il Post, che è la direttrice della rivista Ristretti orizzonti sempre attiva per i diritti di chi è in arresto e che ha sede a Padova, fa sapere che in diversi hanno intrapreso questa via presentando reclami simili. Detenuto nel carcere di Terni vuole diventare padre e ottiene l’ok del magistrato di sorveglianza di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 14 febbraio 2025 Ma il Dap fa ricorso contro l’ordine del giudice di fornire la “stanza dell’affettività” entro 60 giorni. Il detenuto campano, ristretto nella Sezione Alta Sicurezza del penitenziario di Terni, vorrebbe avere un figlio. Ha chiesto alla direzione di poter avere incontri intimi con la compagna, forte di una sentenza della Corte costituzionale che un anno fa si era espressa per il sì ai rapporti sessuali in carcere, ricevendo un secco no. A quel punto ha presentato reclamo al magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi. È stato lui a mettere nero su bianco la missiva con cui chiede alla direzione del penitenziario ternano di adempire entro sessanta giorni alla richiesta del detenuto campano, mettendo a sua disposizione la stanza dell’affettività. Una missiva che ha avuto la pronta risposta del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha già fatto appello al tribunale di sorveglianza di Perugia contro la richiesta avanzata da Fabio Gianfilippi dopo il reclamo del detenuto. Un modo per tentare di allungare i tempi di una decisione che comporta sforzi organizzativi non indifferenti. La messa a disposizione delle stanze dell’affettività richiede spazi adeguati e il dap da qualche mese sta studiando come poterli reperire. L’ipotesi è quella di creare unità abitative dedicate ma ci vuole tempo e un impegno economico. A rimettere la questione alla Corte costituzionale era stato lo stesso magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, che riteneva che il controllo a vista sui colloqui con il partner implicasse per il detenuto “un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”. La sentenza di un anno fa, che dice si al sesso in carcere e no ai controlli a vista sui colloqui in cella col partner, nata dal ricorso presentato da un detenuto laziale che all’epoca era ristretto a Sabbione, avrebbe dovuto rivoluzionare l’organizzazione dei penitenziari. Chiamati a prevedere la realizzazione di quelle casette dell’amore di cui si discute da anni. Fin qui non ci sono stati passi in avanti e ora c’è da decidere in fretta sulla nuova istanza del detenuto campano che vuole diventare padre. Vicenda che si discuterà nelle aule del tribunale di sorveglianza di Perugia. “La Corte costituzionale un anno fa ha riconosciuto il diritto all’affettività dei detenuti un diritto fondamentale, da ricollegare all’articolo 2 della Costituzione ed è grave che ci sia voluta la Corte per ristabilirlo” dice Giuseppe Caforio, garante dei detenuti per l’Umbria, che sottolinea la lungimiranza della magistratura di sorveglianza di Terni sul delicato tema. “Detto ciò - aggiunge con forza Giuseppe Caforio - i diritti non si possono barattare con le inefficienze o l’incapacità amministrativa. Concordo col magistrato Gianfilippi nel dare un termine congruo di sessanta giorni dopo di che è evidente che qualcuno non sta facendo il proprio dovere. La sentenza è di un anno fa e ad oggi nulla è stato fatto. È giunto il momento che qualcuno faccia il proprio dovere - insiste il garante dei detenuti - e se non lo fa ne pagherà le conseguenze. Immaginiamo che questa vicenda avrà una pioggia di ricorsi con richieste di risarcimento danni che finiranno di fronte alla giustizia contabile per cui ritengo che sia giunta l’ora di decidere su quello che, come stabilito, è un diritto fondamentale”. Le promesse ed i proclami del ministro Nordio sulle carceri di Lucio Motta filodiritto.com, 14 febbraio 2025 Il 2025 si è aperto con 10 suicidi nelle carceri italiani nel primo mese dell’anno, a cui si aggiungono altri 20 decessi per i quali certo un qualche effetto è determinato dal sovraffollamento (arrivato al 132%) e la cronica carenza e inefficienza sanitaria delle carceri, porta a 30 i morti da inizio anno nei penitenziari. Lei non trova di meglio che annunciare ottomila nuovi posti detentivi entro i prossimi due anni. Ottomila posti in più non coprono il fabbisogno attuale atteso che oggi sono presenti nelle carceri italiane 11mila detenuti in più rispetto alla capienza attuale degli istituti di pena. Né valgono le aspettative incrociate: 8mila posti in più e riduzione dei detenuti a seguito delle misure assunte con il Decreto n. 92 del 4 luglio 2024, convertito con la Legge n. 112 dell’8 agosto 2024, provvedimento che avrebbe dovuto, a suo dire, scarcerare 15 mila detenuti entro settembre/ottobre 2024. In verità i detenuti sono aumentati anziché diminuire grazie anche al Decreto Sicurezza che ha introdotto ulteriori e aggiuntivi 16 mila anni di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso alle misure alternative. Una politica carceraria che si muove nell’esatto opposto di quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione e dall’Ordinamento Penitenziario vigente che nel corso degli anni pur avendo subito svariati rimaneggiamenti appare come l’ultimo baluardo per ostacolare il “buttiamo le chiavi”. Lei annuncia ottomila nuovi posti detentivi entro i prossimi due anni: ne prendiamo atto Ministro e nel frattempo ?? nel frattempo che lei e i suoi consulenti costruiate nuovi posti detentivi, che sarà di noi detenuti in celle sovraffollate, impestate da cimici, in cui manca l’igiene, scorre solo acqua gelida, e le docce funzionano a singhiozzo? Continueremo a vedere compagni provati e non assistiti psicologicamente a togliersi la vita disperati in una condizione che di umano ha nulla?! Signor Ministro i detenuti, sono cittadini verso i quali lo Stato ha assunto l’obbligo della custodia e della rieducazione…non possono essere ignorati e trattati peggio di ogni altro cittadino. I detenuti delle carceri sovraffollate hanno attraversato il Covid senza che nessun governo abbia loro reso un minimo ristoro , come è stato offerto e reso ai cittadini in difficoltà colpiti dalla pandemia… abbiamo vissuto il sovraffollamento Covid isolati dal mondo senza contatti con i familiari e chiusi da ogni contatto con la società: ci era stato promesso un ristoro per il sovraffollamento e la condizione estrema patita in due anni di pandemia, l’aveva promesso il ministro Cartabia, ma nulla se ne è fatto…i successori hanno fatto orecchie da mercanti e i detenuti sono rimasti a guardare l’inasprimento delle condizioni, i compagni morire suicidi, gli agenti disperati cedere sotto l’usura psicologica, e promesse da “marinaio” del Ministro annunciato come il più garantista…ma ahimè anche il più distratto e incoerente. Eppure c’è pure qualche ministro che, in veste di imprenditore, i ristori del Covid li ha illecitamente utilizzati, non li ha mai restituiti ed oggi siede incollata al suo scranno nella condizione in cui per molto meno normali imprenditori sono in carcere per bancarotta e falso in bilancio. Signor Ministro Nordio, i suoi proclami hanno la credibilità delle promesse di pulcinella, lei sa bene che quanto annuncia non avrà seguito se non in minima parte ed in tempi che non sono compatibili con l’emergenza…ma certo Lei deve garantire e dimostrare l’inflessibilità dello stato che esegue la pena in nome della certezza della stessa; quindi nessun indulto, nessuna amnistia, nessuna garanzia …anche quando tali misure servirebbero solo da decongestionamento nel regime transitorio che dovrebbe portare alle soluzioni annunciate. Già prima erano le Caserme da riconvertire, ora gli ottomila nuovi posti detentivi, nel mezzo nuovi reati e inasprimenti di pena… No signor Ministro, non sono gli ottomila nuovi posti, o le caserme dismesse riconvertite in ostelli detentivi …Lei lo sa, e proprio perché lo sa, la sua inerzia, la sua mendace presa di tempo, si disvelano come una terribile condotta da aguzzino. Lei sa bene signor Ministro che non sono queste le soluzioni, Lei sa bene che questi strumenti esacerbano la condizione detentiva e umiliano la funzione costituzionale della pena, Lei sa bene che l’Italia è inadempiente rispetto alla Corte di giustizia europea, che più volte ci ha censurati e sanzionati, Lei sa bene che siamo prossimi ad una nuova condanna per condotta disumana nelle nostre carceri… Signor Ministro lei sa bene che la soluzione non può essere quella annunciata, ma quella di una profonda revisione del sistema penale, una revisione che passa prima di tutto dalla adozione di un nuovo Codice Penale che riscriva le pene, diversificandole rispetto alla unica pena detentiva della reclusione del Codice Rocco, il Codice a sbarre, Lei sa benissimo che solo un nuovo Codice Penale costituzionalmente ispirato ed informato al dettato Costituzionale (art. 27 Cost.) potrà risolvere una volta per tutte il problema carcere, Lei lo sa benissimo, per essere stato Presidente dell’ultima Commissione parlamentare per la Riforma del Codice Penale, per avere nel Cassetto il nuovo Codice penale e per questo lei è colpevole di non attuare la vera ed unica riforma da fare, la riforma della pena e della esecuzione della pena. Signor Ministro, abbia il coraggio e l’onestà intellettuale di affrontare un dibattito serio, ponderato e umanamente ispirato, sul carcere e sulla detenzione, sulla pena costituzionalmente ispirata, abbia il coraggio di fare ciò che il suo status, la sua cultura, il suo ruolo istituzionale le impone, e di lasciare i Politici senza arte e parte le disquisizioni populiste sulla certezza della pena e sul “buttiamo le chiavi”. Già le ho scritto questi pensieri in forma epistolare e formale con una lettera a lei indirizzata quale Ministro, non so neppure se l’abbia mai letta quella lettera, so per certo che non mi ha mai risposto… già perché un detenuto non merita l’attenzione di un Ministro ed una risposta alle domande poste…forse anche Lei è tar quanti pensano che un detenuto non ha neppure il diritto di farle le domande. Ed allora le rinnovo l’invito con questa lettera pubblica: signor Ministro affronti il tema della Riforma del Codice (tiri fuori il Codice Penale licenziato dalla commissione parlamentare da lei presieduta) affronti il tema della pena costituzionalmente ispirate e la diversificazione delle pene, abroghi una volta per tutte l’unico residuo che ancora resiste dell’era fascista , il Codice Rocco, e liberi il principio costituzionale della pena come viatico di risocializzazione… farà un servizio prima di tutto allo Stato ed alla nazione tutta, regalerà ai condannati una speranza di umanità… La sollecito con le parole di un prete della valle padana, diceva don Primo Mazzolari: “La giustizia non basta. La giustizia è nelle mani di pochi, la misericordia è nelle mani di tutti. Essa, nelle nostre mani, non è che il giudizio dei giudici continuato sovra un pino di beatitudine - beati i misericordiosi - a compimento della giustizia stessa. Dove la giustizia si ferma, la misericordia continua. Un appello a vuoto, dirà qualcuno. Non c’è più misericordia si questa terra! Lasciate che io protesti contro questa pessimistica dichiarazione. Finché ogni mattina vedrò aprirsi l’alba sulle tenebre della notte e sorgere il sole, finché spunterà una stella sul buio del cielo, finché vedrò aprirsi le nubi e scendere sulla terra arsa la pioggia e fermarsi la rugiada sulle erbe e sui fiori, finché sull’alito caldo del giorno passerà un filo di vento, la pietà esiste. … Il cancello della prigione si chiude, la barriera è alzata, sicura, impenetrabile. La società può mangiare e divertirsi tranquillamente. Un recluso! Un’esperienza lontana, anche per me che ci sono stato, anche per un cristiano, che ha il rimprovero temendo della parola: “Io ero prigioniero e tu non mi hai visitato”. … Allora, alla domanda chi è il prigioniero? Non c’è più bisogno, per rispondere, ch’io lo chieda ai giudici, all’opinione dei benestanti, mi basta aprire il vangelo: “ io ero prigioniero …”. Una faccia del Cristo, come il malato, il senza casa, l’affamato, l’assetato, un suo volto, più durevole di ogni effige di lui e che durerà fino alla fine dei secoli, un segno di riconoscimento per chi lo cerca e si dice suo discepolo. “ero prigioniero …” non disse: ero ricco, ero felice, ero galantuomo. Ma Cristo, che ha fame, sete ed è ignudo, malato e pellegrino, è meno “infamante” di un Cristo “prigioniero”. “Sovraffollamento, suicidi e riforme urgenti. La speranza è l’unica via d’uscita” toscanaoggi.it, 14 febbraio 2025 Mario Marazziti, responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, in quest’intervista riflette sulla drammatica realtà dei penitenziari e sottolinea la necessità di umanizzare il sistema carcerario. “Pena e speranza, la vita in carcere, le riforme necessarie”. È il titolo dell’incontro che si è svolto lunedì in palazzo arcivescovile a Siena per approfondire il tema sempre più drammatico della vita dietro le sbarre. Promosso dall’Arcidiocesi di Siena, Colle Val d’Elsa e Montalcino in collaborazione con l’associazione Derek Rocco Bamabei. Alla presenza del cardinale Augusto Paolo Lojudice e della presidente della fondazione Bamabei Anna Carli a invitare i tanti presenti a una profonda riflessione sul problema sono state le parole di Mario Marazziti, già deputato e oggi responsabile delle relazioni istituzionali e internazionali della comunità di Sant’Egidio che abbiamo intervistato. Mutuando il titolo del convegno per entrare nello specifico: da fede, speranza e carità a pena, speranza e? “Pena, speranza e umanizzazione. Per avere un futuro. Perché quello che oggi manca a chi sta in carcere è la visione e la certezza in qualcosa che possa ricominciare davvero. Perché purtroppo il carcere per com’è oggi, e non solo in Italia, produce solo carcere. Chi ha scontato tutta la pena, due volte su tre ci torna subito”. Quali sono i problemi principali delle carceri italiane oggi? “Il carcere rischia, per il sovraffollamento, per le grandi difficoltà del personale e per la difficoltà della reclusione a rigenerare le persone, di proporre il nulla a chi sta scontando una pena o, peggio, a chi è in attesa di giudizio. E questo tempo del nulla può portare a disperazione, rassegnazione e privazioni familiari della compagnia dei propri cari”. E può portare anche al suicidio: l’aumento esponenziale dei casi ne è la conferma? “Certamente. L’aumento dei suicidi, lo ha detto anche recentemente il presidente della Repubblica Mattarella, è indice... di un fallimento. Il fallimento di un’intera società. C’è un mistero quando uno si toglie la vita. Ma tanti misteri, uno dietro l’altro sono una grande domanda. E la risposta è che il carcere è disfunzionale. Un dato oltremodo preoccupante è che in alcuni penitenziari, è il caso di Regina Coeli per esempio, il maggior numero di suicidi avviene nei primi quarantacinque giomi dall’ingresso. Un numero che dà il senso del trauma, aggravato dal fatto che la metà sono persone in custodia cautelare, cioè ancora in attesa di giudizio”. Si sta facendo qualcosa di concreto? “Ministero, garante dei detenuti e tutti gli enti preposti si stanno interrogando. Noi, come comunità di Sant’Egidio da molti anni siamo attivi con visite e iniziative varie. Pensate che solo a Natale scorso avevamo raggiunto in maniera personale più di diecimila detenuti. E questo abbiamo visto come cambi il clima e consenta di ridurre la disperazione”. Negli istituti minorili? Com’è la situazione? “Più o meno identica. Anche dopo il decreto Caivano abbiamo visto che sono addirittura aumentati gli ingressi col personale che numericamente è sempre lo stesso. Ed esattamente come nelle strutture più grandi è aumentata la disperazione e la difficoltà di vita. E anche in questo caso, nei luoghi dove noi facciamo attività di scuola o iniziative come i laboratori della pace per minorenni, non ci sono episodi di rivolta. I ragazzi vengono puntuali e sono anche più felici. Pensate che abbiamo ricevuto lettere da qualcuno che ci ha scritto come scrivesse alla propria madre, dicendoci che per loro rappresentiamo questa figura. E questo dimostra che, in fondo, non c’è nessuno così cattivo che non possa ricominciare a vivere. Ma c’è bisogno di qualcuno che ti tratti come un essere umano”. Visto dall’altro lato delle sbarre, anche il personale che lavora all’interno dei carceri ha grossi problemi, conferma? “Più di quanto si possa immaginare. Perché questo sistema penitenziario disumanizza anche la vita di chi nelle carceri lavora. Forse non tutti sanno che il tasso dei suicidi è inimmaginabile anche nel personale della polizia penitenziaria. Nell’ultimo anno, vado a memoria, ai circa novanta casi di carcerati che si sono tolti la vita, vanno aggiunti quasi una decina fra il personale addetto alla sorveglianza. Il che fa salire il totale a cento poliziotti carcerari che si sono suicidati negli ultimi dieci anni”. Marazziti, lei è co-fondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte e membro del suo comitato direttivo fin dal 2002, anno della sua fondazione. Oggi da Siena, in Toscana, prima regione ad abolirla nella storia, quale riflessione le viene su questa barbarie che in alcuni paesi è ancora in vigore? “La pena di morte è la sintesi di tutte le violazioni sulla persona umana. La negazione che quella persona è un essere umano. Oltretutto non c’è alcun caso nel mondo in cui la pena di morte sia un deterrente contro i reati gravi. L’unica cosa positiva è che negli ultimi anni sono sempre di più i paesi o che l’hanno abolita o che la usano sempre meno”. Se posso chiudere in maniera un po’ provocatoria, che differenze ci sono fra le carceri sovraffollate e i centri di prima accoglienza per le persone in arrivo da altri paesi in cerca di un futuro migliore? “Credo che ci sia una differenza di speranza. Chi arriva in un centro di prima accoglienza è spinto da una forza incredibile di miglioramento della vita che gli consente di resistere anche a un’ultima disperata e inimmaginabile prova di sopportazione. Pur a fronte di difficoltà terribili, già vissute e in qualche modo ancora da provare. Un tempo certamente disperante, ma che si concepisce come limitato”. Quindi, per tornare all’inizio, la parola chiave è speranza? “Sì. La parola chiave è speranza, ma serve sempre qualcuno che te la ricordi”. Si sblocca lo stallo, eletti i giudici della Consulta di Andrea Colombo Il Manifesto, 14 febbraio 2025 Anche se l’accordo c’era già da due giorni e gli ultimi inevitabili scogli erano stati superati già la sera prima, ieri mattina deputati e senatori sono arrivati all’ennesima votazione per l’elezione di 4 giudici costituzionali senza essere davvero sicuri di farcela. Invece è andato tutto liscio. Nessun problema per i due nomi già certi e blindati, per primo quello di Francesco Saverio Marini, ordinario di Diritto pubblico a Tor Vergata con alle spalle anche una lunga esperienza nel tribunale del Vaticano. È il papà del premierato, coccolato dalla premier e sponsorizzato dal partito di maggioranza relativa: non è mai uscito dalla botte di ferro. Incidentalmente è anche figlio d’arte: papà Annibale era giudice costituzionale e per un po’ anche presidente della Consulta. Nessun dubbio neppure sul candidato in quota Pd Massimo Luciani, docente di Diritto costituzionale alla Sapienza. È uno dei giuristi più universalmente stimati dall’intero centrosinistra con una quantità di incarichi alle spalle inclusa la presidenza della commissione per la riforma del Csm con Marta Cartabia guardasigilli e il coordinamento della commissione sulla bioetica dei Lincei. Nessuna nube. I guai erano concentrati sugli altri due nomi. La spartizione prevedeva un giudice tecnico proposto dalle opposizioni e gradito alla maggioranza. La quadra si era trovata già martedì sera su Maria Alessandra Sandulli, ordinaria di Diritto amministrativo a Roma Tre ed esperta in Diritto sanitario. Il suo primo sponsor è stato Giuseppe Conte, il secondo Matteo Renzi che aveva già provato ad aprirle le porte della Consulta nel 2014: a fermarla era stato il veto di Fi, inviperita per le critiche aspre che aveva riservato alle riforme costituzionali volute da Berlusconi. Viene anche lei da una stirpe di costituzionalisti, con il padre Aldo famoso giurista, ex presidente della Corte, e una cugina, l’avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, che per un po’ è sembrato le contendesse la pregiata nomina. Tanta sovrabbondanza di rampolli avrebbe creato qualche problema nelle file del centrosinistra. Dicono poi che qualche malumore azzurro ci sia stato anche stavolta e di certo avanzava dubbi in extremis anche FdI, considerando Sandulli troppo benvoluta dall’opposizione e in particolare da Conte. Se le esitazioni ci sono state davvero si sono comunque rapidamente sciolte di fronte alla necessità di chiudere l’estenuante partita, soprattutto di fronte alla sferza di Sergio Mattarella. La telefonata di mercoledì sera tra la premier ed Elly Schlein non ha sbloccato niente: è servita solo a confermare l’accordo già siglato 24 ore prima. I problemi veri, quelli che hanno tenuto la fumata bianca in forse sino all’ultimo, dimoravano tutti all’interno di Fi e della lotta tra diverse aree e diverse personalità nel partito azzurro. Una saga da serie Netflix, iniziata con la candidatura che pareva certissima del viceministro della Giustizia Sisto, bocciata però dalla premier: avrebbe lasciato un seggio parlamentare vacante e nel suo collegio si sarebbe candidato il governatore uscente della Puglia Emiliano. Tra deludere Sisto e perdere un seggio la premier non ha avuto dubbi. Al suo posto sarebbe potuto diventare giudice costituzionale Zanettin ma ad affondarlo ha provveduto lo stesso Sisto: senatore anche lui, seggio parlamentare a rischio, eliminato. Il professor Andrea Di Porto ha avuto il suo momento di gloria ma era stato avvocato sia di Berlusconi che di Fininvest: un po’ troppo per farlo eleggere come se nulla fosse. La candidatura su cui puntava Tajani dall’inizio era quella di Gennaro Terracciano, prorettore dell’Università del Foro Italico, legatissimo al capogruppo Barelli ma anche molto allo stesso Tajani e in più amicone del capo di gabinetto della premier Caputi. La sua elezione avrebbe rafforzato sostanziosamente la posizione del vicepremier e della sua area all’interno di Fi. Quindi i deputati azzurri hanno provveduto a impallinarlo, con l’alibi della sua qualifica tecnica: “Ci vuole un politico”. E chi più politico di Roberto Cassinelli, che è un forzista della primissima ora, azzurro sin dal 1994, senatore e deputato? Il quarto giudice costituzionale è effettivamente lui. Mirabelli: “Una maggioranza non può tutto. La Corte è il giudice delle libertà” di Francesco Grignetti La Stampa, 14 febbraio 2025 Il presidente emerito della Consulta: “Le nostre sentenze sono collegiali. Contano soltanto le argomentazioni, non le appartenenze”. Il rapporto tra la politica e la Corte costituzionale è da sempre un delicato equilibrio perché non c’è maggioranza che gradisca sentirsi sotto esame. Lo sa bene il presidente emerito Cesare Mirabelli e non se meraviglia: “La Corte è chiamata anche “giudice delle leggi” perché valuta se il legislatore, che pure è al centro del sistema istituzionale, in ipotesi ha violato con qualche propria legge la Costituzione”. E se poi in un pacchetto di quattro nomine c’è una sola donna, osserva: “Il Parlamento avrebbe potuto impegnarsi di più, ma è nella sua discrezionalità. Avrebbe potuto essere più aperto alla questione femminile, tanto più che le donne si affermano oggi per la loro professionalità e non per quote di riserva”. Presidente, a volte ci sono poteri politici che non tollerano un contraltare. Si veda la partenza della nuova amministrazione Trump. Può succedere anche in Italia? “Nel sistema italiano una maggioranza non può tutto. Non è che democraticamente, sulla base cioè della rappresentanza politica, si possono poi adottare leggi liberticide che violano i diritti dell’individuo. E la Corte è una garanzia: non ha una funzione politica e deve rispettare la discrezionalità politica laddove ci può essere una scelta propria delle legislatore, ma nemmeno la più grande maggioranza può incidere sui diritti costituzionali. La Corte è il “giudice delle libertà” e questo è il suo ruolo più importante”. Perché viviamo in un sistema di pesi e contrappesi, giusto? “Il sistema statunitense dà forti poteri al Parlamento e forti poteri all’Esecutivo che ha una diretta investitura popolare. Nel nostro sistema di democrazia parlamentare, il Parlamento può quasi tutto, ma anche il Parlamento è sottoposto a regole. In un sistema costituzionale di diritto non c’è nessun organo che non sia sottoposto a regole”. Eppure si nota una certa insofferenza, ogni tanto, da parte delle maggioranze di turno... “È un tema che esiste dalla nascita della Repubblica. Si pensi che nell’assemblea costituente c’era chi si interrogava, in particolare il partito comunista: non è un limite alla democrazia che questi signori possano porre nel nulla una legge? Ma nulla si può opporre se una legge è in contrasto con la Costituzione”. Ogni tanto però qualche intolleranza esce fuori... “Le definirei difficoltà. Si sono verificate, quando, come si diceva un tempo, dalla Corte arrivano i moniti… Cioè quando la Corte non dichiarava seccamente una incostituzionalità, ma invitava il legislatore a provvedere”. Altri esempi? “Quando la Corte dichiarò incostituzionale la pratica di reiterare i decreti legge: il Parlamento non faceva in tempo ad approvare nei 60 giorni un decreto e il Governo lo ripeteva con le modifiche che il Parlamento aveva nel frattempo apportato. Tutto questa era fuori dal modello costituzionale perché sostanzialmente il Governo si appropriava di un’attività che è quella legislativa. Pensando all’attualità, mi pare che almeno due presidenti della Repubblica abbiano segnalato il problema dei maxi emendamenti. La Costituzione prevede che le leggi siano approvate prima articolo per articolo, e poi nel loro insieme. Se invece un solo articolo contiene centinaia di commi di oggetto diverso, sostanzialmente rattrappisce la deliberazione parlamentare. Questa, se permane, è una criticità che nel tempo potrà creare difficoltà e anche interventi della Corte”. Ci sono quattro nuovi giudici di nomina parlamentare, cioè politica. Quanto pesano le appartenenze nella Corte? “Guardi, la collegialità è totale. Quando in camera di consiglio si inizia la discussione, il relatore espone il problema, ma tutti hanno avuto l’intera documentazione, sono preparati e intervengono. Capita che il relatore, perché in disaccordo con le conclusioni del collegio, chieda di non essere anche l’estensore della sentenza, ma è un caso davvero raro. Più spesso succede che ugualmente scriva la sentenza perché a quel punto è il collegio che si esprime. E sempre, dopo che una sentenza è scritta, la si rilegge assieme per suggerire correzioni. Nella Corte davvero contano le argomentazioni, non le appartenenze. È banale tracciare una linea tra progressisti e conservatori in un lavorio collettivo”. La santa alleanza tra Anm e opposizioni per fermare Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 14 febbraio 2025 Nella mozione di sfiducia, il ministro è accusato di sfidare i giudici: è solo l’inizio. Basta riflettere sul calendario delle prossime settimane. Martedì 25 febbraio, alla Camera, si discuterà la mozione di sfiducia preparata dalle opposizioni contro Carlo Nordio per il caso Almasri. Non passerà, certo. È un’arma spuntata, almeno in apparenza. Ed è vero che il centrosinistra (dal quale, per l’occasione, si dissocia Carlo Calenda) non è che abbia altre grandi carte da giocare, in questo momento. Ma intanto il “processo politico” al guardasigilli dovrà celebrarsi. Nelle stesse ore in cui, mercoledì scorso, la capigruppo di Montecitorio fissava la data per mettere ai voti la sfiducia a Nordio, si è appreso che il Tribunale dei ministri avrebbe disposto l’acquisizione degli atti custoditi a via Arenula e relativi sempre alla liberazione dell’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Contestualmente, si è appreso che l’organo appositamente costituito presso la Corte d’appello della Capitale (come prevede la legge costituzionale numero 1 del 1989) intende procedere, nel caso di Nordio, anche per un illecito non prospettato dall’esposto alla base del procedimento, quello di Luigi Li Gotti: il nuovo reato che grava, in ipotesi, sul guardasigilli è omissione d’atti d’ufficio. Anche qui, non dovrebbero esserci conseguenze. Perché per i componenti del governo sopravvive ancora (sempre in base alla legge dell’89) l’autorizzazione a procedere che è invece stata cancellata dall’articolo 68 per i parlamentari. Della probabile richiesta che il Tribunale dei ministri formulerà (per interposta Procura di Roma) a carico del ministro della Giustizia, dovrebbe discutere, nel giro di qualche settimana, sempre Montecitorio, Camera d’appartenenza di Nordio: prima nella giunta per le Autorizzazioni (presieduta da Devis Dori di Avs) e poi in Aula. Si può anche dare per scontato che la richiesta di autorizzazione a procedere sarà respinta. Ma si tratterà di un’altra, doppia graticola pesante, per l’autore della riforma sulle carriere dei magistrati. Ecco: la riforma. Rischia di diventare il vero capo d’accusa nei confronti del guardasigilli. Il motivo per il quale, di qui in avanti, lo si vedrà continuamente sottoposto ad attacchi, accuse, fuoco incrociato. Se ne ha un chiaro indizio da un passaggio della ricordata mozione di sfiducia: “Il ministro della Giustizia ha intrapreso, seguendo le indicazioni della presidente del Consiglio, una condotta di netta contrapposizione con l’ordine giudiziario, minando il principio costituzionale della leale collaborazione tra le istituzioni”. Il testo è firmato dal capogruppo dem a Montecitorio Francesco Boccia. Netta contrapposizione con l’ordine giudiziario”: ci si riferisce, certo, anche alla Corte penale internazionale, e all’intervento quasi sprezzante con cui il ministro ha cercato di smontare, nell’informativa alla Camera dello scorso 5 febbraio, la validità formale dei capi d’imputazione formulati dai giudici dell’Aia nei confronti di Almasri. Ma quella frase evoca ovviamente il più generale e, soprattutto, domestico affronto che Nordio avrebbe rivolto, con la propria riforma, alla magistratura italiana. È questo il punto: per le opposizioni, o almeno per la loro gran parte (Pd, Movimento 5 Stelle e Avs), Nordio ha non solo la “colpa” di aver liberato e rimpatriato, “in combutta” con Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi, il torturatore libico, ma si porta sullo coscienza, più di tutto, l’improvvida (per gli avversari) legge che separa giudici e pm. Ha attaccato la Corte penale internazionale, fino quasi a dileggiarla, nell’informativa a Montecitorio su Almasri, così come intenderebbe annichilire l’ordine giudiziario interno. Un’accusa che unisce, in un unico grande fronte d’inquisizione, opposizione in Parlamento e Associazione nazionale magistrati. E qui emerge con chiarezza la prospettiva a cui Nordio è destinato per i prossimi mesi, fino alla celebrazione del quasi certo referendum sulla separazione delle carriere: essere bersaglio di accuse convergenti, stereofoniche, di Anm e avversari politici. Nordio sarebbe un ministro della Giustizia che vuole la “rovina” dei magistrati. È il profilo che gli hanno cucito addosso, “sindacato” dei giudici e centrosinistra. Il primo lo ha sfidato, lo contesta (e continuerà a farlo) com’è avvenuto con l’uscita dall’aula della Corte d’appello di Napoli lo scorso 25 gennaio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non appena lui, Nordio ha preso la parola. Il centrosinistra farà lo stesso: al momento di esporre la mozione di sfiducia, quando si esprimerà a favore della richiesta in arrivo dal Tribunale dei ministri e in tutte le altre occasioni che si presenteranno da qui al voto popolare sulla riforma. Nordio come bersaglio, come “avversario” da martellare senza pietà: centrosinistra e Anm sono già alleati di fatto. Magari le correnti togate hanno le loro difficoltà, le loro spaccature. Ma nella campagna anti-guardasigilli potranno contare su unsa solida sponda politica. Intercettazioni, la “tagliola” di 45 giorni passa anche in Commissione alla Camera di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2025 Bocciati tutti gli emendamenti, testo in Aula venerdì 21. L’esame del testo, già approvato a Palazzo Madama lo scorso ottobre, si è concluso giovedì mattina con l’approvazione del mandato ai relatori. Le proposte delle opposizioni sono state respinte senza dibattito. La Commissione Giustizia della Camera ha dato il via libera al disegno di legge che impone la “tagliola” di 45 giorni sulle intercettazioni, firmato dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. L’esame del testo, già approvato a Palazzo Madama lo scorso ottobre, si è concluso giovedì a ora di pranzo con l’approvazione del mandato ai relatori, l’azzurro Tommaso Calderone e Maria Carolina Varchi di Fratelli d’Italia: tra martedì e mercoledì erano stati bocciati tutti e 47 gli emendamenti, presentati dalle opposizioni. L’inizio della discussione in Aula è calendarizzato per venerdì 21 febbraio. Il ddl, riscritto al Senato da un emendamento della relatrice (l’ex ministra leghista Erika Stefani), è composto da un solo articolo, che modifica l’articolo 267 del codice di procedura penale: se adesso le intercettazioni possono essere prorogate senza limiti dal gip, su richiesta del pm, per periodi successivi di 15 giorni, “quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile”, da domani non potranno comunque “avere una durata complessiva superiore a 45 giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Fanno eccezione solo i reati informatici e di criminalità organizzata, per cui resta in vigore l’attuale disciplina speciale: quaranta giorni, prorogabili per periodi successivi di venti, qualora sussistano “sufficienti indizi” di reato (e non “gravi”). Esclusi questi casi, dunque, per poter intercettare oltre un mese e mezzo il pm dovrà portare al gip “elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. In quest’ultima espressione è nascosta la stretta: al momento, infatti, l’”assoluta indispensabilità” del mezzo può essere ritenuta sussistente anche se gli indagati, come spesso accade, per un certo periodo non dicono nè fanno nulla di compromettente. Con la nuova norma, invece, servirà per forza un “risultato” investigativo entro i primi 45 giorni, pena lo stop alle intercettazioni anche per reati gravissimi come omicidi, sequestri di persona, stalking, violenze sessuali. Un rischio di cui hanno avvertito moltissimi magistrati, nonché tutti gli addetti ai lavori ascoltati in audizione. “Questa proposta di legge è sbagliata, grave e pericolosa. Viene introdotta per la prima volta dopo soli 45 giorni una mannaia sulle indagini anche per reati gravissimi come l’omicidio. Una scelta dettata dal tipico furore ideologico della destra che rischia di compromettere le esigenze di sicurezza e l’individuazione dei responsabili dei reati. Questa norma, al contrario di quanto aveva promesso il governo, si applica anche ai reati di violenza di genere ed è un clamoroso errore nell’errore”, attacca Federico Gianassi, capogruppo Pd in Commissione Giustizia. Nel corso dell’esame sono stati bocciati uno dopo l’altro - senza praticamente alcuna discussione - gli emendamenti di Pd, Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi e Sinistra che puntavano a escludere dalla “tagliola” una serie di reati, tra cui quelli di violenza contro le donne. “Ancora una volta si svela l’ipocrisia di governo e maggioranza che spendono tante belle parole sulla violenza di genere, ma poi bocciano le nostre proposte che aiuterebbero a difendere concretamente le donne. In pratica con il limite alle intercettazioni il codice rosso è abolito”, denunciano i deputati pentastellati Stefania Ascari, Federico Cafiero de Raho, Valentina D’Orso e Carla Giuliano. “Ma l’elenco dei danni”, aggiungono, “è lunghissimo: “iil governo Meloni annuncia urbi et orbi lotta dura contro la mafia e poi cala la mannaia dei 45 giorni anche sull’estorsione. Così nessuno denuncerà più i suoi estortori sapendo che lo Stato ha rinunciato a indagare seriamente su di loro. Per altro verso, la maggioranza sta approvando una legge del tutto contraddittoria rispetto al ddl Sicurezza, nel quale c’è una norma che al grido di “droga zero” manderà in rovina la filiera della canapa che nulla c’entra con la droga, mentre adesso respinge il nostro emendamento con cui sottraiamo dalla tagliola dei 45 giorni i reati connessi allo spaccio di stupefacenti”. “Erano false le rassicurazioni che abbiamo ascoltato qualche mese fa da governo e maggioranza sull’esclusione dei reati per mafia, terrorismo e codice rosso dalla limitazione dei 45 giorni. Nel testo che la destra porterà in Aula quei reati non sono affatto esclusi. Il provvedimento rappresenta un nuovo duro colpo alla lotta alla criminalità e ai femminicidi”, denuncia invece il capogruppo di Avs in Commissione Devis Dori, presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio. Santalucia avverte Parodi: a tracciare la linea non è lui ma la magistratura di Valentina Stella Il Dubbio, 14 febbraio 2025 Il predecessore sui primi passi (contestati) del neopresidente: “Segua la linea congressuale”. Giuseppe Santalucia da meno di una settimana ha lasciato la presidenza dell’Anm a Cesare Parodi, immediatamente travolto da polemiche, soprattutto interne alla magistratura, per il suo atteggiamento considerato troppo moderato nei confronti del governo. L’ex vertice del “sindacato” delle toghe conferma piena fiducia al suo successore. Ma ribadisce: “Non siamo un’associazione leaderistica: la linea politica dell’Anm è stata dettata dal Congresso di Palermo e dall’assemblea del 15 dicembre. Il presidente non potrà che seguirla”. Parodi sembra aver incrinato l’immagine fortemente contraria dell’Anm alla separazione delle carriere… Credo ci sia stato un fraintendimento sulle sue parole. La linea di una giunta unitaria, e questo è il dato particolarmente positivo che mi sembra opportuno evidenziare, non può che muoversi su quella già tracciata dal congresso di Palermo e dall’assemblea straordinaria di dicembre 2024. La direzione politica dell’Anm è stata già elaborata democraticamente nelle sue più alte sedi, che sono appunto quella congressuale e quella assembleare. Il nuovo presidente non potrà che seguirle. Lui continua a non smentire che vi sia un processo alle intenzioni, nel lanciare l’allarme di un pm assoggettato all’Esecutivo. Questo depotenzia la campagna che finora avete fatto? Tutti noi siamo consapevoli del rischio che potrà comportare la riforma: quella di depotenziare l’autonomia del pm. Si dirà che l’autonomia del pubblico ministero è cosa ben diversa dall’autono-mia del giudice, e quindi sarà depotenziata e ridimensionata. Comunque è innegabile che soprattutto da parte di Area e Md siano arrivate critiche a Parodi proprio per il fatto di essersi espresso, su quel passaggio, con parole simili a quelle di Nordio. C’è di mezzo l’inesperienza del neopresidente, che ha ammesso di essersi espresso male proprio nell’intervista a questo giornale? Non credo sia il caso di enfatizzare qualche sbavatura espressiva. Il dato principale dal punto di vista dell’azione associativa è l’aver costituito in un solo giorno una giunta unitaria senza necessità di grandi elaborazioni programmatiche, perché il programma c’è già, come detto all’inizio di questa intervista. Il neopresidente dell’Anm si sente in dovere di mandare un messaggio accorato nelle chat dei magistrati, precisando la propria linea e ammettendo che non ci dorme la notte, per quanto sta accadendo: si coglie la paura di sfaldare l’unità, quasi un mea culpa… A me è sembrata sul piano umano una lettera apprezzabilissima, utile proprio perché si erano creati dei fraintendimenti. Certo, chi è dentro la vita associativa potrebbe non averne avuto bisogno: chi conosce tutti i passaggi sa che la linea dell’Anm non la fa il presidente. Il presidente la interpreta, la linea è già stata tracciata in maniera unanime, questo è il dato significativo. Lui ha chiesto subito un incontro al governo (fissato, è notizia di ieri, per il 5 marzo, ndr) senza consultare la giunta: altro errore che gli è stato imputato. Come sono stati i rapporti tra la sua giunta e l’Esecutivo? Noi abbiamo incontrato più volte il ministro della Giustizia: ogni volta che ci ha riservato un appuntamento noi non l’abbiamo mancato. Ricordo che al congresso di Palermo abbiamo invitato tutti gli esponenti politici nel loro massimo livello e saremmo stati felici di averli tutti: alcuni hanno risposto, compreso Nordio, altri no. Questo non è dipeso da noi, però l’ apertura è stata massima. Poi quello che diciamo tutti è che per una riforma costituzionale non si può usare la parola trattativa, non è questione sindacale. Se all’incontro con Nordio fosse dovuto andare lei, avrebbe ribadito che nessun punto della riforma è negoziabile? Noi nelle assemblee e con i documenti abbiamo assunto una posizione chiara. Dopodiché ciò non significa chiudersi a eventuali mutamenti. Da parte nostra c’è disponibilità all’ascolto. Ipotesi: Nordio concede il sorteggio temperato per i togati dei due Csm. Quale dovrebbe essere, per lei, la giusta reazione? Non vorrei rispondere portandomi dietro una carica che ho dismesso troppo di recente. Affido alla nuova dirigenza associativa ogni tipo di valutazione, il disegno ha una sua complessità e va esaminato compiutamente. Però poniamo il caso che in questo spirito la nuova giunta accetti questo compromesso, rilanciato peraltro ieri da FdI: non sarebbe perso in partenza, il referendum, dal punto di vista comunicativo? Il pericolo esiste. Vediamo cosa emergerà da questo incontro che la nuova giunta avrà. Ogni aspetto verrà riversato negli organi deliberanti, quindi nel Comitato direttivo centrale, e se fosse necessario anche in un’assemblea. L’Anm non ha una struttura leaderistica in cui decidono in pochi. Un deliberato assembleare ha un peso importante. Qualcuno sostiene che Magistratura Indipendente potrebbe sabotare lo sciopero del 27 febbraio. Solo speculazioni? Lo sciopero l’abbiamo sempre inteso come un fattore di moltiplicazione della nostra capacità di comunicare all’esterno, uno sciopero che non riesce è una mortificazione della capacità comunicativa. Credo che non convenga a nessuno un’astensione che fallisce: metterebbe in crisi l’azione associativa espressa oggi da una giunta unitaria, quindi credo che tutte le componenti dell’Anm lavoreranno affinché riesca al meglio. Un’ultima domanda: condivide il fatto che i capi degli uffici giudiziari milanesi abbiano disertato l’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi? Intanto erano dei saluti introduttivi, quindi non era un momento di confronto, come hanno sostenuto gli avvocati al quale si sarebbero sottratti i magistrati. Dopodiché l’atteggiamento dei colleghi milanesi è stato anche un modo per dire ai penalisti di prestare maggiore attenzione a ciò che si scrive nei comunicati, dove ad esempio siamo stati accusati di essere eversivi. Quindi, in sintesi, non ho ravvisato in quel diniego uno sgarbo o una voglia di non considerare l’avvocatura, ma un leale richiamo ad un linguaggio più consapevole, oltre che rispettoso della storia e dell’impegno democratico di tutta la magistratura italiana. Caso Elmasry. Nordio snobba la Cpi, le opposizioni e le toghe di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 febbraio 2025 Ci sarebbe una mozione di sfiducia delle opposizioni che si discuterà martedì 25 febbraio. Ci sarebbe la Corte penale internazionale che incombe con le sue richieste di spiegazioni. E ci sarebbero pure i magistrati che il giovedì 27 febbraio sciopereranno con la riforma che porta il suo nome. Ma Carlo Nordio non pare particolarmente impensierito da queste cose. È in Turchia il Guardasigilli, e parla di tutt’altro. Davanti alla comunità d’affari italo-turca, oltre alla solita difesa della separazione delle carriere che, a suo dire, completerebbe la riforma del codice di procedura penale del 1989, il ministro si è lasciato andare a qualche considerazione anche sul vero problema della giustizia, cioè il suo funzionamento. “Una giustizia al servizio delle imprese e dell’economia è quello che ha contraddistinto la mia azione sin dall’avvio del mio mandato nell’ottobre 2022”, ha detto Nordio, che poi si è vantato del calo dei tempi dei processi. Un merito che non è certamente suo, come spiegato all’apertura dell’anno giudiziario tre settimane fa da tutti i presidenti delle Corti d’appello. Che avrebbero pure espresso lamentele sulla cronica carenza di personale e sull’enorme mole di lavoro che ogni giorno transita per i tribunali. Un problema che in via Arenula di certo conoscono ma che non è esattamente in cima alla lista delle priorità. In questi giorni i magistrati e i funzionari in servizio da quelle parti sono al lavoro per capire come smorzare la palla avvelenata lanciata dall’Aja con l’apertura di un procedimento sull’Italia per il bizzarro modo con cui è stata gestita la faccenda del torturatore libico Osama Elmasry. Se in un primo momento l’idea di tutto il governo era di alzare i toni della discussione fino ai confini dello scontro frontale con i giudici della Corte penale internazionale, negli ultimi giorni sta cominciando a prevalere la linea opposta: stemperare, alleggerire, spiegare. Un po’ è la linea dell’avvocata Giulia Bongiorno - chiamata peraltro a difendere Meloni, Piantedosi, Mantovano e lo stesso Nordio davanti al tribunale dei ministri -, e un po’ è una scelta tattica della premier, che sul fronte della giustizia propenderebbe per un cessate il fuoco. Quantomeno fino all’incontro, fissato al 5 marzo, con il nuovo presidente dell’Anm Cesare Parodi, esponente di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice che in passato ha visto tra i suoi maggiori esponenti proprio Nordio e Mantovano. La situazione dovrebbe rimanere più o meno stabile fino al giorno dello sciopero delle toghe (la mozione di sfiducia preoccupa tra il poco e il niente): un’adesione di massa sarebbe una conferma della “linea dura” contro la riforma e una conferma dell’unità dell’Anm, secondo lo “spirito del 15 dicembre” (data dell’assemblea, l’ultima dell’era Santalucia, in cui è stata varata l’astensione). Se invece i numeri non dovessero essere soddisfacenti, tutto tornerebbe in gioco, perché significherebbe che il lavoro del governo ai fianchi della magistratura organizzata ha sortito qualche effetto. GIÀ, perché questa apertura di Meloni alla trattativa sulla riforma, sin qui si configura soprattutto come elemento di disturbo del dibattito, in assenza di elementi concreti per poter esprimere valutazioni compiuti. Dalle parti della maggioranza, al massimo, si parla dell’eventualità che il futuro sorteggio dei consiglieri del Csm venga “temperato”, ma non risultano passi concreti in questo senso. Così come non si registrano passi indietro sulle altre questioni aperte: sulle deportazioni di migranti in Albania sarebbe allo studio un nuovo piano per rispondere alle bocciature dei tribunali; sul pm di Roma Francesco Lo Voi - atteso al Copasir la settimana prossima per dire la sua sull’uscita dalle carte dell’Aisi nel caso Caputi - continua a piovere fango; sulla riforma Nordio ripete che si andrà avanti senza tentennamenti (lo ha detto anche in Turchia). E per le toghe il segretario di Area democratica per la giustizia Giovanni Zaccaro è da un po’ che chiarisce i reali termini della questione: “Non esiste una trattativa”. Perché la riforma non è un tema sindacale, ma un tema che riguarda la Costituzione. E in certi casi si può solo stare da una parte o dall’altra della barricata. Caso Elmasry. Ecco il documento dell’Aja che contraddice Nordio di Irene Famà La Stampa, 14 febbraio 2025 La Corte penale internazionale pubblica online le carte con le correzioni nel mandato d’arresto. Il ministro aveva parlato di “imprecisioni” e “discrepanze” a proposito dei reati commessi dal libico. Questioni grammaticali. Refusi. Secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, hanno reso “nullo” il mandato d’arresto della Corte penale internazionale a carico del generale libico Almasri. “Sviste facili da correggere”, ribattono alcuni esperti del diritto. Gli errori, elencati in un documento della Corte dell’Aja, sono circa una ventina. L’avverbio “continuo” al posto del verbo “continuare”, il sostantivo “abusato” invece dell’infinito “abusare”, giusto per citarne alcuni. E poi quella data, 2011 invece di 2015 ripetuta tre volte. “L’atto era connotato di imprecisioni, omissioni, discrepanze e conclusioni contraddittorie”, aveva dichiarato il Guardasigilli il 5 febbraio quando, alle Camere, ha dovuto spiegare come mai il generale, accusato dalla Corte penale di crimini di guerra e contro l’umanità, era stato rilasciato. E rimpatriato in fretta e furia. Sviste, dicono esperti di diritto internazionale, che la Corte dell’Aja ha corretto con un nuovo mandato d’arresto. E che il ministro avrebbe potuto semplicemente segnalare a Bruxelles. Il Guardasigilli si sofferma su un errore in particolare: “L’incertezza sulla data dei delitti” avvenuti nella prigione di Mitiga, a Tripoli. Nel mandato d’arresto al centro dello scontro tra governo e Bruxelles, la Corte dell’Aja fa riferimento “ai fatti commessi tra il febbraio 2015 e il marzo 2024”. Ma in tre paragrafi, su oltre un centinaio, si parla “del febbraio 2011”. Errore irrimediabile per il Guardasigilli, finito sotto attacco. Che dice così: “Emerge un’insanabile e inconciliabile contraddizione riguardo a un elemento essenziale della condotta criminale dell’arresto riguardo al tempo del delitto commesso”. Il generale arrestato a Torino viene lasciato libero tre giorni dopo. La Corte d’appello di Roma solleva una questione procedurale. Il ministro tace. Poi, davanti alle Camere, punta il dito contro l’atto a suo dire impreciso. Un suo intervento, “prima di aver risolto queste discrasie e incongruenze”, sarebbe stato “inopportuno” e “illegittimo”. La Corte penale internazionale il 24 gennaio si riunisce. Approva la nuova versione del mandato dall’arresto. La pubblica sul sito. “È tutto in inglese”, ribatte il ministro della Giustizia. “Non ci è stata trasmessa ufficialmente”. E poi torna su quei refusi. “Il vizio genetico dell’ordinanza è certamente il mutamento della data del commesso reato”, ribadisce. “Banale via di fuga”, commentano in diversi. I rapporti tra la Corte dell’Aja e il governo si irrigidiscono. Sino all’altro giorno, quando l’esecutivo cerca di trovare un terreno di confronto, smorzando i toni e avviando un’interlocuzione. Tanti gli interrogativi che si susseguono nel caso Almasri. Le opposizioni sostengono che la scelta di liberare il generale sia stata puramente politica. Il governo si difende. E la faccenda, dopo una denuncia presentata in procura a Roma, è finita al Tribunale dei ministri. Indagati la premier Giorgia Meloni, i titolari dell’Interno e della Giustizia Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. L’altro giorno sarebbe arrivata in via Arenula la richiesta di acquisire una serie di atti, tra cui le interlocuzioni tra il Tribunale e il ministero della Giustizia, tra la Corte penale internazionale, l’ufficio di collegamento dell’ambasciata italiana in Olanda e gli uffici del Guardasigilli. Si vuole ricostruire la sequenza esatta degli eventi e i tempi di azione di ogni singolo protagonista della vicenda. Comprese le eventuali comunicazioni tra Palazzo Chigi e via Arenula. Giorni concitati, quelli della vicenda del generale libico. Almasri viene fermato il 18 gennaio e arrestato il 19. Il 21 gennaio, poi, viene scarcerato. E rimpatriato. Ma quando l’areo di Stato era già pronto per riportarlo in Libia, il ministro della Giustizia diceva di “stare valutando come procedere”. Detenuto al 41 bis: vietato l’utilizzo del lettore CD in orario notturno di Anna Larussa altalex.com, 14 febbraio 2025 Sono ammesse limitazioni alle modalità di esercizio dei diritti dei detenuti che non siano irragionevoli e non incidano direttamente su un determinato diritto soggettivo. L’Amministrazione penitenziaria può imporre limitazioni alle modalità di esercizio dei diritti dei detenuti che non siano irragionevoli e non incidano direttamente su un determinato diritto soggettivo. Un detenuto sottoposto al regime penitenziario differenziato ex art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 vedeva riconosciuto dal Magistrato di Sorveglianza di Sassari il diritto di adoperare il lettore per ascoltare compact disk, all’interno della propria camera detentiva, senza limiti di orario. Il Tribunale di Sorveglianza, respingeva il reclamo che il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria aveva proposto rappresentando le minori possibilità di controllo efficace in orario notturno, a cagione della ridotta presenza di personale, e il potenziale utilizzo improprio dei supporti musicali da parte dei detenuti e osservava, in particolare, che l’utilizzo del lettore CD è assimilabile a quello degli apparecchi televisivi e radiofonici, consentiti nell’intero arco delle ventiquattro ore e che costituisce oggetto di un diritto non passibile di limitazioni alle sole ore diurne. La Casa Circondariale di Sassari, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in persona del Direttore in carica e il Ministro della Giustizia, in persona del Ministro in carica, ricorrevano per cassazione a mezzo dell’Avvocatura di Stato e denunciavano la violazione dell’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché dell’art. 14 della Circolare del D.A.P. del 02/10/2017 rimarcando l’incidenza che l’ampliamento della possibilità di utilizzo del lettore CD in orario notturno possa avere, sull’organizzazione del carcere, in termini di risorse umane e materiali da destinare al relativo adempimento. La sentenza - La Corte ha accolto il ricorso evidenziando come la questione avesse ad oggetto non il diritto del detenuto di poter adoperare un lettore di compact disk (diritto a lui già accordato) bensì le modalità di esercizio di tale diritto, con particolare riferimento alla possibilità di fruire di tale dispositivo in orario notturno: tali modalità, secondo la Corte, restano affidate alle scelte discrezionali dell’Amministrazione penitenziaria, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli, ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacabili in sede giudiziaria. Sul punto, la Corte ha ribadito il principio di diritto enunciato da Cass. Pen., Sez. I, n. 443/2023 Rv. 283895, la quale - sempre in materia di regime differenziato ex art. 41-bis Ord. pen. - ha precisato come siano da ritenersi legittime le limitazioni imposte dall’Amministrazione penitenziaria, laddove esse non vadano a incidere direttamente su un determinato diritto soggettivo incentrandosi invece - in via esclusiva - sulle modalità di esercizio dello stesso, che restano specificamente affidate alla discrezionalità amministrativa. Orbene, nel caso all’esame della Corte, il tema proposto dal ricorso (ossia la possibilità di utilizzo del lettore CD, senza limitazioni in orario notturno) integrava una questione attinente alla regolamentazione delle modalità di esercizio del diritto, non venendo in rilievo alcuna lesione dello stesso, e pertanto rientrava nella sfera di attribuzione esclusiva dell’Amministrazione penitenziaria, che aveva regolato le modalità di esercizio del diritto stesso senza inibirlo. Alla luce delle suesposte considerazioni la Corte ha disposto l’annullamento senza rinvio di entrambe le ordinanze, quella del Magistrato di Sorveglianza di Sassari e quella del Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Palermo. I dubbi sulla morte in carcere di Patricia: interrogazione di Ilaria Cucchi di Claudio Bottan vocididentro.it, 14 febbraio 2025 Sulla triste vicenda di Patricia Nike, la donna nigeriana deceduta al carcere Pagliarelli di Palermo di cui ci siamo occupati recentemente, sembrano esserci più ombre che luci. Un’unica certezza: la 54enne è morta in una cella del carcere palermitano il 12 gennaio, appena quattro giorni dopo avervi fatto ingresso trasferita dal femminile di Rebibbia. È arrivata in ambulanza ed è stata collocata in una cella con altre tre detenute, una delle quali le avrebbe dovuto fare da piantone per assisterla nei bisogni quotidiani. Non è stato necessario: il suo corpo malato ha ceduto presto. Quali erano le reali condizioni di salute della donna al momento del trasferimento da Rebibbia? Solo una settimana prima era stata dimessa dopo un ricovero e rimandata in cella per poi, l’8 gennaio, partire per Palermo. Era nelle condizioni per affrontare il lungo viaggio? E, infine, al Pagliarelli avrebbe potuto essere adeguatamente assistita per le molte gravi patologie di cui era affetta? A queste domande ha cercato di ottenere riscontri la senatrice Ilaria Cucchi con una formale richiesta di acceso agli atti rivolta ad entrambi i penitenziari ricevendo “risposte poco esaustive e prive delle cartelle cliniche”. Dalla direzione del carcere di Rebibbia precisano che “per via del grave sovraffollamento, avevano richiesto il deflazionamento delle detenute, con conseguente provvedimento di assegnazione in altro istituto”. Per cercare di fare chiarezza Ilaria Cucchi ha presentato una dettagliata interrogazione parlamentare rivolta ai competenti Ministri. “La direttrice del carcere di Palermo, nel novembre 2024, lamentava alla stampa il grave sovraffollamento della struttura, con una presenza di circa 1400 detenuti su una capienza massima di 1000, qual è il senso del trasferimento della donna da un istituto ‘gravemente sovraffollato’ ad un altro nelle medesime condizioni?” si legge nel documento. “La detenuta pare fosse affetta da gravi patologie e in una nota la direzione di Rebibbia afferma che al momento della partenza fosse in condizioni di affrontare il lungo viaggio - dice il garante Pino Apprendi - Ilaria Cucchi nella interrogazione chiede ai ministri cosa intendono fare per accertare quali fossero le condizioni di salute della detenuta prima della partenza e, più in generale, quali iniziative intendano intraprendere i ministri, ciascuno per quanto di propria competenza, per superare il sovraffollamento degli istituti di pena e garantire il pieno diritto alla salute a tutti i detenuti”. L’interrogazione di Ilaria Cucchi, tra l’altro, mira anche a “sapere se sia stata eseguita o si intenda eseguire l’autopsia e se sia stata data degna sepoltura alla donna e dove”. Un dettaglio non da poco quest’ultimo premesso che, a quanto risulta, nell’immediatezza del decesso non sarebbe stata informata né la famiglia né l’ambasciata nigeriana a Roma. Di Patricia Nike sappiamo ben poco, probabilmente quello non è neppure il suo vero nome stando a quanto trapela dalla comunità nigeriana. Un fantasma, l’ombra di una donna che a Roma trascinava le sue sofferenze fisiche e mentali da una struttura d’accoglienza all’altra senza pace. Nella storia della donna nigeriana sono concentrati tutti gli elementi che caratterizzano la maggior parte degli abitanti del pianeta carcere: povertà, emarginazione, fragilità, dipendenze e malattia. Persone di cui ci importa poco e preferiamo sapere ben nascoste alla nostra vista. Ma pur sempre persone. Avellino. Caso di Ciro Pettirosso: la morte in carcere e le accuse di negligenza sanitaria di Vinicio Marchetti vellinotoday.it, 14 febbraio 2025 La famiglia denuncia errore medico e condizioni critiche nelle carceri italiane. Indagini in corso per fare luce sulla sua tragica morte. Ieri, 13 febbraio 2025, Napoli ha salutato con grande dolore Ciro Pettirosso, noto come “Ciro Telaro” o “Ciro Petare”, che si è spento prematuramente all’età di 36 anni. Un tragico destino ha segnato la sua vita, con la sua morte avvenuta lo scorso 7 febbraio 2025, nella Casa Circondariale di Avellino. La sua scomparsa ha suscitato sconforto e indignazione tra amici e familiari, portando alla luce gravi interrogativi riguardo alla gestione sanitaria del carcere, dove Ciro viveva da detenuto. La denuncia della famiglia: un errore medico come causa del decesso - La famiglia di Ciro Pettirosso, profondamente colpita dalla tragedia, ha denunciato pubblicamente le condizioni in cui il giovane era costretto a vivere in carcere. In particolare, i familiari hanno puntato il dito contro la gestione sanitaria della struttura, accusando una grave negligenza che avrebbe causato la morte del giovane. Francesco Pettirosso, fratello della vittima, ha dichiarato con grande dolore che Ciro sarebbe morto a causa di un errore medico legato alla somministrazione dell’insulina, il trattamento indispensabile per il diabete di cui il giovane soffriva. “Mio fratello è morto per l’incapacità del personale medico”, ha affermato, esprimendo rabbia e frustrazione per un destino che potrebbe essere stato evitato. In risposta a quanto accaduto, la famiglia ha deciso di far seguire le indagini da un perito di parte durante l’autopsia, avvenuta martedì scorso, nella speranza di fare chiarezza sulle cause effettive del decesso e ottenere giustizia per Ciro. Le indagini e le gravi condizioni delle carceri italiane - A seguito della denuncia, la Procura della Repubblica di Avellino ha avviato le indagini per stabilire con certezza le cause della morte di Ciro Pettirosso. L’autopsia, cui ora si attende l’esito, potrebbe rappresentare un passo fondamentale per fare luce su un caso che ha suscitato numerose polemiche. Il caso di Ciro, se le accuse di errore medico dovessero essere confermate, potrebbe diventare l’ennesima testimonianza delle problematiche strutturali che affliggono il sistema penitenziario italiano. La situazione nelle carceri italiane, infatti, è da tempo oggetto di un ampio dibattito pubblico. I temi più discussi riguardano il sovraffollamento delle strutture, la scarsità di risorse e la carenza di personale medico, che non riesce a garantire le necessarie cure sanitarie ai detenuti. Il caso specifico del carcere di Avellino ha messo sotto i riflettori anche la difficile realtà della struttura, dove le risorse scarseggiano e le difficoltà organizzative sembrano non avere fine. Le denunce riguardano, tra le altre cose, la mancanza di acqua corrente durante le ore notturne e la carenza di infermieri, che non riescono a far fronte alle esigenze sanitarie di una popolazione carceraria in costante crescita. Un futuro incerto e la speranza di giustizia - Le indagini proseguono e la famiglia di Ciro Pettirosso non smette di chiedere giustizia per la morte prematura del loro congiunto. “Vogliamo che chi ha sbagliato risponda delle sue azioni”, hanno ribadito i familiari in una dichiarazione che esprime il loro desiderio di verità e risarcimento. La speranza della famiglia è che l’autopsia possa chiarire in modo definitivo le cause della morte di Ciro, ma la vicenda ha già avuto un impatto significativo sul dibattito pubblico, mettendo in evidenza la necessità di un urgente intervento riformatore nel sistema penitenziario italiano. Le condizioni di vita nelle carceri sono ormai oggetto di un’attenzione sempre più crescente, con la società civile che chiede interventi concreti per garantire la dignità e la salute dei detenuti. Modena. Detenuto morto al Sant’Anna, la procura apre un fascicolo. Indagati medici e psicologo di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 14 febbraio 2025 La vittima, Mohamed Doubali, 27 anni, è stato trovato senza vita nella sua cella. L’ipotesi di reato è omicidio colposo. Già eseguita l’autopsia disposta dai magistrati. La sua morte ha fatto calare un’ombra inquietante sul carcere di Modena: il quarto decesso di un detenuto in una manciata di giorni, in poco più di un mese. Aveva solo 27 anni Mohamed Doubali ed è stato trovato cadavere in cella lo scorso tre febbraio, pare a seguito di una assunzione smodata di farmaci. Per la sua morte la procura ora ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio colposo, che vede l’iscrizione di tre sanitari del penitenziario, tra cui uno psicologo. A quanto pare, infatti, il ragazzo - detenuto per reati quali lesioni e rapina - aveva manifestato problemi psichiatrici ed era in cura. Lunedì scorso è stato conferito incarico ai periti per l’esame autoptico in contraddittorio e sono stati nominati anche i periti di parte. Ciò che dall’autopsia si vuole capire è cosa abbia assunto il ragazzo innanzitutto; stabilire le esatte cause del decesso ed eventualmente far emergere - seppur sia sicuramente difficile - se si sia trattato di un gesto volontario o se il 27enne abbia assunto inavvertitamente i farmaci. L’iscrizione sul registro degli indagati del pool dei medici del penitenziario rappresenta ovviamente un atto dovuto da parte della procura, volto a stabilire se siano ravvisabili eventuali responsabilità in capo ai citati sanitari per la morte del giovane e se possa anche configurarsi una mancata vigilanza, viste le problematiche pare note del detenuto. Nel penitenziario, a seguito della quarta morte di un ristretto, quella appunto del giovane Mohamed sono scattate le perquisizioni nelle celle anche in orario notturno, come conferma il garante regionale Roberto Cavalieri. “In via straordinaria hanno effettuato perquisizioni anche durante la notte” - conferma. Pare che siano stati sequestrati farmaci ma su questo aspetto ancora non vi sono conferme. Presente lunedì mattina alla nomina dei periti anche l’avvocato Tea Federico del foro di Bologna, che rappresenta i familiari del ragazzo. “I familiari chiedono giustizia: non si può morire così, in carcere, a 27 anni. Attendiamo l’esito dell’autopsia per capire quali siano state le esatte cause. Il perito ha preso trenta giorni di tempo per rispondere al quesito della procura ed eventualmente in un secondo momento si valuterà la nomina di altri consulenti specializzati”. Titolare del fascicolo è la dottoressa Campiolongo. In soli 8 giorni, dal 31 dicembre nel penitenziario modenese si sono registrati tre decessi di altrettanti detenuti, tutti morti inalando gas dai fornellini utilizzati per cucinare. Il tre febbraio è stato trovato il corpo senza vita di Mohamed Doubali. Tra i quattro recenti e presunti suicidi - lo ricordiamo - figura anche quello di Andrea Paltrinieri, l’ingegnere modenese 50enne finito in carcere un anno fa per il brutale omicidio della moglie 40enne Anna Sviridenko. Anche per il decesso di Paltrinieri la procura ha aperto un fascicolo - per ora contro ignoti - ipotizzando l’istigazione al suicidio e nei giorni scorsi, a seguito della nomina dei periti, sulla salma dell’uomo è stata effettuata l’autopsia. Catanzaro. “Mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni” di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 14 febbraio 2025 Esposti anche a Roma e Palermo per la morte del detenuto messinese Ivan Lauria a Catanzaro. Ci sono due nuovi esposti che chiedono verità e giustizia. Li ha depositati alle procure di Roma e Palermo con una lunga serie di allegati l’avvocato Pietro Ruggeri, che assiste la madre di Ivan Lauria, il 28enne messinese che è morto il 15 novembre scorso mentre era detenuto in carcere a Catanzaro. Ivan, ha raccontato poi la madre in una lunga intervista, ha trascorso quasi metà della sua vita tra le comunità per minori e il carcere, e fin da quando aveva 13 anni è stato un entrare e uscire da una struttura detentiva all’altra, fino all’ultima dove ha trovato la morte. Le nuove denunce si vanno ad aggiungere a quelle già depositate alle procure di Trapani e Catanzaro. Perché anche a Trapani? Perché di recente è stata condotta un’inchiesta da quella procura siciliana che ha portato ad indagare su venticinque poliziotti penitenziari del carcere “Cerulli” di Trapani, accusati a vario titolo e in concorso di tortura, abuso d’autorità contro alcuni detenuti e falso ideologico. L’inchiesta ha toccato purtroppo anche la posizione di Lauria, come ha scritto il gip di Trapani nell’ordinanza di custodia in cui è poi sfociata l’inchiesta, con parole agghiaccianti. Parole che costituiscono un focus sulle condizioni carcerarie del 28enne messinese. Lauria era stato a lungo detenuto anche a Trapani. Ecco il passaggio dell’ordinanza che riguarda il ragazzo: “Cella 7. C’è un detenuto, osservato a vista, che di cognome fa Domenico Lauria. È un evidente caso psichiatrico che attende che si liberi un posto nell’Atsm di Barcellona Pozzo di Gotto. È a Trapani da un anno e sei mesi, parla in continuazione ed è pieno di tagli soprattutto sulle braccia. Dice “mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni, mi vogliono portare alla morte. Sei o sette volte sono riuscito ad andare in ospedale, uscendo da questo inferno. Tutti i reati che ho commesso sono per tossicodipendenza. Da quando sto qua mi hanno fatto almeno 15 Tso. Il metadone che mi danno ha un dosaggio troppo basso e non mi fa niente”. Firenze. Carcere di Sollicciano: infiltrazioni, cimici e qualche “panneggio” d’amore di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2025 Nella casa circondariale di Firenze. Un centinaio i reclami presentati dai detenuti al Tribunale di Sorveglianza per le criticità, disposti i primi otto trasferimenti. Il Dap: “Consapevoli della necessità d’intervenire in modo deciso”. Nella casa circondariale di Firenze. Un centinaio i reclami presentati dai detenuti al Tribunale di Sorveglianza per le criticità, disposti i primi otto trasferimenti. Il Dap: “Consapevoli della necessità d’intervenire in modo deciso” “Si sente la puzza di fumo”? Il comandante arriva negli uffici della direzione e allunga la manica della divisa. È appena stato nella cella dove un detenuto ha dato fuoco al materasso. Capita non di rado qui, a Sollicciano la casa circondariale di Firenze, come in altre carceri. Talvolta è un modo di attirare l’attenzione su un disagio, altre una protesta dopo un diniego “a farmaci, per chi ha dipendenze o alle richieste più varie come utilizzare - spiega Massimo Mencaroni - una cella non agibile per stare da solo”. Più le condizioni dell’istituto sono difficili, più le tensioni aumentano. E quelle di Sollicciano sono condizioni “severamente critiche “, scrive il Tribunale di Sorveglianza di Firenze che uno dietro l’altro sta accogliendo i reclami dei detenuti a fronte di diffuse infiltrazioni d’acqua, muffa alle pareti, cimici nei materassi, oltre alla mancanza di acqua calda nei bagni delle celle. “Trattamento inumano e degradante”, sentenziano i giudici. Un centinaio le istanze dei detenuti (534 presenti al lo febbraio, 465 uomini e 69 donne, in gran parte stranieri) in valutazione: in otto casi è stato stabilito il trasferimento ad altro penitenziario (due persone hanno rifiutato per non allontanarsi dai familiari) per “le gravissime problematiche”. Benvenuti a Sollicciano, il carcere “arrivato ad un punto di non ritorno”, ammise l’ex direttrice, Antonella Tuoni, di recente spostata; “il carcere da chiudere”, ripetono tanti; “da sostituire con uno nuovo”, secondo l’imprenditore Marco Carrai, che si è fatto promotore di una raccolta fondi; “l’Inferno dei vivi “, per altri e non solo per la sua forma circolare e obliqua che richiama i gironi di Dante, i cui versi sono incorniciati nella sala multimediale. Ma anche quando tutto sembra cadere a pezzi, come l’intonaco scrostato, e quando tutto sembra di un grigio senza speranza, come i muri sporchi delle facciate e come il cielo di questo pomeriggio di metà febbraio, ecco macchie di colore a ricordare che “dal letame nascono i fiori”. E talvolta i sentimenti. Come quelli che uomini e donne reclusi affidano a brandelli di tessuto, per dialogare e - perché no? - per innamorarsi. L’amore ai tempi del carcere può essere - per dirla con Ivano Fossati - anche un lenzuolo “teso come un lino a sventolare”. A Sollicciano, è affidata al codice di drappi stesi sui terrazzini delle celle la comunicazione tra volti che si guardano da una parte all’altra dell’emicido, panneggi. Un movimento una lettera, due un’altra: un codice morse senza telegrafo, che da tempo attira attenzione. Oppure un lenzuolo conun cuore e un “ti amo”. L’amore in carcere è (stato) a lungo uno dei tabù più duri da scalfire, infranto (per ora sulla carta) un anno fa dalla Corte costituzionale (sentenza10/ 2024), ribadito dalla Cassazione (sentenza 8/2025) e richiamato nell’ ordine perentorio “alla casa circondariale di Temi - firmato dal giudice Fabio Gianfilippi di Spoleto - di provvedere con la massima urgenza all’approntamento di spazi idonei nei quali il colloquio intimo possa svolgersi”. Un provvedimento trasmesso al Provveditorato di Umbria e Toscana, nella consapevolezza che quegli incontri senza sorveglianza “costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività - ricorda la Suprema Corte - e alla coltivazione dei rapporti familiari”, da negare solo per ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine. A Sollicciano, un possibile spazio era stato trovato, ma ora tra questi corridoi così lunghi da essere percorsi talvolta in bicicletta, l’aria è più ferma che mai dopo le vicissitudini disciplinari che hanno travolto l’ormai ex direttrice, spostata ad Arezzo. Così in assenza di ordini superiori, le risposte per il diritto all’affettività non sembrano la priorità di questa casa circondariale, condensato dei tradimenti dei principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario, entrato in vigore 50 anni fa. Così il progetto di un gruppo di giovani architetti, ispirato a quella innovazione, portò ad una struttura dalla forma aperta e in espansione per richiamare il giglio fiorentino, superando la concezione del controllo centrale su tutto e tutti. Di quell’utopia oggi restano 1’area verde - con sparuti alberi di limoni e un campo di calcio - e resta il cosiddetto giardino degli incontri a richiamare la centralità affidata dalla Costituzione, dalla riforma del ‘75 e dagli architetti fiorentini agli spazi per le attività volte al reinserimento. Quando entriamo tra colonne ritorte e panche decorate stile Parco Giiell di Gaudì, ci sono i segni degli ultimi colloqui con le famiglie, mentre intorno ad un tavolo apparecchiato un gruppo di giovani impara le tecniche del servire a tavola e quelle per futuri barman. Alle donne insegnano i segreti della pelletteria. Perché se “dietro il delitto c’è un passato, davanti c’è un avvenire”, ricordava Nicolò Amato, storico capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le sue parole sono riprodotte in un corridoio, in mezzo ad una successione di murales che aprono finestre sulla campagna toscana, sul Ponte Vecchio o su scorci di un altrove fatto di campi fioriti e città d’arte. Poi alzi o abbassi lo sguardo e la realtà sono i segni di infiltrazioni d’acqua, è l’intonaco gonfio dei soffitti, sono le pozzanghere a terra. La realtà è l’odore di muffa nei quattro piani del carcere, con il reparto giudiziario considerato il più complesso “perle condizioni complessive e i profili dei detenuti”, spiegano. In questo momento, la sesta sezione è chiusa dopo i disordini di luglio, innescati dal suicidio di un ventenne (1o3 le camere inagibili per rivolte, infiltrazioni o manutenzione). Sollicciano è una di quelle carceri dove più spesso si sceglie di morire: un giovane egiziano si è impiccato a gennaio e nel 2024 sono stati quattro i suicidi. Molti di più i tentativi sventati: già due in quest’inizio di 2025, 69 l’anno scorso. Quanto decine di persone urlarono in quelle ore di protesta, si ritrova nero su bianco nei provvedimenti del Tribunale di sorveglianza a seguito dei reclami dei detenuti sistemati in celle a forma di spicchio, con un soffitto dall’intonaco che si sfarina sui letti e chi li occupa; con la muffa negli angoli e “l’acqua che fa allagare tutto, quando si infiltra nonostante i secchi “, racconta Marco, una celebrità di Sollicciano, in quanto l’unico ad uscire per lavorare (altri svolgono lavori dentro le mura o frequentano corsi). A fare visita ai detenuti, più dei politici, dell’Asl, della struttura di Igiene pubblica o del presidente del Tribunale di sorveglianza, tutti entrati nelle celle, a fare visita ai detenuti sono soprattutto uccelli, attratti da residui di cibo, e ancor di più le cimici da letto, i cui morsi sono verificati da perizie e “dai segni di schiacciamento sui muri”, si legge negli atti. Una condizione che ha raggiunto “un livello tale di gravità da indurre sofferenze non giustificate”, scrivono i giudici. Un quadro peggiorato dalla denunciata assenza di acqua calda nei bagni delle celle (oggetto di una discussa sentenza, poi ribaltata) e talvolta anche nelle docce comuni, quando sono i tubi a cedere, o sono i cortocircuiti a bloccare tutto. Per questo, i magistrati hanno dato termini perentori di due o tre mesi per la ripresa di lavori di manutenzione straordinaria “indispensabili, urgenti e non più rinviabili”. Lavori iniziati, poi bloccati e “dal 2023 l’appalto è fermo per un’erronea progettazione del trattamento delle facciate”, si riepiloga negli atti giudiziari. La condizione complessiva di Sollicciano è stata prospettata dal presidente del Tribunale di Sorveglianza, Marcello Bortolato, al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a quanto ricostruito nei provvedimenti ma “non risulta che all’atto di progettazione al Ministro (ex art. 69 ordinamento penitenziario) siano seguiti interventi di alcun genere”, scrive il magistrato di Sorveglianza Susanna Raimondo ad ottobre, chiedendo di trovare per il detenuto, firmatario del reclamo, diversa sistemazione nell’istituto o - come avvenuto fino ad ora - in altri penitenziari. Dal Dap, “pienamente consapevole della necessità di intervenire in maniera decisa”, rispondono con un fitto prospetto di progetti avviati, bloccati o riprogrammati; in attesa di gara o già realizzati per un valore complessivo di oltre 7 milioni di euro in capo in parte all’Amministrazione penitenziaria (manutenzione straordinaria di coperture e facciate, centrali termiche, impianti idrici), in parte al Ministero delle Infrastrutture (efficientamento energetico, realizzazione di un edificio per il lavoro penitenziario). Interventi più ordinari sono gestiti dall’istituto, che provvede a disinfestazione e derattizzazione, in un’area che era un pantano. La quotidianità poi è soprattutto nelle mani di “generosi operatori”, per dirla col presidente della Repubblica: dai più esperti agli ultimi arrivati, i giovani agenti di polizia penitenziaria appena inviati per ridurre le carenze di organico, o la neo vicedirettrice, Valeria Vitrani, al suo primo incarico. Perché davanti “all’inferno dei viventi”, rifletteva Calvino in chiusura de Le città invisibili, due modi ci sono per non soffrirne; “accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più” o “cercare e saper riconoscere chi e cosa non è inferno e farlo durare, e dargli spazio”. Reggio Emilia. Detenuto torturato in carcere. I parenti: “Vogliamo giustizia”. Lunedì l’udienza preliminare di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 14 febbraio 2025 I fatti del 3 aprile 2023, dieci agenti di polizia penitenziaria accusati anche di lesioni e falso. La cognata della vittima: “Era assicurato nelle mani dello Stato, tutto questo non è accettabile”. “Quello che è successo mentre era detenuto in una struttura penitenziaria italiana, e quindi assicurato nelle mani dello Stato, non è accettabile”. Sono le parole della cognata del giovane detenuto tunisino che il 3 aprile 2023 subì un pestaggio all’interno del carcere di Reggio Emilia: lunedì 17 febbraio davanti al giudice dell’udienza preliminare Silvia Guareschi è prevista la sentenza per dieci agenti della polizia penitenziaria accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso. La Procura, con il pubblico ministero Maria Rita Pantani, ha chiesto condanne fino a cinque anni e otto mesi per gli imputati. Il detenuto fu incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato, denudato e picchiato con calci e pugni, anche quando era in terra, e calpestato. Poi fu portato in cella, nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per più di un’ora. Tutto è stato documentato da un video delle telecamere interne al carcere. “Il racconto di ciò che ha provato ci ha sconvolto ancora più del video che abbiamo visto - continua la donna -. Vogliamo sia fatta giustizia, per lui, per chi ancora ad oggi subisce trattamenti di questo genere e credo, da cittadina italiana, anche per tutti quegli operatori che all’interno di quella struttura, così come in altre, lavorano ogni giorno in maniera idonea, impeccabile e rispettando le regole”. Quando il filmato, agli atti dell’inchiesta, venne diffuso dai media, un anno fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio disse di provare “sdegno e dolore per immagini indegne di uno Stato democratico”. “Dopo un anno chiediamo che non cali l’attenzione. La sentenza di lunedì deve essere da monito per chi indossa quella divisa - aggiunge -. Come ho detto deve servire anche per chi lavora in modo corretto, siamo convinti che la maggioranza degli agenti penitenziari non operino in quel modo e sappiamo che fare quel mestiere non è facile”. “Noi crediamo nelle forze dell’ordine e nel loro lavoro, non vogliamo attaccare le istituzioni, anzi ringraziamo la Procura e tutti quelli che ci hanno ascoltato e supportato in questi mesi - prosegue la parente del detenuto, parte civile, assistito dall’avvocato Luca Sebastiani. Ma denudare, incappucciare e picchiare una persona in quel modo non può essere giustificabile”. Bologna. Ipm Pratello, lavori ad aprile. Casini: “Il carcere non sia un passo verso il baratro” Il Resto del Carlino, 14 febbraio 2025 L’interrogazione del senatore sull’istituto minorile. L’iter di approvazioni sarà completato per la prima metà di marzo e si prevede dunque che i lavori al carcere minorile del Pratello “possano essere avviati non più tardi di aprile 2025”. L’aggiornamento viene dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha risposto al Senato sulla situazione della struttura destinata ai minorenni. I lavori di ristrutturazione, collegati al Pnrr, riguardano per lo più l’efficientamento energetico e il miglioramento sismico del carcere, con una riorganizzazione degli spazi “finalizzata ad ampliare l’area destinata alla formazione dei ristretti - ricorda il sottosegretario - grazie ad aule e laboratori nei quali i giovani potranno svolgere le attività formative”. “Non siamo soddisfatti dell’impegno che il governo mette nell’ambito del mondo penitenziario, specie per i minori”, ribatte però l’autore dell’interrogazione, Pierferdiando Casini, secondo cui sul Pratello “bisogna fare di più e agire con uno sforzo unitario. Sappiamo che le risorse sono poche - afferma il senatore centrista -, ma dobbiamo agire di fronte alla sfida della delinquenza e a quella istituzionale del recupero dei delinquenti. Non possiamo accettare che le carceri siano un luogo dove si mette la gente e si perdono le chiavi”. Casini ricorda che prima del 2022 c’erano al Pratello 24 posti regolamentati, poi è stato aperto il secondo piano e la capienza è stata portata a 40 posti, ma oggi ci sono 50 ragazzi, “un’emergenza”. “Questo preoccupa molto noi e le amministrazioni locali - aggiunge Casini -. Non si può assolutamente correre il rischio di trasformare un istituto che dovrebbe costituire un’occasione di reinserimento e rieducazione in un ulteriore passo verso il baratro per la vita di questi ragazzi”. Sassari. Anna Cherchi è la nuova Garante comunale dei detenuti L’Unione Sarda, 14 febbraio 2025 Nominata ieri in consiglio comunale con 26 voti su 35. Sassari ha un nuovo garante dei detenuti. È stata nominata, ieri in consiglio comunale con 26 voti su 35, Anna Cherchi che ha prevalso sulle altre due candidature di Marina Maruzzi e Maria Filia. Cherchi svolge la professione di operatrice scolastica dal 1992 ed è stata a lungo rappresentante sindacale negli istituti scolastici dove ha lavorato. Consigliera della circoscrizione del Comune di Sassari dal 2000 al 2010, ha poi ricoperto l’incarico di componente della commissione Pari Opportunità della provincia di Sassari dal 2010 al 2015, e di quella regionale dal 2020 al 2023. È presidente e fondatrice dell’associazione di volontariato San Domenico Caniga, organizzazione le cui finalità sono quelle di stimolare l’impegno civile e sociale di tutte le cittadine e di tutti i cittadini. Collabora, sempre attraverso la San Domenico, con il tribunale civile e penale di Sassari in attività di rieducazione, messa alla prova e pubblica utilità di condannati o imputati. Cuneo. Un convegno per sensibilizzare sul diritto alla salute fisica e mentale nelle carceri italiane di Franco Vaccaro laguida.it, 14 febbraio 2025 Organizzato da Conosci e dalle consigliere regionali di Alleanza Verdi Sinistra e Possibile, Giulia Marro e Alice Ravinale. “Salute in carcere: un diritto negato? Necessità di integrazione sociosanitaria territoriale e interprofessionale” è il titolo del convegno che si terrà venerdì 14 febbraio, dalle 9,30 alle 13 e dalle 14,30 alle 17,30, nella sala Cdt di largo Barale 1, organizzato dall’associazione Conosci (Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane) e dalle consigliere regionali di Alleanza Verdi Sinistra e Possibile, Giulia Marro e Alice Ravinale. “Il convegno - dicono gli organizzatori - ha l’obiettivo di analizzare e proporre soluzioni alle problematiche legate alla salute all’interno degli istituti penitenziari, con particolare attenzione alla salute mentale, all’abuso di sostanze e di psicofarmaci. Inoltre vuole sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sull’importanza di garantire a tutti i detenuti un accesso equo e adeguato alle cure, promuovendo politiche che favoriscano la riabilitazione e il reinserimento sociale. Il convegno si inserisce in un momento di grande attenzione sul tema carcerario a livello nazionale, ma anche a livello della Regione Piemonte, grazie anche all’approvazione unanime di un ordine del giorno presentato dalla consigliera Giulia Marro a inizio dicembre, in cui si impegna la giunta a portare avanti azioni di coordinamento per migliorare i servizi sanitari penitenziari, un ambito che soffre per carenza di risorse, personale e strumenti adeguati”. Il convegno, inoltre, vuole promuovere riflessioni e azioni concrete, con uno sguardo rivolto alla possibile istituzione di una commissione speciale carcere in consiglio regionale. Il convegno sarà preceduto, giovedì 13, da una visita al carcere di Cuneo da parte di una delegazione composta da autorità locali e regionali e dai componenti della segreteria scientifica e organizzativa del convegno. L’ingresso è gratuito. Per iscrizioni contattare il 375.8283341. Folle è il potere che vuole riaprire i manicomi di Franco Corleone L’Espresso, 14 febbraio 2025 Vanno in tal senso le mosse di rami reazionari di governo, magistratura e psichiatria. Partendo dagli ex Opg. Archiviate le celebrazioni per il centenario della nascita di Franco Basaglia si è scatenata l’offensiva da parte di un’unione sacra costituita da psichiatri reazionari, magistrati pavidi, politici securitari e giornalisti disinformati per seminare la paura dei matti pericolosi con l’obiettivo di riaprire i manicomi. A cominciare dall’anello ritenuto più debole: gli Opg, gli orrendi ospedali psichiatrici giudiziari, come li aveva additati il presidente Giorgio Napolitano, chiusi finalmente da una rivoluzione che ha tolto mille sventurati dalle gabbie dell’internamento e dall’ergastolo bianco. Il ministero della Salute prima ha eliminato l’Osservatorio indipendente con il compito di monitorare il funzionamento delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza per i prosciolti, cioè gli autori di reato considerati incapaci di intendere e volere; poi ha istituito un gruppo di lavoro orientato alla sostanziale cancellazione della legge 81. Il successivo e conseguente frutto avvelenato è costituito da una comunicazione ai presidenti delle Regioni da parte del capo di Gabinetto, Marco Mattei; un testo superficiale, con gravi errori di fatto e di diritto, ma con la chiara, seppur generica, minaccia di una riforma del sistema. Vedrebbe quattro tipi diversi di strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza, tra cui una Rems di primo livello caratterizzata dalla “massima intensità di cura e dalla massima sicurezza” (sic!). Insomma: un piccolo manicomio presidiato dalla polizia penitenziaria. Le disgrazie non vengono mai sole e così, a Castiglione delle Stiviere, sede di uno dei sei Opg (sopravvissuto con la truffa delle etichette in sistema polimodulare di sei Rems con 160 ospiti), è stata avviata la costruzione di nuovi padiglioni, in sostituzione di quelli vecchi, che assomigliano paurosamente, e significativamente, a carceri di massima sicurezza; inoltre, la scelta di caratterizzare le singole strutture per patologia psichiatrica ripropone il vecchio modello manicomiale destinato agli agitati, ai laceratori, ai tranquilli e così via. Ma all’unione sacra reazionaria ancora non basta. A fine anno il plenum del Consiglio superiore della Magistratura ha preso atto di un documento della commissione mista composta da componenti del Csm, da magistrati designati dal ministro della Giustizia e da magistrati di sorveglianza sul tema delle Rems. Una paccottiglia costruita con audizioni a senso unico, con sette proposte finali allucinanti. Le peggiori sono quelle che suggeriscono di aggiungere 700 posti nelle Rems, raddoppiando la capienza rispetto a quella che avevano gli Opg al momento della loro chiusura; l’apertura di sezioni specialistiche nelle carceri; un doppio circuito per Rems di alta sicurezza con una custodia militare; infine, l’affidamento della gestione delle Rems al ministero della Giustizia. A questa provocazione, tesa a riaprire i manicomi giudiziari, intende rispondere la proposta di legge (n. 1119) elaborata dalla “Società della Ragione” e depositata al la Camera dei deputati da Riccardo Magi. Propone di abolire il doppio binario del Codice Rocco e cancellare l’incapacità di intendere e volere per affermare che la responsabilità può essere terapeutica e, dopo il giudizio, individuare per i sin- g, golf soggetti le alternative al carcere, senza istituzioni totali. La follia del potere è quella più pericolosa. Occorre una risposta all’altezza della sfida. Perché è irragionevole “accusare” la legge regionale sul fine vita di incostituzionalità di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 14 febbraio 2025 Fin dalla lettura dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 207/ 2018 sull’aiuto al suicidio medicalizzato avevamo ritenuto ben comprensibile che la Corte dichiarasse indispensabile l’intervento legislativo. La preoccupazione del Giudice delle leggi era quella di regolamentare il più possibile l’ambito del proprio operato e di non lasciare un “vuoto normativo”, che avrebbe generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, “in un ambito ad altissima sensibilità etico- sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi”. A tal fine nell’ordinanza si era data al Parlamento la possibilità di assumere, almeno entro un anno, le necessarie decisioni, rimesse alla sua discrezionalità per completare una ricostruzione dell’ordinanza in questione. Un invito che nell’arco di oltre quattro anni si è tradotto in una mera illusione. Il silenzio del Parlamento con il governo Meloni è stato assordante, volutamente assordante. Ben poca importanza ha avuto il ddl Bazoli, approvato il 10 marzo 2022 alla Camera in vigenza del precedente governo. Era stato il risultato di una mediazione che aveva tenuto conto di tante sensibilità diverse, ma che per la maggior parte degli articoli e delle condizioni di depenalizzazione dell’aiuto al suicidio si era attenuto al disposto della sentenza costituzionale e garantiva il supporto dei malati tramite sistema sanitario nazionale. Il ddl Bazoli non fu discusso al Senato con il subentrante governo Meloni. Pertanto la preoccupazione dei giudici delle leggi di regolamentare l’ambito del proprio operato e di non lasciare un vuoto normativo resta per ora tale. E a fronte di ciò sentire esponenti politici cattolici parlare di “legge disumana e incostituzionale” appare irragionevole. Peraltro, nell’arco di questo periodo di tempo, a fronte del silenzio del legislatore, sono intervenuti diversi tribunali regionali quali, fra gli altri, quelli di Massa, Ancona e Trieste, che hanno dovuto affrontare e verificare le richieste dei pazienti di accedere al suicidio medicalmente assistito e l’idoneità dei medicinali da somministrare, stabilire quale procedura vada seguita, chiarire le eventuali impugnabilità del provvedimento stesso e infine i costi richiesti dalla commissione, obbligando ad esempio, nel noto caso del paziente Mario, a una raccolta di fondi per consentire di raggiungere l’obiettivo. La verità è che i pazienti che hanno dovuto far ricorso all’aiuto al suicidio medicalizzato hanno visto tempi molto lunghi perché il loro diritto venisse rispettato. Un tempo troppo lungo per pazienti che si trovano in condizioni di estrema sofferenza. E una vicenda drammatica di questo genere non può essere caratterizzata da vuoti procedurali riempiti con diverse modalità a seconda dei tribunali che possono allungare i tempi di realizzazione di un tale evento. Così abbiamo la Toscana, che fra molte polemiche, ha promulgato una legge che ha tenuto conto della proposta di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni con la campagna “Liberi Subito” e supportata da oltre 10.000 firme. Una legge finalizzata a garantire da parte delle aziende sanitarie tempi e modi omogenei per valutare le richieste dei malati di accedere al suicidio medicalmente assistito. La legge in questione non è a rischio di incostituzionalità in quanto non invade affatto la competenza statale, ovvero non pare si possa ravvisare una violazione dell’articolo 117, comma 2, lettera m, della carta costituzionale relativa alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. La legge toscana, stante il perdurante silenzio del legislatore statale, garantisce procedure e tempi certi per accedere a un diritto, quello del suicidio medicalmente assistito, che la Corte Costituzionale ha già individuato nella sua sentenza. La speranza è ora che altre regioni possano prendere esempio dalla Toscana e, come dice Luca Zaia, “trovare il modo per fare quel che abbiamo il dovere di fare”. Migranti. Piantedosi: “I Cpr funzionano”. Schlein: “Fallimento e spreco” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 14 febbraio 2025 Ad alcuni giornalisti presenti a Montecitorio il ministro dell’Interno ha risposto un secco “no” alla domanda se l’esecutivo avesse intenzione di svuotare le strutture inaugurate poco meno di un anno fa. Elly Schlein: “Ennesima certificazione del fallimento di questa operazione che calpesta i diritti fondamentali e le leggi italiane ed europee”, oltre che “uno spreco di risorse economiche”. Le opposizioni chiedono al governo di fermarsi, gli esponenti della maggioranza si rifugia nel silenzio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi vuole andare avanti. Abbandonare il progetto dei centri per migranti in Albania equivale a decretare il fallimento di uno dei cavalli di battaglia di Giorgia Meloni. Ma finora la storia del protocollo firmato dalla premier con l’omologo albanese Edi Rama è costellata di insuccessi dopo le mancate convalide dei trattenimenti dei migranti nel centro costruito a Gjader. Eppure ieri il ministro Matteo Piantedosi ha ribadito la volontà del governo di proseguire nel progetto, mentre i giornalisti lo interrogavano in merito alla notizia pubblicata da Domani sulla lettera di licenziamento inviata dall’ente gestore Medihospes ai dipendenti impiegati nei centri. Piantedosi a Montecitorio ha detto che non ha intenzione di svuotare le strutture costruite dal genio dell’Aeronautica militare e inaugurate meno di un anno fa. Come raccontato su questo giornale, un centinaio di lavoratori hanno ricevuto una lettera da Medihospes nella quale c’era scritto: “La informiamo che a causa di una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di Cassazione italiana, nonché dell’impossibilità momentanea di accogliere nuovi flussi di migranti, siamo costretti a sospendere temporaneamente il nostro servizio”. La Medihospes era stata scelta all’esito di una procedura negoziata, senza gara, del valore di 151,5 milioni di euro per quattro anni con un ribasso del 4,94 per cento. E quindi “il contratto di lavoro sarà considerato risolto a partire dal 15 febbraio 2025 fino a nuova comunicazione”. E, “in attesa di una soluzione giuridica stabile e definitiva”. La notizia ha suscitato diverse reazioni tra le opposizioni. Per la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, si tratta dell’”ennesima certificazione del fallimento di questa operazione che calpesta i diritti fondamentali e le leggi italiane ed europee”, oltre che “uno spreco di risorse economiche”. E aggiunge un appello a Meloni: “Basta, si fermi, c’è un paese che tra calo di produzione industriale, costo dell’energia e salari bassi richiede risposte, non becera propaganda”. I centri sono “un colossale fallimento” dice invece Angelo Bonelli di Avs e sottolinea che “da sabato, nei centri di Shengjin e Gjader rimarranno solo pochi poliziotti di guardia e qualche medico”. “Cosa resta? Centinaia di migliaia di euro degli italiani buttati, una manciata di migranti ospitati a fronte di migliaia di arrivi sulle coste italiane, personale delle forze dell’ordine impiegate a dare da mangiare ai cani randagi in un paese straniero invece che contrastare la criminalità qui in Italia e una enorme ombra nera sul nostro paese”, ha detto invece il segretario di +Europa, Riccardo Magi. Nei mesi scorsi il governo ha inviato in Albania migranti provenienti principalmente dal Bangladesh e dall’Egitto ma i giudici di Roma - tutte e tre le volte - non hanno convalidato i trattenimenti aspettando una decisione della Corte di giustizia europea sui paesi sicuri. Cosa accadrà ora non è chiaro. Al momento i tecnici del Viminale sono al lavoro per aggiornare le modalità di funzionamento dei centri. L’ipotesi più accreditata è quella dell’allargamento del Cpr già esistente a Gjader per accogliere non soltanto i migranti salvati in acque internazionali dalle imbarcazioni delle autorità italiane, ma anche chi si trova già in Italia. Si stanno facendo una serie di valutazioni tecniche e non è sicuro che la questione approderà nel Consiglio dei ministri del prossimo lunedì. Il governo, prima di agire, dovrà necessariamente confrontarsi con il Quirinale e l’Unione europea. Migranti. Morì nel Cpr, la famiglia: “L’Italia ci ha mentito, verità per Moussa” di Alice Dominese Il Domani, 14 febbraio 2025 Balde si è suicidato in isolamento nell’”ospedaletto” del centro torinese. Il fratello e la madre a Domani: “Lì dentro trattamenti disumani. Quasi quattro anni dopo la morte del giovane guineano Moussa Balde nel Cpr di Torino, il processo entra in una nuova fase. Mercoledì 12 febbraio si è tenuta la prima udienza in tribunale. Una storia che descrive bene il buco nero dei centri migranti, pallino del governo di Giorgia Meloni, che ne vuole realizzarne altri in Italia nonostante il grande flop di quelli realizzati a carissimo prezzo in Albania. Sul banco degli imputati, con l’accusa di omicidio colposo, ci sono l’ex direttrice del centro di permanenza per il rimpatrio e il suo ex responsabile sanitario. Entrambi avrebbero omesso i controlli necessari a prevenire il rischio suicidario dei trattenuti, violando le linee guida previste per i centri di detenzione. Sotto indagine è anche la mancanza di protocolli finalizzati a gestire il disagio psichico delle persone detenute nel centro, come nel caso di Balde, che a maggio 2021, dopo aver subito un pestaggio a Ventimiglia ed essere stato trovato senza documenti, era stato rinchiuso per giorni nel cosiddetto ospedaletto del Cpr. In quella stanza, utilizzata come luogo di isolamento sanitario, Moussa Balde si è tolto la vita. “Per la prima volta, la morte di un migrante non è stata derubricata e Moussa Balde è stato riconosciuto come vittima del sistema Cpr” dice Gianluca Vitale, avvocato difensore della famiglia del migrante morto nel Cpr. Amadou Thierno Balde, fratello più grande di Moussa, ha deciso di assistere all’inizio del processo insieme a sua madre Djenabou. Sostenuti da una rete di volontari, hanno raggiunto l’Italia dalla Guinea con Mariama Sylla, sorella di Ousmane, il connazionale 22enne morto suicida nel Cpr di Roma a febbraio 2024. Accolti dalla rete civica torinese No Cpr, Thierno e sua madre raccontano il desiderio di Moussa di raggiungere l’Europa e il percorso difficile che ha incontrato al suo arrivo. Moussa era diplomato come elettricista e prima di partire stava cercando lavoro. “Ogni mattina alle 5 aiutava sua madre nel negozio di famiglia, poi andava a seguire dei corsi, ma la situazione era difficile e voleva fare di più”, spiega Thierno. “Una sera lo aspettavano a cena e non si è presentato: aveva deciso di partire”. Dopo un periodo trascorso a lavorare in Algeria con il fratello, che studiava all’università per diventare ingegnere, Moussa riesce a imbarcarsi dalla Libia, nonostante i tentativi della famiglia per convincerlo a tornare in Guinea e a non correre altri pericoli. Quando arriva in Italia, Moussa cerca lavoro a Imperia, dove prova a imparare l’italiano. Agli amici che gli propongono di spostarsi in Germania risponde che vuole restare: “Diceva che era stata una nave italiana ad aiutarlo ad arrivare lì e che quindi sentiva di dover rimanere”, dice Thierno. Accanto a lui, sua madre ha lo sguardo provato. Moussa le voleva comprare un cellulare per potersi tenere in contatto. Ricorda un video in cui Moussa le parlava in italiano, fiero di aver imparato la lingua. I problemi iniziano due anni dopo l’ingresso di Moussa in un centro di accoglienza ligure. Secondo Thierno, un giorno suo fratello si era spaventato: “Aveva visto sul pc del direttore del centro alcune foto della sorella, che lui sentiva in videochiamata, e si era preoccupato. Aveva deciso di allontanarsi dal centro ed era diventato diffidente, per strada si sentiva seguito”. Moussa lascia il centro di accoglienza e si avvicina al centro sociale La talpa e l’orologio di Imperia, dove riceve sostegno e supporto legale per fare domanda di protezione internazionale. La sua richiesta di soggiorno però non riceve riscontro e Moussa, in cerca di un posto in cui stare, ritorna al centro di accoglienza che aveva lasciato, ma per lui non c’è più posto. Da quel momento la famiglia di Moussa perde le sue tracce. Verrà filmato alcuni giorni dopo, mentre subisce una violenta aggressione di gruppo davanti a un supermercato di Ventimiglia. Quando il 23 maggio Moussa Balde si toglie la vita, si trova nel centro per il rimpatrio da quasi due settimane. Secondo gli inquirenti, quando viene trasferito a Torino le ferite che ha sulla testa, dovute al pestaggio subito il giorno prima, sono ancora fresche ed evidenti. Nonostante questo e i ripetuti solleciti della Garante comunale rivolti all’ex direttrice del centro per verificare la presenza all’interno del Cpr di un cittadino guineano con possibili problemi psichici proveniente dalla Liguria, Moussa non viene identificato. I due imputati sarebbero dovuti intervenire per far sì che venisse visitato e vigilare sul suo stato di salute precario, ma secondo l’accusa ciò non avviene. L’indignazione generale per la morte di Balde aveva fatto chiudere l’ospedaletto, che secondo il Garante nazionale configurava “un trattamento inumano e degradante”. Nella stessa stanza, nel 2019, era morto anche Faisal Hussein, un cittadino bengalese lasciato in isolamento per sei mesi. La storia del centro torinese era proseguita tra rivolte interne e proteste fino a marzo 2023, quando gli incendi appiccati dai trattenuti hanno reso il Cpr inagibile. Ora il centro si prepara a riaprire. Thierno e gli altri parenti delle vittime, però, non vogliono che quello che è successo in questo luogo a Moussa, e nel Cpr di Roma a Ousmane, succeda anche ad altre persone. “Alla giustizia italiana noi chiediamo sincerità e trasparenza”, dice Thierno. “Vogliamo che le istituzioni si rendano conto di come ci hanno mentito e di come trattano le persone che vengono messe in questi centri di detenzione”. Il silenzio di Ue e Italia di fronte all’asse Mosca-Washington di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 febbraio 2025 Dopo la telefonata Trump-Putin, risposte da Kallas e Crosetto. Ma Bruxelles arranca e rischia di rimanere fuori dai giochi. Una “bella chiacchierata” con Russia e Ucraina. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definitole due conversazioni avute ieri con il presidente russo Vladimir Putin prima e con quello ucraino Volodymyr Zelensky poi. “Chiacchierate” dalle quali sono emersi sostanzialmente due temi: la contrarietà degli Stati Uniti all’ingresso di Kiev nella Nato e la convinzione da parte dei due attori principali del conflitto di chiudere le ostilità in tempi brevi. Quel che è cambiato, rispetto alla presidenza Biden, è che Washington è oggi disposta non solo a parlare con Mosca ma anche a sedersi a un tavolo, con un faccia a faccia fra Trump e Putin che potrebbe essere organizzato a Riad, in Arabia Saudita. “Ci vorrà del tempo per preparare un incontro del genere, potrebbero volerci settimane o anche diversi mesi”, ha detto il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov. Che ha poi “rassicurato”, per quanto possibile, che “in un modo o nell’altro l’Ucraina parteciperà ai negoziati” e che “ci sarà sia un percorso di dialogo bilaterale russo-americano, sia un percorso che, ovviamente, sarà collegato al coinvolgimento dell’Ucraina”. E ci mancherebbe altro, risponderebbero da Kiev, con la risposta ufficiale che è arrivata per bocca dello stesso Zelensky. “Non possiamo accettare, come Paese indipendente, alcun accordo fatto senza di noi - ha spiegato ieri durante una visita a una centrale nucleare - Lo dico molto chiaramente ai nostri partner: la cosa principale è non permettere che tutto vada secondo il piano di Putin”. Che intanto ha già ottenuto una certa riabilitazione da parte americana, con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, che ha definito il comportamento di Trump con Putin “educato” e “una dimostrazione di come dovrebbe avvenire il dialogo con la Russia”. Mosca ha anche dato indicazioni a Ue e Cina su come muoversi per partecipare ai negoziati, segno di come la volontà del Cremlino di tornare a dare le carte a livello internazionale sia stata in qualche modo soddisfatta da Trump. “L’Europa deve parlare con Washington per salvare il proprio posto nei negoziati”, ha spiegato Peskov. “Per ora non è possibile dire nulla sulla configurazione delle parti perché non ci sono stati ancora contatti sostanziali a livello operativo”, ha poi aggiunto rispondendo a una domanda su un”eventuale partecipazione di Pechino alle trattative. Dal canto suo Bruxelles cerca di difendere il proprio ruolo nelle trattative, con l’Alto rappresentante per la Polticia estera e la Sicurezza, Kaja Kallas, che ha confermato l’impegno dell’Europa che “resterà salda e continuerà a sostenere l’Ucraina nella sua lotta”. Per Kallas “qualsiasi soluzione rapida sull’Ucraina è un affare sporco che abbiamo già visto in passato, ad esempio a Minsk, e semplicemente non funzionerà”. Paragonando poi la situazione attuale al 1938. “Possiamo fare un parallelo con il 1938 - ha aggiunto - non è una buona tattica di negoziazione se si dà via tutto prima ancora che le discussioni siano iniziate: è appeasement, e non funziona”. Ma l’Ue è in una posizione complicata, dovuta in primis alla debolezza politica di Francia e Germania. “Non è ancora chiaro a quali condizioni l’Ucraina sarà pronta ad accettare un accordo di pace”, ha parlando a Politico il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, che tuttavia è in procinto di affrontare le elezioni tra poco più di una settimana e di conseguenza potrebbe a breve lasciare la guida di quella che un tempo era la locomotiva d’Europa. E dunque in questa fase l’Italia potrebbe svolgere un ruolo da protagonista, rivendicando da un lato il sostegno all’Ucraina mai sopito, e dall’altro i numerosi contatti tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e Trump. Ma proprio la vicinanza al tycoon potrebbe imbarazzare Roma, tanto che la posizione del governo è stata specificata ieri dal ministro della Difesa, Guido Crosetto. “Auspico che si arrivi il prima possibile a una pace giusta e, utilizzando un termine che è stato utilizzato da tutti, duratura - ha detto a margine della ministeriale Difesa della Nato - Che sia una pace vera e non sia soltanto uno stop per iniziare poi tra qualche anno, perché abbiamo visto cosa è successo in questi anni, prima la Georgia, poi siamo passati alla Crimea, poi adesso al Donbass, non vorremmo che pezzo dopo pezzo con la politica del carciofo alla fine si finisse di sfogliare totalmente l’Ucraina, per cui l’obiettivo anche degli Stati Uniti e anche di Trump sarà una pace giusta e duratura”. Libia. Passa dalla Cirenaica la rotta letale dei migranti subsahariani di Fabio Marco Fabbri L’Opinione, 14 febbraio 2025 Dal sottosuolo della Cirenaica affiorano realtà ben note circa il destino dei migranti, soprattutto di quelli provenienti dall’Africa sub sahariana. Il 9 febbraio nei pressi di un centro di detenzione non controllato da Bengasi, quindi nemmeno dal famigerato generale tripolino (ex venditore ambulante) Njeem Osama Elmasry, conosciuto come Al-Masri, sono venute alla luce due fosse comuni con una cinquantina di corpi di migranti. La loro identità è chiaramente sconosciuta, ma la zona di provenienza è quella sub sahariana e saheliana. L’area dove sono stati rinvenuti è nella regione di Kufra, un distretto della Cirenaica del sud-est, al confine tra Egitto, Ciad e Sudan. Qui esistono centri di detenzione fuori il controllo del governo di Khalifa Belqasim Haftar, l’uomo forte, così viene riconosciuto, della Cirenaica, e hanno una ubicazione non casuale in quanto sorgono limitrofi a una delle piste che partono dal centro Africa per raggiungere la costa mediterranea. Le fosse comuni sono state identificate dopo una incursione delle forze di sicurezza governative definite “anti-tratta”, nel centro di detenzione gestito da una rete di trafficanti di esseri umani. Qui erano imprigionati poco meno di un centinaio di migranti intercettati durante il loro viaggio dal sub-Sahara. Una macabra scoperta, solo ultima di una tragedia che si perpetua non solo in questa regione, e che colpisce le persone che cercano di raggiungere l’Europa attraversando un area tra le più pericolose dell’Africa. In una delle due fosse scoperta domenica scorsa in una struttura rurale nei pressi dell’oasi di Kufra, tristemente nota anche per la battaglia di Kufra gennaio marzo 1941, erano seppelliti circa venti cadaveri. Nell’altra fossa sono stati rinvenuti una trentina di corpi. I sopravvissuti hanno affermato che sono scomparsi, probabilmente uccisi, circa 70 persone, quindi i restanti è probabile che saranno stati sepolti in un’altra fossa comune. L’oasi dista da Bengasi oltre mille chilometri, ciò fa comprendere quanto sia marginale questa aerea, ed è a circa due chilometri dal capoluogo distrettuale di el-Giof. In questa zona le piogge sono quasi assenti, e la temperatura media si aggira intorno ai 39 gradi. Risulta, da quanto riportato da associazioni umanitarie libiche, che alcuni corpi portavano letali lesioni di arma da fuoco, sicuramente il colpo di grazia prima di essere gettati nella fossa. La banda di mercanti di esseri umani operava nel rapimento di questi migranti irregolari provenienti da Paesi, molti dei quali caratterizzati da una “instabilità congenita”. Torturati, violentati, totalmente soggiogati, poi, come accade con i centri di detenzione della Tripolitania, questi parzialmente sotto controllo governativo, messi sul mercato con modalità statuite in funzione del valore dell’individuo. I migranti sequestrati scomodi per vari motivi, come malati, deboli, non “commerciabili”, irrequieti, vengono uccisi e sepolti. Sui social media sono state pubblicate le foto dei cadaveri rinvenuti, ma anche dei sopravvissuti segnati da cicatrici sulla schiena, sul viso e sulle braccia, tutti emaciati. Infine, le immagini dei tre carnefici arrestatati, un libico, non identificata la regione di provenienza, e due stranieri dei quali non è stata dichiarata la nazionalità. La Libia dal 2011, data della caduta del rimpianto presidente Muammar Gheddafi, è sprofondata nel caos politico e in una insicurezza cronica. Il Paese è attualmente governato da due esecutivi rivali, quello di Tripoli, imposto dall’Occidente, quindi riconosciuto dalle Nazioni unite, guidato, eufemisticamente, da Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, l’altro a Bengasi, regione Cirenaica, retto dal potente clan del maresciallo Khalifa Haftar. La regione del Fezzan è organizzata in senso tribale intorno ad un centinaio di tribù e bande che si coagulano in modo autonomo a volte verso Bengasi, ed in alcune occasioni con Tripoli. È in questo caos che decine di migliaia di migranti subsahariani che si avventurano lungo le rotte che attraversano il Sahara, giungono sul territorio libico, o verso il confine algerino o egiziano. Per poi convergere verso le più vicine coste mediterranee con il sogno di raggiungere, spesso a ragione, l’Eldorado europeo. In questi viaggi, che possono durare anche alcuni mesi, a volte si perdono tra le sabbie desertiche, ma la maggior parte cadono preda dei trafficanti, altri si perdono tra le acque del Mediterraneo durante la traversata. Se in Cirenaica, distretto di Kufra, si scoprono le fosse comuni come accaduto il 9 febbraio, a fine gennaio, l’ufficio del procuratore generale di Tripoli ha imposto l’arresto dei membri di una banda criminale accusata di aver torturato oltre duecentocinquanta migranti irregolari provenienti dall’Africa allo scopo di estorsione. I criminali operavano in un campo di detenzione nella zona di al-Wahat, un distretto della Cirenaica, regione desertica sotto il controllo delle forze del maresciallo Haftar, a sud di Bengasi e a oltre settecento chilometri da Tripoli. Questa situazione è conferma del caos sul controllo di tutto il territorio libico, in quanto il centro di detenzione e tortura dell’oasi di Al-Wahat è in Cirenaica, come quello di Kufra, ma mentre la prima ha avuto l’intervento delle forze di sicurezza della Tripolitania, che hanno arrestato i carnefici, la seconda è stata smantellata dalle forze cirenaiche, e gli autori della strage e delle violenze sono sotto tortura nelle carceri di Bengasi. Ma questa apparente cooperazione tra Bengasi e Tripoli contro le organizzazioni di trafficanti di esseri umani, è voluta o è uno sconfinamento delle forze di sicurezza di Tripoli in Cirenaica? Sicuramente la Libia è passata da avere un autocrate, Gheddafi, a dover far convivere qualche decina di piccoli dittatori. Comunque in Libia è frequente il ritrovamento di fosse comuni con cadaveri di migranti. Nel 2024 furono dissotterrati nella zona di Ash Shwayrif, ubicata in Tripolitania e a circa 350 chilometri a sud della Capitale, i corpi di una settantina di migranti.