Torna il Fine Pena Mai di Errico Novi Il Dubbio, 13 febbraio 2025 I meloniani rispolverano il “vecchio” ergastolo ostativo. L’assist arriva dalle intercettazioni, dai colloqui captati dalla Procura di Palermo e che hanno portato all’arresto, nei giorni scorsi, di oltre 180 presunti mafiosi. “Questa Meloni parla come una disonorata”, “ora che hanno arrestato Messina Denaro lo potrebbero levare, il 41 bis”, “ma come si dà il voto a una come questa?”. Difficile che una premier, e un partito di maggioranza, possano chiedere di più, alla cronaca giudiziaria: criminali, o presunti tali, che additano la leader del governo come una nemica, come una “dura” che non ha allentato la presa sulle cosche. Non a caso Meloni, dopo aver letto i brani captati dalla polizia e divulgati dall’agenzia Adnkronos, lunedì ha diffuso un post sui social in cui ha citato le contumelie rivoltele dagli sconsolati “picciotti” e le ha rilanciate come prova della propria fermezza. Dopo la presidente del Consiglio, è arrivata una raffica di dichiarazioni consonanti, tutte rigorosamente di ministri (come Tommaso Foti) e parlamentari (come Lucio Malan, ma se ne contano una dozzina) di FdI. Fino all’indiscrezione circolata il giorno dopo, secondo cui la commissione Antimafia, presieduta da una fedelissima di Meloni, Chiara Colosimo, sarebbe già al lavoro per inasprire le norme sulla detenzione, e in particolare “sull’applicazione del 41 bis e dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario”. Il tutto arricchito dall’iperbole che suona come uno spiazzante fuor d’opera: secondo le stesse indiscrezioni non si esclude il “ripristino del divieto di concedere benefici penitenziari ai condannati in regime di 4 bis (cioè per reati ostativi come mafia e terrorismo, ndr) salvo che nei casi di collaborazione con la giustizia”. Vorrebbe dire mettere mano alle norme sul “fine pena mai”, e cioè sull’ergastolo ostativo, da poco modificate, e vincolare di nuovo un eventuale, pur remoto ritorno alla libertà (con la liberazione condizionale, e dopo 30 anni) al “pentimento”. E qui forse si esagera. Non si tratta di intransigenza più o meno assoluta, ma di legittimità costituzionale. L’idea di tornare al vecchio ergastolo ostativo vorrebbe dire sconfessare non solo e non tanto uno dei primissimi decreti legge varati dal governo Meloni, il numero 162 del 31 ottobre 2022, ma contraddire l’ordinanza della Corte costituzionale che aveva “imposto” quel decreto, la numero 97 del 2021. Con quella pronuncia, la Consulta aveva bollato come incostituzionale la subordinazione “assoluta” dei benefici penitenziari alla scelta, del condannato all’ergastolo, di collaborare con la giustizia. Non si trattò di una sentenza, ma di un “ordine” rivolto dalla Corte al legislatore affinché eliminasse la presunzione assoluta secondo cui il mafioso ergastolano è “rieducato”, e merita dunque la liberazione, solo se diventa un “pentito”, giacché il “silenzio” può essere legato anche a motivazioni intime, personali, come la volontà di proteggere i familiari. Meloni, col ricordato decreto 162 del 2022, non fece altro che obbedire a quell’ordine, seppure con un testo durissimo, che lascia, agli “ergastolani ostativi”, una speranza di uscita dal carcere così sottile da essere quasi irrealizzabile. Adesso, l’intenzione di chiudere anche quel ridottissimo spiraglio. Tutto politicamente comprensibile? Fino a un certo punto. La frenesia iconoclasta sui benefici penitenziari sembra spiegarsi non solo con la voglia di raccogliere l’assist arrivato dalle intercettazioni palermitane. C’è anche la conferma di un certo indirizzo che Palazzo Chigi - non solo Meloni ma anche il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano - suggerisce da qualche settimana al resto del governo, e anche al guardasigilli Carlo Nordio: sulla giustizia non dobbiamo strafare. Nel senso che c’è, sì, la separazione delle carriere e su quella si tira dritto, ma “non dobbiamo infierire sulla magistratura”. È proprio questa linea “moderata” che ha congelato, per esempio, la scorsa settimana, la legge che dovrebbe istituire una giornata per le vittime degli errori giudiziari. “Ora come ora, rischia di suonare come una provocazione”, è stato fatto notare ai deputati di maggioranza della commissione Giustizia. Time out, esame degli emendamenti rinviato. E la prudenza, la “misura dei colpi”, si esprime non solo con qualche passo indietro, come nel caso della legge che doveva essere intitolata a Enzo Tortora e che era sta incredibilmente contestata dall’Anm, ma anche con qualche nuovo giro di vite. Quale sarebbe appunto la modifica dell’ergastolo ostativo, o meglio il ripristino del regime preclusivo in vigore fino al decreto dell’ottobre 2022. E qui non c’entra nulla la volontà di non irritare troppo l’Anm, ma entra piuttosto in gioco il timore che parte dell’elettorato possa scorgere, nella separazione delle carriere, un cedimento alla logica dell’impunità, un “favore ai corrotti” e un “indebolimento dei pm”: insomma, si teme che passi la narrazione anti- riforma delle correnti Anm e del centrosinistra. A fronte di un simile rischio, meglio rassicurare gli elettori, soprattutto quelli più intransigenti, che gli artigli contro i malfattori restano affilatissimi, e lo sono ancora di più contro mafia. C’è dunque il rischio che di qui in avanti, fino al referendum che, nel 2026, dovrà confermare la separazione delle carriere, il centrodestra accentui la vena giustizialista, la tendenza restrittiva nella politica giudiziaria. Vocazione che ha partorito i decreti “Cutro”, “Caivano” e “Sicurezza”, tutti provvedimenti agli antipodi del garantismo affermato da Nordio con il ddl penale (quello che tra l’altro ha abolito l’abuso d’ufficio) e, appunto, la legge costituzionale sulle carriere dei magistrati. Certo, un ritorno all’ergastolo ostativo “pre- 2022” vorrebbe dire sconfessare la Consulta. Al punto da mettere in seria difficoltà Sergio Mattarella. Il quale, al momento di promulgare un’eventuale nuova legge “restrittiva” sull’ergastolo ostativo, dovrebbe valutare se il conflitto con una così recente pronuncia della Corte (la citata ordinanza 97 del 2021) non implichi una manifesta incostituzionalità. Il rischio ci sarebbe. Ma uno spot da destra dura e pura sull’antimafia val bene anche quel rischio. Ma già adesso l’ergastolano ostativo è tenuto a una “prova diabolica” se vuole rivedere la libertà di Valentina Stella Il Dubbio, 13 febbraio 2025 La commissione parlamentare Antimafia sarebbe dunque al lavoro su una modifica restrittiva in materia di applicazione dell’articolo 41 bis e dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Come avverrà sul piano normativo, lo vedremo. Ma intanto proprio qualche giorno fa, in merito al cosiddetto “carcere duro”, Mauro Palma, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, ci aveva detto come già “molte volte è dovuta intervenire la Corte costituzionale per rimuovere singole imposizioni vessatorie non giustificabili sul piano della finalità per cui tale regime è sorto e entro il cui limite deve attenersi”. In merito al fine pena mai, cioè all’ergastolo ostativo, invece, tutti ricorderanno che la Corte costituzionale più volte fu accusata dai giuristi di comportarsi come Ponzio Pilato. Ripercorriamo brevemente quanto accaduto. Il 15 aprile 2021 la Consulta stabilì che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione, ma che sarebbe servita una legge che il Parlamento avrebbe dovuto emanare entro un anno. La Corte spiegò che la passata disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo precludeva in modo assoluto, a chi non avesse utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risultava sicuro. Aveva quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, era in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tutto era partito dal caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale: la Corte di Cassazione (relatore il consigliere Giuseppe Santalucia, ex presidente dell’Anm) aveva poi sollevato il dubbio di legittimità costituzionale, sostenendo che il diritto alla speranza non andrebbe negato a nessuno. La politica non si impegnò abbastanza nei tempi previsti dalla Corte, chiese ufficialmente di avere più tempo. La Consulta, criticata da molti giuristi per questo, lo concesse. Poi il 9 novembre 2022 la Corte emanò la seguente nota: “Dopo due rinvii disposti per concedere al legislatore il tempo necessario al fine di intervenire sulla materia (ordinanze n. 97 del 2021 e n. 122 del 2022), la Corte ha nuovamente esaminato, in camera di consiglio, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Cassazione, sulla disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo”. La Consulta decise “di restituire gli atti al giudice a quo, a seguito dell’entrata in vigore del decreto- legge 31 ottobre 2022, n. 162, che contiene, fra l’altro, misure urgenti nella materia in esame”. Si trattava del primo decreto legge del governo Meloni presentato in conferenza stampa dalla stessa premier insieme al ministro Nordio e che poneva quella che diversi esperti della materia definirono una “prova diabolica” affinché il detenuto potesse accedere alla liberazione condizionale. Praticamente è come se l’ergastolo ostativo non fosse stato mai realmente abolito. A marzo 2023 la Cassazione dispose il rinvio al Tribunale di sorveglianza dell’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, “valutasse con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti”. E ad oggi Salvatore Pezzino ancora non riesce a beneficiare della liberazione condizionale, ma solo dei permessi premio. Carceri, emergenza senza fine: in un mese e mezzo dieci suicidi di Filippo Fiorini La Stampa, 13 febbraio 2025 Lo scorso anno le vittime furono 90. Suona un nuovo Sanremo sull’Italia, ma in carcere passano ancora “La Ballata del Miché”. L’ultimo si è impiccato due settimane fa, a Vigevano, Pavia. Era dentro per rapina a mano armata. Si chiamava Salvatore. Un colpo da 55 euro. L’arma era un coltello, che non ha usato contro nessuno. I soldi li ha pure restituiti. È stato il decimo, quest’anno, in un gennaio e un mezzo febbraio che rilanciano già sul record di 90 suicidi in cella segnato nel 2024. È un sintomo di stress del sistema. Sono quasi tutti criminali, farabutti, antisociali, spacciatori, assassini, stupratori, drogati, praticanti abituali degli altri 734 delitti elencati nel codice. È circa la cittadinanza di Siena, Agrigento, Cuneo. Sono maschi al 95%. Nel gergo dei penitenziari napoletani, la calca in cui vivono si dice stare “int’o’stritt”, ovvero, nello stretto. Nelle 24 lingue ufficiali dell’UE, più una che è la matematica, con cui il Consiglio d’Europa pubblica i suoi report annuali, si scrive 109% accanto alla voce “indice nazionale di sovraffollamento”. Un dato che il nostro garante nazionale dei detenuti alza al 133%. Solo sei nazioni sono peggio di noi. Inoltre, non tutti costoro sono colpevoli. L’avvocato Gabriele Magno vive la sua professione come una missione contro le storture del codice di procedura penale. È presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari. È giovane, ma ha la voce grave. È stato anche in Tv, perorando qualcuna delle sue cause. Dice che “chi si trova in carcere giustamente, patisce enormemente per la privazione della libertà. Esserci da innocente, significa convivere con un duplice dramma”. Ha visto che spesso la malagiustizia nasce da “un magistrato o dalla polizia giudiziaria che si incaponiscono su una pista che credono vera e che non abbandonano più, imprimendo uno stigma sulla persona, che perdura negli anni, a valle di qualsiasi riabilitazione”. Nel maggio 2023, il ministero di Giustizia ha riferito al parlamento dati del 2022, per cui lo Stato ha pagato 27,3 milioni di euro in riparazioni per ingiusta detenzione. “Dal 2018 al 2022 abbiamo superato il miliardo in risarcimenti - spiega Magno - ma questo non è che un dato marginale. Le revisioni dei processi, infatti, sono un aspetto residuale. Gli indennizzi, invece, sono un fenomeno completamente diverso. Sono il 90% dei casi e spesso non sono calcolati nelle statistiche. Parliamo di tutti i procedimenti penali da cui poi scattano misure cautelari come carcere, domiciliari, divieto di dimora e quant’altro. Poi, tutto si conclude con un nulla di fatto, un’archiviazione. In questi casi, si può solo chiedere un indennizzo, che ha un limite di 500 mila euro”. Cagliari, Cosenza, Firenze: i suicidi in carcere sono seminati a spaglio sul Paese e spaziano addirittura su tutti i ruoli del penitenziario, passando dai detenuti agli operatori. Nel 2025, però, la maggior parte è avvenuta in Emilia-Romagna. 4 reclusi si sono tolti la vita, una donna ha tentato di farlo il 6 febbraio e un altro uomo è morto di overdose. Andrea Paltrinieri, l’ultimo ad averla fatta finita in cella, ha usato, come quasi sempre accade, il fornelletto del gas in dotazione per cucinare. Era in attesa di giudizio per aver strangolato l’ex moglie, il giorno in cui le era stata affidata la custodia dei figli. L’ha caricata nel vano del suo furgone ed è andato a costituirsi dai carabinieri portando con sé il cadavere. Per quanto orribile sia il crimine, nella nostra filosofia del diritto questo non cancella la funzione riabilitativa della pena, che nel caso di Paltrinieri doveva per altro ancora essere stabilita. Roberto Cavalieri, garante per i detenuti in Emilia-Romagna, lo aveva incontrato poco prima che morisse. Anche lui insiste sul “sovraffollamento come disagio principale nei circuiti della media sicurezza, dove si trovano detenuti che hanno commesso reati comuni, anche gravi, come l’omicidio”. Cavalieri rileva come “tutto il sistema di prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo funzioni poco. Non c’è nemmeno coordinamento tra il personale coinvolto e il detenuto non viene intercettato in tempo nella sua sofferenza”. A proposito di modelli a seguire, dice che “se nella casa circondariale di Castelfranco Emilia, Modena, una struttura a custodia attenuata, negli ultimi 20 anni si è suicidata una sola persona, qualcosa vorrà dire in termini di buone pratiche penitenziarie”. Il carcere di Vigevano non è un impianto di questo tipo. L’avvocato Rocco Domenico Ceravolo, che difendeva Salvatore Rosano, aveva presentato istanza al giudice spiegando che l’uomo aveva già tentato il suicidio. Ora che commettendolo è diventato il più recente degli episodi contemplati da una casistica tragica, il legale si domanda “perché, se nonostante le sue fragilità non è stata decisa una misura più blanda, almeno non sia stato controllato 24 ore al giorno dalla penitenziaria?”. Come nella canzone di De André, “quando hanno aperto la cella, era già tardi”, poi, “domani un altro Miché, nella terà bagnata sarà, e qualcuno una croce col nome e la data su lui pianterà”. Tutto qui. Telefonini in carcere, arriva la stretta: ecco cosa cambia di Francesco Grignetti La Stampa, 13 febbraio 2025 Secondo i numeri dell’amministrazione penitenziaria, nel 2022 sono stati trovati 1.084 cellulari clandestini, diventati 1.595 l’anno dopo, e 2.252 nel 2024. L’ultimissima clamorosa inchiesta di mafia a Palermo certifica quel che si sapeva: nelle carceri entrano ogni anno migliaia di telefonini, più sofisticati di quelli ordinari, miniaturizzati e dotati di software che li rendono inaccessibili a intercettazioni. E l’amministrazione penitenziaria, il Dap, lo sa. È della settimana scorsa una circolare interna che annuncia una stretta a base di perquisizioni e provvedimenti disciplinari a carico dei detenuti che verranno trovati in possesso di cellulari in cella. Obiettivo è rendere la vita difficile ai boss, usando ogni piega del regolamento penitenziario. Non che sia una novità, la storia dei telefonini. Secondo i numeri dello stesso Dap, nel 2022 la polizia penitenziaria aveva trovato 1084 telefonini clandestini, che sono diventati 1595 l’anno dopo, e addirittura 2252 nel 2024. Sono i numeri che hanno fatto dire amaramente al procuratore nazionale antimafia, Gianni Melillo: “Viene fuori un dato allarmante: l’estrema debolezza del circuito penitenziario di alta sicurezza che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis. L’inchiesta di Palermo mostra chiaramente, confermando quanto emerso in altri contesti investigativi, che il sistema di alta sicurezza è assoggettato al dominio della criminalità”. Quei cellulari vengono usati per portare avanti le attività criminali. Non quando i boss finiscono al 41bis, perché quel circuito eccezionale sembra ancora tenere, ma nel circuito che è un gradino più in basso, detto Alta sicurezza. Qui finisce la gran massa di mafiosi, che siano di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra. E qui i mafiosi li usano per tenere i contatti con l’organizzazione, per dare ordini ai gregari, per partecipare a chat. In un caso, documentato dalla inchiesta di Palermo, il boss ha voluto seguire attraverso una videochiamata un pestaggio da lui ordinato. Che fare, allora? Un paio di anni fa era iniziata una sperimentazione a cura del ministero della Giustizia per cercare soluzioni tecnologiche. Si era ipotizzato di “isolare” il segnale per i cellulari all’interno delle carceri. Ma è più facile a dirsi che a farsi. E infatti questa circolare del Dap certifica il fallimento della sperimentazione. L’uso dei cellulari clandestini non è “fronteggiabile per ragioni tecniche ed economiche con schermature degli istituti penitenziari”. Ecco dunque che il Dap ordina un piano straordinario di perquisizioni. È l’unico modo per limitare i danni. Ma secondo il ministero non può bastare. Bisogna ricorrere al codice penale ogni volta che si può e in effetti da 2020 esiste un reato di “detenzione illecita di telefonini da parte di detenuti”, recentemente esteso a chi li aiuta. Infine l’arma a cui il Dap vuole fare ricorso è l’articolo 14bis del regolamento penitenziario (da non confondere con il 41bis): prevede a discrezione dell’amministrazione che il detenuto possa essere soggetto a un particolare regime. Il margine di discrezione è enorme: si va dal visto di censura sulla corrispondenza al cancellare le telefonate con l’esterno, ridurre i colloqui (salvo i familiari stretti), impedire la socializzazione con altri detenuti, vietare gli acquisti allo spaccio interno (purché non si intacchi la sicurezza), riduzione al minimo dell’ora d’aria, fino al controllo visivo continuo da parte degli agenti. Si prevedono anche trasferimenti per spezzare complicità. Lo stato delle carceri, per dirla ancora con le parole di Melillo, sotto il profilo della sicurezza “è un tema delicato che deve aprire una riflessione profonda”. Boss al telefono in carcere, lo Stato rottama il sistema di schermatura (mai partito) di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2025 I 47 jammer acquistati nel 2018 non sono mai stati utilizzati. Il Ministero vuole introdurre nuovi apparecchi ma la copertura finanziaria è un rebus. Lo Stato vuole schermare i telefoni cellulari utilizzati illegalmente dai boss mafiosi (e non solo da loro) in carcere ma la copertura finanziaria per acquistare le nuove apparecchiature è un rebus. Non solo. Gli inibitori di frequenze - comunemente chiamati jammer - il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) li ha acquistati nel 2018 ma vanno rottamati senza essere mai stati utilizzati un solo giorno. Anche perché con l’introduzione del 5G non sarebbero più al passo con la quinta generazione di telefonia mobile. La storia merita di essere raccontata dall’inizio, perché si sono già persi oltre sei anni durante i quali Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra in primis si sono avvantaggiati per continuare a governare le attività criminali dall’interno delle celle. Criptofonini in cella - A poche ore di distanza dall’ennesima operazione antimafia che a Palermo ha svelato il ricorso perfino a criptofonini da parte di uomini di Cosa nostra, la burocrazia italiana riporta a galla una storia che inizia il 17 ottobre 2018, giorno in cui l’allora direttore generale del personale e delle risorse del Dap, Pietro Buffa, firmò il decreto per avviare la procedura di gare per acquistare 40 jammer. Valore dell’appalto 140mila euro più Iva (173.630 euro). Di lì a pochi mesi - per la precisione il 10 dicembre 2018 - lo stesso Buffa firmerà l’aggiudicazione alla società Selint, unica concorrente, per 77mila euro (sempre più Iva al 22%). Un ribasso del 45% che permise - ma questo si sa oggi - l’acquisto di 47 jammer anziché 40. Consegna avvenuta - Il 28 maggio 2019 Massimo Parisi, direttore generale subentrato a Buffa, annuncia che l’Ufficio comunicazioni ha ultimato la consegna dei jammer a tutti i provveditorati. Sarebbe seguita la formazione del personale individuato. Tre giorni dopo i principali sindacati della polizia penitenziaria chiesero, è il caso di UilPa, di “conoscere quali saranno le modalità che verranno adottate per individuare/selezionare gli operatori da formare per l’utilizzo dei sistemi (...) Si richiede sin d’ora assicurazione circa l’esperimento di procedure che garantiscano trasparenza e imparzialità e favoriscano “pari opportunità nel lavoro e nello sviluppo professionale” (…)”. Mai utilizzati - Da allora il buio. Si sa solo che i 47 jammer non sono mai stati utilizzati, come conferma al Sole 24 Ore Gennarino De Fazio, segretario generale di UilPa Polizia penitenziaria. “Per quanto ne sappiamo si sono verificati problemi, ad esempio sanitari, visto che questi apparecchi inibiscono le comunicazioni in un’area molto vasta ma esiste anche il problema contrario, vale a dire che questi apparecchi non funzionano con le spesse mura degli istituti penitenziari. Tengo a sottolineare che non è un problema dell’agente di polizia penitenziaria, che non può portare cellulari all’interno delle sezioni ma degli operatori civili, direttori, magistrati e via di questo passo”. Tocca al viceministro - Il 23 gennaio 2025 la senatrice del M5S Gabriella Di Girolamo ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla situazione nelle carceri alla quale ha risposto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. “È stato avviato un progetto per la schermatura degli istituti penitenziari del tipo jammer, che prevede l’adozione di un sistema in grado di intercettare tutte le telefonate effettuate dai dispositivi cellulari presenti all’interno degli istituti di pena del Paese. Tale sistema permette di discriminare i segnali telefonici da autorizzare tramite la creazione di white e black list. In tal modo solo gli utenti autorizzati inclusi nella white list potranno effettuare comunicazioni con l’esterno. A differenza del sistema jammer, quello proposto è completamente passivo e non comporta l’emissione di campi elettromagnetici, garantendo così la tutela della salute del personale di Polizia penitenziaria, della popolazione detenuta e dei cittadini. In attesa del reperimento necessario a copertura finanziaria, il progetto prevede una prima implementazione in venti istituti ritenuti i più critici. I tempi di realizzazione della schermatura dipenderanno dal numero di istituti da coprire e dalla possibilità di effettuare interventi simultanei, nonché dalla conformazione dell’istituto (collocazione in ambito urbano, estensione, forma del perimetro e quant’altro). I costi, sulla base di una prima analisi di mercato, variano tra gli uno e i tre milioni di euro, a seconda delle caratteristiche dell’istituto in termini di dimensioni e collocazione topografica”. Le ultime linee guida - Nei primi giorni di febbraio - dunque a brevissima distanza dalla risposta del viceministro Sisto, il direttore generale Detenuti e trattamento del Dap, Ernesto Napolillo, riferendosi all’introduzione e all’utilizzo in carcere dei telefoni cellulari, ha però messo nero su bianco a pagina 3 delle linee guida spedite ai provveditorati regionali e alle direzioni degli istituti penitenziari, che “il diffuso fenomeno (…) non appare allo stato fronteggiabile per ragioni tecniche ed economiche con schermature degli istituti penitenziari (…)”. Parola a Gratteri - Non resta che fare un passo indietro e leggere in filigrana le parole che il 15 gennaio 2025 il capo della Procura di Napoli, Nicola Gratteri, ha pronunciato in Commissione parlamentare antimafia. Tra gli argomenti toccati, è tornato sul tema della schermatura delle comunicazioni nelle carceri. “Mi sono permesso di dare un suggerimento, in perfetta solitudine - ha dichiarato Gratteri. Mi ero istruito, mi ero informato. Un jammer costa 60 mila euro. Ho suggerito di iniziare dalle carceri dove c’è l’alta sicurezza, da Secondigliano, Milano Opera, dalle carceri più grandi. Comprare questi jammer e metterli sopra il tetto. Nel raggio di un chilometro non c’è segnale. Il jammer si può modulare, dal non far funzionare una serranda a bloccare la centralina di una macchina, al non far camminare una macchina. Non ci sono i soldi per tutte le carceri, ma almeno compriamone dieci, quindici dove c’è l’alta sicurezza, e finisce il giochino di questi soggetti che telefonano alle loro mogli che, in videoconferenza, fanno scegliere il colore dei pantaloni mentre sono nel negozio. Questa è la cosa più scema. Oppure mandare messaggi di morte, chiedere la mazzetta, eccetera. La risposta che mi ha dato allora il direttore del Dap Francesco Basentini (a capo del dipartimento dal 27 giugno 2018 al 30 aprile 2020, ndr) è stata: “Noi non possiamo mettere il jammer, perché il jammer emette delle radiofrequenze che possono far male alla salute. E poi la Polizia penitenziaria come fa a comunicare?”. Ho risposto che la Polizia penitenziaria, quando entra nel carcere, non utilizza il telefono, perché non ne ha bisogno (…). In ogni sezione c’è un telefono per poter chiamare. La Polizia penitenziaria con chi deve parlare quando entra in carcere? Se c’è una sommossa parla con il comandante, parla con l’ufficio matricola o parla con il direttore del carcere. Che se ne deve fare del cellulare in carcere? Ammesso che lo abbia. In ogni caso, ripeto, non ce l’ha per regolamento nella sezione. Nemmeno il direttore entra con il telefono. Mi ha dato queste due spiegazioni. Il risultato è che oggi in ogni carcere ci sono decine, centinaia di telefoni - pensi a Secondigliano - dove si discute di cose importanti (...)”. Su un punto il sindacalista De Fazio, il magistrato Gratteri e il viceministro alla Giustizia Sisto concordano: il problema va affrontato anche con il potenziamento del numero degli agenti e con la messa a regime del numero dei detenuti. Chissà che non sia un buon auspicio il fatto che il 14 febbraio, festa di San Valentino, scadano i termini per partecipare al concorso per 3.246 agenti di Polizia penitenziaria. Per fermare i cyber-galeotti c’è una soluzione (banale): in carcere solo telefoni fissi di Umberto Rapetto Il Domani, 13 febbraio 2025 I 181 arresti per la storia incredibile dei cellulari criptati in cella e dei detenuti in videoconferenza hanno un drammatico rovescio della medaglia: la constatazione dell’esistenza di persone in grado di comunicare con l’esterno e gestire il loro business come manager in smart working. La soluzione? La più banale. Se quella di Marinella - come cantava De Andrè - era “una storia vera”, purtroppo lo è anche quella incredibile dei cellulari criptati in carcere e dei detenuti in videoconferenza. I complimenti ai Carabinieri sono un pochino difficili da estendere all’Amministrazione penitenziaria. I 181 arresti a Palermo hanno un drammatico rovescio della medaglia: la constatazione dell’esistenza di cyber-galeotti in grado di comunicare con l’esterno e gestire il loro business come manager in smart working. È difficile da credere, ma in un Paese dove la gente perbene deve faticare per cercare “campo” e poter contare su una connessione stabile anche nei centri abitati, nelle strutture carcerarie “il segnale è a palla” e garantisce una connettività insuperabile. Si ha l’impressione che la copertura della rete telefonica mobile privilegi chi - isolato dagli affetti e dagli affari - vuole a tutti i costi superare le barriere che lo separano dal resto del mondo. Non si capisce se la cosa la si debba ad una speciale convenzione tra il cosiddetto Dap di via Arenula e i gestori telefonici, ma senza dubbio le performance riservate ad una certa utenza hanno scatenato invidia e rabbia dei normali abbonati. In realtà non sembrerebbe una questione di deprecabile disparità commerciale nei confronti degli utilizzatori ordinari. Per intenderci non è roba da mettere in mano alle associazioni dei consumatori per le migliori condizioni di servizio riservate ai reclusi e non estese alla totalità della clientela. Riconoscendo l’approccio goliardico come impraticabile per lo scarso sense of humor di chi dovrebbe scongiurare il verificarsi di certi orripilanti vicende, forse vale la pena suggerire qualche domanda che - si volesse arginare lo sfacelo - sarebbe ineludibile per chi ha ruoli di responsabilità in questo scenario. Chiunque si chiede come sia possibile che determinati dispositivi elettronici dalle tanto sofisticate caratteristiche possano essere serenamente recapitati a soggetti che - per natura della struttura residenziale che li ospita - non dovrebbero avere possibilità di libera relazione con il mondo esterno. Se nei comics non mancano le vignette di sedicenti vecchine o seducenti fanciulle che portano a parenti in prigione appetitosi plumcake contenenti la lima per segare le sbarre, qui si immaginano teglie di melanzane alla parmigiana la cui farcitura - in luogo della mozzarella e della salsa di pomodoro - è preparata con smartphone, tablet, caricabatterie, webcam e powerbank. Probabilmente la privacy dell’alimentazione è inviolabile, ma mai nessuno si è azzardato a verificare che le prelibate pietanze non fossero “indigeste”? La reception e il “personale al piano” in realtà devono fare i conti con il “tenere famiglia” e con la difficoltà a superare indenni i tanti condizionamenti e pressioni ben sapendo che “il cliente ha sempre ragione”. Un lavoro difficile quello di occuparsi di “certa gente”, mal pagato e irto di riverberazioni che coinvolgono parenti e amici. Ovviare al rischio di ritorsioni nei confronti di chi è vicino all’agente di custodia non è affatto impossibile. Basterebbe reclutare nella polizia penitenziaria - previo opportuno addestramento - gli immigrati clandestini in sosta nelle strutture di prima accoglienza. È gente che non ha avuto timore di sfidare il mare e prima ancora l’Almasri di turno, hanno resistenza fisica superiore a quella del migliore “abile arruolato”, non temono che i loro famigliari possano essere vittima di alcunché perché nemmeno loro sanno dove stanno. La banalità della soluzione non deve far sorridere, perché materializza il “due piccioni con una fava”. Se - come accade - gli smartphone continuano ad arrivare, allora bisogna far in modo che venga meno la connessione e lo si può fare con un piccolo ed inevitabile investimento. Dopo aver preteso dalle società telefoniche di creare un “cono d’ombra” nella copertura di precise zone, si tratta di isolare elettromagneticamente l’edificio, le aree esterne pertinenti e quelle perimetrali. In termini pratici occorre - si perdoni il romanesco gioco di parole - “ingabbiare” il penitenziario con una schermatura metallica o con il ricorso a speciali pannelli (anche trasparenti per le finestre) o vernici ad hoc. Per aver certezza che nessuno riesca a bypassare il “recinto” si possono adoperare sia un jammer per disturbare sia strumenti per rilevare attività telefonica in corso e localizzare i dispositivi. Chi in carcere lavora potrà servirsi del telefono fisso e quindi non esistono controindicazioni. Non mancano ipotesi tecnologiche più ardite, ma sembrerebbe voler rubare il mestiere alla nostra Agenzia Cyber e non vorrei mai. Ardita: “Un telefono in mano a un boss in carcere è il mezzo con cui si ordina un omicidio” di Lara Sirignano Corriere della Sera, 13 febbraio 2025 Sebastiano Ardita è procuratore della Repubblica aggiunto a Catania e componente della Direzione Distrettuale Antimafia: “Le carceri sono sotto il controllo della criminalità mafiosa. La prova è l’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi. L’ultimo blitz antimafia della Dda di Palermo rivela che boss detenuti potevano contare su sim e cellulari introdotti nelle celle illegalmente”. Dottor Sebastiano Ardita, lei si è occupato per anni di carceri, la sorprende questa scoperta o la permeabilità degli istituti di pena era un rischio in qualche modo prevedibile? “È noto da anni che le carceri sono sotto il controllo della criminalità mafiosa. La genesi di tutto questo è chiara agli addetti ai lavori, ma rimarrà sconosciuta ai cittadini fino a che non se ne occuperà una commissione di inchiesta”. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha detto che al momento non risultano responsabilità della polizia penitenziaria. Secondo lei, ex direttore generale del Dipartimento detenuti e trattamento del Dap, cosa non ha funzionato? “Le parole di De Lucia sono illuminanti, perché la responsabilità è ascrivibile a una sciagurata scelta di gestione. Col pretesto del sovraffollamento delle carceri si è deciso di aprire le celle dei mafiosi, il che consente ai più pericolosi di circolare e di assumere il controllo dei penitenziari, provocando peraltro la mattanza dei diritti dei reclusi più deboli. Lo attesta l’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi: un cedimento alla sicurezza e al benessere con l’alibi della tutela dei diritti dei detenuti”. In che senso scelta di gestione? “Nel senso che la scelta è consacrata in circolari ministeriali e singole disposizioni che si pongono in rapporto di causa ed effetto con le migliaia di reati, aggressioni, rivolte consumate negli ultimi anni e col governo delle carceri ormai condizionato dagli interessi mafiosi. Si tratta di una gestione pubblica disastrosa con profili di responsabilità contabile, civile e forse anche penale mai approfonditi. Il danno economico complessivo che ne deriva è inestimabile, ma può misurarsi in miliardi di euro, tenuto conto del pregiudizio alle persone, alle cose e alla prevenzione antimafia. Cosa potrebbero fare gli agenti, vessati e messi in ginocchio da questo regime, per impedire il governo della mafia in carcere legittimato dalla organizzazione interna?” Intravede una soluzione per evitare che simili violazioni accadano? “Bisogna riscrivere le regole ripartendo da un modello di civiltà e di speranza per i reclusi, impedendo alla minoranza dei mafiosi e dei pericolosi di comandare e vietando in modo assoluto l’autogestione degli spazi condivisi”. Le gravissime violazioni di sicurezza accertate dai pm di Palermo potrebbero verificarsi anche per i carcerati al 41bis? “Oggi, tenere in carcere mafiosi in normali sezioni alta sicurezza non serve più, perché la sicurezza è stata abbassata al livello delle sezioni normali. Sono luoghi dove i carcerati possono continuare a comandare e a reclutare disperati. Solo il 41bis riesce ancora nello scopo, perché esclude il controllo mafioso degli spazi comuni, ma è un regime che ha i giorni contati”. Ma i telefoni entravano così facilmente in carcere nella sua esperienza? “Certo, sempre a causa della libera circolazione. Basta che qualcuno li lanci dall’esterno o li introduca con dei droni o che li portino i familiari ai colloqui. Non si capisce che un telefono in mano a un capo mafia in cella può essere il mezzo con cui si ordina un omicidio. Quando dirigevo l’ufficio detenuti, se veniva scoperto un dispositivo, chi lo introduceva era sottoposto al 14bis, paragonabile al 41bis, e gli utilizzatori venivano trasferiti. In un anno abbiamo sequestrato una decina di cellulari. Oggi ne entrano a migliaia e si fa finta di niente”. Che speranza c’è che cambino le cose? “Viaggiamo verso l’irrilevanza del carcere rispetto alle sue due funzioni principali: la sicurezza dei cittadini e la rieducazione dei condannati. Solo una classe dirigente preparata e appassionata potrà interrompere il binomio retorica-incompetenza che grava sulle scelte non sottoposte al controllo costante dei cittadini. Ma il primo passo deve essere la consapevolezza degli errori commessi negli ultimi anni”. Affettività, magistrati di Sorveglianza contro l’inerzia delle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2025 È la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che un magistrato di sorveglianza costringe un carcere italiano a inchinarsi alla Costituzione. Dopo il caso di Terni, grazie all’ordinanza del magistrato Fabio Gianfilippi, tocca ora al carcere di Parma. Con l’ordinanza n. 2025/ 383, depositata il 10 febbraio scorso, il magistrato di Sorveglianza Elena Bianchi di Reggio Emilia, accoglie il reclamo di un detenuto del circuito di Alta sicurezza - condannato in via definitiva per reati di stampo mafioso, quindi ostativo - ordinando alla Direzione del penitenziario di predisporre entro 60 giorni spazi idonei per colloqui intimi con la moglie. Il detenuto, che sconta una pena con fine previsto al 23 novembre 2026, aveva presentato la prima richiesta il 4 marzo 2024, invocando la sentenza n. 10/ 2024 della Corte costituzionale, che dal gennaio 2024 ha riconosciuto il diritto all’affettività intramuraria. La direzione di Parma, però, aveva risposto con un secco “no”, giustificandosi con l’assenza di locali adatti e l’attesa di “determinazioni dagli uffici superiori”. Una risposta identica a quella ricevuta dal detenuto di Terni, e altrettanto inaccettabile per la magistratura di sorveglianza. A cambiare le carte in tavola è stato il lavoro meticoloso dell’avvocata penalista Pina Di Credico, che ha presentato un reclamo articolato al magistrato di Sorveglianza, evidenziando due profili chiave. In primo luogo, ha evidenziato “l’assenza totale di ostacoli specifici”: il detenuto non si trova sotto regimi speciali come il 41- bis o il 14- bis, la sua condotta è esemplare, senza alcuna sanzione disciplinare a suo carico, ha preso distanza dal contesto criminale di appartenenza e lavora regolarmente, contribuendo anche con fondi per le vittime di mafia. Inoltre, i colloqui visivi con la moglie, già autorizzati, si svolgono senza alcuna restrizione. Dall’altro lato, Pina Di Credico ha denunciato l’”inerzia della Direzione”, evidenziando che, nonostante otto lunghi mesi di attesa, il carcere non aveva nemmeno avviato sopralluoghi per individuare spazi idonei, né aveva fornito tempistiche per il futuro. Il magistrato di Sorveglianza, acquisiti rapporti dell’equipe trattamentale e note della Direzione, ha confermato ogni dettaglio: “Non esiste alcun elemento ostativo”, si legge nell’ordinanza. Sostanzialmente emerge che il diniego è immotivato e - scrive il magistrato di sorveglianza “il reclamo deve, pertanto, essere accolto, poiché dal rigetto della Direzione della Casa di reclusione di Parma deriva al detenuto un grave e attuale pregiudizio all’esercizio del diritto all’affettività, nella sua espressione attraverso colloqui intimi con la propria moglie”. Il cuore della decisione riprende in modo stringente la sentenza n. 10/ 2024 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato incostituzionale l’articolo 18 della legge 354/ 1975, aprendo alla possibilità di colloqui intimi senza controllo visivo per detenuti con coniugi o conviventi stabili. La Consulta aveva però avvertito: servono spazi riservati, anche temporanei, e verifiche sul comportamento del detenuto. Proprio su quest’ultimo punto, la direzione di Parma è stata colta in fallo. Come ha evidenziato l’avvocata Di Credito, non hanno nemmeno verificato se il detenuto avesse precedenti disciplinari. Hanno semplicemente ripetuto, come un disco rotto, di attendere istruzioni. Un approccio, quindi, inammissibile soprattutto - come si legge nell’ordinanza - alla luce della recente Cassazione (sentenza n. 8/2024), che ha ribadito come i colloqui intimi siano un diritto primario, negabile solo per concrete ragioni di sicurezza. L’ordinanza è chiara e diretta, non lascia spazio a fraintendimenti. Entro sessanta giorni, la Casa di reclusione di Parma è chiamata a individuare locali adeguati per i colloqui intimi, assicurando che questi avvengano in un contesto di riservatezza totale e senza alcun tipo di controllo visivo. Si apre, però, anche la possibilità di soluzioni temporanee, attraverso il riadattamento delle stanze già esistenti per rispettare le garanzie minime di riservatezza. Inoltre, l’istituto ha l’obbligo di comunicare all’Ufficio di Sorveglianza la conferma dell’avvenuta esecuzione di quanto stabilito, sottolineando così l’importanza di rispettare le scadenze e le disposizioni impartite. Quello di Parma non è un episodio isolato. Come già accaduto a Terni, molte carceri italiane stanno opponendo resistenze passive, lamentando carenze strutturali o fondi insufficienti. La differenza, ora, la fanno i magistrati di sorveglianza che trasformano le sentenze in prescrizioni concrete. detenuti non sono numeri: hanno diritto a mantenere legami affettivi, fondamentali per il reinserimento. Una posizione condivisa dalla Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 10/ 2024 ha parlato di “volto umano della pena”, incompatibile con la negazione dell’amore. In un recente comunicato, l’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali esprime una crescente preoccupazione per l’inerzia che caratterizza l’operato del ministero della Giustizia. La pronuncia della Corte costituzionale del 28 gennaio 2024, accolta con entusiasmo, aveva rappresentato una svolta fondamentale nel riconoscimento dei diritti dei detenuti, in particolare per quanto riguarda i colloqui intimi privi di controlli visivi. Tuttavia, a distanza di oltre dodici mesi, il silenzio e l’assenza di azioni concrete da parte delle autorità competenti sollevano interrogativi inquietanti. Il contesto carcerario italiano continua a essere segnato da una serie di problematiche gravi, come il sovraffollamento e il deterioramento delle condizioni di vita, eppure, nonostante l’importanza della sentenza, l’Amministrazione penitenziaria sembra muoversi con una lentezza inaccettabile. L’Osservatorio carcere sottolinea che, mentre la Corte ha fornito indicazioni operative chiare e dettagliate per garantire l’effettività del diritto all’affettività, l’attuazione pratica di tali diritti è rimasta un miraggio. Le promesse di un gruppo di lavoro istituito dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non hanno ancora prodotto risultati tangibili. Non ci sono state comunicazioni chiare riguardo alle risorse da impiegare, né indicazioni sui tempi previsti per l’avvio di sperimentazioni significative. Quest’assenza di direzione ha portato a una paralisi a livello locale, dove iniziative potenzialmente positive, come quella della Direzione del carcere di Padova, sono state congelate, lasciando i detenuti privi di opportunità per esercitare i loro diritti. La situazione è diventata paradossale, con un evidente rimpallo di responsabilità tra le direzioni e il Dap. In questo contesto, l’Osservatorio carcere ha denunciato episodi in cui il diritto all’affettività è stato degradato a mera aspettativa legittima, contraddicendo il riconoscimento giuridico espresso dalla Corte. L’avvocatura si oppone a questa distorsione, affermando che il riconoscimento dei diritti dei detenuti non può dipendere dalla disponibilità dell’Amministrazione a implementarli. È fondamentale che le istituzioni agiscano con urgenza, avviando un piano d’azione chiaro e collaborativo, in modo da garantire il rispetto della dignità umana all’interno delle carceri. In questo momento critico, l’osservatorio lancia un appello accorato a tutte le istituzioni affinché si adeguino senza indugi alla sentenza della Corte costituzionale. Nel frattempo, per il detenuto di Parma e sua moglie, dopo un anno di battaglie legali intrapresa dall’avvocata Di Credico, si apre finalmente la speranza di abbracciarsi in un ambiente privato. Un diritto minuscolo, ma enorme nel suo significato: persino tra le sbarre, la dignità umana non può essere sospesa. Sì al sesso in carcere: a Parma e Terni le prime due stanze dell’amore di Viola Giannoli La Repubblica, 13 febbraio 2025 Due sentenze di due magistrati di sorveglianza autorizzano i colloqui intimi senza il controllo della polizia penitenziaria. Sono i primi casi dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività in prigione. Nel carcere di Parma e in quello di Terni si potrà fare l’amore dietro le sbarre. Un diritto a lungo negato e che ora sarà garantito con la promessa del rispetto della privacy, lontano dagli occhi della sorveglianza della polizia penitenziaria. A due detenuti di due diverse carceri italiane è stato accordato il permesso di fare colloqui intimi con le proprie compagne, mogli o fidanzate per avere anche rapporti sessuali. Si tratta dei primi due casi da quando, nel gennaio del 2024, una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la contrarietà all’affettività e alla sessualità in carcere. In particolare la Consulta ha bocciato quella parte della legge 26 del luglio 1975 che “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. A muovere quella decisione era stato il caso di E.R., detenuto dal luglio 2019 nel carcere di Terni “in relazione a un cumulo di pene per tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro, con fine pena stabilito all’aprile 2026”. Non potendo godere di permessi premio, per il detenuto sarebbe di fatto impossibile coltivare qualsiasi forma di affettività familiare o rapporti sessuali con la coniuge. E questo per il tribunale “si risolverebbe in una violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà, peraltro con negativa incidenza su qualunque progetto di nuova genitorialità”. Per questo a Terni, dopo il “no” da parte della direzione penitenziaria, il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha ordinato al carcere di permettere al detenuto fidanzato i colloqui riservati, come racconta il Post. Storia simile a Parma dove il recluso - un quarantaquattrenne campano vicino al clan dei Casalesi che si trova nel reparto di Alta sicurezza per una serie di reati tra i quali l’estorsione aggravata dal metodo mafioso - aveva fatto richiesta, assistito dall’avvocata Pina Di Credico, di incontrare sua moglie senza la sorveglianza della polizia a marzo del 2024, due mesi dopo la sentenza della Corte costituzionale. Quasi un anno dopo, il 7 febbraio scorso, il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia ha emesso l’ordinanza. Sia a Terni che a Parma, le due carceri hanno due mesi di tempo per attrezzarsi ai colloqui intimi, individuando anzitutto uno spazio adeguato e senza sorveglianza. La Corte costituzionale aveva ipotizzato che “le visite a tutela dell’affettività” si potessero svolgere “in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. È comunque necessario - aggiungeva - che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”. Terni e Parma faranno dunque da apripista perché dopo la sentenza della Consulta nulla più si era mosso. A Padova, nel carcere Due Palazzi era stato piantato dalle associazioni attive dietro le sbarre un seme di sperimentazione, subito stroncato dal governo che nel luglio scorso aveva bloccato la nascita di “stanze dell’amore” perché sosteneva che la costruzione di spazi per l’affettività fosse di competenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il ramo del ministero della Giustizia all’interno degli istituti penitenziari. E il Dap non si è mosso. Ora si riparte da qui. Da due sentenze. Da Terni e da Parma. I primi permessi per fare sesso in carcere ilpost.it, 13 febbraio 2025 Sono stati accordati a Terni e a Parma, dopo che un anno fa la Corte costituzionale aveva rimosso il divieto all’affettività in carcere. Nelle ultime settimane a due detenuti di due diverse carceri italiane è stato accordato il permesso di fare colloqui intimi con le proprie compagne senza la sorveglianza della polizia penitenziaria, con l’obiettivo di avere rapporti sessuali (lo hanno esplicitato i detenuti nelle rispettive richieste): sono i primi due casi da quando, l’anno scorso, una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività in carcere. Il primo caso riguarda un detenuto del carcere di Terni; il secondo caso, raccontato per primo dal Resto del Carlino, il carcere di Parma. In entrambi i casi il permesso è stato accordato dopo un reclamo presentato dagli stessi detenuti, che avevano chiesto di poter incontrare senza supervisione la propria compagna (a Terni) e moglie (a Parma) ricevendo un rifiuto dal carcere. Seguìti dai propri avvocati, i detenuti hanno intrapreso due azioni legali durate mesi, al termine delle quali i magistrati di sorveglianza competenti (cioè i magistrati incaricati di vigilare sull’organizzazione delle carceri e di disciplinare la vita quotidiana delle persone detenute) hanno ordinato alle due carceri di attrezzarsi entro due mesi per permettergli di avere colloqui intimi con le proprie partner. È una notizia rilevante: non solo perché sono i primi casi dalla sentenza della Corte, ma anche perché nelle rispettive ordinanze (consultabili qui e qui) i magistrati hanno ordinato alle due carceri di individuare degli spazi idonei per gli incontri intimi dei due detenuti. Quella degli spazi è stata fin da subito la questione più discussa e problematica della sentenza della Corte costituzionale, che su questo punto era stata vaga e non aveva indicato in maniera chiara a chi spettasse il compito di allestirli. La sentenza aveva ipotizzato che le singole carceri si muovessero autonomamente, e aveva poi parlato più genericamente di un’”azione combinata” di parlamento, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria. Nei fatti però da allora non si è mosso nulla, anzi: a Padova le associazioni attive all’interno del carcere “Due Palazzi” avevano avviato un’iniziativa per costruire gli spazi (che sono stati chiamati “stanze dell’amore”), dopo un parere favorevole da parte della direzione; il progetto però era stato bloccato dal governo, che aveva sostenuto che l’allestimento fosse di esclusiva competenza del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), l’ente del ministero della Giustizia che si occupa di tutte le carceri italiane. Da allora il DAP non ha fatto allestire nessuno spazio all’interno delle carceri italiane, e quindi la sentenza della Corte finora non è stata attuata: con le due ordinanze di Terni e Parma la questione è tornata alle singole strutture. I due magistrati di sorveglianza hanno dato loro 60 giorni di tempo per individuare gli spazi, senza bisogno di altri passaggi intermedi o altre approvazioni. I casi di Parma e Terni riguardano entrambi due detenuti dell’alta sicurezza (un regime carcerario che prevede una maggiore sorveglianza), e hanno avuto svolgimenti diversi. A Terni, il primo caso dei due e finora non raccontato, la vicenda è durata qualche mese: il detenuto in questione aveva chiesto al carcere di poter incontrare in modo riservato la propria compagna, poi lo scorso autunno aveva ricevuto il rifiuto da parte della direzione, e infine a gennaio il magistrato di sorveglianza ha ordinato al carcere di permettergli i colloqui. Il caso di Parma è durato di più: il detenuto aveva fatto richiesta di incontrare sua moglie senza la sorveglianza della polizia a marzo del 2024, due mesi dopo la sentenza della Corte costituzionale, e l’ordinanza del magistrato di sorveglianza è stata emessa il 7 febbraio. L’avvocato che lo ha seguito, Pina Di Credico (la definizione al maschile è una sua preferenza), ha detto di aver assistito non solo lui, ma anche altri due detenuti che avevano fatto richiesta di incontrare in spazi privati e intimi le proprie partner: al momento la vicenda si è conclusa in modo favorevole solo per uno dei tre, mentre gli altri due sono ancora in attesa di una risposta dal carcere. I legali dei due detenuti hanno motivato i reclami in maniera diversa. Entrambi hanno insistito sulla buona condotta dei propri assistiti, e sul fatto che la sentenza della Corte costituzionale sull’affettività in carcere non escludeva i detenuti indicati nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, relativo a reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo. I due reclami erano invece diversi per le motivazioni alla base della richiesta dei colloqui intimi: nel caso di Terni si parlava di desiderio di genitorialità del detenuto, quindi della sua volontà di procreare e formare una famiglia pur nella condizione di detenzione; nel caso di Parma del desiderio di avere rapporti intimi con la propria moglie. Di Credico dice di aver insistito, impugnando il rifiuto della direzione del carcere con il magistrato di sorveglianza, anche sulla solidità del legame matrimoniale tra il detenuto e sua moglie, rimasto intatto e stabile, con regolari colloqui, nonostante i 17 anni di detenzione di lui. Di Credico ha detto che il caso è rimasto in sospeso per vari mesi, perché il carcere sosteneva di non potersi muovere senza ricevere direttive da organi superiori, come appunto il DAP (quindi il ministero della Giustizia). La magistrata che ha accolto il ricorso ha detto di aver chiesto al carcere di Parma di motivare meglio il proprio rifiuto, per capire se ci fossero motivi specifici per cui a quel detenuto era stato negato di incontrare sua moglie senza sorveglianza. Nell’ordinanza la magistrata scrive di aver concluso che il rigetto non era “individualizzato”, cioè non aveva motivi specifici legati a quel singolo detenuto, e che quindi non andasse accolto, alla luce di quanto stabilito dalla Corte costituzionale. Un altro punto importante di queste decisioni, e che potrebbe diventare un precedente, riguarda l’individuazione degli spazi, visto che i due magistrati hanno incaricato le singole carceri di allestirli. Qualcosa potrebbe cambiare anche nel carcere di Padova, il primo che aveva cercato di fare di aprire una stanza per l’affettività dei detenuti, senza riuscirci. Ornella Favero, la direttrice di Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova a cui lavorano soprattutto persone detenute, ha detto che diversi detenuti hanno presentato reclami per poter incontrare le proprie partner in maniera intima, e che sono ancora in attesa di risposta. Recidiva zero: come il lavoro trasforma il sistema penitenziario di Elena Inversetti buonenotizie.it, 13 febbraio 2025 Sono circa 56.107 i detenuti in Italia con un sovraffollamento medio del 120% e una recidiva che si aggira intorno al 70% secondo gli ultimi dati del CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro). La recidiva, ovvero la ricaduta nel reato, si riduce al 2% circa se chi esce dal carcere ha un lavoro. Eppure ci sono persone che stanno lavorando per migliorare concretamente la situazione. E ci stanno riuscendo. Come? Con il lavoro. Il lavoro come elemento fondamentale di recupero, infatti, si può svolgere durante la pena sia in carcere sia fuori. Inoltre chi è in misura alternativa come gli arresti domiciliari, può essere incluso nei progetti di inserimento lavorativo, attraverso le cooperative sociali e le imprese coinvolte, per esempio partecipando a tirocini, contratti di lavoro o percorsi imprenditoriali così da raggiungere l’indipendenza economica e a ridurre la probabilità di recidiva. Lavorare in carcere per raggiungere la recidiva zero - A seguito del disegno di legge approvato lo scorso maggio, un detenuto su tre è coinvolto in attività lavorative, però tra questi non più dell’1% è impiegato presso imprese private e solo il 4% presso cooperative sociali. Il resto, quindi l’85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria spesso per brevi periodi. Sono i numeri che fornisce il CNEL che ha siglato il Protocollo d’intesa tra il Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e Confcooperative Federsolidarietà. L’intesa vede l’apertura di un tavolo tecnico e mira a promuovere programmi di intervento a favore dei detenuti, con l’avvio di progetti imprenditoriali finalizzati all’inserimento lavorativo intra ed extra-murario e al recupero sociale. La sfida è quella di azzerare la recidiva. Studiare per trovare lavoro durante la detenzione - Sono oltre 1.500 i detenuti ed ex detenuti impegnati in percorsi di formazione, tirocini e borse lavoro. Il 32% degli istituti penitenziari infatti dispone di aule didattiche, usate per corsi di istruzione di I e II grado e per l’istruzione terziaria; il 65% ha aule solo per istruzione primaria e secondaria, mentre il 3,5% non ne dispone. Infine circa 1 su 4 degli istituti dispone di spazi non utilizzati, ma che potrebbero essere impiegati per percorsi formativi. E pensare che i detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali, meno del 10% torna a delinquere. Pena alternativa e inserimento lavorativo dei detenuti - Scontare la pena fuori dal carcere, non garantisce sempre un reinserimento. Anche in questo caso ci vuole tanto lavoro da parte di tutti. Ad oggi è grazie al non profit che le persone che scontano la pena fuori dal carcere come detenzioni domiciliari o affidamenti in prova al servizio sociale possano mettersi alla prova e cambiare vita. Sono infatti 3.000 gli ex detenuti che, intrapreso il percorso di lavoro in una cooperativa sociale, vi restano anche al termine della pena. Ma quante sono le cooperative sociali che, ad oggi, assumono regolarmente? Sono circa 110 quelle aderenti a Confcooperative, per un totale di circa 1.107 detenuti, ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno. Inoltre 4.000 persone usufruiscono dei servizi residenziali per detenuti ed ex-detenuti, in particolare con problemi psichiatrici e di dipendenze, e di altri servizi di reinserimento socio lavorativo una volta conclusa la detenzione. Cambiare la Legge Smuraglia - Uno degli esempi virtuosi di aiuto concreto e anche di sensibilizzazione sul tema del lavoro per chi sconta pene alternative al carcere è quello di Adriano Moraglio, presidente dell’organizzazione di volontariato La Goccia di Lube che a Torino sta mettendo in campo il progetto Impresa Accogliente, sostenuto da Regione Piemonte. Impresa Accogliente chiama a raccolta aziende profit e cooperative sociali disponibili a offrire lavoro o formazione al lavoro a chi sta scontando una pena fuori dal carcere, come occasione per reinserirsi nella società, nonostante le difficoltà. Una delle criticità è il fatto che la Legge Smuraglia (193 del 22 giugno 2000) valga solo per chi è ancora in carcere. Si tratta di un’importante norma, promossa dall’omonimo senatore, che incentiva e sostiene l’attività lavorativa dei detenuti con agevolazioni contributive in favore dei datori di lavoro. Per questo motivo realtà non profit come La Goccia di Lube si impegnano affinché questa legge venga estesa anche a chi sconta pene alternative. Corte costituzionale: verso la fumata bianca in Parlamento di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 febbraio 2025 Maggioranza e opposizione avrebbero raggiunto l’accordo per l’elezione dei quattro giudici mancanti. I nomi: Marini, Luciani, Terracciano e Sandulli. A meno di clamorose novità dell’ultima ora, è destinato finalmente a sbloccarsi lo stallo per l’elezione dei quattro giudici mancanti della Corte costituzionale di nomina parlamentare. Il Parlamento in seduta comune è convocato questa mattina alle 9.30 e i partiti avrebbero raggiunto un accordo in extremis. A confermarlo il messaggio ricevuto ieri sera in serata dai parlamentari di maggioranza: “Domattina si votano i giudici, richiesta la presenza di tutti”. Nessun dubbio sull’elezione dei due nomi certi fin dall’inizio: Francesco Saverio Marini per Fratelli d’Italia, Massimo Luciani per il Partito democratico. Dopo un lungo travaglio, e dopo l’ennesimo vertice tenuto ieri mattina a Palazzo Chigi da Meloni, Tajani e Salvini, i partiti che compongono la maggioranza hanno raggiunto un accordo sul nome del giudice costituzionale in “quota Forza Italia”. Si tratterebbe di Gennaro Terracciano, avvocato, professore di Diritto amministrativo e prorettore dell’Università Roma Foro Italico. Ieri pomeriggio è circolato anche un altro nome nuovo, che ha colto di sorpresa diversi parlamentari azzurri: Gino Scaccia, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, oggi capo del dipartimento per le Riforme istituzionali alla presidenza del Consiglio, al servizio della ministra Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nonostante le tensioni degli ultimi giorni, legate al caso Almasri e alla mozione di sfiducia presentata nei confronti del ministro Santanchè, maggioranza e opposizione avrebbero trovato l’accordo anche sul quarto giudice “neutro” da eleggere: Gabriella Palmieri Sandulli, avvocata generale dello stato. Le forze politiche, dunque, sarebbero pronte finalmente a soddisfare l’auspicio avanzato dal presidente della Repubblica affinché il Parlamento procedesse quanto prima all’elezione dei giudici mancanti. Al momento, infatti, la Corte costituzionale è formata da 11 componenti su 15, il minimo legale per poter deliberare. Lo stallo attorno all’elezione dei giudici costituzionali è stato dovuto soprattutto alla mancanza di un accordo interno alla maggioranza sul giudice da eleggere in quota FI. Il partito di Tajani si è visto “bocciare” dall’alleato FdI le candidature del viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, e del senatore Pierantonio Zanettin, ritenute inopportune per la loro provenienza governativa e parlamentare. Fratelli d’Italia, invece, ha proposto fin dall’inizio il nome di Francesco Saverio Marini, professore di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata e attuale consigliere giuridico del governo, considerato il “padre” del premierato. Nel Pd la segretaria Elly Schlein si è convinta a mettere da parte il nome di Andrea Pertici, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa con una forte connotazione politica (è membro della direzione nazionale del Pd), in favore dell’elezione di Massimo Luciani, professore emerito di Diritto pubblico dell’Università La Sapienza di Roma. L’eterno conflitto tra politica e giustizia che fa male al Paese di Dino Giarrusso L’Identità, 13 febbraio 2025 Il conflittuale e tormentato rapporto fra politica e giustizia è talmente complesso e delicato, in Italia, che da qualunque parte lo si guardi non si può non vedere le lacerazioni, gli scontri, le ferite profondissime che questa frattura ormai pluridecennale ha inferto al Paese. Non si tratta di un argomento banale, ed è tristissimo che quando si parla di giustizia v/s politica, nel 99,99% dei casi ci si trasformi in tifosi. La nostra Costituzione prevede compiti molto ben delineati, limiti decisi e democraticamente assai sensati dell’azione giudiziaria, di quella legislativa e di quella esecutiva. Non è banale ricordare che la triplice divisione dei poteri non solo garantisce la nostra democrazia, ma ne è parte integrante, dunque senza essa non ci sarebbe democrazia, o meglio non ci sarebbe la nostra democrazia costituzionale. Purtroppo però gli attori in campo, ed i politici in questo ci sembrano più accaniti dei magistrati, lavorano spessissimo per alzare ed inspessire il già robusto muro che divide le opinioni degli italiani - e delle parti in causa - riguardo questo sconfortante conflitto. Ci pare lunare, alla luce del Diritto Costituzionale, leggere a commento di una indagine riguardante esponenti politici la terrificante tiritera sui giudici che voglion sostituirsi ai politici e la chiosa “allora si candidino!”. Sarebbe come se un giudice, quando una legge viene approvata democraticamente dal Parlamento e passa il vaglio costituzionale, dicesse “i politici vogliono sostituirsi ai magistrati, allora studino e facciano il concorso”. Eppure il livello del dibattito questo è, e lo è da anni, e poche cose come questa (e come le improvvide uscite sull’eventuale legittimità di evadere il fisco) hanno fatto crollare la fiducia degli italiani nelle istituzioni. Bisogna essere chiari: i giudici devono far applicare le leggi, e se ad essere sospettato di averle infrante è un politico, è giusto che quel politico venga indagato. In Italia ci sono tutte le garanzie per qualunque imputato, e garanzie ulteriori per i parlamentari, dunque qualunque politico indagato dovrebbe dimostrare nelle sedi opportune la propria innocenza, non urlare - utilizzando qualunque media a disposizione - contro l’iniziativa giudiziaria. Il ministro Nordio è un ex-magistrato, si è candidato come avevano fatto prima di lui politici diventati poi anche molto importanti (Violante, Finocchiaro, Mantovano, Scarpinato, Carofiglio, Cafiero de Raho, e potremmo andare avanti a lungo), e dovrebbe capire benissimo da solo quanto sia sbagliato proseguire su questa strada, quanto nuoccia e crei disaffezione e sfiducia, quanto sia prezioso mantenere le prerogative costituzionali e far sì che ognuno rispetti il proprio ruolo con rigore, dignità, merito. La vicenda Almasri, le nemmeno tanto velate accuse al giudice Lo Voi di esser toga rossa quando è notoriamente un magistrato di destra (ex-militante del FdG!), la rabbia diffusa ed espressa anche dalla premier, le risposte evasive e contraddittorie fornite in parlamento, i commenti partigiani di tutti i giornali, quasi mai legati ai fatti e quasi sempre espressione della linea politica di ciascuna testata, dimostrano come ci si trovi ad uno dei punti più bassi di sempre, in questa tormentata e insensata battaglia. I giudici sono pagati per giudicare, per amministrare la giustizia, per dare un senso alla nostra democrazia. I parlamentari sono pagati per discutere e legiferare, per far progredire il paese. I membri del governo sono pagati per guidare il paese, eseguire ciò che la loro linea politica prevede, mantenere gli impegni presi con gli elettori e i cittadini tutti. Perché è così difficile rispettare, anche nel dibattito, queste semplici regole? Perché si continua a tentare di portare gli italiani nella propria curva stipata di ultrà, anziché rasserenare gli animi e lavorare di concerto affinché tutti i cittadini da domani possano realmente conoscere il sistema democratico che regola le nostre vite, aver coscienza dei propri diritti e doveri e sapere come gli stessi si inquadrano nella nostra architettura istituzionale? Perché le classi dirigenti che dominano questo paese giocano con sadico godimento ad allontanare gli italiani dalle istituzioni, a renderli sfiduciati, dubbiosi, rabbiosi, ciecamente tifosi? A chi conviene tutto ciò? Al futuro dei nostri figli certamente no, al presente di una piccola cerchia di nostri padri, probabilmente sì. L’Anm già processa il nuovo presidente: “Troppo morbido con il governo” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 febbraio 2025 Pronta la “sfiducia”, correnti progressiste contro Parodi. Che scrive tutte le toghe: “Ora unità”. A meno di una settimana dall’elezione a presidente dell’Anm, Cesare Parodi, esponente di Magistratura indipendente, è già “sotto processo”: a criticarlo son o i suoi colleghi, gli altri vertici del “sindacato” delle toghe e i leader delle correnti. Da quanto appreso, sono stati soprattutto i gruppi progressisti dell’Associazione magistrati, AreaDg e Magistratura democratica, ad aver rivolto al neo-presidente Parodi critiche sferzanti per come ha gestito i primi passi successivi all’investitura ufficiale. Innanzitutto sabato sera, appena eletto dal Comitato direttivo centrale, senza prima consultarsi con la sua nuova Giunta, ha chiesto un incontro al governo. Poi, è l’altro “capo d’imputazione”, ha rilasciato troppe interviste, in cui si sarebbe mostrato eccessivamente morbido nei confronti dell’Esecutivo. Ma l’aspetto che maggiormente ha irritato le correnti, e quelle “di sinistra” innanzitutto”, è l’aver sostenuto, usando persino le parole del guardasigilli Carlo Nordio, che vedere nella separazione delle carriere il primo passo verso l’assoggettamento del pm al governo sarebbe un “processo alle intenzioni”. Parodi sarebbe stato immediatamente “redarguito”, per le interviste e le dichiarazioni rilasciate, sia con messaggi privati sia durante la riunione di Giunta che si è tenuta lunedì sera. Gli sarebbe stato rimproverato di essere completamente a digiuno di politica associativa, di essere, in pratica, uno sprovveduto che mette in pericolo l’immagine di una Anm fermamente contraria alla riforma, in tutti i suoi punti. Ed è per rimediare a questi presunti “svarioni” che il segretario generale dell’Anm Rocco Maruotti ha concesso un’intervista al Fatto Quotidiano per riaffermare il volto più intransigente delle toghe contro il ddl Nordio. La situazione è talmente complicata che Parodi ha sentito la necessità di veicolare in tutte le chat possibili della magistratura una propria lunga lettera in cui ha cercato di spiegare il proprio pensiero e la propria linea, rimarcando l’unità necessaria contro la “madre di tutte le riforme”. Ha esordito dicendo “so perfettamente che molti di Voi - la maggioranza, credo - nutrono dubbi sul mio operato e ancor di più sulle mie intenzioni”, poi ha proseguito: “Sono qui per metterci la faccia, con chiarezza assoluta. L’ho sempre fatto, non smetto oggi. Ringrazio chi vorrà credermi”. Ed è arrivato dritto al pomo della discordia: “Sono da sempre totalmente, ontologicamente contrario a questa riforma e - ancor più - alla prospettiva di assoggettamento del pm al potere esecutivo. L’ho dichiarato da anni anche in dibattiti pubblici ai quali hanno assistito politici ai quali posso chiedere di confermarlo. Ne sono orgoglioso e oggi più che mai non ho cambiato idea”. L’uso del termine “ontologicamente” non è casuale: è lo stesso usato dalla mozione di Palermo dell’Anm in cui abbiamo letto che “l’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”, questione posta a Parodi nell’intervista al Dubbio. “Io confermo e condivido lo ‘spirito’ di Palermo, in tutto e per tutto. La riforma è globalmente, in tutto e per tutto, non accettabile”. Però attenzione: anche nella lettera inviata a tutti i colleghi iscritti all’Anm, il neo presidente non ha affatto detto che il pericolo di un pm al servizio del governo sia previsto nella riforma. Su questo punto, che coincide con un dato oggettivo, Parodi appare irremovibile, e questo di certo non farà piacere ai suoi colleghi, che sul punto hanno lanciato numerosi allarmi. Il leader appena eletto dalle toghe ribadisce poi “Non sono disposto a trattare nessuna modifica della riforma in cambio di alcunché: l’ho ripetuto allo sfinimento, per la semplice ragione che non ho - non abbiamo, spero e credo - nulla da offrire in cambio. Nulla”. E allora perché chiedere un incontro al governo, si sono domandate molti magistrati nelle chat. Lui fornisce questa risposta: “Spiegare una volta per tutte - con chiarezza e direttamente - che noi ci opponiamo alla riforma perché crediamo sino in fondo nella Costituzione, come è oggi e per come è stata declinata, che vogliamo difendere un modo di essere magistrati nel quale ci riconosciamo e fare questo nell’interesse dei cittadini credo non possa essere un male”. Occorre, per Parodi, “dimostrare di non avere pregiudizi: ognuno resta con le proprie idee ma nessuno ci deve accusare di non avere provato a scegliere una modalità di rapporto diversa. Non accadrà? Non sarà per colpa nostra e lo diremo, ai nostri colleghi e alla società civile. È fuori, nel Paese, dopo lo sciopero -che farò e faremo- che si gioca la partita: per quanto sapremo essere convincenti, ovunque e con chiunque. Sarà un lavoro difficile, ma stimolante: ci dobbiamo provare”. Insomma, apparentemente sembra che Parodi sia voluto rientrare nei ranghi della magistratura pienamente oppositiva alla riforma, disposto a fare di tutto per vincere l’appuntamento referendario della primavera del 2026. Ma questo tentativo di rassicurare tutta l’Anm di non deviare troppo dalla linea della giunta precedente funzionerà? Il banco di prova sarà lo sciopero del 27 febbraio. L’obiettivo è superare il 70 per cento di astensioni. Se così non fosse, sarebbe già pronta una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Quindi ora dovrà impegnarsi affinché ciò non accada. Tuttavia c’è chi teme che Magistratura indipendente voglia in parte sabotare la giornata di astensione per poi presentarsi, qualora l’incontro promesso dal governo venisse fissato nei giorni successivi, più debole dinanzi a Meloni, Nordio e Mantovano. Lo scopo: accontentarsi del sorteggio temperato per la scelta dei membri dei due futuri Csm, e chiudere definitivamente così la partita del referendum, che finirebbe per essere perso in partenza. A quel punto si aprirebbero scenari di guerra non tanto tra magistratura e politica ma tra all’interno della magistratura stessa. Il Governo che apre alla magistratura? C’è Mantovano nella buca del suggeritore di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 febbraio 2025 L’ex toga è ancora ben inserita nella corrente di Magistratura Indipendente, la stessa del nuovo presidente Parodi. Ed è forse il ministro più politico di tutto il governo. Non a caso ha le deleghe sulla sicurezza. Parole sussurrate, e tutte al diminutivo, come “spiraglino” e “ritocchino”. Il protagonista di questa possibile apertura del governo nei confronti della magistratura associata sulla separazione delle carriere, non potrebbe che essere lui. Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del consiglio, ruolo che conta più di quello di un ministro. Ministro quindi, ma soprattutto magistrato. Non alla maniera di quel romantico un po’ anarchico di Carlo Nordio, il riformatore garantista che oggi sta rischiando di pagare il prezzo più alto, tra il tribunale dei ministri, la corte dell’Aja e la, sia pur inutile, mozione di sfiducia delle imbelli minoranze parlamentari. Ma alla maniera di ex toga ancora molto ben inserita nel mondo del sindacato cui è appartenuto, e nella sua corrente di Magistratura Indipendente, la stessa del nuovo presidente Cesare Parodi. Anche da non sottovalutare il fatto che Mantovano è forse il ministro più politico di tutto il governo. Non a caso ha le deleghe sulla sicurezza, ed è stato il primo a dare un piccolo pizzicotto, che il destinatario non ha dimenticato, al procuratore di Roma Francesco Lo Voi, con l’annullamento dell’uso dei voli di Stato. Prima che l’avvocato dei “pentiti” Luigi Li Gotti gli presentasse pochi ritagli di giornale ottenendo la trasmissione del fascicolo al tribunale dei ministri. Alfredo Mantovano sa come trattare i suoi colleghi, e lo dimostra ogni giorno. Ma sulla separazione delle carriere deve anche fare i conti con il Parlamento. Glielo sta ricordando un altro esponente di governo che come lui è stato allevato nella cucciolata garantista di Forza Italia, il viceministro alla giustizia Francesco Sisto, il quale va chiarendo, in diverse dichiarazioni, che ormai tocca alle Camere qualunque decisione. Ben sapendo che anche una virgola cambiata porterebbe al raddoppio delle necessarie letture e di conseguenza alla dilatazione dei tempi. Inoltre resta da capire se all’interno dell’Anm, il gruppo che ha vinto il congresso, Magistratura Indipendente, cioè l’interlocutore privilegiato di Mantovano, ha davvero le mani libere. Parrebbe di no, fin dalle prime ore. Cesare Parodi, non appena eletto al vertice del sindacato delle toghe, sembra già prigioniero politico delle altre correnti e dei loro talebani. È sufficiente riascoltare il resoconto delle ultime ore del congresso dell’Anm, una vera notte dei lunghi coltelli che fa rimpiangere la “sobrietà” di certi congressi di partito. Ma anche una serie di chat, riportate dal Fatto quotidiano, di amorevoli colleghi, già pronti a fare l’esame del sangue al neopresidente dopo le sue prime interviste. Lapidari: “è inadeguato”. Sentenza già emessa: “Questo dura poco, lo mandiamo via”. Oppure ce ne andiamo noi dalla giunta: “Roba da uscire un minuto dopo”. E poi, vietato toccare la suggestione per cui la riforma sulla separazione delle carriere, che pure tiene insieme le toghe nell’unico concorso, avrebbe il futuro segnato con il pm dipendente dal governo. Ce l’hanno ancora con Parodi: “Ma come fa a dire che non c’è il rischio di asservimento del pm all’esecutivo?”. Vietato dubitare, soprattutto vietato leggere il disegno di legge in discussione al Senato per quello che è, senza la lente distorta del sospetto, del retropensiero, del torbido retroscena. È impressionante la capacità di orientamento che i protagonisti dello zoccolo duro del sindacato dei magistrati riescono a esercitare sui colleghi più ragionevoli, persino coloro che rivestono ruoli di vertice. Ha colpito molto il mondo degli avvocati quanto accaduto sabato scorso a Milano, dove si era riunita la cerimonia di apertura del loro anno giudiziario. Per la prima volta nella storia, all’assemblea sono mancati i saluti istituzionali dei vertici della magistratura ambrosiana. Assenti il procuratore Marcello Viola, la procuratrice generale Francesca Nanni, il presidente del tribunale Fabio Roia e quello della corte d’appello Giuseppe Ondei. Nel loro comunicato, in cui alludevano genericamente al clima turbolento in corso e a qualche dichiarazione non gradita di alcuni avvocati, avevano addirittura usato una sorta di carta intestata comune, quasi a dare maggior autorevolezza al gesto. L’assenza nel corso dell’inaugurazione è stata più che altro lamentata con dispiacere da parte degli avvocati, o almeno dalla gran parte di loro. Ma più di uno, soprattutto quelli che vantano le migliori conoscenze nei palazzi romani, a partire da quelle delle “altre” toghe, quella dei magistrati sindacalizzati, parlavano di pressioni politiche interne che avrebbero condizionato i lavori congressuali dell’Anm che si stavano svolgendo negli stessi giorni. Lo dimostrerebbe anche il complicato lavorio di correnti che ha portato alla formazione della nuova giunta. Certo, la presidenza a Magistratura Indipendente era dovuta, visto che aveva vinto le elezioni. Ma blindata da coabitazioni forti come quella che ha collocato un esponente di “Area” e della sinistra come Rocco Maruotti alla segreteria. Il neo eletto non si è fatto attendere. Non appena il presidente Parodi aveva chiesto, e immediatamente ottenuto, un incontro con la presidente Giorgia Meloni, il segretario si era affrettato a dire che l’incontro era inutile, e che lo sciopero del 27 era riconfermato. E anche, neppure troppo tra le righe, che l’unica modifica accettabile della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere era la sua cancellazione in toto. Non pare clima da “spiraglini” e “ritocchini”. Ma forse non è un male. La sfiducia a Nordio non passerà. Ma è la sola arma in mano al Pd di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 febbraio 2025 Negli ultimi decenni il ruolo del Parlamento è stato via via svuotato dal potere esecutivo, che l’ha esautorato a colpi di fiducia e decretazione d’urgenza. Alla fine il Pd si è deciso a presentare la mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia Nordio per il caso Almasri. Lo ha fatto sapendo di non avere alcuna possibilità di vittoria, considerazione che spiega le esitazioni superate due giorni fa. È una mossa dettata dall’impotenza: Elly Schlein non ha trovato altra strada per tenere i riflettori accesi su uno scandalo che la premier mira solo a far dimenticare. I 5S hanno seguito il Pd senza alcuna convinzione. Da comunicatore eccellente qual è, Conte ritiene che andare a sbattere caon una mozione di sfiducia sconfitta in partenza sia perdente e che la sola carta da giocare sia pretendere che a riferire sul caso in aula si presenti la premier. Sa benissimo che solo in questo modo la vicenda assumerà anche agli occhi di un elettorato vasto e distratto quel carattere di scelta politica che in effetti ha. Ma anche Giorgia Meloni è una comunicatrice di serie A e per lo stesso motivo per cui Conte e Schlein la vogliono in aula è ben decisa a non dargliela vinta. E anche in questo caso l’opposizione è impotente: non ha armi di sorta per imporre alla presidente del Consiglio di assumersi ufficialmente e in aula la responsabilità del fattaccio. L’opposizione però non può lamentarsi. Non più di quanto potrebbe farlo l’attuale maggioranza a parti rovesciate. Tutti nel corso degli ultimi trent’anni si sono alacremente dati da fare per spogliare il Parlamento di ogni ruolo e per lasciare non solo l’opposizione di turno ma anche la maggioranza di volta in volta in carica prive di strumenti per condizionare i governi. La micidiale tagliola adoperata da tutti con vera voluttà, quella composta dalla decretazione d’urgenza accoppiata se del caso al voto di fiducia, ha sottratto quasi ogni ruolo legislativo al potere che sarebbe di nome legislativo. Di leggi rilevanti nate dall’iniziativa parlamentare se ne contano in media una, al massimo due, per ogni legislatura. Il potere esecutivo è di fatto anche legislativo e grazie alla fiducia sfugge a ogni controllo anche da parte della maggioranza che lo sostiene. Allo stesso tempo, sempre in nome della governabilità, sono state sottratte al Parlamento tutte le armi che permettevano all’opposizione di avere un ruolo e qualche reale potere. Sulla carta non c’era alternativa, pena la paralisi totale. Nel concreto, come l’esperienza della prima Repubblica nella sua lunga fase più vitale dimostra, l’alternativa ci sarebbe stata: basata su un certo tasso di dialogo e di concertazione anche tra maggioranze e opposizioni tanto strenuamente rivali quanto lo erano negli anni dello scontro internazionale tra i blocchi. Insomma, l’opposizione ha ragione nel lamentare una situazione che la lascia senza alcun ruolo. Ma in materia ha responsabilità anche maggiori di quelle a carico dell’attuale maggioranza: il colpo di grazia che ha cancellato le ultime vertigia della centralità del Parlamento lo hanno sparato i governi tecnici, sostenuti e voluti dal centrosinistra. Il caso Almasri illustra un altro vizio strutturale della situazione italiana. La sola possibilità di tenere alta la vicenda è nelle mani della magistratura. Del resto senza l’astuta denuncia dell’avvocato Li Gotti la premier sarebbe già riuscita a “voltare pagina” come non nasconde affatto di voler fare. Se il tribunale dei ministri chiederà al Parlamento l’autorizzazione a procedere contro la presidente e tre fra i principali esponenti del suo governo la richiesta sarà certamente bocciata. Però difficilmente la premier potrebbe evitare di affrontare l’aula al momento del dibattito sul voto e proprio su questo conta il leader dei 5S. Se poi fosse la Corte internazionale dell’Aja ad aprire un vero procedimento di fatto contro il governo italiano di voltare pagina non sarebbe neanche più il caso di parlare. La vicenda è eloquente. L’invadenza della magistratura negli ultimi decenni è un dato di fatto ma quell’invadenza si spiega anche con un vuoto che in qualche modo finisce inevitabilmente per essere riempito: dal potere esecutivo, da quello giudiziario, da istituzioni come la presidenza della Repubblica il cui ruolo esce per forza ingigantito dalla scomparsa di quello che dovrebbe essere il muro maestro dell’architettura istituzionale, il potere legislativo. Ma la cosa davvero sconcertante è che a nessuno sembri bizzarro il caso di una repubblica parlamentare nella quale proprio il Parlamento è ridotto a simulacro. Il diritto alla giustizia di Vittorio Barosio e Gian Carlo Caselli La Stampa, 13 febbraio 2025 La “ragion di Stato”. È dietro a questa che si trincerano Meloni e i suoi colleghi sovranisti di fronte all’accusa di aver lasciato libero un soggetto arrestato perché la Corte penale internazionale (Cpi) lo ha ritenuto responsabile di gravissimi crimini contro l’umanità. Si pongono allora, uno di fronte all’altro, due princìpi e due valori. Da un lato - appunto - la ragion di Stato. Ma dall’altro lato il valore etico-morale di non lasciare in libertà e di assicurare alla giustizia un simile delinquente perché possa essere punito. Quale dei due valori prevale? Ce n’è uno che possa porre totalmente nel nulla l’altro oppure occorre valutare caso per caso? Lo Stato dell’Ottocento, in cui non c’era una Costituzione superiore alla legge ordinaria, era uno Stato “sovrano”, in cui il re ed il governo potevano agire in modo sostanzialmente libero (si pensi, per noi, allo Statuto albertino). Ma oggi il nostro Stato è invece uno Stato “costituzionale”. L’art. 1 della nostra Costituzione stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo significa che la Costituzione è sovrana e che si impone anche sulla politica e sui “governanti” eletti dal popolo. E che cosa ci dice la Costituzione per la vicenda Almasri? L’art. 2 “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. L’art. 3 tutela come diritto fondamentale la “dignità” della persona (di ogni persona, anche straniera). Nella “dignità” è compreso - come ha già riconosciuto la Corte costituzionale proprio in un caso relativo a crimini di guerra e contro l’umanità - il diritto di potersi sempre rivolgere a un giudice. Di qui in particolare il diritto inviolabile delle vittime di gravi crimini di guerra di vedere perseguiti i responsabili delle atrocità che essi hanno subìto; e in generale il diritto alla giustizia. Il principio giuridico che impone di consegnare alla giustizia i responsabili di crimini contro l’umanità rappresenta dunque, nel nostro ordinamento, un valore etico-morale garantito anche dalla Costituzione. Non vogliamo - peraltro - togliere ogni valore alla ragion di Stato, che rappresenta anch’essa, certamente, un elemento di importanza costituzionale, intrinseco nel concetto stesso di Stato. Pensiamo solo che, ogni qualvolta essa venga in gioco, non le si possa attribuire automaticamente una forza tale da porre nel nulla ogni altro valore, persino quelli etici di assoluta rilevanza costituzionale. La Suprema Corte insegna da tempo che nessun principio è “tiranno” e di per sé superiore a tutti gli altri. Pensiamo che si debba invece effettuare con la massima attenzione un bilanciamento fra i due valori fondamentali che si contrappongono, e solo dopo decidere quale debba prevalere e quale vada sacrificato. Su un valore fondamentale come il diritto di chiedere e di ottenere giustizia non si può certo transigere a cuor leggero. Per tornare alla vicenda Almasri, non sembra proprio che il governo abbia effettuato questo bilanciamento. Anche perché il ricorso alla ragion di Stato si intuisce chiaramente, ma non è stato ancora del tutto esplicitato, a fronte delle molte altre variegate giustificazioni fornite. E nessuno ha ancora spiegato all’opinione pubblica quale interesse nazionale, e di quale “peso”, sia ravvisabile per invocare la “ragion di Stato”. A parte tutto ciò, va comunque segnalato con preoccupazione il rifiuto dell’Italia di sottoscrivere una dichiarazione di sostegno alla Cpi, colpita con pesanti sanzioni da un provvedimento di Donald Trump del 6 febbraio. Emilia Romagna. Dal sovraffollamento alle condizioni di vita, ecco “Il vostro carcere quotidiano” di Annalisa Servadei modenatoday.it, 13 febbraio 2025 Schede, dati, infografica, video. Tutte le iniziative sul piano sanitario, sociale, formativo, lavorativo e culturale. L’approfondimento dopo le visite del presidente de Pascale e dell’assessora Conti alla Dozza a Bologna e Sant’Anna a Modena, sopralluoghi che proseguiranno negli altri Istituti di pena dell’Emilia-Romagna. Le carceri dell’Emilia-Romagna stanno affrontando una crisi strutturale dovuta al sovraffollamento e alla carenza di personale. Attualmente, nei penitenziari della regione sono presenti 3.820 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 2.988 posti. Questo significa che 832 persone in più rispetto alla capienza prevista devono condividere spazi ristretti, con tutte le problematiche che ne derivano in termini di vivibilità e sicurezza. A peggiorare il quadro, si aggiunge la carenza di agenti di Polizia Penitenziaria: ne sono in servizio 1.907, mentre la pianta organica ne prevede 2.105, lasciando quindi un deficit di 198 unità. Questa situazione rende ancora più complesso garantire la sicurezza all’interno degli istituti di pena, già messi a dura prova dal sovraffollamento e dalle difficili condizioni di vita. Suicidi e sovraffollamento nel carcere di Sant’Anna, scioperano gli avvocati modenesi Il primo scorcio del 2025 ha registrato un dato allarmante: cinque detenuti si sono tolti la vita all’interno delle carceri emiliano-romagnole. Un segnale di forte disagio che impone interventi urgenti per migliorare le condizioni di detenzione e il benessere psicologico dei reclusi. L’impegno della Regione - Di fronte a questa emergenza, il presidente della Regione, Michele de Pascale, e l’assessora al Welfare, Isabella Conti, hanno avviato un ciclo di visite nei penitenziari della regione, iniziando dalle carceri della Dozza di Bologna e di Sant’Anna a Modena. Accompagnati da amministratori locali, rappresentanti delle Camere penali e dell’Ordine degli avvocati, i delegati regionali hanno l’obiettivo di confrontarsi con i vertici del sistema penitenziario per individuare soluzioni concrete alle criticità esistenti. Suicidi al Sant’Anna, l’assessora Camporota chiede più poliziotti e più educatori - Tra le priorità individuate figurano il contrasto al sovraffollamento, la prevenzione degli atti di autolesionismo e il miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle strutture. L’obiettivo finale è la definizione di un protocollo regionale che garantisca un approccio più efficace sotto il profilo sanitario e favorisca il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, rendendo la pena effettivamente rieducativa e non esclusivamente detentiva. “Il vostro carcere quotidiano”: un’iniziativa per raccontare la realtà penitenziaria - Per approfondire il tema, l’Agenzia di informazione e comunicazione della Giunta regionale ha realizzato lo speciale “Il vostro carcere quotidiano”, disponibile online sul sito della Regione da oggi all’indirizzo Il vostro carcere quotidiano - Regione Emilia-Romagna. Il reportage, firmato dal giornalista Stefano Aurighi, offre uno sguardo dall’interno sulle carceri di Bologna e Modena, corredato da infografiche e schede tematiche. Lo speciale affronta diversi aspetti della realtà carceraria, dalla sanità alle iniziative di welfare, fino alle attività culturali e di formazione. Viene dato particolare rilievo agli interventi sanitari per la prevenzione, l’assistenza e la cura dei detenuti, nonché ai progetti di reinserimento nella società attraverso il lavoro e l’istruzione. Tra le iniziative più rilevanti si segnalano i percorsi di alfabetizzazione e i programmi di formazione per il conseguimento di diplomi tecnici, professionali e artistici. A completare il quadro, lo speciale include video-interviste con il presidente Michele de Pascale e l’assessora Isabella Conti, che illustrano l’impegno della Regione per migliorare le condizioni di vita nelle carceri e promuovere un approccio più umano e rieducativo alla detenzione. L’iniziativa rappresenta un passo importante per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni su una questione spesso trascurata, ma di fondamentale importanza per la tutela dei diritti umani e per la sicurezza della collettività. Leggi il reportage: https://www.regione.emilia-romagna.it/notizie/approfondimenti/2025/il-vostro-carcere-quotidiano/il-racconto Bologna. Giovani detenuti al carcere della Dozza, il no del Comune di Francesca Blesio Corriere di Bologna, 13 febbraio 2025 “È sovraffollato, così si perdono i percorsi rieducativi”. Anche l’assessora al Welfare e alla Sicurezza Matilde Madrid chiede il ritiro del provvedimento. “Il primo interesse deve essere quello della rieducazione dei ragazzi e della sicurezza della città”. Dall’incontro con il capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano è arrivata la conferma che si temeva: il Dipartimento “intende collocare fino a 50 giovani adulti negli spazi detentivi del carcere di Bologna dati in uso al circuito minorile, tenendoli separati dai detenuti adulti” hanno certificato il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri e quello del Comune di Bologna Antonio Ianniello. E sul provvedimento è arrivata la firma del ministro Carlo Nordio. Martedì è intervenuta l’assessora dell’Emilia-Romagna al Welfare Isabella Conti, scrivendo al ministro Carlo Nordio, e ricordando come il carcere della Dozza sia “una struttura già oggi in grave emergenza, con un sovraffollamento drammatico e condizioni di detenzione che non possono garantire un percorso rieducativo adeguato”. L’eventuale trasferimento di detenuti minorenni o appena maggiorenni in tale contesto - aggiungeva - “non farebbe che aggravare ulteriormente le condizioni di detenzione, rendendole ancor meno compatibili con i principi di dignità e recupero sanciti dal nostro ordinamento”. Anche il Comune, ieri (mercoledì 12 febbraio), nella figura dell’assessora al Welfare e alla Sicurezza Matilde Madrid, ha preso posizione sul tema condividendo “l’appello che Conti ha fatto al Ministro di sospendere questa decisione perché è assolutamente necessario un confronto con i territori interessati e le realtà coinvolte”. Quali ritiene siano le maggiori criticità di questa operazione, Madrid? “La prima riguarda la rieducazione, quindi l’interruzione e la messa in discussione dei percorsi educativi che vengono fatti su ragazzi che pur avendo commesso il reato da minori si trovano a scontare nel minorile la pena in maggiore età. Alcuni di questi stanno prendendo il diploma o stanno facendo corsi di formazione professionale. Si rischia di mettere di mettere in discussione e interrompere percorsi che stanno dando risultati”. La seconda? “Si andrebbe ad aggravare la situazione di sovraffollamento già gravissima del carcere per gli adulti”. Vi siete confrontati con chi dirige il Pratello? “Ho sentito Alfonso Paggiarino, il direttore del nostro carcere minorile, che è andato a vedere gli spazi che sarebbero stati individuati e lui non nasconde una certa preoccupazione perché quelli dedicati al lavoro di rieducazione sono molto esigui e assolutamente inadeguati allo scopo”. Qual è la vostra richiesta? “Sospendere la decisione e confrontarsi con noi, ragionando anche su possibilità alternative. Abbiamo una cabina di regia regionale per l’esecuione penale, in cui ci si confronta sul lavoro da fare in termini di progettualità e di indirizzo per la rieducazione dei detenuti, che Conti ha convocato per il 19 febbraio, in cui affronteremo il tema perché intendiamo chiedere un confronto con il Dipartimento di Giustizia minorile”. Perché si è arrivati a questo punto? “I garanti, e non solo, ritengono che il Decreto Caivano abbia avuto un suo impatto. Anche i dati dicono che dalla sua approvazione i minorili abbiano avuto un’accelerazione nel riempimento e nel sovraffollamento. Ma al di là di queste valutazioni, ci sono opinioni che vanno nella stessa direzione. La stessa consigliera Valentina Castaldini, che non fa parte del mio schieramento politico, proprio sul Corriere ha detto cose che condivido molto sul lavorare per un pieno inserimento e laddove possibile incentivare queste forme di esecuzione e pure lei invita a ritrovarsi per discutere con i territori su come portare avanti questo tipo di lavoro”. Che soluzioni alternative alla Dozza suggerirebbe? “Intanto la prima domanda è: esiste una struttura che può essere dedicata solo ai ragazzi, in via temporanea? In alternativa, ci sono altri carceri che soffrono di minore sovraffollamento rispetto alla Dozza su cui magari scomponendo questi numeri si riesce a produrre un impatto più equidistribuito? Noi alla Dozza abbiamo un tasso di sovraffollamento attorno al 170%. Terzo tema: sui giovani adulti che sono nei minorili riusciamo a fare un ragionamento uno a uno e non in blocco? È possibile ragionare su misure alternative al carcere per diversi di loro? Perché così non si tiene conto dei vissuti di questi ragazzi e si perdono tutti i percorsi di rieducazione che stanno facendo. La risposta non deve venire solo da noi, ma certamente nel confronto con le istituzioni del territorio potrebbero emergere proposte. Il primo interesse deve essere quello della rieducazione dei ragazzi e della sicurezza delle città. Ricordiamoci che il tasso di recidiva crolla al 15% quando ci sono misure di esecuzione esterna, quindi con pene alternative ci sono anche città più sicure. L’invito al Ministro è quindi di sospendere questa decisione e confrontarci per collaborare: credo che si possa fare un discorso molto laico su tutto questo”. Bologna. Valentina Castaldini (Forza Italia) e il caso dei giovani detenuti alla Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 13 febbraio 2025 “Comunità educanti contro il sovraffollamento. In Regione un tavolo di crisi sui percorsi alternativi”. La consigliera regionale forzista: “Abbiamo tra le mani una situazione molto problematica: questi giovani, anche se separati, alla Dozza rischiano di non avere volontari che li seguano”. “L’uomo non è il suo peccato” era il mantra di don Oreste Benzi, fondatore della Papa Giovanni XXIII che, tra le tante attività di accoglienza di persone con disagio, disabilità, ai margini della società, ha portato in Italia anche il modello brasiliano del “Carcere senza sbarre”, nelle Comunità educanti con i carcerati (Cec). “In Italia ci sono una decina di Cec, di cui la metà sono in Emilia-Romagna e ripercorrono l’esperienza brasiliana dell’Associazione per la Protezione Assistenza Condannati, un progetto innovativo, che si fonda su un percorso di rieducazione personalizzato per chiunque abbia sbagliato” spiega Valentina Castaldini, consigliera regionale di Forza Italia. “Lo scorso anno l’Assemblea legislativa ha scelto di organizzare una bellissima mostra fotografica “Dall’amore nessuno fugge”, per far conoscere il metodo Apac”. C’è la volontà di aprire una Comunità educante a Bologna? “Giorgio Pieri, che è il referente delle Cec, da tempo si spende per aprire a Bologna una casa per donne recluse, ma il problema è trovare un posto adeguato. In generale, credo siano pronti ad aprire più comunità possibili, c’è il desiderio di crescere. E noi oggi abbiamo un tema di stringente attualità da affrontare”. Parliamo dei 70 giovani detenuti che si sta cercando di spostare alla Dozza per ridurre il sovraffollamento degli istituti minorili… “Abbiamo tra le mani una situazione molto problematica, è oggettivo che questi giovani, anche se separati, alla Dozza rischiano di non avere percorsi di cura, volontari che li seguano. Gli educatori fanno già fatica al Pratello…Come Regione dobbiamo aiutare le realtà che già lavorano nella rieducazione e trovare soluzioni alternative. Le CEC nascono come risposta al bisogno di giustizia di una società che reclama sicurezza, rispetto delle vittime e bisogno di riscatto del reo. Sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere, con percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto. Hanno regole molto rigide, ci può accedere chi è in una fase di espiazione in cui si può scegliere un pena alternativa, ma io nelle Cec ho visto vite rinate grazie alla possibilità che si dà alle persone che hanno avuto a che fare con il male di frequentare persone che portano vita nuova, attenzione 24 ore su 24. Si basano su un percorso legato all’idea di comunità: mangiare insieme, impiegare il tempo in maniera ordinata, prendersi cura di persone disabili. Tutto questo è altamente rieducativo. I numeri dicono che il tasso di recidiva di chi esce da una Cec è del 15%, contro il 70% di chi esce dal carcere, ma le Cec non ricevono alcun finanziamento pubblico”. Cosa potrebbe fare oggi la Regione? “La mia richiesta, anche dopo aver parlato con il garante regionale, è che si apra un tavolo di crisi con una forte presenza del welfare per capire quali sono i posti liberi in comunità, chi di questi giovani detenuti può andarci. Fare un lavoro su misura ragazzo per ragazzo, altrimenti quello fatto fino ad ora negli istituti da cui provengono sarà reso vano. Anche se la decisione è già presa dobbiamo sederci intorno a un tavolo e fare un passo in più, capire chi può accedere a percorsi alternativi. Facciamo in modo che questa emergenza non sia un’opportunità sprecata: le Comunità educanti possono diventare un fiore all’occhiello per l’Emilia-Romagna. I giovani tra i 18 e i 25 anni, anche se hanno commesso un reato, sono in una fascia d’età molto critica e sono quelli che possono trarre maggior beneficio da un mondo che si basa sulla generosità, su lavoro meraviglioso di centinaia di volontari”. Parma. Emergenza carcere. “Nel 2024 3 suicidi, 44 tentati suicidi e 300 atti di autolesionismo” parmatoday.it, 13 febbraio 2025 Marco Boschini, presidente della VI Commissione: “Potenziamo la differenziata in carcere, oggi è al 20%. Risparmio di 80 mila euro all’anno e attivazione di tirocini per alcuni detenuti”. Nel corso del pomeriggio di mercoledì 12 febbraio si è svolta la VI commissione consiliare ‘Welfare, politiche abitative e del lavoro’ sul tema dell’emergenza in carcere, alla presenza del Vice Direttore dell’Istituto Penitenziario di Parma Andrea Romeo, dell’Assessore Ettore Brianti, la Garante comunale dei detenuti Veronica Valenti e il Garante regionale, Roberto Cavalieri. Marco Boschini, presidente della VI Commissione, nella relazione introduttiva, ha tracciato un quadro della situazione che sta vivendo il penitenziario di via Burla. “Oggi i detenuti presenti a Parma sono 748, su una capienza ufficiale di 655 posti ed effettiva di 630. Quasi cento detenuti in più rispetto all’effettiva capacità di “accoglienza” della struttura, con un sovraffollamento di circa il 120% (l’anno scorso, in marzo, eravamo ad una percentuale del 108%). Il secondo dato ci restituisce una situazione critica per quanto riguarda il personale, con una carenza che si attesta a un -39% di ispettori, - 60% di sovrintendenti e - 4% di agenti della pianta organica prevista. Infine, non certo per importanza e delicatezza. Tra il primo gennaio e il 31 dicembre 2024 il carcere di Parma ha registrato 3 suicidi, 44 tentativi di suicidio, atti di autolesionismo 315 (lesioni da taglio, ingestione volontaria di corpi estranei, inalazione gas, cucitura labbra…). Se proviamo ad inserire questi dati nel contesto di una struttura con numerose criticità strutturali (celle fatiscenti, pochi spazi comuni all’aperto, scarsa attività riabilitativa e formativa), ci rendiamo conto di quanto sia assolutamente necessario mettere al centro dell’azione politica, a tutti i livelli istituzionali, un piano di riqualificazione strutturale del carcere che deve essere accompagnato a mio avviso da adeguate risorse per il personale, non solo nell’ottica di un potenziamento della forza in organico ma anche in percorsi di formazione e assistenza e supporto psicologico per un lavoro logorante (e lo dimostrano i tassi di suicidio anche in questo caso inaccettabili). Serve, soprattutto, una progettualità condivisa che consenta all’istituzione carceraria di assolvere al suo compito principale, che è descritto perfettamente nell’Art. 27 della Costituzione: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Occorre che il Comune di Parma faccia la propria parte, e a questo proposito lascio all’Assessore Brianti il compito di presentare ai commissari tutti gli interventi e gli investimenti che l’amministrazione sta portando avanti. È di questi giorni un piano di investimenti che la Regione intende adottare a favore di tutti gli istituti penitenziari delle varie provincie, con un intervento di oltre 2 milioni di euro per Parma. Mi sia concesso un breve inciso rispetto ad una proposta avanzata dal sottoscritto ormai qualche mese fa. La percentuale di raccolta differenziata della comunità carceraria (detenuti, dipendenti) si aggira intorno al 20%, l’esatto contrario della percentuale della nostra città (che viaggia stabilmente da diversi anni oltre la soglia dell’80%). Questa percentuale può e deve essere ribaltata. Questo garantirebbe al carcere un risparmio annuo stimato di circa 80.000 euro, una riduzione della propria impronta ecologica, e consentirebbe di attivare tirocini formativi per alcuni detenuti nell’introduzione del servizio di racconta puntuale dei rifiuti in tutta la struttura. Sarebbe molto importante e utile uscire di qui con l’impegno a concretizzare nel corso dell’anno il progetto. Un detenuto che, scontata la sua pena, esce dal carcere con una prospettiva concreta di reinserimento sociale (una casa, un lavoro) è una persona in meno che delinque. Tutti i dati ci restituiscono questa che non è un’opinione da buonisti, ma un dato di fatto. La recidiva crolla laddove si attivano percorsi formativi creando una connessione tra il dentro e il fuori, tra la comunità carceraria e la comunità più ampia di una città. Non è con gli slogan del gettare via la chiave o con l’inasprimento delle pene che si rende una società più sicura, ma sforzandosi tutti per il proprio pezzetto di responsabilità per consentire alle persone che commettono un reato, una volta conclusa la pena, di poter tornare al punto di partenza”. Trento. “Case Itea ai detenuti di Spini di Gardolo”, la proposta del Pd fa discutere lavocedeltrentino.it, 13 febbraio 2025 “Il Consiglio comunale di Trento impegna il Sindaco e la Giunta a mettere a disposizione alcuni alloggi (nel numero di 2 o 3 per cominciare, individuandoli se possibile tra quelli che nei prossimi mesi saranno restituiti nella disponibilità da parte di Itea successivamente alla loro rigenerazione) per progetti dedicati a pene alternative o reinserimento nella società”. Una proposta destinata a suscitare accese polemiche è stata presentata in Consiglio comunale di Trento dal Partito Democratico del Trentino. La mozione 5.595/24, depositata con il primo firmatario il consigliere Federico Zappini, chiede infatti che le case Itea possano essere assegnate ai detenuti del carcere di Spini di Gardolo al termine della loro pena. L’iniziativa, che punta a favorire il reinserimento sociale degli ex carcerati, ha già sollevato reazioni contrastanti all’interno della comunità trentina. Il tema dell’assegnazione degli alloggi pubblici è da sempre un argomento sensibile, soprattutto in un periodo caratterizzato da un forte fabbisogno abitativo e da liste d’attesa per l’accesso alle abitazioni popolari. La mozione del PD apre dunque un dibattito politico e sociale che coinvolgerà l’intera cittadinanza. Da un lato, si evidenzia la necessità di offrire un percorso di reintegrazione ai detenuti che, una volta scontata la pena, si trovano senza un’abitazione e rischiano di ricadere in situazioni di marginalità. Il provvedimento potrebbe però incontrare la forte opposizione di chi ritiene prioritario garantire l’accesso alle case Itea a famiglie in difficoltà e cittadini già in graduatoria. Il confronto tra le diverse forze politiche si preannuncia acceso, mentre l’opinione pubblica osserva con attenzione gli sviluppi di una proposta che potrebbe incidere profondamente sulla gestione delle politiche abitative in Trentino. Nella premessa della mozione i firmatari affrontano anche il grave problema di sovraffollamento e delle condizioni di vivibilità insostenibili per i detenuti, tanto da non poter più essere descritto come attraversato da un’emergenza ma da uno stato ormai sedimentato di generalizzata criticità. A metà 2024 il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è ben rappresentato da due semplici dati: 61.758 detenuti/e su una capienza di 50.911, a cui vanno tolti anche alcuni posti inagibili. La situazione è di assoluta gravità anche presso la Casa Circondariale di Spini di Gardolo, dove il numero di detenuti/e supera regolarmente la capacità massima della struttura (il 14 agosto, giorno dell’ultima visita erano 371 a fronte dei circa 240 previsti dall’accordo Stato/Provincia Autonoma di Trento di quindici anni fa), aggravando ulteriormente le condizioni di detenzione. Sul documento presentato dal partito Democratico va fatta una riflessione: viviamo in una società complessa, dove il concetto di giustizia e aiuto sociale spesso solleva interrogativi profondi. La frase “chi sbaglia viene aiutato e invece le persone oneste sono penalizzate” riflette un sentimento diffuso di ingiustizia, secondo cui chi commette errori riceve supporto, mentre chi segue le regole paga. Da un lato, il recupero dei detenuti è un valore importante: una società civile deve offrire la possibilità di redenzione a chi ha sbagliato, affinché possa reintegrarsi e contribuire in modo positivo. Chi rispetta sempre le regole però potrebbe sentirsi trascurato, vedendo risorse e opportunità destinate a chi ha infranto la legge. Questa percezione può generare frustrazione e scoraggiamento, perché sembra che l’onestà non venga adeguatamente premiata. Messina. Detenuti malati a Gazzi, l’impegno dell’amministrazione penitenziaria e l’Asp di Alessandra Serio tempostretto.it, 13 febbraio 2025 La direzione scrive e la Garante dei detenuti risponde. Esiste una ottima collaborazione tra Garante dei detenuti e direzione del carcere di Gazzi, sottolineata da entrambi, una proficua collaborazione di entrambi con l’Asp di Messina per la gestione del centro clinico all’interno delle mura del penitenziario. Lo precisa la direttrice della casa circondariale Angela Sciavicco, all’indomani dell’audizione della Garante dei detenuti Lucia Risicato in consiglio comunale. La direzione smentisce i casi più drammatici indicati dalla Garante nella relazione (leggi qui) “…rispetto alle quali non si comprende - scrive la Sciavicco - considerati i pochi elementi desumibili dall’articolo in oggetto, se si tratta, in verità, di affermazioni del tutto decontestualizzate, che, in quanto tali, restituiscono al lettore una sintesi mistificata delle condizioni di vita dei detenuti presenti nella Casa Circondariale di Messina”. “Non si spiegherebbe, altrimenti, il motivo per il quale la Garante, ove mai avesse constatato la presenza di “soggetti giacenti nei propri escrementi”, non abbia ritenuto di riferire nell’immediatezza alla scrivente, esigendo, come avrebbe potuto, l’attuazione di interventi finalizzati a superare senza indugio la gravissima criticità”, scrive la Direzione del carcere. La Garante: caso critico affrontato - La Garante anche in occasione dell’audizione, come nella relazione presentata al Comune, ha sempre sottolineato l’ottimo lavoro compiuto dalla direzione e dagli operatori del carcere, attribuendo proprio alla sola gestione dell’istituto i buoni risultati in termini di qualità della vita dei detenuti messinesi. In merito al caso specifico, Risicato precisa infatti: “Mi riferivo alla condizione di un detenuto in particolare, che grazie alla collaborazione dell’Asp penitenziaria è stato collocato in altra struttura. Nessun intento polemico rispetto all’amministrazione penitenziaria, che ha sempre dato prova di correttezza ed efficienza”. Polemiche e smentite a parte, La direttrice Sciavicco ne approfitta per chiarire come funziona il centro clinico, sottolineando gli sforzi compiuti per sopperire all’assenza, sul territorio, di strutture alternative idonee all’accoglienza. Vita da detenuto ammalato - “Il Centro Clinico gestito dall’ASP Messina all’interno di questo istituto, il quale, per il tramite di proprio personale medico e paramedico, garantisce assistenza h24, ricorrendo, se necessario, agli ulteriori presidi ospedalieri presenti sul territorio, ove gli interessati sono accompagnati, con ogni mezzo necessario e con l’impiego di personale di Polizia Penitenziaria di scorta, per l’effettuazione di visite specialistiche e/o trattamenti terapeutici”. “La gestione dei detenuti affetti da patologie, anche gravi impegna l’Amministrazione penitenziaria e l’ASP Messina in uno sforzo comune e quotidiano teso a fornire l’assistenza di cui i detenuti con patologie hanno bisogno, talora - ebbene sì - persino sopperendo alla mancanza di ricettività da parte del territorio per inesistenza di strutture alternative idonee all’accoglienza o di disponibilità delle famiglie di provenienza a gestire soggetti problematici, che impedisce l’accesso alle misure alternative”. Ivrea (To). Nuove nubi sul carcere di Francesco Curzio rossetorri.it, 13 febbraio 2025 Medici indagati, giornali e progetti bloccati, Consiglio Comunale in carcere azzoppato, inizia male il 2025 della casa Circondariale di Ivrea. Mentre continuano le polemiche sulla chiusura forzata del giornale la Fenice ad opera della Direzione, è stata diffusa la notizia della fine delle indagini della Procura sulla morte di Andrea Pagani, detenuto e redattore della Fenice, il 4 gennaio 2024, indagini nate proprio dalle proteste dei compagni di redazione della Fenice. Il Pubblico Ministero ha ipotizzato il reato di omicidio colposo per tre medici del carcere, che nell’arco di una settimana avevano visitato il paziente senza rilevarne la gravità della patologia e la necessità di un ricovero in ospedale, come richiesto anche ufficialmente dal Pagani stesso. Ora il giudice dovrà decidere se inviarli a processo. Dalle problematiche legate alla sanità in carcere a quelle sulle attività all’interno della struttura eporediese il quadro comunque non cambia molto e a patirne le conseguenze sono coloro che ci convivono tutti i giorni, detenuti e agenti. Oltre al blocco della redazione della Fenice vi è anche la difficile situazione dell’altro e più longevo giornale del carcere di Ivrea, l’Alba, prodotto dalla Associazione Volontari Penitenziari Tino Beiletti, che a sua volta ha visto la stampa del suo ultimo numero bloccata dalla Direzione per contenuti ritenuti non pubblicabili. Possibile che dopo 24 anni di pubblicazioni i redattori volontari dell’Alba non sappiano più cosa sia consentito dare alle stampe? In una sezione della Casa Circondariale un altro progetto aveva portato alla realizzazione dello spettacolo “Della mia anima ne farò un’isola”, lettura scenica dopo un laboratorio di lettura del testo Fine pena ora del magistrato Elvio Fassone, cui avrebbe dovuto seguire un podcast e un video sempre ad opera dei detenuti della sezione. Dopo il successo dello spettacolo, replicato anche fuori dal carcere, e la realizzazione del podcast, il cammino si è però inceppato perché il video, già realizzato, è stato anche questo bloccato e la sua diffusione impedita, senza poterne approfondire le motivazioni e ipotizzare eventuali modifiche da apportare per poterlo finalmente diffondere. In questo clima di progressiva chiusura cade la convocazione all’interno del carcere di un Consiglio Comunale, come deciso a maggioranza dall’assise consiliare con frequenza annuale. L’obiettivo dell’amministrazione Comunale è quello di aprirsi all’ascolto dei problemi della Casa Circondariale sita sul territorio di Ivrea e avvicinare quindi i due mondi, esterno e interno, che tendono a rimanere separati senza dialogo. Anche questo Consiglio Comunale, che si terrà il 26 febbraio, è già fonte di polemica visto che alcuni esponenti della minoranza, i consiglieri Cantoni e Garino, hanno già annunciato il loro disaccordo e la non partecipazione, accodandosi al nuovo corso della destra al governo che sembra considerare l’attenzione al carcere un orpello da eliminare. Riguardo alla sospensione dell’attività della Fenice, a fine gennaio la redazione di Varieventuali, del quale La Fenice è supplemento, ha nuovamente richiesto un incontro alla Direttrice della casa Circondariale per capire almeno i motivi della decisione di chiusura e, comunque, per concordare i termini della “rivisitazione della Convenzione” richiesta dalla Direzione. Varieventuali annuncia comunque di voler continuare a mantenere aperto l’inserto La Fenice “ospitando articoli e interventi riguardanti le condizioni di detenzione e le relazioni della struttura penitenziaria col territorio. Una funzione che riteniamo comunque utile, sia perché la Casa Circondariale di Ivrea fa parte a pieno titolo della comunità locale, sia per favorire le possibilità di reinserimento sociale delle persone ristrette. Siamo interessati a riavviare un confronto sul comune obbiettivo di sviluppare quelle diverse attività riassunte nella definizione “funzione rieducativa”, tanto più quest’anno in cui ricorre il 50° anniversario dell’approvazione dell’Ordinamento Penitenziario, un’occasione per riflettere su presente e futuro della pena in Italia”. Forse è troppo facile parafrasare Bob Dylan ma per ora the answer is blowind in the wind. Bergamo. Giustizia riparativa: con “InConTra” non solo nel penale di Chiara Roncelli L’Eco di Bergamo, 13 febbraio 2025 Nel 2004 nacque il Centro all’interno della Caritas, nel 2022 l’associazione. Ha 10 mediatori. “Diffondere la pratica nei vari ambiti della vita sociale”. Nel 2022 l’ordinamento giuridico italiano ha introdotto ufficialmente la pratica della giustizia riparativa. Ma, come spesso accade, la legge porta a compimento un percorso in atto già da lungo tempo: infatti, in Italia si parla e si praticano esempi di giustizia riparativa dagli anni ‘90, in altri Stati europei addirittura da più tempo. Questo è accaduto anche nella nostra provincia, dove da vent’anni esiste un Centro di giustizia riparativa: nato nel 2004 all’interno di Caritas grazie alla sensibilità di don Virgilio Balducchi, allora cappellano della Casa circondariale, che iniziò a coltivare “il sogno di una giustizia “che renda l’uomo più maturo interiormente e socialmente” e permetta di “percorrere strade di riconciliazione” per il territorio”. Il Centro è cresciuto, ha realizzato numerose attività e coinvolto moltissime persone, tanto che nel 2022 i suoi mediatori hanno scelto di dar vita ad un’associazione dedicata interamente alla pratica della giustizia riparativa: l’associazione InConTra Ets. “Abbiamo scelto di fare questo passaggio contestualmente all’entrata in vigore del decreto legislativo 150/2022 che definisce la giustizia riparativa come disciplina organica all’interno del nostro ordinamento penale - racconta la presidente, Anna Cattaneo -. Con questa Riforma abbiamo finalmente una disciplina organica della giustizia riparativa che prevede la possibilità di attivare programmi per tutti i tipi di reati e in ogni fase del procedimento penale. Questo riconoscimento a livello nazionale ci ha spinto a fare l’importante salto di costituirci in associazione autonoma, che ci consente di rispondere a pieno ai requisiti previsti dalla legge”. L’associazione conta 30 soci mediatori, di cui 10 accreditati come mediatori esperti nell’elenco ministeriale (istituito con l’entrata in vigore della legge) e di questi 5 hanno anche ricevuto la qualifica di formatori. Vent’anni di esperienza che meritano di essere celebrati, ma che sono anche l’occasione per diffondere la cultura della giustizia riparativa: nonostante oggi questa pratica sia normata, infatti, molti non la conoscono ancora a pieno e pochi hanno potuto sperimentare il suo potenziale anche al di fuori dei contesti penali. “Vent’anni fa quando siamo partiti eravamo pionieri, oggi invece molte più persone conoscono quello che facciamo. Ma c’è ancora tanto bisogno di sensibilizzare il territorio - spiega Cattaneo -. Il centro fin dalla sua genesi non si è dedicato solo al penale, ma ha cercato di diffondere lo stile della giustizia riparativa e della mediazione umanistica nei vari ambiti della vita sociale: dalla scuola alle comunità parrocchiale e civili, dalle associazioni ai contesti di lavoro. Abbiamo fatto un lavoro che non si è mai chiuso sul penale, ma che diffondesse un nuovo paradigma culturale e che introducesse un concetto nuovo: la giustizia si costruisce anche attraverso l’assunzione di una responsabilità che matura dentro l’incontro”. Nel corso di tutto il 2025 l’Associazione InConTra insieme alla Caritas diocesana (e con il sostegno di numerosi altri soggetti del territorio che in questi vent’anni hanno collaborato con il Centro di giustizia riparativa e si sono impegnati sul tema) promuoverà azioni culturali per raccontare vent’anni di giustizia riparativa, sensibilizzare il territorio e riportare al centro del dibattito pubblico questo tema. Una rassegna cinematografica - A fare da sfondo a tutte le iniziative del ventennale sarà il titolo “Immaginiamo città riparative”. “Partiamo questo mese con una rassegna cinematografica, a maggio proporremo una rassegna letteraria, mentre tra giugno e luglio parleremo di giustizia attraverso l’arte. A ottobre faremo un gemellaggio con l’esperienza di Rondine ad Arezzo e la terza settimana di novembre, che a livello mondiale è dedicata alla giustizia riparativa, concluderemo con un convegno. Vogliamo che siano occasioni per parlare alle persone e far conoscere la giustizia riparativa. Crediamo che questo sia un tempo che ha molto bisogno di questo approccio”. Per saperne di più visitare il sito www.centroincontra.it. Roma. A 50 anni dalla riforma penitenziaria facciamo il punto sui diritti dei detenuti di Rachele Stroppa* L’Unità, 13 febbraio 2025 Oggi e domani a Roma il convegno di Antigone con studiosi ed esperti della pena in Italia. E le testimonianze di chi il carcere l’ha vissuto in prima persona. Sono passati 50 anni dal momento in cui venne attuata la grande riforma penitenziaria con la Legge 354 del 26 luglio 1975 recante le “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. Uno dei propositi principali della Legge penitenziaria era quello di colmare un’enorme lacuna esistente sotto il profilo giuridico rispetto all’esecuzione penale; all’epoca, infatti, era ancora vigente il regolamento fascista del 1931, contenente una serie di disposizioni tramite le quali ci si limitava a regolare la condotta delle persone private della libertà negli istituti di pena. Con la legge del 1975, il detenuto finalmente acquisisce una specifica soggettività giuridica, in quanto viene identificato e definito come un soggetto titolare di diritti ed aspettative. Di pari passo viene anche istituita la Magistratura di Sorveglianza come organo giurisdizionale con funzioni di controllo e di tutela dei diritti delle persone detenute. A 50 anni dall’entrata in vigore della Legge e alla luce della delicata fase che oggi sta attraversando il sistema penitenziario in Italia, è doveroso e quanto mai urgente riflettere collettivamente in merito all’impatto prodotto dalla riforma penitenziaria la quale, tra l’altro, ha rappresentato un modello per altri ordinamenti penitenziari europei, come quello spagnolo e tedesco. In che stato versano i diritti delle persone detenute in Italia oggi? In che modo si è declinato nella prassi penitenziaria lo spirito riformatore della Legge del 1975? La tensione costante tra disciplina e rieducazione, tra premio e castigo, su cui si articola l’ordinamento penitenziario del ‘75, in che rapporto si pone con i diritti delle persone detenute oggi? Per rispondere a questi interrogativi urgenti l’Associazione Antigone ha organizzato per oggi 13 febbraio e domani 14, presso la Casa Internazionale delle Donne a Roma, un convegno a cui prenderanno parte i principali studiosi ed esperti della pena in Italia. Come non potrebbe essere altrimenti, conteremo anche con le testimonianze dirette di chi il carcere l’ha vissuto in prima persona. Nel primo tavolo di lavoro Luigi Ferrajoli, Mauro Palma e Claudio Sarzotti analizzeranno proprio il momento storico in cui è avvenuta la riforma penitenziaria. A seguire dialogheremo con gli esperti sul rapporto tra correzionalismo e costituzionalismo, soffermandoci, in particolare, sull’efficacia del trattamento penitenziario e la validità dell’ideale rieducativo. Sino ad ora quest’ultimo è risultato essere più un esercizio retorico che un insieme di pratiche reali capaci di sostenere il reinserimento sociale della persona detenuta. Il tavolo successivo sarà invece dedicato ad un’analisi del carcere pre-riforma, di matrice fascista, per ribadire con forza la necessità estrema di continuare a prendere le distanze da quel tipo di modello carcerario, ma non solo. Il carcere, infatti, è sempre e comunque lo specchio della nostra società; un’istituzione totale in grado di replicare, con maggiore intensità, le dinamiche che riguardano in primo luogo la società “libera”. Utilizzando un’espressione propria della sociologia del diritto italiano, possiamo infatti affermare che l’universo penitenziario ha da sempre rappresentato un “osservatorio privilegiato” della società tutta. Partendo da questa premessa, nella seconda giornata di lavori, proveremo ad approfondire proprio il rapporto che intercorre tra la società contemporanea - in continua evoluzione sotto molteplici punti di vista - e un modello carcerario che invece di guardare avanti, sembra essere sempre più nostalgico dei tempi passati, quelli in cui nel contesto carcerario il paradigma disciplinare era l’unico possibile. Foucault ha sempre sostenuto che l’intelligibilità del presente è e deve essere storica. La funzione della storia è quella di attivarsi per rendere conto del presente. È proprio adottando l’approccio genealogico ed una prospettiva in grado di coniugare riflessioni giuridiche, sociologiche, ma anche politico-culturali, che durante questo importante convegno Antigone intende ragionare sul presente del carcere italiano, ma soprattutto sul futuro e sugli orizzonti che devono guidare l’evoluzione del sistema penitenziario in Italia. *Associazione Antigone Fossano (Cn). “Perla, una via di fuga”: così si abbatte il muro del pregiudizio ideawebtv.it, 13 febbraio 2025 “In Italia sette detenuti su dieci rientrano in carcere. Questa percentuale si abbassa notevolmente - in pratica, solo uno su dieci - se durante la detenzione hanno seguito un percorso inclusivo studiato per il reinserimento nella società”. Bruno Mellano, dal 2014 Garante dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte, esprime soddisfazione per l’apertura di un negozio nella casa di reclusione di Fossano, uno dei pochi istituti penitenziari in Italia situati nel centro storico di una città. “Perla, una via di fuga” è il nuovo progetto della Coo­perativa Perla - racconta con entusiasmo la responsabile Gra­zia Oggero - in una sfida lanciata dalla direzione del carcere di Fossano che vuole, con l’apertura di un negozio di prodotti realizzati all’interno dell’istituto e del mondo “made in carcere” in generale, abbattere simbolicamente i muri del pregiudizio”. Già operativo, in verità, dalla metà di dicembre, la settimana scorsa il negozio ha vissuto la sua inaugurazione ufficiale con le autorità cittadine, sindaco Tallone in testa, che ha rivelato di “venire sovente a fare la spesa, perché è un bel segnale di vicinanza, perché in questo modo il carcere si vede sotto una luce positiva”. Il nuovo esercizio, in via Giovenale Ancina 1, nel de­dalo delle stradine a due passi dall’asse centrale di via Roma e dagli antichi bastioni della città, è stato ricavato nella cinta muraria della casa di reclusione, ospitata nel complesso dell’ex convento delle Clarisse, costruito nel ‘600. Si tratta del primo punto vendita in un carcere aperto an­che all’esterno e agli acquisti dei cittadini, né più né meno come un negozio di alimentari qualsiasi. Ovvia­men­te con tutte le misure di sicurezza che un carcere deve avere. “È prevista - aggiunge Ogge­ro - l’assunzione di due detenuti che, con le responsabili della cooperativa, gestiscono il punto vendita proponendo prodotti appena sfornati, co­me pane, pizza, focacce, del laboratorio “Panatè Gli_evitati”; prodotti freschi, coltivati nelle serre di Cascina Pensolato di Fossano; conserve, marmellate, ragù e piatti pronti di gastronomia vegetariana e vegana prodotti nel laboratorio “Ap_pena Lavo­rata”, direttamente nella casa di reclusione fossanese. Il tutto, in una cornice colorata e impreziosita dalle ceramiche di “Filidella­stessatrama”, sempre create nell’istituto penitenziario locale”. Nel punto vendita ci sono anche eccellenze del “made in carcere” italiano, con prodotti che arrivano da Roma, Venezia, Pozzuoli, Saluzzo, Catania, Alba e da molti altri istituti di pena della Penisola. “La direzione dei lavori di allestimento, la gestione pratica, commerciale ed economica - dice ancora Oggero - è stata affidata alla nostra cooperativa, dove sono stati coinvolti i detenuti anche nella realizzazione del locale e degli arredi”. “Grazie a iniziative come questa non sembra più di essere in un carcere - aggiunge la direttrice della casa di reclusione Assuntina De Rienzo - il nostro ormai è un percorso a 360 gradi e devo dire un enorme grazie a chi ha permesso e ha partecipato al no­stro lavoro di squadra. Con Perla collaboriamo ormai da qualche anno su diversi progetti nel campo alimentare ed in quello artigianale”. Nata nel 2020, la Coope­ra­ti­va da maggio del 2021 collabora con la Direzione del Carcere di Fossano, per attività lavorative dentro e fuori dalle mura dell’istituto. Due al momento i laboratori attivi all’interno del carcere: “Filidellastessatrama”, laboratorio di produzione di ceramiche artigianali, e “Per_lab”, laboratorio di recupero e restauro piccoli mobili ed oggetti in legno. Collabora per la gestione delle attività all’interno con la Cooperativa Sociale Agricola Cascina Pensolato per quanto riguarda Ap_pena Lavorata, laboratorio di trasformazione ortofrutticola. Inoltre vengono gestite altre iniziative di reinserimento sociale e lavorativo con detenuti che possono lavorare all’esterno, come partecipazione a fiere e mercatini dell’artigianato, per il reinserimento sociale del detenuto e per l’autosostenibilità economica dei progetti della cooperativa stessa. E anche gestione e realizzazione di laboratori creativi di manipolazione dell’argilla, in scuole, associazioni di volontariato e centri diurni per disabili, sempre per il reinserimento sociale e per la promozione dei progetti della cooperativa. Un’esperienza che arricchisce tutti, dimostrando che il carcere può essere uno spazio di opportunità e crescita. Come diceva Andrea Camilleri: “I muri si possono ancora abbattere. Basta avere il coraggio e la determinazione”. Roma. Giubileo 2025: presentato “Conciliazione 5” di Marco Belli gnewsonline.it, 13 febbraio 2025 Prosegue la proficua e profonda collaborazione fra Santa Sede e Amministrazione Penitenziaria in occasione del Giubileo 2025. Fra le iniziative legate al “Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura”, presentato questa mattina presso la Santa Sede, alcune riguardano il mondo penitenziario. Alla conferenza stampa sono intervenuti il Cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione; Lucia Borgonzoni, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura; Barbara Jatta, direttore dei Musei vaticani; Lina Di Domenico, capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria facente funzioni; Cristiana Perrella, curatrice dello spazio “Conciliazione 5” per l’Anno Santo 2025; Raffaella Perna, curatrice della mostra “Global Visual Poetry: traiettorie transnazionali nella Poesia Visiva”. Nel pomeriggio di sabato 15 febbraio sarà inaugurato il nuovo spazio espositivo “Conciliazione 5”, una window gallery che si affaccia sulla omonima via che conduce i pellegrini a piazza San Pietro. L’insolita galleria d’arte contemporanea ospiterà il progetto “Oltre il muro”, dell’artista cinese Yan Pei-Ming, che si compone di 27 ritratti realizzati ad acquerello e raffiguranti i volti di detenuti, personale, operatori, cappellani e volontari che sono reclusi o lavorano all’interno della casa circondariale di Roma Regina Coeli. Un’opera di immediato impatto visivo, curata da Cristiana Perrella e destinata a rimanere anche oltre la fine del Giubileo, che mette al centro dell’attenzione “la comunità di Regina Coeli, il carcere a chilometro zero da S. Pietro”, come lo ha definito il Cardinale José Tolentino de Mendonça nel corso della presentazione. Lina Di Domenico ha espresso “grande soddisfazione, ma anche emozione, per questa nuova iniziativa del programma di arte contemporanea che in occasione del Giubileo 2025 prevede diversi punti di contatto con il mondo delle carceri. Il tema della speranza, fortemente sentito da Papa Francesco, incrocia l’umanità nei luoghi del disagio. E i volti ritratti dall’artista Yan Pei-Ming, proiettati sulla facciata di Regina Coeli, permetteranno a tutti di ‘vederè uno spaccato dell’umanità che vive oltre quelle mura. Di avvicinarsi a un mondo ai più sconosciuto e oscuro come quello dell’esecuzione penale”. I 27 ritratti, grazie a una suggestiva installazione luminosa visibile nelle ore successive al tramonto, saranno infatti “esposti” anche sulle antiche mura dell’istituto penitenziario romano, a disposizione di pellegrini e semplici passanti. Lunedì 17 febbraio Papa Francesco si recherà presso gli studi cinematografici di Cinecittà, prima volta di un pontefice. Qui incontrerà una delegazione di artisti e protagonisti del mondo della cultura e una rappresentanza di lavoratori degli studios. Ad accogliere il Pontefice sarà il canto del coro “Associazione Amici della Nave”, composto da detenuti, ex-detenuti e volontari del carcere milanese di San Vittore accomunati da una esperienza di reinserimento sociale attraverso la musica. Migranti senza difesa: un prototipo di Nazzarena Zorzella Il Manifesto, 13 febbraio 2025 Il campo dell’immigrazione, fenomeno che il Governo non gestisce razionalmente ma combatte attraverso la compressione del diritto di difesa. La questione migratoria è, non da oggi, un formidabile strumento di propaganda per spostare l’attenzione dai veri problemi del paese, ma è anche occasione di sperimentare dispositivi giuridici da estendere ad altre categorie. Tra questi l’esecutivo si sta concentrando sul - o meglio contro - il diritto di difesa. Come dimostra il disegno di legge “sicurezza” la cui previsione di tutele “speciali” per le forze di polizia ha ripercussioni sulla possibilità di scagionarsi dalle accuse. E come dimostra tutto il campo dell’immigrazione, fenomeno che il governo non gestisce razionalmente ma combatte attraverso la compressione del diritto di difesa. È lungo l’elenco delle riforme che negli ultimi due anni hanno inciso negativamente su questo diritto ed è urgente evidenziare gli effetti che la sua compressione sta avendo sulla negazione del diritto d’asilo. Diritto che non può essere eliminato in ragione di obblighi costituzionali e internazionali ma che procedure sempre più selettive e rapide stanno svuotando. L’esame della domanda di protezione internazionale frammenta l’unitaria categoria del o della richiedente asilo, differenziando i trattamenti e restringendo le tutele. Al di fuori dei “vulnerabili” definiti dalla legge (donne “con priorità per quelle in stato di gravidanza”, minori, vittime di tratta o violenza, persone affette da disturbi psichici), per gran parte delle altre categorie la procedura di esame è “accelerata e/o di frontiera”. Significa che l’iter deve concludersi in sette o nove giorni al massimo, i richiedenti sono trattenuti in Cpr, il termine per il ricorso all’autorità giudiziaria contro il diniego di protezione è di i 15 giorni ma in molti altri casi, comprese le procedure di frontiera, è di soli 7 giorni, senza sospensione automatica (va riconosciuta dal giudice). In queste condizioni e senza conoscere gli avvocati da nominare, per il richiedente asilo, quasi sempre trattenuto, è difficile esercitare il diritto di difesa, sia nelle udienze di convalida sia nel ricorso sull’asilo. Il culmine il governo l’ha raggiunto con la più recente legge 187/2024 che ha introdotto un’ulteriore restrizione per i richiedenti provenienti da un paese che l’Italia ritiene sicuro. In esecuzione del protocollo Roma-Tirana questi sono soccorsi nel Mediterraneo, condotti dopo alcuni giorni in Albania e trattenuti con convalida entro 48 ore. La decisione è prevista entro sette giorni e l’audizione viene solitamente effettuata il giorno dopo l’arrivo e senza alcuna effettiva informazione e preparazione. Così le decisioni negative sull’asilo sono notificate prima che si svolga l’udienza sul trattenimento e hanno un termine di sette giorni per la presentazione del ricorso (prima era di 15 e molti sono convinti sia ancora tale). Il tutto accade dunque in una manciata di giorni. È evidente che una simile procedura nega in radice il diritto di difesa del richiedente asilo. Durante le tre visite effettuate da parlamentari italiani con le associazioni del Tavolo asilo e immigrazione è emerso che i richiedenti asilo nulla sanno delle varie fasi e non hanno alcun reale contatto con i difensori che si trovano a centinaia di chilometri - difensori nominati sulla base di criteri discrezionali del tutto opachi. Questo schema normativo nega in radice l’effettività del diritto di difesa costituzionalmente garantito a tutti e nega conseguentemente il diritto d’asilo, la cui tutela è stabilita innanzitutto dall’articolo 10 della Costituzione oltre che dal diritto europeo. È questo il quadro giuridico che fa da sfondo alla mutazione dell’istituto dell’asilo: non più diritto fondamentale e inviolabile, come voluto dalla comunità internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, ma caratterizzato in maniera crescente da sospetto e criminalizzazione. I ministri dovrebbero visitare Gjader e i vari Cpr distribuiti in Italia, parlare con i richiedenti asilo detenuti, confusi e impauriti, osservare i segni delle torture subite in Libia, guardare negli occhi questi giovani che fuggono da una pluralità di violazioni di diritti umani e subiscono in Italia o in Albania la detenzione senza avere commesso nessun reato, vedendo negato il loro diritto a una vita dignitosa. Dopo forse non sarebbero così ostili a uno dei diritti fondamentali per uno Stato democratico. Ma così non è. Migranti morti nei Cpr, i familiari di Moussa e Ousmane: “Mai più, chiediamo giustizia per tutti” di Paolo Valenti lavialibera.it, 13 febbraio 2025 Iniziato il processo per la morte di Moussa Balde nel centro per il rimpatrio di Torino. A Roma si indaga sul suicidio di Ousmane Sylla, anche lui suicida nel cpr di Ponte Galeria. I familiari: “Lottiamo per tutti, chi migra non è un criminale”. “Non lottiamo solo per i nostri fratelli, ma per tutte le persone che si trovano nei cpr”. A parlare è Mariama, sorella di Ousmane Sylla, il 21enne guineano che un anno fa si è tolto la vita nel centro di permanenza per il rimpatrio (cpr) di Ponte Galeria, a Roma. Con lei la madre e il fratello di Moussa Balde, 23enne sempre della Guinea, morto suicida nel maggio del 2021 in un altro cpr, quello di Corso Brunelleschi a Torino, che dopo due anni di chiusura si appresta a riaprire. Mercoledì sono arrivati nel capoluogo piemontese per l’inizio del processo per la morte di Moussa, che vede imputati per omicidio colposo Annalisa Spataro e Fulvio Pitanti, rispettivamente direttrice dell’ente gestore e responsabile medico della struttura all’epoca dei fatti. “Moussa era un giovane diplomato in elettronica - racconta la madre Djenabou, visibilmente emozionata, durante la conferenza stampa ospitata dal Gruppo Abele -. Stava sempre incollato a me, si svegliava alle 5 per accompagnarmi al mercato, poi andava a scuola. Spesso diceva ‘mamma, voglio toglierti un po’ di questa fatica’”. Così, un giorno ha preparato la valigia ed è partito senza dire niente a nessuno. Ha chiamato solo il giorno dopo, dicendo che si trovava alla frontiera con il Mali e che avrebbe raggiunto il fratello maggiore in Algeria. Lì ha lavorato per sei mesi per raccogliere il denaro necessario alla traversata: “Nonostante i miei genitori cercassero di dissuaderlo, Moussa era determinato a raggiungere l’Europa - dice Thierno, altro fratello di Moussa -. Dopo aver perso tutti i soldi a causa di una truffa ha chiamato a casa. Mio padre gli ha mandato 1200 euro con la promessa che li avrebbe usati per tornare in Guinea. Invece una settimana dopo ha chiamato dicendo che era arrivato in Italia. Da lì mia madre ha iniziato a stare male”. Moussa Balde è stato per tre mesi in un centro d’accoglienza a Imperia. “Si trovava bene - continua Thierno -. I suoi amici volevano andare chi in Francia, chi in Germania, ma Moussa diceva che voleva restare perché era stato accolto dall’Italia. Voleva imparare l’italiano e proseguire la sua formazione da elettricista”. A un certo punto, però, la situazione è cambiata. Ai familiari Moussa ha iniziato a dire di non sentirsi più al sicuro. Ha provato così a spostarsi in Francia, dove però non ha potuto ricevere accoglienza a causa del regolamento di Dublino. Rientrato in Italia, ha vissuto tra Imperia e Ventimiglia, finché non se ne sono perse le tracce. La famiglia è stata avvisata della sparizione una settimana dopo da un amico. Moussa Balde ricompare in un video, girato da una cittadina di Ventimiglia il 9 maggio 2021 e condiviso sui social, che mostra tre uomini picchiarlo con calci, pugni e tubi metallici. Gli aggressori, tutti italiani, sono stati condannati nel gennaio del 2023 a due anni ciascuno. Dopo il pestaggio, Moussa viene portato in ospedale, poi in commissariato a Ventimiglia e infine in Questura ad Imperia, dove gli viene notificato il decreto di espulsione perché irregolare. Da lì il trasferimento nel cpr di Torino, in particolare nel cosiddetto “ospedaletto”, l’area destinata all’isolamento. È qui che Moussa si è tolto la vita il 23 maggio, nove giorni dopo l’ingresso. “L’abbiamo saputo dall’avvocato, non sapevamo neanche fosse stato rinchiuso in un centro”, ricorda Thierno. “All’interno del cpr, le persone non possono contattare autonomamente i familiari - spiega l’avvocato Gianluca Vitale, legale della famiglia -. L’utilizzo dei telefoni cellulari è vietato, c’è solo un telefono a scheda che però non permette di comunicare con l’estero per un tempo sufficiente. In più, Moussa era stato rinchiuso immediatamente nell’ospedaletto in cui è negata anche questa possibilità, quindi anche se avesse voluto non avrebbe potuto informare la famiglia”. Per il trattenimento in isolamento era stata formulata anche l’accusa di sequestro di persona nei confronti del responsabile dell’ufficio immigrazione e di due agenti, archiviata però lo scorso novembre su richiesta della Procura. La storia di Moussa ha diversi punti in comune con quella del connazionale Ousmane Sylla, anche lui morto suicida nel cpr di Ponte Galeria (Roma) il 4 febbraio 2024, a soli 22 anni. “Anche Ousmane è partito senza dire niente a nessuno - racconta Mariama Sylla, la sorella -. Due giorni dopo ha chiamato a casa dicendo che era alla frontiera e voleva arrivare in Europa”. Poi, due mesi in Algeria, sei in Tunisia, fino all’approdo in Italia. “Era spinto dalle proprie ambizioni, non costretto dalla povertà. Per lui l’Europa era un sogno, il paradiso. I nostri fratelli non vengono per fare del male o causare problemi agli italiani, cercano solo un futuro migliore”. Ousmane ha quindi provato a raggiungere la Francia, ma è stato respinto a Ventimiglia. “Un giorno, mi ha chiamato e mi detto che avrei dovuto prendermi io cura della mamma e che non sarebbe riuscito a ricontattarci - continua Mariama -. Abbiamo passato tre mesi senza sapere più nulla, mia madre piangeva ogni giorno. Finché non abbiamo scoperto su Facebook che si era suicidato in un centro per il rimpatrio”. Ousmane è stato raggiunto dal decreto di espulsione e quindi spedito nel cpr una volta compiuta la maggiore età, dopo che aveva denunciato maltrattamenti nella struttura di accoglienza in cui si trovava. “Cercava comprensione e protezione, invece è stato punito - continua Mariama -. È stato questo a renderlo nervoso e aggressivo. Si sarà chiesto: ‘Non ho fatto niente, perché mi trovo qui? Perché questa ingiustizia?’. E nonostante tutto questo, i cpr continuano a esistere e funzionare”. Sulla vicenda la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta, ma ancora non si parla di rinvio a giudizio: “Speriamo che la prossima volta che ci vedremo potremo parlare anche di un processo per la morte di Ousmane”, dice l’avvocato Vitale. Per Moussa Balde, invece, la prossima udienza a Torino è fissata al prossimo 8 settembre. C’è il processo, ma “manca un pezzo”, puntualizza Vitale: “Stiamo processando solo i privati che hanno gestito la detenzione, non le istituzioni che l’hanno voluta e dovrebbero controllarla”. E alle istituzioni si rivolge Thierno Balde: “Chiediamo allo Stato italiano di essere sincero e trasparente e riconoscere che sbaglia a rinchiudere le persone nei cpr in quelle condizioni. Chi migra non è un criminale”. Migranti. Progetto Albania verso la fase 2. Tutte le incognite di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 febbraio 2025 Il ministro Piantedosi bluffa: “Oltre Adriatico un impianto polivalente, il Cpr c’è già”. Ma trasferire gli “irregolari” dall’Italia violerebbe le norme Ue. “Polivalente”. È l’aggettivo che ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto dopo “impianto”. Parlava dei centri in Albania. Prima aveva ripetuto il solito ritornello: il progetto interessa 15 paesi membri e Commissione. “Oltre a un luogo di sbarco, c’è un centro per le procedure di frontiera ed è già presente un Cpr. Il cui utilizzo non determinerà, o non determinerebbe, alcun costo aggiuntivo”. Stanno in quell’oscillazione tra indicativo futuro e condizionale presente le ultime incognite del governo, se non del Colle, prima del via libera al nuovo tentativo di mettere in moto il protocollo Meloni-Rama: usare le strutture non per i richiedenti asilo sottoposti alle procedure accelerate di frontiera, ma per trattenere e forse espellere gli “irregolari”. Il decreto sarebbe imminente, anche se al Consiglio dei ministri manca una data. Si tratterebbe, o si tratterà, di un vero e proprio testa coda rispetto agli annunci iniziali sul progetto, quando l’esecutivo lo presentava come uno strumento di deterrenza. Il ragionamento era questo: se porto in Albania il cittadino straniero che voleva arrivare in Europa, lo detengo per un mese e lo rimando a casa, quello sarà l’esempio vivente che attraversare il mare diretti in Italia non conviene. Il nodo erano le tempistiche. In quest’ottica il Cpr già costruito sarebbe dovuto essere solo l’ultimo passaggio della macchina deportazione/procedura accelerata/rimpatrio. Tutt’altra funzione, anche se Piantedosi fa finta di nulla, avrebbe se fosse destinato ai migranti irregolari, esclusi dall’asilo. Le ipotesi sono due. La più accreditata è che l’esecutivo provi a parcheggiare in Albania persone che si trovano irregolarmente in Italia. Quelle già trattenute nei Cpr? Possibile, in media sono circa un migliaio. Certo avrebbe poco effetto mediatico e attirerebbe molte critiche per gli sprechi. A quel punto fatto 30 perché non fare 31, provando a imitare i rastrellamenti statunitensi degli “illegali”, operazioni in pettorina da esibire sui social e far terminare nella Guantanamo tricolore al di là dell’Adriatico. L’altra possibilità è trasferire a Shengjin e Gjader solo i naufraghi soccorsi in mare che non chiedono asilo: in Sicilia alcuni casi si registrano, spesso riguardano tunisini, ma sollevano molti dubbi sulla correttezza della procedura a cui sono sottoposti (e barare in Albania sotto gli occhi di parlamentari, avvocati e giornalisti sarebbe più complesso). A rigor di norma sarebbe possibile solo questa seconda ipotesi, ma il carico rischia di essere davvero residuale in termini numerici e quindi mediatici. Il problema della prima è che mentre il protocollo di novembre 2023 autorizza il trasferimento dei migranti per “le procedure di frontiera e di rimpatrio”, la legge di ratifica di febbraio 2024 stabilisce che “possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Ue”. La specifica non è casuale, ma risponde alla posizione pilatesca espressa da subito dalla Commissione Ue. Una settimana dopo la firma dell’intesa l’allora commissaria per gli Affari interni Ylva Johansson diceva: “Non viola la legge Ue, perché è fuori dalla legge Ue”. L’ idea si basava sulla finzione giuridica secondo cui le domande di asilo esaminate in Albania sarebbero venute da persone mai entrate nel territorio comunitario, evitando di considerare tale la nave italiana. E sul fatto che in Albania vale la giurisdizione tricolore ma il territorio resta extra-Unione. E proprio questo sarebbe l’ostacolo giuridico al cambio di destinazione d’uso che vuole il governo. Il 5 febbraio il nuovo commissario per gli Affari interni Magnus Brunner ha risposto a un’interrogazione parlamentare spiegando che l’attuale “direttiva rimpatri” permette di mandare un migrante irregolare in un paese terzo sicuro solo se ci è transitato o accetta volontariamente il trasferimento. Le cose cambieranno con la prossima direttiva, ma la commissione la presenterà, forse, l’11 marzo. Poi Parlamento e Consiglio dovranno trovare un compromesso. Serviranno dei mesi, come minimo. Non si può escludere, però, che l’esecutivo decida di forzare la normativa Ue, magari appellandosi a quella a venire, come fatto in questi mesi, o sostenendo che in fondo visto che c’è la giurisdizione italiana è come se Shengjin e Gjader siano al di qua del mare. La Commissione non dirà nulla, per la Corte Ue servirebbero mesi o anni. “L’Albania non è un paese terzo sicuro ma un hub di passaggio”, ha detto martedì al Comitato Schengen la prefetta Rosanna Rabuano, capo del dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale. Migranti. I Centri in Albania restano vuoti, l’ente gestore licenzia i lavoratori di Marika Ikonomu Il Domani, 13 febbraio 2025 Il Governo ha assicurato che il progetto andrà avanti, ma i contratti del personale dell’ente gestore dei Centri migranti sono stati annullati. I contratti stipulati tramite una succursale della coop Medihospes creata a Tirana. L’appalto vinto a maggio valeva 133 milioni di euro. La cooperativa Medihospes ha interrotto il rapporto di lavoro con quasi tutti i dipendenti assunti per la gestione dei centri in Albania, realizzati in base al protocollo firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama. In pratica non c’è più bisogno di lavoratori nei Cpr: il documento ottenuto da Domani conferma in via definitiva il fallimento del piano albanese del governo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato durante il question time alla Camera che il progetto Albania sarebbe andato avanti - “per sviluppare le notevoli potenzialità di utilizzo delle strutture” - nel tentativo di evitare di alzare bandiera bianca sul progetto che l’esecutivo considera un modello per tutta Europa. Mentre spiegava questo al Parlamento, un centinaio di lavoratori dell’ente gestore hanno ricevuto una lettera - che Domani ha potuto vedere - dal loro datore di lavoro: “La informiamo che a causa di una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di Cassazione italiana, nonché dell’impossibilità momentanea di accogliere nuovi flussi di migranti, siamo costretti a sospendere temporaneamente il nostro servizio”, si legge. La prefettura di Roma aveva aggiudicato a maggio 2024 l’affidamento alla cooperativa, un colosso già noto nel settore, mesi prima dell’effettiva apertura delle strutture di Shengjin e Gjader, i centri di identificazione e trattenimento destinate a persone salvate dalle autorità italiane in acque internazionali e provenienti da paesi considerati sicuri. E quindi sottoponibili alle procedure accelerate di frontiera. Centri che in quattro mesi sono stati operativi per un totale di circa due settimane. Medihospes era stata scelta all’esito di una procedura negoziata, senza gara, del valore di 151,5 milioni di euro per quattro anni con un ribasso del 4,94 per cento. Questo accadeva a maggio 2024. Otto mesi dopo, a fine gennaio 2025, però, la prefettura e la cooperativa non avevano ancora firmato alcun contratto. A riferirlo la deputata del Partito democratico Rachele Scarpa, entrata nei centri per monitorare le procedure del terzo trasferimento di 49 migranti, a cui i funzionari avevano riferito di aver ultimato le procedure e di essere pronti a firmarlo, il giorno successivo. Ora, però, dalla lettera di licenziamento emerge un ulteriore novità: l’intestazione della comunicazione ai lavoratori è della succursale della cooperativa, aperta in Albania con sede a Tirana, creata dopo l’aggiudicazione dell’appalto. Il presidente è lo stesso della cooperativa italiana: Camillo Aceto, ex amministratore delegato della Cascina, la cooperativa commissariata - il commissariamento è poi stato revocato - nell’inchiesta della procura di Roma su “mafia capitale”. Ad ogni modo, così come la srl è stata creata sulla base del diritto albanese, anche le norme - richiamate nella lettera - su cui si basa il rapporto di lavoro interrotto sono disposizioni del codice del lavoro albanese. Quindi, nonostante la stazione appaltante e l’ente gestore fossero italiani - senza contare che i centri sono considerati in base all’accordo territorio italiano - sono state applicate le norme albanesi, attraverso quello che viene definito il distacco comunitario del lavoratore. La comunicazione, firmata quindi dall’amministratore di Medihospes Albania, ha informato i dipendenti che “il contratto di lavoro” tra la cooperativa e il lavoratore “sarà considerato risolto a partire dal 15 febbraio 2025 fino a nuova comunicazione”. E, “in attesa di una soluzione giuridica stabile e definitiva”, conclude la lettera, “la ringraziamo per la sua comprensione”. Non è chiaro se la decisione della cooperativa sia arrivata su impulso della prefettura di Roma, la stazione appaltante. Di certo, le prime righe della lettera, che richiamano le pronunce giudiziarie “contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Cassazione”, sembrano essere state scritte dai rappresentanti del governo, che dal primo trasferimento a oggi hanno accusato i giudici, prima delle sezioni specializzate e poi delle Corti d’appello, di essere politicizzati e di remare contro i progetti dell’esecutivo. Secondo una fonte sentita da Domani, a conoscenza del caso, nei centri sarebbero quindi rimasti solo alcuni medici e alcuni addetti delle pulizie, oltre agli agenti delle forze dell’ordine. Dalla riunione tecnica di lunedì a palazzo Chigi, per trovare una nuova soluzione normativa senza attendere la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, la soluzione più plausibile sembra essere quella di trasformare le strutture in Centri di permanenza per il rimpatrio. Il governo mira a non modificare l’accordo firmato con il primo ministro albanese. Anche perché per Rama, contestato internamente dalle opposizioni per l’intesa con l’Italia, è iniziata la campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo 11 maggio e potrebbe non essere politicamente conveniente concedere modifiche all’Italia. L’accordo è passato dai parlamenti di entrambi i paesi e modificarlo significherebbe ricominciare l’iter parlamentare. In caso contrario, se si riuscisse a trovare un escamotage per non cambiare l’intesa, la soluzione più accreditata dei Cpr comporterebbe comunque molte incognite: come portare le persone già sul territorio italiano senza un permesso di soggiorno nei centri albanesi? Come rimpatriarli? Probabilmente dovrebbero rientrare in Italia per essere rimpatriati nei paesi di origine. “Il governo è al lavoro per superare gli ostacoli” ha detto Piantedosi in aula, ma la comunicazione ufficiale arrivata a un centinaio di dipendenti di Medihospes sembra suggerire il contrario. Minare la Corte Penale Internazionale non è questione di procedura di Riccardo De Vito Il Manifesto, 13 febbraio 2025 La tutela dei diritti impone di lavorare in avamposti di un futuro possibile: il costituzionalismo globale amplifica i conflitti con la politica. Il presente che viviamo è un’epoca di transizione della democrazia. Inevitabilmente, i conflitti tra politica ed esercizio della giurisdizione assumono caratteristiche di inedita gravità. Neoliberismo e sovranismo sono in perfetta continuità e marciano di pari passo. Lo raccontano le parole del profetico romanzo di Stephen Markley Diluvio: “Una bestia che esigeva il profitto da un lato e una bestia che esigeva legge, ordine e letalità dall’altro”. La torsione nazionalista e poliziesca delle democrazie si salda con le esigenze del liberismo de-territorializzato di disporre di recinti statuali nei quali il conflitto sia ingabbiato da leggi repressive, la vitalità delle forze sociali sacrificata in nome del “popolo sovrano” e dell’“io sovrano”. È questa alleanza minacciosa che oggi offre la soluzione alla crisi dell’organizzazione politica e spaziale del mondo. Il dispositivo spaziale del potere statuale è costretto a ripensarsi a fronte dello spostamento istantaneo e simultaneo di informazioni, merci e persone. È il problema capitale delle democrazie, ma mentre le forze progressiste balbettano, omogeneità e continuità vengono recuperate dalle destre attraverso categorie distorte - la patria, la nazione, la religione, la sicurezza, la rimozione delle differenze di genere - e l’espulsione di chi con quelle identità fittizie non collima. Che l’ottica sovranista sia nostalgica e illusoria non deve indurci a sottovalutarne la capacità di manipolazione della realtà, favorita dall’appiattimento su logiche puramente economiche delle grandi costruzioni sovranazionali, a partire dall’Unione europea. Su un unico punto, tuttavia, quelle costruzioni e le relative convenzioni hanno mantenuto la promessa: la propensione a proteggere i diritti in ogni parte del globo, ancorandone la tutela alla mera umanità più che allo schermo di una qualsiasi cittadinanza. L’unica speranza per la democrazia è che questa promessa si dilati, che il costituzionalismo si faccia mondiale, nella prospettiva indicata da Luigi Ferrajoli. La ragione dei diritti contro quella di Stato e di mercato. Evidente che questa traiettoria amplifichi il conflitto tra sfera della politica e sfera del giudiziario. Non è casuale che, nel nostro Paese, le maggiori polemiche sono scaturite dalle decisioni giudiziarie che, a partire dalla cogenza di principi sovranazionali, hanno contenuto il potere (neocoloniale) di trasferire migranti in territorio albanese. Ancora, dalla violazione del mandato di arresto della Cpi. La protezione della persona è entrata in inevitabile collisione con l’ideologia dei sovranismi contemporanei di disporre esclusioni e non avere argine alla spendita indiscriminata dei loro capitali simbolici: patria, sicurezza, identità. Sono i miti sui quali investe anche la destra italiana per attirare elettori e capitali. A essere nel mirino della politica, pertanto, è la forza stessa dei diritti, non un particolare sistema processuale più o meno garantista. Coerentemente con tale impostazione, la riforma della giustizia introduce un meccanismo di pervicace controllo dei giudici (dal sorteggio dei futuri Consigli superiori all’Alta Corte di disciplina). Si può azzardare che l’ostilità nei confronti dei giudici sia più drastica in ragione del fatto che la tutela dei diritti impone di lavorare in avamposti di un futuro possibile: il costituzionalismo globale. Questa condizione scolpisce allo stesso tempo la responsabilità e la debolezza della magistratura. Responsabilità di non abbandonare la traiettoria di espansione dei diritti, di coltivarla con la dovuta deontologia professionale e cultura del mondo; debolezza connaturata al fatto che il futuro del costituzionalismo non si può reggere sulla via giudiziaria. Quando, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, i magistrati si cimentarono nell’immane sforzo di scongelare la Costituzione, dovettero sostenere aspri conflitti, ma si trovarono immersi nella stessa corrente emancipatrice delle lotte delle classi subalterne per far vivere i diritti costituzionali, trasferire brandelli di potere dall’alto al basso. La costituzionalizzazione della società nazionale era favorita dall’omogeneità culturale e sociale delle parti in lotta. Oggi urge una soluzione globale ai problemi locali, ma costituzionalizzare il mondo è assai più difficile e le lotte per tale obiettivo hanno bisogno di trovare passioni positive che facciano da collante e presa popolare. Fin quando il mosaico non si comporrà, il giudiziario sarà destinato di volta in volta a incarnare i mali di quel mondo fittizio costruito dall’immaginario sovranista: la minaccia internazionalista, il pericolo per la sicurezza delle persone, l’attentatore delle identità. Il futuro è conteso, ma il nuovo costituzionalismo, prima di essere scritto nelle carte, dovrà diventare prassi politica. Nasce la diarchia degli uomini forti senza più il paravento del diritto di Domenico Quirico La Stampa, 13 febbraio 2025 Trump minaccia “inferni”, esige fedeltà, riduce gli alleati a nuove Cecoslovacchie da sacrificare. Per Putin è il trionfo dell’idea di realismo basato sulle armi, e l’Ue finisce nel girone dei deboli. Un tempo almeno si utilizzavano astuzie, fumosità, si tentava di deviare l’attenzione e l’indignazione su false piste, divagazioni come il diritto, la necessità storica, la provocazione, la necessità di difendere e difendersi. Ora non si perde più tempo. Si esige si ordina si intima. e si arraffa sulla base esclusivamente della Forza. Chi ce l’ha ovviamente. Il mondo nuovo ha il linguaggio di Trump che minaccia “inferni” ai tiepidi e ai renitenti. Che tratta con Putin. Zelensky? Riceverà ordini a cui dovrà obbedire. Come la Cecoslovacchia ai tempi di Monaco. E gli altri? Protestano cercano di dilazionare fanno finta di e alla fine obbediscono. Si ha la sensazione che qualcosa di irreparabile sia accaduto, si ha come la sensazione di un singhiozzo di rabbia e di disperazione. Anime candide, o sottilmente ipocrite (anche i buoni hanno secondi fini inconfessabili ahimè) continuano ad appellarsi a enti diventati miseramente inutili, Palazzi di Vetro, corti penali, enti che una volta si vantavano di essere planetari, autorità morali. Ma perdio c’è un diritto! Si strilla e i filosofi affrontano il compito improbo di annoverare il diritto internazionale bellico umanitario, i trattati tra i valori assoluti. Gli altri, i Forti, mettono davanti le cifre: bombe con la b maiuscola e minuscola, fatturati, casseforti e forzieri armati e disarmati. Interessi, che vuol dire terre rare, ricostruzioni miliardarie. Minacciano appunto inferni, ritorsioni punizioni. E qualche volta purtroppo oplà, eccole le minacce diventano realtà. La giustizia diventa, come la guerra, un problema di materiali. C’è perfino una geografia del nuovo evo della prepotenza: Ucraina Nagorno Tigrè Gaza Kivu eccetera. Popoli interi si sono familiarizzati con l’idea della fine del mondo. È possibile immaginare le città in cui si vive polverizzate come Gaza o le città ucraine . Davvero a volte è difficile immaginare che ciò non avvenga. La distruzione delle città con il loro passato e il loro presente sono come una minaccia alla gente che continua a viverci. I sermoni delle pietre di Gaza e dell’Ucraina predicano il nichilismo della forza. Minacciare rende. Zelensky ha compreso che la solidarietà atlantica fino a quando sarà necessario era protetta da muri di gusci d’uovo che potrebbero essere soffiati via in due telefonate. Con Trump alla casa Bianca i suoi virtuosi ricatti (fateci vincere perché altrimenti dovrete difendervi da soli... ammoniva) non funzionano più. E obbedisce: posso trattate con il ricercato criminale Putin… E il presidente americano gli ricorda sgarbatamente la regola: colpa tua, hai affrontato uno che era più forte di te. Errore che non ha diritto ad assoluzione. È crudele dire che il diritto dipende dalla forza. Ma è vero. La morale è che una nazione deve premunirsi di avere la forza per difendere la propria idea di ciò che è giusto. Quando coloro che hanno la forza ottengono ciò che vogliono un tempo cercavano di convincere di aver vinto perché sulle loro bandiere erano scritti valori superiori, il patriottismo, il coraggio, la lealtà, la integrità morale, l’altruismo. Tutte queste magnifiche virtù sarebbero state inutili se non avessero avuto la capacità di produrre armi superiori e più numerose, e mettere in campo eserciti potenti. Ha vinto la forza non il diritto, e il fatto che in qualche raro caso coincidano non cambia l’amarezza della constatazione. Come è sterile e struggente questo pretendere di risvegliare vecchie ceneri, di combattere una impossibile guerra con la realtà. E con che futili armi: pezzi di carta che quelli che dispongono della forza non hanno sottoscritto Stati Uniti Russia Cina Israele. Le Corti con la loro speranza in fragili grazie, commoventi e inermi, vegliano giorno e notte per fare la guardia a niente. Già ai tempi di Tucidide gli sventurati melii si erano accorti che gli ambasciatori della potente Atene portavano con sé la crudele realtà delle relazioni internazionali: obbedite o sarete resi schiavi. L’accanito demiurgo della restaurazione della età della Forza ha un nome Vladimir Putin. È lui che ha fatto cadere con la brutalità dei realisti e dei cinici quella che ha sempre considerato una quinta di cartone del mondo ben ordinato e obbediente al diritto. Anche io ho la Forza, esigo un posto sul palcoscenico e ve lo dimostro. È curioso che lo definiscano un pazzo, un visionario del male, uno stregone che evoca forze oscure al proprio servizio. È il contrario: un realista spietato, un sacerdote della forza, è l’unico arnese che sa che sa usare. È una grammatica che Trump condivide, con cui trova familiari assonanze: lui che in ogni discorso fa riferimenti storici al periodo in cui gli Stati Uniti applicavano senza ipocrisie un imperialismo brutalmente manifesto. Forse non è vero che metà del territorio americano è stato estorto, oltre che ai nativi, al Messico con una brutale invasione? Con la scusa falsa di difendere aggressivi coloni texani che soffrivano per le angherie messicane. Il meccanismo è identico. A invocare il mondo dei “diritti che danno speranza ai deboli”, come ha detto la presidente della Unione europea Von der Leyen, c’è la piagnucolosa Europa dell’impotenza. Ha omesso di precisare che tra i deboli c’è proprio l’Europa. Con un apologo vagamente volterriano il presidente francese Macron ha individuato nel mondo carnivori ed erbivori invitando gli europei a diventare almeno onnivori per tirare avanti. Non c’è niente di più patetico e umiliante dei carnivori come la Francia che hanno perso le zanne e rimpiangono i sostanziosi banchetti di una volta. Chi è stato più carnivoro degli europei fino a quando ne abbiamo avuto la possibilità? Gaza, il cessate il fuoco a cui nessuno crede di Alessia Melcangi La Stampa, 13 febbraio 2025 La notizia che la tregua a Gaza è a rischio non deve stupire: Netanyahu, in duetto coordinatissimo con Trump, minaccia di riprendere la guerra nella Striscia se, come affermato dal portavoce militare delle Brigate Al-Qassam di Hamas, Abu Obeida, il rilascio degli ostaggi il prossimo sabato verrà sospeso. In realtà, nemmeno un attimo, nemmeno all’inizio, abbiamo avuto la possibilità di nutrire la certezza sulla tenuta dell’accordo, basato principalmente su una evidente necessità umanitaria. Tuttavia, abbiamo deciso di crederci fino all’ultimo secondo. Ci hanno creduto i palestinesi che hanno visto con i loro occhi la Striscia di Gaza ridotta in macerie e migliaia di familiari e amici massacrati dalle bombe israeliane; ci hanno creduto le famiglie dei rapiti il 7 ottobre, brutalmente tenuti in ostaggio da Hamas; ci hanno creduto i mediatori di questa tregua, Egitto, Qatar e la precedente amministrazione americana; ci ha creduto la comunità internazionale che iniziava a interrogarsi sul cosiddetto “post-Gaza”, come se fosse a portata di mano. Ma evidentemente non ci credeva abbastanza Netanyahu, il quale fin dalla firma del cessate il fuoco ha precisato, ripetendolo più volte, che Israele si sarebbe riservato il diritto di tornare ad imbracciare le armi in qualsiasi momento; e nemmeno il presidente Trump, tanto fondamentale per imprimere la spinta finale alla tregua quanto ora per farla franare con il disegno folle della ricostruzione di Gaza, nuova Riviera sul mare del Medio Oriente. E, a guardare bene, ce ne saremmo dovuti accorgere anche noi che la tregua è sempre rimasta appesa a un filo sottilissimo, che in molti sono pronti a recidere. Secondo le accuse di Hamas rivolte al governo israeliano, reo di non aver rispettato i termini della tregua, e confermate da diverse fonti, le autorità di Tel Aviv avrebbe imposto restrizioni agli aiuti umanitari, conducendo, tra l’altro, diverse incursioni nelle zone di confine del Valico di Rafah, ritardando inoltre il ritorno dei palestinesi nella zona settentrionale della Striscia, come abbiamo visto, una fiumana umana vera e propria. I segnali si susseguono: qualche giorno fa, il team negoziale israeliano inviato in Qatar, che avrebbe dovuto discutere sulla seconda fase del sospirato accordo di cessate il fuoco, si è limitato a dibattere ancora solo sullo scambio dei prigionieri. Nessun margine di trattativa e nessun mandato chiaro per la delegazione, anche se ormai siamo vicinissimi allo scadere dei quarantadue giorni previsti dalla prima fase. Gli show di Hamas per il rilascio degli ostaggi, montati ad arte per far saltare i nervi al governo di Tel Aviv e dimostrare di tenere in pugno l’amministrazione della Striscia, hanno di certo concorso a nutrire la propaganda di chi, in Israele, si era mostrato contrario fin da subito alla sospensione della guerra. In ultimo, il piano Trump per Gaza, che ha privato l’accordo di cessate il fuoco del suo scopo finale: il raggiungimento della pace e di una soluzione accettabile e realistica per il “giorno dopo”, per Gaza e la sua gente. Adesso il governo israeliano, mentre richiama i riservisti e l’esercito raduna le forze dentro e intorno alla Striscia, adotta le affermazioni di Trump per rafforzarsi, normalizza l’idea di reinsediare all’estero la popolazione di Gaza, accontentando i membri della coalizione di ultra destra, conduce un’operazione aggressiva in Cisgiordania e, infine, incolpa i palestinesi di essere i responsabili unici e soli del crollo della tregua. E mentre cerchiamo di interpretare tutti questi segnali, sconcertati nell’apprendere che siamo di nuovo ad un passo da una guerra che potrebbe riprendere più efferata e sanguinosa di prima, rischiamo di perdere di vista il problema principale, ossia il boicottaggio costante e continuo dell’opzione tanto citata e altrettanto svuotata di significato di “due popoli due stati”. La soluzione di una convivenza pacifica tra questi due popoli vive ormai solo nell’immaginario ottimista di chi non guarda la realtà di un ipotetico territorio palestinese da comporre tra una Gaza distrutta e una Cisgiordania colonizzata nel tempo dall’espansione illegale delle colonie israeliane che nessuno in Israele vuole fermare. Ma la possibilità di “due popoli due stati” appare adesso come l’ultima frontiera prima del nulla, e noi abbiamo il dovere di non rassegnarci all’idea che i palestinesi siano un popolo sconfitto dalla storia.