Il carcere brucia e noi stiamo a guardare di Claudio Bottan vocididentro.it, 12 febbraio 2025 Qualche mese fa ha scosso tutti la vicenda di Youssef, morto in carcere a San Vittore dove era recluso in attesa di giudizio a soli 18 anni appena compiuti. Seguiva una terapia psichiatrica. Per vizio totale di mente, doveva andare in una comunità terapeutica per essere curato e non in carcere, ma non c’erano posti disponibili. Youssef è morto carbonizzato nel bagno della sua cella dopo che era stato incendiato un materasso. Bisogna ancora capire se l’incendio sia stato innescato come protesta o se sia stato un gesto autolesionista da parte di Youssef. Ma lo sdegno per l’atroce fine di quel ragazzino egiziano che in carcere non ci doveva stare è durato poco, poi si è tornati a parlare di sicurezza e certezza della pena. Eppure le fiamme si alzano spesso nelle nostre prigioni. Per comprendere le dimensioni del fenomeno basta considerare la frequenza con cui le cronache ci raccontano di incendi nelle carceri italiane. Negli ultimi giorni ci sono stati roghi nel carcere minorile di Firenze, con due ragazzi in ospedale, e a Modena dove un 25enne è rimasto gravemente ustionato. Qualche giorno prima è stata la volta di Belluno. Gravemente ustionati, e trasportati in eliambulanza a Padova, due magrebini di 30 e 24 anni detenuti presso la Casa Circondariale Baldenich. I due avevano appiccato un incendio all’interno della loro cella, utilizzando i vestiti, carta e dell’olio. Nell’estate del 2023, invece, un detenuto ha dato fuoco al materasso e ha atteso che il denso fumo lo accompagnasse alla morte. Si è chiusa così la vita di Abdelilah, 35 anni, marocchino. Il cadavere del detenuto viene trovato nel bagno della cella dagli agenti della penitenziaria che, nel tentativo di salvarlo, restano intossicati e sono costretti ad andare in ospedale. Il 3 giugno 1989, undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere Le Vallette di Torino. Morirono in pochi minuti, stordite e soffocate dalle esalazioni letali rilasciate dal rogo di trecento materassi di poliuretano accatastati sotto un portico, appena arrivati per sostituire quelli vecchi utilizzati nelle celle. Una strage che pare non aver insegnato nulla: a distanza di oltre tre decenni il fuoco arde ancora nelle celle nell’indifferenza generale. Bruciano soprattutto gli istituti per minori. Al Quartucciu, in Sardegna, un detenuto ha dato fuoco alla cella e le fiamme sono presto divampate rendendo inagibile tutta la sezione. Non è andata meglio al minorile Malaspina di Palermo dove si sono verificati diversi episodi di protesta e lo scorso ottobre un detenuto che chiedeva di essere portato in ospedale, nonostante il parere negativo del medico, ha dato fuoco a suppellettili, lenzuola e materassi provocando un incendio. A Casal del Marmo, a Roma, gli incendi sono ormai all’ordine del giorno. La dinamica è sempre la stessa: materassi, cuscini, lenzuola e coperte incendiati per protesta, per noia o per follia, usando il fornellino in dotazione come lanciafiamme. All’arrivo in carcere vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta polverosa, bucata e dall’odore sgradevole: il “corredo”. Il cuscino è spesso strappato, mentre il materasso è una striscia di poliuretano dello spessore di pochi centimetri adagiato su una lastra di lamiera forata. Quel fetido pezzo di gommapiuma, impregnato dagli umori dei precedenti inquilini con bruciature di sigaretta, evidenti chiazze di piscio, sangue e vomito, riporta una data di scadenza che normalmente risale a qualche anno prima. Difficile credere che si tratti di materiale ignifugo. D’altra parte, l’Ordinamento penitenziario e il Regolamento di applicazione DPR del 30 giugno 2000 n. 230 non ne fanno cenno se non all’art. 9 al capitolo “vestiario e corredo”, “Per ciascun capo o effetto è prevista la durata d’uso” e ancora “L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati. Se l’anticipato deterioramento è imputabile al detenuto o all’internato, questi è tenuto a risarcire il danno”. C’è sicuramente una antica circolare del Dap che dispone l’acquisto di materassi ignifughi. Da ciò deriva di conseguenza che alla data di scadenza il materasso va sostituito, altrimenti perde parte della proprietà ignifuga. La caratteristica distintiva di un materasso ignifugo è la capacità di auto estinguere la fiamma, prevenendo la rapida propagazione in caso di incendio. Per comprendere meglio questo concetto, immaginiamo un incendio nel quale il materasso della camera di pernottamento è coinvolto: se il materasso è veramente ignifugo, osserveremo il suo sciogliersi lento anziché la fiamma propagarsi. Questo rappresenta chiaramente il segno dell’autoestinguibilità, impedendo la diffusione del fuoco. Un aspetto altrettanto significativo da considerare è l’emissione di fumi. In situazioni di incendio, oltre al rischio del fuoco stesso, si verifica anche il pericolo di respirare gas tossici dannosi per la salute. La normativa impone l’obbligo di utilizzo dei materassi ignifughi certificati per le strutture ricettive con più di 25 posti letto. In genere si pensa ad un obbligo di utilizzo di materassi antincendio che persiste per Hotel e Alberghi ma, in realtà, i letti ignifughi omologati di classe 1IM devono essere obbligatoriamente utilizzati anche dalle strutture di riposo, di comunità, di alloggio come residenze sanitarie, RSA, case famiglia, case di cura, cliniche private, aziende sanitarie, ospedali che abbiano, appunto, più di 25 posti letto disponibili. E le carceri, in perenne condizione di sovraffollamento, non sono forse equiparabili alle strutture ricettive? I detenuti che bruciano le celle per protesta lo sanno che il fumo nero intossica chi lo respira, infatti si coprono la testa con asciugamani bagnati cercando di stare lontani dai materassi; ma le celle sono piccole e quasi mai ci riescono. Quindi: o si intossicano o si ustionano o muoiono. L’intossicazione spesso è denunciata dagli agenti, che intervengono per evitare il propagarsi delle fiamme e lamentano la mancanza di dispositivi di protezione. Ma le carceri, si sa, non sono alberghi. E allora, cosa c’è di strano se le persone detenute vivono in dieci in celle pensate per quattro, se il cibo è insufficiente e scadente, se non ci sono le docce, se manca l’acqua calda, se i cessi sono a vista, se fa un caldo torrido d’estate e un freddo gelido d’inverno? Il progetto dei meloniani: carcere sempre più duro di Andrea Colombo Il Manifesto, 12 febbraio 2025 In politica le parole sono piume. Ma quando si tratta di galera diventano ceppi. “Il 41bis e l’ergastolo ostativo sono imprescindibili” salmodiava un paio di giorni fa la premier Meloni. “Sul carcere duro non si arretra di un millimetro”, s’infervorava il ministro-ombra della Giustizia Andrea Delmastro, quello che se la gode quando i detenuti restano senza aria da respirare e se ne vanta pure. Detto fatto. La commissione antimafia ha iniziato a darsi da fare per irrigidire il carcere duro. Già così la Francia ce lo invidia e s’industria di imitarlo. Figurarsi quando sarà durissimo: il vanto della Nazione. La scusa, pardon l’occasione, è la maxi retata di Palermo: 181 arresti e la prova provata che dal carcere arrivavano chiamate con i cellulari criptati. Non da galeotti in 41bis, per la verità. Ad adoperare i telefoni entrati di contrabbando in cella erano i dannati del girone infernale appena inferiore, il regime d’alta sicurezza: non proprio una tortura (certificata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo) come il 41bis ma pur sempre roba forte. Il salto logico per cui per una falla nell’alta sicurezza si stringono le maglie già soffocanti del carcere duro sfugge ma tant’è. Di fronte alle parole mafia e terrorismo nessuno si formalizzerà. Il guaio è che c’è di mezzo la Corte costituzionale. Nel 2021 la Consulta aveva ordinato di modificare entro un anno l’ergastolo ostativo, art. 4 bis, considerandolo incostituzionale. Era stato necessario sfornare in tutta fretta, nel 2022, una legge che eliminasse “il divieto di concessione dei benefici penitenziari” ai detenuti che non collaborano con la giustizia, cioè che non denunciano qualcuno per provare l’avvenuta redenzione. Paletti e limitazioni di ogni tipo hanno per la verità reso la modifica imposta dalla Corte costituzionale più formale che reale. I 738 carcerati attualmente in regime di massima restrizione continuano in linea di massima ad avere sempre la stessa chiave per aprire la cella. Ma alla maggioranza quello spiraglio di civiltà è sembrato da subito una resa, un cedimento, uno spalancar le porte ai cosiddetti boss e si sa che se uno finisce in quel regime penitenziario è boss per definizione anche se non ha mai dato un ordine in vita sua e persino se, essendo in attesa di giudizio, è dubbio che ne abbia anche solo ricevuti. Ora che la retata regala un alibi il primo obiettivo sarebbe appunto rimangiarsi quella vergogna tornando ai fasti di Guantanamo, oooppssss del 4 bis: chi non parla non esce e poche storie. Certo ci vorrà una certa perizia per aggirare una sentenza della Corte ma qualcosa le teste d’uovo capitanate da Chiara Colosimo, la Sorella che presiede l’Antimafia, cercheranno di inventarsela. Senza fermarsi a questo, ci mancherebbe. Per “attuare un taglio netto e radicale del cordone ombelicale tra detenuti e famiglie criminali di riferimento”, secondo la fiorita prosa della presidente Colosimo, e soprattutto “per evitare pericolose derive interpretative”, cioè per evitare che la legge imposta dalla Consulta venga applicata anche solo per caso ed eccezione, non ci sarà limite alla fantasia perversa del legislatore. Non che la destra al governo di fantasia ne abbia per la verità molta. Qualsiasi sia il nodo da sciogliere la formula è sempre la stessa: più galera, a meno che naturalmente non si tratti di torturatori libici. La differenza sta nel fatto che su tutto il resto l’opposizione qualcosa da pigolare ce l’ha. Quando si arriva al 41 bis e all’ergastolo ostativo invece l’accordo è generale, l’intesa perfetta. Non è bello sapere che qualcosa che unisce la nazione in fondo c’è? Ancora una stretta al 41 bis. La maggioranza prepara una nuova legge sul carcere duro di Federica Olivo huffingtonpost.it, 12 febbraio 2025 L’allarme lanciato dal procuratore nazionale Antimafia Melillo (“Il sistema di alta sicurezza è assoggettato al dominio della criminalità”) trova subito una sponda nel centrodestra. Commissione al lavoro su una norma per ridurre al minimo i benefici. Il 41 bis come precetto “saldo e inamovibile”. È Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, a usare i termini che più degli altri sintetizzano l’arroccamento della maggioranza e del governo sul carcere duro. Che, per la maggioranza e il governo, va difeso. E, se possibile, reso ancora più duro. Per ora lo si blinda a parole - “il 41 bis non si tocca, perché è l’unico strumento che funziona per fermare le comunicazioni dei boss”, è il refrain - ma un’ulteriore stretta potrebbe arrivare attraverso la legge. La Commissione parlamentare antimafia, infatti, ha iniziato degli approfondimenti in tal senso. L’occasione per ribadire la linea del governo sul il regime carcerario istituito negli anni 90 - censurato, per alcuni suoi aspetti, sia della Consulta che della Corte europea dei diritti dell’uomo, che anche la Francia ora ci vuole copiare - è arrivata con una maxi operazione antimafia palermitana. Sono state arrestate, per mafia, 181 persone. Dalle indagini è emerso che alcuni boss comunicavano dal carcere con dei cellulari criptati. Si trattava di soggetti in regime di alta sicurezza. Quel circuito che, cioè, si trova un gradino sotto rispetto al 41 bis. Come spiega l’associazione Antigone, ci finiscono, di default, i detenuti condannati per mafia, terrorismo, organizzazione del traffico di droga, che non siano ritenuti così pericolosi da meritare l’isolamento e le varie limitazioni imposte dal 41 bis, ma che sono siano considerati più pericolosi dei detenuti comuni. E, quindi, soggetti a regole più stringenti. Regole che, secondo il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, ultimamente spesso vengono bucate: “Da questa straordinaria indagine della Procura di Palermo viene fuori un dato allarmante: l’estrema debolezza del circuito penitenziario di alta sicurezza che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis”, ha dichiarato il vertice dell’antimafia. “L’inchiesta di Palermo mostra chiaramente, confermando quanto emerso in altri contesti investigativi, che il sistema di alta sicurezza è assoggettato al dominio della criminalità. È un tema delicato che deve aprire una riflessione profonda”, ha aggiunto. Un assist al governo per spingere ancora di più sul 41 bis, al quale ora sono ristrette circa 730 persone. E per puntare un faro sulle falle dell’alta sicurezza. L’invito alla “riflessione profonda” è stato colto, come accennavamo, dalla Commissione parlamentare antimafia, che sta riflettendo sulla possibilità di proporre modifiche alla legge. “L’obiettivo - ci spiega una fonte della Commissione - è quello di verificare lo stato di attuazione del 41 bis e del 4 bis”. Quest’ultimo articolo riguarda i cosiddetti reati ostativi. Quelli che, cioè, impediscono al detenuto di avere benefici (permessi premio ecc) a meno che non si pentano. Non diventino, cioè, collaboratori di giustizia. Questo meccanismo - in particolare in riferimento all’ergastolo ostativo - era stato messo in discussione dalla Corte costituzionale. La Consulta, infatti, aveva detto che se il Parlamento non fosse intervenuto entro un anno, avrebbe dovuto dichiarare l’ergastolo ostativo incostituzionale. Le Camere avevano risposto nel 2022, cambiando la legge. Ed è proprio su quella legge che, spiegano dalla Commissione antimafia, sarà messo un faro. Alla maggioranza, del resto, quel provvedimento non era mai piaciuto, perché - nonostante preveda criteri ben precisi e numerosi paletti - è considerato una sorta di liberi tutti. E ora, complici i fatti di cronaca degli ultimi giorni, vorrebbe metterci le mani. Non sfugge, però, ai commissari che intervenire su un tema su cui si è già espressa con chiarezza la Consulta è molto complicato. Ed è per questo che un testo ancora non c’è. Se sarà disposto, avverrà solo dopo un ciclo di audizioni. Una di queste è già in programma: il giornalista di Repubblica, Salvo Palazzolo, sarà sentito domani, 12 febbraio. Sul tema la premier, Giorgia Meloni, è intervenuta due volte in 24 ore: “Ho letto le intercettazioni - ha dichiarato - in cui alcuni boss si scagliano contro di me e il Governo italiano per non aver allentato il carcere duro ai mafiosi. Un’ulteriore conferma che siamo sulla strada giusta. Il nostro impegno nella lotta alla mafia è totale. Il 41 bis e l’ergastolo ostativo restano capisaldi imprescindibili. Nessun cedimento alla criminalità organizzata finché saremo noi a governare l’Italia”. La tesi della premier e di tutto il governo è: il 41 bis è l’unica misura davvero efficace per far sì che i boss smettano di comandare. Gli arresti di oggi ne sarebbero una dimostrazione. Di fronte a questo quadro - condiviso anche dai vertici dell’antimafia - i rilievi di tipo umanitario e quelli sul fatto che i detenuti al carcere duro sono in continuo aumento nonostante la mafia non sia più quella di 40 anni 30 anni fa passano in secondo piano. Dopo aver saputo della maxioperazione di oggi la premier è intervenuta di nuovo: “Lo Stato c’è e non arretra”, scrive, ricordando che i mafiosi arrestati dicevano, nelle intercettazioni, che l’Italia era diventata scomoda per loro. La linea di Meloni è ribadita da vari esponenti della maggioranza. Per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro siamo di fronte all’ “ennesima riprova che sul carcere duro non bisogna indietreggiare di un millimetro. Ogni cedimento è un favore alla mafia. Il 41 bis resta e resterà”. L’altro sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, osserva: “A chi chiede di attenuare o eliminare il regime 41 bis rispondiamo con un secco no. Alla prova dei fatti, il cosiddetto ‘carcere duro’ dimostra la sua irrinunciabile utilità. Mafiosi e terroristi sono avvisati”. Carceri ostaggio dei clan. Verso la stretta del 41 bis di Felice Manti Il Giornale, 12 febbraio 2025 Allo studio norme per recidere i rapporti tra reclusi e familiari. La criminalità organizzata fa il bello e il cattivo tempo in carcere, anche nei reparti “ad alta sicurezza” che sono assoggettati al suo dominio. È il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo a sganciare la bomba di buon mattino, parlando “dell’estrema debolezza del circuito penitenziario che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi” che non sono al 41 bis. “È un tema delicato che deve aprire una riflessione profonda”, ha aggiunto il magistrato. L’inchiesta di Palermo dimostra ciò che in tanti hanno sempre sostenuto: il carcere non rieduca, non ha sufficiente effetto deterrente anzi è diventato il luogo dove affiliare nuove leve. Se i penitenziari sono permeabili all’esterno, il potere delle consorterie criminali non viene scalfito, anzi. Lo si capisce anche dal fatto che, come hanno rivelato le indagini della Dda di Palermo, l’obbligo di mantenimento degli affiliati dietro le sbarre è costoso ma cruciale per non perdere credibilità, anche se qualche capomafia protesta per le pretese dei familiari dei carcerati, considerate eccessive. “La necessità di recidere il legame tra i soggetti detenuti ed i sodali in libertà rimane di primaria importanza”, sottolinea il presidente della commissione Antimafia, che sta lavorando a una stretta sui regimi carcerari più duri, come il 41bis, renderne più coercitiva l’applicazione, con modifiche normative anche sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, vale a dire ripristinare il divieto - eliminato nel 2022 - di concedere benefici ai detenuti considerati ad alta pericolosità sociale che non collaborano con la giustizia “per attuare un taglio netto e radicale di quel cordone ombelicale tra detenuti e famiglie criminali di riferimento e per evitare pericolose derive interpretative che possano condurre nuovamente a situazioni analoghe”, sottolinea la Colosimo, critica con la decisione dei giorni scorsi del tribunale di Sorveglianza di Roma di revocare la proroga del carcere duro per Giovanni Riina, il figlio dell’ex capo di Cosa Nostra arrestato nel 1996 al 41bis dal 2002. La conferma del carcere duro resta la priorità della maggioranza ed è un segnale preciso ai boss, che nei giorni scorsi hanno manifestato la loro insofferenza per questa misura, con alcune intercettazioni in cui alcuni boss si sono scagliati contro il premier Giorgia Meloni, che ancora ieri ha ribadito ai suoi: nessun cedimento. Ma il cuore del problema resta la capacità dei boss di far entrare in carcere criptofonini e cellulari mini nei circuiti considerati un gradino sotto il 41bis. “Il sistema penitenziario non risponde più a nessuno degli scopi assegnati alla pena detentiva dall’ordinamento, a partire dalla Legge fondamentale dello Stato”, dice Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa Polizia Penitenziaria, nonostante lo sforzo di chi si sobbarca turni massacranti per colpa della mancanza di turn over del personale. Come risolvere questa criticità? Secondo fonti del Dap contattate del Giornale il problema sollevato dall’inchiesta di Palermo è in cima alle priorità dell’amministrazione penitenziaria. “Sono state intensificare le perquisizioni quotidiane, con un sostanziale aumento di rinvenimento di cellulari, sostanze stupefacenti e oggetti non consentiti”, ci dice off the record un funzionario del Dap. L’amministrazione penitenziaria lavora anche a rafforzare la vigilanza sulla corrispondenza e i colloqui, con costosi sistemi anti drone fisso o mobile (ci sono già 37 istituti equipaggiati, per una decina sono in corso le procedure di affidamento), altri istituti hanno jammer mobili che impediscono le comunicazioni con l’esterno, difficili da collocare quando il carcere è vicino a zone abitate come a Milano o a Napoli e sono stati distribuiti quasi 6mila dispositivi mobili tra jammer, metal detector manuali e a portale e dispositivi per il controllo pacchi a raggi X. Ma allora come ha fatto la mafia a eludere questi controlli? Nuove regole carcerarie: il diritto all’intimità coniugale per i detenuti di Elisabetta Cina gaeta.it, 12 febbraio 2025 Una sentenza del tribunale di Reggio Emilia consente ai detenuti italiani di avere incontri intimi con le mogli, promuovendo il rispetto della dignità umana e il diritto alla vita privata. La recente sentenza del magistrato di sorveglianza del tribunale di Reggio Emilia ha segnato un cambiamento significativo nel trattamento dei detenuti, aprendo la strada a un nuovo diritto: la possibilità di avere rapporti intimi con le proprie mogli nei penitenziari italiani. Questa innovativa decisione risponde alla richiesta di garantire la riservatezza e il rispetto della dimensione affettiva per i coniugi, anche all’interno delle mura carcerarie. Secondo la sentenza emessa il 7 febbraio, ogni detenuto ha il diritto di richiedere un incontro privato con la propria moglie, noto come “camera dell’amore”. La direzione del carcere ha 60 giorni per allestire uno spazio dedicato che permetta ai coniugi di ritrovarsi in un contesto di intimità, promotore del benessere psicologico e relazionale. La decisione si basa su un principio già affrontato dalla Corte Costituzionale nel gennaio 2024, riguardante i diritti degli sposi e dei partner in unione civile. L’idea centrale è che i sentimenti non possano essere repressi, nemmeno per chi sta scontando una pena. Il magistrato di sorveglianza, Elena Bianchi, ha sottolineato che le effusioni amorose rientrano nel diritto alla vita privata e familiare dei detenuti, sancito nella Carta Costituzionale. È chiaro che così facendo si ridefinisce la concezione della detenzione, trasformando il carcere in un luogo che non possa cancellare il legame affettivo con il mondo esterno. La battaglia di un detenuto - Il caso che ha portato a queste nuove disposizioni coinvolge un noto camorrista 44enne, attualmente detenuto nel carcere di Parma. Questo uomo, con legami con il clan dei Casalesi, ha intrapreso una lunga lotta legale per ottenere un diritto che, fino ad ora, sembrava impossibile da raggiungere. Affiancato dall’avvocato Pina Di Credico, ha presentato una richiesta basata sul diritto costituzionale di non ricevere una pena disumana. Il camorrista ha già un curriculum penale significativo ed è vicino a figure importanti della criminalità organizzata. Nonostante il suo passato, la sentenza ha trovato fondamento nella necessità di garantire la dignità umana, un principio che va al di là del crimine stesso. Con la nuova regolamentazione, le relazioni affettive possono splendere anche in un ambiente che spesso è sinonimo di isolamento e durezza. I fondamenti costituzionali del diritto all’affetto - L’assegnazione di spazi dedicati agli incontri intimi è giustificata dal principio di umanità stabilito nell’articolo 27 della Costituzione italiana. Questo articolo, che tratta della pena, afferma il valore della dignità umana e il rispetto dei diritti anche nei luoghi di detenzione. L’idea è che le pene non possano mai trasformarsi in torture fisiche o psicologiche. I padri costituenti, appartenenti a un’epoca storica distante, hanno dovuto confrontarsi con scelte che riflettevano i valori e le necessità sociali del tempo. Oggi, l’inclusione di aspetti relazionali e affettivi è un tema cruciale, che evidenzia come il miglioramento delle condizioni carcerarie non riguardi solo la sicurezza, ma anche il recupero del detenuto come persona, capace di amare e di ricevere amore. Le madri costituenti, che hanno lottato per i diritti delle donne, potrebbero aver intravisto un’evoluzione in questo settore. Questa sentenza rappresenta un importante passo verso un sistema carcerario che presti attenzione non solo alla punizione, ma anche alla riabilitazione e al rispetto delle relazioni umane fondamentali. L’ennesima riforma inadeguata ai problemi della giustizia di Pino Corrias Vanity Fair, 12 febbraio 2025 La giustizia rallenta o corre sui binari della politica. Sebbene trasportino il destino di milioni di uomini e donne i processi in Italia viaggiano molto peggio dei treni pendolari: cinque anni la durata media di un processo penale, otto quella di una causa civile. A buttare sassi sui codici ci pensano da una trentina d’anni i macchinisti dei partiti, dopo essersi scottati le dita e l’onore durante il grande ingorgo della corruzione che celebrò il biennio di Mani pulite, 2.500 indagati, 1.408 condanne. Persa l’immunità parlamentare a furor di popolo nell’anno 1993, tutti i governi e tutti i partiti hanno messo in cantiere riforme più o meno radicali, fasulle o estemporanee degli ingranaggi della giustizia, con la curiosa determinazione di finanziarle al minimo, sempre additando i magistrati al pubblico disdoro come membri di una casta di privilegiati che esercita un potere smisurato sulle libere funzioni e prerogative della politica. Oltreché inebriata dal proprio potere, protetto dall’autonomia stabilita dalla Costituzione italiana quando recita: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. La controprova è che da allora i processi non sono stati accelerati né di un giorno né di un’ora. Anzi. È aumentato, se possibile, il numero dei reati, oltre al peso degli arretrati che nessun tribunale riesce più a smaltire - 500 in media i procedimenti a carico di ogni giudice con punte di 2 mila - perché mancano uomini, sedi, personale amministrativo, e in certi tribunali persino computer e fotocopiatrici. A gennaio è andato in crash l’intero sistema informatico nel momento in cui è diventata operativa la pasticciatissima riforma del processo telematico che avrebbe dovuto abolire la carta, l’inchiostro e persino la polvere dagli scaffali. A questo giro è tornata in auge la separazione delle carriere tra i pubblici ministeri e i giudici che come al solito non ha nulla a che fare con la rapidità dei processi, serve semmai a regolare i conti con i titolari delle inchieste, come a suo tempo si augurava Silvio Berlusconi - e prima di lui Licio Gelli nel suo Piano di rinascita democratica - ogni qualvolta identificava i suoi propri inquirenti come “toghe rosse” mosse da finalità politica. Riforma diventata vera al suo primo passaggio in Aula, le truppe della destra di governo schierate a difenderla in nome di “un riequilibrio tra accusa e difesa”. Quelle dell’opposizione schierate contro, a prevedere il passo successivo della riforma, il controllo politico delle procure da parte del ministero della Giustizia, dunque del governo. Che diventerebbe, a ogni inizio di anno giudiziario, il titolare degli indirizzi investigativi, privilegiando (metti caso) tutti i reati tranne quelli dei colletti bianchi, che riguardino gli ingranaggi del potere. E dunque caccia aperta ai rave party, alle borseggiatrici delle metropolitane, un po’ meno ai torturatori di migranti, se titolari di accordi segreti con il nostro governo, da rimpatriare senza impicci con un volo di Stato. “Dall’Associazione nazionale magistrati solo aut aut, ma noi pronti al dialogo”. Parla Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 febbraio 2025 “L’esordio del nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati non è stato certamente dei migliori. Nel momento in cui la premessa del dialogo è ‘revochiamo lo sciopero se ritirate la riforma’ si è di fronte a un aut aut che vìola quanto previsto dall’articolo 101 della Costituzione, secondo cui il Parlamento scrive le leggi e i giudici le applicano”. Lo dice al Foglio il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “A questo si aggiunge quanto riferito ieri dal Foglio, secondo cui la richiesta di dialogo del presidente Parodi sarebbe solamente un escamotage per garantire un migliore risultato per lo sciopero del 27 febbraio. Se questo fosse vero, come risulterebbe anche dalla registrazione di Radio Radicale, sarebbe un dialogo di gusto assai discutibile”. Il viceministro Sisto si riferisce alle parole, riportate ieri sul nostro giornale, espresse da Cesare Parodi durante la lunga assemblea dell’Anm di sabato scorso che lo ha portato a essere eletto nuovo presidente del sindacato delle toghe. “Sono disponibile a revocare lo sciopero se il governo ritira tutta la riforma”, ha detto Parodi, aggiungendo: “Io non tratto su nulla ma vorrei chiedere un incontro e spiegare la nostra posizione, anche se sarà inutile. Per dire che è stato assolutamente inutile. Per fare in modo poi che a quel punto molti più colleghi potranno scioperare. Potremo dire: ‘Abbiamo persino provato a parlare’”. Insomma, l’incontro auspicato da Parodi (esponente di Magistratura indipendente) non sarebbe affatto orientato al dialogo, vista la chiusura a qualsiasi trattativa e qualsiasi passo indietro, bensì finalizzato soltanto a essere usato per fini interni, per dare risalto alla volontà del governo di andare fino in fondo con la riforma e così cercare di convincere i magistrati ad aderire allo sciopero contro la riforma già proclamato dall’Anm per il prossimo 27 febbraio. “Il dialogo richiesto sarebbe finalizzato semplicemente all’incremento del numero di coloro che parteciperanno all’astensione? Credo, se fosse vero, che la leale collaborazione fra le istituzioni debba marciare su ben altri binari, che non possono che essere il rispetto delle regole costituzionali, buona fede inclusa”, afferma il viceministro Sisto. “Un corollario non secondario di tutta la questione - prosegue Sisto - è che ora non è neanche più il governo l’interlocutore a cui rivolgersi per discutere della riforma, ma il Parlamento. Il provvedimento, dopo la prima approvazione alla Camera, è in corso di esame al Senato, di conseguenza ogni proposta deve essere trasformata in emendamenti e in questa veste presentata in commissione o in Aula”. Per il momento di proposte non ne sono arrivate. Allo stato, l’unica proposta, se così si può definire, giunta dall’Anm è quella di ritirare l’intera riforma. “Ad oggi , più che a proposte siamo di fronte a delle pretese”, conferma il viceministro della Giustizia, che poi ricorda: “La separazione delle carriere era nel nostro programma elettorale, siamo stati votati anche per questi contenuti e abbiamo l’obbligo di realizzarli. Il nostro è un rapporto di diretta rappresentanza dei cittadini, a differenza dei magistrati che si limitano, per concorso, a emettere sentenze in nome del popolo italiano”. “Ripeto: l’Anm può ben rappresentare le sue idee su eventuali modifiche del testo, poi queste saranno valutate in Parlamento”, dice Sisto, sottolineando che in commissione Affari costituzionali del Senato i vari gruppi hanno già formulato le richieste di audizione degli esperti sulla riforma costituzionale. Tra questi è stato indicato anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che quindi avrà la possibilità di avanzare le sue proposte di modifica del provvedimento in sede parlamentare. “Ha ragione Antonio Tajani: è bene, addirittura salvifico, che il dialogo ci sia, ma bisogna intendersi sulle modalità del confronto e anche sulla buona fede di ciascuna parte”, prosegue Sisto. “Mi auguro che con l’Anm si possa intavolare un dialogo anche su altri temi oltre alla separazione delle carriere, e che la nuova presidenza dell’Anm possa consentire che le interlocuzioni istituzionali siano più efficaci e soprattutto senza pregiudizi”, conclude il viceministro della Giustizia. Intercettazioni: avanti tutta con la riforma dei 45 giorni di Valentina Stella Il Dubbio, 12 febbraio 2025 La maggioranza tira dritto e non fa alcuno sconto in merito alla riforma delle intercettazioni. Se da un lato dunque si sta aprendo un possibile dialogo con l’Anm sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, contemporaneamente i partiti di governo non arretrano sulla modifica delle intercettazioni, rispetto alla quale il “sindacato” delle toghe, con l’ex presidente Giuseppe Santalucia e il pubblico ministero Enrico Infante, si era espressa in maniera molto critica, sostenendo che molte indagini sarebbero state buttate al macero, lasciando i colpevoli in libertà. Infatti secondo le toghe ci sono tantissimi reati per cui gli elementi di prova sono emersi ben dopo i 45 giorni, e sono emersi soltanto grazie alle intercettazioni. Ma vediamo nel dettaglio. Alla apertura del presidente della Commissione affari costituzionali Alberto Balboni (Fratelli d’Italia) che sul ddl Nordio ha dichiarato “nella vita non c’è nulla che non possa essere modificato. Quindi la risposta è certamente sì che si possono apportare dei cambiamenti. E io da presidente accolgo sempre con favore le proposte costruttive” si è aggiunta anche quella del vicepremier Antonio Tajani. Parlando alla riunione della segreteria nazionale di Forza Italia ha dichiarato infatti: “Ho apprezzato le parole del nuovo presidente dell’Anm, io credo che la volontà di dialogo deve essere accolta”. Tuttavia ieri in Commissione giustizia della Camera è stato avviato l’iter di esame degli emendamenti alla proposta di legge “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”. La norma, a prima firma del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, è già stata approvata a Palazzo Madama lo scorso 9 ottobre, con i voti della maggioranza e di IV. Al momento né il regime ordinario (267, comma 3, cpp durata massima delle operazioni di 15 giorni, prorogabili per periodi successivi di 15 giorni) né il regime speciale (reati di criminalità organizzata) delle intercettazioni prevedono un limite massimo di durata delle intercettazioni; limite che la proposta di legge in esame introduce, invece, in rapporto al solo regime ordinario. Si compone, infatti, di un solo articolo per cui “le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. A presentare emendamenti solo i gruppi di opposizioni, la maggior parte dei quali soppressivi. Tutti hanno ricevuto il parere negativo del governo e dei relatori Carolina Varchi (Fratelli d’Italia) e Tommaso Calderone (Forza Italia). Il testo è atteso in aula lunedì 17 per la discussione generale. Secondo la responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani, le deroghe sarebbero dovute essere previste “in modo chirurgico”, invece il ddl “non copre gran parte delle fattispecie di reati gravi e seri” che “spesso si nascondono dietro fatti che non da subito possono essere individuati tra quelli per cui il ddl prevede la deroga”. “Avremmo volentieri aperto un confronto sulla durata delle intercettazioni - ha detto Serracchiani - ma qui non si tratta di un limite ma di una vera e propria tagliola. Siamo contrari - ha insistito la deputata dem - a questa che è stata definita da voci trasversali della magistratura un’iniziativa che mette a rischio indagini importanti”. Polemica anche dal capogruppo di AVS nella commissione Giustizia della Camera Devis Dori: “Oggi (ieri, ndr) esponenti del governo si riempiono la bocca con parole come “lotta alla mafia”, “lotta ai boss”, però in commissione vanno avanti con il loro progetto di limitare la durata complessiva delle intercettazioni”. Come ci ha spiegato, invece, proprio il deputato forzista Tommaso Calderone “si tratta di un provvedimento già approvato al Senato, dove sono state svolte delle audizioni. Abbiamo seguito lo stesso iter qui, abbiamo ascoltato tutti gli attori interessati alla materia, compresa l’Anm, ma come già ribadito circa altri temi le decisioni alla fine le prende il Parlamento. E noi siamo molto convinti dell’importanza di questa riforma e della necessità di approvarla quanto prima, senza per questo indebolire il contrasto alla criminalità organizzata, come è evidente leggendo la proposta di legge. Con questa legge si eviteranno motivazioni con i prestampati e intercettazioni esplorative. Il giudice prorogherà il termine in presenza di elementi specifici e concreti come è giusto che sia”. Come concordato in un vertice di maggioranza a via Arenula a fine ottobre, la disciplina non si applicherà ai reati di Codice Rosso, così come già avviene per i reati di mafia e terrorismo. Nel momento in cui scriviamo sono stati respinti un terzo degli emendamenti. La discussione dovrebbe riprendere dopo la seduta d’Aula e prevedere quindi una notturna. Ma la direzione, come anticipato, è quella di tirare dritti senza spazi di apertura per le richieste della minoranza. Quanto vale il diritto di difesa? 4 euro all’ora di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 febbraio 2025 Da 23 anni tutti i ministri della Giustizia sono inadempienti rispetto all’adottare il decreto dirigenziale per l’adeguamento periodico degli onorari di “periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori”. Tutti a concionare di diritto di difesa, equo processo e garanzie fondamentali, di solito però quando servono a giustificare qualche nuova proposta di legge che favorisca determinate categorie di indagati nella politica, alta burocrazia e grande imprenditoria. In compenso da 23 anni tutti i ministri della Giustizia sono inadempienti rispetto all’adottare il decreto dirigenziale (pur previsto da una legge del 2002 di concerto con il ministero dell’Economia) per l’adeguamento periodico degli onorari di “periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori” nell’attività giudiziaria, risalenti in origine al 1980. Le allora 10.000 lire per le prime due ore di lavoro (“vacazione”), riducibili a 5.000 lire per le successive, ad oggi sono appena 14,68 euro per la prima vacazione di due ore, e (per contenere i costi) 8,15 euro per le successive vacazioni di due ore, quando cioè un’ora di lavoro del consulente del giudice finisce per essere retribuita di fatto con 4 euro (raddoppiabili solo per ragioni di urgenza). Il risultato pratico lo si constata ad esempio nella bolgia dei processi per direttissima: i giudici fanno fatica a trovare professionisti disposti a lavorare per questa miseria di compensi, incomparabili con le tariffe di mercato, e quei pochi non sono sempre adeguati alla responsabilità che hanno, nel momento in cui dalla rappresentazione corretta di quello che ad esempio stia dichiarando un imputato straniero dipende in larga parte la sua sorte giudiziaria. E così ora è toccato intervenire ancora alla Corte Costituzionale, che addirittura già nel 1996 additava il “deplorevole inadempimento” e che adesso su ricorso di un giudice di Firenze dichiara l’illegittimità costituzionale (per irragionevolezza) della legge del 1980 nella parte in cui riduce la paga delle vacazioni successive alla prima già modesta. E fischiano di nuovo anche le orecchie del ministero, dove da dicembre 2023 è istituita una Commissione per la rideterminazione degli onorari. Ma Cafiero de Raho pensa davvero che sia giusto punire gli innocenti? di Errico Novi Il Dubbio, 12 febbraio 2025 L’ex capo della Dna: l’Esecutivo convinca in giudici europei a non tutelare chi s’è visto portare via i beni prima del processo. C’è poco da fare. La magistratura antimafia non si rassegna all’idea di dover ottenere prima una condanna, per poter vedere poi inflitta una pena. È un rifiuto ideologico comune a gran parte dei pubblici ministeri italiani che ricorrono alle misure di prevenzione previste dal Codice (“al secolo” il decreto legislativo 159 del 2011). Pm i quali pensano che la loro missione valga bene anche un’ingiustizia, inclusa la pena, per esempio la confisca di ogni bene, inflitta a un innocente. Non si rende conto, la magistratura antimafia, di porsi sullo stesso piano dell’agente dei Servizi che in un sottovalutato film italiano del 2007, “Notturno bus”, dopo aver fatto fuori l’ennesimo malcapitato che non c’entrava nulla, dice al collega: “Che dici, questo ce lo passano come vittima necessaria?”. Una vittima necessaria: ecco cosa temiamo rappresentino, per alcuni magistrati, i fratelli Cavallotti. Non riusciamo a credere che possa pensarla così anche una persona perbene come Federico Cafiero de Raho, già procuratore nazionale Antimafia e oggi deputato 5 Stelle. Non può essere questo il senso dell’interrogazione a risposta scritta (la numero 4/ 02282) che de Raho ha presentato, il 6 febbraio dello scorso anno, a Presidenza del Consiglio e ministro della Giustizia, e in cui dice, sostanzialmente: sappiamo che è in corso, davanti alla Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, una causa che vede contrapposti lo Stato italiano e “alcuni imprenditori siciliani nel settore del gas (i fratelli Cavallotti)” che si erano visti confiscati tutti i loro beni (incluse le case in cui abitavano, nota dell’articolista) e che vennero poi assolti, nel vero e proprio processo penale, dalle stesse accuse poste alla base delle confische. Si sa pure - è il senso del discorso di de Raho, corroborato dal sostegno di metà gruppo parlamentare dei 5S alla Camera - che se i Cavallotti vedessero riconosciuto, dalla Corte di Strasburgo, il loro diritto a ottenere almeno un risarcimento, verrebbe di fatto sancito che non è giusto confiscare beni agli innocenti, laddove confiscare beni personali a prescindere dalla colpevolezza è necessario, oppure cade il “pilastro del contrasto delle mafie in Italia e in Europa”. Conclusione del discorso: tu, caro governo, devi “assumere presso le debite sedi del Consiglio d’Europa (a cui afferisce la Cedu, nda) tutte le possibili “iniziative” per fare in modo che i Cavallotti perdano la causa. Dal punto di vista di de Raho è dunque insignificante la circostanza per cui a questi fratelli - divenuti, insieme col giovane Pietro e gli altri Cavallotti della “seconda generazione”, il simbolo delle abnormità consumate in nome della lotta alla mafia - sia stata inflitta una pena, la perdita di ogni bene, a fronte di un’innocenza definitivamente accertata. È vero: se i giudici di Strasburgo comprendessero che così stanno le cose, è probabile che impediranno, alla magistratura italiana, di utilizzare ancora le misure di prevenzione antimafia con la stessa disinvoltura finora consentita. E quindi, cari Cavallotti, anche da queste colonne dobbiamo dirvelo: siete carne da macello. Dovete perdere. Se no le confische agli innocenti non si possono fare più. Avete sofferto? Sì. Ma vale sempre il discorso dello 007 interpretato da Pannofino in “Notturno bus”: siete vittime necessarie. A breve la Cedu dovrà decidere se un simile modo di ragionare strida davvero così tanto con i diritti umani, con la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, per essere precisi. In tutto questo il governo, per voce del ministero della Giustizia, ha risposto all’interrogazione di de Raho, il 1° luglio dello scorso anno, in modo sorprendente, con una replica formale che suona più o meno così: non vi preoccupate, assolti o meno che furono, li faremo perdere, i Cavallotti. E perché? Perché il dicastero guidato da Carlo Nordio sostiene che i beni dei fratelli di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, sarebbero comunque contaminati da non meglio dimostrate “appartenenze” alla mafia. In realtà il processo penale vero, durato 15 anni, ha stabilito che non è vero, che i Cavallotti, semplicemente, furono costretti a pagare il pizzo, e che in una per loro fatale intercettazione, Provenzano parlava di quanto fosse urgente la “messa a posto” della loro azienda nel senso, tipico del gergo mafioso, e cioè che bisognava andare a imporre loro il pizzo. Vittime due volte: della mafia che li taglieggiava e dello Stato che, anziché proteggerli dai mafiosi sanguinari e parassiti, ha confiscato loro ogni bene. L’avvocato che difende i Cavallotti a Strasburgo, Baldassarre Lauria, ieri ha diffuso una nota esterrefatta: l’interrogazione dei 5 Stelle, ha detto, “è un vero e proprio tentativo di interferenza nella giurisdizione indipendente della Corte europea”, un “attacco allo stesso Stato di diritto”, e manifesta “intolleranza ai diritti delle persone”, al punto da minare “le basi della democrazia”. Se avesse potuto, Fabrizio De André ci avrebbe regalato strofe bellissime, su questa storia. C’è da augurarsi che la Cedu, pur senza ambizioni poetiche, scriva semplicemente la verità. Caso Almasri, al via l’indagine su Nordio: il Tribunale dei ministri acquisisce le carte di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 febbraio 2025 Il Tribunale dei ministri avvia l’indagine per omissione d’atti d’ufficio. E acquisisce gli atti. L’opposizione: sfiducia. Il Tribunale dei ministri ha mosso i primi passi nell’indagine sulla scarcerazione del generale libico Najeem Osama Almasri, partendo dal ministero della Giustizia. Alla Direzione che si occupa degli affari internazionali le tre giudici che compongono il collegio hanno inviato un ordine di esibizione di atti chiedendo copia di tutto il carteggio relativo al detenuto arrestato dalla polizia - su mandato della Corte penale internazionale - all’alba di domenica 19 gennaio e liberato dalla Corte d’Appello di Roma la sera di martedì 21 gennaio. Con il silenzio-assenso del Guardasigilli Carlo Nordio, che nonostante le interlocuzioni interne al suo dicastero e le sollecitazioni della Procura generale ha ritenuto di non fare nulla per trattenere il detenuto ricercato dalla Cpi che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Per questo Nordio è indagato per una presunta omissione d’atti d’ufficio, ipotizzata dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi quando ha trasmesso al Tribunale dei ministri l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti che ha denunciato lo stesso Guardasigilli, insieme alla premier Giorgia Meloni, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e al sottosegretario Alfredo Mantovano per favoreggiamento e peculato. Analoga richiesta del collegio per i reati ministeriali è stata inoltrata alla Corte d’Appello e alla Procura generale della Capitale, per acquisire i provvedimenti relativi ad Almasri e le note con cui il pg aveva sollecitato Nordio a comunicare le proprie “determinazioni” in relazione a un arresto che, secondo l’interpretazione dei magistrati romani, aveva bisogno dell’avallo ministeriale per essere mantenuto. La bozza ignorata - In assenza di quell’autorizzazione la Corte, su parere conforme del pg, ha dichiarato il “non luogo a provvedere” e l’immediata scarcerazione del detenuto. Poi rimpatriato con un volo dell’Aeronautica militare italiana. Tra le carte trasmesse dal ministero di via Arenula (sebbene fonti vicine al Guardasigilli neghino anche l’arrivo della richiesta) c’è pure la bozza del provvedimento preparata dagli uffici tecnici con il quale il Guardasigilli avrebbe potuto rimediare alla “irritualità” dell’arresto di Almasri segnalata dai magistrati romani e confermare la detenzione del ricercato. Secondo la loro interpretazione, infatti, l’ordine della Cpi sarebbe dovuto passare, prima di essere eseguito, proprio dal ministero della Giustizia, al quale la legge affida “in via esclusiva i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte”. Ma in questo caso dopo l’invio del provvedimento all’ambasciata italiana all’Aia (dove ha sede la Cpi) e l’inserimento del nome del ricercato nei terminali dell’Interpol, non era arrivato il “via libera” del Guardasigilli; una irregolarità che secondo i giudici romani impediva la convalida della cattura eseguita dalla polizia. Ipotesi di reato - Gli uffici ministeriali, tuttavia, avevano predisposto per il ministro un atto urgente che dava conto della procedura anomala e sanava l’errore procedurale emettendo di fatto un nuovo ordine d’arresto che potesse tenere in carcere il generale libico per la successiva consegna alla Corte dell’Aia. Ma Nordio non ha voluto tenerne conto e ha scelto di non rispondere al pg che attendeva sue notizie. Determinando così la liberazione del ricercato. Di qui l’ipotesi di omissioni di atti d’ufficio, immaginando che - al contrario di quanto avvenuto - il ministro avesse avuto l’obbligo di rispondere alle istanze ricevute. Eventualità che Nordio ha respinto durante la sua informativa al Parlamento, spiegando di aver compiuto valutazioni politiche e giuridiche che l’hanno portato a non dare seguito al mandato d’arresto giunto dall’Aia. Per il ministro quell’atto era viziato da ben altri errori, a partire dalla confusione sulle date nelle quali Almasri avrebbe commesso i reati di cui è accusato, e per questo lo ha ritenuto nullo. L’eventuale rilievo penale del comportamento di Nordio sarà valutato ora dal Tribunale dei ministri, che entro la fine di aprile dovrà decidere se archiviare il caso o inoltrare la richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera dei deputati. Sempre tramite il procuratore di Roma che inviando la denuncia dell’avvocato Li Gotti (integrata dall’omissione d’atti d’ufficio) ha dato il via all’indagine. Le richieste di Lo Voi - Quando ha scritto al collegio per i reati ministeriali, Lo Voi ha indicato una serie di atti che a suo avviso era necessario compiere prima di decidere sulla fondatezza dei presunti reati. Preclusi alla Procura. E si può immaginare che tra questi ci fossero anche le acquisizioni di documenti ordinate dal Tribunale. Indicazioni che, secondo il procuratore, rientravano nella fisiologia di un atto “obbligatorio”, anche in vista di una eventuale archiviazione del procedimento, e che invece ha scatenato forti attacchi nei suoi confronti da parte della maggioranza di governo. Caso Almasri. Sfiducia a Nordio, l’ultima mossa delle opposizioni di Rocco Vazzana Il Manifesto, 12 febbraio 2025 Il testo promosso da Pd, M5S, Avs e +Europa. Si sfila solo Calenda: “Iniziativa inutile”. Meloni chiede di abbassare i toni e Via Arenula conferma l’invio di una lettera alla Cpi. Tenere alta l’attenzione sul caso Elmasry per impedire al governo di uscire dall’imbarazzo internazionale con la Corte dell’Aja. Sembra questa l’unica ratio dietro l’iniziativa annunciata dalle opposizioni: una mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Perché, in assenza di idee migliori, è sempre meglio fare qualcosa, pur se in modo velleitario, piuttosto che stare fermi. La trovata politica, almeno, riesce nell’intento di compattare tutte le opposizioni. Anzi, quasi tutte, perché Carlo Calenda sfila Azione dal campo vasto degli anti ministro: iniziativa “inutile e dannosa”, sentenzia senza appello l’ex titolare dello Sviluppo economico. Così, a chiedere in Parlamento un passo indietro al guardasigilli saranno “solo” Pd, M5S, Avs e +Europa. L’obiettivo reale, spiegano dall’inner circle di Giuseppe Conte, resta “Giorgia Meloni, è lei che deve venire in Aula a spiegare”. Ma se il bersaglio grosso è la premier, puntare sul bersaglio “piccolo” (il ministro) per costringerla a riferire in Parlamento potrebbe non essere la mossa più efficace. La mozione di sfiducia a Carlo Nordio “è un atto dovuto dopo le bugie e le sciocchezze che il ministro ha raccontato in Parlamento”, dice Angelo Bonelli di Avs, convinto che il guardasigilli debba assumersi la “responsabilità” di aver “impedito l’esecuzione di un mandato di arresto che era un atto obbligatorio”. Una dichiarazione del tutto in linea col testo della mozione, che recita: “Il ministro della Giustizia, non dando seguito alla richiesta di mandato d’arresto della Corte penale internazionale, si è posto in aperto contrasto con il dettato costituzionale di cui all’articolo 10 che impone il rispetto delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e dei trattati, nonché con le leggi italiane”. Quanto basta, insomma, per chiederne un passo indietro. Ma mentre le opposizioni scrivono mozioni di sfiducia, il governo scrive direttamente alla Corte penale internazionale per aprire un canale di comunicazione dopo giorni di attacchi frontali e scortesie istituzionali. Da via Arenula, infatti, confermano l’invio di una missiva all’Aja per cercare un “appeasement” con i magistrati della Cpi. Obiettivo dichiarato: “Abbassare i toni e iniziare a collaborare per scongiurare nuovi fraintendimenti”. Il ministro della Giustizia chiede dunque un confronto alla Corte per evitare nuovi cortocircuiti e avanza pure qualche proposta, come quella di rivedere le procedure di invio al ministero dei mandati di cattura internazionali. Acqua sul fuoco, sembra essere la nuova parola d’ordine lanciata da Palazzo Chigi a tutti i membri del governo. Perché un conto è fare la voce grossa per distrarre l’attenzione, altro è invischiarsi in un braccio di ferro dall’esito incerto. È Giorgia Meloni in persona a guidare la manovra di riavvicinamento alla giustizia internazionale, dopo aver condotto il suo governo allo scontro. Troppi i fronti aperti, e con troppe toghe contemporaneamente, per pensare di avere la meglio. Soprattutto perché lo strappo con l’Aja sembra non essere stato gradito da quasi tutto il vecchio continente, che della Cpi fa una bandiera (Ursula von der Leyen compresa). Meglio dunque la retromarcia, anche perché indispettire Europa e magistrati in un colpo solo potrebbe essere controproducente per una delle partite più impegnative dell’esecutivo Meloni: la guerra ai migranti e la riforma radicale dell’accoglienza e della solidarietà, che rischia di rimanere l’unica “madre di tutte le riforme” in assenza di altro. Il 25 febbraio, infatti alla Corte di giustizia europea inizia la discussione sui ricorsi in tema di Paesi sicuri. È un passaggio decisivo per la narrazione politica del governo e per la sopravvivenza stessa del “modello Albania” sul quale Meloni si gioca una bella fetta di consenso e credibilità. Perché è una svolta la sentenza sulla Terra dei fuochi di Francesco Barone-Adesi* e Stefano Zirulia** L’Unità, 12 febbraio 2025 Lo Stato avrà l’obbligo di avviare indagini penali. I danni all’ambiente in grado di provocare conseguenze sanitarie gravi accertabili non potranno essere declassati con contravvenzioni ambientali. La sentenza sulla Terra dei fuochi: un punto di svolta per la giustizia ambientale? Nei giorni scorsi ha suscitato molto clamore la notizia della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per non avere protetto il diritto alla vita degli abitanti di novanta Comuni campani che compongono un’area nota come “Terra dei fuochi”. La sentenza riveste una portata storica fondamentale, trattandosi del primo accertamento sistematico, a livello giudiziario, di una pluridecennale situazione di grave compromissione ambientale e sanitaria causata dallo smaltimento illecito di rifiuti tra le province di Napoli e Caserta. Mentre la giustizia penale italiana era stata finora in grado di portare alla luce soltanto alcune specifiche vicende criminali che, per quanto gravi, rappresentavano soltanto isolati frammenti di un fenomeno complesso e articolato, la sentenza della Corte di Strasburgo ci consegna finalmente una verità storica unitaria e coerente, nella quale si colgono non solo la gravità delle condotte illecite, ma anche l’inerzia e l’insipienza delle autorità statali che non sono state in grado di fronteggiarle e ridurne i devastanti effetti per l’ambiente e le persone. La portata della sentenza Cannavacciuolo (dal nome del primo ricorrente) ha però anche un significato che va oltre la vicenda specifica da cui ha avuto origine, e costituisce un importante precedente per il contenzioso in materia ambientale e climatica. Si tratta infatti della prima volta in cui la Corte si è spinta in maniera netta ad affermare che i risultati degli studi epidemiologici condotti su un determinato territorio sono sufficienti a dimostrare la violazione del diritto alla vita delle popolazioni che lo abitano, anche quando, come nel caso di specie, non è possibile o è estremamente difficile dimostrare il nesso di causalità individuale tra l’esposizione al fattore di rischio e la malattia che ha colpito ciascuna singola vittima. Si tratta di una svolta importante nella giurisprudenza della Corte europea. Vale infatti la pena di ricordare che, nella precedente sentenza sull’Ilva di Taranto, era stata affermata la violazione del diritto alla salute intesa come riduzione della qualità della vita, ma non del diritto alla vita vera e propria. La svolta impressa dalla sentenza Cannavacciuolo è ricca di conseguenze pratiche, poiché ad essa si ricollegano puntuali obblighi di incriminazione: in particolare, quello per lo Stato di avviare indagini penali e sanzionare i responsabili con pene proporzionate alla gravità dei fatti commessi. Ciò significa che i danni all’ambiente che sono in grado di provocare conseguenze sanitarie gravi accertabili, non solo non potranno più essere trascurati, ma nemmeno potranno essere declassati a illeciti bagatellari, come le contravvenzioni ambientali. Al contrario, dovranno essere trattati come reati gravi (delitti), in modo anche da consentire l’attivazione di strumenti di indagine efficaci (ad esempio le intercettazioni) e misure cautelari appropriate (come i sequestri). Appare peraltro chiaro che un cambiamento di tale portata non può essere affidato soltanto all’iniziativa della magistratura. E infatti la Corte europea si rivolge anche al legislatore nazionale, imponendogli di introdurre norme penali proporzionate alla gravità di fatti che arrecano danno sia all’ambiente che alla vita delle persone che vivono in una particolare area. E’ inoltre fondamentale, secondo la Corte, che vengano garantiti tempi di prescrizione compatibili con la complessità dei procedimenti e che il governo si astenga dall’adottare misure, come gli scudi penali, che garantiscono l’impunità degli inquinatori. In passato, l’assenza di un quadro normativo efficace è stata una delle cause del fallimento di alcune note iniziative giudiziarie, come quella nei confronti dei titolari della Eternit per i morti da amianto. Oggi il quadro normativo è arricchito dall’introduzione nel codice penale di un titolo specificamente dedicato agli “ecodelitti”, tra i quali figurano i delitti di “morte o lesioni come conseguenza dell’inquinamento ambientale” e di “disastro ambientale”. Queste norme, interpretate alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte europea, potrebbero rappresentare la base giuridica per perseguire le più gravi aggressioni all’ambiente provocate da attività industriali, o dal mancato controllo dell’inquinamento atmosferico provocato dal traffico veicolare, ogniqualvolta siano disponibili indagini epidemiologiche in grado di misurare l’impatto dell’inquinamento sulla salute pubblica. La sentenza sulla Terra dei fuochi consegna quindi, tanto alla magistratura quanto al legislatore, una serie di indicazioni preziose. La sfida è ora quella di trasformarle in azioni tangibili, capaci di imprimere un nuovo corso al diritto penale ambientale italiano. *Professore associato di sanità pubblica, Università del Piemonte Orientale **Professore associato di diritto penale, Università Statale di Milano Addio a “trattative” e “ teoremi”, la procura di Palermo ora combatte davvero la mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 febbraio 2025 La Procura di Palermo, guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, ha sferrato un duro colpo al cuore di Cosa nostra, ancora una volta intenta a riorganizzarsi attraverso i lucrosi proventi del traffico di droga. Con un’ordinanza di custodia cautelare per 183 affiliati, tra cui alcuni già detenuti, emerge un quadro interessante: da un lato, l’utilizzo di sistemi criptati all’avanguardia; dall’altro, un’organizzazione indebolita rispetto all’epoca d’oro di Totò Riina, tanto da doversi appoggiare alla ‘ ndrangheta per riconquistare il controllo dei floridi traffici di droga. Quella di Palermo è una Procura che, sotto la nuova guida, torna a far parlare di sé per la lotta alla mafia. Un cambio di passo significativo, considerato che in passato l’attenzione sembrava concentrarsi su indagini contro presunte entità o su processi in cui si cercava goffamente di riscrivere la storia con una chiave “trattativista”, al punto da suscitare perplessità persino tra studiosi del calibro di Salvatore Lupo. Non da ultimo, va ricordato che lo stesso ufficio - grazie al lavoro coordinato dal procuratore Paolo Guido, noto per aver rifiutato nel 2012 di firmare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sul teorema, in seguito risultato fallimentare, della “trattativa Stato- mafia” - ha recentemente catturato il superlatitante Matteo Messina Denaro. Prima dell’odierna maxi- operazione, la Procura aveva già colpito i vecchi boss di Uditore e Passo di Rigano: Franco Bonura (appena uscito dal carcere dopo anni di 41 bis), il noto costruttore mafioso Agostino Sansone, così come Girolamo, Giovanni e Antonino Buscemi. Quest’ultimo, da non confondere con l’omonimo parente deceduto, noto per essere entrato in società con il colosso Ferruzzi- Gardini, garantendo a Totò Riina un potere egemonico per quanto riguarda la spartizione degli appalti pubblici. Questi boss, da Bonura ai Buscemi, hanno tentato di riorganizzarsi puntando sugli appalti. A differenza dei clan che si sono modernizzati con il traffico di droga e tecnologie avanzate, i vecchi mafiosi sono rimasti ancorati alle loro tradizioni, continuando a incontrarsi nei fondi di Passo di Rigano, come accadeva già nell’ 800. È il contrasto tra una mafia tecnologica e una tradizionalista che ambisce a tornare ai grandi affari del passato. Il clan Buscemi rappresenta un esempio emblematico di continuità. Girolamo Buscemi compare già nel famoso dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Le indagini rivelavano già allora un intricato sistema di parentele mafiose: la moglie di Girolamo era sorella di Francesca Spatola, coniugata con Rosario Inzerillo, fratello del noto mafioso Salvatore Inzerillo e di Pietro, sposato con la cugina di Vito Buscemi. Questi ultimi gestivano diverse attività imprenditoriali mafiose insieme ai famigerati fratelli Salvatore e Antonino Buscemi. Girolamo Buscemi, oggi indicato dalle indagini come boss mafioso, era tra gli indiziati del dossier la cui posizione però non compare nemmeno nella richiesta di archiviazione giunta al gip nel 1992, dopo la strage di Via D’Amelio. Anche suo fratello Giovanni, tra i destinatari dell’ordinanza cautelare, viene citato nella storica informativa degli allora Ros Mori e De Donno tra i parenti di rilievo nell’imprenditoria mafiosa. Significativo è un dialogo intercettato tra Agostino Sansone e una sua sodale, nel quale viene menzionata l’impresa Icom di Palermo, già citata nel dossier mafia- appalti per i suoi legami con le imprese di Angelo Siino e Giuseppe Bulgarella negli affari a Pantelleria. E ritornando ai Buscemi c’è il rischio di perdersi nel groviglio di parentele. Sempre dall’ordinanza recente, emblematico il dialogo con Sansone dove lui stesso, facendo confusione si chiede chi fosse questo “Mummino” (Girolamo Buscemi). Al che il suo interlocutore è costretto ad ammettere che sono tutti generi, nipoti, zii, sottolineando la loro unità che fa la forza. Le indagini rivelano il tentativo di riorganizzare le cosche puntando a un ritorno alle “cose antiche”: evitare il clamore, privilegiare gli appalti e l’edilizia rispetto al pizzo e al narcotraffico. L’ideologia mafiosa rimane forte, come dimostrano le intercettazioni tra Buscemi e Bonura. Quest’ultimo ribadisce la sua fedeltà ai principi di Cosa nostra, dichiarandosi disposto a tutto pur di non tradire. Nonostante le pressioni investigative e gli arresti dei familiari, Bonura mantiene il suo rifiuto categorico di collaborare, preferendo rischiare l’ergastolo piuttosto che tradire chi ha goduto della sua fiducia. Questo atteggiamento riflette il classico codice d’onore mafioso, dove la lealtà all’organizzazione e l’omertà prevalgono su tutto, anche sugli affetti familiari e la libertà personale. Una mentalità che caratterizza gli uomini d’onore “di vecchio stampo”, refrattari a qualsiasi collaborazione con la giustizia. Chi lo abbia aiutato in passato lo sa bene, ma questa è materia di altre indagini, quelle della procura di Caltanissetta sul ruolo di mafia- appalti come causa delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Per quanto riguarda la maxi operazione invece, durante la conferenza stampa sul blitx che ha portato all’arresto di 183 presunti mafiosi, ecco cosa ha detto il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo: “Da questa straordinaria indagine della Procura di Palermo viene fuori un dato allarmante: l’estrema debolezza del circuito penitenziario di alta sicurezza che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis. L’inchiesta di Palermo mostra chiaramente, confermando quanto emerso in altri contesti investigativi, che il sistema di alta sicurezza è assoggettato al dominio della criminalità”. Eppure, paradossalmente queste indagini confermano che il controllo esiste. Le indagini hanno evidenziato come l’organizzazione mafiosa abbia saputo sfruttare le moderne tecnologie per aggirare i controlli carcerari. L’utilizzo di minuscoli telefoni cellulari e sim card a breve durata ha permesso ai detenuti di continuare a gestire gli affari criminali dalle loro celle attraverso videochiamate, servendosi di un sistema di “citofoni” esterni apparecchi dedicati esclusivamente a ricevere chiamate dall’interno del carcere. Questo ha consentito loro di organizzare vere e proprie riunioni mafiose a distanza e impartire ordini. Tuttavia, questa modernizzazione si è rivelata un’arma a doppio taglio. Gli inquirenti sono riusciti a intercettare numerose conversazioni dei detenuti in questione, nonostante i sofisticati sistemi organizzativi messi in atto per evitare le intercettazioni. Un caso emblematico è rappresentato dal pestaggio di Giuseppe Santoro: i fratelli Lo Presti, dal carcere, non solo hanno pianificato minuziosamente l’aggressione e selezionato gli esecutori, ma hanno addirittura assistito in diretta all’azione criminale attraverso una videochiamata. L’uso dei criptofonini, inoltre, se da un lato ha facilitato le comunicazioni riservate tra i vari mandamenti e con i trafficanti di droga, dall’altro ha fornito agli investigatori preziosi elementi probatori, permettendo di documentare l’unitarietà dell’organizzazione criminale e le sue attività illecite. Ciò significa che non si ottiene nulla con l’irrigidimento (tra l’altro già è stata introdotta una legge punitiva sull’introduzione illecita dei cellulari), ma solo attraverso un controllo capillare. D’altronde lo stesso segretario della UilPa Gennarino De Fazio, condannando il fallimento del carcere anche sotto questo aspetto, chiede di rendere tutto chiaro e funzionale, limitando al massimo il ricorso al carcere e nel contempo garantendo il rispetto di tutte le regole. Emilia Romagna. La Regione contraria ai trasferimenti di detenuti dagli Ipm alla Dozza agi.it, 12 febbraio 2025 “La Regione Emilia-Romagna esprime forte preoccupazione per le notizie di stampa secondo cui il ministero della Giustizia starebbe valutando il trasferimento di detenuti appena maggiorenni dagli istituti penali per minori alla Casa circondariale della Dozza di Bologna, e segnala lo stato di degrado e sovraffollamento della struttura, totalmente inidonea ad ospitare minori”. E’ quanto rende noto l’ente in un comunicato il quale specifica “una posizione di contrarietà” in una “richiesta urgente” di chiarimento formalizzate nella lettera inviata oggi al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dall’assessora al Welfare Isabella Conti, che proprio nelle scorse settimane ha visitato l’istituto penitenziario di Modena e, assieme al presidente Michele de Pascale, quello bolognese ‘Rocco D’Amato’ (della Dozza, ndr), verificando - come ricorda nella missiva - “una struttura vetusta e degradata, una promiscuità degli spazi evidente anche a un occhio non esperto e un problema di sovraffollamento ormai insostenibile, con 853 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 507”. “Ho scritto al ministro Nordio- spiega Conti- per verificare la veridicità delle informazioni pubblicate sulla stampa, poiché una tale ipotesi sarebbe gravemente lesiva dei diritti dei detenuti, soprattutto dei più giovani. La Dozza è una struttura già oggi in grave emergenza, con un sovraffollamento drammatico e condizioni di detenzione che non possono garantire un percorso rieducativo adeguato. L’eventuale trasferimento di detenuti minorenni o appena maggiorenni in tale contesto non farebbe che aggravare ulteriormente le condizioni di detenzione, rendendole ancor meno compatibili con i principi di dignità e recupero sanciti dal nostro ordinamento. Dai nostri sopralluoghi- aggiunge l’assessora- abbiamo constatato infatti una situazione strutturale critica, con spazi promiscui e degradati: un ulteriore aggravamento della condizione carceraria non sarebbe degno di un Paese civile”. Da qui, la richiesta immediata di delucidazioni al ministero: “La Regione Emilia-Romagna- conclude l’assessora- è fermamente contraria a questa prospettiva, chiediamo al ministero di fornire urgentemente chiarimenti in merito”. Nota dei Garanti dopo l’incontro con il Capo Dipartimento Giustizia Minorile Nel corso dell’incontro con il capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano si è avuta conferma di quanto appreso nei giorni scorsi da fonti sindacali: il fermo intendimento dipartimentale di praticare la rischiosa opzione organizzativa mirante a collocare sino a 50 giovani adulti negli spazi detentivi della casa circondariale di Bologna dati in uso al circuito minorile nella separatezza (logistica, funzionale e personale) dalla popolazione adulta. L’urgenza della pressione del sovraffollamento negli istituti minorili, fenomeno che è riscontrato in tutto il paese, è stata individuata quale ragione che sta alla base di tale processo. Appare evidente che il fenomeno, caratterizzato da un’ampia parte di minori stranieri non accompagnati, è causato in particolare dagli effetti del decreto Caivano. Stanti le insidiose complessità di tale opzione organizzativa, i garanti hanno raccomandato al capo dipartimento il coinvolgimento, attraverso l’istituzione di un tavolo tecnico, del Comune di Bologna e della Regione Emilia Romagna ricordando che è necessario che il dipartimento coinvolga le regioni e gli enti locali nelle decisioni che coinvolgono lo spostamento di contingenti consistenti di detenuti. I garanti hanno infine espresso timore in merito al fatto che tale processo potrebbe portare al rischio di essere prodromico alla nascita di settori per giovani adulti nelle carceri gestite dall’amministrazione penitenziaria snaturando il senso della pena per coloro che hanno commesso reati da minorenni. Roberto Cavalieri Garante diritti dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Antonio Ianniello Garante diritti dei detenuti del Comune di Bologna Venezia. Ha un piede da amputare, ma deve restare in cella di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 12 febbraio 2025 Ok del gip ai domiciliari: non trova accoglienza. L’avvocato: così non viene curato. Ha una cancrena da gelo, gli deve essere amputato il piede destro per evitare che la necrosi dei tessuti si propaghi al resto della gamba. Ma non si riesce a trovare un luogo dove farlo stare ai domiciliari in attesa dell’intervento chirurgico e il provvedimento del gip di Venezia Benedetta Vitolo resta inattuato. È l’avvocato Daniele Marchiori a raccontare uno di quei cortocircuiti tra norme e realtà che rendono difficile le interazioni tra detenuti e mondo di fuori. Il cliente del quale riferisce la vicenda è un uomo di 41 anni e che ha bruciato tutti i ponti dietro di sé. Moglie, parenti, amici: nessuno è disposto ad accoglierlo. La droga, i reati, il divorzio hanno scritto per lui un curriculum che non gli ha permesso di trovare un lavoro anche quando ha smesso con gli stupefacenti. E, finito a vivere in strada, ha ricominciato a delinquere e ha subito i danni permanenti della vita al freddo. Nuovamente arrestato, è tornato in carcere. “Attualmente è sottoposto alla misura cautelare, ma essendo estremamente bisognoso di cure, vista la sua drammatica condizione di salute, lo stesso giudice è incredulo che non vi sia un pronto intervento da parte delle istituzioni - riferisce il suo legale - tanto che ha sollecitato la difesa a trovargli un posto che gli fornisca cure adeguate, in quanto incompatibile con il regime carcerario, dove si trova attualmente e dove non può ricevere le cure necessarie, vedendo peggiorare il suo stato di salute psico-fisico giorno dopo giorno”. Ci ha provato in tutti i modi, l’avvocato, a trovargli una struttura temporanea che lo alloggi agli arresti domiciliari prima dell’operazione, ha chiesto a Comuni, istituzioni, enti. Nulla da fare, l’unica disponibilità è arrivata dall’Opera della Provvidenza di Sant’Antonio di Padova che nel complesso di Sarmeola di Rubano ospita disabili, malati di Alzheimer e religiosi non autosufficienti. Ma bisogna versare una retta alberghiera e il detenuto non ha i mezzi per pagare quanto richiesto per poter essere ospitato in attesa del necessario intervento chirurgico. “Quindi il mio assistito resta in carcere”, conclude l’avvocato. Venezia. “Detenute, nessuno porta i figli a scuola”. Gli stranieri bloccati dalla burocrazia di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 12 febbraio 2025 I bambini delle detenute non escono mai dal carcere (a custodia attenuata Icam) perché non c’è nessuno che li accompagni all’asilo. Gli stranieri che scontano l’ultimo anno in esecuzione esterna non possono ottenere la residenza quindi non hanno carta d’identità né cure mediche. Il fine della pena getta in prostrazione chi non ha alloggio e prospettive di lavoro, ricorda la neo garante per i diritti delle persone private della libertà personale Rita Bressani. E c’è chi finisce alla mensa della Caritas, testimonia il direttore Franco Sensini. Con l’audizione della decina tra onlus e istituzioni che si occupano dei detenuti, la commissione Sociale presieduta da Paolo Tagliapietra ha acceso un faro sul lavoro che svolgono educatori, religiosi, professionisti e volontari e sono emersi cortocircuiti normativi e regolamentari. I bambini che vivono da detenuti sono un grande cruccio per Carla Forcolin, ex presidente della Gabbianella, associazione che per 16 anni ha accompagnato i figli delle detenute alla materna e seguito l’affidamento dei piccoli all’esterno al terzo, poi al sesto, anno di età. “Disdicemmo il protocollo quando un bambino fu portato via di forza durante la festina del sesto compleanno per l’affidamento giudiziario”, ricorda. Adesso all’Icam vivono un infante e una bambina di quattro anni, ragguaglia Vincenzo De Nardo, Fondamenta delle Convertite: “Non escono mai, neanche per una passeggiata. E sono state annullate feste come quella della donna e il pranzo di Natale”. Sono diversi gli appartamenti per la prima accoglienza dopo il fine pena; ne ha il Comune, la Caritas, l’associazione Rio Terà dei Pensieri. “Ma gli stranieri hanno il permesso di soggiorno sospeso e non possono avere la residenza. Che serve per l’esecuzione esterna”, segnala Vania Carlot, Rio Terà. I corsi di formazione, lingue, informatica, italiano e le attività artigianali, il centro di ascolto Caritas e i protocolli con le società partecipate del Comune rendono possibile il lavoro. “Sui bambini dell’Icam si faccia il punto in una commissione, trattando anche la mia interrogazione di ottobre”, esorta Paolo Ticozzi, Pd. “Ogni istituto è un’isola a sé - premette la garante Bressani -. Il lavoro che ritengo di poter fare è quello di rete, operativo. Piccolo esempio: i fornellini a gas da campeggio in cella possono essere un serio problema e si tenta di comprare piastre elettriche. Conoscendo la realtà interna si possono dare suggerimenti che cambiano molto l’organizzazione”. Messina. Il dramma dei detenuti malati e la sofferenza delle donne in cella di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 12 febbraio 2025 La relazione della Garante Lucia Risicato al consiglio comunale. Il dramma dei suicidi, prima causa di morte in carcere, la condizione dei detenuti tossicodipendenti, le donne recluse, con poca istruzione, a volte apatiche e depresse, il sovraffollamento che non riguarda la casa circondariale di Gazzi. Sono tanti i temi toccati dalla relazione della garante dei detenuti Lucia Risicato presentata al consiglio comunale. La garante si sofferma sia sulla struttura che sulle condizioni di vita dei detenuti di Gazzi. Emergono questioni già messe in luce, prima fra tutte la carenza di personale penitenziario. Mancano una ventina di agenti di polizia penitenziaria, una carenza aggravata dalla recente sospensione di nove agenti a seguito degli sviluppi dell’indagine condotta dalla Dda di Messina sullo spaccio di droga in carcere e sull’ingresso di telefoni cellulari. Un discorso analogo vale per gli educatori: ce ne sono tre ma cosi come previsti in pianta organica, ma sono pochi rispetto alle esigenze specifiche del penitenziario. La garante evidenzia la buona collaborazione con la direttrice Angela Sciavicco, gli educatori, il garante per l’infanzia Giovanni Amante. Il carcere di Messina, non ha problemi di sovraffollamento. Attualmente a Gazzi ci sono 202 detenuti a fronte di una capienza di 302 posti ma una novantina sono inagibili. L’istituto non ha sofferto la crisi idrica grazie ad una conduttura che lo rifornisce, in ogni cella c’è un frigorifero e un solo ventilatore. Una circolare del Dap limita ad un solo apparecchio per camera ma risulta “inadeguato a fronteggiare ondate di caldo come quelle che ci hanno afflitto l’estate scorsa”. In questi mesi la garante ha incontrato i detenuti, le richieste più frequenti che ha ricevuto sono quelle della possibilità di contatti telefonici con i familiari più stretti e gli accertamenti sanitari. Una parte dei detenuti è pronta a mettersi in gioco convinta di non voler più tornare in carcere, un’altra parte però ha un atteggiamento diverso: “In questo momento-afferma la garante nella sua relazione - circa la metà della popolazione penitenziaria è composta da detenuti condannati in via definitiva. Ciò crea un singolare problema nella composizione della popolazione detenuta: una buona metà non manifesta, infatti, alcun interesse per le numerose ed eterogenee attività trattamentali della Casa circondariale (teatro, corsi di cucina, etc.) e l’altra metà, più disponibile, subisce la presenza dei “disturbatori”. Particolarmente triste la condizione delle donne detenute, sono una ventina, il quadro che ne fa la garante è sintomo di una differenza anche nella sofferenza: “sono in maggior parte persone di limitata scolarizzazione, tendenzialmente apatiche e in alcuni casi depresse. La natura per lo più transitoria della loro detenzione a Gazzi fa sì che esse non siano attratte dalle attività formative proposte da educatori e volontari”. Venezia. Carceri, quando restare dentro è un atto di libertà di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 febbraio 2025 Amir avrebbe potuto lasciare il carcere e lavorare per uno stipendio iniziale di 1.600 euro alle dipendenze di una prestigiosa impresa specializzata nel restauro di edifici storici. Invece ha preferito restare in carcere per poter concludere, insieme ai suoi compagni, i lavori della nuova caserma agenti. Nell’istituto veneziano di Santa Maria Maggiore, Amir (nome di fantasia, come gli altri che seguiranno) non è, però, l’unico ad avere fatto una scelta controcorrente. Anche Giulio, 27 anni, impegnato in un percorso di formazione archivistica, avrebbe potuto accedere a un impiego ma ha voluto rimandare per concludere il tirocinio interno. In realtà esiste una casistica ricca e variegata di detenuti che si rifiutano di uscire a fine pena. Ma si tratta di casi di scuola per descrivere i rischi legati all’istituzionalizzazione, o di anziani, psichiatrici, senza fissa dimora. Persone per le quali il carcere sembra rappresentare la migliore opportunità possibile. Come l’ergastolano Rocco che, pur potendo avere la liberazione condizionale, preferì continuare a lavorare in carcere fino alla pensione. O come il detenuto che si faceva arrestare periodicamente per poter lavorare a San Vittore e poi spendere i soldi in Marocco, che ispirò il personaggio di Sachid nel “Ritorno di Vasco e altri racconti” di Davide Pinardi. “Nei casi di Amir e Giulio non si tratta di scelte dettate dalla paura o dall’incertezza, potevano uscire grazie a concrete offerte di lavoro. Non è un rifiuto della vita fuori, ma un investimento su se stessi, sulla possibilità di uscire con competenze, esperienza e un’identità nuova” spiega il direttore della casa circondariale, Enrico Farina. “Amir ha voluto portare a termine il lavoro iniziato con la direzione del carcere” aggiunge Farina. Insieme ad altri detenuti, sta contribuendo al recupero di una struttura che ospiterà 44 posti per gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il progetto, spiega ancora il direttore, “ha coinvolto tutti perché avviarlo in economia ha rappresentato una sfida. Ci siamo riusciti e questo ha galvanizzato i componenti di tutta la squadra. Amir sente che il suo contributo di saldatore esperto è importante, ha un ruolo attivo, una responsabilità reale. Giulio invece è consapevole che la formazione e l’esperienza acquisita al termine del corso interno potranno garantirgli una posizione lavorativa più solida in futuro”. In realtà questi detenuti, come altri dell’Istituto, sanno che con ogni probabilità quando saranno pronti per la libertà troveranno ad attenderli altre opportunità. Infatti, le offerte di lavoro per i detenuti da parte di realtà imprenditoriali del territorio superano il numero di coloro che sono attualmente formati che hanno tutti i requisiti per accoglierle. Dunque qualcosa sta cambiando nel modello, a lungo dominante nel mondo penitenziario, basato sugli automatismi? Quello in cui non appena il detenuto maturava i requisiti per uscire dal carcere coglieva anche l’offerta lavorativa più improbabile? “Le tante opportunità presenti qui a Venezia sono il frutto di un lavoro strutturato e continuo”, risponde Farina, uno dei nuovi direttori entrati in servizio poco più di un anno fa. “Un anno dedicato in gran parte ad avviare numerosi protocolli volti all’inserimento lavorativo, con una particolare attenzione alla formazione professionale”. I detenuti sono attualmente impegnati nei settori di carpenteria e edilizia, archivistica digitale, pelletteria e serigrafia, lavoro esterno in convenzione con enti e aziende, settore alberghiero e ristorazione grazie a convenzioni con esercenti locali. “A prima vista queste scelte di rinviare l’uscita possono sembrare inspiegabili - conclude Farina Ma ciò che le accomuna è un aspetto fondamentale: la libertà non è solo uno stato fisico, ma una condizione interiore. Per questi detenuti, il senso di appartenenza a un progetto, il riconoscimento delle proprie capacità e la possibilità di contribuire a qualcosa di concreto valgono più di una libertà anticipata ma priva di una base solida su cui costruire il futuro. Quando un detenuto sceglie di rimandare la sua uscita per portare a termine il proprio percorso, significa che il sistema sta funzionando. Perché la vera libertà non è solo uscire dal carcere, ma uscire pronti per non tornarci più”. Venezia. Attività culturali e lavoro, il carcere come opportunità per la città veneziatoday.it, 12 febbraio 2025 Ca’ Farsetti riceve per la prima volta cooperative e associazioni che lavorano con detenuti e detenute di Venezia. “Meritano di tornare a essere cittadini reali. Lavorare non può essere un privilegio”. Oggi le commissioni consiliari hanno ricevuto a Ca’ Farsetti gli enti del terzo settore (associazioni, cooperative e altro) che lavorano negli istituti penitenziari di Venezia, e più in generale con le persone recluse nella città. Un momento importante, come hanno riconosciuto tutti i rappresentanti degli enti intervenuti, anche perché si trattava della prima volta che venivano ascoltati in Comune. “Non pensavo fosse la prima, spero che i miei successori vi riconvocheranno” ha ammesso il presidente della III commissione Paolo Tagliapietra. C’è chi gestisce laboratori e attività negli istituti, chi accompagna detenute e detenuti a scoprire Venezia o a lavorare fuori, chi fa formazione. E i nodi che riemergono: il poco dialogo tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dal carcere, la difficoltà (anche burocratica), per chi esce, di riadattarsi e reinserirsi nel mondo esterno. “Lavorare in carcere, svolgere un’attività durante le giornate, oggi è un privilegio. Non deve essere così - ha ricordato Jacopo Buroni della cooperativa Il Cerchio, attiva, come la maggior parte delle realtà ascoltate oggi, da 30 anni - Il carcere è una parte fondamentale della città, e può esserlo anche in un senso produttivo”. Come già scritto, le attività lavorative negli istituti veneziani iniziano ad essere molte. Ma non basta. La nuova garante dei detenuti Rita Bressani, nominata in dicembre, ha ammesso che il carcere sia ormai diventato “una discarica sociale, quando le persone arrivano già con gravi problemi il carcere non li aiuta”. Ma ha riconosciuto il ruolo fondamentale dei vari enti intervenuti: “Venezia dà molto rispetto ad altri istituti. È importante per noi ma anche per i detenuti capire cosa c’è a disposizione”. A disposizione c’è molto, dal teatro, agli orti, ai corsi di italiano e ai percorsi per gli uomini violenti. Ma “insieme possiamo implementare e articolare azioni più efficaci” ha sottolineato Michail Traitsis di Balamos Teatro. Uno dei problemi più grandi, per chi esce, o per chi sta per uscire, è la casa. Chi non ce l’ha, non sa dove andare una volta finita la pena. Se una casa viene offerta da qualcuna di queste realtà, se l’ex detenuto non ha il permesso di soggiorno (il 70% dei detenuti nel carcere maschile sono stranieri) non può avere la residenza, e accedere a tutti i servizi conseguenti, ha ricordato Vania Carlot della coop Rio Terà dei Pensieri. Anche passare un “permesso premio” con la famiglia diventa difficile per chi non può permettersi un alloggio a Venezia. C’è poi il tema, nazionale e non solo veneziano, dei bambini in carcere, sottolineato da Carla Forcolin. Crescono con le mamme detenute fino ai sei anni, e di conseguenza va trovata una soluzione caso per caso. “C’è un protocollo ma non viene rispettato, non devono rimanere dentro i bambini, subiranno conseguenze per tutta la vita, penso sia evidente a tutti” ha detto Forcolin. Oggi a Venezia ce ne sono alcuni, e non hanno nessuno che li accompagni quotidianamente a scuola o comunque all’esterno. Franco Sensini della Caritas ha ricordato un dato, riguardo il padiglione Vaticano allestito dentro la casa di reclusione femminile della Giudecca: su 25 mila visitatori solo un migliaio erano veneziani. “Non è una critica a nessuno, è solo il segno che c’è ancora tanto lavoro da fare”. Carinola (Ce). L’orto dentro il carcere: ecco la verdura del riscatto “a chilometro zero reale” di Walter Medolla Corriere del Mezzogiorno, 12 febbraio 2025 Nel carcere di Carinola venti detenuti coinvolti nel progetto “Crea”, acronimo di “Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura”. I prodotti con certificazione biologica. Sono letteralmente quaranta braccia prestate all’agricoltura. E sono quelle dei venti detenuti del carcere di Carinola coinvolti nel progetto “Crea”, acronimo di “Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura”. L’iniziativa promossa è dal Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria per la Campania, in collaborazione con le cooperative sociali Terra Felix, La Strada, L’uomo il legno, oltre alle aziende agricole Naturiamo e Rusciano col supporto della Federazione provinciale di Coldiretti Caserta e finanziato da Cassa delle Ammende. Il progetto, avviato già da alcuni mesi nell’Istituto penitenziario in provincia di Caserta, prevede la coltivazione di oltre sette ettari in campo aperto dell’Istituto e la trasformazione dei prodotti nel laboratorio attivo presso la casa di reclusione di Carinola. “Già quattro di loro sono stati formati e assunti - spiega la provveditrice regionale Lucia Castellano - in un progetto più ampio che sosteniamo per creare occasioni lavorative reali per i detenuti. Abbiamo l’obbiettivo di far nascere una vera e propria filiera sfruttando i sette ettari del carcere, dove produciamo verdure di stagione, e poi c’è una serra per i funghi. I prodotti vengono venduti all’interno, alla polizia penitenziaria e agli stessi detenuti, promuovendo una sorta di chilometro zero reale”. A Carinola sotto la supervisione del direttore Carlo Brunetti e degli agenti della penitenziaria sono già attivi altri progetti di inclusione. “Ci muoviamo a livello provinciale - prosegue Castellano - facendo rete con tutti gli Istituti, la società civile e gli imprenditori del territorio”. Per i detenuti l’occasione è importante; vengono formati, impiegati e assunti dalle cooperative coinvolte. “È soprattutto un modo per continuare a sperare - spiega Francesco Pascale della coop Terra Felix - e per chi è coinvolto rappresenta una reale possibilità di reinserimento e riscatto. All’interno del carcere sono tutti collocati in una zona apposita, il condominio 21, dove vivono assieme. Si lavora con entusiasmo a prodotti biologici, impiegando metodi innovativi e sostenibili. Grazie a questa iniziativa i detenuti hanno la possibilità di coltivare prodotti con certificazione biologica nel tenimento agricolo annesso al carcere, utilizzando pratiche di agricoltura sostenibile”. Un esempio di queste pratiche è l’uso del telo pacciamante in mater-bi, fornito da Novamont Agro, che contribuisce a rendere le coltivazioni più ecologiche e rispettose dell’ambiente. Il progetto Crea rappresenta una straordinaria iniziativa di agricoltura alternativa che va oltre la semplice coltivazione di prodotti. È un percorso di responsabilità e cambiamento che offre ai detenuti un’opportunità reale. Roma. Due giorni di confronto tra ciò che si enuncia e ciò che si fa nei penitenziari italiani La Repubblica, 12 febbraio 2025 A Roma il 13 e il 14 febbraio il convegno di “Antigone”, a 50 anni dal varo del nuovo ordinamento che regola la vita interna nelle 191 case di reclusione. Quest’anno ricorrono i 50 anni dell’approvazione della legge n. 354, che contiene le norme sull’ordinamento penitenziario. Nella ricorrenza di questa tappa fondamentale nella riforma del sistema carcerario italiano, Antigone - l’Associazione che dal 1991 si occupa dei diritti e delle garanzie per i detenuti, promuovendo metodi reclusori in linea con la Costituzione - ha convocato a Roma alcuni dei principali studiosi italiani per due giorni di riflessioni culturali, giuridiche, politiche e sociali sul carcere. I principi enunciati, ma poco applicati. La legge penitenziaria ha introdotto importanti principi di umanizzazione e di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Tuttavia, è emerso nel tempo un dibattito acceso sulle sue reali applicazioni, sulle difficoltà operative e sull’efficacia nel rispondere alle necessità di una società in continua evoluzione. Lo sguardo rivolto a futuro del carcere di domani. Oggi più che mai, dinanzi ad un approccio che si sta sviluppando verso una chiusura del carcere, è giusto allargare gli orizzonti del dibattito, guardano a ciò che le 191 carceri italiane devono essere nella società, come va organizzata la vita interna, quali diritti vadano riconosciuti e in che modo, affinché la pena sia conforme al dettato della Costituzione. Rovigo. Corso per volontari del carcere, al via dal 27 febbraio nella sede della Caritas diocesana di Mattia Tridello lavoce-nuova.it, 12 febbraio 2025 Attività, vicinanza ma anche concretezza verso gli “ultimi della società”. Al via, il 27 febbraio alle 18 nella sede della Caritas diocesana, il nuovo corso di formazione per volontari del carcere. Organizzato dalla cappellania della casa circondariale di Rovigo, in collaborazione con il coordinamento dei volontari e la Caritas, patrocinato dal Comune di Rovigo, il nuovo percorso formativo è rivolto a tutti coloro che desiderano impegnarsi nel volontariato penitenziario della città, una realtà spesso poco conosciuta ma che riveste un ruolo fondamentale, essenziale, per migliorare la vita sia dentro che fuori dal carcere ai detenuti di ogni età. “Spesso le istituzioni faticano ad arrivare, per un supporto concreto, e molti aspetti della vita delle persone recluse, quali contatti con la famiglia di origine, prospettive di lavoro future e il percorso di reinserimento sociale, vengono date in capo ai volontari. Il loro supporto diventa indispensabile” ha sottolineato Nadia Bala, assessore alle politiche sociali del Comune, durante la presentazione tenutasi a palazzo Nodari. “Non inchiodiamo queste persone - ha continuato - al loro passato, ricordiamoci che sono residenti nel Comune, sono nostri concittadini. Accogliere con il volontariato diventa un modello di inclusività che trasmette i valori del bene civile e sociale”. Il corso di articolerà in 7 lezioni (dalle 18 alle 19.15) e verterà su numerosi aspetti della vita del volontario a contatto con la realtà penitenziaria. Bisogno di ascolto, confronto e dialogo: questi i bisogni, come ha commentato Fra Marco, cappellano del carcere, con cui i volontari entrano in contatto. “Il corso è pensato - ha aggiunto Emanuele Gasparetto, dei volontari della casa circondariale - per raccogliere le sensibilità presenti della nostra provincia e che si chiedono come entrare in contatto con questa realtà. Serve, inoltre, a promuovere attenzione alle persone detenute, fornendo un supporto sia dentro che fuori, ai detenuti, ma anche alle famiglie”. Le iscrizioni dovranno essere inoltrate entro il 25 febbraio, la quota di partecipazione è di 10 euro. Maggiori informazioni ai recapiti: sabrina70cabassa@gmail.com (3460850517) e emleviapacis@gmail.com (3401463272 - dopo le 17). Genova. Integrazione sociale e prevenzione di recidiva: l’iniziativa sperimentale “Adulto amico” liguria.bizjournal.it, 12 febbraio 2025 Stabilire una positiva relazione di accompagnamento nella transizione all’età adulta, ma soprattutto nell’impostazione di un percorso volto all’integrazione sociale e alla prevenzione della recidiva, per sostenere i percorsi di ragazzi sottoposti a procedimenti di giustizia. È questo l’obiettivo di “Adulto Amico”, l’iniziativa di mentoring di Defence for Children Italia, in collaborazione con il dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità e l’ufficio per i Servizi Sociali per Minorenni (Ussm) del ministero della Giustizia, rivolta a tutti i cittadini interessati a diventare parte attiva di questa ambiziosa esperienza pilota di integrazione. “Dalle esperienze che abbiamo realizzato - spiega Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia - sappiamo che la costruzione di contesti e relazioni significative sono il modo per proporre a molti ragazzi un’alternativa. Abbiamo verificato che la presenza di un adulto solidale produce risultati che nessuna politica repressiva potrà mai raggiungere”. La sfida per l’associazione, che ha il suo quartier generale nazionale in piazza Don Gallo, a Genova, è di trovare un gruppo di cittadini e cittadine che attraverso la formazione e il supporto di Defence for Children possano sostenere e accompagnare, con il mentoring, ragazzi che sono arrivati in giovane età da un altro Paese del mondo, lasciando tutti i loro affetti e riferimenti a migliaia di chilometri di distanza, e che per qualche motivo sono entrati nel circuito della giustizia. “Sono molti anni che lavoriamo sui fenomeni della migrazione e quelli della giustizia - dice Costella - l’esperienza pilota di mentoring che lanciamo a Genova coniuga questi due aspetti e sarà importante per dimostrare che la cura, l’attenzione e la cittadinanza sono dimensioni fondamentali per i ragazzi che raggiungono il nostro Paese e che troppo spesso vengono costretti e lasciati in situazioni di vulnerabilità e isolamento”. Una sfida civile e culturale per la quale Defence for Children sta cercando un gruppo di cittadini pronti a costruire insieme questo percorso, a osservarlo e proporlo come modello operativo anche a livello nazionale e internazionale. Defence for Children è una delle organizzazioni fondatrici dell’European Child Friendly Justice Network, una rete di organizzazioni da tutta l’Unione Europea che promuovono riforme affinché la giustizia risulti efficace ma sempre a misura della persona minorenne e delle sue possibilità di recupero. L’appuntamento formativo per le persone interessate a questa iniziativa è per venerdì 21 febbraio dalle 14 alle 18, e sabato 22 febbraio dalle 9:30 alle 17:30, presso la sede sociale di Defence for Children Italia in piazza Don Gallo, a Genova. Per approfondimenti e iscrizioni al corso info@defenceforchildren.it tel. 010 0899050 Padova. “Zona rossa”, sanzioni a raffica ai fragili. Giordani: “C’è bisogno di umanità” di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 12 febbraio 2025 Il primo cittadino assolve le forze dell’ordine. Nalin, Gallani e Ostanel: “Chiediamoci se queste multe ci fanno sentire più sicuri, investiamo sulla marginalità sociale”. “I fenomeni di marginalità estrema vanno gestiti con grande umanità, con l’attenzione alla cura della dignità delle persone e con percorsi di accompagnamento virtuosi. Quanto accaduto non ha colpevoli o responsabili da ricercare, ma semmai mi fa capire come tutti dobbiamo entrare in un sempre maggiore coordinamento. Io per primo, dico a me stesso, che possiamo e dobbiamo fare di più tutti assieme”. Mentre una parte di padovani e del mondo della politica s’indigna, il sindaco Sergio Giordani assolve le forze dell’ordine che nel weekend hanno multato i senzatetto in stazione. Finiti coinvolti in qualche modo nella scelta di renderla zona rossa, come voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, i senzatetto sanzionati hanno provocato molta amarezza nella maggior parte dei padovani. Anche tra i favorevoli ai muri, nelle zone ritenute più pericolose, è scattata incredulità. La sensazione è che i patti non fossero questi: va bene gli spacciatori e i pregiudicati, ma si lascino stare i poveri. E se è vero che ai senza fissa dimora non è stato applicato il foglio di via per le nuove norme, è altrettanto vero che l’aumento di agenti in stazione ha provocato qualche corto circuito. Le multe ai senzatetto ne sono un esempio. Online, una volta pubblicata la notizia, è scattata la rivolta: “mancanza di buon senso”, “lotta ai poveri” e “vergogna” sono tra le poche critiche pubblicabili. “Ricompattiamoci” - Il sindaco Giordani invece ha deciso di fare da pacificatore: “Penso sia indispensabile evitare polemiche e proprio con questo intento vorrei chiarire quanto siano episodi che esulano dalla recente ordinanza prefettizia, che parla di reati contro il patrimonio e contro la persona - spiega il primo cittadino. Come sindaco sento il dovere di uscire dalle contrapposizioni e, nell’interesse delle persone più fragili, di affermare con chiarezza che Padova è una città dove l’umanità è di casa e dove nessuno vuole la guerra ai poveri. È la città delle cucine economiche popolari, dove una miriade di cittadini e associazioni ogni giorno operano nel bene per superare le diseguaglianze. La città di Don Giovanni Nervo non può e non deve vivere la povertà come un fastidio, ma come un pungolo che ci interroga ogni giorno”. L’indignazione però ieri era già partita dal web, prima di spostarsi nel mondo della politica e della società civile. E ha fatto breccia nella parte già contraria alle zone rosse. La sicurezza sociale - “Chiediamoci se ci sentiamo più sicuri sapendo che la polizia, dentro la zona rossa, multa le persone senza dimora - sostengono Marta Nalin e Chiara Gallani, ex assessore e oggi consigliere di Coalizione Civica, a cui si è unita anche la consigliera regionale, Elena Ostanel -. Vorremmo che ce lo chiedesse il governo. Vorremmo che ci chiedesse come stanno le zone intorno alla quella rossa e che ascoltasse le nostre risposte. Ci avevano detto che “zona ad alto impatto” avrebbe significato più interventi sociali, ma noi sapevamo che sarebbero stati solo interventi di polizia contro le persone più fragili, che di quei servizi avrebbero bisogno. E purtroppo abbiamo avuto ragione noi. Ricordiamo che il bilancio sociale del nostro Comune si aggira attorno ai 40 milioni di euro, che aderiamo alla federazione italiana organismi persone senza dimora e che abbiamo ottenuto tutti i fondi del Pnrr per combattere la marginalità sociale. Abbiamo progetti di inclusione sperimentali e all’avanguardia. La nostra città promuove la sensibilizzazione su questi temi e ogni anno molte iniziative si raccolgono proprio attorno alla “Notte dei Senza Dimora”. Dobbiamo continuare a investire su questo e dire no all’approccio securitario. Chiediamo di fermarsi, per non diventare strumento di propaganda sulla pelle delle persone” chiudono. L’umanità dei padovani - Una sensibilità che ieri poi si è vista sul posto, dove diversi cittadini sono andati a trovare i senzatetto multati, offrendosi di pagare la multa: “Non voglio che il mio nome sia riportato, perché altrimenti poi c’è chi pensa voglia farmi bello e invece questa è un’iniziativa personale - racconta uno di loro -. Io sono assolutamente d’accordo con le zone rosse e sono stato soddisfatto quando sono state istituite, ma si parlava di reati e non di accanirsi sulla povera gente”. L’intervista a Ligia Agachi: “Non ho i soldi per pagare questa multa” - Tornando alla politica, anche Carlo Pasqualetto, segretario regionale di Azione e consigliere comunale della lista civica del sindaco, critica l’operazione: “Ritengo che le zone rosse siano l’ennesima iniziativa di questo governo che fa del sensazionalismo il suo metodo principale, ma poi le ricadute sono sulle amministrazioni locali. Ho dei seri dubbi che questo tipo di scelte cambino qualcosa, quindi credo sia più serio distribuire giuste risorse a chi conosce il territorio e a chi sa rispettare le persone, iniziando dai nostri poveri”. “Andrebbe usato del buonsenso - aggiunge Luigi Tarzia, che invece la lista del sindaco l’ha abbandonata in polemica con Sergio Giordani, diventando capogruppo del Misto -. La zona rossa ha ben altre finalità, non certo quelle di colpire la povera gente. Poi però bisognerebbe anche chiedersi come mai ci sono tutte queste persone che vivono per strada, nonostante l’ingente somma che il bilancio prevede a favore dei servizi sociali. Vuole dire che la politica è stata distratta e dovremmo fare tutti di più”. Pesaro. Rap e cinema d’animazione nel carcere femminile rainews.it, 12 febbraio 2025 Animarap progetto che vedrà coinvolte detenute di Villa Fastiggi. Rap e cinema d’animazione alla Casa circondariale di Pesaro, sezione femminile, grazie ad Anima rap, un progetto pensato e realizzato da Arci Jesi Fabriano, in collaborazione con Notte Nera, con il sostegno di Antigone Marche. Si parte con un percorso formativo gratuito a cura di Antigone Marche che si terrà il 5 e 19 marzo, 2 e 16 aprile ore 21, rivolto a operatori, personale educante, associazioni ed enti del terzo settore, collettivi e persone singole interessate ad approfondire o implementare la propria conoscenza attorno a dinamiche, condizioni e funzionamento degli istituti penitenziari con uno speciale focus sulle carceri marchigiane. Successivamente, con il rapper e scrittore Kento - all’attivo 3 libri, 10 dischi e più di 1.000 concerti, da oltre 10 anni cura laboratori di scrittura all’interno di carceri, scuole e comunità di recupero - a guidare una settimana intensiva di laboratorio di musica rap (giugno 2025): dalla stesura di un testo, alla registrazione della traccia audio, le donne detenute sono coinvolte in un percorso che consegnerà loro strumenti e abilità creative di narrazione, scrittura e canto. Il brano prodotto incontra poi il cinema d’animazione: a cura di Notte Nera, il laboratorio intensivo di stop-motion è guidato dai maestri animatori Benedetta Sani - regista e artista visiva italiana - e Matteo Giacchella - formatore e operatore cinematografico attivo nell’audiovisivo -, che accompagnano le detenute nella produzione di un videoclip animato che unirà la traccia rap ad immagini in movimento (luglio 2025). Il lavoro finale sarà il risultato di un percorso integrato e corale. “Siamo felici di inaugurare una formazione gratuita offerta al territorio regionale in collaborazione con Antigone per approfondire temi importanti legati al carcere, commenta il Presidente di Arci Jesi Fabriano Ruggero Fittaioli. “Ringraziamo la Casa Circondariale di Pesaro che ha accolto questa sfida e rende possibile questo percorso innovativo”, conclude la Direttrice artistica del progetto Carolina Mancini. Il saggio “Oltre la vendetta”: la giustizia riparativa è un’occasione per tutti. A partire dalle vittime di Antonio Polito Corriere della Sera, 12 febbraio 2025 Le ragioni di uno strumento giuridico nel volume, edito da Laterza, del magistrato Marcello Bortolato e del giornalista Edoardo Vigna. A ben pensarci, la vera vittima del processo penale è la vittima stessa. Chi ha subito un reato, un torto, chi ha sofferto. Eh sì, perché il processo è un gioco a tre: la pubblica accusa, l’imputato e il giudice. La vittima non c’è. È vero, può costituirsi parte civile, ma così ottiene solo, nella migliore delle ipotesi, un risarcimento del danno subito. E invece la vittima può volere anche altro, qualcosa di più di un risarcimento: una riparazione. Ma quando il processo è terminato, gli anni di carcere sono stati inflitti, le sbarre si sono chiuse alle spalle del colpevole, anche la vittima è condannata; e la sua pena è la “tirannia del dolore”, l’obbligo di pesarlo con l’unica bilancia degli anni di carcere inflitti al reo, mentre in aula scoppiano gli applausi alla lettura della sentenza, perché vendetta è compiuta, o le urla di rabbia, perché nessuna condanna è mai abbastanza. Il resto è silenzio, il dopo è silenzio: la vittima resta “vincolata all’irreparabile”, nell’impossibilità di spiegare che cosa ha provato, perché continua a non dormire la notte, ad aver paura, perché proprio io, perché quella mattina, che cosa diavolo gli sarà passato per il cervello a puntarmi in faccia una pistola, a prendermi a pugni, a saltarmi addosso, a farmi violenza? Ecco, prima di leggere Oltre la vendetta (Laterza), il piccolo ma prezioso libro di Marcello Bortolato, un magistrato, ed Edoardo Vigna, un giornalista del “Corriere”, non avevo mai pensato alla “giustizia riparativa” dal lato della vittima. Sapevo, sì, che la riforma Cartabia ha introdotto questo nuovo istituto nel 2022, un programma che consente di mettere insieme intorno a un tavolo, ma solo se entrambi lo vogliono, la vittima e la “persona indicata come autore dell’offesa” (espressione abbastanza ampia da comprendere anche chi è indagato o imputato ma non ancora condannato, dunque anche a processo in corso), con l’obiettivo di “risolvere le questioni derivanti dal reato”. Ma pensavo che si trattasse in definitiva solo di un’ulteriore (e benedetta) norma tesa ad applicare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena: in sostanza, una mano tesa al condannato. Magari in cambio di redenzione, di scuse, di contrizione. E invece ho scoperto altre cose. La prima delle quali è che né il pentimento né il perdono sono richiesti. Se ci sono, meglio; ma lo scopo non è quello. È parlarsi, comunicare emotivamente, riconoscersi reciprocamente, trasformare una relazione violenta in una normale. Il caso più noto è quello di Agnese Moro, che ha partecipato con successo a un programma di giustizia riparativa con gli assassini del padre, ma non sappiamo se abbia mai perdonato, il perdono è un fatto privato, “che non si può chiedere a tutti e non tutti sono in grado di dare”. E d’altra parte bisogna evitare il rischio di un “buonismo” giudiziario, destinato a sconcertare l’opinione pubblica e a trasformarsi in paternalismo moralistico. Non si può escludere infatti che un imputato punti solo a ottenere un beneficio, e infatti a chiedere l’accesso ai Centri e ai mediatori sono soprattutto loro, più che le vittime. Ma se poi la procedura non funziona, o la vittima non ci sta, il giudice potrebbe esserne condizionato, e dunque per gli insinceri è un’arma a doppio taglio. In ogni caso, se la cosa non riesce si ferma tutto, e nessuno saprà mai perché. Se invece si raggiunge un accordo, questo comporterà “un impegno reciproco su qualcosa da fare o da dare, simbolico o materiale”. Una ferita sarà sanata. Il giudice potrà raccogliere l’esito positivo e concedere un’attenuante, o un beneficio se si tratta di un condannato già in carcere. Oppure no. Non si tratta dunque di “giustizia riparatoria”, già prevista del resto nel nostro ordinamento attraverso risarcimenti, restituzioni, prestazioni a favore della comunità, lavori di pubblica utilità e cose del genere. “Riparativa” è un termine diverso da “riparatoria”, e dovrebbe evocare il “Restorative Justice” del diritto anglosassone, visto che è impossibile tradurre in italiano con “ristorazione” ciò che è anche “rigenerazione” e “ricostruzione”. Ci risulta più facile comprenderne il fine, se applicato a vicende in cui appare possibile superare “lo scandalo della equiparazione”, mettere cioè allo stesso tavolo vittima e reo, nella speranza di “aggiustare il passato senza infliggere dolore nel presente”, per usare una frase di Martha C. Nussbaum. Nei grandi processi di riconciliazione nazionale, come quello del Sudafrica dopo l’apartheid o dell’Irlanda del Nord alla fine della trentennale guerra civile. O per una chiusura definitiva della stagione del terrorismo. Ma ci sono anche molti altri casi in cui è intuitivo il vantaggio, e di conseguenza il beneficio, di una possibile “riparazione”. Pensiamo a reati di bullismo o di violenza tra adolescenti, ormai tanto insensati quanto frequenti. Pensiamo ai cosiddetti “reati senza vittima”, come lo spaccio di stupefacenti, o la guida in stato di ebrezza, in cui il colpevole può comunque chiedere di incontrare una vittima “surrogata”. Oppure ancora i casi in cui una vittima “aspecifica” di un delitto il cui autore non è stato mai individuato (un rapinatore, uno stupratore) può far comprendere al colpevole di un analogo reato il dolore provato, e ottenere in questo modo una qualche riparazione dell’offesa subita. La “giustizia riparativa” è certo una strada impervia, difficile, a rischio di incomprensioni e fraintendimenti. È altrettanto sicuramente un salto di civiltà, perché la parola “giustizia” non è un sinonimo di “vendetta”: forse la comprende, ma non vi si esaurisce. “Il traffico degli stupefacenti”, un libro per scoprire i segreti del narcotraffico di Rosa Benigno Il Roma, 12 febbraio 2025 Il testo dell’avvocato Alexandro Maria Tirelli affronta il panorama normativo e criminologico del mercato della droga. Dove finisce la droga sequestrata? Come si evolvono le normative sul narcotraffico? È giusto garantire ai detenuti l’accesso alla rete? Questi interrogativi emergono con forza dal libro “Il traffico degli Stupefacenti” di Alexandro Maria Tirelli, una pubblicazione che affronta in maniera rigorosa il complesso panorama normativo legato al traffico di droga. L’opera si propone come un riferimento essenziale per giuristi, magistrati e studiosi del diritto penale, offrendo un’analisi approfondita delle disposizioni legislative nazionali e internazionali che regolano il fenomeno. Un’analisi dettagliata della normativa - Il volume esplora il quadro giuridico vigente sullo spaccio e il traffico di stupefacenti, con un focus specifico sulle leggi italiane e sul loro raccordo con le convenzioni internazionali. Tra gli aspetti centrali della trattazione, particolare attenzione è dedicata all’interpretazione giurisprudenziale delle norme, alla distinzione tra uso personale e spaccio e alle aggravanti previste per i reati di narcotraffico. Un elemento di grande interesse è l’esame delle rotte globali del traffico di droga, evidenziate nell’immagine di copertina attraverso una mappa che mostra i flussi principali dai paesi produttori ai mercati di consumo. La presenza di direttrici che attraversano l’America Latina, l’Africa occidentale e l’Europa dimostra la dimensione transnazionale del fenomeno e la necessità di una cooperazione giuridica internazionale per contrastarlo. L’accesso alla rete per i detenuti: una riforma necessaria? - Uno dei punti più controversi affrontati nel libro riguarda la proposta di garantire ai detenuti il diritto all’accesso a Internet tramite l’utilizzo di tablet. Secondo l’autore, questa riforma rappresenterebbe una misura innovativa per favorire la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti, consentendo loro di accedere a strumenti formativi, legali e culturali. Tale proposta si inserisce in un dibattito più ampio sulle condizioni carcerarie e sui diritti fondamentali dei detenuti, suscitando opinioni contrastanti tra chi vede in essa un’opportunità di rieducazione e chi teme possibili abusi legati all’uso della rete in ambiente carcerario. Un’opera per professionisti del diritto e operatori del settore - Il libro è promosso dalle Camere Penali del diritto Europeo e Internazionale e dalla European and International Law Criminal Chambers, due istituzioni di riferimento nel campo del diritto penale transnazionale. La pubblicazione, disponibile su Amazon, si rivolge non solo agli operatori del diritto, ma anche a chiunque voglia comprendere meglio le dinamiche del narcotraffico e il ruolo della legislazione nel contrastarlo. L’autore, Alexandro Maria Tirelli, è un noto esperto di diritto internazionale e diritto penale degli stupefacenti, con un’ampia esperienza nei processi legati alla criminalità organizzata e al traffico di droga oltre che docente dell’Alta Scuola Estradizioni. Attraverso questa pubblicazione, egli fornisce un contributo significativo alla comprensione di una delle problematiche più complesse e attuali del panorama giuridico globale. Conclusione - Il traffico degli Stupefacenti non è solo un’opera di consultazione giuridica, ma anche un testo che stimola il dibattito su tematiche di grande rilevanza sociale, dalle politiche di contrasto alla droga fino ai diritti dei detenuti. Un contributo fondamentale per chiunque voglia approfondire la materia con un approccio tecnico, critico e aggiornato. Grazia Zuffa, donna autorevole. Amica e maestra di Susanna Ronconi Il Manifesto, 12 febbraio 2025 Il ricordo Grazia Zuffa non c’è più, la sua morte ci lascia un vuoto immenso: di intelligenza critica, rigore scientifico e, insieme, di passione politica e impegno. Grazia Zuffa non c’è più, la sua morte ci lascia un vuoto immenso: di intelligenza critica, rigore scientifico e, insieme, di passione politica e impegno. La sua presenza ha segnato la vita di tante e tanti di noi, che da lei abbiamo appreso a conoscere per agire, a riflettere fuori dagli schemi e a ricercare nuove prospettive, ad assumerci, qualsiasi sia il nostro ruolo, una coraggiosa responsabilità pubblica. Una donna che incarna, in tempi bui, ciò che un, una intellettuale dovrebbe sempre essere e così raramente oggi è: coraggio politico e onestà intellettuale, impermeabilità all’opportunismo di ogni sorta e profonda fiducia nella possibilità di un’azione politica che mantenga il suo significato più alto e vero. Queste, del resto, sono sempre state le sue cifre: ha dedicato la sua vita alla ricerca, alla formazione, alle politiche in tanti campi dove sempre più trionfano semplificazioni, autoritarismi, disprezzo per i diritti: dalle droghe alla giustizia, dal carcere alla salute mentale. Negli ultimi anni, il suo lavoro si era concentrato sui consumi di sostanze psicoattive nei contesti naturali, aprendo così anche in Italia nuove prospettive per la ricerca e le politiche antirepressive; sui modelli operativi dei servizi per le dipendenze e la salute mentale, sulla riduzione del danno correlato alle droghe, sulla detenzione, con lo sguardo soprattutto alle donne. È stata Grazia ad introdurre nel dibattito pubblico italiano il tema della regolazione dei consumi di sostanze, affiancando sempre alla ricerca, la divulgazione. Così ha pubblicato Cocaina, il consumo controllato (Ed. Gruppo Abele, 2010) e Droghe e autoregolazione (Ediesse, 2017), che abbiamo scritto insieme. Come insieme abbiamo esplorato il mondo della detenzione femminile, lavorando dentro e fuori le carceri con gli strumenti della ricerca-azione, pubblicando per Ediesse Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere (2014) e La prigione delle donne (2020). Ma il suo contributo è stato importante anche per il femminismo italiano e per i tanti temi di ordine etico che hanno a che fare con la libertà e i diritti di tutte e tutti, su cui ha lavorato anche nell’ambito del Comitato nazionale di Bioetica, un garantismo il suo dalle radici profonde, mai retorico, ben piantato in un umanesimo che si rifletteva in ogni sua parola. Con Forum Droghe, già negli anni ‘90, e poi con La società della Ragione - di entrambe le associazioni è stata fondatrice insieme a Franco Corleone - ci ha portati ad alzare lo sguardo oltre gli approcci e le politiche delle droghe che umiliano, insieme, la scienza e i diritti umani, e in questa stessa rubrica, e, prima, con il mensile Fuoriluogo, Grazia ha dipanato il filo rosso del suo pensiero critico, aiutandoci a orientarci nella complessità sociale e ad attrezzarci contro gli autoritarismi vecchi e nuovi che la governano. Tuttavia, ricordare Grazia limitatamente al suo fare, studiare, scrivere non sarebbe renderle riconoscimento e onore in modo esaustivo: sono le mille voci che hanno risuonato, da Torino a Messina all’Europa, alla notizia della sua scomparsa, che vanno ascoltate; sono le parole di chi ricorda l’incontro con lei come un momento cruciale di apertura di nuove idee, prospettive, sguardi. Le voci, le nostre voci, che parlano dell’affetto per una maestra che ha indicato sfide politiche, culturali e scientifiche da ingaggiare, senza mai sottrarsi ad accompagnarci in prima persona, ad esserci, con noi tutte e tutti, nella dura ricerca del cambiamento del presente. Le abbiamo voluto bene, come amica, donna, maestra, e continueremo a volergliene, perché tanto di lei c’è e resta nelle nostre battaglie, nei nostri percorsi di conoscenza, nel nostro desiderio, che è sempre stato il suo, di non cedere nemmeno un grammo di intelligenza e umanità. Il ricordo collettivo su fuoriluogo.it e societadellaragione.it Fine vita. La Toscana è la prima regione in Italia a dotarsi di una legge di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 febbraio 2025 Approvata la norma che garantisce procedure e tempi certi secondo i requisiti stabiliti dalla Consulta: “vittoria” dell’Associazione Coscioni dopo il flop in Veneto. Il governatore: “Salto di civiltà”. La Toscana è la prima regione in Italia ad approvare la legge sul fine vita, sei anni dopo la storica sentenza 242 della Consulta che regola l’accesso al suicidio assistito in assenza di una norma nazionale. Il Consiglio regionale ha approvato a maggioranza (27 favorevoli 13 contrari 0 astenuti un voto non espresso) la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’associazione Luca Coscioni con la campagna “Liberi Subito” e supportata da oltre 10mila firme con l’obiettivo di definire tempi e procedure per l’aiuto medico alla morte volontaria. “È una legge di civiltà perché impedisce il ripetersi di casi - da ultimo quello di Gloria, proprio in Toscana - di persone che hanno dovuto attendere una risposta per mesi, o addirittura per anni, in una condizione di sofferenza insopportabile e irreversibile”, spiega Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione. “Le regole approvate in Toscana - prosegue - consentono la piena attuazione della sentenza della Corte costituzionale “Cappato - Antoniani”, che ha legalizzato in Italia il cosiddetto “aiuto al suicidio” a determinate condizioni. Il voto del Consiglio regionale è stato dunque possibile grazie all’azione di disobbedienza civile di Marco Cappato, oltre che alla firma di 10.700 cittadine e cittadini della Toscana che hanno attivato lo strumento della legge di iniziativa popolare”. Di “un salto di civiltà che la Toscana compie per prima rispetto alle altre Regioni e al Parlamento”, ha parlato anche il presidente della Toscana Eugenio Giani prendendo la parola nell’aula del Consiglio regionale dopo le dichiarazioni di voto. L’obiettivo dell’Associazione Coscioni, ora, è che la legge sia approvata in tutte le Regioni, in modo da garantire tempi e procedure certe su tutto il territorio. Le modalità e i quattro requisiti di accesso al suicidio assistito sanciti dalla Consulta nel 2019, infatti, devono essere verificati dal Servizio Sanitario Nazionale secondo gli articoli 1 e 2 della legge 219/17 sulle Dat (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), previo parere del comitato etico territorialmente competente. Ma in assenza di leggi regionali che indichino in quanto tempo le verifiche debbano essere effettuate, i pazienti - affetti da patologie irreversibili e in stato di sofferenza fisica o psicologica intollerabile - restano in molti casi in attesa di una risposta che non possono permettersi di aspettare. Il primo a provarci era stato il Veneto di Luca Zaia, che nel 2024 ha discusso e “bocciato” la legge firmata da oltre 9mila cittadini e sostenuta dallo stesso governatore. In Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lombardia e Friuli Venezia Giulia le proposte sono state rinviate in commissione. Fine vita, il costituzionalista: “La legge toscana mette a rischio l’uguaglianza di trattamento” di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 12 febbraio 2025 “Lo Stato, non la Regione. Sul fine vita deve legiferare il Parlamento”. Il professor Leonardo Bianchi dell’Università di Firenze: la competenza è esclusiva dello Stato, la Regione doveva farsi promotrice di una legge nazionale Quindi secondo lei, Leonardo Bianchi, docente di Diritto costituzionale all’Università di Firenze, il Consiglio regionale ha sbagliato? “La sentenza della Corte Costituzionale che mette al riparo il medico che aiuta un paziente a morire - in presenza di 4 specifiche circostanze - era già applicabile senza bisogno di una legge. I problemi applicativi che però pone, necessitano di una disciplina nazionale”. La Toscana avrebbe dovuto astenersi dal legiferare? “Sì perché non si tratta di tutela della salute ma di assicurare l’esercizio del diritto alla vita. È il primo dei diritti”. La Corte di fatto ha sentenziato sul diritto a morire... “Ma ha ribadito il principio di indisponibilità della vita”. Giuridicamente parlando, a chi appartiene la vita? All’individuo? Allo Stato? “Il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto in Costituzione anche se non esplicitato testualmente, ma la Corte ribadisce che il suicidio non è un valore ma un disvalore”. Ma se suicidarsi non è reato e il medico che aiuta un paziente a morire non è punibile, questo “disvalore” non viene di fatto svuotato? “Il disvalore sociale rimane se consideriamo il fatto che l’istigazione al suicidio è ancora punita. E rimane nella lettera della sentenza”. Il conflitto tra principio di autodeterminazione e diritto alla vita come si risolve? “Quando due diritti fondamentali sono in conflitto si tratta di soppesarli secondo il principio di ragionevolezza. Dovrebbe farlo il legislatore nazionale”. Ancora il Parlamento dunque. Per questo pensa che la nostra Regione avrebbe fatto meglio ad astenersi. “Anche perché questioni che impegnano la coscienza meriterebbero il voto segreto, mentre in Consiglio regionale il voto è palese. Poi, come detto: è una materia di competenza statale, non regionale. Il Consiglio regionale avrebbe dovuto farsi promotore di una legge nazionale”. Che la storia ci insegna sarebbe finita sotto il proverbiale tappeto... “Questo però è un dato politico, non giuridico. E non è nemmeno così vero: la commissione Giustizia del Senato ci sta lavorando”. Per i promotori si è trattato di una extrema ratio per mancanza di alternative... “Che però non tiene conto della necessaria uguaglianza di trattamento in tutto il territorio nazionale. Così si alimenta un “turismo della morte” da altre regioni. E anche all’interno della Toscana non si garantisce uniformità”. Perché? “Abbiamo 3 Asl e 4 aziende ospedaliere, le cui commissioni etiche potrebbero dare pareri diversi. E la commissione regionale di bioetica è paralizzata dal 2019 e non viene presa in considerazione da questa nuova legge”. Vede altre criticità? “I tempi, troppo serrati: sono pochi 37 giorni per esaurire un provvedimento totalmente irreversibile”. Lei è contrario alla norma solo “tecnicamente” o anche dal punto di vista dei valori? “Da giurista parlo solo degli aspetti problematici giuridici. Ma qui parliamo della vita, non delle concessioni balneari: c’è una qualità diversa”. Che la Toscana faccia da apripista su un tema così importante come lo giudica? “Giurisprudenza costituzionale ed europea non offrono spazio per una legge regionale su questo tema”. E il tema dell’obiezione di coscienza come si affronta? “La legge prevede un’adesione volontaria alle commissioni e alla pratica del suicidio assistito: è così che prova a levarsi di torno il problema: niente obbligo, niente obiezione”. E ci riesce? “Forse, vediamo in fase di applicazione”. Scuola. Valditara e Nordio: “Arresto per chi colpisce gli insegnanti” di Luciana Cimino Il Manifesto, 12 febbraio 2025 La Lega chiede di inasprire ancora le pene contro le occupazioni. Il Governo sarà anche in ambascia ma procede spedito verso la trasformazione della scuola pubblica in “ufficio repressione e reati”. Il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara e il partito di cui è espressione, la Lega, stanno conducendo una lotta a tutto tondo contro l’attivismo degli studenti e contro il modello di istruzione democratica che la destra legge come espressione del 1968. L’esecutivo Meloni si è distinto fino a ora per la tendenza a inasprire le pene di fronte ad ogni fatto di cronaca e così è stato anche questa volta. Valditara, dopo aver letto di un professore pugliese aggredito nei giorni scorsi dai genitori di un alunno, ha contattato il collega alla Giustizia, Carlo Nordio, per proporgli di estendere la misura dell’arresto in flagranza di reato anche alle aggressioni nei confronti del personale scolastico. “Stiamo lavorando insieme su una norma in questa direzione, il governo e il ministro sono accanto ai docenti che devono sentire forte la presenza costante delle Istituzioni”, ha dichiarato il ministro. Agli uffici tecnici dei due ministeri spetta ora capire come fare, dato che solo lo scorso marzo il governo aveva modificato il codice penale proprio per tutelare maggiormente il personale scolastico, aggiungendo come aggravante le violenze o minacce al personale della scuola, con aumento delle pene nel caso il fatto fosse commesso da un genitore. La motivazione come al solito è quella dell’emergenza e un provvedimento da prendere a modello c’è già: quello sulle aggressioni al personale sanitario. A sostegno della sua proposta il Mim affianca dati. Negli ultimi anni - fanno sapere da Viale Trastevere - gli episodi di violenza nei confronti del personale scolastico in Italia sono aumentati: “Durante l’anno scolastico 2022/2023 sono stati registrati 36 episodi, saliti a 68 nel 2023/2024”. Ma, come ha spiegato lo stesso ministro in altre occasioni, le rilevazioni delle aggressioni ai danni dei docenti partono solo dal 2022. Naturale, quindi, che i dati del presunto aumento di atti violenti o minacciosi appaiano molto alti e giustifichino la volontà di Valditara e Nordio di intervenire ancora su questo tema. Quanto agli studenti, la Lega ha ingaggiato fin dall’esordio della legislatura una battaglia contro le occupazioni e le attività di partecipazione democratica scolastiche. Valditara in questo campo ha già fatto molto, dalla riforma del voto in condotta alle sanzioni pecuniarie per i presunti danni derivanti dalle autogestioni, ma forse non abbastanza per i salviniani. In particolare per il duo composto da Rossano Sasso, capogruppo in commissione Cultura e Istruzione alla Camera, e la parlamentare Simonetta Matone, che si attiva a ogni occupazione con interrogazioni parlamentari e con richieste sempre più punitive. “I collettivi di sinistra organizzano corsi di barricata”, secondo i due leghisti, e questo renderebbe necessaria una ulteriore “norma che incida sulla responsabilità dei minorenni che occupano e danneggiano”. E “come Lega” chiedono alla maggioranza di centrodestra di “aprire una riflessione che porti in breve tempo a un provvedimento”. L’ennesimo. Migranti, che ci piacciano o no. L’Africa, l’Europa e il futuro segnato di Mattia Feltri La Stampa, 12 febbraio 2025 Il fenomeno non è un’emergenza ma un dato strutturale in crescita. In una ricerca diffusa qualche giorno fa, Confcommercio quantifica in 258 mila i lavoratori che nel 2025 alberghi, ristoranti e negozi cercheranno e non troveranno. L’aumento, rispetto al 2024, è del 4 per cento: oltre diecimila lavoratori in più, introvabili, e necessari a mandare avanti l’industria del turismo e della ristorazione. Mancheranno macellai, gastronomi, addetti al pesce, gelatai, barman, cuochi, pizzaioli, camerieri di sala, addetti alle pulizie e al riassetto, ma anche commessi dell’abbigliamento e dipendenti dei supermercati. La causa principale è nel calo demografico. Dal 1982 a oggi, l’Italia ha perso quattro milioni e ottocentomila giovani e giovanissimi compresi nella fascia d’età che va dai quattordici ai trentanove anni. Non soltanto i giovani sono diminuiti, ma sono anche poco disposti a impiegarsi - stagionalmente e tanto meno stabilmente - in mestieri umili, faticosi, malpagati (l’approccio al lavoro è cambiato: meglio cercare di capirlo che lagnarsene). Un guaio per la crescita di comparti con grandi potenzialità e che può soltanto peggiorare: l’anno prossimo andrà peggio di questo e quello successivo peggio ancora. E fin qui abbiamo parlato soltanto del commercio. Poi ci sono i servizi: badanti e infermieri, innanzitutto, ovvero chi si occupa e si occuperà di noialtri vecchi in una società di vecchi. Non siamo naufraghi in mezzo al mare: in Germania l’età media è di quarantacinque anni e il tasso di fertilità è di 1.46 figli per donna, appena meglio dell’Italia che è all’1.24. Comunque molto lontano dal 2.1, il tasso di sostituzione sotto il quale comincia il calo demografico. L’Agenzia tedesca per il lavoro stima che alla Germania serviranno 400 mila immigrati all’anno per dieci anni, totale di quattro milioni “per garantire la stabilità economica e sociale”, come riportava ieri il Sole 24Ore. Eppure la campagna elettorale, che culminerà nelle elezioni del 23 febbraio per il rinnovo del Parlamento, insiste nello schema tracciato dal confronto di pochi giorni fa fra Olaf Scholz, cancelliere e leader dei socialdemocratici, e Friedrich Merz, leader dei popolari. Nessuno ha mai preso misure così severe sui migranti e gli effetti si vedono, ha detto Scholz; quelle che prenderò io, ha risposto Merz, lo saranno per davvero. L’uno e l’altro all’inseguimento delle rispettive estreme, Alternative für Deutschland alla destra dei popolari e i sovranisti di sinistra di Sarah Wagenknecht al di là dei socialdemocratici. La gara a chi mena meglio e di più. La distinzione che si fa sempre in questi casi è fra l’immigrazione clandestina e quella regolare, pianificata, proprio per trovare forza lavoro e contributori fiscali, e infatti erano clandestini quelli ammanettati e fotografati mentre li caricavano su un aereo per essere espulsi. Ma non dagli Stati Uniti di Donald Trump, dall’Inghilterra di Keir Starmer, primo ministro laburista. E tutti regolari sono gli immigrati di Monfalcone che mandano le loro figlie a scuola col niqab, il velo integrale, e per questo hanno suscitato la rabbia di buona parte della destra che ha promesso leggi toste e, se necessario, una bella pulizia. Soltanto che senza gli sgobboni bengalesi i cantieri navali di Monfalcone si fermano. E quando li avete portati in Italia con le quote - ha scritto giustamente Karima Moual - avete spiegato loro che in Italia non si può girare col niqab? Che in Italia esiste la legge degli uomini e non la legge di Dio? Che la religione non coincide con lo Stato e lo Stato è laico? La severità tedesca, però, si impone nel dibattito pubblico nel momento in cui Alternative für Deutschland ha la soluzione finale: la remigrazione, e cioè la sbrigativa risposta alla sostituzione etnica studiata dalle élite bianche e progressiste (teoria del complotto sostenuta in campagna elettorale anche da Giorgia Meloni). E cioè l’espulsione degli stranieri regolari o irregolari, di prima o seconda o terza generazione, figli del meticciato, chiunque non abbia le credenziali sanguigne per restare in Germania (o in Austria, per dire di un altro posto in cui la remigrazione piace, o in Italia, secondo le aspirazioni di qualche leghista). Si parla di un numero compreso fra i sette e i venticinque milioni di immigrati da buttare fuori dai confini tedeschi. Più la destra si sposta a destra, più trascina un po’ più a destra la sinistra. E infatti oggi, a parte i deliri della remigrazione, non c’è differenza fra quello che fa Trump e fa Starmer, fra quello che dice Scholz e dice Merz. Fra quello che si dice e si fa a destra e si dice e si fa a sinistra. E succede perché tutti quanti, a destra e a sinistra, hanno lo stesso approccio ansiogeno, quello che si ha davanti a un’emergenza. E non per niente i più la chiamano così: emergenza immigrazione, e le emergenze ammettono soluzioni eccezionali: remigrazioni, rastrellamenti, catene, o almeno gare di spietatezza per solleticare gli elettori. Ma dopo decenni di migrazioni, forse non è più un’emergenza bensì un fenomeno strutturale. Così strutturale - ironiche e magnifiche sorti - che ormai non vogliamo i migranti ma ne abbiamo un disperato bisogno. Il Rapporto mondiale sulle migrazioni del 2024, presentato dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni, calcola in 281 milioni i migranti a livello globale, a cui si devono aggiungere 117 milioni di persone in movimento per sfuggire a guerre o persecuzioni o carestie. Totale, 398 milioni di persone. Cinquanta milioni più dell’intera popolazione degli Stati Uniti, cinquanta milioni in meno dell’intera popolazione dell’Unione europea. I 117 milioni di migranti in movimento e in fuga, segnala l’Organizzazione, rappresentano il numero più alto mai registrato. Ma un altro numero ancora mi pare renda bene l’idea: dal 2000 al 2022, le rimesse dei migranti, ossia i soldi che hanno mandato a casa, sono passate da 128 a 831 miliardi di dollari. E cioè: sono più i soldi che i migranti spediscono nei loro paesi di quelli investiti in cooperazione internazionale per incrementare il prodotto interno lordo dei paesi in via di sviluppo. Migrare dunque è un’attività umana diventata costante, per necessità o per possibilità. L’uomo è sempre stato un migrante ma mai con l’intensità e la facilità (relativa, perché migrare mette a rischio la vita) di oggi. La globalizzazione non ha aperto e rimpicciolito il mondo solo alle merci, ma anche agli uomini. Chiamare tutto questo emergenza, significa non avere compreso che non finirà. Significa, soprattutto, non avere in animo di prendere contromisure ponderate e solide, e infatti si pencola fra l’assurdo dei porti chiusi e l’assurdo dei porti aperti: fuori tutti, tutti dentro. Lunedì, Milena Gabanelli ha rielaborato le previsioni dell’Onu sulla popolazione mondiale da qui a fine secolo. Attualmente siamo 8 miliardi e 200 milioni. Nel 2080 raggiungeremo il picco a 10 miliardi e 300 milioni. Poi comincerà la discesa. Nel frattempo la discesa è cominciata in alcune parti del mondo: in Europa, lo sappiamo bene, ma anche in Cina dove il tasso di fertilità è drammaticamente all’1.18, peggio dell’Italia. Oggi la Cina ha 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, a fine secolo ne avrà meno della metà. L’India resterà in crescita demografica fino al 2060. In Sudamerica l’inversione arriverà poco prima. Se la popolazione mondiale salirà di altri due miliardi, lo si dovrà essenzialmente all’Africa subsahariana che oggi ha un miliardo e 300 mila abitanti, e a fine secolo saranno 3 miliardi e 300 milioni. Insomma: il bello per noi deve ancor venire. E se - invece di rafforzare la cooperazione, invece di far entrare quanti più migranti è possibile e indispensabile, invece di impegnare piani e progetti e politica - continueremo a spandere scemenze complottarde e soluzioni esoteriche, presto o tardi, i migranti l’Italia se la prenderanno, con le buone o con le cattive. Sui migranti non servono i Centri albanesi ma una risposta europea di Gianfranco Pasquino* Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2025 È proprio su questo terreno che l’Ue dovrebbe dimostrare che l’unione fa la forza, che mettere insieme risorse, esperienze, competenze è un vero grande salto di qualità, che, più banalmente, non saranno uno più centri “albanesi” a produrre soluzioni efficaci, decenti e a costi contenuti. Porre rimedio a un fallimento come quello, da più parti dichiarato, dei centri per migranti collocati in Albania, è persino più difficile di individuare una soluzione decente, praticabile, in grado di durare per un futuro imprevedibile. Le motivazioni giuridiche del fallimento sono state impeccabilmente argomentate da Vitalba Azzolini. Prima il governo ne prende atto meglio sarà. Sapere quel che non si deve fare, questa è la vera lezione anche per gli altri paesi europei e i loro capi di governo, non avvicina, però, nessuna soluzione. Dovremmo avere imparato che nessuna soluzione esiste a un fenomeno epocale di massa se non è una soluzione europea. Anche molti “patrioti” lo sanno benissimo che ciascuno dei loro governi, quand’anche si arrocchi orgogliosamente, non riuscirà a fermare i flussi migratori e dovrà comunque pagare un prezzo economico e securitario, anche sociale, nient’affatto marginale. Una risposta europea - Da tempo, un po’ tutti sostengono che la riposta debba essere europea, ma tutti sanno altresì che non sono solo i patrioti a opporsi a quella soluzione. I sostenitori della soluzione europea, è opportuno tornare ai punti fondamentali, la appoggiano a due considerazioni diversamente inoppugnabili. Non so in quale ordine metterle, ma si tratta di diritti e di bisogni. La questione dei diritti è molto complessa poiché riguarda persone che sono costrette a lasciare il loro paese oppresso da governanti autoritari che impediscono loro non soltanto di esercitare i diritti politici di oppositori, ma anche di guadagnarsi da vivere per sé e per le loro famiglie. I respingimenti e i rimpatri coatti nei paesi d’origine sono una condanna per evitare la quale i migranti sono comprensibilmente disposti ad accettare i più alti rischi. La individuazione dei paesi “sicuri” (Egitto? Bangladesh?) più sono sicuri meno migranti li lasceranno, non può essere affidata a nessun singolo governo europeo. L’elenco deve essere stilato dall’Unione europea e dall’apposito commissario con riferimento alle numerose ricerche esistenti su libertà, corruzione, democrazia. La questione dei bisogni riguarda non solo i migranti stessi, la loro provenienza da paesi nei quali economicamente hanno come unica prospettiva la fame e la miseria (ma, attenzione, i dannati della terra non hanno neanche le risorse per tentare di emigrare). Riguarda il bisogno, la necessità di migranti che, a causa dell’inarrestabile declino demografico, è lampante, persino crescente in un po’ tutti i paesi europei. Potrebbe essere tradotto in una relazione virtuosa: accoglienza in cambio di lavoro. Civili e comprensivi - Noi europei non dobbiamo provare che siamo buoni e accondiscendenti. Dobbiamo dimostrare che siamo civili e comprensivi. Il problema è che dimostrare civiltà e comprensione non è qualcosa che passa attraverso le parole e le mozioni degli affetti nelle quali parte della sinistra e dei cattolici sembra bearsi. Richiede impegno concreto e condiviso, consenso politico ampio, efficienza amministrativa diffusa. Si potrebbe stilare la lista degli stati-membri dell’Unione europea che dispongono di queste essenziali risorse e in quali quantità, ma anche con quale disponibilità a metterle all’opera per fare fronte alla sfida, che non è solo sociale e culturale, ma anche tecnica e burocratica, dei migranti. Va detto che è proprio su questo terreno che l’Unione europea dovrebbe dimostrare che l’unione fa la forza, che mettere insieme risorse, esperienze, competenze è un vero grande salto di qualità, che, più banalmente, non saranno uno più centri “albanesi” a produrre soluzioni efficaci, decenti e a costi contenuti. Nel suo piccolo, questa è la lezione che discende da quel che è successo in/con l’Albania, da non ripetere. Per quanto difficile, la strada europea è l’unica perseguibile. Se ha imparato la lezione forse il governo italiano potrebbe prendere l’iniziativa. *Accademico dei Lincei Migranti. Cpr di Torino, al via il processo per la morte di Moussa Balde di Michele Gambirasi Il Manifesto, 12 febbraio 2025 Il 23enne guineano si è suicidato nel Centro di Corso Brunelleschi nel 2021. A processo per omicidio colposo la direttrice e il medico che lo visitò. Archiviato invece il procedimento per sequestro di persona a carico del responsabile dell’ufficio immigrazione e di due agenti. Gianluca Vitale, legale della famiglia: “Processo importante ma parziale”. “L’orrore dei Cpr va avanti e anziché chiuderli, come andrebbe fatto, pensiamo a costruirne di più grandi, di esportare questo modello all’estero, come in Albania”. A dirlo è Marco Grimaldi, vicecapogruppo Avs alla Camera, nel corso della conferenza stampa organizzata ieri a Montecitorio insieme a Luca Rondi e Lorenzo Figoni, autori del libro Gorgo Cpr (Altreconomia, 2024), Amadou Thierno Balde e Mariama Sylla, familiari di Moussa Balde e Ousmane Sylla, entrambi si sono tolti la vita all’interno dei Cpr di Torino e Roma. Con loro anche Gianluca Vitale e Gaetano Pasqualino, legali delle famiglie. Oggi si apre a Torino il processo relativo alla morte di Moussa Balde, suicidatosi nel Cpr torinese di Corso Brunelleschi il 23 maggio del 2021. Balde, 23 anni originario della Guinea, era stato prima vittima di un’aggressione da parte di tre uomini a Ventimiglia, dunque arrestato perché privo di documenti e condotto nella struttura detentiva torinese. Qui era stato confinato in isolamento, dove poi si è tolto la vita. “È un processo importante ma parziale, perché manca tutta la parte sulla gestione istituzionale del Cpr” ha commentato ieri Vitale, legale della famiglia. Sono chiamati a rispondere del reato di omicidio colposo Annalisa Spataro, all’epoca direttrice del centro per conto della società Gepsa che aveva vinto l’appalto, e Fulvio Pitanti, il medico che dispose l’isolamento di Balde nel cosiddetto “Ospedaletto” del Cpr di Corso Brunelleschi. “Sono state archiviate le accuse di sequestro di persona a carico del responsabile dell’ufficio immigrazione e due agenti - ha proseguito Vitale - perché mancava l’elemento soggettivo, abbiamo letto. Significa che la procura ha concluso che il fatto c’era, ma visto che si è sempre fatto così i funzionari non potevano sapere che era sbagliato”. Nello stesso centro erano morti per mancanza di cure Hassan Nejl nel 2008 e Faisal Hossein nel 2019. Oggi la struttura è chiusa, dopo che un incendio appiccato dai detenuti la ha resa inagibile nel febbraio del 2023. “Siamo qui non solo per Moussa, ma per tutti coloro che ancora soffrono nei Cpr e lungo le frontiere” ha detto Amadou Thierno Balde, fratello di Moussa. “Vogliamo denunciare la violenza e le ingiustizie delle politiche italiane, che traumatizzano le persone anziché accoglierle. Moussa non dorme, e non dormirà, finché non sarà fatta giustizia per tutti, quando non ci saranno più famiglie che piangono morti e le persone saranno protette lungo le frontiere e ci saranno vere politiche di accoglienza”. Fuori dal tribunale ci sarà un presidio di solidarietà, cui parteciperà anche Mariama Sylla, è la sorella di Ousmane Sylla che si è suicidato nel Cpr di Ponte Galeria, a Roma, a febbraio 2024. Per il suo caso ancora deve aprirsi il processo. “Mi chiedo come questo sistema possa ancora andare avanti dopo queste morti - ha detto ieri a Montecitorio Mariama Sylla - mio fratello non si è solo suicidato. È stato portato a farlo, rinchiuso in un luogo senza luce, senza telefono, senza poter vedere nessuno”. L’appello della Cpi: “Il mondo si muova contro Trump” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 febbraio 2025 La Corte penale internazionale chiede agli Stati membri di difendere il suo mandato dalle sanzioni. E Musk attacca i tribunali che bloccano i decreti esecutivi del tycoon. Il nemico esterno e il nemico interno: di fronte a un’opposizione politica silente e smarrita, l’unico antagonista dell’amministrazione Trump sembra essere la giustizia, dalla Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) ai tanti tribunali disseminati sul territorio americano che nelle ultime settimane stanno congelando la valanga di ordini esecutivi emanati dalla Casa Bianca. Le sanzioni contro la Cpi segnano in tal senso un passaggio cruciale nell’opera di delegittimazione del diritto internazionale avviata del tycoon: la decisione di colpire economicamente al procuratore capo Karim Khan e gli altri membri della Corte, congelandone i beni e vietandone l’ingresso in territorio americano è ufficialmente una risposta alle indagini su presunti crimini di guerra compiuti dalle forze americane in Afghanistan e dal super-alleato israeliano nella Striscia di Gaza. Per Trump la Cpi non è un’istituzione imparziale al servizio della giustizia planetaria, ma un organismo politicizzato e ostile agli interessi nazionali degli Stati Uniti e dei suoi amici. È in questa cornice che ieri la stessa Corte dell’Aja ha lanciato un appello su X “a tutti i 125 Stati firmatari del Trattato di Roma e alla società civile”, affinché facciano quadrato per difendere il mandato e le prerogative della Cpi: “La Corte penale internazionale deplora la decisione dell’amministrazione statunitense di imporre sanzioni e si impegna a continuare a svolgere il suo mandato nell’interesse di milioni di vittime innocenti di atrocità e chiama i suoi membri a unirsi per sostenere la giustizia e il diritto globale”. Il 7 febbraio scorso, 79 Paesi membri della Cpi avevano firmato una dichiarazione congiunta contro le sanzioni di Washington in quanto “danneggiano gravemente tutte le inchieste in corso, rischiano di costringere la Corte a chiudere i suoi uffici sul campo lascoando impuniti i crimini più gravi”. Tra i firmatari figurano i principali Paesi dell’Unione Europea, come Germania, Francia e Spagna, insieme alla Gran Bretagna. Unica assente l’Italia, impegnata in una ruvida controversia con l’Aja per il caso Almasri. La delegittimazione del diritto e del sistema giudiziario si riflette, forse con ancor più virulenza, sul fronte interno dove nelle ultime settimane alcuni tribunali federali hanno congelato diversi ordini esecutivi dell’amministrazione. Il più furibondo detrattore della giustizia Usa è il miliardario Elon Musk, nominato da Trump a capo del Dipartimento della cosiddetta efficienza governativa con lo scopo di falciare la spesa pubblica e di licenziare decine di migliaia di funzionari. Durissime le invettive di Musk contro il giudice che ha impedito al suo staff di accedere ai registri del Tesoro. A dargli man forte il vicepresidente J.D. Vance che su X spara a zero sul potere giudiziario con una singolare analogia: ““Se un giudice provasse a dire ad un generale come condurre un’operazione militare, sarebbe illegale. Se un giudice tentasse di ordinare al procuratore generale come usare la sua discrezione come pubblico ministero, anche questo sarebbe illegale. Per la stessa ragione giudici non sono autorizzati a verificare il legittimo potere dell’esecutivo”. Roma ha dato vita alla Corte penale internazionale: Meloni calpesta la nostra storia di Daniele Archibugi e Tommaso Visone Il Domani, 12 febbraio 2025 L’Italia aveva fatto da apripista per la Corte, ora fa da apripista contro. Non difendendo la Cpi dall’assalto di Trump, il governo ci isola rispetto al resto dell’Ue e va pure in una direzione antistorica. “La Corte penale internazionale (Cpi) ormai è delegittimata, non se la fila più nessuno”. Così sosteneva Lucio Caracciolo qualche giorno fa nel corso di una puntata di Otto e Mezzo. Ha convinto Giorgia Meloni e i suoi ministri. Ma la cosa deve essere sfuggita a ben 79 Stati membri della Cpi - tra cui quasi tutti i paesi Ue, la Gran Bretagna, la Norvegia, il Canada, il Messico, il Brasile e la Nigeria - che si sono apertamente schierati contro le sanzioni stabilite pochi giorni fa dal presidente degli Stati Uniti nei confronti della stessa Cpi, rea di aver emesso un ordine di cattura nei confronti di Netanyahu, Gallant e di diversi esponenti di Hamas per crimini di guerra e contro l’umanità. Ad avviso della presidente della Corte, Akane, le sanzioni Usa costituiscono “un grave attacco al diritto internazionale” e “mirano a minare la capacità della Corte di amministrare la giustizia in tutte le situazioni”. Secondo il documento firmato dai due terzi degli stati aderenti alla Cpi, la scelta di Trump contribuisce in modo decisivo ad aumentare “il rischio dell’impunità” nel mondo. A fronte dell’importante ondata di supporto internazionale, avvalorata dalla stessa Ue, l’Italia è rimasta - assieme alle sole Ungheria e Repubblica Ceca - l’unico paese europeo aderente alla Corte a non aver sottoscritto il documento, finendo di fatto con il sostenere la linea americana e isolandosi all’interno dell’Unione. Tale scelta si somma al gravissimo comportamento tenuto dal governo italiano nell’ambito del caso di Osama Elmasry Njeem (meglio conosciuto come Almasri) che aveva già contribuito a peggiorare il clima tra l’Italia e la Corte dell’Aia. La premier contro la storia - Il governo Meloni quindi contribuisce a ostacolare l’azione di un’istituzione che non solo costituisce uno dei vertici della fragile civiltà giuridica globale ma che è frutto di un successo italiano. Infatti l’Italia fu, insieme al Canada, il paese che più si impegnò per ottenere la Corte grazie anche alla convergenza tra governi di entrambi gli schieramenti. Il ruolo dell’Italia fu allora riconosciuto da tutta la comunità internazionale, tanto che il trattato istitutivo della Cpi fu firmato proprio a Roma il 17 luglio 1998. Per dare maggiore solennità all’occasione, il governo italiano volle che il trattato fosse firmato in Campidoglio nella stessa sala dove nel 1957 furono firmati i trattati CEE. I paesi occidentali, tra cui l’Italia, fecero di tutto per ottenere l’adesione degli Stati Uniti alla Corte, motivati dall’idea che ci dovesse essere un fronte comune delle democrazie a difendere i diritti umani. Purtroppo gli Usa furono uno dei sette paesi che votarono contro l’approvazione dello Statuto alla Conferenza del 1998. Successivamente l’amministrazione Clinton firmò il trattato che tuttavia non venne poi ratificato. Oggi gli Stati Uniti, da paese un tempo vicino all’adesione, sono passati all’attacco della Corte stessa che andrebbe difesa dai suoi promotori. Che il governo italiano rinneghi la propria storia lo si è visto nel caso Almasri. Una delle ragioni per cui è stata istituita la Cpi è proprio quella di evitare che siano i singoli stati a dover sostenere l’onere politico di processare i criminali di altri stati. Sarebbe stato facilissimo trasferire Almasri presso la Corte dell’Aia e far sì che venisse espletato il processo. È quindi ineccepibile che i membri del governo italiano che si sono resi responsabili della vicenda siano ora indagati per favoreggiamento. La Corte è viva e lotta - Al contrario di quanto dicono nomi noti, la Cpi ha dato in tempi recenti importanti segni di vita. Con l’incriminazione di Putin nel marzo 2023 e di Netanyahu nel maggio 2024, la Corte ha colpito capi di governo in carica di due stati potenti. Dopo questi casi, non si può più dire che la Cpi sia uno strumento occidentale volto a penalizzare il resto del mondo a fini imperialistici. Darla per morta contribuisce quindi a distruggere la legalità e a sostituire il diritto internazionale con la legge della giungla. Oggi l’Italia si schiera dalla parte sbagliata, isolandosi politicamente all’interno dell’Ue e appoggiando una scelta volta ad affossare il funzionamento della giustizia internazionale. Essa inoltre finisce per andare contro se stessa, ripudiando quanto di buono fatto a suo tempo in quest’ambito nel nome di un interesse nazionale che oggi sembra essere completamente evaporato. Osservando la sudditanza pelosa al nuovo corso distruttivo statunitense e il sostegno a paesi e attori che violano apertamente i diritti umani e il diritto internazionale, torna tristemente alla mente una celebre invettiva dantesca: “Ahi serva Italia!”. Stati Uniti. Migranti deportati, il Papa contro la Casa bianca di Luca Kocci Il Manifesto, 12 febbraio 2025 “Le deportazioni di massa” dei migranti avviate da Donald Trump “ledono la dignità di molti uomini e donne”, i cattolici - ma anche “tutti gli uomini e le donne di buona volontà” - devono opporsi e “non cedere a narrazioni che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati”. È durissimo l’attacco sferrato da papa Francesco alle politiche contro i migranti della nuova amministrazione Usa. Che infatti, tramite Tom Homan, consigliere del presidente per la politica migratoria, reagisce in maniera scomposta: il pontefice deve “pensare alla Chiesa cattolica e lasciare che noi ci occupiamo delle frontiere. Vuole attaccarci perché garantiamo la sicurezza delle nostre frontiere? Ha un muro interno al Vaticano, no? Noi non possiamo avere un muro intorno agli Stati Uniti?”. La “scomunica” di Bergoglio alle “deportazioni” dei migranti - viene utilizzato il termine esatto: “program of mass deportations” - è contenuta in una lettera del papa ai vescovi degli Usa diffusa ieri dalla sala stampa vaticana. Francesco, dopo aver ricordato che anche Gesù ha vissuto “il dramma dell’immigrazione” e la “difficile esperienza di essere espulso dalla propria terra”, spiega che “la legittimità delle norme e delle politiche” va giudicata “alla luce della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, e non viceversa”. Pertanto va espresso “il proprio disaccordo nei confronti di qualsiasi misura che identifichi tacitamente o esplicitamente lo status di clandestinità di alcuni migranti con la criminalità”, come appunto si configura il progetto di Trump. “L’atto di deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità”, scrive il papa. Non vuol dire che non si possano attuare politiche per regolare le migrazioni, ma questo “non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri”: i sommersi e i salvati. Bergoglio non è da solo. Sempre ieri, infatti, il pontefice ha nominato vescovo di Detroit monsignor Weisenburger, che poche settimane fa aveva protestato contro la minaccia di Trump di andare a scovare i migranti anche in chiese e ospedali. A marzo poi assumerà la guida della diocesi di Washington il cardinale McElroy, che pochi giorni fa ha bollato le misure contro i migranti della nuova amministrazione Usa come una “guerra di paura e terrore”. I vescovi Usa non sono tutti antitrumpiani, anzi il consenso verso l’amministrazione è alto (è utile leggere il volume appena uscito dello storico Massimo Faggioli, Da Dio e Trump. Crisi cattolica e politica americana, Morcelliana). Ma la lettera di Francesco sembra un invito a serrare le fila dell’episcopato contro le politiche antisociali e antiumane di Trump. Si vedrà se il livello di tensione con il neo presidente si alzerà ancora. Russia. “Massacrateli pure, nessuno vi punirà”: ecco il piano per torturare i prigionieri ucraini di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 febbraio 2025 Il Wsj: “Alle guardie russe è arrivato il comando di essere crudeli, con la promessa di piena impunità”. Spente le telecamere, nessuna punizione in caso di violenza eccessiva. Tra le torture più frequenti, oltre ai pestaggi, ci sarebbero privazione di sonno e cibo; concessa la sperimentazione di tecniche nuove, mentre le ferite potevano essere lasciate andare in cancrena. Le torture più frequenti sono contro i militari trovati con i tatuaggi della destra nazionalista ucraina sul corpo e specialmente i volontari reclutati nelle unità della milizia Azov. Pestaggi continui, specie durante i trasferimenti e appena arrivati nei nuovi centri di detenzione; ma anche scariche elettriche ai genitali (dicono i testimoni); sistematica privazione del cibo e del sonno; celle gelate d’inverno dove si dorme sul nudo pavimento, o soffocanti nella calura dell’estate, quando l’acqua viene data col contagocce; ambienti sovrappopolati, oppure lunghi periodi d’isolamento in cubicoli che paiono tombe che provocano la sensazione claustrofobica di essere “sepolti vivi”. E ancora, pressioni psicologiche e indottrinamento in condizioni di privazione grave per convincerli ad arruolarsi nell’esercito russo; condizioni igieniche e sanitarie da lager: i racconti degli ucraini liberati negli scambi di prigionieri sono ripetuti e coerenti. Le autorità ucraine denunciano sin dall’inizio della guerra. Le condanne dell’Onu e delle organizzazioni umanitarie internazionali sono state ribadite negli ultimi quasi tre anni. Ma a Kiev sono spesso gli stessi ambienti di governo e i soldati liberati a cercare di tenere i toni moderati. “Non ne parliamo troppo e non nel dettaglio per non incitare i russi ad essere ancora più crudeli con i nostri compagni rimasti in carcere. Non vorremmo che gli aguzzini si sentissero liberi di infierire”, ci dicono durante le conferenze stampa, che negli ultimi tempi sono state diverse, anche da parte di donne ex prigioniere che hanno raccontato e scritto le loro testimonianze. L’essenza della questione comunque non cambia: sin dall’inizio dell’invasione voluta da Vladimir Putin, il regime russo applica sistematicamente torture e condizioni di detenzione particolarmente dure contro i prigionieri di guerra ucraini. Il Wall Street Journal ha raccolto le testimonianze di tre ufficiali carcerari russi che confermano ciò che gli investigatori Onu hanno già descritto nei loro rapporti come “forme diffuse e sistematiche di tortura”. Già durante le settimane inziali dell’invasione il capo delle prigioni di San Pietroburgo, generale-maggiore Igor Potapenko, impartì un ordine molto esplicito alle unità d’elite operanti nelle carceri regionali: “Siate crudeli, non abbiate pietà di loro”. I prigionieri ucraini non avrebbero dovuto essere trattati secondo le normali procedure: non vi sarebbero stati limiti o punizioni nel caso di violenze eccessive, le telecamere obbligatorie ovunque, non sarebbero state accese nelle celle e nei luoghi degli ucraini; le guardie avrebbero avuto mano libera e sarebbero state avvicendate mensilmente. Si potevano battere i prigionieri coi metodi più dolorosi e sperimentando tecniche e materiali particolarmente “efficienti”. Le cure delle ferite sarebbero state proibite, per fare in modo che le cancrene si infettassero e degenerassero, sino a costringere i medici ad amputare. I tre ufficiali russi, due delle forze speciali e un medico, che hanno accettato di parlare sono oggi nascosti da un programma di protezione che aiuta il lavoro dei commissari della Corte Criminale Internazionale. Alla richiesta di chiarimenti, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha replicato che le generalizzazioni contro il sistema carcerario nazionale sono infondate e invece si deve “guardare ai singoli casi particolari”. Ancora, la Corte Internazionale ha accusato il regime di Putin della deportazione di bambini ucraini in Russia e di violenze sistematiche contro i civili residenti nei territori occupati, specie dopo il febbraio 2022. “Le guardie erano sempre a viso coperto. I prigionieri potevano essere picchiati anche solo se cercavano di guardarle negli occhi. Il sistema era congegnato per mantenere l’anonimato dei carcerieri”, scrive il quotidiano americano. Mosca aveva dato ordine di preparare intere ali delle carceri già nel marzo 2022, in attesa dell’ondata di prigionieri ucraini. Non ci si attendeva però un numero tanto alto di detenuti e soprattutto che la guerra durasse così a lungo. La violenza divenne più brutale col passare del tempo. Le tecniche per umiliare i nemici si sono affinate con gli anni. Dalle lunghe attese nudi, all’obbligo di cantare inni russi e costringerli a rilasciare false confessioni di colpa purchè la sofferenza terminasse il prima possibile. Lo shock elettrico avveniva anche durante le docce. Le guardie manganellavano giorno dopo giorno le stesse parti del corpo, impedendo la cicatrizzazione delle ferite e allargando ematomi e traumi interni. Oggi parecchi medici ucraini stanno specializzandosi negli shock post traumatici e nella cura delle conseguenze psicologiche di lungo periodo. Iran. Graziate le due giornaliste che rivelarono il caso di Mahsa Amini Il Dubbio, 12 febbraio 2025 Hamedi e Mohamadi tornano in libertà: nel 2022 fecero luce sulla morte della giovane curda arrestata per aver indossato male il velo. La magistratura iraniana ha annullato le condanne a Nilufar Hamedi ed Elahe Mohamadi, le due giornaliste iraniane condannate dopo aver rivelato il caso di Mahsa Amini, la giovane curda arrestata nel 2022 a Teheran per aver indossato “male” il velo e morta mentre era sotto la custodia della polizia morale. Una vicenda che scatenò le proteste esplose in tutto il Paese con il movimento “Donna, vita, libertà”. Le due giornaliste sono state liberate nell’ambito del provvedimento della Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, che lo scorso 5 febbraio - a pochi giorni dal 46mo anniversario della rivoluzione islamica del 1979 - ha concesso la grazia o commutato la pena ad oltre 3.100 detenuti. Gli avvocati delle giornaliste - riferisce Etemad Online - hanno confermato che le loro assistite sono tra le persone che hanno beneficiato del provvedimento di Khamenei, aggiungendo che il loro caso è stato chiuso. Nell’ottobre 2023, un tribunale aveva condannato Hamedi e Mohamadi rispettivamente a sette e sei anni di prigione per “aver collaborato” con gli Stati Uniti e “aver cospirato per commettere crimini contro la sicurezza dello Stato”. Le due giornaliste, oltre ad aver denunciato la morte di Amini, avevano seguito anche il suo funerale. Hamedi era stata la prima a raccontare il caso di Amini dall’ospedale dove era in coma, diffondendo immagini della famiglia della giovane attorno al suo letto, mentre Mohamadi scrisse un articolo sulle esequie. Le due giornaliste, contro le quali le autorità avevano mosso anche l’accusa - poi ritirata - di aver agito come agenti degli Stati Uniti durante le proteste antigovernative, avevano ricevuto il premio internazionale sulla libertà di stampa dell’Unesco, mentre si trovavano in custodia cautelare. Secondo Al Jazeera, le due giornaliste erano state rilasciate temporaneamente su cauzione a metà gennaio dopo 17 mesi di carcere, salvo finire immediatamente sotto un nuovo procedimento per le immagini che le ritraevano senza velo all’uscita dal carcere di Evin a Teheran. Nessuna notizia invece su Pakhshan Azizi, l’attivista curda condannata a morte con l’accusa di ribellione armata contro lo Stato. Arrestata per la prima volta nel 2009, quindi rilasciata e imprigionata di nuovo nell’agosto 2023 insieme al padre e alla sorella, Azizi ha trascorso quattro mesi in isolamento nella sezione 209 del carcere di Evin, dove si trovano i dissidenti politici, per poi essere trasferita nel reparto femminile insieme alle altre attiviste finite nel mirino del regime, come il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi. Nel luglio 2024 è stata condanna all’impiccagione per la sua attività come operatrice umanitaria nei campi profughi nel Nord della Siria a supporto delle vittime dell’Isis. Un’attività del tutto pacifica, ha spiegato il suo legale Amir Raeisiian, per il quale il processo si è svolto in spregio ad ogni regola del diritto, in mancanza di indagini e prove. Lo scorso 8 gennaio la Corte Suprema ha comunque confermato il verdetto, mentre la Ong Iran Human Rights condannava il boom di esecuzioni messe in atto dalla Repubblica islamica per soffocare il movimento “Donna, vita, libertà”. Solo nel 2024, secondo i dati riportati dall’Ong, sono state giustiziate almeno 31 donne, il numero più alto degli ultimi 15 anni. Nel corso dei quali sono state consegnate nelle mani del boia almeno 241 donne.